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Alice Rinaudo 1 Tesi di laurea


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Ai miei genitori, che mi hanno sempre sostenuta in questo percorso, a mia sorella, che nonostante le frequenti discussioni riesce sempre a mettermi il sorriso e alla mia dolce metĂ che ha saputo farmi sentire bene e darmi la serenitĂ necessaria a superare ogni ostacolo.

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Ringraziamenti Non mi sembra vero che questo momento sia arrivato. Tre anni fa avevo l’impressione che dovesse passare un’eternità prima di prendere in mano quel prezioso e tanto agognato certificato di laurea; e invece eccomi qui, pronta a diventare “dottoressa”. Tutto ciò non sarebbe stato senza dubbio possibile senza l’aiuto ed il sostegno di un certo numero di persone che in questa occasione vorrei ringraziare. Prima di tutto un sentito “grazie” al mio relatore, il professor Piergiuseppe Molinar, che nonostante i numerosi impegni è sempre riuscito a seguirmi e a darmi i giusti consigli per andare avanti. Un grazie al mio corelatore Pierpaolo Peruccio, per aver contribuito a farmi seguire questo cammino. Un ringraziamento alla redazione della testata “Grazia”, per avermi fornito preziose informazioni riguardanti il tema affrontato. Desidero infine ringraziare tutte le persone che mi sono sempre state vicine, sia nel percorso universitario che nella vita privata. I miei genitori, mia sorella Giulia ed il mio fidanzato Paolo; le mie compagne di università Federica, Chiara e Irene con le quali ho sempre collaborato con allegria, ottenendo preziosi consigli che mi verranno a mancare.

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Indice 13

Introduzione

CAPITOLO I LA STAMPA DI MODA, 1950-1970 17 La stampa femminile come obbiettivo di ricerca 20 Breve excursus storico dei rotocalchi femminili dal dopoguerra ad oggi 24 La diffusione dei rotocalchi femminili: il loro pubblico 31 I luoghi comuni dei rotocalchi femminili dal dopoguerra ad oggi 33 La Francia, centro della moda e della rivista di moda: confronto con l’Italia CAPITOLO II ANALISI DELLE RIVISTE GRAZIA, MARIE CLAIRE E AMICA 45 Il metodo di lavoro 47 La moda e la sua comunicazione attraverso le riviste di settore Anni Cinquanta Anni Sessanta 69 I contenuti delle riviste Le rubriche L’oroscopo Narrativa e romanticismo Il divismo Economia e politica Il grafologo Architettura e arredamento La cucina 91 La donna e la società: la sua figura e la sua rappresentazione attraverso le riviste di settore. 107 La comuicazione pubblicitaria: la donna come bersaglio della persuasione di acquisto.

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Ciò che precede la stampa: la produzione I rotocalchi femminili e la tecnica di stampa da cui il nome

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La stampa delle immagini

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CAPITOLO III LA PRODUZIONE DELLE RIVISTE Dalle tecniche di produzione alla veste grafica La stampa delle riviste nel secondo dopoguerra

CAPITOLO IV LA VESTE GRAFICA La struttura dei rotocalchi femminili La copertina: il primo elemento di contatto Il formato delle riviste Il lettering: le caratteristiche tipografiche delle riviste in esame CAPITOLO V IL RUOLO DELLA FOTOGRAFIA E DELL’ILLUSTRAZIONE DI MODA Una riflessione sull’identità e sulle funzioni della fotografia di moda La fotografia negli anni Cinquanta e Sessanta

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Le origini delle illustrazioni e delle fotografie di moda

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Il corpo parlante della donna nelle fotografie di moda

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Le scritture di moda

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I più grandi fotografi degli anni Cinquanta e Sessante

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La postproduzione analogica delle immagini fotografiche


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CAPITOLO VI LE RIVISTE FEMMINILI AI GIORNI NOSTRI Le riviste femminili oggi: analisi e confronto I contenuti: sempre più spazio alla pubblicità

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Anni Novanta Il XXI secolo L’uomo entra a far parte delle pubblicazioni femminili Caratteri generali Il formato Il prezzo Il volume ed i gadget Le riviste ed i nomi illustri Lo sport Cucina e cibo Architettura e arredamento Le riviste ed il loro ruolo di guide globali: le rubriche La narrazione La fotografia di moda La moda del XXI secolo La cosmetica La società Il nucleo familiare Le campagne pubblicitarie dominano le riviste La veste grafica delle riviste moderne

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Conclusione

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Introduzione Qualche anno fa, sono entrata casualmente in contatto con un rotocalco di moda risalente agli anni Cinquanta: il mio stupore derivò da diversi aspetti della rivista stessa: dalla qualità grafica e fotografica, dal grande formato, dalla carta patinata, dai stravaganti contenuti interni. Da quel momento ha avuto inizio la mia piccola collezione di riviste di moda d’epoca, risalenti agli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo. Come momento di analisi ho prediletto il ventennio successivo alla seconda guerra mondiale, quando le principali testate aumentarono la loro tiratura per raggiungere un maggior numero di persone appartenenti anche agli strati inferiori. La mia analisi ha come base di partenza alcune riviste femminili nate in Italia, come Grazia e Amica; farò tuttavia riferimento anche a testate fondate in paesi esteri, e successivamente diffuse in Italia, come Vogue, Harpeer’s Bazar e Marie Claire, data la loro importanza sia dal punto di vista grafico e fotografico che dal punto di vista contenutistico. Essa si basa su diversi livelli di esplorazione e di ricerca, sempre condotta analizzando le riviste femminili d’epoca che colleziono ormai da qualche anno. Come metodo di lavoro ho scelto l’analisi strutturale di una serie di periodici femminili pubblicati tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta dello scorso secolo: Amica e Grazia La scelta è stata fatta con l’intento di coprire un arco di pubblico ampio, ma soprattutto un periodo significativo per la storia della stampa femminile. Ho poi preso in considerazione in maniera approfondita anche una testata nata in Francia, successivamente diffusa in Italia, per piacere personale, essendo secondo il mio parere un tipo di rivista che si differenzia dalle altre, sia dal punto dei vista dell’ideologia e dei contenuti che del metodo di rappresentazione: Marie Claire. Farò poi espliciti richiami alla rivista di moda per eccellenza, ossia Vogue, sempre attentissima a tutti gli aspetti della graficae della fotografia, che pur essendo nata a New York, avrà una forte influenza e una grande diffusione in molte altre parti del mondo.

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1 La stampa di moda: 1950-1970 L’obiettivo che mi sono posta in questa prima fase della ricerca è fornire un quadro complessivo di ciò rappresentavano per le donne le riviste femminili di moda nel ventennio oggetto della mia attenzione.e

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“Se mi fosse permesso di scegliere uno dei libri che vengono pubblicati cento anni dopo la mia morte, sapete quale sceglierei? Una rivista di moda per sapere come si vestiranno le donne un secolo dopo la mia dipartita. Questi stracci in fondo mi diranno sull'umantà futura più di tutti i filosofi, romanzieri, poeti e studiosi.” A. France

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LA STAMPA FEMMINILE

L’oggetto della mia analisi è un singolo aspetto del complesso sistema della moda: la sua rappresentazione attraverso le riviste di settore: farò riferimento agli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo. Il mio obiettivo è evidenziare la risonanza che la moda acquista attraverso la carta stampata, analizzare l’impostazione grafica e contenutistica delle riviste di settore, il luogo della messa in discorso della moda, in cui si costruiscono sia l’oggetto-moda sia la sua destinataria, ossia la lettrice. Studiare il ruolo svolto dalla stampa femminile nel processo di emancipazione delle donne e come questo è comunicato attraverso i contenuti, la fotografia, le illustrazioni. E ancora indagare il rapporto tra immagine e testo, tra quadricromia e monocromia. Confrontare testate diverse e analizzarne le differenze e le consonanze ed infine fare un confronto con le riviste odierne. Come momento di analisi ho prediletto il trentennio successivo alla seconda guerra mondiale. La mia scelta è dovuta al fatto che, se i primi giornali dell’Ottocento erano rivolti ad un pubblico ristretto e selezionato, bisogna arrivare agli anni Trenta per trovare riviste con le caratteristiche del moderno rotocalco e agli anni Cinquanta per averne una diffusione anche tra gli strati inferiori della popolazione. Il primo ventennio del secolo vide sorgere molte pubblicazioni rivolte al pubblico femminile, ma in realtà sarà il fascismo a condurre ad una loro più rapida diffusione. In questo periodo iniziano la loro avventura molti periodici esistenti

ancora oggi, ma si pongono anche le radici di un impianto che largamente anticipa la forma dei moderni settimanali femminili.1 La pubblicazione di molte delle testate introdotte negli anni del fascismo sarà poi interrotta dalla guerra. E’ dagli anni Cinquanta del Novecento, primo periodo sul quale si concentra la mia ricerca, che si assisterà a un vero e proprio boom delle vendite. La stampa femminile, che si afferma come uno dei settori trainanti della pubblicistica italiana, diventa al contempo specchio e veicolo di diffusione di numerosi cambiamenti assai remunerativi nell’industria editoriale del nostro paese. La crisi che, a metà degli anni Sessanta colpisce i settimanali di attualità, sottoposti alla concorrenza della televisione, non influenzerà indistintamente tutti i generi: non solo si salveranno i rotocalchi femminili, ma essi aumenteranno ulteriormente la diffusione e le vendite.2 La mia analisi ha come base di partenza alcune riviste femminili nate in Italia, come Grazia e Amica; farò tuttavia riferimento anche a testate fondate in paesi esteri, e successivamente diffuse in Italia, come Vogue, Harpeer’s Bazar e Marie Claire, data la loro importanza sia dal punto di vista grafico e fotografico che dal punto di vista contenutistico. Essa si basa su diversi livelli di esplorazione e di ricerca, sempre condotta analizzando le riviste femminili d’epoca che colleziono ormai da qualche anno.

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Dodici meraviglie: fotografia scattata nel 1947 da Irwing Penn per Vogue America.

Le argomentazioni che ho dunque deciso di affrontare nel mio lavoro sono le seguenti:

Il noto stilita Christian Dior nel 1955: è immortalato mentre prepara una modella ad essere fotografata con un suo abito.

1- Breve excursus storico sulla stampa femminile, sul target a cui essa era rivolta e sui suoi “topos”.

8- Confronto con le riviste odierne.

2- Analisi della moda, così come essa era illustrata nei periodici anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. 3- Analisi dei contenuti: i persuasori rosa, le rubriche, le novelle, l’attualità, l’oroscopo, economia e politica, cucina. 4- Il ruolo della donna nella società e l’importanza dei periodici femminili nel processo di emancipazione della stessa. 5- Approfondito studio della veste grafica delle riviste di settore: il layout, il lettering, le titolazioni, le illustrazioni, i colori. 6- La semiotica del testo ed il rapporto fra illustrazione e testo, fotografia e testo.

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7- Analisi della fotografia di moda e delle sue caratteristiche salienti.


Copertina di Vogue, Gennaio 1950. Una delle più note copertine realizzate da Erwin Blumenfeld per Vogue America, che restò per molti anni il simbolo della rivista; egli raffigura l’occhio semichiuso e la bocca della nota modella Jean Patchett’s.

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IL GIORNALE DI MODA: LO SPECCHIO DEGLI USI E DEI COSTUMI FEMMINILI

La fotografia sottostante ritrae una modella che indossa un abito di Balenciaga, disegnato per la collezione invernale del 1950, pubblicato anche su “Grazia” dello stesso anno.

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La storia della stampa femminile, e prevalentemente del giornale di moda, può essere utile per illuminare settori ancora poco conosciuti. Questo campo di ricerca è stato finora ritenuto poco meritevole dell’attenzione della maggioranza degli storici, che l’hanno sottovalutato, lasciandolo ai margini dei loro interessi. Vi sono considerazioni precise a favore di un tal genere di indagine, a partire dal fatto che i giornali di moda offrono uno

specchio privilegiato attraverso cui leggere sia l’evoluzione sociale di gusti e consumi, sia le diverse modalità di interazione tra il pubblico ed il sistema moda. Ormai sono più di duecento anni che hanno fatto la loro comparsa ed il loro pubblico è diventato sempre più numeroso nel corso dei decenni. Proprio questa sua posizione mediana, di tramite tra soggetti che occupano posizioni diverse nella scala sociale e culturale, ovvero il pubblico, le case produttrici e le aziende produttrici, lo rende un campo di ricerca estremamente affascinante3. Anatole France (scrittore francese, premio Nobel per la letteratura nell’anno 1921) aveva ragione quando scriveva: «Se nel guazzabuglio di opere che verranno pubblicate cent’anni dopo la mia morte, io avessi la facoltà di scegliere un libro, sapete quale prenderei? […] In questa biblioteca del futuro io non prenderei né un romanzo né un libro di storia. […]. Semplicemente, amico mio, prenderei un giornale di moda, per sapere come si vestiranno le donne un anno dopo il mio trapasso. E tali vestiti mi darebbero sull’umanità futura più informazioni che tutti i filosofi, i romanzieri e predicatori e gli scienziati messi insieme»4. L’esistenza di una stampa femminile specializzata “per le donne” rivela il chiaro intento di ancorare la donna ad un’immagine istituzionalizzata della femminilità, proponendole prodotti culturali “adatti”, e relegandola in un universo particolare, i cui confini vengono “dettati”.


La fotografia soprastante, scattata da Harry Hammond, ritrae l’attrice americana Jane Russel in posa davanti ad uno specchio.

In un mondo in cui la “dialettica dei sessi” è ancora paralizzata, e la donna vive quotidianamente la sua emarginazione, una stampa che si proponesse di contattare un pubblico esclusivamente femminile avrebbe potuto avere una funzione positiva solo se si fosse qualificata come giornale “delle donne”, ossia portavoce di esigenze, proposte e valori costantemente mistificati e subordinati nella nostra società maschile, portando un preciso contributo alla lotta per la liberazione della donna. Ponendosi invece all’interno del sistema e delle sue richieste, e motivando la sua scelta secondo la logica del profitto,

ossia essere di gradimento a quante più lettrici-tipo possibili, la stampa femminile contribuì a mantenere le donne nella loro attuale posizione, perfettamente funzionale alla conservazione degli stessi rapporti di produzione capitalistici. Dalla stampa femminile, soprattutto in questo ventennio che ho deciso di analizzare, emerge la precisa volontà di cullare le proprie vittime nella tradizionale inferiorità culturale e psicologica; ma questo significa anche conformare le donne nel loro ruolo subordinato all’interno della famiglia, e nella loro condizione di dipendenza

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economica. L’intento conservatore della stampa femminile è anche confermato dal suo stesso modo di porsi: stampa non informativa, ma formativa della donna. Essa si presenta come totalità esaustiva di tutte le richieste e le esigenze della donna, fornendole tutti i consigli necessari all’adempimento del suo ruolo, che rimane essenzialmente “affettivo-espressivo”, nonostante tutte le eventuali, impercettibili correzioni effettuate per adattarsi ai tempi che corrono: i costumi si evolvono e la stampa femminile si adegua, sempre con estrema lentezza e cautela. Le correzioni sono dosate così abilmente da apparire irrilevanti e da poter essere assimilate con tutta tranquillità dalle fruitrici di questi giornali. Non devono mai esserci momenti di crisi o rottura: tutto confluisce in un messaggio che acquista forza e rigore proprio in virtù della sua non-contraddittorietà. Le riviste femminili, oltre a configurarsi come un’inesauribile fonte di informazioni di tutto ciò che può interessare la donna, e soprattutto della moda, assumono la particolare caratteristica di una “guida globale”. Lo stereotipo femminile, denotato dalla rivista, si offre come uno specchio, un modello a cui ci se deve adeguare se si vogliono sconfiggere le paure e le angosce, e per raggiungere la perfetta felicità- volontà e felicità-accettazione. L’intera rivista, sia a livello iconico che a livello linguistico, è per la lettrice un continuo stimolo all’identificazione totale con l’immagine proposta: le promesse sono seducenti (sarai bella, amata, felice), rese ancora più allettanti dal tono di complice connivenza che dà alla lettrice l’impressione si essere la sola destinataria del servizio. La donna da guidare è sottoposta ad un processo di reificazione che la suddivide in singole parti del corpo e qualità: capelli,

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carnagione, unghie, figura, capacità di cucinare, charme, sessualità, savoirfaire, moralità e saggezza. Tutte queste “essenze femminili separate” trovano nel tecnicismo specialistico della rivista un momento di essenziale dignificazione e, come tanti pezzi di un armonico mosaico, concorrono a formare un universo dove la femminilità vive l’apogeo della sua libera potenza, pur essendo circondata da ogni parte dall’uomo, come dall’autorità che fa esistere, al tempo stesso determinando e chiudendo una situazione5. La rivista femminile sfrutta la condizione storica della donna, la sua necessità di essere indirizzata e di trovare certezze e felicità. Questo aspetto “paralizzante” è di certo il più macroscopico della rivista femminile, che appare come un guardiano in grado di controllare la merce, valutarla ed epurarla da tutti i suoi elementi pericolosi6. Soltanto nelle riviste che si rivolgono ad un pubblico medio viene attuata, peraltro con moderazione, una “piccola rivoluzione”, che permette alla donna di superare le barriere che la dividono dal mondo esterno.

L’illustrazione della pagina accanto, rappresentante le gambe di una modella che, con un movimento sensuale si alza la gonna sfiorandosi la coscia, è state realizzata da Renè Gruau per Dior, nel 1949.


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BREVE EXCURSUS STORICO DEI ROTOCALCHI FEMMINILI DAL DOPOGUERRA AD OGGI I giornali e le raccolte di moda Il giornalismo di moda si sviluppa in Francia a partire dalla seconda metà del XVII secolo, inizialmente tra le élite europee nobili e borghesi, in seguito anche tra i ceti medi; essa percorrerà con alterna fortuna i secoli fino ai giorni nostri, riportando fedelmente alle sue lettrici le novità della moda ed aggiungendo di volta in volta rubriche di vario interesse: dapprima i figurini che permettevano la riproduzione di modelli di alta sartoria, poi le rubriche di galateo e di consigli per la conduzione della casa. Specchio di un’epoca caratterizzata da grandi cambiamenti socio-culturali, questo nuovo genere giornalistico è veicolato alle persone anche grazie allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, capaci di raggiungere una vastità di pubblico impensabile nei decenni precedenti. Si tratta di un nuovo modello comunicativo, nel quale informazione e cronaca si accompagnano a testi più leggeri, di argomento artistico e culturale. Ma soprattutto di moda. Il contesto intellettuale, editoriale, logico e morale in cui ha potuto verificarsi l’irruzione di un’altra cultura, ossia quella femminile legata alla moda, ha segnato per la nostra civiltà, non senza controversie, l’inizio di una nuova era caratterizzata dalla preponderanza dei fattori legati alla diversità e al cambiamento. Ciò non sarebbe stato senza dubbio

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Nella pagina accanto: entrambe le illustrazioni rappresentano due figurini, tratti da “Il corriere delle dame” del 1831. In questa pagina: Blossom Umbrella, Ertè. L’illustrazione raffigura una donna che indossa un elegante abito. Fu pubblicata su alcune delle più importanti riviste dell’epoca, per le quali l’artista lavorava periodicamente.

possibile se i mezzi di comunicazione non avessero propagato una nuova ideologia ed un nuovo universo di simboli, proiettati sulla materialità delle cose. Questi mezzi di comunicazione furono i giornali e le raccolte di moda, cioè i periodici il cui obbiettivo era la presentazione regolare delle collezioni di moda attraverso testi corredati di immagini7. Apparati testuali affiancati da immagini indispensabili per raccontare evoluzioni del gusto e del costume, aggiornavano i lettori sui repentini cambiamenti delle mode cittadine. All’aspetto divertente, quasi ludico caratteristico degli articoli di costume e inserzioni di moda, questo giornalismo accosta una componente istruttiva e razionale, inevitabile influenza dell’illuminismo. In essi si è concretizzata la necessaria evoluzione verso mezzi di comunicazione che fossero in grado di associare la funzione dell’informazione, veicolata tramite il testo, a quella della visualizzazione, realizzata attraverso le immagini. Abbinando la forza della rappresentazione iconografica alla retorica del testo scritto, si stringe il legame tra le idee altrimenti astratte, in ordine alle tradizioni corporali ed ai ruoli maschili e femminili. Questo movimento segna una vera e propria svolta nella storia della cultura: larghi settori dell’opinione pubblica furono investiti dal dinamismo del nuovo settore, in altri invece si diffuse un sentimento di disprezzo e distanza rispetto ad un mezzo di espressione riservato ad oggetti futili e ad un’attualità ingannatrice. Gli storici del periodo riconoscono invece a questi giornali una duplice funzione: quella di specchio, in cui la società si svela, e quella di moltiplicatore di un’evoluzione già in corso.

Secondo questa prospettiva l’apparizione della moda nei periodici e l’immediata centralità che essa acquista nel XVII secolo, è la testimonianza del nuovo ruolo interpretato dalle donne nella società e della determinazione a modificare il rapporto tra i sessi. La moda assume un tono celebrativo Il primo dei passaggi fondamentali in cui si è articolata l’evoluzione del giornalismo di moda, può essere individuato a partire dalla seconda metà del XVII secolo, quando la trattazione della moda assume un tono celebrativo, dopo che per secoli l’argomento era stato oggetto dei pregiudizi della morale pubblica e religiosa8. Avvicinandosi alle riviste moderne Molti dei periodici esistenti ancora oggi, hanno iniziato la loro avventura negli anni della seconda guerra mondiale: essi

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Reneè Gruau Pagine interne de “Il giornale delle donne, 1947.

pongono le radici di un impianto che anticipa la formula dei moderni settimanali femminili. Il giornale di moda moderno ubbidisce ad una concezione prevalentemente commerciale; il rotocalco diventa l’esponente di un’industria culturale volta alla logica ferrea del mercato, tanto da essere considerato come il ramo più solido e fiorente dell’industria culturale di massa del nostro paese. Già a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, i più intraprendenti editori italiani specializzati nella produzione di riviste di moda (Sonzogno e Treves prima, Rizzoli e Mondadori poi) si erano cimentati nel campo dei periodici destinati alle donne, ancora semplici fogli patinati dalla modesta tiratura, intuendo quanto redditizio potesse divenire l’ancora inesplorato mercato dei giornali illustrati. Dalla piccola e media borghesia urbana

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giungevano timidamente le prime richieste di consigli e suggerimenti sulle ultime novità in fatto di moda, di cosmesi e di costume, nati dal desiderio di affermare un nuovo essere della moda. Per la figura femminile emergente e per la faticosa ricerca di una propria identità, in sintonia con i più recenti modelli incarnati dalle dive del cinema e divulgati dai mezzi di comunicazione, venivano confezionate apposite riviste e nuove formule editoriali destinate ad arredare il corpo e l’anima delle donne. Milano, la capitale della moda ed i primi rotocalchi italiani Milano si conferma la capitale della moda e della pubblicistica femminile. La prima rivista di moda che si può definire “moderna”, poiché conteneva tutti i temi che dominano la stampa odierna, fu la raffinatissima Lidel del 1919, diretta da Lydia Dosio De Liguoro,


Le immagini mostrano due copertine illustrate della rivista italiana Lidel, risalenti agli anni Quaranta dello scorso secolo-

il cui titolo era un acrostico che descriveva i vari settori esplorati dalla rivista (Letture, Illustrazioni, Disegni, Eleganza e Valori)9. Sulle sue pagine si svolse il primo dibattito a favore di una moda più marcatamente italiana, chiamando le sue lettrici a non comprare prodotti stranieri. Anche la rivista Vita femminile del 1922 anticiperà nella formula i settimanali più diffusi di oggi, diretti dalla media borghesia con la pretesa di costruire una sorta di manuale di vita per le donne.

La sua destinataria è una donna borghese, interessata agli aspetti frivoli della vita riguardanti la moda e la bellezza, sia altrettanto attenta alla realtà politica, sindacale e culturale. In esso le pagine dedicate alla moda furono in principio 24, ma col passare del tempo divennero 3810. Nel 1933 esce a Milano la rivista Eva, rivista per la donna italiana diretta da Ottavia Vitagliano, e Lei. Rivista di vita femminile, pubblicata da Rizzoli e nel 1938 rinominata Annabella e successivamente, nel 1984, Anna. I nuovi settimanali illustrati di moda e varietà ammiccano dalle edicole italiane con i loro bei figurini e le elaborate immagini pubblicitarie, finendo per diventare un appuntamento fisso per molte giovani dei ceti medio-bassi. Altri nomi noti hanno origine in questi anni: nel 1927 ha inizio l’avventura di Sovrana, che sarebbe poi divenuta nel 1938 la Grazia che ancora oggi conosciamo. Nel 1938 nasce Gioia, nel 1941 Bellezza, che diventerà la voce ufficiale della moda italiana, nel 1956 Arianna, oggi Cosmopolitan11.

