#siamoincredito, iniziamo a riscuotere

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Indice La ricchezza si sposta, la società cambia: l'Italia e il suo sistema fiscale Evasione, elusione, corruzione La Fiscalità Europea

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La proposta del Governo sulla tassazione Fiscalità e modello produttivo Fiscalità e Ambiente Fiscalità e Lavoro

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Fiscalità e istruzione: scuole ed università gratuite Fiscalità e ricerca

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La fiscalità e la redistribuzione delle ricchezze: il reddito di base

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La ricchezza si sposta, la società cambia: l'Italia e il suo sistema fiscale L’Italia è un Paese sempre più diseguale. Le politiche di austerity in questi anni hanno determinato, attraverso la parola d’ordine della “spendig review”, la demolizione delle ragioni e della concretezza di un sistema di welfare che, conquistato in decenni di mobilitazioni che hanno caratterizzato una delle più intense stagioni di progresso sociale, ha rappresentato un elemento cardine del benessere e della inclusività sociale del Paese negli ultimi 30 anni. Si tratta di quello stesso sistema di welfare che in questi anni abbiamo denunciato essere estremamente escludente rispetto alla società attuale, in quanto agganciato ad un modello produttivo, quello fordista, e un sistema sociale, quello della centralità della famiglia e dei grandi luoghi collettivi di lavoro e aggregazione, ormai non più omogenei ad un modello sociale ed economico “globalizzato” basato sulla competizione e la produttività. Un welfare da cambiare quindi, ma attraverso una chiave universalistica e dunque inclusiva, in grado di essere una risposta radicale all’altezza del tempo presente. Un cambiamento che, però, ne riattualizzi il senso e le ragioni e non lo trasformi in un cimelio del ‘900 da sacrificare sull’altare di culto del modello di governance dell’austerità, che ha svuotato i processi democratici e allargato a dismisura la forbice sociale attraverso un’ enorme redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto. In una prima fase di questo processo di trasformazione dell’elemento fondativo della Repubblica (il lavoro) tramite il pacchetto Treu e Legge Biagi si è determinato, e lentamente approfondito, un sistema duale, che garantiva la tutela dei diritti e delle prestazioni sociali di una parte della forza lavoro (i cosiddetti garantiti) attraverso lo scalpo della restante parte dei lavoratori inquadrati in contratti precari ed atipici in costante crescita. Con la nascita del governo Renzi, e le sue gestazioni “tecniche”, questo processo di segmentazione/degradazione ha fatto un salto di qualità a seguito dell’approvazione del decreto Poletti e del Jobs Act, trasformando il nostro mercato del lavoro in un sistema di nuovo semi-uniforme, poiché molte differenze contrattuali continuano a permanere, ma livellato verso il basso attraverso la sostanziale demolizione dello statuto dei lavoratori e della garanzia di un lavoro dignitoso in cui affermare i propri diritti e la propria stabilità lavorativa ed esistenziale. La tragedia sociale che ci è stata imposta in questi anni e che si è mascherata sotto questo “gran de” processo di riforme e ammodernamento del Paese è riassumibile in alcuni dati che rappresen tano la fotografia fedele del nostro paese: 10 milioni di persone in condizioni di povertà relativa (16,6% della popolazione), 6 milioni in povertà assoluta (9,9%), 3.2 milioni di working poor, 3.2 milioni di disoccupati, 3.5 milioni di inattivi, 3.3 milioni di precari, di soccupazione al 12% (20% al sud), disoccupazione giovanile al 44,2%. Davanti a questa fotografia torniamo a ribadire con forza che non si può tornare indietro, non ha senso rivendicare un sistema di welfare tarato su un modello sociale non più riproducibile: è ne-