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Prosegue in contemporanea la fortuna delle riviste nate nei decenni precedenti, ancora preferite dai pubblicitari e terreno molto fertile per la diffusione di modelli e stili di vita rispondenti alle nuove logiche consumistiche di mercato, assecondando le aspirazioni emergenti e la crescente sensibilizzazione all’esercizio del consumo quale forma immediata di realizzazione dei propri sogni. Molte sono le denunce rivolte ai giornali femminili di questo periodo, soprannominati “i persuasori rosa”, a causa del loro ruolo fondamentale nel divulgare quell’ideologia che, con un’immagine divenuta celebre, Betty Friedan ha definito nel suo libro del 1963 “La mistica della femminilità”12. Nel 1964 nasce Vogue Italia con l’acquisto della rivista italiana Novità dall’americana Condè Nast di Samuel Irving Newhouse. Novità era destinata ad un pubblico d’élite e trattava di stile, arredamento e moda. I primi anni di Vogue Italia furono molto difficili, con perdite che ammontavano a 30 milioni nel 1965 e a 67 milioni nel 1967. Alla fine degli anni Settanta, con il boom del made in Italy, Vogue Italia diventa il primo interlocutore degli stili che in breve si imporranno a livello internazionale. Nel 1968 vengono pubblicate due riviste rivolte agli addetti ai lavori, Top ed Il tessuto Italiano, mentre nel 1969 viene pubblicata in Italia Harper’s Bazaar, patinata, raffinata e lussuosa, in netta rottura con la tradizionale stampa femminile. Con l’ingresso della televisione nel sistema dei media, l’editoria è indotta a specializzarsi su un target, un segmento di pubblico con cui scambiare informazioni in cambio di investimenti pubblicitari. La veste grafica di tutti i giornali femminili si arricchisce, diventa più lussuosa,

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ed il linguaggio sempre più persuasivo, nella consapevolezza che per stimolare i consumi, la moda deve essere narrata. Aumentano di conseguenza le pagine e la pubblicità, si allegano regali, si pubblicano “numeri oro” e le lettrici si organizzano in club. Si colloca in questi anni la nascita di Amica, moderno settimanale di moda e attualità del Corriere della Sera, forse l’avvenimento più importante per la stampa femminile degli anni Sessanta. Nato nel 1962 da un gemellaggio con la rivista francese Elle, Amica si presenterà subito in concorrenza con Grazia. Definirsi un settimanale di attualità era per l’epoca una vera e propria rivoluzione, perché si pensava ancora che i femminili dovessero solo far sognare, e non informare. Circa un terzo del giornale (ossia una cinquantina di pagine) era dedicato ai servizi di moda che in realtà, fornendo gli indirizzi dei produttori, si pubblicavano già tra le moderne forme di pubblicità redazionale. Il linguaggio è più articolato e specifico, la moda è presentata come espressione artistica che documenta il costume nel tempo, le immagini sono molto curate nei dettagli, le fotografie sono a colori. Molto significativa in questi anni è anche l’introduzione della “pagina della donna” nei quotidiani, da sempre appannaggio maschile; il primo ad introdurre questa novità fu La Stampa di Torino nel 1963, nella quale “la pagine della donna” usciva a scadenza mensile con il titolo Cronache per le donne. Fu presto imitata da Il Corriere della Sera, che la dedicò esclusivamente alla moda14. La vera rivoluzione del costume avviene negli anni Settanta, ed influenzerà anche il campo delle pubblicazioni femminili: nascono nel 1973 Cosmopolitan di Mondadori, evoluzione della rivista


Alcune copetine d Harper’s Bazaar, rivista statunitense fondata nel 1867 da Fletcher Harper, che si distinse da subito per la sua grafica, le sue splendide fotografie realizzate dai più noti professionisti del mondo, per il suo grande formato e la sua carta patinata e lussuosa. Divenne, come è naturale, antagonista di Vogue. In alto da sinistra: Fotografia scattata da Avedon, che raffigura una donna che insossa un casco di carta fucsia incollato nell’inquadratura. La seconda copertina è invece opera di Alexey Brodovitch nel 1946.

Arianna nata nel 1959, i cui contenuti e le immagini sono molto trasgressivi, e nel 1974 Brava, mensile del Corriere della Sera, fondato da Andreina Vanni. Quest’ultima rivista ha un occhio particolare per la grafica, che preannuncia la passione estetica del decennio a venire. Sul terreno della specializzazione nascono riviste che puntano a diffondere lo stile italiano nel mercato interazionale, come Confezione Italiana del 1978. Le riviste di moda hanno dato vita ad una vera e propria rivoluzione nel mondo della stampa, e con il trascorrere del tempo e la nascita del prêt-à-porter, divengono sempre più una vetrina, una fabbrica di desideri per quel mondo dorato che è la moda.

In basso invece una copertina di Harper’s Bazaar del 2003, che, dopo anni di scontri e conflitti, richiama di proposito l’illustrazione di Erwin Blumenfeld pubblicata come copetina di Vogue nel 1950 (fotografia a pag. 19).

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In questa pagina: un bellissimo abito di Balenciaga: amava sperimentare diverse lunghezze e l’effetto strascico, come in questa creazione del 1967, una via di mezzo tra un vestito da sera ed un abito da cocktail.

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LA DIFFUSIONE DEI ROTOCALCHI FEMMINILI: IL LORO PUBBLICO

Con l’affermarsi della borghesia come classe protagonista delle dinamiche sociali, la concezione della moda cambia: la nuova classe borghese si oppone alle limitazioni imposte dalle leggi sontuarie, persegue la democratizzazione dell’accesso al lusso attraverso l’offerta dei suoi surrogati, ed esprime un forte interesse per l’aspetto esteriore della vita, come segno invisibile della propria individualità: si riconosce chiaramente il valore dell’apparenza ed il bisogno di informazione sull’argomento15. I giornali femminili si ispirano a giornali di successo, già conosciuti dai lettori e molto diffusi. Il target di riferimento generalmente è la fascia della popolazione cittadina più istruita. Tuttavia il giornale di moda non è solo destinato a fruitori colti; questo particolare tipo di stampa è destinato alle donne, ed in minor parte anche agli uomini che desiderino tenersi aggiornati riguardo ai rapidi cambiamenti che contraddistinguono la società in cui vivono. Se i primi giornali femminili di moda italiani dell’Ottocento erano rivolti ad un pubblico ancora ristretto bisogna arrivare agli anni Trenta del Novecento per trovare riviste con le caratteristiche del moderno rotocalco. Il primo ventennio del secolo vide sorgere molte pubblicazioni rivolte al pubblico femminile, ma sarà con il fascismo che si potrà parlare di un’autentica fioritura di periodici femminili di massa, rivolti cioè anche ad un pubblico appartenente agli strati inferiori della popolazione. Nel corso del regime fascista, si arriva così

alla produzione e distribuzione di due diverse tipologie di riviste di moda: 1- Riviste di lusso: destinate ad un pubblico femminile con un tenore di vita medioalto, che garantisce un grado di libertà culturale rispetto alla propaganda del regime. 2- Riviste popolari: rivolte ad un pubblico medio-basso, disponibile ad accettare un modello di donna il cui orizzonte sia imitato alla casa e alla famiglia. La destinataria è in entrambi i casi la donna: una donna che, pur continuando ad alimentarsi sostanzialmente di amore, moda e cosmesi, può coltivare anche altri interessi, dalla pittura, all’astrologia al femminismo può considerare il lavoro come un importante momento della sua realizzazione16. Queste concessioni non si riscontrano tuttavia nella seconda categoria di riviste, rivolte ad un pubblico di ceto inferiore; in esse, ancora oggi, si tende ad accentrare completamente l’attenzione della donna sulla sua funzione familiare e sull’amore presentato come valore assoluto, che trova la sua piena espressione nel ruolo di moglie e di madre, intesi in senso tradizionale. La lettrice proletaria è quindi doppiamente alienata perché, oltre ad essere al fondo della piramide di sfruttamento, non trova neppure qualche compensazione nell’imitare un modello enfatizzato dall’ideologia dominante. Questa donna si affaticherà costantemente ad assimilare i clichès che le vengono proposti, nel vano

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tentativo di essere simile all’immagine femminile dominante, sopportando tutto il peso della sua condizione di proletaria, oltre che di donna. I valori culturali che conquista sono sempre quelli che la classe dominante ha confezionato per suo uso e consumo17. Nelle riviste più popolari (un esempio può essere rappresentato da Confidenze e Intimità), si presentano abiti a buon mercato, facilmente realizzabili, e addirittura si tende alla descrizione di modelli che la lettrice sappia senza difficoltà eseguire da sola. Questi giornali si rivolgono ad una donna che non può dedicare all’abbigliamento né molto tempo, né molti soldi; così tra una novella e l’altra si limitano a suggerirle poche, semplicissime idee. Paradossalmente i settimanali popolari si avvicinano alle riviste di élite: queste, pur presentando abiti ben diversi, di gran classe e firmati da grandi sartorie, fanno un uguale uso della denotazione, cioè di una descrizione esatta e precisa, priva di retorica. (Grazia ed Amica per alcuni aspetti si staccano dalle riviste medie, per avvicinarsi a questo modello.) Ancora nella seconda metà degli anni Quaranta la continuità nel settore editoria-moda, è rappresentata esclusivamente da riviste popolari. E’ con l’arrivo degli anni Cinquanta che le riviste assumono uno stile sofisticato ed internazionale, rivolgendosi ad un pubblico alto-borghese che segue con attenzione le case di moda milanesi18. La lettrice media dei periodici femminili in questi anni, in base alle numerose ricerche condotte dai mercati su questo argomento, corrisponde ad una donna con un variabile livello di istruzione, ma comunque con un limitato interesse per le questioni sociali e politiche e tendenzialmente tradizionalista. A partire dagli anni Sessanta l’editoria

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di moda avrà la massima espansione: nasce una nuova tipologia di riviste che occupa una posizione intermedia tra stampa a grande diffusione e riviste di alta moda, alzando il livello dei contenuti e delle soluzioni grafiche e che di conseguenza è rivolta a tutti gli strati della popolazione, garantendo il giusto equilibrio.


I LUOGHI COMUNI DEI ROTOCALCHI FEMMINILI ANNI CINQUANTA E SESSANTA

Il pretesto primario di tutte le riviste femminili, è l’aggiornamento sulla moda, che implica la continua riproposizione di un’immagine ideale che viene consumata e costantemente rinnovata con il mutare delle stagioni. In ogni servizio di moda ci sono l’indumento-immagine (fotografia) e l’indumento scritto (o descritto) che hanno una funzione diversa e complementare: mentre l’immagine affascina la lettrice, favorendo l’inebriante identificazione con la cover-girl, la parola

Ilustrazione realizzata da Costance Wibaut a Parigi nel 1966.

libera l’indumento da ogni presenza corporea, lo trasforma in una serie di oggetti impersonali alla moda, invitando all’appropriazione e all’acquisto. In questo modo la lettrice subisce l’imposizione di un dato modello fisico e la pubblicità indiretta di una serie di prodotti di consumo. Indumenti e indossatrici sono spesso collocate in situazioni mondane, che sia a livello iconico che linguistico, tendono sempre più ad una descrizione minuziosa e particolareggiata.

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La donna viene immersa in uno stato di innocenza assoluto, dove “tutto è per il meglio nel migliore dei mondi”. L’impatto visivo più immediato con tutta questa stampa avviene attraverso la copertina, che propone una determinata ideologia di moda. La maggior parte delle copertine presentano infatti fotografie di moda. Il perfetto anonimato di queste immagini rigide e fisse, estremamente semplificate e congelate in una mimica e gestualità assolutamente emblematiche, rivela la loro funzione di “strutture aperte” sulle quali avviene il processo identificativo. Questa immagine stereotipa non necessita di una didascalia che chiarisca il suo significato, come avviene nelle foto di cronaca. Essa si illustra da sola: è l’emblema di tutto l’apparato linguistico ideologico che viene espresso più ampliamente all’interno della rivista. Tutte le immagini emblematiche contenute all’interno della rivista, sono tante maschere offerte alla donna, che si illude di raggiungere quella mitica bellezza, giovinezza, desiderabilità e bellezza che irradiano dai modelli proposti. L’insensata idolatria dell’immagine femminile non comporta certo una posizione privilegiata per le donne, perché questo “fantasma di plastica” non è una donna, ma un “idolo” formato da un insieme di linee e di masse che esprimono una soddisfatta impotenza. Pubblicità, moda, servizi sui divi: tutto contribuisce a questo scopo. Il tema “sesso” non è più sottoposto a rigorosi tabù, ma a volte trattato con una certa spregiudicatezza o esaltato in nome di una pseudo-rivoluzionaria emancipazione sessuale più apparente che reale. Le maschere che definiscono il modo di presentarsi delle donne, sono prodotti del mercato del consumo, e come tali vengono più o meno pubblicizzati in ogni

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rivista femminile. La bellezza è ormai diventata un bene di consumo alla portata di tutto il pubblico femminile. Inoltre i servizi di moda e di arredamento non mancano mai di fornire dettagliate indicazioni dei prodotti di consumo che presentano. Attraverso poi le mitiche immagini pubblicitarie, si creano sogni magici ed evasioni gratificanti. Un altro punto fermo dell’attualità delle riviste di questo trentennio è il divo: mitica figura abbinata di volta in volta a qualsiasi attributo, di fatto corrispondente ad un’immagine di potere: bellezza, ricchezza, capacità di imporsi, abilità. A questo universo appartengono non solo personaggi grandi e piccoli, che si muovono nel mondo dello spettacolo, ma anche qualsiasi personaggio giunto per qualche motivo alla notorietà.


LA FRANCIA, CENTRO DELLA MODA E DELLA RIVISTA: CONFRONTO CON L’ITALIA

Fotografia scattata a Parigi, centro della moda. La modella indossa abiti di Dior, e sullo sfondo è ben visibile il simbolo della capitale francese, la Tour Eiffel.

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La Francia rappresenta il naturale termine di paragone per tutti i settori che ruotano attorno al campo della moda. Fin dalle origini per i giornali, la continuità dell’impero della moda francese rappresentava la norma. Il verbo dell’alta moda veniva solo da Parigi, e negli altri paesi ci si doveva accontentare di imitare o diffondere i gusti francesi, e le imprese giornalistiche che si dedicarono a questi temi non svolsero solo, o perlomeno non tutte, un ruolo di semplici diffusori di stile inventati altrove. Nei casi più significativi è invece possibile rintracciare un un progetto culturale che non sostituisce, ma affianca, quello di riproduttori per un pubblico italiano, dei figurini francesi Durante i decenni preunitari, i giornali di moda italiani instaurarono ordinariamente con il figurino unitario di Parigi un rapporto di tranquilla convivenza e di pacifica sudditanza, in cui la mimesi diventava un contrassegno positivo di fedeltà all’originale e di competenze acquisite nell’interpretare le transitorie leggi dell’eleganza elaborate all’estero. La stessa elevata percentuale di voci francesi non adattate entrate a far parte del vocabolario “modistico” delle riviste italiane sottolineava una situazione di dipendenza scontata e pienamente riconosciuta, che si traduceva nell’ostentazione delle più rinomate fonti estere di informazione. “La moda di Parigi” finì così col facilitare ed incoraggiare operazioni condotte da piccole imprese artigianali, anche con piglio arditamente commerciale, come quella guidata a Milano, col Corriere delle Dame, da Carolina Lattanzi. Comunque in Italia, ma anche in altri paesi europei, per i giornali di moda la necessità di liberarsi da un’annosa dipendenza dalla Francia emerse in piena luce con la guerra del 1870, per l’interruzione dei rapporti commerciali durante l’assedio di Parigi, l’occupazione prussiana e la Comune, e quindi l’impossibilità di ricevere

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i rinomati figurini per quasi un anno, che mise definitivamente a nudo il bisogno di aggirare il monopolio francese. Il tentativo di fare concorrenza ai giornali di Parigi sul loro stesso piano significò per Sonzogno (una delle più antiche case editrici in Italia) soprattutto potenziare le strategie commerciali di quel settore dell’azienda: reclutare un artista come Guido Gonin, a contatto, nella capitale della moda dove visse a lungo, col mondo degli atelier, aprire a Parigi un’agenzia dove garantirsi fonti di informazione dirette e stringere un rapporto con le case parigine produttrici di articoli di moda per fornire per posta alle sue abbonate a prezzi ridotti tessuti e capi di abbigliamento. Sonzogno agganciava così i suoi primi giornali femminili specializzati ad alcuni modelli trainanti della grande catena delle produzioni di moda francese. Lo sviluppo della rete ferroviaria giocava inoltre un ruolo importante, permettendo di raggiungere con le spedizioni le abbonate lontane dai maggiori centri urbani. Fu con la prima guerra mondiale e le sue tragiche conseguenze, che si ridusse drasticamente il commercio e la comunicazione con l’estero; l’Italia in tal modo cominciò ad acquisire una propria autonomia, a sentirsi sempre meno dipendente dalla moda francese, comunicata attraverso le riviste periodiche di settore. Parlando di periodi più vicini al nostro, in un confronto con la realtà italiana, la stampa di moda francese appare lo strumento di comunicazione con caratteristiche maggiormente differenti rispetto all’Italia e agli altri paesi europei. Essa si presenta come particolarmente ricca sia nel numero delle testate che nella funzione dei messaggi comunicati. In Francia le testate tradizionali, molte delle quali presenti anche in Italia, coprono il ruolo di ultimo anello comunicativo: quello che va


dal produttore al distributore. Si tratta di riviste in cui dominano redazionali corredati da ampi servizi fotografici e informazioni sull’andamento dei mercati, in quantità notevolmente più massiccia rispetto alle analoghe riviste italiane. Ma la vera differenza tra la stampa specializzata italiana e francese sta nell’esistenza di due testate (il settimanale Journal du Texil ed il periodico a scadenza quindicinale Boutique du France) che assolvono il compito di comunicazione trasversale a tutti i soggetti della filiera. La stessa veste grafica conferma l’utilità di strumento di lavoro per gli operatori del sistema piuttosto che strumento di promozione: stampa in bianco e nero, poche fotografie, approfondimenti su particolari temi, impaginazione fitta di articoli suddivisi nelle diverse sezioni tematiche in cui si articola il giornale. Si può quindi affermare che proprio grazie all’opera di informazione condotta in maniera indipendente da questo genere di stampa specializzata che il sistema della

moda francese appare più compatto di quello italiano.

L’immagine sottostante mostra una pagina interna della rivista americana “Vogue”.

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NOTE

1- S. Gnoli , Un secolo di moda italiana, Universale Meltemi editore, 2005. 2- V. Castronovo, N. Trafaglia, La stampa italiana del neocapitalismo, Editori Laterza 1976. 3- Malfitano M., Il giornalismo di moda. Applicazioni nel campo storico, in Sorcinelli P. (a cura di), Studiare la moda, Mondadori, Milano 2003. 4- Roche D., Il linguaggio della moda, Einaudi, Torino 1991. 5- Pezzuoli G., La stampa femminile come ideologia, Edizioni Il Formchiere 1975. 6- Ibidem. 7- Sorcinelli P., Studiare la moda, Bruno Mondadori editore 2003. 8- Scipioni D, La moda, Ellissi, Napoli 2002. 9- O’hara G., Il dizionario della moda, Zanichelli, Bologna 1990. 10- Lilli L., La stampa femminile, in V. Castronovo e N. Trafaglia (a cura di), Storia della stampa femminile italiana, op. cit. 11- Carpi M., Ritratti di donna: linee di tendenza della stampa femminile, http:// www. comune.parma.it/pigorini/archivio/edicola/catalogo/, 2003. 12- Lilli L., La stampa femminile, op.cit 13- Scipioni D., op. cit. 14- Lilli L., op. cit. 15- Scipioni D, op. cit. 16- Ruggeri S. V., Donne e giornali nel fascismo, Fiore Edizioni 2004. 17- Pezzuoli G., op. cit. 18- V. Castronovo, N. Trafaglia, op. cit. 19- S. Franchini, Editori, Lettrici e stampa di moda, Franco Angeli 2002. 20- Sergio G., il “Corriere delle dame� ed il lessico della moda, Franco Angeli, 2010.

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2 Le riviste Grazia, Marie Claire ed Amica Questa seconda parte è dedicata all’analisi contenutistica di una serie di riviste di moda pubblicate nel ventennio compreso tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.

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“La moda, il vestito, la rivista specializzata: amori che affondavano i feticismi primari d'infanzia in storie di sarte che popolano i miei paraggi� P. Calefato

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GRAZIA, AMICA E MARIE CLAIRE Le riviste oggetto della mia analisi sono: Grazia, n. 453, 29 Ottobre 1949 Grazia n. 733, 6 Marzo 1955 Marie Claire Italia n. 8, 3 Marzo 1951 Grazia n. 996, 20 Marzo 1960 Marie Claire Italia, n. 21, 20 Maggio 1962 Marie Claire Italia, n. 38, 21 Settembre 1968 Grazia, n. 1198, 20 Febbraio 1964 Amica, n. 39, 26 Settembre 1965

Nella pagina seguente sono presentati alcuni dati relativi alla diffusione e al tipo di pubblico delle riviste, ottenuti facendo una media tra i diversi periodi storici analizzati.

Katharine Ross: fotografia scattata nel 1968 da Norman Parkinson

Fotografia scattata da George Dambier nel 1965. La modella indossa un “tulle” ossia “il vestito da sera che va in scena”.

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GRAZIA

AMICA

Arnoldo Mondadori editore, tiratura 450.000 copie, resa media 10 per cento, diffusione all’estero 4,0 per cento. Analisi dei lettori: Per ceto socio-economico: 22,2 per cento superiore e medio-superiore, 50,4 per cento medio, 23,5 per cento medioinferiore, 3.9 per cento inferiore. Per sesso: 75,3 donne (di cui 58,8 per cento donne di casa) e 24,7 per cento uomini. Per gruppi di età: 24 per cento dai 15 ai 24 anni; 31,8 per cento dai 25 ai 34 anni; 15,4 per cento dai 35 ai 44 anni; 14,9 per cento dai 45 ai 54 anni; 8,4 per cento dai 55 ai 64 anni; 5,5 per cento oltre i 64 anni. Per ripartizione geografica: 36,6 per cento nord-ovest, 22,5 per cento nord-est, 22,3 per cento centro; 18,6 per cento sud e isole.

Settimanale di moda e attualità del “Corriere della sera”; tiratura: 431.151 copie; diffusione: 421.708 copie. Analisi dei lettori: Per ceto socio-economico: 24 per cento superiore e medio-superiore, 59 per cento medio, 14 percento medio-inferiore, 3 per cento inferiore. Per sesso: 77 per cento donne, 23 per cento uomini Per gruppi di età: 29,4 per cento dai 15 ai 24 anni, 33,3 per cento dai 25 ai 34 anni, 13,4 per cento dai 34 ai 44 anni, 13,3 per cento dai 44 ai 54 anni, 6,3 per cento dai 55 ai 64 anni, 4,3 per cento 65 anni e oltre. Per ripartizione geografica: 39,5 per cento nord-ovest, 23,3 per cento nord-est, 22,3 percento centro; 15,9 per cento sud e isole.

MARIE CLAIRE Hachette Rusconi editore, tiratura 420.000 copie, diffusione 380.000 copie. Nata in Francia Analisi dei lettori: Per ceto socio-economico: 49,6 per cento superiore o medio superiore, 30,4 per cento medio, 17,5 per cento medio inferiore, 2,5 per cento inferiore. Per sesso: 72,3 per cento donne e 27,7 per cento uomini. Per gruppi di età: 23.8 per cento dai 15 ai 24 anni, 25,3 per cento dai 25 ai 34 anni, 18,1 per cento dai 35 ai 44 anni, 17,4 per cento dai 45 ai 54 anni, 12,4 per cento dai 55 ai 64 anni, 3 per cento oltre i 64.

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Per ripartizione geografica: 40,5 per cento nord-ovest, 26,3 per cento nord-est, 22,3 per cento centro; 10,9 per cento sud e isole.


LA MODA E LA SUA COMUNICAZIONE ATTRAVERSO LE RIVISTE DI SETTORE

E’ difficile fornire un definizione del concetto di moda, anche perché non esiste a riguardo un’interpretazione oggettiva e univoca.21 La moda rappresenta un fenomeno non soltanto psicologico e culturale, ma anche e soprattutto storico ed economicosociale, poiché riguarda tutti gli individui nel momento in cui, fin dai tempi più antichi, essi manifestano il bisogno di coprire il proprio corpo per presentarsi al mondo esterno e vivere in società. Varie testimonianze nel corso della storia dimostrano quanto l’evoluzione della moda nell’abbigliamento sia connessa alla storia dell’umanità: l’abbigliamento ha da sempre assunto la funzione fondamentale di veicolare il messaggio di appartenenza ad un preciso status sociale. Nel linguaggio comune un fenomeno o un prodotto è considerato di moda “se nell’istante in cui se ne parla ha raggiunto un diffuso apprezzamento da parte di un certo pubblico, in un determinato contesto”21. Secondo il Grande dizionario Garzanti la moda è “l’usanza più o meno mutevole che, diventando gusto prevalente, si impone nelle abitudini, nei modi di vivere, nelle forme del vestire”22 mentre nella Enciclopedia Europea Garzanti descritta come “un meccanismo regolativo di scelte, compiute in base a criteri di gusto o a capricci”.23 Risalendo alla radice etimologica del termine, la moda deriverebbe dal latino

Fotografia scattata da Irvin Penn per “Harper’s Bazaar” nel 1954.

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aureo mos, nei diversi e correlabili significati di: a) usanza, abitudine, costume, tradizione b) legge, regola, norma c) buoni costumi, moralità.24 L’espressione Fashion Theory, che ha i suoi antecedenti e fondamenti in alcune analisi sociologiche del primo Novecento, che studiano la moda come fenomeno collettivo, indica proprio un “ambito di studi interdisciplinare che concepisce la moda come un sistema di senso entro cui si producono le raffigurazioni culturali ed estetiche del corpo rivestito. La teoria considera il suo oggetto come sistema entro cui si producono ruoli, gerarchie sociali, modelli dell’immaginario e figure del corpo”25 Il meccanismo di diffusione della moda è detto trickle-down, ossia la goccia che cade dall’alto verso il basso (dalle classi sociali agiate alle masse) e che si estende poi orizzontalmente per imitazione, per venire però subito rimpiazzato, in un nuovo ciclo, da quello della distinzione. Questo avviene perché l’individuo

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si sente rassicurato dall’appartenere, grazie alla moda, ad una collettività sociale ben definita, ma nello stesso tempo egli è gratificato quando riesce ad esprimere aspetti originali di se stesso.26 Tuttavia con la produzione industriale di massa e redditi più elevati anche nelle classi inferiori, lo schema trickle-down perde di validità, perché si determina una diffusione dei fenomeni di moda anche in maniera orizzontale, o addirittura dal basso verso l’alto. Testo molto importante nello studio della rappresentazione della moda nelle riviste di settore è il Sistema della Moda di Roland Barthes, nel quale viene elaborato il passaggio ad una teoria della moda come discorso sociale: questo testo non si occupa della moda reale, ma di quella descritta nella rivista. E’ il giornalismo di moda a costituire la messa in discorso della moda. Secondo Patrizia Calefato la moda, concepita come mass moda “è oggi un mezzo di comunicazione di massa che si riproduce e diffonde secondo sue proprie modalità, che al tempo stesso entra in relazione con altri sistemi massmediatici, primo fra tutti il giornalismo specializzato, la fotografia, il cinema e la pubblicità”.27 “Un cappello di paglia in contrasto con il colore arancione”, fotografia scattata da Horst P. Horst nel 1949 per il gruppo “Condè Nast”.


Fotografia scattata da David Bailey per Vogue nel Dicembre del 1965

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ANNI CINQUANTA Gli anni Cinquanta rappresentano una fase di rapida trasformazione per la società italiana, in cui si delineano le basi per l’evoluzione del costume della popolazione. E’ il periodo della ricostruzione, dopo la devastazione della seconda guerra mondiale: l’Italia si trasforma da Paese prevalentemente agricolo in Paese industriale. Oltre ad essere uno stimolo al consumo, gli articoli dedicati alla moda rappresentano una forma di evasione per le lettrici italiane. In questo periodo i giornali femminili destinano alla moda circa il trenta per cento delle pagine; più precisamente, nelle riviste considerate:

Rivista e data di pubblicazione

Pagine totali

Grazia, 29 Ottobre 1949

35

7

20%

Marie Claire, 24 Febbraio 1951

31

7

22,5%

Grazia, 6 Marzo 1955

57

20

35%

Numerosi sono dunque i servizi dedicati all’argomento; compaiono modelle ritratte in pose plastiche, che indossano abiti e accessori in linea con le tendenze del momento, e ampie didascalie descrivono gli indumenti e lo stilista che li ha creati. L’influenza della moda parigina Nonostante nel corso del periodo fascista sia stato compiuto un grande sforzo per “italianizzare” la moda, è sufficiente osservare e leggere quanto citato sulla copertina di due delle riviste analizzate per comprendere che è ancora molto forte l’influenza della Francia: copertina di Marie Claire, 3 Marzo 1951, in caratteri

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Pagine dedicate alla moda

Percentuale

Fotografia scattata da David Bailey per Vogue nel Dicembre del 1965


Barbara Golen indossa un abito di Christian Dior. La fotografia è stata scattata da Clifford Coffin a Parigi nel 1948

grandi e chiari: “Da Parigi: novità sulle collezioni della moda”; copertina di Grazia, 6 Marzo 1955: “La moda di Parigi”. Non si parla di moda in generale, ma di una più specifica: è la moda di Parigi, la capitale della raffinatezza e del buon gusto, dove inviati speciali curiosano,

fotografano, documentano, intervistano allo scopo di venire a conoscenza di tutte le novità possibili, che trasmettono poi, proprio attraverso le riviste femminili, alle donne italiane, avide di novità in questo campo. Marie Claire 1951, pagina 3: “La Primavera per annunciarsi aspetta le collezioni di moda, ed è proprio Parigi, ancora Parigi che da il via. Da ogni parte accorrono sarti e giornalisti, tutti pronti a

guardare, apprendere e ricordare.” Pagina 27 della stessa rivista, il titolo scritto in “Bodoni Poster Compressed” cita: “Un regalo di Marie Claire da Parigi”. Anche il servizio di Anna Vanner su Grazia (1955), parla di moda francese e parigina: “Vi presentiamo la più completa rassegna della nuova moda francese per la primavera e l’estate 1955” ed in ogni pagina dedicata a questo servizio compare la scritta “Grazia a Parigi”. Le riviste femminili aiutavano le lettrici suggerendo loro abiti adatti ad ogni occasione. Per un pranzo a casa, un abitino stretto in velours con collant in tinta e scamosciate erano la tenuta ideale. Per un pranzo fuori invece l’abbigliamento ideale consisteva in un vestito di flanella grigio con un cappotto in tinta, un cappellino, guanti scamosciati da non togliere prima dei saluti iniziali, una borsetta di vernice e un sottile ombrello, tutto nei toni del grigio. I suggerimenti proseguivano su questo stile per l’abbigliamento da sera, con la descrizione di ogni singolo dettaglio, dal tipo di colletto più adatto, ai gioielli, al profumo più appropriato, fino alla descrizione dell’etichetta da osservare, e qui la lista dei consigli si allargava a dismisura.28 Si parla di “abiti da mattina o da pomeriggio”, “abiti da cocktail” o “abiti per le occasioni più eleganti”; “abiti adatti alla città o alla campagna” (Grazia 1955). Gli stilisti citati in queste testate sono sempre i medesimi: Elsa Schiaparelli, Genevieve Fath, Hurbert de Givenchy, Pierre Balmain ma soprattutto Christian Dior, che nel 1947 lanciò la sua linea “New Look”. Il mondo della moda fu scosso da una svolta radicale: dopo anni di abiti austeri e le ristrettezze dei tempi di guerra, ora le donne desideravano linee morbide e ampie gonne stravaganti, anche se questo andava contro ogni buon senso.29

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Lo stilista Christian Dior ed il New Look dominano la scena Le copertine di tutte e tre le riviste oggetto della mia analisi, presentano modelli di Christian Dior. Su Grazia (1955), accanto alla fotografia di una modella che indossa il noto modello “A” di questo stilista leggiamo: «Ancora una volta ecco il grande Dior alla ribalta. Questa specie di prestigiatore della Haute Couture francese ha estratto dal suo cilindro magico, per la primavera e l’estate che ci attendono, i suoi “giochetti” di effetto sicuro, sempre destinati al successo». Almeno dieci dei modelli fotografati in questa rivista sono di Dior, che detiene il monopolio anche in tutte le altre. Il New Look simboleggiava l’ottimismo ed il benessere, concetti che molti accolsero con un certo scetticismo quando la linea venne presentata per la prima volta, ma che solo pochi anni dopo diventarono importanti. Poiché solo i ricchi potevano permettersi gli abiti della linea New Look, essa si trasformò in un modo per esaltare le differenze di classe. Nonostante ciò riscosse comunque grande consenso perché rappresentava il benessere, l’eleganza, la felicità attesi in un futuro imminente e di conseguenza agì da stimolo per il progresso sociale. Le severe linee del modernismo, nel quale le forme erano subordinate alla funzione, lasciarono il posto ad una moda che mirava alla seduzione. La silhouette a clessidra che divenne il simbolo del New Look, era ripresa in tutti gli aspetti della vita quotidiana, dall’architettura all’arredamento di interni, fino ai più insignificanti oggetti per la casa: tavoli sagomati, sedie ergonomiche, bicchieri a tulipano, lampade doppie, vasi a clessidra e posaceneri arcuati in vetro.30 Sempre a pagina 13 di Grazia (1955),

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Nella pagina accanto: in alto lo stilista Christian Dior intento a guardare i suoi modelli. In basso l’illustrazione di un modello dello stesso stilista. In questa pagina un modello verde, colore assai di moda in questi anni, ed il vaso di Venini a clessidra: la silhouette a clessidra simbolo del New Look era ripresa in tutti gli aspetti della vita quotidiana

vengono riassunti i punti salienti della moda anni ’50: «Tutte le collezioni francesi si sono trovate d’accordo su parecchi punti importanti: la vita si è nettamente allungata, anche se non è mai marcata, né nelle giacche, né nei soprabiti. Nelle “princesses” eleganti destinate alle ore del cocktail e del pranzo la tendenza generale vuole la vita affusolata e gli abiti sbocciano come grandi fiori in gonne ricche o addirittura rigonfie di pieghe, di drappeggi, di arricciature, sempre posate su rigidi “jupons”. Per quello che riguarda i tessuti ed i colori il più nuovo dei primi è la flanella a righe appena più larghe di quelle dei tessuti maschili. Vestiti bianchi appena filettati di grigio, di azzurro, di rosa e di bruno fanno pensare alle tenute da tennis del 1900 […]. Il giallo, il mandarino e in genere i colori degli agrumi e dei succhi di frutta formano la tavolozza della nuova moda, insieme al beige e al blu. I primi sono destinati ad un successo più estivo, mentre dei secondi vedremo popolate le città durante la primavera. Alta, sottile, delicatamente truccata in toni opalescenti, la nuova donna del

’55 assomiglierà a Maria Antonietta o avrà l’eleganza più sobria di Anna Karenina, con il capo piccolo e spiritoso di Aubrey Hepburn». Altro elemento essenziale della moda anni Cinquanta è il cappello. Quest’ultimo era in genere di piccole dimensioni, con la cupola alta nonostante il bordo ampio. A poco a poco si trasformò in un piccolo copricapo noto come cappello Bibì, decorato da piume, fiori o veli e appoggiato su acconciature accuratamente studiate. Talvolta era costituito solo da una fascia di seta che di sera poteva essere impreziosita da una lunga piuma.31 La grande maggioranza delle modelle fotografate indossano i più stravaganti cappelli. Maria Claire (1951) dedica a questo accessorio un’intera pagina, presentando i modelli attraverso fotografie in bianco e nero. Ben due pagine di Grazia (1955) sono occupate da un servizio sui cappelli, il cui titolo afferma “Col cappello da mattina e sera”. Le fotografie a colori rendono meglio la particolarità (che oggi potremmo definire

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Pagine interne della rivista Grazia 1955: il titolo del servizio è “Col cappello dal mattino alla sera” e sottolinea la diffusione di tale capo di abbigliamento nel corso degli anni Cinquanta. Nella pagina accanto illustrazione di Renè Gruau eseguita per Christian Dior nel 1949.

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bizzarria) di questi copricapo. Nell’articolo si legge che «sommando insieme i cappelli ideati dalle modiste con quelli che i grandi sarti consigliano a complemento dei loro nuovi modelli, possiamo dire che questa primavera ogni donna porterà il cappello che le starà meglio, tante sono le linee, le fogge e le tendenze. Tanti anche i “materiali” di cui sono fatti: le paglie esotiche e nostrane, i feltri, i tessuti grossi di cotone e di lino, il tulle a strati sovrapposti e l’organdì finemente pieghettato. E i colori? Oltre al pastello quelli rinfrescanti degli agrumi e dei succhi di frutta». Sono in queste pagine poi citati una serie di stilisti creatori dei modelli presentati nelle fotografie: Rose Valois, Gattengo, Svend.

Le scarpe di moda in questo periodo, (ben visibili in quelle foto che ritraggono le modelle a tutto corpo) erano strette, a punta o col tacco medio-alto. Ancora molto diffuso il tailleur: sono riportate a pagina 24 e 25 di Grazia (1955), le fotografie dei modelli di Manguin, con giacche morbide color pastello ed i fianchi appena segnati. In Marie Claire la didascalia sottostate un’illustrazione che rappresenta appunto tre tailleurs afferma: “La maggior parte dei tailleurs quest’anno sarà corredata dal panciotto in tinta eguale al completo o addirittura contrastante. Il primo ha la giacca con i bordi profilati in nero ed un panciotto nero con le punte rotonde. Il secondo è invece in tessuto a quadretti bianchi e neri o bianchi e blu.


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Manica a chimono in un unico pezzo con telo centrale sul dorso e davanti. Il terzo presenta invece una giacca corta e poco sciancrata, carré rotondo che forma due piccole tasche. La gonna, leggermente svasata, è completamente allacciata davanti. Il collettino è fatto in velluto.” Venne inoltre creata una moda apposita per il tempo libero: le donne partecipavano a feste da giardino, a cocktail, giocavano a tennis o a golf. Era necessario uno stile femminile e colori brillanti: si afferma infatti una vera e propria esplosione dei colori, quasi come reazione agli anni bui della guerra.32

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In questa pagina: il noto modello “A” di Christian Dior fotografato ed illustrato. L’illustrazione, che riprende appunto la fotografia, è stata realizzata da Renè Gruau nel 1955 Nella pagina a destra l’attrice Aubrey Hepburn e l’attrice Dovima in una scena del film “Colazione da Tiffany”


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In questa pagina: In alto “Shoes and Eiffel tower”, Frenk Horart 1954. Subito sotto, scarpe disegnate da Elsa Schiapparelli nei primi anni Cinquanta. A destra: il classico tailleur gessato con gilet di Yvees Saint Lourant. Nella pagina accanto una pagina interna di Marie Claire 1951, che riporta l’illustrazione di tre tailleurs e le relative didascalie.

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ANNI SESSANTA Anche negli anni Sessanta la moda è sempre la regina della stampa femminile, e la maggior parte degli articoli riguardano questo argomento, che tanto appassiona le lettrici.

Rivista e data di pubblicazione

Grazia, 20 Marzo 1960

Pagine totali

Percentuale

131

14

11%

Marie Claire, 24 Maggio 1962

91

28

30,7%

Grazia, 2 Febbraio 1964

115

16

13,9%

Amica, 26 Settembre 1965

131

26

30%

La moda protagonista delle riviste femminili Anche se continua a essere il tema principale della rivista, osserviamo soprattutto in Grazia un calo delle percentuale di pagine che di essa trattano: di fatto aumentano rispetto al decennio precedente, ma contemporaneamente si accrescono gli spazi dedicati ai più svariati argomenti: infatti tutte le testate triplicano il numero di pagine, elevando notevolmente il loro spessore. Solo in Marie Claire, il rapporto rimane pressoché costante. I servizi dedicati al tema sono in genere collocati nelle pagine centrali dei giornali, dettagliatamente curati e illustrati con prestigiosi servizi fotografici, spesso a colori. Non si tratta solo di pezzi che mostrano le

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Pagine dedicate alla moda

tendenze del momento, ma talvolta si trovano delle vere e proprie pubblicità redazionali, in cui le giornaliste esaltano le ultime creazioni degli stilisti, indicando gli indirizzi dei rivenditori ed i prezzi degli abiti stessi. Tra le testate analizzate questo accade soprattutto in Amica: in conclusione ad ogni didascalia è indicato, in grassetto ed in stampatello, il prezzo di quanto rappresentato nella fotografia e di quanto sopra descritto. Inoltre, mentre i servizi delle altre riviste presentano abiti e accessori degli stilisti più svariati, qui, come indica il grande titolo, si presentano i capi “della più nuova tra le firme della confezione italiana”, ossia Hella. Al fondo del reportage stesso, con il titolo Il guardaroba di Amica, è collocato un elenco di tutte le città italiane in cui è presente un negozio adibito alla vendita di tale marchio, del quale


chiaramente sono specificati nome e indirizzo. Lo stesso accade per altre due firme pubblicizzate dal reportage, ossia le calze Rede e le calzature Clams. E’ addirittura istituito «Il concorso più grande dell’anno: nove case di confezione, nove famosi calzaturifici ed una grande industria di calze mettono a disposizione delle nostre lettrici, sotto l’egida de “I guardaroba di Amica”, una selezione dei loro prodotti». Nelle riviste anni Sessanta si rivela inoltre una novità: una rubrica in cui le lettrici hanno la facoltà di chiedere consigli riguardo allo stile da adottare in una determinata occasione. Il giornale, in risposta, propone un’illustrazione raffigurante l’accostamento di abiti più adatto. In Grazia (1964) essa prende il nome di “Il Taccuino” (nel 1960 è ancora

assente); come indicato dalla didascalia sottostante il titolo, le lettrici riceveranno “a domicilio gli schizzi di Ata e i consigli di Anna Vanner” (anche nelle due edizioni del decennio precedente era questa giornalista ad occuparsi del servizio di moda). Le didascalie allegate a ciascun disegno sono indispensabili per spiegarne il significato, trattandosi solo di schizzi. I testi riportano il nome della lettrice a cui è rivolta la risposta; eccone un esempio: «Angela P.- Per l’abito da mezza sera scelga un crespo verde scuro: è la tonalità più indicata per chi ha i capelli biondi naturali. Per modificare il vestito di velluto turchese, riduca lo scollo e l’ampiezza della gonna»; oppure: «Romantica – per teatro o pranzo le consigliamo questo modello di seta crespata: di linea morbida, drappeggiata alla scollatura, servirà certamente a snellirla.

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L’immagine mostra una pagina interna della rivista Grazia 1964: la rubrica “Taccuino” dava alle donne consigli su come abbigliarsi in base alle diverse occasioni.

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La pettorina è coperta da un leggero ricamo di perline». A pagina 24 della stessa rivista un’altra rubrica riporta, come quella precedente, suggerimenti su come abbigliarsi in determinate occasioni: le didascalie sono abbinate a fotografie, certamente più chiare ed esplicative degli schizzi della rubrica Taccuino. La dicitura riporta sia la richiesta della lettrice che la risposta “degli otto esperti di moda” che sono a servizio delle lettrici stesse. Anche su Amica, la rubrica Che cosa mi metto a cura di Letizia Lannuti riporta consigli di tal genere: «In questa rubrica le lettrici possono trovare una risposta ai problemi di moda: la scelta di un modello, come rinnovare un abito vecchio, suggerimenti sui nuovi accessori, eccetera».

Grazie al boom delle nascite successivo alla guerra, i giovani erano una porzione molto numerosa ed avevano quindi una grande influenza. Questi giovani non solo si ribellavano, ma avevano anche sviluppato una loro controcultura. Questa ribellione era stata provocata dai vincoli soffocanti della società borghese, con i suoi vuoti protocolli che governavano la rispettabilità e le buone maniere. L’eleganza era l’ultima cosa che le giovani desideravano, perché era ciò a cui avevano aspirato le loro mamme negli anni Sessanta.33 Le novità della moda: la rivoluzione giovanile L’innovazione assoluta nel campo dell’abbigliamento è la minigonna, prodotta


dalla sarta inglese Mary Quant: l’arrivo di tale foggia rivoluzionaria in Italia provoca un aspro dibattito morale. Se intorno agli anni Cinquanta la gonna al ginocchio fu introdotta come capo funzionale al ruolo produttivo delle nuove generazioni di donne lavoratrici, la minigonna negli anni Sessanta fu un vero segno di liberazione e portò con sé una ventata di anticonformismo nell’ambito della moda istituzionale di quegli anni.34 La moda è ormai un fenomeno di massa, e comincia ad essere prodotta in serie, per adattarsi alle esigenze delle donne lavoratrici che non hanno più tempo di farsi confezionare i vestiti dalle sarte. Le teenager, che in questi anni si fanno affascinare dai capelli cotonati e dalle “indecorose” minigonne, non costituiscono tuttavia il target privilegiato per i femminili, nei quali continuano ad essere fotografati tailleur più o meno eleganti da giorno o da sera, paltò da usare in tutte le occasioni, e stravaganti cappelli. Nel reportage di moda di Amica, tailleur sportivi sono abbinati a “scarpe di vernice dal tacco grosso di cuoio e calze neutre in nailon”, a “stivaletti di cuoio alla caviglia”. Cuffie “di cavallino stampato a leopardo, rifinita in bordo di castorino” o “colli di volpe e cinture di nappe” danno un tocco di classe in più. I colori dominanti, per quanto riguarda questo genere di abbigliamento sono l’azzurrino, il beige ed il grigio. Le gonne non lasciano mai scoperto il ginocchio. Molto di moda sono paltò coloratissimi: a pagina 50 e 51 tre modelle indossano questo capo di abbigliamento in sgargianti toni di azzurro, abbinati a scarpe in tinta o marroni, dal tacco basso. Anche in Marie Claire (1951) il capo di abbigliamento prediletto è il tailleur, come indicato in copertina: “Questo è il numero del tailleur”; i capi fotografati

sono firmati Chanel, Barthet, Maggy Rouff, Pierre Cardin e Balestra tutti precursori di quella “moda androgina” che raggiungerà il suo culmine con Yyves Saint Loran. Il testo a pagina 26 ci da una chiara idea di quella che è la “moda del tailleur”: «Un tailleur per inaugurare l’autunno, ecco la nuova regola alla quale le donne italiane sono particolarmente affezionate perché per loro il tailleur è sempre il vestito numero uno, il più completo, quello con il quale si sentono più a posto e sicure della loro eleganza. Essi non sono né troppo sciolti né particolarmente segnati, le giacche sono corte, ma per quelle che le preferiscono un po’ allungate questo genere non manca. In molti le maniche sono ridiventate lunghe e strette, i colli, quando ci sono, si mantengono piccoli e montati in alto. […] La novità riguarda piuttosto le gonne che sono quasi generalmente svasate o addirittura a ruota o a campana […]. Le note di pelliccia potranno essere strettamente legate all’insieme, meglio però se saranno indipendenti e utilizzabili per diversi pezzi del guardaroba, passando dal tailleur, al paltò e anche al vestito. Per questa formula vi suggeriamo il collo staccato, di linea classica, o anche ad anello, secondo i suggerimenti più nuovi firmati Dior, Cardin o Goma. Staccato e indipendente anche il cappello, il berretto alla cosacca o alla Davy Crockett quest’anno veramente indispensabile. […].» Anche in Grazia (1960) sono mostrati “tailleur lunghi come tuniche” che portano le firme degli stilisti dominanti la scena nel corso del decennio precedente: Dior, Maggy Rouff, Cardin. Le modelle indossano sempre vistosi cappelli; sono molto diffuse le tinte pastello: rosa, azzurro e verde. Tutti i couturier si misero a produrre una

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seconda o addirittura una terza linea di moda, meno costosa e più moderna. Mentre nelle riviste dei primi anni Sessanta continuano ad essere esposti capi dell’alta moda, in quelle pubblicate nella seconda metà del decennio, i capi sono di seconda o di terza linea, più economici e meno raffinati. Ne è un esempio il reportage di Marie Claire (1957), “La moda al mare”: camicioni dipinti, accappatoi, pantaloni, bluse e costumi a due pezzi sono al centro di questo sevizio. Essi sono certamente più economici e si adeguano maggiormente al genere di moda che stava prendendo piede in quegli anni, e che molti stilisti hanno definito “non-moda”, forse perché andava contro i principi dell’eleganza, dell’ordine del buon gusto e della serietà

caratteristici degli anni Cinquanta. Gonne corte, costumi a due pezzi e colori sgargianti sono al centro di questo sevizio. Sui rotocalchi femminili si ha infine il rilancio della biancheria intima, non solo per seguire le esigenze del mercato, ma soprattutto per adattarsi alla volontà delle donne di acquisire un nuovo fascino e una più accattivante femminilità. Iniziano a diffondersi le prime pubblicità di prodotti intimi, come quella che occupa interamente la seconda pagine di Marie Claire, raffigurante un uomo, una donna ed un bambino in biancheria. Nelle fotografie le modelle assumono pose più naturalistiche e si prediligono per i servizi, ambientazioni tipiche della campagna o esotiche.

In questa pagina: pagina interna di Marie Claire 1961: servizio dedicato ai tailleurs. Dominano le tinte color pastello. Nella pagina accanto: la stilista Mary Quant, la prima ad introdurre la minigonna nel panorama della moda, nel corso degli anni Sessanta.

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In questa pagina: iniziano a diffondersi le pubblicitĂ di prodotti intimi: a sinistra pubblicitĂ di Amica 1965; a destra una fotografia scattata da Richard Avedon rappresentante una modella in lingerie che si copre il volto con una sorta di lenzuolo trasparente.

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Nella pagina accanto: fotografia di biancheria intima, scattata per Harper’s Bazaar da Jeanloup Sieff nel 1963.


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5 L’arte delle riviste di moda: fotografia e illustrazione La quinta parte della mia analisi è dedicata allo studio dell’apparato iconico e fotografico, sia delle riviste in mio possesso, sia, più in generale di rotocalchi che, come Vogue e Harper’s Bazaar, vantavano e vantano della collaborazione dei più noti fotografi dell’epoca

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“La moda è l'indumento che decora la fotografia” A. Lieberman

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UNA RIFLESSIONE SULL’IDENTITA’ E LE FUNZIONI DELLA FOTOGRAFIA DI MODA “La moda è qualcosa di più articolato che non il semplice abito: un fenomeno complesso che riguarda e mette in relazione fra di loro atteggiamenti, modi di essere, forme di linguaggio. La moda allora è anche fotografia, l’atto e la pratica del fotografare, intesi come desiderio non solo di creare, ma di raddoppiare la nostra vita in immagine.”96 Le fotografie servono anche a “far vedere” l’abito, ma di fronte alla fotografia di moda noi entriamo in contatto con qualcosa d’altro, qualcosa di più suggestivo che non la pura informazione sul prodotto. Di fronte alla fotografia di moda, di fatto, sperimentiamo una possibilità di comportamento, o almeno la immaginiamo, la desideriamo, perché l’immagine ci propone una sorta di prototipo di vita, un’esperienza di stili e di modi d’essere, anche se virtualmente, la moda vive già nella fotografia. La moda ha comunque la necessità di mostrarsi, e la fotografia assolve egregiamente a questo compito, diffondendo velocemente su larga scala un determinato modello. La moda non è l’abito in sé, ma l’abito portato, vissuto, l’abito-comportamento: la sua scelta è sempre in fin dei conti la scelta di un’identità, di un modo di essere che associamo ad esso. Ogni creatore di moda, proponendo un abito o una certa linea, propone un modello di donna, una tipologia desiderabile, nuova, diversa da quelle disponibili, un modello virtuale che necessita di un attestato di

verità per risultare credibile, e quindi acquisibile da parte del pubblico. La fotografia fa si che l’abito si incarni, si leghi ad un corpo immaginario capace di interpretare al meglio lo stile contenuto in quel progetto. Volendo avviare una riflessione sull’identità e funzioni della fotografia di moda, il sistema migliore è quello di rifarsi ai motivi che, circa quarant’anni fa, portarono Roland Barthes ad escludere l’immagine fotografica dal suo imponente tentativo di fondare una semiotica della moda. Nel “Sistema della moda”, (1967) egli afferma che: “La fotografia del significante di Moda (cioè l’indumento), pone problemi di metodo che ne hanno fatto scartare l’ analisi”97. Era come se Barthes implicitamente ammettesse che la moda fotografata valeva quanto quella reale. Più che la foto in quanto tale, il ragionamento di Barthes sembrava riguardare qualcosa di ben più complesso e articolato, ossia la tonalità dell’atto che la fotografia si trovava a registrare, l’insieme delle performance svolte dalla modella. Era quella la vera dimensione della moda, non la stoffa, non il taglio, non l’abito strettamente inteso; “[…] Una donna sembra vivere: l’indossatrice. Sempre più, alla presentazione inerte del significante, il giornale sostituisce un indumento in atto: il soggetto è dotato di una certa virtù transitiva […].”. Barthes, definendo la pura fotografia come un “messaggio senza codice”, indicava

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la didascalia, il testo di accompagnamento, come principale sistema di connotazione e codificazione dell’immagine. In tutte le riviste di moda, comprese quelle da me analizzate, la fotografia della modella è accompagnata da una breve e fondamentale spiegazione:

sarà proprio quest’ultima oggetto dell’analisi semiotica di Barthes, che in seguito tratterò, analizzando il rapporto fra testo e immagini.

Catherine Deneuve, fotografia di David Bailey, 11 Gennaio 1968 per Vogue.