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#siamoincredito, è ora di riscuotere cessario aprire strade nuove, definire nuovi modelli sociali solidali, emancipatori, collettivi, a partire dalla rivendicazione centrale del reddito. In questo contesto il Governo ha lanciato la sua campagna d’autunno sull’abbassamento delle tasse. Crediamo che l’intervento sulla fiscalità generale (riducendo la pressione fiscale sui redditi medio-bassi, sulla formazione e sulle tasse indirette) sia necessario a re-indirizzare il Paese, ma siamo inflessibili nell’affermare che questa riduzione non possa finanziarsi con un ulteriore innalzamento dei costi sociali per la maggior parte della popolazione. C’è urgenza di intervenire sulla fiscalità, ma per redistribuire le risorse e ridimensionare così la forbice sociale, per aggredire patrimoni e rendite di posizione liberando risorse per le aree a rischio di “sottosviluppo permanente” (come recentemente sottolineato dal rapporto Svimez1) o depresse dalla crisi economica e i tagli al welfare, per orientare la produzione verso i settori più innovativi e sostenibili, per partire dal reddito, ripensando radicalmente il welfare in un’ottica universale e individuale, lontano dalle ipotesi assistenzialiste e familiste. Il sistema fiscale italiano è invece un sistema che oggi premia le ricchezze parassitarie (evasione, rendite, speculazione finanziaria, etc.), scoraggiando gli investimenti produttivi e deprimendo i consumi. Guardando alle serie storiche, l’aumento medio del prelievo per ciascun lavoratore o pensionato che si è accumulato dal 1980 a oggi è di 3.300 €. Senza l’aumento cumulato delle tasse, dipendenti e i pensionati avrebbero in media salari/pensioni più alte di 275 € al mese. Il rapporto tra la ricchezza media del 5% di famiglie più ricche (2,3 mln di € per nucleo) e quella del 50% delle famiglie italiane più povere (70mila € per nucleo) è di 33 a 1. Il 46,9% di pressione fiscale sul lavoro nel 2009 pone l’Italia al quinto posto tra i paesi OCSE, mentre siamo 22esimi nella classifica dei salari. Negli anni 2000-2010 le entrate fiscali provenienti da lavoro dipendente e da pensione sono aumentate in termini reali del 13,1%. Le entrate derivanti da tutti gli altri redditi sono invece diminuite del 7,1% 2. Osservando l’andamento dell’Indice di Gini 3, che misura la concentrazione delle ricchezze e che esprime valori contenuti tra 0 (massima uguaglianza) e 1 (massima disuguaglianza), è possibile tracciare una storia dell’aumento delle disuguaglianze nel nostro Paese. Oggi infatti nell’area OCSE siamo uno tra gli Stati con la più alta disuguaglianza nella distribuzione delle ri sorse dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, con un indice di 0,34 a fronte di una media dello 0,31. Dopo un decennio di calo delle disuguaglianze tra gli anni ‘70 e ‘80 - con un minimo nel 1991 (0,27), ovvero nell’ultimo anno in cui è rimasto in vigore il meccanismo dell’adeguamento dei salari all’inflazione (la cosiddetta scala mobile) - l’indice di Gini è cresciuto costantemente lungo tutti gli anni ‘90 e si è mantenuto su livelli alti nei ‘00. In particolare, l’indice è tornato a crescere in maniera evidente dal 2008 (0,31) in poi (oggi è allo 0,34), proprio in corrispondenza dell’inizio della crisi economica e della sua gestione da parte dei Governi nazionali e della governance europea. Interessante è anche osservare le differenze territoriali rispetto a quest’indice: nel 2012 Sicilia (0,35), Lazio, Campania, Molise e Liguria (0,33) erano sopra 1 http://www.svimez.info/index.php?option=com_content&view=article&id=335&lang=it 2 La fonte dei dati di questo paragrafo è la CGIL di Lodi 3 http://dati.istat.it/Index.aspx?QueryId=4836

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#siamoincredito, è ora di riscuotere la media nazionale (0,31), costituendo dunque le Regioni più diseguali d’Italia. Il sistema fiscale ha un ruolo determinante in queste dinamiche. Con questo documento vogliamo delineare alcuni spunti su come un altro modello di fiscalità può produrre delle ricadute positive sul lavoro e la produzione, sulla formazione, sull’ambiente, e in generale sulla redistribuzione delle risorse e del benessere sociale nel nostro Paese e in Europa.