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LA FOTOGRAFIA NEGLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA Volendone dare una definizione, la fotografia è qualsiasi sistema che permette di convertire, in modo più o meno permanente e visibile, immagini prodotte su supporto con l’azione di radiazioni ultraviolette e infrarosse. Utilizzando le scoperte e gli studi iniziali già nell’antica Grecia, la fotografia si concretizzò agli inizi dell’Ottocento. Si sviluppò arrivando alla riproduzione del colore e all’utilizzo di supporti digitali. E’ stata ripresa ampiamente da una grande quantità di artisti delle ultime generazioni; medium privilegiato della moda e della pubblicità, è un strumento assai utilizzato e diffuso nei giorni nostri. Non volendo occuparmi interamente della storia della fotografia, argomento che richiederebbe intere pagine e uno studio assai approfondito su tutti i diversi passaggi che portarono a definire il realismo e la perfezione che offre attualmente, mi limiterò a mettere in luce la situazione del ventennio da me analizzato, ed il tipo di lavorazione di cui erano frutto le ormai numerose fotografie, in bianco e nero e a colori che occupano le pagine di tutti i rotocalchi di quegli anni. La diffusione della fotografia nei rotocalchi è strettamente connessa con l’evoluzione delle tecniche di stampa: lo sbocco naturale della fotografia sui libri e sulle riviste era la pagina stampata, ma solo nel 1880 circa si riuscì a risolvere il problema tecnico di una matrice ottenuta foto-graficamente che avesse i tratti scuri in rilievo come i caratteri tipografici. Da allora parola scritta e immagine poterono coesistere sulla stessa

pagina. Gli effetti dell’incontro fotografiastampa sono molteplici: attraverso la stampa la fotografia ha trovato il suo stile inconfondibile. La necessità di “fare fotografia” costringe il fotografo a cogliere il momento tipico in una catena di avvenimenti e ad inventare un tipo di ritratto che non sia quello desiderato dal cliente, ma quello che sarà più informativo per i lettori e quindi meno atemporale, più caratterizzante. Nello stesso tempo la mancanza di controllo sulla stampa costringe il fotografo a concentrare tutti i suoi sforzi nel momento della ripresa, non delle manipolazioni della camera oscura. Due invenzioni tecniche sarebbero venute incontro al nuovo tipo di fotografo: l’esposimetro e la Leica, piccola macchina portatile che la Leitz di Wetzlar presentò al pubblico alla fine della fiera di Lipsia del 1925. Il formato di questa macchina deriva dal cinema e facilissima ed estremamente duttile per l’operatore. Con l’inserimento dell’ingranaggio del giornalismo il fotografo ha una possibilità

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immensa di comunicazione, diventa uno dei maggiori manipolatori di immagini, ma nello stesso tempo la sua indipendenza è sempre più condizionata. La fotografia per la stampa non è tutta denuncia o celebrazione, anche l’intrattenimento ha una parte considerevole. Le riviste di moda hanno incominciato relativamente tardi a servirsi della fotografia, e fino al 1945 in pochi casi essa ha prevalso sui disegni. Nel secondo dopoguerra sono uscite in Italia le prime riviste rivolte ad un pubblico femminile, di scarsissima cultura, quasi al limite dell’alfabetismo. Nello schema tipico erano narrati i c.d. fotoromanzi: storie fantastiche recitate da attori, ai quali la fotografia consentiva di esprimere un realismo assai maggiore di quello che avrebbero raggiunto se fossero stati disegnati.99 Per quanto riguarda la tecnica fotografica, non esistendo ancora apparecchi digitali, che cominciarono a comparire nei primi anni Ottanta, si può parlare in questo ventennio di “fotografia su pellicola”. Ricordiamo anche che, nel 1948, nacque la prima Polaroid modello 95, una fotocamera a sviluppo immediato, progettata da E. Land, che negli anni Sessanta disporrà anche di pellicola a colori; la Nikon F., dotata di motore elettrico come accessorio, fu proposta nel 1957 invece nel 1959 fu presentato il primo obbiettivo zoom per fotocamere reflex. Per la fotografia in bianco e nero il materiale sensibile, introdotto dall’apparecchio, è costituito da un supporto trasparente in plastica flessibile, sul quale è distesa l’emulsione a base di sali d’argento sensibili alla luce e sospesi in una gelatina trasparente. I raggi luminosi provenienti dal soggetto producono, durante l’esposizione alla luce (c.d. impressione), una trasformazione dei sali, con formazione di piccoli nuclei

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di argento metallico in seno ai granuli di alogenuro dell’emulsione. L’alogeno che si libera reagisce con la gelatina dell’emulsione, impedendo la ricostituzione del sale d’argento e dando luogo alla formazione di un’immagine invisibile (c.d. immagine latente). La luce agisce sui granuli di alogenuro d’argento, presenti nell’emulsione, in misura proporzionale all’illuminamento del soggetto nei vari punti di quest’ultimo. Il successivo trattamento fa sì che l’argento primario, invisibile, dell’immagine latente, in presenza di opportuni riducenti contenuti nel rivelatore, agisca come catalizzatore scindendo ulteriormente le molecole di alogenuro e provocando la deposizione dell’argento nero visibile. Il trattamento di fissaggio, infine, stabilizza l’immagine, cioè la rende ormai inalterabile alla luce e quindi durevole. L’immagine così ottenuta è negativa, cioè in essa appaiono zone scure, più o meno opache, in corrispondenza di quelle che nel soggetto sono zone più o meno chiare, luminose e viceversa. Dal negativo si ricava l’immagine positiva, cioè identica al soggetto, impressionando con la luce, attraverso il negativo stesso, carta sensibile recante un’emulsione analoga (c.d. processo positivo). Ciò può essere fatto ponendo il negativo a contatto della carta (c.d. stampa a contatto), oppure negli ingranditori con l’interposizione di un obiettivo (c.d. stampa ad ingrandimento). La carta fotografica è sottoposta agli stessi trattamenti di sviluppo e di fissaggio, che rendono definitiva ed inalterabile l’immagine. La pellicola a colori è schematicamente formata da un supporto trasparente sul quale sono depositati tre strati sovrapposti di emulsione, opportunamente sensibilizzati in modo da risultare impressionati solo in corrispondenza di determinate lunghezze d’onda rispettivamente corrispondenti ai tre


la fotografia a sinistra è stata scattata a Berlino nel 1957 da Rico Puhlmann. Da Franco Rubatelli è stata invece scattata la fotografia qui accanto, che ritrae una modella che indossa un lungo abito di Dior in un’elegante posizione, come se stesse danzando. La fotografia in basso raffigura una doppia pagina di Vogue 1969. La fotografia è stata scattata da Helmut Newton

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colori primari: blu, verde e rosso. Durante l’esposizione le componenti cromatiche della luce impressionano in successione i relativi strati di emulsione, dando luogo alla formazione di tre immagini latenti del soggetto, sovrapposte tra loro, ciascuna complementare del relativo colore primario presentato dal soggetto ripreso, nelle diverse zone in cui può essere cromaticamente diviso. Durante il successivo trattamento di sviluppo, i grani di argento che formano i tre strati dell’immagine sono dissolti e sostituiti da tinture appropriatamente colorate (copulanti), generalmente contenute nell’emulsione stessa in strati multipli. In alcuni processi, per esempio il Kodachrome, i copulanti sono invece introdotti durante le fasi del trattamento di laboratorio. Le pellicole negative £0 Luglio 1952, Helsinky, Finlandia. Fotografia scattata da Bettmnn/Corbis

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forniscono, con lo sviluppo, immagini cromaticamente invertite, presentano cioè colori complementari a quelli del soggetto: giallo per il blu, magenta per il verde, ciano per il rosso. Da esse si ricavano per stampa le copie positive su carta. Nella fase di stampa si può far uso di filtri compensatori, per correggere eventuali difetti di colorazione come, per esempio, la c.d. dominante di colore, per cui un colore appare preponderante in tutte le zone dell’immagine.100


LE ORIGINI DELLA FOTOGRAFIA DI MODA E LE ILLUSTRAZIONI DI MODA

Le origini: nasce la fotografia di moda Il fatto che la moda sia stata definita come “un’iniziativa estetica ed una forza autonoma di innovazione formale”101 è documentato dall’abbondanza di iconografie che rappresentano l’abbigliamento sia femminile che maschile già nella ritrattistica di corte a partire dal ‘600, in Europa e particolarmente in Italia. Il ritratto celebre svolgeva un ruolo di diffusione delle mode al pari delle nostre contemporanee riviste specializzate o sfilate. L’arte della riproduzione manuale delle figure è stata affiancata e quasi soppiantata dall fotografia proprio per la sua capacità, non meramente riproduttiva ma creativa, di tirar fuori da persone oggetti, abiti ed accessori ciò che si vuole rappresentino. La fotografia di moda ha preso avvio nell’ultimo decennio del XIX secolo, allorché la messa a punto di un sistema di fotoincisione ha permesso di stampare su una stessa pagina foto e testo. Alla fine dell’Ottocento la moda è un fenomeno già ben definito, sul quale la fotografia improvvisamente interviene fornendo un utile servizio di diffusione. La fotoincisione rende possibile l’avvio di un sistema di cambiamento del gusto, fondato sulla possibilità di materializzare un sogno, renderlo accessibile, ponendo le condizioni di una continua e sempre più rapida evoluzione del sogno stesso. Il merito della fotoincisione è aver portato la fotografia nell’industria culturale

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trasferendo su una dimensione allargata, di massa, le possibilità che il mezzo già esercitava “in piccolo” nelle pratiche quotidiane. La capacità di certificare il reale, o il flusso dell’immaginario, ha

“Lafayette photo studio” Lady Carnavon 1899

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sempre fatto parte del patrimonio genetico della fotografia, ma, la diffusione di massa l’ha evoluta come strumento ideale per accedere alla sfera dell’illusione e rendere concreto ogni grande sogno collettivo.102 E’ nel 1892 che sulla rivista parigina “La Mode pratique” appare per la prima volta la riproduzione diretta di una fotografia. Prima di allora alcune testate avevano già prodotto un piccolo corredo di immagini fotografiche, ma si trattava di prodotti esclusivi, preziosi e poco diffusi, dal momento che le fotografie erano incollate a mano anziché stampate direttamente sulla pagine. Lo sviluppo della fotografia di moda coincide con un’idea di massificazione, di comunicazione allargata non troppo elitaria. L’illustrazione manuale come freno alla fotografia La nascita della fotografia di moda è certamente condizionata dallo sviluppo e dalla diffusione di determinate tecnologie di stampa capaci di assicurare un facile e contemporaneo assemblaggio sulla pagina di immagini e parole. Questo fu un elemento molto importante, ma non l’unico, e per rendersene conto basta considerare che molte delle riviste storiche, continuarono ad utilizzare abbondantemente il disegno, nelle pagine interne e soprattutto nelle copertine per tutti gli anni Venti e in qualche caso anche oltre, quando se ne sarebbe potuto anche fare a meno. L’impiego del disegno non era solo frutto di una costrizione tecnica ma anche frutto di una libera scelta concettuale, evidentemente influenzata dal fascino che ancora si riconosceva nell’immagine manuale e, di riflesso, dai limiti che invece si continuavano ad attribuire alla fotografia. Le riviste degli anni Cinquanta, da me analizzate, sono ricche di illustrazioni

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realizzate manualmente, che divengono via via più rare con il trascorrere degli anni. I primi disegni di moda li ho incontrati su Grazia 1949. L’articolo “Maglia a tutte le ore”, è contornato da figure di fanciulle poste nelle più svariate posizioni: di profilo, con la mano su un fianco, fontalmente con i due avambracci sollevati, gambe dritte e schiena inclinata in avanti. Ognuna di esse ha una particolarità, che può riguardare capelli, mani, braccia e così via, che la distingue dalle altre. Al fondo della pagina è indicato il nome dell’artista. Anche Marie Claire 1951 è ricca di schizzi ed illustrazioni, naturalmente sempre affiancati da fotografie che restituiscono

“Lafayette photo-studio” L’attrice Lillie Langtry , 1899


Ilustrazione realizzata da Mela Koehler nel 1911. La modella indossa un esempio di tessuto “Bergfalter� creato da Koloman Moser, artista del gruppo Wiener Werkstatte molto legato a Gustave Klimt, rappresentante della Secessione Viennese. Insieme di artisti, designers e artigiani, la Wiener Werkstatte era stata fondata nel 1903 da Moser e dall’architetto Josef Hoffmann.

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Nella pagina accanto: illustrazione realizzata da Renè Gruau nel 1964 per Vogue. In questa pagina; fotografia scattata dietro le quinte prima di una sfilata da Neal Buonzi nel 1965.

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“Lafayette photo-studio” L’attrice Lillie Langtry , 1899

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un’idea molto più chiara della realtà. Per esempio, nelle prime due pagine dedicate al servizio di moda, da una parte del foglio sono posizionate due fotografie in bianco e nero: una modella che si sfiora il volto con la mano coperta dal guanto, situata davanti ad una porta finemente decorata, che indossa un elegante tailleur di Raphael, e un’ altra decisamente più seria, con lo sguardo rivolto verso il basso, collocata davanti ad una scalinata, che indossa un raffinato cappotto di Manguin.

Nella parte inferiore, sei piccole illustrazioni, anch’esse prive di colori, arricchiscono il foglio. Rappresentano, in maniera minimale, abiti simili a quelli rappresentati dalle fotografie sovrastanti, di Alwynn, Balmain, Fath, e altri noti stilisti dell’epoca. Le illustrazioni della pagina seguente sono leggermente più dettagliate: ad esse si aggiunge anche un minimo di colore turchese che le rende più realistiche. Un’illustrazione raffigurante quattro modelle alte e longilinee, ognuna con una propria posa ed una propria espressione, conclude il servizio. Già nel 1955 le illustrazioni di moda divengono molto più rare, quasi assenti. Nel servizio titolato Dalla A alla Z, (Grazia 1955), lo spazio è occupato da fotografie di modelle, generalmente primi piani, e schizzi di accessori e indossatrici, delle quali è rappresentato tutto il corpo, o un particolare di esso. Sia le fotografie che le illustrazioni sono in bianco e nero. La maggior parte dei disegni sono realizzati a matita o a china o ad aerografo. Rimanendo ancorate al disegno quando ormai si sarebbe potuto sostituirlo con l’immagine meccanica, le riviste di settore finivano per manifestare quella parziale sfiducia nella capacità della fotografia di sostituirsi pienamente all’immagine manuale. Si tratta di sfiducia parziale perché, come accadeva nell’arte, anche nella moda si riconosceva alla fotografia la capacità di documentare in modo puntuale e preciso il reale. Tra Ottocento e Novecento l’ingresso della fotografia nella moda avviene sulla falsariga di quanto accaduto e quanto ancora in atto, in quel momento, nell’arte. Non è un caso che i primi fotografi impegnati sulla moda, oltre che offrire materiale alle riviste, finiscano per passare immagini da copiare e da “Intensificare”


anche ai disegnatori e incisori, esattamente allo stesso modo in cui si faceva con i pittori per i loro quadri.103 Il primo atelier fotografico al quale si può riconoscere una certa sistematica attenzione al mondo della moda è stato quello condotto tra il 1850 e il 1860 da Charles Reutlinger e in seguito dal fratello Leopold. Si trattava, insieme a quello di Nadar, dello studio più noto e meglio frequentato fra quelli che a Parigi si occupavano di ritrattistica, a riprova del fatto che gli inizi della fotografia di moda erano strettamente intrecciati con la fotografia di ritratto, mutandone modalità e stilemi. Tra il 1880 e il 1890 l’atelier Reutlinger, oltre che lavorare direttamente su commissione dei clienti, avviò una produzione di cartoline postali e di album che avevano come protagoniste note attrici teatrali, signore del bel mondo, le prime modelle professioniste, tutte ritratte in sontuose toilettes approntate dai grandi sarti dell’epoca. Tutte queste immagini erano realizzate in studio, ma appaiono già più ricche e fantasiose di quelle standardizzate che utilizzavano per la ritrattistica ordinaria. L’impressione che se ne ricava è quella

di un primo tentativo di diffusione massificata del gusto, della proposta di un modello abilmente creato per piacere a tanti ed incontrare le richieste del pubblico. E’ da questo repertorio che gli artigiani prendevano spunto per realizzare quelle incisioni che, avendo come soggetto la moda, cominciavano ad apparire sui giornali del penultimo decennio dell’Ottocento, anticipando così la stampa diretta delle fotografie. Queste immagini, più che fotografie di moda, dovrebbero essere definite fotografie di gente alla moda, mancando in esse quella componente di presentazione del prodotto o del marchio che oggi riteniamo indispensabile per definire il genere. Numerosi furono gli studi parigini che realizzarono immagini per la moda. La produzione di tutti questi studi non appare così differenziata da poter individuare tra loro tendenze diverse: il denominatore stilistico è il medesimo. Comune è anche l’abitudine di intervenire manualmente sull’immagine perfezionandola e rendendola più gradevole, applicando la tecnica del “fotoritocco” oggi così diffusa e che allora, In questa pagina e nella pagina accanto, alcune illustrazioni che ho incntrato nelle riviste analizzate.

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Illustrazione di moda di Etienne Drian, realizzata tra il 1919 e il 1920 Nellla pagina accanto illustrazione in bianco e nero di Duglas Pollard

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mancando tutti gli strumenti digitali, poteva essere eseguita solo manualmente.104 La fotografia si lega quindi alla moda fin dai suoi stessi esordi, e ne diventa rapidamente lo strumento essenziale di promozione e propagazione. Sono proprio le riviste di moda, infatti, ad ospitare i primi ritratti fotografici dell’epoca ed è proprio

a queste che va riconosciuto il ruolo di più importante motore di diffusione della moda dalle capitali europee alle province; un fenomeno destinato a complicarne i cicli ed i processi. Anche in tempi più recenti, dopo essersi conquistata lo status di genere autonomo nell’ambito delle diverse arti fotografiche, la fotografia di moda continua a raggiungere il suo pubblico attraverso la rivista “di moda”, suo medium per eccellenza, e attraverso le immagini pubblicitarie. Il crescente ricorso alle foto è un fenomeno che nel corso degli anni Trenta interessa tutta la stampa ed in particolare quella fascista, visto l’ampio uso della fotografia nella propaganda di regime. Nell’ambito della stampa femminile l’abbondanza delle immagini fotografiche caratterizza soprattutto le riviste di consumo, sebbene cominci ad estendersi anche a quelle di impianto più tradizionale, per le quali l’introduzione delle foto si situa nel contesto di un più generale ripensamento della loro impostazione, nell’intento di soddisfare le nuove richieste delle lettrici.105 Superate le austerità della seconda guerra mondiale, l’immagine femminile risorge a nuova vita nel 1947 con il New Look di Christian Dior: il centro creativo della moda rimane l’intramontabile Parigi, ma i grandi fotografi si trovano ora a New York dove lavorano George Hoyningen- Huene, Horst Paul Horst, e Toni Frissel. A partire da questo decennio i nomi dei fotografi diventano sempre più noti. La promozione ed il successo dei marchi importanti sono dispesi negli ultimi cinquant’anni in maniera determinante dall’abilità del fotografo di individuare di volta in volta temi, motivi, suggestioni, a cui la moda potesse ancorare la sua seduzione. Ed è proprio grazie a questo potentissimo mezzo di comunicazione che le case di moda sono state in grado di affermarsi in un


contesto sempre più globale, “ingraziandosi” o “oltraggiando”, a seconda dei casi, un pubblico sempre più vasto. Adeguandosi alla recente tendenza della moda, della pubblicità in genere, a fagocitare tutti i campi della vita sociale, eccedendo così in maniera manifesta il campo vestimentario ed i luoghi comuni della relazione tra abito e mondo, la fotografia di moda è diventata oggi un genere largamente contaminato ed intertestuale, profondamente intriso da altri media, e da altre forme di espressione (dal cinema, alla fotografia giornalistica, fino alla pittura, oltre che da strategie testuali genericamente definite come “postmoderne”, quali l’uso del collage, dell’allusione, o della citazione con o senza virgolette.) Il transito dal ritratto fotografico alla fotografia di moda in senso attuale va ricercato in due importanti passaggi: - l’introduzione sempre più massiccia delle immagini nella comunicazione di moda, tale da richiedere una continua variazione e diversificazione delle proposte; - la narrativizzazione della fotografia, resa possibile anche da innovazioni di tipo tecnologico, che hanno permesso una ricerca sempre più accurata e variegata di scenari e sfondi entro i quali abiti e corpi possono ancora essere rappresentati nei modi più disparati per dare il via a veri e propri racconti di moda. E’ proprio attraverso questi racconti del quotidiano che la moda costruisce i suoi possibili fruitori, i suoi destinatari “modello”, ed esercita in maniera più mirata il suo potere di seduzione. In questo modo la fotografia diviene nella sua complessità discorso, e si configura come un tassello fondamentale di quello che Davis nel 1992 chiama “processo della moda”, intendendo con questo termine i rapporti di interazione e sinergia tra

soggetti ed istituzioni coinvolti nella creazione, e promozione del consumo della moda. Nel contesto di tale processo la fotografia diventa il più efficace strumento di mediazione fra chi fa la moda e chi la adotta e personalizza. Così Lieberman spiega la rapida evoluzione della fotografia di moda nel corso dell’ultimo settantennio: dalla semplice rappresentazione dell’abito si è passati alla rappresentazione di un modello di donna. L’immagine di moda spesso non è altro che l’immagine della donna. L’importanza e la legibbilità dell’indumento vanno via via scemando: l’abito quasi scompare, diventando un tratto secondario nell’immagine. In questi anni sono usati ancora molto raramente effetti fotografici quali la sfocatura, il mosso, la deformazione, considerati errori

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o virtuosismi stilistici da laboratorio. Se negli anni Cinquanta era ancora molto usata la diapositiva, capace di rendere nitidi i dettagli, si è passati sempre più frequentemente all’uso del negativo, sempre più spesso trattato con procedimenti chimici che ne alterano toni, intensità e grana. Il testo parola invece, con il passare degli anni, ha assunto una funzione denotativa e descrittiva. Il veicolo dell’immaginario femminile di moda sarà sempre più la fotografia mentre la parola scritta assumerà sempre più una funzione gregaria.

Jill Kennington, fotografia di John Cowan, 1963.

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IL CORPO-PARLANTE DELLA DONNA NELLA FOTOGRAFIA DI MODA Il corpo rivestito Quando si parla di moda, si parla necessariamente anche di corpo, dei corpi che questa moda riveste: il “corpo rivestito” è un soggetto “un processo” che si costruisce attraverso l’aspetto visibile, il suo essere al mondo, il suo stile e le sue apparenze. In questa accezione il corpo è inteso come una performance, cioè come una costruzione sempre aperta dell’identità materiale, come dimensione mondana della soggettività. Questa concezione tiene conto di come nelle società occidentali precise regole e gerarchie abbiano costruito il corpo umano come sede di relazioni e di potere, ma non contrappone a questa realtà una visione “corporalista” che concepisca il corpo come la sede di innate energie e pulsioni da liberare nella loro “nudità”. L’immagine del “corpo rivestito” ci mostra un corpo le cui potenzialità di sottrarsi alle gerarchie e ai discorsi sociali che lo riducono a oggetto e strumento di conoscenza stanno tutte nella capacità ironica, parodica e grottesca che il corpo ha di non lasciarsi contenere in “abiti di contenzione” e di entrare in relazione autentica con altri corpi. Il corpo rivestito è pertanto un corpo in cui assumono profondo valore le aperture, la confusione dei segni e le intersezioni fra i discorsi.108 Il corpo femminile è messo in scena sul teatro della rappresentazione quotidiana, principalmente attraverso tre cerchi concentrici: in successione variabile abbiamo il cerchio corporale, il cerchio

del vestiario ed il cerchio del focolare.109 Man mano che apprendono come gestire lo spazio della loro femminilità, le donne contribuiscono ad invertire la scala dei valori tradizionalmente attribuita dal galateo al rapporto coro-abito, dando maggior importanza al cerchio corporale, a discapito di quello domestico. Il vestiario tende a perdere il proprio significato cerimoniale ed il corpo, liberato, può esprimere appieno i valori dell’identità personale, naturale e sessuale. La stampa di moda rappresenta un fenomeno di grande rilevanza nel processo di transizione da un’era all’altra del vissuto corporale: dai secoli in cui al corpo e al vestiario era riconosciuta una semplice funzione di ornamento e di teatralizzazione, al tempo della liberalizzazione delle apparenze. Compiutosi tale processo il corpo non si configura più come manichino del vestiario, ma come luogo di riferimento nella semantica delle mode.110 Tuttavia il concetto di bellezza veicolato da questa stampa, come traguardo da conquistare attraverso la centralità del corpo e dell’abito, risentirà per molto tempo dei limiti imposti dall’ideologia cattolica, con la sua colpevolizzazione del corpo e del suo linguaggio seduttivo.111 Il discorso della moda si presenta spesso come presunta naturalità del corpo, ma proprio perché il vestire espone il corpo ad una metamorfosi sempre possibile, la moda della nostra epoca si è concessa di “raccontare” questa metamorfosi,

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sue dinamiche interattive), quanto in quella sociale (funzione simbolica del corpo e delle sue estensioni: ornamenti, abiti, strumenti).113 Il corpo, l’esperienza corporea, attraverso la quale noi interpretiamo i fenomeni, anche quelli più complessi e astratti, riducendoli ad esperienze basilari, come quelle del piacere o del dolore, svolge un ruolo fondamentale nella fotografia. E’ proprio lo schema corporeo, la stilizzazione che noi facciamo di noi stessi, a sottendere una serie infinita di concetti, siano essi case, abiti o utensili di ogni genere. Il corpo recuperato dalla fotografia è un corpo-parlante, non un semplice corpopresenza, ecco perché, rispetto al fenomeno moda, dobbiamo ritenere il mezzo in grado di svolgere un’attività costitutiva e non solo documentativa.114

Flying Hight (1966), fotografia di John Cowan

La mimica corporea

di raccontare in qualche modo se stessa, ostentando, insieme ai suoi segni esteriori, anche i procedimenti culturali, a volte perfino tecnici, che hanno generato quei segni. Il corpo percorso dalla discorsività di cui abiti e soggetti sono intrisi è un corpo esposto alla trasformazione, all’apertura grottesca verso il mondo, un corpo che potrà sentire e gustare ciò che anche il mondo sentirà e gusterà, se solo riuscirà a lasciarsene attraversare.112 Il corpo, i media e la fotografia Estendendo e dilatando la visibilità del corpo, i media hanno esteso e dilatato le possibilità di osservazione e interpretazione, esposizione e ostensione del complesso sistema di segni che è rappresentato dal corpo, tanto nella sua dimensione biologica (fisiologia del corpo e

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E’ sufficiente osservare la posa, lo sguardo, la bocca delle modelle: alcune sorridono, altre sono serie, talune volgono lo sguardo all’osservatore, altre altrove. Secondo il mio parere, molto significative sono tre fotografie, conseguenti l’una con l’altra, che occupano due pagine di Amica, le prime due in bianco e nero, la terza a colori: Immagine 1: due indossatrici sono affiancate, si osservano, sorridono, si divertono, rimandando l’osservatore ad un’atmosfera di diletto, svago e distrazione. Una di esse ha le gambe leggermente divaricate e le mani dietro la schiena, l’altra i piedi uniti e le mani lungo i fianchi, in una posa che appare molto più naturale. Entrambe le postazioni rendono bene l’dea della staticità delle indossatrici. Probabilmente non sono state fotografate insieme ma affiancate in postproduzione. Immagine 2: anch’essa in bianco e nero,


raffigura una modella, con indosso un cappotto sportivo, le mani in tasca e le gambe leggermente divaricate. L’elemento significativo della sua mimica corporea è lo sguardo, volto verso un punto indefinito alla sua sinistra, che le attribuisce un’espressione sognante, di desiderosa volontà di raggiungere quel punto così lontano. La posizione del suo corpo mi pare più naturale rispetto alle modelle della prima immagine. Il background della fotografia è di difficile comprensione. L’esperienza dominante è in tutti questi casi il piacere. Immagine 3: può essere considerata l’elemento forte della pagina, quello che maggiormente attira l’attenzione della lettrice, soprattutto per l’uso dei colori. Altro elemento significativo

è lo sguardo, questa volta rivolto dritto verso l’osservatore. E’ sensuale, provocante e lussurioso, come lo è tutto il corpo della modella: gambe accavallate, mani in tasca, fianco sinistro appoggiato al muro e un sorriso appena accennato, invitano la lettrice ad immedesimarsi in quella donna sexy e così elegantemente vestita. Tutte le riviste, soprattutto quelle degli anni Sessanta, nelle quali spesso le fotografie sono a colori, sono ricche di esempi di tal genere.

Pagine interne della rivista “Amica”.

Secondo Marshall McLuhan l’abbigliamento è “un’estensione della nostra pelle”, non solo per la sua funzione pratica di copertura e di protezione, ma perché il corpo vi imprime la sua impronta psicocomportamentale.

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La fotografia ha proprio la capacità di restituire i gesti e gli atteggiamenti, quindi tutto quello che va perso per l’assenza del corpo fisico può essere recuperato nel corpo virtuale proposto dalla fotografia. Dalla rappresentazione tradizionale di situazioni mondane e di socialità, come i contesti tradizionali della valorizzazione dell’abito e del corpo, l’obbiettivo è andato sempre più restringendosi sul volto, sui singoli gesti, su pose del corpo che si sono così caricate di significati plurimi diventati segni più o meno codificati di stati d’animo o di modi di essere. Nelle riviste analizzate, sono frequenti i primi piani, nei quali compare solo il volto della modella, e talvolta parte del busto, soprattutto nei servizi dedicati ai cappelli, al trucco, o alle acconciature. Un esempio è il servizio “Col cappello da mattina a sera”: la stessa modella è ritratta in più fotografie, in ognuna delle quali assume una mimica facciale differente, ma sempre rivolgendo lo sguardo sensuale verso l’osservatore. Lo sfondo è neutro, proprio per permettere all’attenzione di focalizzarsi sulla modella stessa. Nel suo connubio con la moda la fotografia ha inoltre ricodificato il rapporto tra corpo nudo e corpo rivestito, e si è fatta carico, in maniera sempre più marcata negli ultimi anni, di ridefinire la “maschilità” e “la femminilità” proprio a partire da una sorta di riscrittura del corpo e delle relazioni fra corpo e vestito. Negli anni Cinquanta sono del tutto assenti fotografie che ritraggono corpi nudi, così frequenti e diffuse nei giorni attuali. Cominceranno a comparire nei primi anni Sessanta donne dalle gonne più corte, con l’ombelico in vista, o la schiena nuda. Ad esempio, nel servizio di Marie Claire dedicato alla moda al mare, molte sono le fotografie di

In questa pagina, nel 1960, Sophia Louren indossa un completo intimo molto sexy ed un vistoso cappello. Nella pagina accanto: nella rivista Grazia 1955. la stessa modella assume diverse espressioni facciali.

modelle in costume, o che indossano la minigonna da poco introdotta nel campo della moda da Mary Quant. Come osserva Svendsen, “L’identità è uno dei concetti chiave nella descrizione della funzione della moda. Si suppone infatti che la moda debba contribuire alla formazione dell’identità, ma in misura preponderante è importante una progettazione del corpo: il fisico tende sempre di più a diventare elemento fondamentale per la comprensione della propria identità.”115 soprattutto da quando iniziano a diffondersi nel mondo della moda abiti che lasciano il corpo sempre più scoperto. La narrativizzazione delle fotografia di moda Ho accennato precedentemente alla narrativizzazione della fotografia di moda, come risultato di operazioni semiotiche che

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mettono in rapporto di significazione segni vestimentari e altri segni, primi fra tutti i segni attualizzati dal corpo: è sempre più incisivo il ruolo via via assunto dalla modella, configurabile nella sua intera performance come segno divenuto nel tempo capace di interpretare anche in autonomia il senso della moda. Ciò rende necessario rivedere in chiave attuale il modo in cui Barthes nel 1967 impostava il problema della modella, parlando di essa come di un’unione paradossale tra astrazione e individualità, come di un corpo-struttura completamente asservito all’abito, intravedendo però già allora l’insostenibilità di questa condizione: “[…] sembra che la rivista di Moda provi uno scrupolo crescente ad accettare così com’è l’astrazione della cover-girl: la vediamo fotografare sempre più il corpo “in situazione”, cioè aggiungere alla rappresentazione pura della struttura una retorica di gesti e di espressioni destinata a dare al corpo una versione empirica.”116. Se negli anni Cinquanta le pose delle modelle erano ancora molto plastiche, con il trascorrere degli anni divengono più naturali, le indossatrici appaiono più “spavalde” e meno fredde: non sono più dei rigidi manichini che assumono la posizione dettatagli dal fotografo, ma sono donne, a cui, come alle lettrici, piace essere belle e ben vestite. Esemplificativo è il servizio “La reginetta del guardaroba”, (Marie Claire 1951): la stessa modella in ogni fotografia ha la medesima espressione facciale: sguardo rivolto in alto e sorriso malizioso, in pose assai innaturali. La relazione tra corpo e genere nella fotografia di moda si gioca su diversi fronti. I corpi attualizzano reti di significati complesse e pluristratificate a partire dal volto, dalla mimica facciale, dai gesti, dalle posture, dai movimenti dalle dinamiche dello sguardo, come specificità fotografica

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nella rappresentazione del desiderio e dei rapporti di potere. Alcune modelle, le più seducenti, volgono lo sguardo dritto all’osservatore, altre verso un punto indefinito, altre ancora lo orientano in basso, e così via. I codici della rappresentazione fotografica, come la luce, la messa in quadro, la modulazione della distanza, l’angolazione ecc., sono chiamati in causa in diversi modi al fine di rappresentare il genere sessuale attraverso il corpo: è sulla base di questi codici che si enfatizzano alcuni aspetti del corpo rispetto ad altri, oppure si valorizza il corpo come un tutt’uno. Krauss, mostra, per esempio, come, la fotografia di moda degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche quella attuale, si concentri in maniera particolare sulle estremità del corpo, trasformandole in zone erotiche.117 La costruzione dei segni inoltre si realizza attraverso quella che Greimas e Courtès chiamano “spazializzazione del corpo”118, cioè attraverso la relazione tra corpo e spazi, contenitori o sfondi, ricchi a loro volta di segni, marchi e tratti di genere. La fotografia di moda realizza questo genere di significazione in modi che diventano sempre più disparati con il passare degli anni, e facendo sempre più riferimento a diverse maniere di concepire lo spazio: interno, esterno, reale, irreale, non referenziale, artificiale ecc. Il “background” del corpo Nelle riviste anni Cinquanta predomina lo sfondo neutro, come a pagina 15 di Grazia 1949, in cui le indossatrici sono circondate da un background colorato ricco di sfumature. Frequenti sono tuttavia anche le ambientazioni in città: una raffinata strada di Parigi, un portone finemente decorato, una lussuosa scalinata o una via ricca di alberi fioriti, sono sfondi più che adatti alla rappresentazione


di quell’eleganza che ancora domina la moda di questi anni. Negli anni Sessanta divengono invece più frequenti sfondi esotici: spiaggia, mare, barche, palme e alberi da frutta dominano le fotografie di moda di quasi tutte le riviste. Come sostiene Barthes nel “Sistema della moda”, “nella fotografia di Moda il mondo è ordinariamente fotografato sotto le speci di uno scenario, di uno sfondo o di una scena, insomma di un teatro. Il teatro di Moda è sempre tematico: un’idea (o più esattamente una parola), è variata attraverso una serie di esempi e analogie.[…]. La risorsa degli insiemi significanti è un procedimento molto rudimentale: l’associazione di idee, Sole chiama cactus, notti nere chiama statue di bronzo, mohair chiama pecore, pelliccia chiama belve, e belve chiama gabbia: si mostrerà una donna impellicciata dietro grandi sbarre. […]. Il teatro può mirare al poetico nella misura in cui “poetico” è associazione di idee; la Moda cerca allora di manifestare delle associazioni di sostanze, di stabilire delle equivalenze plastiche o cenestesiche: assocerà per esempio a maglia l’autunno, i greggi di pecore, il legno di un carretto contadino; in queste catene poetiche il significato è sempre presente, ma diffuso attraverso una sostanza omogenea.[…]. La moda dispone di tre stili. Uno è obbiettivo, letterale: il viaggio è una donna curva su una carta stradale; visitare la Francia è appoggiare il gomito su un vecchio muro di Albi; la maternità è sollevare una bambina e baciarla. Il secondo stile è romantico, muta la scena in dipinto: la festa bianca è una donna bianca davanti ad un lago cinto da prati verdi in cui nuotano cigni (apparizione poetica). La notte è una donna in abito da sera bianco, le braccia attorno ad una statua di bronzo. Il terzo stile della scena vissuta è la parodia; una donna è colta in posizione buffa o meglio buffonesca: la sua posa, la sua mimica, sono eccessive, caricaturali; divarica le gambe

in modo esagerato, mima lo stupore fino alla smorfia, gioca agli accessori fuori moda, si issa su un vecchio basamento come una statua, ammonticchia sei capelli sulla testa, ecc.: in breve si fa irreale a forza di parodia: è lo “strambo”.119 “Lo strambo” Nel corso della sua storia la fotografia di moda ha consolidato la sua specificità articolando il corpo femminile in gesti e movimenti e pose ricorrenti. Alla fine degli anni Sessanta essa aveva trovato in quello che Barthes chiamava “lo strambo” di moda un codice importante per la rappresentazione del corpo femminile, che trovava espressione in posizioni improbabili, movimenti poco coordinati, effetti di trompe-l’oleil volti ad attualizzare l’aspetto giocoso della moda.120 Anche Goffman identifica nel corso della sua ricerca sulla pubblicità alcuni tratti fissi di femminilità rinvenibili anche nelle foto di moda, come per esempio il corpo clownesco o altre configurazioni che obbediscono allo scopo di trasformare il corpo femminile in forma decorativa. La rappresentazione del corpo e dell’abito femminile come lettera è tra le configurazioni più ricorrenti e tradizionali. Esempio assolutamente significativo è la fotografia di Stephane Tavoularis (Grazia 1955), che raffigura una modella che indossa un bellissimo tailleur della linea A di Christian Dior: tale lettera è richiamata in modo assolutamente chiaro dalla posizione del corpo della modella stessa: esso, grazie alla forma degli abiti di questa linea, è molto stretto all’altezza delle spalle, e si allarga procedendo verso il basso. Questo allargamento progressivo è accentuato dalle gambe divaricate della modella. La stanghetta centrale della lettera è richiamata dall’ombrello che ella tiene in

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Le “bambole di porcellana”

mano orizzontalmente all’altezza della vita. Alcune pose sono stabilmente codificate nella fotografia di moda, tra cui il puntare i piedi (in gergo “floppy doll”, e le gambe divaricate, una delle posizioni che più frequentemente ho incontrato). Alle pose si aggiungono espressioni facciali ricorrenti che danno vita ad una costellazione fissa di ruoli femminili: la donna riflessiva, la donna enigmatica, la donna infantile. Con una tendenza solitamente ironica e parodistica, spesso sottolineata dall’irrealtà degli scenari o da elementi grotteschi, come la rigidità della posa o il contrasto fra gestualità e mimica facciale, o la disarmonia fra corpo e abito, la fotografia di moda mette in scena donne perfette, magroline e solitamente alte. A differenza del cinema che può lavorare sulla durata, cioè sulla resa della dimensione del tempo, la fotografia deve dare spessore e profondità fissando un attimo. Da qui l’importanza che nel ritratto fotografico ha il sistema di relazioni che si stabilisce tra un corpo, il volto ed il suo contesto.121

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La rappresentazione del corpo umano dal punto di vista della sua plasticità, e della pelle come superficie levigata, è stato un tema dominante nella fotografia di moda. Tutte le modelle che osserviamo nelle riviste hanno una pelle perfetta, che le fa sembrare delle “bambole di porcellana”. L’insistenza sul motivo della pelle levigata e perfetta (anche per quanto riguarda le pubblicità di creme e prodotti per la pelle e per il viso così diffuse in questi anni), ha rinforzato la relazione stretta tra moda e sensazioni corporee, trasformando l’essere alla moda in emozione e in significato “timico”, nel senso di Greimad e Courtès122, che emerge cioè dalla categorizzazione delle percezioni di base, come il piacere ed il dolore. La tematizzazione indistinta della pelle, porta al delinearsi di un corpo al di là delle fattezze umane, evanescente e inorganico. Questo effetto di pelle perfetta e levigata, non esistendo ancora tecniche di postproduzione fotografica digitali, veniva effettuata tramite il procedimento dell’aerografia, del quale parlerò in seguito. Sto anche facendo riferimento ad un’epoca in cui la donna, prima di rimuovere il trucco dal suo volto e sciogliersi i capelli, aspettava che il marito si addormentarsi, per poi svegliarsi un ora prima di lui e farsi trovare perfetta. Anche l’acconciatura delle modelle è sempre inappuntabile: non hanno un capello fuori posto e sono rarissimi (nelle mie riviste non ne ho incontrati) i casi in cui hanno i capelli liberi al vento, e non raccolti in elaborate acconciature.


Queste tre fotografie ritraggono la stessa modella con tre diverse espressioni facciali, evidenziando come la mimica del volto e del corpo possono incidere sulla percezione degli abiti. Le espressioni facciali ricorrenti danno vita ad una costellazione fissa di ruoli femminili: la donna riflessiva, la donna enigmatica, la donna infantile.

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Alberta Tiburzi, fotografia scattata da Hiro, usata come copertina di Hrper’s Bazaar nel 1967.

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LE SCRITTURE DELLA MODA

Il linguaggio scritto e l’immagine Quante e quali erano, e continuano ad essere, le scritture della moda? Secondo Quintavalle se ne possono identificare almeno quattro:123 1- la moda disegnata, “che è il livello progettuale della moda”. 2- la moda fotografata, “un procedimento di scrittura, anzi un enorme dizionario di possibili scritture, un universo di segni”. 3- il discorso letterario sulla moda, che implica un “allargamento della problematica ad una complessa lettura dei rapporti tra modo di vestire e costume”. 4- la moda portata, “che è il momento delle proiezioni dei miti dei singoli, dei singoli procedimenti, a livello di scelte dei singoli, in relazione all’immaginario collettivo”.124 Oggetto della mia attenzione sarà dunque il rapporto fra le fotografie e illustrazioni di moda di cui precedentemente ho parlato, ed il testo didascalico. Sono nuovamente costretta a richiamare lo studio di Roland Barthes. Nel caso della moda è possibile scindere due sistemi, quello reale (o visivo) e quello scritto, cioè quello della moda scritta o più precisamente descritta attraverso la stampa. Barthes attribuisce tre funzioni al linguaggio scritto rispetto all’immagine: - Immobilizzazione dei livelli di percezione: ovvero la capacità, di fronte all’immagine di un abito, di farne percepire solo questo e/o quel dettaglio. Il giornale traduce una scelta e la impone: ordina di arrestare a questo punto la percezione di questo abito, ne fissa il livello di lettura al tessuto, alla cintura, all’accessorio che lo orna: “Apostrofe si chiama questo abito che

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è l’espressione più estrema della linea “A” di Dior. Di lana blu marina, ha la cintura sotto il seno e le tasche tagliate molto basse, con effetto di allungamento del busto, Le maniche sono assenti, la scollatura è modesta” (Grazia 1955): questa didascalia fissa la percezione sulle spalle, sulla cintura e sulla scollatura. Funzione di conoscenza: la capacità, di fronte all’informazione incompleta data dalla fotografia di un abito, di rivelarne questo e/o quel dettaglio, altrimenti nascosto o indecifrabile: il colore di un tessuto, come accade spesso nelle riviste di questo ventennio (essedo la maggior parte delle fotografie ancora in bianco e nero), la classe di un dettaglio inaccessibile alla vista, (bottone fantasia, paint mousse), l’esistenza di un elemento nascosto in virtù del carattere piatto dell’immagine. Funzione di enfasi: la capacità di “duplicare certi elementi dell’indumento ben visibili in fotografia”. E’ la parola che ha una funzione di enfasi; la fotografia presenta un indumento di cui nessuna parte è privilegiata e si consuma come un insieme immediato: ma da questo insieme il commento può estrarre certi elementi per affermarne il valore: “in lana blu-viola. Il tailleur ha la giacchetta a sacco chiusa da due bottoni a spirale”: si pone l’enfasi sui bottoni e sulla forma “a sacco” della giacchetta.

Il testo, la parola, la didascalia. Nella rivista di moda appaiono due tipi

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Marisa Berenson indossa abiti di Jersey, nella foto scattata da Arnaud de Rosnay nel 1968

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di indumenti diversi: il primo è quello presentato in fotografia o disegno, un indumento-immagine, mentre il secondo, sebbene si tratti sempre di quello precedente, è descritto dalle parole, ed è perciò un indumento-scritto, trasformato in linguaggio. Così, mentre nel primo i materiali sono forme, linee, colori e superfici, nel secondo sono parole. La prima è una struttura plastica o iconica, la seconda sintattica o verbale. Nel rapporto con questi l’indumento reale rappresenta una terza struttura del tutto diversa, che funge da modello alle prime due che ne sono la traduzione. L’indumento reale è gravato da finalità pratiche (protezione, pudore e ornamento), che scompaiono una volta che viene rappresentato nella rivista di moda. Il giornale è paragonato ad “una macchina per fare moda”.125 Ogni descrizione di un indumento è subordinata ad un certo fine, che è quello di manifestare, o ancora meglio di trasmettere, la Moda.126 Le funzioni dell’atto linguistico Inoltre l’atto linguistico può perseguire tre diverse funzioni: - La funzione emotiva: comunica lo stato del mittente. Nella rivista di moda questa funzione è orientata sul produttore, mira cioè a comunicare sensazioni reali o fittizie Negli anni Cinquanta e Sessanta si incontra soprattutto a livello didascalico: “Prima mi sono innamorata dei nuovi pizzi, e dopo la tentazione è stata la versione romantica del mio solito body da ginnastica, ma lo confesso: ogni tanto tradisco seta ecc. per una lingerie sportiva.” - Funzione conativa: comunica l’influenza che si vuole esercitare sul destinatario. Hanno funzione conativa soprattutto gli atti linguistici perlocutivi, cioè

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quei testi che richiedono a chi riceve di fare o dire qualcosa. Nelle riviste di moda questa funzione si esprime soprattutto attraverso l’uso di imperativi ed evocativi verbali: “Il pull melange si indossa per contrasto sulla gonna in tweed” (Grazia), oppure il titolo: “170 idee per non sbagliare regalo” Funzione referenziale: descrive il contesto, orientando la comunicazione verso lo stato di cose a cui il testo fa riferimento. Consiste nella denotazione di cose reali. A questa funzione è legato il concetto di natura iconica del segno, per cui una frase raffigura nei suoi elementi il fatto che descrive. “Tailleur rigato Christian Dior, cappello in paglia Balenciaga; paltò di velluto Fath”. Il messaggio è neutro. Funzione metalinguistica: rimanda al codice, con essa l’atto comunicativo chiede di soffermarsi sulla forma, sul dominio di significati e regole grammaticali che costituiscono il segno. E’ il linguaggio che descrive se stesso. Funzione fatica: garantisce l’apertura del canale, è una sollecitazione da parte del mittente ad attivare o mantenere l’attenzione verso il messaggio. Hanno questa funzione gli elementi grafici, come il carattere, l’impaginazione, il colore, i simboli e le immagini. Nel testo di moda non ci sono riscontri di un utilizzo particolare di questa funzione. Funzione poetica: è orientata sul contesto, dirige i senso della comunicazione verso il messaggio ed i giochi formali che lo realizzano. Nelle riviste di moda ha il compito di attirare il lettore sulla forma, piuttosto che nei contenuti espressi. Questa funzione si usa nei titoli e nei sottotitoli, mentre risulta quasi assente nelle didascalie: “Lampi di vernice” (Grazia), “L’anima sensuale del rigore maschile” (Marie Claire), “Bianco e nero a colori” (Grazia).


La narrazione Tuttavia, è impossibile una classificazione tipologica esaustiva della scrittura di moda, perché essa può mostrare di volta in volta le caratteristiche di diversi modelli, senza alterare la sua struttura sistemica interna. Questo avviene perché il messaggio trasmesso può manifestarsi attraverso un canale (il supporto cartaceo) dotato di caratteristiche globali proprie ma fortemente scomponibile e differenziabile nel suo interno da un succedersi di microtesti a se stanti, caratterizzati da differenti funzioni linguistiche. Si distinguono inoltre due tipologie di narrazione: la narrazione naturale, che chiede al destinatario di concedergli la fiducia, e, in cambio, gli promette di raccontare la verità, stabilendo un patto referenziale. La narrazione artificiale, che chiede al destinatario di far finta di credere a ciò che viene raccontato, stabilendo così una sospensione dell’incredulità. Questo tipo di testo ha ben precise caratteristiche (gli interrogativi barthesiani a cui è sottoposta la “portatrice di moda”)127 che si presentano, nei contenuti, come la risposta alle seguenti domande: Dove? Il luogo ideale della moda è rappresentato esclusivamente dalle diverse occasioni mondane (teatri, ricevimenti, luoghi esotici, ufficio, pranzo a casa, shopping pomeridiano ecc. ) - Quando? Il tempo ideale è rappresentato da vari momenti della giornata e dell’anno, ad esempio “Le tiepide giornate autunnali”, o “Le fresche mattine primaverili”. - Cosa? E’ presente un rapporto armonico e solidale con il mondo circostante, al quale ci si rapportava non secondo la realtà ma secondo il principio di piacere. - Chi? La protagonista è una donna

generalmente casalinga, che ha molto tempo libero, ma allo stesso tempo deve occuparsi delle faccende domestiche. E’ appagata dai suoi desideri e distante dalle sue angosce. Il rapporto testo-immagine La fotografia dell’indumento, cioè del significante di moda, pone secondo Barthes dei problemi di metodo che ne hanno reso difficile l’analisi. Bisogna considerare che la fotografia di moda non riguarda solo i suoi significanti, ma sempre più spesso anche i suoi significati. In essa il mondo, come precedentemente visto, è presentato sotto forma di scenario, di uno sfondo sempre tematico: un’idea è variata attraverso una serie di esempi e analogie. Un vero e proprio teatro, che può assumere due differenti toni: - Poetico, fondato sull’associazione di idee, in cui la moda cerca di manifestare associazioni di sostanze, equivalenze plastiche o cinestiche. Il significato originale è sempre presente, ma è diffuso attraverso una sostanza omogenea. - Divertente, fondato sull’associazione di parole. Il giornale inserisce un indumento in atto, usando tre differenti stili: obbiettivo, romantico, parodico. Questi protocolli hanno il compito di creare una certa enfasi, in modo che l’irrealtà del significato/ mondo metta in luce il significante/ indumento. Il mondo, tutto ciò che non è l’indumento, è dunque liberato da ogni naturalismo in modo che di plausibile resti solo l’indumento. Anche se le strategie comunicative cambiano da prodotto a prodotto, si possono tratteggiare alcune costanti generali nel modo di presentare i capi vestimentari sulle riviste di moda: ci sono da una parte gli scopi dell’enunciatore (far vedere il capo

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“Le modelle sono pronte per il ballo�; tre modelle, in una stanza buia, indossan abiti di tulle. Fotografia di Horst P. Horst, 1942

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vestimentario, valorizzarlo in senso sociale, dare istruzioni per il suo uso) e dall’altra gli abiti di valorizzazione del capo vestimentario (i rapporti con il corpo, funzionalità, valori simbolici). Partendo da questa distinzione si possono individuare tre parametri relativi al vestito, ossia valori di base, che poi saranno veicolati sulla base delle scelte dell’enunciatore:

1- Schema corporeo: a) enfasi sul corpo vs enfasi sul vestito b) adeguazione del vestito al corpo: rapporto armonico vs conflittuale c) attribuzione di qualità estetiche al corpo attraverso il vestito e viceversa. 2- Funzionalità: a) possibilità dinamica vs rigidità b) facilitazione dei compiti vs impedimento 3- Simbolia: - Capacità di veicolare i contenuti vs asimbolia. - Identità individuale vs armonia personale. - Identità sociale vs armonia sociale. Esistono dunque numerosi programmi narrativi dell’immagine di moda: - Mostrare il capo vestimentario - Illustrare le caratteristiche del prodotto - Suggerire istruzioni per l’uso del prodotto - Valorizzare il senso estetico - Valorizzare il senso individuale - Valorizzare il senso sociale - Naturalmente la gerarchia tra tutti questi programmi narrativi dell’immagine di moda varia da rivista a rivista. Una tripartizione dell’immagine di moda Si può inoltre individuare una tripartizione dell’immagine di moda su tre livelli:

1- Livello della presentazione del prodotto: a questo livello il problema è in che misura la singola immagine o l’intero servizio fotografico siano centrati sul prodotto vestimentario. Sempre più spesso accade che il vestito sia un aspetto in qualche modo marginale rispetto all’organizzazione discorsiva generale: in questo caso si ha una forma di valorizzazione indiretta. Essendo l’enfasi posta su altri elementi, i valori della funzionalità o del rapporto vestito/corpo decadranno a favore di altri elementi capaci di veicolare un messaggio. 2- Livello dell’organizzazione narrativa del testo: dal punto di vista dell’organizzazione narrativa di un testo, si può considerare come grado zero un capo non indossato, fotografato su uno sfondo neutro o assente. Se il capo viene indossato, alle caratteristiche del prodotto si aggiungono le infinite determinazioni semantico narrative insite nella tipologia dei modelli (sesso, razza, età, celebrità) e nella loro gestualità. La valenza espressiva dei modelli che indossano gli abiti è dunque legata a considerazioni fisionomiche, prossemiche (uso comunicativo dello spazio) e gestuali che hanno il loro punto di riferimento nel saggio di Greimas sulla semiotica del mondo naturale, in cui il corpo umano è descritto secondo alcuni parametri:128 - Orientamento: riferito alle coordinate spaziali del corpo in se; - Sostegno: riferito al contatto/non contatto del corpo con gli elementi circostanti - Spostamento: riferito alla mobilità/ immobilità del corpo - Articolazione morfologica: riferito al rapporto tra le parti del corpo. Ciascuna di queste determinazioni

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espressive veicolerà all’interno dell’immagine di moda, diverse forme del contenuto. Anche la gestualità contribuisce in modo decisivo al tenore della comunicazione visiva. Parafrasando Merleau-Ponty (per il quale anche la parola è un gesto) potremmo dire che il capo d’abbigliamento, data la sua stretta connessione con il corpo abbia in se stesso una valenza gestuale.129 L’incremento dell’articolazione narrativa nell’immagine di moda avviene inoltre attraverso l’allestimento di sfondi progressivamente riconoscibili, dal flou appena distinguibile a scene naturali, cittadine o domestiche più nitide e caratterizzanti. Ci può essere poi l’inserimento di elementi cronologici, stagionali, climatici identificabili e la rappresentazione di due o più modelli in interazione tra loro, in genere con lo scopo di dare istruzioni sull’uso sociale del capo. Il grado massimo di articolazione narrativa è costituito dalla presenza di veri e propri intrecci, magari supportati da brevi testi scritti. In quest’ultimo caso l’immagine di moda eredita tutto il corredo semantico dal genere narrativo a cui fa riferimento. In genere, questo grado di articolazione aumenta con l’aumentare dell’importanza del parametro simbolia del capo vestimentario o con la necessità di illustrarne dettagliatamente i contesti d’uso. 3- Livello delle strategie comunicative: su questo livello di analisi si collocano tutti gli elementi di un’immagine di moda che rimandano al rapporto comunicativo fra enunciatore/enunciatario ed al contesto di enunciazione-produzione: ovvero i riferimenti al redattore e al lettore della rivista, ma anche al produttore e al fruitore del capo vestimentario. Ci possono dunque essere riferimenti al contesto di produzione del capo (telai, sartorie, fasi intermedie della confezione)

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o al contesto della sua comunicazione (bozzetti, cavi e attrezzi da sala di posa). Tra le strategie di valorizzazione del contesto comunicativo la più usata è quella dell’attualizzazione del contratto comunicativo con il lettore modello; i modelli, mediante lo sguardo in macchina, istituiscono un rapporto diretto io-tu.