Evasione, elusione, corruzione L’elusione è la modalità con cui si evita legalmente di pagare tutte le tasse attraverso espedienti giuridici. L’evasione è invece una attività illecita. In Italia l’efficienza del sistema fiscale è compro messa da: livelli bassi e costosi di adempimento degli obblighi fiscali (91 mld di € e 5,6% del Pil). Ad oggi l’evasione fiscale nel nostro paese rappresenta un bacino di risorse da aggredire. Una delle possibile strade per risolvere il problema annoso dell'evasione fiscale e del peso esorbitante dell'economia sommersa riguarda la tracciabilità. Una delle idee che si potrebbe discutere è quella di abbassare a 500 euro la soglia della tracciabilità degli scambi in denaro contante, in un contesto in cui il Premier afferma di volerla alzare a 3.000 € per “aumentare i consumi” secondo un nesso di causa-effetto che fatichiamo non poco a comprendere. L'economia sommersa potrebbe essere invece aggredita attraverso un’azione più incisiva delle politiche governative attraverso precise scelte di campo come quella di rendere reato penale il caporalato e dotarsi di strumenti utili per affrontarlo. I costi dell'evasione fiscale ammontano a circa 2000 euro all'anno per ogni onesto contribuente. Le multinazionali, in particolare, sono facilitate a perseguire elusione ed evasione a causa della mancanza di cooperazione tra i diversi Stati, dell’assenza di regimi fiscali concordati e della presenza di “Paradisi Fiscali” verso i quali sono spostati i capitali come nel caso del’utilizzo di società controllate straniere per “spostare i profitti”, i prestiti tra filiali dello stesso gruppo mirati ad “aggiustare il volume di debito” di ciascuna e ad ottenere vantaggi fiscali indebiti, l’aggiramento delle regole sulla “presenza stabi le” in un Paese per non risultare tassabile. Al fine di attrarre capitali molti Stati, infine, fondano la loro politica sulla competizione fiscale a scapito degli altri. Per combattere questi fenomeni è quindi necessario costruire regole di tassazione meno generiche e costruire dei principi internazionali cooperativi a livello fiscale che garantiscano uniformità di regolamentazione, specie a livello Europeo, e limitino la circolazione di capitali che avviene ai danni della collettività con tasse sulle transazioni finanziarie, limiti all’ultiliz zo dei derivati, maggiori controlli sui movimenti di capitale, contrasto al sistema bancario ombra, li mitazioni alle transazioni in contante rendendole sempre più tracciabili. E’ necessario quindi preve nire oltre che curare, incentivando specifici studi di settore per comprendere la natura dell’evasione fiscale, impostando i controlli e costruendo imposte alle imprese con componenti di difficile o non conveniente occultamento, promuovendo politiche contro il lavoro nero ed il capo ralato. Il costo della corruzione è stimato dalla Corte dei Conti in 60 miliardi di euro. E’ evidente che sia necessario costruire una riforma fiscale con rigide regole di trasparenza e pubblici tà, orientate alla costruzione di meccanismi quanto più partecipati possibili, affinchè sia la collettivi-

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#siamoincredito, è ora di riscuotere tà tutto ad essere messa in condizione di garantire principi di giustizia contro criminalità organizzata e non.

La Fiscalità Europea Nello scenario europeo che si è andato delineando dopo 7 anni di crisi economica e la relativa scel ta di gestirla attraverso i dettami dell’austerity, l’Italia rappresenta uno dei sistemi fiscali più iniqui in assoluto. Uno dei casi più estremi in termini di regressività del modello di tassazione, così come confermato dalle statistiche diffuse dalla Corte dei Conti: nel nostro paese le percentuali dei prelievi sui redditi da lavoro e d’impresa sono ai primi posti in Europa, mentre siamo tra gli ultimi per quanto riguarda i prelievi sui consumi. Rispetto alla tassazione sui patrimoni, l’introduzione dell’IMU nel 2011 ha riportato in alto l’Italia nelle statistiche: la prospettiva delineata dal governo Renzi di cancellazione della TASI a partire dal 2016 si rivela una scelta assolutamente regressiva, andando ad avvantaggiare ulteriormente i grandi patrimoni. Sotto la pressione dei vincoli di bilancio, molti paesi hanno optato per aumentare il gettito fiscale in un’ottica diametralmente opposta a quella redistributiva, andando ad incidere maggiormente sulle fasce più deboli della popolazione piuttosto che sui soggetti più abbienti. Una tendenza che oggi è comune alla maggior parte dei sistemi fiscali nel nostro continente, nel rifiuto generalizzato di imporre un incremento della tassazione sui patrimoni e sulle rendite, il quale andrebbe così a soddisfare la condizione di progressività del modello di tassazione, inver tendo la rotta in termini redistributivi e contribuendo ad una riduzione delle diseguaglianze che in vece continuano ad aumentare. In una fase nella quale si va via via rafforzando il dogma del taglio della spesa pubblica, costruito intorno ad una retorica fondata sulla rimozione degli sprechi esistenti, ci pare tanto più importante ragionare invece di quali strumenti dotarsi per rendere sostenibile un sistema di welfare universale, che vada a garantire i diritti fondamentali quali quello alla salute, all’educazione, alla possibilità di una vita dignitosa. In questo senso la prospettiva europea è quanto mai importante, laddove lo spazio continentale nasce per rispondere a queste necessità, per superare un divario che oggi sussiste tra i diversi paesi. Possiamo oggi pensare alla dimensione europea come quella sulla quale costruire una prospettiva di riduzione e rimozione delle diseguaglianze sociali, tramite un rafforzamento della sua azione politica? In quali termini un ripensamento in termini di democrazia interna della struttura stessa della comunità europea può rispondere a questo bisogno? E’ infatti evidente come oggi le politiche adottate a livello continentale rispecchino quelli che sono gli inte ressi delle elitè dominanti, la cui influenza sul potere politico decisionale e progressivamente raffor zato dall’acuirsi delle diseguaglianze all’interno della società. Da tempo abbiamo assunto ormai come questa battaglia vada necessariamente com-