GLI ARTISTI DELLA MODA: I PIU’ GRANDI FOTOGRAFI DEGLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA Nel secondo dopoguerra, con l’ascesa professionale di Irving Penn e Richard Avedon, la fotografia di moda torna a riproporre quella dialettica stilista che animava la prima metà del secolo. La biforcazione tra immagine e immaginario si ripresenta nelle immagini di questi due giovani americani. 130 Il concetto di immaginario poteva in sé contenere l’equivoco della fuga, del rifiuto della moda ad impegnarsi concretamente sul “qui e ora”, mentre invece quello di comportamento, pur senza precludersi la prospettiva del desiderio realizzato, si dimostra più adatto a riportare in terra il paradiso, a mondanizzare il più possibile il grande sogno della moda.

a dipingere e a fotografare in Messico. Tutto il lavoro di Penn sarà caratterizzato dall’identità pittorica, manifestandosi esplicitamente in un elegante e raffinato stile grafico teso a valorizzare al massimo le componenti formali della fotografia, ma più in generale, con un atteggiamento di recupero quasi ieratico della difficoltà operativa, dell’intervento manuale, così da esorcizzare quella caratteristica di meccanicità massificante che differenzia il mezzo fotografico da quello pittorico. Penn considera i soggetti come dei pretesti utili ad eseguire un esercizio formale

Irving Penn Uno dei più grandi fotografi di moda degli anni Cinquanta è il precedentemente citato Irving Penn, nato nel New Jersey nel 1917: dal 1934 intraprende studi artistici presso la School of Industrial Art di Philadelphia. Qui ha modo di seguire corsi di design pubblicitario diretti da Alexey Brodovitch il quale, nello stesso anno in cui Penn entra nella scuola, è chiamato alla direzione artistica di Harper’s Bazaar, periodo durante il quale si trova a vivere il sottile tormento della scelta tra una dimensione immediatamente operativa ed un’esperienza di ricarica estetica lontana dalle imposizioni del mercato. E’ così che nel 1941 decide di lasciare il ruolo di designer pubblicitario per andare

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Irwin Penn 1950 Nella pagina accanto: Veruschka New Jersey indossa un abito di YSL per Vogue UK. Irving Penn 1965

fatto di linee, volumi, silhouette, e valori cromatico-tonali. Anche la sua celeberrima galleria di ritratti sembra sottostare a questa necessità: i tagli dell’inquadratura sono spesso audacissimi, tanto da arrivare ad escludere anche mezza fronte del soggetto, o comunque tali

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da far intendere come siano le singole individualità a dover adattarsi al “sistema Penn” e non viceversa. Questa scelta di costringere il soggetto nel proprio schema stilistico, anziché inseguirlo nelle sue peculiarità psicologiche, trova una sorta di perfetto capolinea nella serie


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di ritratti avviati nel 1948: Penn chiede a tanti protagonisti della vita artistica e culturale in genere di posare all’interno di uno stretto spazio angolare formato da due pannelli bianchi. La costruzione è rigorosa, costante, ripetitiva, e le piccole variazioni di posa alle quali da vita ogni singolo soggetto non fanno che valorizzare l’essenzialità spaziale della struttura di base, in un controllatissimo esercizio di perfezionismo stilistico che rispecchia al meglio quello spirito di trascendenza formale presente in tutta l’opera di Penn. Quando passò a lavorare per la moda, l’atteggiamento rimase lo stesso: “solo una persona che conosceva già benissimo la moda degli anni cinquanta era in grado di ricostruire in modo corretto il disegno degli abiti a partire dalle informazioni date dalle foto”131. Anche nella moda quindi, il soggetto continua a rappresentare per Penn una preoccupazione decisamente secondaria rispetto a quella per il trattamento, per l’esercizio di linguaggio a prevalenza sintattica più che referenziale. Decidendo di non farsi condizionare dal soggetto, Penn, pur partecipando ad una poetica dell’immagine, si mostra perfettamente in linea con le scelte operate sul filone dell’immaginario e del comportamento in favore di una fotografia più evocativa che rappresentativa. Quindi nella fotografia di moda, anche quando prevalgono valori decisamente formali, la scelta migliore e più appropriata è quella di interpretare il gusto per via linguistica, così che sia lo stile stesso dell’immagine a parlare dell’abito. E’ forse proprio con Penn che comincia a ridefinirsi la figura del fotografo di moda, presente ora sulle riviste di settore non solo come fotografo di abiti, ma come autore a tutto tondo. I sui ritratti o le sue immagini sociologiche vengono pubblicate su Vogue, al pari delle fotografie che riguardano più direttamente gli abiti e in questo forse si manifesta

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anche un mutamento di impostazione delle testate stesse, ormai sempre più orientate, nel secondo dopoguerra, a proporsi effettivamente come riviste di moda in senso lato, e non riduttivamente, come riviste di abbigliamento. Ammiratore dichiarato di Paolo Uccello e De Chirico, ricava dai due una fondamentale lezione circa l’organizzazione spaziale dell’immagine. Da De Chirico deriva quella sensazione di atemporalità e di cristallizzazione che le immagini di Penn sempre esprimono, un effetto capace di monumentalizzare auraticamente quella condizione di limitata momentaneità che invece sembrerebbe caratterizzare la moda. Dopo la questione dello spazio, l’opera di Penn presta un’attenzione quasi maniacale alla resa nel dettaglio, alla valorizzazione grafica dei soggetti, all’evidenziazione della texture dei materiali, un insieme di indicazioni che egli ricava dal Precisionismo americano. E’ lo spirito stesso della pittura, e quel senso di fuga dalla caducità del mondo espresso per mezzo dell’astrazione formale, che pervade tutta l’opera di Penn: ogni corpo, ogni abito, ogni accessorio inquadrato dal suo mirino acquista un carattere sospeso, metafisico. Una sintesi di tutte queste tensioni si può trovare nel numero di Vogue dell’Aprile 1950 aperto da una rigorosa copertina in bianco e nero e caratterizzato al suo interno da una serie di immagini altrettanto essenziali fra le quali spicca quella che forse meglio riassume la poetica di Penn: la giovane modella è ritratta di fronte, ma ha il capo completamente ruotato a sinistra. L’ampio cappello nero da lei indossato traccia una linea in diagonale che sembra congiungersi con quella prodotta dalla scollatura dell’abito. Il centro dell’immagine, sia geometrico emotivo, è però costituito dalla lingua della modella irrigidita appena


oltre la linea delle labbra. La mano sinistra, alzata all’altezza del volto, regge elegantemente una sigaretta tra l’indice e il medio, mentre l’unghia lunga e smaltata dell’anulare è impegnata a togliere dalla punta della lingua un frammento di tabacco. Il gesto, che se malamente interpretato, potrebbe apparire grossolanamente provocatorio, nello scatto di Penn acquista una levità e un’eleganza straordinaria, si fa sublime, assoluto, estraneo ad ogni contingenza.

le situazioni tipiche proposte da Munkacsi sostituendo al clima esuberante e sportivo di questi una dimensione più teatrale e filmica. Avedon dimostra quindi di saper sfruttare in positivo quello che a prima vista appare un limite della fotografia, e cioè la sua condizione di frammento isolato privo di correlazione con altri fotogrammi. Anziché giocare sull’assenza di un “prima” e di un “dopo”, in altre occasioni Avedon ha adottato l’idea della mini-storia a più immagini, inaugurando così una formula di racconto della moda tuttora utilizzata. La vocazione narrativocinematografica di Avedon ha finito per influenzare anche il ruolo della stessa personalità delle modelle, che con lui cominciano ad assumere quel ruolo di protagoniste a tutto campo, di attrici dentro e fuori campo, così tipico per le top di oggi. Del resto l’idea di una fotografia che intendeva proporsi come ipotesi di comportamento reale, necessitava di protagoniste altrettanto credibili, come personaggi e attrici, perché ormai il set della moda si stava facendo sempre più simile a quello del cinema.

Richard Avedon Un altro importante fotografo di moda che si afferma in questo decennio è Richard Avedon, la cui adesione alla fotografia è immediata e totale. Inizierà ad acquistare fama nel 1944, quando, dopo molti infruttuosi tentativi, riesce finalmente a mostrare il suo portfolio a Brodovitch che gli affida l’incarico di fotografare collezioni di alta moda a Parigi per v Avedon da vita ad una fotografia di moda tutta sbilanciata in senso narrativo, prendendo ispirazione da Munkacsi. La sua formazione umanistica (aveva coltivato grandi passioni per la fotografia ed il teatro) lo porta però a correggere

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Molto significativa è l’immagine che ha come protagonista la modella Dovima: nella storia della fotografia di moda il suo nome rimarrà legato a quello di Avedon soprattutto per un’immagine, scattata nel 1955 nel Circo di inverno di Parigi: Dovima, che indossa uno spettacolare abito da sera firmato Christian Dior, si fa strada tra due enormi elefanti allargando le braccia verso l’alto in un gesto elegantissimo. Da qui in poi si stabilirà una vera e propria corsa alla messa in scena imprevedibile, portando la moda in luoghi sempre più sorprendenti. Questo atteggiamento è forse interpretabile come più generale metafora attraverso la quale la moda del secondo Novecento segnala assai chiaramente l’intenzione di proporsi e imporsi come stile globale, come atteggiamento di vita, anziché come semplice passerella di abiti. Nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta Avedon compie quello che si può definire “ritorno all’ordine”, abbandonando progressivamente lo stile narrativo-cinematografico in presa diretta in favore di una foto tutta costruita in studio. Questa svolta è spiegata da Avedon con l’impossibilità di continuare a raccontare in modo naturale un mondo che si stava sempre più artificializzando. Lavorando in studio Avedon riscopre lo sfondo bianco neutro, davanti al quale le modelle continuano a comportarsi come en plain air: saltano, corrono, si muovono. Tuttavia, isolate sul fondo bianco, le modelle tendono ad assumere un carattere fortemente simbolico ed emblematico. Passando a parlare degli anni Sessanta, l’opposizione dialettica fra opera e comportamento, può essere riportata all’analoga tensione che in questo periodo si genera nelle arti visive tra Pop e Op. Se da un lato la Pop è stata un’esperienza artistica decisamente estroversa,

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cioè rivolta al fuori, immersa nelle cose, dall’altra la Op ha interpretato una dimensione del visivo squisitamente più analitica, ha cioè indirizzato tutta la sua attenzione su un “responsive eye”, vale a dire un occhio impegnato ad analizzare ed organizzare le strutture formali dell’immagine stessa. Mentre la linea Op, operando su caratteri prettamente formali, risulta di fatto orientata alla valorizzazione dell’opera, la ricerca Pop può essere considerata tendenzialmente più comportamentista, soprattutto se si fa riferimento all’atteggiamento, necessariamente mondano, assunto dai suoi interpreti. Interprete mitico degli anni Sessanta fu David Bailey. Parlando in generale di fotografi di moda bisogna dire che c’è

Elizabeth Taylor, New York 1964, Irving Penn


“Dovima e gli elefanti�, immagine scattata nel 1955 nel circo di inverno di Parigi, quando Dovima, che indossa un bellissimo abito da sera firmato Dior, si fa strada tra due enormi elefanti allargando le braccia verso l’alto in un gesto elegantissimo

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una componente di ciò che chiamiamo stile che prescinde dagli esiti prettamente materiali del lavoro, c’è uno stile che si identifica profondamente con i comportamenti di vita, con i modi di interpretare un’epoca e una cultura ed in questo Bailey è sicuramente un maestro. Egli ha interpretato al meglio, nella sua persona, tutto quel clima di esaltante novità che Londra ha saputo esprimere, e non solo nella moda, in quegli anni. Se crediamo che la fotografia non si sia limitata a fotografare la moda, ma abbia in qualche modo contribuito ad istituirla, ecco che la figura di Bailey ha tutti i titoli per stare nel posto che occupa. La minigonna va considerata insieme ai collant colorati, agli stivali, alle cinture e alle borse in PVC, alle modelle giovanissime e magre o provocanti e sgraziate. Poi bisogna aggiungere la musica dei Beatles e dei Rolling Stones, e Lolita, il romanzo di Nabokov pubblicato nel 1959 che contribuì ad imporre un modello di donna adolescente portatrice di una nuova ed imbarazzante sensualità. Il tutto andava confluendo in quella rivoluzione di comportamenti sessuali che Bailey ha saputo efficacemente trasferire nella fotografia di moda, dove “ogni seduta era come un atto sessuale e la macchina fotografica come il pene”.132 Spesso la fotografia ha chiare allusioni all’atto sessuale: “La creazione dell’immagine di moda si fece così manifesta come appropriazione di un corpo arrendevole da parte della macchina”133 Dopo aver fatto apprendistato presso lo studio di John French, un fotografo specializzato in immagini di moda, Bailey si mette in proprio nel 1960. La sua prima copertina per l’edizione inglese di Vogue è del 1961. Egli non si limita a pubblicare su questa rivista solo immagini di moda, ma anche ritratti dedicati ai protagonisti, più o meno famosi, della Londra pop.

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Risulta solidale con il clima formalista che caratterizza l’altro filone della ricerca fotografica degli anni Sessanta, Hiro Nato nel 1930 a Shangai da genitori giapponesi, si traferisce a New York all’inizio degli anni Cinquanta, dove ha modo di studiare con Brodovitch. Viene poi chiamato a collaborare con Harper’s Bazaar. Se Bailey afferma di essere completamente disinteressato alle questioni di stile. Hiro ha invece espresso nella ricerca di un esasperato equilibrio visivo il tratto fondamentale del proprio lavoro. Hiro è stato, come Penn, un maniaco della camera oscura, sempre attento ed interessato ad utilizzare, sia in ripresa che in stampa, ogni artificio di linguaggio utile a rendre visivamente attraenti le sue immagini. Le inquadrature ardite, l’attenzione particolare ai sistemi di illuminazione e agli effetti di colore, le doppie esposizioni, gli ingrandimenti stranianti, sono tutti elementi ricorrenti nel suo linguaggio, che finisce per delineare l’identità della fotografia come opera-manufatto, come superficie sulla quale si concentrano e ripropongono quegli stessi valori che gli abiti e gli accessori esprimono nel reale. Infatti le migliori immagini di Hiro tendono a porsi quali nature morte, cioè come modello di un fare artistico nella quale i valori formali, intesi come organizzazione dello spazio, delle linee, dei colori, delle luci prevalgono su quelli narrativi. Si può prendere come esmpio una delle sue fotografie più famose, quella che, pubblicata sul numero di Dicembre 1963 di “Harper’s Bazar”, propone uno scintillante collier di Tiffany allacciato attorno allo zoccolo nero di un toro. Tutta la provocazione che un accostamento tanto stridente potrebbe comportare, viene come soffocata da Hiro in un clima di


raffinata monumentalità che finisce per esaltare i contrasti di colore e di “materiale” rispetto a quelle componenti emotive potenzialmente suggerite dalla bizzarra combinazione dei due elementi. Proprio perché fondata su un’esasperata perfezione formale, la bellezza proposta da Hiro è sempre una bellezza algida, intenzionalmente fredda, asettica, matematica e razionale, come accadeva nell’arte astratta degli anni Venti o Trenta, o come si ripropone nella Op art degli anni sessanta. L’influenza della Op si manifestava in maniera più esplicita negli aspetti materiali e visivo-formali dell’abbigliamento. Per esempio nel disegno dei tessuti, che riproponevano e diffondevano i motivi “optical” sperimentati in quegli anni dalla pittura, come le fasce bianche o nere, i disegni modulari con prevalenza dei colori primari. Willian Klein L’artista americano William Klein ha invece saputo trasferire nella moda quella sperimentazione di linguaggio da lui già felicemente applicata nel campo del reportage. Klein giunge alla fotografia quasi per caso, dopo una mostra di pittura che tenne in Francia, Italia e Belgio. Nel 1955 Alexander Lieberman, Art Director di Vogue, gli offre un contratto che durerà fino a metà degli anni Sessanta. Può essere considerato un autore a metà strada tra le ragioni dell’opera (linea Op) e quelle del comportamento (linea Pop), e questo per via delle differenze che inevitabilmente emergono tra il suo lavoro di reportage e quello di moda. Utilizza spesso alcuni espedienti tecnici, come l’obbiettivo grandangolare e le sfocature in ripresa, mentre nel caso del reportage riesce a suggerire in modo efficace il senso di immersione

libera e incondizionata dell’autore nel caos del mondo, una volta applicato alla moda pare proprio applicarsi come abbagliante ricerca di “effetti speciali”. Quando lavora per la moda propone una fotografia dove a prevalere è il tratto formale dell’immagine; gli effetti speciali, le manipolazioni in ripresa o in stampa, gli artifici linguistici, una volta applicati alla moda finiscono inevitabilmente per concentrare l’attenzione sulla fotografia in quanto opera, in quanto superficie in grado di esibire attraenti combinazioni formali. La deformazione dell’immagine dovuta all’uso dell’obbiettivo grand’angolare e l’evidenziazione della grana nella stampa, soluzioni che divengono il marchio distintivo dell’opera di Klein, possono senz’altro essere considerate come innovative per la fotografia di moda di quegli anni, sempre però all’interno di quel filone sperimentale di ispirazione pittorica. Bob Richardson Con Bob Richardson ritorna invece l’idea di una fotografia di moda tesa prima di tutto a costruire un atteggiamento, dove gli abiti non sono più valorizzati dall’abile composizione formale voluta dall’autore, e l’occhio dello spettatore non è più incantato da sorprendenti e inusuali artifici tecnici e di linguaggio. Lo stile per Richardson emerge dalle situazioni che riesce a mettere in scena, dai comportamenti che i protagonisti delle sue immagini assumono. Segnate da un’evidente carica erotica e da un’esplicita voglia di trasgressione, si può facilmente comprendere come le sue immagini abbiano ispirato autori ben più vicini a noi. I fotografi delle riviste analizzate Nell’ambito redazionale, ruolo

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importantissimo è svolto dal fotografo di moda: i servizi di moda occupano gran parte della rivista, pertanto devono essere realizzati con cura assoluta di tutti i particolari. In Grazia compare spesso il nome di Jacques Rouchon: fotografo francese, inizia la sua carriera di foto-giornalista nel 1945. Apre il suo studio fotografico nel 1952, anno in cui comincia a lavorare nel campo della moda. A partire dal 1959 inizia la sua esperienza lavorativa per le più importanti testate di moda italiane e francesi: Modes & Traveaux, Marie Claire, Grazia (Italia) e Bazar (Italia). Sia nei ritratti che nei suoi reportage, Rouchon sapeva mettere a loro agio i soggetti protagonisti, instaurando con loro un rapporto confidenziale, e riuscendo così ad interferire con la loro vita privata, in un epoca in cui il rapporto con l’immagine era assai più innocente che al giorno d’oggi. La maggior parte delle sue fotografie, pubblicate su numerose riviste di grande fama, non vennero mai esposte, rimanendo in parte sconosciute al grande pubblico. Anche sulle riviste anni sessanta da me analizzate, numerose sono le fotografie pubblicate che

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portano il suo nome. Per esempio, la bellissima copertina di Grazia 1964, che raffigura un primo piano di una donna nascosta da un meraviglioso cappello colorato, è stata da lui scattata. In Marie Claire (1951) il servizio è tenuto dalla fotografa-giornalista Elsa Robiola (1907-1988). Inizia a lavorare a Milano come giornalista di moda già negli anni Trenta, nel momento in cui si intensificano gli sforzi del regime fascista per la costruzione di un sistema nazionale di moda. Entra a far parte della redazione di Fili, rivista di moda e di lavori femminili pubblicata dal 1934 dalla casa editrice milanese Domus. In questi anni collabora inoltre con L’Almanacco della donna Italiana, pubblicando ampie sintesi sulle tendenze della moda italiana in epoca di autarchia. E’ direttrice di Fili quando nel 1941 Gio Ponte la coinvolge nel progetto della nuova rivista Bellezza che, sostenuta dall’ente nazionale della moda, si propone come organo ufficiale dell’alta moda italiana. Inizia così la quasi trentennale collaborazione con questa rivista, in cui entra nel 1941 come caporedattrice. Con la fine della seconda guerra e la caduta del regime fascista, Bellezza passa all’editore Aldo Palazzi di Milano che nomina Robiola prima co-direttrice. Diviene una delle più attente e appassionate sostenitrici del lancio internazionale della moda italiana. Dall’inizio degli anni Cinquanta sulle pagine di Bellezza iniziano a comparire non solo articoli, ma anche fotografie della giornalista, come accade in altre riviste come Marie Claire. L’attenzione per la moda si riflette anche nel suo modo di vestire, in anni in cui le giornaliste italiane si propongono come modello di stile. In questo senso va inteso l’articolo pubblicato su Grazia nel 1949 dove si legge che “Elsa Robiola, direttrice di Bellezza, veste sempre nel modo più appropriato


all’occasione, è sempre la prima a portare il cappello di Dior, se il cappello di Dior va portato”. Su Marie Claire (1961) sono pubblicate alcune istantanee di un grandissimo fotografo di moda italiano dell’epoca: Sandro Morriconi. Egli dedicò più di dieci anni alla fotografia di moda a Roma, decine di migliaia furono le sue foto pubblicate, più di mille copertine sulle riviste più importanti. Fu il primo a pubblicare in Italia un servizio sulla minigonna, sul settimanale Gioia di Rusconi. Fu il primo servizio dedicato ad un avvenimento che avrebbe rivoluzionato il modo di vestire e di vivere, il segnale più clamoroso di un fatto storico: la donna diventa padrona del proprio corpo, liberandosi dalla schiavitù di obblighi e tradizioni, anche se la didascalia della foto, scritta dalla redazione, diceva: “Una stranezza che arriva dall’Inghilterra, finirà presto”.

In Italia fotografava i modelli di Valentino, Irene Galitzine, Shubert, Balestra, sorelle Fontana. In quegli anni, nelle fotografie di moda, c’era tutto da inventare. Le fotografie erano false, ferme, artificiali. Erano fatte con una tecnica che esigeva immobilità delle modelle, perché si usavano riflettori che richiedevano un lungo tempo di posa, ed i vestiti si dovevano vedere bene perché le sartine dovevano copiarli. Con Sandro le cose cambiarono: fu il primo ad utilizzare i flash elettronici anche in studio, e uscì a fotografare le modelle nella strada. La moda cambiava perché il modo di vivere cambiava. Ormai copiare i modelli non era importante, il ruolo delle sartine si esauriva, perché i grandi sarti scoprivano l’importanza della “griffe” e accettarono di firmare la moda pronta. L’uso di flash elettronici permetteva alle modelle di camminare, di muoversi, di correre. Fu il primo fotografo ad usare le macchine di piccolo formato, che a quei tempi erano vendute solo in Giappone. Cambiò quindi il modo di fotografare la moda.

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LA POSTPRODUZIONE ANALOGICA DELLE IMMAGINI FOTOGRAFICHE

Alla fine del XIX secolo alcuni fotografi hanno preteso di fare della foto un’arte: il risultato è stato ciò che si è definito “pittorialismo”. Intendendo reagire alla cultura dominante della foto come semplice tecnica di registrazione oggettiva e fedele della realtà, i pittorialisti non possono proporre altro che un semplice capovolgimento: trattare la foto esattamente come una pittura, manipolando l’immagine in tutti i modi: effetti sistematici di sfumato “come in un disegno”, messa in scena e composizione del soggetto, interventi innumerevoli, dopo, sul negativo e sui provini con l’aiuto di pennelli, matite, strumenti e prodotti diversi, Il pittorialismo non fa altro, insomma, che dimostrare, al negativo, l’onnipotenza della verosimiglianza nelle concezioni della fotografia del XIX secolo. Prima dell’avvento del digitale, e con esso, negli anni Novanta, del software Photoshop, divenuto indispensabile per il ritocco delle fotografie e delle immagini (sia di moda che di altro genere), la manipolazione e l’elaborazione fotografica erano effettuate utilizzando svariate tecniche, che richiedevano da parte del fotografo, o di chi si occupava della postproduzione fotografica (spesso le due persone non coincidevano) grande abilità manuale. Si trattava nella maggior parte dei casi di interventi estesi ed invasivi che venivano applicati alle fotografie per migliorare il risultato: levigare la pelle

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della modella, trasformarla in una sorta di “bambola di porcellana”, o in generale rendere il risultato più aggraziato e gradito al committente. Molto diffusa nel fotoricco era la tecnica dell’aerografia. L’aerografia Questa tecnica nacque nel 1983, da un’intuizione dell’acquarellista inglese Charles Burdick. L’aerografo si rivelò fin da subito un’invenzione geniale, perché riusciva più del pennello tradizionale a stendere il colore in modo delicato riuscendo a sfruttare al meglio la trasparenza dei colori. Questa tecnica ha poi trovato il suo massimo sfogo con la pop art. Successivamente verrà impiegata nel campo della grafica per illustrazioni e fotoritocco. Oggi, con l’avvento di tecnologie digitali sempre più versatili, facili e veloci, l’utilizzo dell’aerografo nel settore dell’illustrazione pubblicitaria, del ritocco fotografico e così via dicendo è stato quasi totalmente abbandonato. L’aerografo è universalmente riconosciuto come “Airbrush”, ed è letteralmente traducibile come “pennello ad aria”. Esso è un piccolo strumento ad aria compressa usato per spruzzare vari tipi di inchiostro e vernice, nebulizzandoli. E’ costituito da una aeropenna o aeropistola raccordata mediante un tubo flessibile ad una fonte d’aria, generalmente un compressore; la penna spruzza il colore


Jean Shrimpton, Harper’s Bazaar, 1964, fotografia di Melvin Sokolsky

nebulizzandolo tramite un flusso di aria compressa. Il colore può essere di vario tipo: possono esserci acrilici a solvente (come e vernici per la carrozzeria) o acrilici ad acqua (decisamente meno tossici). Si possono usare acrilici classici per belle arti, quelli in asta. Però esistono anche colori creati apposta per l’aerografo che sono già diluiti e pronti per l’uso. Essi sono già filtrati, quindi non intasano l’aerografo, e resistono meglio

su superfici impermeabili come plastica e metallo. Ovviamente le caratteristiche cambiano da marca a marca. I colori sono tendenzialmente trasparenti. Anche questa è una caratteristica variabile, ma anche il più coprente dei colori per aerografo non lo sarà mai al cento per cento, ad esclusione del nero e in alcuni casi del bianco. Il colore viene inserito in un serbatoio attraverso un’apertura. La duse è l’estremità dell’aerografo dove risiede la punta dell’ago fino a quando non viene ritratta tramite trazione dell’apposito pulsante-grilletto. Il corpo ha una serie di canali interni per il passaggio dell’aria, dell’ago e del colore. Quest’ultimo viene caricato nella vaschetta montata sul corpo. In alcuni aerografi la vaschetta è fissa, in altri è intercambiabile e viene fissata su un lato o sotto al corpo. Il gruppo di punta è composto da: ugello, copri ugello, ago e cappelletto dell’ago. Facendo arretrare l’ago si libera l’uscita per il colore che viene nebulizzato. Più si sosta dietro l’ago più il getto ottenuto è grande. Il cappelletto dell’ago serve sia come protezione per la punta (molto delicata) che per generare un flusso regolare. Il gruppo di regolazione di aria e di colore è composto da un pulsante e dalla valvola dell’aria. Con il sistema a doppia azione (esistono infatti modelli a singola azione o a doppia azione) sia il glisso dell’aria che quello del colore si gestiscono in un unico pulsante combinando due movimenti distinti: premendo il pulsante si apre la valvola che fa entrare in circolo l’aria, arretrando il pulsante si gestisce lo spostamento dell’ago e quindi si regola l’uscita del colore. Combinando i due movimenti, le due azioni, si ottiene il controllo completo dei flussi di colore. Nel caso degli aerografi a singola azione, il pulsante regola solo il flusso d’aria e per gestire il getto del colore occorre agire su una valvola posta sul gruppo di punta.