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#siamoincredito, è ora di riscuotere battuta sul piano europeo, così come su quel piano dobbiamo portare anche le nostre rivendicazioni: essere in grado di immaginare un sistema di welfare europeo, che miri a ridurre le differenze dentro un continente che viaggia oggi a più velocità. Uno strumento che vada a rispondere alla dilagante povertà ma che soprattutto sia in grado di rimettere al centro gli interessi della col lettività, a scapito di quelli finanziari che hanno ci hanno condotto alla crisi economica che negli ul timi anni abbiamo dovuto pagare. In questi termini è fondamentale allargare il ragionamento oltre quello che oggi è definito generi camente come “pubblico”, andando ad indagare a fondo le responsabilità di un settore finanziario privato assolutamente privo di regole dentro l’attuale situazione economico-sociale. Quella alla quale abbiamo assistito è infatti la totale libertà da parte degli investitori nell’utilizzo della finanza come strumento di riproduzione della ricchezza, andando al contempo a danneggiare ulteriormente quella che possiamo definire l’economia “reale”, risucchiando ingenti fette di ricchezza e rimettendole in circolo in un sistema di accumulazione esasperata di pro fitto. La proposta di un sistema di tassazione delle transazioni finanziarie prova a rispondere a questo si stema, andando ad incidere in maniera preponderante sui meccanismi speculativi all’interno del sistema finanziario, riportando lo stesso al suo ruolo originario di strumento al servizio della società. Tale misura garantirebbe un importante gettito (34 mld secondo la Controfinanziaria 2015 di Sbilanciamoci) da poter investire per l’attuazione di misure universali di soste gno al reddito su scala europea, in termini diretti e indiretti.

La proposta del Governo sulla tassazione In questo quadro economico e sociale, dopo ormai 8 anni di crisi, il Governo Renzi ha annunciato un grande piano di riduzione delle tasse e di “rivoluzione fiscale” da inserire nella legge di stabilità. Non deve stupire l’enfasi della retorica riformatrice. Una retorica che abbiamo già smascherato in occasione della Buona Scuola, dello Sblocca Italia, del Job’S Act e della Riforma Costituzionale. Questo governo è lontano anni luce dall’instabilità e dalla stasi degli ultimi anni rispetto alla tra sformazione dello Stato, di questo posiamo dare atto al Premier; ma è la natura stessa della trasformazione a preoccuparci non l’astio verso chi negli ultimi anni ha contribuito alla crisi del Paese. Anche nell’ambito dell’augurata “riforma fiscale” è la sua matrice neo-liberista, in continutità con le altre riforme, che deve essere messa in luce per lasciare spazio ad una proposta che dal basso, da sinistra, provi a mettere in discussione le contraddizioni del nostro sistema fiscale e quindi le diseguaglianze strutturali all’interno della distrubuzione della ricchezza in Italia. Alla luce dei dati sulla forbice sociale e le diseguaglianze nel nostro paese secondo noi sono quat tro le domande da cui bisogna partire per porre nei termini giusti la questione delle riforma fiscale: Il corrente sistema fiscale rispetta il principio costituzionale di progressività?