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Molto diffusa è la tecnica della mascheratura: per ottenere buoni risultati la maggior parte delle volte è necessario l’uso delle maschere, soprattutto per riprodurre determinati effetti, in particolare quando si lavora con dimensioni ridotte. Esse permettono di creare contorni netti. Inoltre, lavorando per la nebulizzazione del colore, tracciando una linea, seppur sottile, attorno ad essa cadrà inevitabilmente un po’ di “polvere colorata” che andrà a sporcare le zone vicine. Questo può creare dei problemi in termini di qualità. L’uso delle maschere serve anche ad evitare questi effetti sgraditi. Le maschere si possono creare con diversi materiali: ci sono pellicole apposite a bassa adesività, che aderiscono perfettamente alla superficie, e in questo modo si otterranno contorni molto duri. - si può utilizzare un foglio di carta (sono dette anche “maschere voltanti”) che appoggia semplicemente sul supporto ed in questo caso si otterranno contorni più o meno netti a seconda della distanza tra supporto e maschera. - si può utilizzare anche qualsiasi oggetto solido per creare trame particolari, come pizzi o reti. Inoltre, per poter utilizzare l’aerografo, è indispensabile saper disegnare. Il disegno con l’aerografo non è intuitivo come lo può essere il pennello o la matita. Lo strumento non entra mai in contatto con il supporto. “Quando scoprii l’aerografia fu una rivelazione: era magnifico poter dipingere un quadro senza nemmeno toccare la tela: era un’attività cerebrale pura. Era anche come dipingere in 3D: per ottenere l’effetto desiderato non c’era altro da fare che avvicinare e allontanare l’aerografo dalla tela. Un’altra cosa che mi piaceva di questo

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procedimento era il carattere spontaneo della composizione. L’effetto veniva ottenuto istantaneamente e non era più possibile apportare correzioni in un secondo tempo: era come sparare con un fucile: o colpisci il bersaglio o lo manchi! Riflettendoci era una pittura quasi automatica. Ero più interessato dall’idea che volevo comunicare che non all’estetica dalla pittura, e questo era un modo per esprimere le mie idee più rapidamente che con un dipinto.” Cosi affermò Man Ray.134 L’aerografia nelle riviste prese in esame Il ritocco delle immagini attraverso l’aerografo è assai evidente negli anni Cinquanta: è sufficiente osservare le modelle in copertina per comprendere come sia il loro volto che il resto del corpo, siano stati assolutamente ritoccati. Sono del tutto assenti rughe, pieghe, il colore della pelle è perfettamente uniforme, le labbra sono quasi sempre rosse e mai fuori posto, il sorriso è bianchissimo, i denti sono perfetti. Anche gli abiti risaltano perla loro perfezione: ad ogni piega corrisponde un’ombra un po’ troppo scura ed evidente per essere reale, ma ciò che soprattutto mi fa pensare al fatto che siano state ritoccate attraverso l’aerografo è il fatto che in alcuni tratti, forse per i colori, forse per i contorni non


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perfettamente delineati, appaiono molto simili a disegni eseguiti col pennello e con estrema abilità. Questo si rivela molto chiaramente nella fotografia riportata nella pagina precedente (Grazia 1949), per quanto riguarda il volto, gli abiti, e lo sfondo. L’utilizzo dell’aerografo è chiaro anche in alcune immagini in bianco e nero. Anche nelle pubblicità questa tecnica è molto diffusa, soprattutto negli spot di prodotti per il viso e per la pelle, o in generale di cosmetici. Per esempio nella pubblicità di un rossetto, la bocca della modella deve essere impeccabile: mentre oggi questa perfezione è ottenuta, con risultati più realistici, attraverso tecniche digitali di fotoritocco sempre più evolute, negli anni Cinquanta e Sessanta essa era raggiunta per mezzo dell’areografia. Questo effetto si fa sempre meno evidente con il passare degli anni. Già in Amica (1965) la modella, sebbene ancora ritoccata, presenta una serie di minime imperfezioni che la avvicinano tuttavia alla realtà. Il fotomontaggio Sempre a proposito della manipolazione fotografica, molto diffuso era il fotomontaggio: parecchie volte le modelle erano allontanate dal contesto reale della fotografia e poste su uno sfondo neutro o un altro sfondo magari a sua volta appositamente costruito attraverso il fotomontaggio; talvolta invece, trattandosi a quei tempi di una tecnica complessa, erano direttamente fotografate davanti a posters di grandissime dimensioni raffiguranti un determinato background, che poteva essere un paesaggio esotico, una città trafficata, un bellissimo paesaggio di montagna. Questo sistema è chiaramente utilizzato nella fotografia a pagina 24 di Grazia 1955: non solo le modelle camminano spavalde

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In questa pagina: fotomontaggio, Grazia 1955: non solo le modelle camminano spavalde su una pavimentazione del tutto estranea a quella dello sfondo, ma l’enorme “poster” è anche mal posizionato e leggermente strappato nella parte inferiore: tutto ciò rende palese la sua artificialità.

su una pavimentazione del tutto estranea a quella dello sfondo, ma l’enorme “poster” è anche mal posizionato e leggermente strappato nella parte inferiore: tutto ciò rende palese la sua artificialità. Come precedentemente affermato, in molte immagini le modelle sono estrapolate dal loro contesto originario e poste su uno sfondo neutro, colorato o meno. Questo è reso possibile dalla possibilità di ritagliare manualmente i soggetti ed “incollarli” su altri contesti appositamente

costruiti o fotografati. Mentre oggi le tecniche digitali di scontornamento degli oggetti permettono un’estrema precisione, rendendo assolutamente realistici i fotomontaggi, negli anni presi in esame, proprio a causa della mancanza di strumenti digitali in grado di facilitare il processo, lo scontornamento è assolutamente impreciso e questo rende perfettamente distinguibili le fotografie reali dai fotomontaggi. Spesso le figure ritagliate delle modelle sono sovrapposte a testi, titoli o ad altre fotografie. I capelli, molto difficili da scontornare, sono l’elemento che più rende evidente il fatto che è avvenuta una manipolazione della fotografia. Un esempio è la pubblicità della crema per il viso Lancaster (Grazia 1960); il volto della modella, tagliato all’altezza del collo, non solo è ritoccato con l’aereografo per rendere la pelle priva di imperfezioni, ma è scontornata e posta su uno sfondo bianco: questo è visibile soprattutto attraverso i contorni troppo netti dei capelli. Questo fattore è ancora più palese nella pubblicità di Orval (Grazia 1960), nella quale la modella è invece posta su sfondo nero, che rende visibili i contorni bianchi dell’immagine originaria, soprattutto in corrispondenza dei capelli. Lo stesso accade per la bambina danzatrice nella pubblicità dell’Ovomaltina (Grazia 1960) e per la tennista nella pubblicità delle Confetture Cirio, nella quale sono perfettamente visibili i contorni neri dell’immagine originale. L’arte del fotomontaggio ha avuto inizio subito dopo la prima guerra mondiale, ma la manipolazione delle fotografie ha origini molto più antiche, che risalgono all’invenzione della fotografia a metà del XIX secolo. Il diretto contatto della stampa con oggetti posti sulle lastre fotografiche, le doppie esposizioni e le composizioni

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Pubblicità Orval, , Grazia 1960: da notare i capelli “mal scontornati” della modella, resi ancora più evidenti dal fatto che lo sfondo è nero.

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di più fotografie attraverso la camera oscura divennero popolari e diffuse nella seconda metà dell’800. Soprattutto i paesaggisti, i quali sapevano che non era possibile avere un’ esposizione perfetta sia per il cielo che per la terra, furono soddisfatti nello scoprire che era possibile combinare i due elementi attraverso l’utilizzo della camera oscura. Inoltre gli artisti si divertivano a creare cartoline raffiguranti la testa di una persona posta su un corpo troppo grasso, o eccessivamente piccolo e così via, ottenendo così divertenti effetti. Questi primordiali fotomontaggi erano spesso realizzati con la tecnica del collages. Tuttavia è a partire dai primi decenni del Novecento che questa tecnica comincia ad essere ampiamente utilizzata in ambito dadaista e costruttivista. Tecnicamente simile al collage, il fotomontaggio prevede due maniere di intervento: una diretta, ritagliando le foto e incollandole sulla superficie, e una indiretta, lavorando sui negativi. Il termine “fotomontaggio” viene coniato dai dadaisti berlinesi per definire una nuova tecnica di costruzione dell’immagine di tipo quasi “meccanico”, in alternativa ai media tradizionali. John Heartfield, il più noto creatore di fotomontaggi, sviluppa all’inizio degli anni Venti un proprio modus operandi, basato sulla disponibilità di un archivio di immagini suddiviso per tematiche e sulla collaborazione di tre fotografi che gli procurarono ulteriori soggetti. I frammenti scelti venivano poi incollati da un assistente, mentre Heartfield interviene talvolta sulla fotografia utilizzando l’aerografo o il pennello. I temi sono fortemente politici e negli anni Trenta la satira sulla Germania nazista diventa uno dei soggetti più ricorrenti nelle sue opere. I costruttivisti russi cominciano a realizzare fotomontaggi negli stessi anni ma con un approccio grafico e non


satirico. Usano questa tecnica unitamente a sperimentazioni tipografiche per sperimentare visivamente e diffondere la nuova arte nella Russia postrivoluzionaria. Il Surrealismo recupera della tecnica del fotomontaggio la possibilità di accostare e costruire immagini stranianti e Marx Ernst allestisce nel 1921 a Parigi un’intera mostra di fotomontaggi visionari e onirici.135 Conclusione

Fotografia scattata da Rico Puhulman nel 1963; essa ritrae Bettina Lauer che indossa un abito di Yves Saint Lourent a Parigi

Se le immagini sono andate, con il passare del tempo ed il progresso della tecnica, sempre più migliorando e affinandosi, fino ad assumere spesso una posizione prevalente rispetto ai testi, nella nostra società, in cui miti e riti hanno preso la forma della ragione, incarnandosi nelle parole, il linguaggio è fondamento di qualsiasi senso della realtà. Così, anche per la significazione dell’universo moda, la scrittura appare costitutiva: l’indumento per significare non può fare a meno di una parola che lo descriva o che lo commenti. Il motivo fondamentale che fa emergere questo bisogno di frapporre tra l’oggetto moda e l’utente “un tale lusso di parole (senza contare le immagini)”136 è di ordine principalmente economico: trasformare il semplice utente in consumatore. Se si guardano in prospettiva diacronica le riviste di moda, si nota che negli ultimi anni l’immagine ha sempre più spesso preso spazio rispetto alla parola, e la connettività si è trasformata sempre più spesso in denotatività, la monosemia in polisemia, affidando a quest’ultima dimensione la forza suggestiva del messaggio. Al contrario il testo è andato perdendo la sua carica emotiva.137

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Chorus Line 2012

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NOTE

96- C. Marra, Nelle ombre di un sogno. Storia e idee della fotografia di moda, Bruno Mon dadori 2004 97- R. Barthes. Sistema della moda, op. cit. 98- R. E. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori editore 99- Enciclopedia italiana Treccani, voce “La storia della fotografia”, 2004 100- Enciclopedia italiana Treccani, voce “La fotografia”, 2004. 101- G. Lipovetsky, L’impero dell’effimero, Garzanti libri, 1989 102- C. Marra, op. cit. 103- Ibidem 104- Ibidem 105- S. Franchini, S. Soldani, Donne e giornalismo: percorsi e presenze di una storia di genere, Franco Angeli 2004 106- G. Lipovetsky, op. cit. 107- A. Gnocchi Ruscone, Moda in Annitrenta, cat. Dela mostra omonima, Mazzotta, Mi lano 1982 108- C. Marra, op. cit. 109- Roche D., op. cit. 110- C. Marra, op. cit 111- Ibidem 112- P. Calefato, Mass moda: linguaggio e immaginario del corpo rivestito, Meltermi editore, 2007 113- A. Costa, Roy Menarini, L’immagine del corpo nei nuovi media, Enciclopedia Treccani, 114- C. Marra, op. cit. 115- L. Svenden, Fashion: a philosophy, Reaktion Books, 2006 116- R. Barthes, Sistema della moda, Einaudi Paperbacks, 1970 117- R. E. Krauss, op. cit. 118- A. J. Greimas, J. Courtès, P. Fabbri (a cura di), Semiotica, dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori 2007 119- R. Barthes, Sistema della moda, op. cit. 120- R. Barthes, op. cit. 121- A. Costa, Roy Menarini, L’immagine del corpo nei nuovi media, Enciclopedia Treccani, 1998 122- Ibidem 123- Cover L.-Fiori F., Le parole della moda e la carta stampata, in Catricalà M. (a cura di), Per filo e per segno, Rubbettino Editore, Roma 2004 124- G. Bianchino, A.C. Quintavalle, Moda dalla fiaba al design: Italia 1951-1989, De

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Agostini editore, 1989 125- R. Barthes, op. cit. 126- Ibidem 127- Ibidem 128- Pozzato M.P., Per una semiotica minimalista: dal sistema della moda al catalogo di moda, in Ceriano e Grandi R. (a cura di), Moda: regole e rappresentazioni, Franco Angeli, Milano 1995 129- Ibidem 130- C. Marra, op. cit. 131- J. Szarkowski, Looking at Photographs, Museum of Modern Art, New York 1973 132- C. Seeling, Fashion: 150 Years of Couturiers, Designers, Labels, F.H. Ullmann, Postdam 2010 133- S. Sotang, Frammenti per un’estetica della malinconia, in V. Lehndorff H. Trulzsh, “Veruschka”, Trans-Figurazione. A. Mondadori, Milano 1986 134- Arturo Schwarz, Man Ray, Giunti editore 1998 135- M. Puglione, Tecnica mista: materiali e procedimenti nell’arte del XX secolo, Pearson Italia S.p.a. 2006 136- R. Barthes, op. cit. 137- Cover L., Fiori F., op. cit

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6 Le riviste di moda attuali

La parte conclusiva è rivolta ad un confronto tra i rotocalchi femminili degli anni Cinquanta e Sessanta e quelli attuali, sia dal punto di vista dei contenuti che dal punto di vista grafico e fotografico.

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"E' necessaria un'informazione su misura, senza fronzoli e pailettes, che racconti la moda con precisione ed efficacia" R. Barthes

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LE RIVISTE FEMMINILI DI OGGI: ANALISI E CONFRONTO Le riviste contemporanee che ho assunto come oggetto della mia analisi, in modo da poter fare un confronto con i rotocalchi degli anni Cinquanta e Sessanta precedentemente studiati sono: Amica, n. 11, Novembre 2012 Grazia, n. 20, 16 Maggio 2013 Marie Claire, n. 11, 5 Maggio 2013

Rivista Grazia, 2013

Rubriche 10%

VarietĂ

Moda

Narrativa

48%

17,2%

0%

PubblicitĂ

Cucina

2%

32,4%

2%

4,4%

Casa

Cosmesi

Marie Claire, 2013

5%

22,7%

25,3%

0%

5,4%

38%

0%

3,6%

Grazia, 2012

4%

23,18%

21%

1%

2%

41,7%

1%

6,12%

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Alek Wek, Andrew Yee 2010

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I CONTENUTI: SEMPRE PIU’ SPAZIO ALLA PUBBLICITA’ Anni Novanta All’inizio degli anni Novanta l’Italia si trova sull’orlo del collasso finanziario e la situazione si ripercuote fortemente sugli italiani, principalmente sui lavoratori, a cui viene negato il prepensionamento e ridotta l’assistenza sanitaria. Aumenta a dismisura l’immigrazione clandestina di massa, che coglie le autorità italiane impreparate e incapaci di reagire. I giornali femminili sono diventati prodotti culturali realizzati in maniera accurata, creati da direttori e redattori competenti. Inoltre possono usufruire della collaborazione di grandi nomi del giornalismo, dello spettacolo, della letteratura, come Maurizio Costanzo, Francesco Alberoni, Ugo Volli, Aldo Busi. Nonostante ciò gli ideali suggeriti dalle pubblicazioni non differiscono minimamente da quelli proposti nei decenni precedenti. I valori sociali sono stabiliti dalle istituzioni e la stampa femminile si limita ad adattarsi al senso comune, evitando di proporre tematiche azzardate, che potrebbero suscitare il disprezzo della collettività e influire negativamente sulle vendite. Mentre per gli uomini il principio fondamentale è il lavoro, nell’esistenza della donna, ancora relegata al ruolo di moglie e di madre, il punto di riferimento rimane il matrimonio. Sulle riviste femminili, non più influenzate dall’atmosfera modaiola dei decenni precedenti, si registra un ritorno ad uno stile editoriale più sobrio ed una crescente attenzione per il costume e per la società.

Ciononostante la stampa femminile degli anni Novanta non si distingue da quella dei decenni precedenti, contribuendo a trasformare la donna in una buona cliente dei negozi di abbigliamento, ad educarla sulle regole del buon gusto, a plasmarla in base all’ideale di femminilità proposto. Il ventunesimo secolo Nel Ventunesimo secolo il fenomeno dell’immigrazione continua ad interessare in grande misura il nostro Paese. Il costante arrivo di stranieri ha contribuito a creare un clima multiculturale nella società, generando anche aspri dibattiti politici. La stampa femminile di questi anni non ha avuto cambiamenti radicali rispetto a quella del secolo precedente. Gli argomenti affrontati rimangono gli stessi e anche i messaggi indirizzati alle lettrici. Ciò che si è modificato è il comportamento delle donne, che non considerano più i giornali come un strumento di sopravvivenza e un mezzo per la risoluzione dei loro problemi. “Non che non continuino a cercarvi, a seconda dei diversi livelli culturali, moda, arredamento, idee per viaggi e letture, svago, minimali. O magari anche storie e riflessioni importanti. O che non continuino a scrivere lettere. Ma lo fanno con un atteggiamento diverso dal passato, del tutto privo di aspettative di salvezza. Questi giornali non sono più una droga un confessionale, ed i vari argomenti sono guardati semplicemente come occasioni per arricchire la propria vita o allargare il proprio orizzonte di conoscenza.”139

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L’uomo entra a far parte delle pubblicazioni femminili Le pubblicazioni femminili non sono più unicamente indirizzate alle donne, ma riscuotono grande successo anche all’interno del pubblico maschile.

Molti giornali propongono articoli riguardanti il “sesso forte” e spesso le redazioni ricevono lettere di uomini che affermano di apprezzare le riviste, prese in prestito da mogli o fidanzate. Il sistema della moda ha rivalutato l’uomo come consumatore di abiti e prodotti per la cura del corpo, e, conseguentemente, i periodici femminili presentano, molto spesso, oggetti dedicati al genere maschile. Un esempio è la pubblicità del profumo da uomo di Salvatore Ferragamo, che occupa le prime pagine di Grazia. In una rivista che fino a qualche decennio fa era rivolta esclusivamente alla donna, e in cui l’uomo compariva solo in relazione alla donna stessa, cominciano ad essere pubblicizzati addirittura prodotti da uomo. Significativo a questo proposito è l’articolo pubblicato nella sezione “Prima Fila” di Amica: viene presentato il primo testimonial maschile di Chanel n. 5, “Il profumo più venduto al mondo”, e da sempre pubblicizzato da testimonial femminili. Negli anni passati analizzati mai e poi mai si sarebbe presentato un prodotto destinato alle donne con “un volto

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maschile”, per quanto sexy e attraente potesse essere. Molto spiritosa è anche la pubblicità del marchio Gabs (Amica): un uomo, collocato su uno sfondo violaceo, con sguardo, acconciatura, e atteggiamento femminili, indossa una borsetta e afferma che è un “peccato essere uomini”. Negli

anni Cinquanta e Sessanta una pubblicità di tal genere sarebbe stata colta come assolutamente provocatoria, e mai accettata. Le riviste nate del ventunesimo secolo Nel 2003 inizia ad essere venduta in Italia Vanity Fair, rivista nata negli Stati Uniti nel 1913 e prodotta da


Condè Nast. Il mensile offre inchieste di attualità, numerosi servizi di moda, interviste sui personaggi del mondo dello spettacolo. Lo stesso anno viene fondato il mensile Natural Style. Il titolo illustra perfettamente la volontà della pubblicazione di rivolgersi ad una donna che ha deciso di assumere un modo di vivere naturale ed essenziale. Il giornale propone articoli riguardanti la cura della casa, l’alimentazione corretta, la salute psicofisica, la bellezza. Anche Flair, edito da Mondadori, compare sul mercato nel 2003. Il mensile si rivolge ad un pubblico agiato e con un livello culturale elevato, a cui fornisce un gran numero di inchieste sul mondo culturale e sulla società italiana. La grafica e l’impaginazione sono molto raffinate; inoltre, la rivista si distingue per un numero di pagine altissimo. Il formato Le riviste si differenziano notevolmente nella scelta del formato: alcune prediligono dimensioni ridotte, per facilitare la trasportabilità e la leggibilità del giornale, mentre altre sono molto ampie. Amica riduce notevolmente il suo formato rispetto agli anni Sessanta: se cinquant’anni fa misurava 27,5 x 37,5 cm, ora si riduce a 21,5 x 28,5 cm. Grazia diminuisce solo di 1,5 cm la sua altezza. Inoltre certe testate offrono alle lettrici la possibilità di scegliere tra due versioni, una normale e l’altra più piccola e meno costosa. Il prezzo Il prezzo generalmente oscilla dalle 1.60 euro di Confidenze, alle 3 euro di Amica o Marie Claire, ma si può arrivare anche a 5 euro nel caso di Vogue, che è da sempre la rivista più cara; il prezzo standard di Grazia è 1.80 euro, ma molto frequenti sono le promozioni (come nel caso della rivista

che ho preso in considerazione) per le quali viene venduta ad 1 euro. Il volume e i gadget Anche il numero delle pagine si differenzia notevolmente da testata a testata: le riviste popolari, come Confidenze e Intimità, non superano mai le 100 pagine; Grazia e Donna moderna hanno mediamente 250 pagine per numero, mentre i giornali incentrati sulla moda, come Vogue, Glamour, Marie Claire, Amica, solitamente offrono circa 500 pagine. Ormai inoltre, tutte le riviste femminili, anche le più elitarie, mettono in pratica il meccanismo del gadget: insieme alla rivista vengono regalati oggetti, il più delle volte confezioni di formato ridotto di cosmetici. Questo processo incentiva le vendite, infatti le lettrici possono usufruire di articoli di qualità, forniti da marchi illustri, senza alcuna spesa aggiuntiva. Amica non allega un vero e proprio gadget, ma un poster che raffigura la copertina di una rivista del primo anno del ventunesimo secolo, ed una sorta di bollettino da compilare e spedire per ottenere uno sconto del 72% sull’abbonamento della rivista stessa: il tutto è finalizzato ad avere un riscontro economico. Marie Claire invece, offre, nella pagina della pubblicità del profumo di Narciso Rodriguetz un campioncino del profumo stesso. Grazia dona in omaggio un campione della crema Garnier “per pelli secche o sensibili”, e uno del “generatore di giovinezza” Genefique. Le riviste contano sulla collaborazione di nomi illustri Molte pubblicazioni si aprono con l’editoriale del direttore, in cui si descrivono brevemente gli articoli contenuti nel giornale: in Amica,

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Fotografia di Serge Leblon, Alla Kostromichova 2011. Ritorna la moda dei cappelli

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è la direttrice della testata Cristina Lucchini, attraverso l’articolo titolato “Detto tra noi”, a parlare e ad esaltare la testata da lei diretta. In una delle prime pagine di Grazia troviamo delle lettere indirizzate alla direttrice, alle quali Silvia Grilli (direttrice di Grazia) risponde. Gli argomenti trattati sono di vario genere e solitamente commenti di articoli da lei scritti. In Grazia degli anni passati il direttore della rivista non era mai citato. Oppure si promuovono eventi e manifestazioni culturali. Quasi tutte le riviste femminili possono contare sulla collaborazione di nomi illustri, che espongono la loro opinione su avvenimenti di vario tipo. Su Grazia nella rubrica “A essere sincera”, Anselma Dell’Olio presenta il suo pensiero su alcuni fatti di attualità, spesso riguardanti la condizione delle donne. Anche Bruno Vespa interviene sul periodico di Mondadori, analizzando i cambiamenti e le caratteristiche della società italiana. Filippo Facci gestisce “L’imperfezione delle donne”, in cui espone ricerche concernenti il comportamento del genere femminile, soprattutto dal punto di vista sessuale. Grazia è arricchita anche dal contributo del celebre oncologo Umberto Veronesi, che si pronuncia riguardo temi relativi la salute. Numerose rubriche sono dedicate al tempo libero: sono presentati eventi del momento, si descrivono le nuove tendenze in fatto di svago o divertimenti, si propongono i locali più in voga nelle varie città italiane. Lo sport Lo sport influenza nuovamente la vita quotidiana degli individui ed è diventato un tema fondamentale per l’editoria femminile. Le riviste realizzano rubriche, in cui descrivono nuove tipologie di attività sportive, oppure abiti innovativi pensati

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appositamente per il fitness. Abbiamo visto che già a partire dagli anni Sessanta cominciava ad essere diffuso l’interesse per lo sport, con l’inserimento di alcune rubriche che suggerivano alle donne una serie di esercizi da fare ogni giorno per manternersi in forma.

Cucina e cibo La gastronomia ultimamente è considerata un hobby ed i giornali femminili, anche quelli incentrati sulla moda, offrono sezioni, in cui si suggeriscono ricette innovative e, spesso, esotiche. Nella rivista Amica le pagine finali sono destinate alla cucina: fotografie accattivanti mostrano le delizie che si possono preparare seguendo determinate ricette. Inoltre, si attribuisce molta importanza al cibo, come strumento necessario per seguire una dieta regolare e per tutelare la propria salute.


Le varie testate elargiscono consigli per una corretta alimentazione, promuovendo prodotti a ridotto contenuto calorico o di coltivazione biologica. In Marie Claire nella sezione “Benessere”, sono dati alle donne consigli su come comportarsi per restare in forma, o perdere peso, essere sempre belle. Negli anni Cinquanta e Sessanta era ancora quasi del tutto assente l’uguaglianza bellezza = magrezza e pertanto non erano mai dati consigli su come riuscire a perdere peso o acquistare forma fisica. Architettura e arredamento Argomento abbondantemente indagato è l’arredamento: ogni rivista possiede una sezione in cui mostra alcune originali abitazioni, oppure espone mobili e accessori per la casa. Marie Claire pubblica un articolo sulla cura del giardino e sul “Green Design”, alla quale segue un breve servizio di moda che richiama appunto il tema floreale e due pagine dedicate a fantasiosi oggetti di arredamento basati sul tema del giardino e dei fiori. Un articolo parla anche di un affermato designer americano, Stefan Sagmeister. Un terzo servizio dedicato alla casa e all’arredamento esplora un bellissimo cottage in Danimarca, “sospeso tra i fiordi e campagna”. In Amica la sezione relativa al design, all’oggettistica e all’arredamento è assente, a differenza degli anni Sessanta in cui occupava uno spazio rilevante. Le riviste femminili continuano a proporsi come una forma d’indottrinamento, per descrivere alle donne italiane il giusto atteggiamento da tenere in ogni occasione. Su Amica è presente uno spazio in cui si forniscono informazioni relative al galateo; nel numero di aprile 2009 i suggerimenti riguardano il modo adeguato per camminare per strada: “ [...] Se si cammina in tanti, non si avanza tutti insieme come un battaglione:

ci si divide in gruppi di due o tre persone, la disposizione è casuale. Se si cammina in coppia limitarsi a dare il braccio evitando gli avviluppamenti. Infine, vanno sempre ignorate le provocazioni: si tratti di un uomo affascinante, di una donna abbigliata in modo eccentrico, di una coppia che si bacia, la signora elegante continua per la sua strada, senza muovere neppure un muscolo del collo”.140 Le riviste proseguono il loro ruolo di guide globali: le rubriche Le italiane hanno raggiunto l’indipendenza economica ed individuale, svolgono occupazioni di qualsiasi tipo, crescono figli da sole, eppure la stampa femminile ritiene ancora necessario somministrare loro una dose di consigli quotidiani, relativi alla buona educazione e al corretto comportamento della donna all’interno della società. Naturalmente, come accadeva anche negli anni Cinquanta e Sessanta, i consigli più frequenti riguardano il modo di abbigliarsi relativamente alle diverse occasioni che si vengono a presentare. Per esempio in Amica è la rubrica “Appunti di moda” di Silvia Paoli a svolgere questo ruolo. Le rubriche di posta sono sempre presenti sui giornali femminili, anche se, con l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche, al posto delle classiche lettere, si preferisce inviare alla redazione delle e-mail come suggerisce il titolo della rubrica

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di posta di Amica: “L@ Posta”, in cui viene trattato il tema della “mammoressia”. Generalmente i giornali dedicano più di una sezione alla corrispondenza con le lettrici. Molti interventi delle consumatrici sono spediti con la volontà di commentare gli articoli comparsi sul periodico nei numeri precedenti, oppure per comunicare il proprio apprezzamento della rivista. “L’articolo sugli uomini in rapporto ai loro giocattoli e passatempi ci ha fatto passare alcune pause pranzo in assoluta leggerezza. Grazie, ci sapete dire quando uscirà il libro?”. (Rubrica L@ Posta, Amica). Spesso, le donne scrivono per raccontare le proprie esperienze, in relazione ad alcuni argomenti trattati dalla testata. Quando le lettere vertono attorno al tema dell’amore, si riscontra un drastico cambiamento rispetto ai decenni precedenti nell’atteggiamento delle donne. Le lettrici non hanno timore a parlare di tradimenti o a rivelare la propria omosessualità, molte si dimostrano titubanti nell’affrontare una convivenza, oppure ammettono di non desiderare dei figli. Molte rubriche sono tenute da psicologi o psicoterapeuti, che rispondono a donne che svelano gravi problemi esistenziali o manifestano i sintomi di malattie nervose. Su Grazia Silvia Toffanin gestisce “C’è moda e modo”, in cui distribuisce consigli alle lettrici, che le si rivolgono per risolvere dubbi legati al bon-ton o all’abbigliamento. La rubrica ricorda molto la sezione “Saper vivere”, tenuta da Donna Letizia, sul settimanale di Mondadori, nei primi decenni della seconda metà del Ventesimo secolo. Infatti, nella parte bassa della pagina che ospita “C’è moda e modo”, si riportano alcune lettere indirizzate a Donna Letizia in passato.

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La narrazione Solo poche riviste propongono ancora racconti. Anche se le storie narrate presentano alcuni aspetti della società attuale, il perno attorno a cui ruotano rimane ancora l’amore. Si raccontano vicende di donne divorziate o tradite dal marito, si presentano coppie miste e le famiglie allargate, si descrivono situazioni di disagio estremo, ma anche le situazioni più difficili si concludono con il trionfo della felicità e del sentimento. Per esempio l’articolo di Amica dal titolo “Ci vuole vocazione per fare l’amante” ha come argomento la storia tormentata di una donna che si innamora di un uomo sposato. La vicenda, a differenza di quanto è solito accadere, non si conclude a lieto fine. Molto simpatico è l’articolo-racconto pubblicato da Amica dal titolo “Tutti insieme litigiosamente”, in cui si raccontano vicende di litigi o alleanze tra sorelle e fratelli, lasciando per una volta da parte il tema dell’amore. La fotografia di moda domina ancora Elemento centrale degli articoli di moda sono le fotografie: spesso, però, l’elaborazione grafica improntata alla spettacolarità, tende ad offuscare gli abiti proposti, di cui non si riescono a cogliere le caratteristiche. Le immagini sono arricchite da effetti ottici, giochi di luce, tagli originali, sfumature, sovrapposizioni e duplicazioni. Nei servizi, una o più modelle sono immortalate mentre compiono gesti quotidiani o in ambientazioni insolite, con la volontà di suggerire uno stile, più che di mostrare i singoli indumenti. In alcuni casi, gli articoli di moda immortalano personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo, come accade in Amica, dove la nota modella Bianca Balti, indossa abiti dei più grandi stilisti:


Anne Leibovitz per Vogue, Gennaio 2011

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Marie Claire vengono fornite idee su come abbigliarsi: “Marie Claire, 101 idee”: i capi di abbigliamento mostrati sono meno costosi e raffinati di quelli presentati nel servizio di moda. Anche nelle riviste degli anni passati abbiamo visto quanto fossero numerosi e diffusi i consigli alle donne su come abbigliarsi nelle diverse occasioni e circostanze. Tra le pagine dei rotocalchi si possono individuare pezzi dedicati allo stile di cantanti o attrici, basate su un utilizzo innovativo delle celebrità, sfruttate per ribadire il loro ruolo di testimonial di moda, come accade per Isabella Ferrari in Grazia, o Bianca Balti in Amica. Questo aspetto è assente nei rotocalchi di cinquant’anni fa. La moda del ventunesimo secolo “Per festeggiare i 150 anni di Amica, volevamo una madrina speciale: la super beauty italiana. Dagli squat alle copertine, dai supermercati alle passerelle. Lei che cucina, pulisce la casa e preferisce Lodi a New York.”. Segue un’intervista alla modella. Lo stesso accade con la giornalista e scrittrice Rula Jebreal. Gli articoli di moda delle riviste popolari sono curati in misura inferiore e propongono abiti poco costosi e destinati a donne mature. All’interno dei giornali, solo le sezioni dedicate alla moda, non vengono interrotte dalle pubblicità. Grazia spesso realizza articoli in cui si consiglia lo stile adeguato, in base alla taglia delle lettrici. Anche in

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La recessione economica, che sta vivendo la società italiana, produce effetti anche sull’approccio degli individui verso la moda: non si hanno le risorse finanziarie per permettersi un “total look” griffato, ma, allo stesso tempo la crisi ha incrementato la necessità di ricostruirsi uno status sociale tramite l’abbigliamento.


Quello che conta è il marchio e non più la qualità: in una realtà in cui tutti vivono in maniera dinamica e in cui le proposte di moda si alternano rapidamente, nessuno ha il tempo e la voglia di verificare le caratteristiche di quello che indossa e l’unico modo per emergere è puntare sulle aziende di rilievo. La soluzione è l’utilizzo dell’accessorio di marca e ciò si riscontra anche nella stampa femminile, in cui scarpe, borse e occhiali sono i protagonisti di un gran numero di servizi. Per esempio, in Amica, rivista rivolta ai ceti medio alti, il servizio di moda, che occupa un centinaio di pagine (come sempre è collocato nelle pagine centrali) presenta abiti e accessori assolutamente di pregio e molto costosi, disegnati dai più grandi stilisti della nostra epoca: ancora oggi, come negli anni Cinquanta, uno dei nomi che compare più spesso nelle didascalie è quello di Christian Dior. Significativa è l’ultima pagina della rivista Amica nella quale viene richiamata da una fotografia in bianco e nero e da un breve testo, la nota “linea A” di Dior: “Lezione di stile: Dior reinterpreta la figura femminile e propone una nuova silhouette. Ieri come oggi.” Ed in seguito: “Parigi,

Febbraio 1955: Christian Dior presenta per la stagione primaverile la nuova linea ad “A”: giacche con le spalle piccole, dritte e gonne a pieghe. E’ l’opposto della famosa Bar Jacket del 1947 (vita stretta e fianchi arrotondati) che Raf Simons, nuovo stilista della Maison Dior, ha ripreso e rielaborato con successo per la Collezione Couture autunno/inverno 2012-2013 e per la prossima primavera/estate. Quindi linea a sacchetto o vita segnata? A voi la scelta”. L’attuale società è ricca di contaminazioni culturali, legat ai fenomeni di globalizzazione internazionale, che portano diverse realtà etniche a convivere. Su Amica di Aprile 2009 è presente un servizio di moda ambientato nella savana; anche Grazia nella prima settimana di Aprile ha realizzato un servizio fotografico incentrato sul tema del safari; lo stesso mese Marie Claire ambienta un articolo in Africa. Si parla di indigeni, di viaggi nel deserto, di esplorazione di luoghi lontani, anche se ritorna sempre il richiamo delle grandi metropoli come Londra, New York e Parigi. Ancora numerose sono le interviste agli stilisti arricchite da molte fotografie riguardanti la vita privata dei creatori di

“So much Chic” Andrea Diaconu fotografata da Solve Sudsba per Vogue Italia, Febbraio 2013

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moda, ma anche le prerogative dell’azienda che gestiscono. Marie Claire realizza costantemente servizi in cui presenta negozi storici delle varie città italiane: si tratta di vere e proprie pubblicità, in cui, oltre a descrivere lo stile e le marche proposte dal punto vendita, si forniscono l’indirizzo e l’orario di apertura dell’attività commerciale. Aumentano gli articoli in cui si propongono prodotti di moda creati per i bambini, con la consapevolezza dell’enorme importanza attribuita dalle madri all’acquisto di oggetti per i figli. Inoltre, anche i preadolescenti, con un’età che oscilla dagli otto ai dodici anni, risultano molto sensibili all’influenza delle tendenze nel campo dell’abbigliamento. I ragazzini hanno ormai assorbito la cultura del consumo e sono, forse, gli ultimi acquirenti a seguire le logiche tradizionali della moda e ad adattarsi ad estetiche omologate e riconoscibili. Lo stile adeguato è considerato come uno strumento per crescere più in fretta e per guadagnarsi una posizione sociale rispettabile.

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La cosmetica Nella società attuale risulta enorme l’importanza attribuita alla bellezza e all’apparenza esteriore. Il trucco e i capelli sono ormai oggetti di moda e ogni rivista destina alle lettrici una moltitudine di proposte relative a questo argomento. Per esempio in Amica una decina di pagine sono dedicate ad un servizio di nuove creme “efficacissime”, a pubblicità di nuovi prodotti per la cura del corpo, e a consigli sul trattamento dei capelli o su particolari acconciature. Marie Claire dedica un’intera sezione a questo tema: “Marie Claire bellezza”, nella quale sono pubblicizzati una serie di prodotti per il make-up e per la cura della bellezza. Alcuni giornali rivolgono alle lettrici rubriche di posta, in cui si possono richiedere consigli personalizzati sul make-up o sul taglio dei capelli più adatti alle proprie caratteristiche fisiche. Inoltre, ogni testata promuove numerosi prodotti destinati alla cura del corpo e fornisce gli indirizzi di palestre e beauty farm


all’avanguardia. “Arrivano le creme dai super poteri illuminanti, ricche di ananas, gigli, narcisi, lievito e legumi, combattono il colorito spento dell’inverno, a tutte le età.” (Amica). Anche nelle riviste d’epoca che ho analizzato erano presenti consigli riguardanti il trucco, o l’acconciatura: certamente occupavano uno spazio minore e non si limitavano alla spudorata promozione di articoli in vendita, dei quali oggi viene indicato, nella didascalia, addirittura il prezzo. La chirurgia estetica è un argomento molto trattato dalla stampa femminile e molto presente anche nel mondo della pubblicità. Sempre più donne, influenzate dai modelli di bellezza imposti dalla società e dal mondo dello spettacolo, oppure penalizzate da una scarsa autostima, si affidano al bisturi del chirurgo. Se in passato la chirurgia estetica era una pratica destinata alle signore anziane incapaci di accettare i segni della vecchiaia, adesso anche le ragazze vengono attratte da questo fenomeno e sono molti i casi di minorenni che chiedono come regalo di compleanno un intervento al seno. Molto spesso le riviste femminili presentano trattamenti realizzati dalle aziende di cosmetici, con cui le donne possono effettuare piccoli “ritocchi” a domicilio. La società Alcune pubblicazioni, come Vogue, preferiscono ignorare le problematiche dell’attualità, per dedicarsi esclusivamente alla moda e all’immagine esteriore. Altre riviste, invece, hanno scelto di non avere un comportamento passivo rispetto a ciò che succede nel mondo, informando i lettori sulle questioni del presente, come Grazia ed in misura minore Marie Claire. In alcuni casi, inoltre, i giornali cercano di coinvolgere i consumatori in attività che puntano al miglioramento della società, presentando iniziative di solidarietà.

Molte inchieste sono incentrate sui problemi dei Paesi in via di sviluppo, danneggiati dalla povertà, dalla mancanza di strutture sanitarie adeguate, da numerose e drammatiche guerre civili, dalla tirannia di governi dittatoriali. I giornali femminili analizzano ampiamente le notizie di cronaca nazionale e internazionale e parlano costantemente dei fatti della politica e della società italiana, con una notevole preferenza per i fatti tragici. Questo accade soprattutto in Grazia, mentre le altre due riviste analizzate, in particolare Amica, si occupano prevalentemente di moda o di argomenti più frivoli, come accadeva anche in passato. Molto spazio è dedicato alla cultura e alla promozione di espressioni artistiche, come accade nella sezione “Note del mese” di Marie Claire, in cui si parla di arte, cinema, letteratura. Questo spazio non era quasi mai presente nei rotocalchi degli anni Cinquanta e Sessanta. Tutte le pubblicazioni realizzano sezioni, incentrate sul teatro, il cinema, la letteratura, la danza, la pittura o la scultura. Su Grazia è presente “L’anticipazione, l’incipit della settimana”, in cui si mostra la prima pagina di un romanzo scelto dalla redazione. Anche su Amica troviamo l’anteprima di un “libro ancora inedito sui maschi e sui loro passatempi”. Inoltre sia Glamour che Amica offrono una rubrica di poesia, realtà non molto esplorata dalle altre riviste: in ogni numero dei mensili, una pagina ospita un brano di un poeta contemporaneo o del passato. Riscuotono molto successo gli articoli riguardanti le trasmissioni più famose o le numerose fiction che riempiono il palinsesto televisivo. Sono frequenti le interviste ad artisti, musicisti, celebrità del mondo dello spettacolo e della televisione, che raccontano la propria esperienza lavorativa e svelano curiosità sulla loro vita privata. Alcune riviste realizzano rubriche

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Angelina Jolie fotografata da Mario Testino nel 2004

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in cui si riportano frasi originali o divertenti dei vip nazionali o internazionali, come Grazia che presenta “Senti chi parla”. Talvolta, le esperienze di persone famose vengono narrate per proporre alle lettrici un esempio da seguire; Marie Claire nel numero di Aprile 2009 propone un articolo dal titolo “Vissuto per voi”, in cui personaggi noti e non più giovani espongono il loro pensiero riguardo la vita. Nelle prime pagine di Amica è pubblicata una lettera del cantante Biagio Antonacci, il quale elogia le donne e sfrutta l’occasione per pubblicizzare il suo nuovo album. Il nucleo famigliare ed il tema “sesso” Il nucleo familiare si è completamente modificato: le coppie separate o divorziate sono numerosissime ed aumenta notevolmente il numero delle persone che preferiscono la convivenza all’unione matrimoniale. Ciononostante sui giornali femminili compaiono frequentemente articoli, che hanno l’obiettivo di aiutare le lettrici a districarsi tra le numerose incombenze e regole che un matrimonio ancora oggi comporta. Spesso le riviste realizzano servizi, in cui le persone raccontano le loro storie d’amore e descrivono i numerosi problemi della vita coniugale. Amica propone l’inchiesta a puntate “Che cos’è l’amore in...”, in cui si analizzano le regole di seduzione e la concezione dell’amore, diffusi nei vari Stati del mondo. Nella società contemporanea si è verificata una forte riduzione del senso del pudore: gli individui amano mostrare il proprio corpo e sentono in misura minore la

necessità di nascondere la propria sessualità. Il sesso, un tempo bandito dalla vita pubblica, è ormai un argomento chiave delle riviste femminili, spesso indagato in relazione ad aspetti delicati, come l’omosessualità e l’infedeltà coniugale. Emerge la volontà di esibire gli aspetti più intimi della propria vita privata, da parte delle lettrici, che inviano ai giornali brani in cui descrivono le proprie esperienze erotiche, senza il timore di essere giudicate. In Marie Claire un uomo racconta la sua storia: il test del DNA gli ha rivelato che la figlia che per nove mesi aveva creduto sua, in realtà era di un altro uomo. Al fondo dell’articolo viene indicato un indirizzo mail a cui inviare la “propria storia drammatica”. Anche l’articolo di Amica “La vogliamo finire con l’orgasmo?”, affronta un tema riguardante il sesso, che sarebbe risultato sconvolgente se pubblicato anni fa; “Così, adesso, molte si chiedono che cosa fare della cara vecchia clitoride, oppure se sia il caso o no di cercare il punto G, di impegnarsi per diventare donne-fontana, in obbligo di eiaculare come i maschi”. I periodici femminili seguono le tendenze attuali in relazione ai mezzi di comunicazione, dedicando ampio spazio ai nuovi media, nati con l’introduzione del computer. Molte riviste posseggono un sito o un blog, in cui gli utenti del web possono trovare articoli mai pubblicati, fotografie e video inediti. Questo strumento è considerato una forma di promozione dei giornali, che in ogni numero pubblicizzano il loro corrispettivo virtuale. Condé Nast

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gestisce il sito Style.it, in cui sono forniti informazioni e articoli relativi ai tre mensili femminili che il gruppo editoriale pubblica: Glamour, Vanity Fair e Vogue. Donna Moderna presenta la sua versione virtuale su www.donna moderna.com; Grazia offre grazia.blog.it; Marie Claire propone il sito www.marieclaire.it. Inoltre, le pubblicazioni offrono molte notizie legate alle tendenze del mondo

dell’informatica, fornendo alle consumatrici gli indirizzi di alcuni siti internet e blog. Nell’ultimo decennio si sono moltiplicati i servizi di chat e i social network, come Facebook o MySpace, con cui gli utenti cercano nuove amicizie e relazioni sentimentali. Le riviste attribuiscono molta importanza a queste realtà emergenti, dedicando numerosi articoli al fenomeno della socializzazione virtuale. Marie Claire, ogni mese, realizza la simulazione ironica del profilo Facebook di personaggi famosi, oppure di partiti politici. Grande spazio è dedicato alla tecnologia, al giorno d’oggi, strumento basilare nell’esistenza quotidiana: esistono

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numerose rubriche che presentano innovativi dispositivi tecnologici o facilitano le lettrici a rapportarsi con questa realtà in evoluzione. I mass media, la pubblicità in particolare, tendono a creare negli individui l’ambizione per un “corpo ideale”, che può provocare disagi psicologici, problemi fisici e sociali. L’immagine della donna diffusa dai giornali femminili non è il ritratto di una condizione reale, ma la rappresentazione simbolica di un modello, che segue ideali e aspirazioni collettive, ma che risulta impossibile da raggiungere. Le donne continuano a subire ampiamente gli stereotipi ed è allarmante constatare che il 90% di esse vorrebbe modificare almeno una parte del proprio corpo. Il confronto forzato con standard irraggiungibili produce inevitabilmente un calo di autostima ed un sentimento di insoddisfazione, che si tenta di arginare con il consumo sproporzionato. L’industria pubblicitaria esalta intenzionalmente il mito dell’apparenza, spingendo uomini e donne a considerare la cura della propria immagine pubblica, come il migliore strumento di affermazione personale.


Campagna pubblicitaria “Dolce & Gabbana”, 2013; entrano a far parte delle riviste e delle pubblicità anche uomini e bambini.

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Conclusione I risultati ottenuti dalle analisi che ho condotto, permettono dunque di delineare diversi aspetti: la rappresentazione della moda nelle riviste, la sua percezione attraverso il mezzo stampa, la raffigurazione della donna, la grafica dominante nel periodo in esame e cosa si voleva comunicare tramite il linguaggio grafico e fotografico. Per quanto riguarda il tema “moda”, è bene fare un paragone con le riviste attuali: sebbene in esse si parli molto di moda, si vede la moda ma non si legge la moda. La trattazione di questo tema assume una connotazione generalmente effimera e esteriore, più che problematica e analitica. Sono scarsi, se non assenti, riferimenti ad aspetti economici ed istituzionali del settore. Inoltre il contributo personale del giornalista di moda nella maggioranza dei casi non è evidente, la natura dell’articolo è spesso un servizio generico, il tono del pezzo è prevalentemente neutrale e l’atteggiamento è rituale e di assenso. Ciò non accadeva nei rotocalchi femminili più antichi, come quelli analizzati. In essi il giornalista di moda partecipava in prima persona, esprimendo opinioni personali; addirittura ho incontrato casi in cui compariva la fotografia dell’autore stesso. E’ vero, anche essi erano dominati dai soli grandi stilisti, ed il sistema moda ruotava attorno agli stessi eventi, ma non mancava la compattezza tra i vari soggetti del sistema moda, che oggi è venuta meno. Mentre oggi la figura della donna non ha più un ruolo centrale e l’uomo compare solo come “modello” che a sua volta indossa le ultime creazioni dei più grandi stilisti, negli anni Cinquanta e Sessanta le riviste femminili erano dominate dalla figura della donna. Tutto ciò che era da

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esse comunicato ruotava attorno alla figura femminile come l’unica destinataria del messaggio. Non si trattava di una donna qualunque, ma di una casalinga, i cui scopi erano compiacere il marito ed essere sempre perfetta ed adeguata ad ogni occasione. Dunque l’uomo compariva solo come individuo con il compito di approvare o disapprovare la propria moglie. Negli anni indagati le donne assomigliano a “bambole di porcellana”, sia per quanto rigurda la loro pelle sempre liscia e levigata, che per quanto concerne la loro posizione, assolutamente rigida e innaturale. Oggi le figure femminili rappresentate appaiono più disinvolte e meno rigide, anche se il più delle volte sono serie, e quai mai volgono lo sguardo all’osservatore. Per quanto riguarda l’aspetto grafico, esso rispecchiava le grandi evoluzioni avvenute in quegli anni nel campo della stampa e della tipografia. Sicuramente, a differenza dei tempi odierni in cui l’impaginazione, grazie ai sistemi digitali e ad appositi programmi, è assolutamente rigorosa, negli anni Cinquanta e Sessanta, in cui le immagini erano icollate manualmente accanto ai testi, spesso non è possibile individuare una vera e propria gabbia grafica: talvolta le pagine appaiono disordinate e gli elementi che le compongono disposti senza rigore logico. E’ tuttavia proprio questo aspetto, insieme a molti altri, ad avermi affascinata inducendomi a trattare questo tema. Il grande formato delle riviste, sebbene poco maneggevoli, le rendeva a parer mio


ancora più preziose e gradevoli, causando difficoltà di fruizione in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo, come avviene al giorno d’oggi. I rotocalchi femminili sono ormai visti come possibili “oggetti di compagnia” in qualsiasi situazione. Stupefacente è anche la qualità delle fotografie, sia in bianco e nero che a colori, assolutamente “diverse” da quelle attuali. Attraverso tecniche di ritocco analogiche, come l’uso dell’aerografo o il processo di acidatura, il risultato ottenuto era assai gradevole, anche se il più delle volte poco realistico. Sono infatti stata profondamente colpita dalla qualità grafica e fotografica di riviste pubblicate in anni così lontani da noi, in tempi in cui gli sturmenti di cui si disponeva erano assolutamente limitati. Tutti questi fattori, uniti alla mia passione per l’arte grafica di cui le riviste sono efficaci strumenti di trasmissione, mi hanno indotta a focalizzarmi su questo tema come oggetto di analisi e argomento di discussione in un’ occasione importante come la laurea.

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