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La riforma del governo Renzi si muove in questa direzione? Quale disegno sociale si manifesta dietro il nuovo sistema di contribuzione? Qual è la base sociale a cui mira l’intervento del Governo? Crediamo che in un Paese sempre più diseguale e desertificato economicamente e socialmente una riforma fiscale, quanto mai necessaria, debba avere l’ambizione di ridurre la forbice sociale, di ridisegnare il sistema produttivo incentivando l’economia sostenibile, di individuare dei cardini su cui costruire il futuro di intere generazioni come la scuola e l’università gratuite. La proposta del Governo Renzi non risponde a nessuna di queste necessità, anzi: il primo elemento che ci risulta subito evidente è che questa proposta è una classico “cambiare tutto per non cambiare niente”, un estremo tentativo di difendere lo status quo, con tutte le diseguaglianze che comporta. Abolire la tassa sulla prima casa per tutti , il primo step della rivoluzione fiscale a partire dal 2015, non è una misura di “equità e giustizia sociale” ma un’iniqua misura assistenziale, elemento questo così tanto contestato nella giusta rivendicazione di un reddito di dignità quanto in essa assente, che dà poco a chi ha poco e tanto a chi ha tanto. Non esattamente un bel modo per cominciare una rivoluzione fiscale. Una riforma che continuerebbe nel 2017 con la riduzione della pressione fiscale sulle imprese, con la riduzione indiscriminata di IRAP e IRES per 15 miliardi, un’ulteriore iniezione di liquidità dopo quelle introdotte con il Jobs Act per continuare a mantenere un sistema pro duttivo molto spesso antiquato che si mantiene soltanto sul “doping di Stato”. Non siamo tra quelli che pretendono tasse per tutti , senza fare distinzioni tra il piccolo imprenditore e il grande multimiliardario, non siamo affezionati a questo schema: crediamo però che se il sistema produtti vo deve ripartire questo non possa avvenire attraverso regalie di stato. Crediamo che la riduzione della contribuzione delle imprese sia un importante strumento nelle mani dello Stato per reindirizzare e convertire finalmente il nostro sistema produttivo ma solo se adeguatamente indirizzato: ancora una volta non un poco a chiunque, ma ridisegnare il paese attraverso sgravi a chi investe in innovazione e ricerca, in sviluppo tecnoligico e in sostenibilità ambientale. Non bisogna dimenticare che i nostri sono gli imprenditori meno disposti a cambiare modello produttivo, a investire in ricerca e innovazione, a ripensare un sistema economico che sia in armonia con i territori e i contesti sociali su cui insiste, e ne stiamo pagando tutti le conseguen ze. Infine la rivoluzione verrebbe completata nel 2018 aggredendo le aliquote Irpef (l’im posta sui redditi) e donando il bonus 80 Euro alle pensioni minime: un’operazione di altri 15 miliardi nelle intenzioni del governo. Il refrain sembra lo stesso: dare un poco a chiunque ab bassando l’insostenibile pressione sul reddito ( senza compensarla con una maggiore pressione sul patrimonio) e effettuando l’ennesimo regalo ad una specifica categoria sociale, in questo caso i pensionati. Ancora una volta senza l’ambizione di voler realmente aggredire alla radice le motivazioni della povertà, delle disuguaglianze e della marginalità sociale in cui si trovano milioni di italiani. Riforma Fiscale proposta dal Governo Renzi vale 35 miliardi, possibilmente da trovare aumentando

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#siamoincredito, è ora di riscuotere il deficit senza sforare il 3%, che salgono a 50-60 in 5 anni conteggiando anche i tagli del 20142015 (i 10 miliardi del bonus da 80 euro ed i 5 destinati al taglio dell’ Irap e del costo del lavoro). Inoltre vanno considerati i 70 miliardi di spending review,di cui 16 miliardi sono nel 2016, necessari ad evitare l’aumento dell’IVA e dell’accisa per 16 miliardi. Di sicuro un piano economicamente ambizioso, per quanto non realmente trasformativo, per chi stronca le misure come il reddito perché “troppo costose”. Questo piano inoltre, risulta essere in salita, anche a causa dell’Unione Europea, a cui il governo non vuole dissentire in termini di diritti e austerity ma con cui imporsi con un muro contro muro sul tema dei privilegi e del consenso, che “consiglia” all’Italia di non abolire la tassa sulla prima casa. Nel rapporto “Riforme Fiscali negli Stati membri dell’Unione Europea” redatto dalla direzione generali Affari Economici e Fiscalità della commissione Europea si legge che l’ Italia dovrebbe ridurre la pressione fiscale sul lavoro e spostare il carico sui consumi, sugli immobili e sulle donazioni. Possiamo quindi concludere provando a rispondere a quelle domande che indicavamo come chiarificatrici per quanto riguarda una corretta impostazione del discorso su un’eventuale riforma fiscale. Il nostro attuale sistema fiscale, forte con i deboli e debole con i forti, incentrato sui redditi e non sui patrimoni e con ampi margini di evasione anche attraverso lo strumento dell’esternalizzazione delle sedi fiscali e produttive, ha contribuito all’allargamento della forbice sociale perdendo i suoi caratteri di progressività e redistribuzione della ricchezza. La Riforma del Governo non aggredisce i limiti strutturali del nostro sistema anzi, si muove in un’ottica che conferma e legittima l’attuale status quo attraverso un principio retorico, basato su un’elementare ricerca del consenso facile, per cui “dando un po’ ad ognuno” si possa far ripartire l’economia e il nostro sistema sociale senza aggredire le diseguaglianze, senza redistribuire le ricchezze, senza riconvertire il nostro sistema produttivo. E’ chiara quindi qual è la base sociale di riferimento di questa iniziativa di Governo: prima di tutto le imprese, che continuano a mantenere il loro stato di “doping produttivo”, in secondo luogo tutti quelli a cui conviene mantenere lo status quo. E’ un premio all’altra parte della forbice sociale, quelli che con la crisi hanno visto la possibilità di arricchirsi e mantenere le ricchez ze, quelli che guardano di buon occhio una minima riduzione, e non una risoluzione, delle tensioni sociali e della marginalità dilagante per mantenere lo stato di cose esi stenti: un paese diseguale e ingiusto.

Fiscalità e modello produttivo Produzione della ricchezza, occupazione dei fattori produttivi e andamento dei salari reali sono tutti ambiti fortemente condizionati dalle scelte di politica fiscale. La distribuzione del carico fiscale non è mai un scelta neutra, anzi soprattutto in materia di lavoro rappresen ta la cifra del modello sociale che si intende definire per l’intero Paese. Si tratta, quindi, di una pro -

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#siamoincredito, è ora di riscuotere blematica che intreccia la programmazione industriale, le scelte strategiche di cosa e come si pro duce, la distribuzione della ricchezza fra redditi da profitto e rendita e redditi da lavoro. Da questo punto di vista il Jobs Act e le misure previste nella Legge di Stabilità 2015 ci consegna no un indirizzo importante nel disegno complessivo del Governo Renzi: la decontribuzione (anche sul costo del lavoro) è sempre a favore dell’impresa, bilanciata con l’indirizzo politico di una “stabilizzazione dei lavoratori” palesemente fatiscente a causa dell’abolizione dell’art 18 previ sta nel contratto a tutele crescenti e al decreto Poletti che elimina la causalità dei contratti a termi ne. Gli incentivi fiscali (8.060 € annui di risparmio per ogni contratto a tutele crescente attivato, sia che si tratti di conversioni di precedenti contratti a termine sia che ci si riferisca a nuovi avviamenti) ha senza dubbio inciso sulla lieve ripresa dell’occupazione nel corso del 2015: i dati Istat su occupati e disoccupati ad Agosto 2015 registrano un calo congiunturale della disoccupazione dello 0,3% e dell0 0,5% su base annua (anche se la disoccupazione giovanile è tornata a crescere ri spetto al mese precedente). Questo andamento dell’occupazione deve essere analizzato nel profondo, andando oltre una lettura superficiale degli indicatori. Più che cedere alla facile retorica del Governo sull’Italia che torna a crescere e ad assumere, è il caso di indagare le modalità con cui questa opera zione interviene sulla distribuzione della ricchezza prodotta e sulle dinamiche di occupazione nel medio-lungo termine. In primo luogo, il rapporto fra tasse ed incentivi per le imprese incide direttamente sulla concentra zione della ricchezza sociale: un’ottica redistributiva e di appianamento delle disuguaglianze risulta impraticabile senza una fiscalità progressiva e un investimento nell’universalità dei servizi pubblici e del welfare. Al contrario, una decontribuzione lineare e non condizionata al raggiungimento di determinati obiettivi sociali delinea uno schema che favorisce l’accumulazione verso l’alto della ricchezza. Lo dimostra il report mensile gennaio-agosto 2015 del l’Osservatorio sulla precarietà dell’Inps 4: il saldo fra attivazioni e cessazioni di contratti a tempo indeterminato torna in positivo di circa 90.000 unità, ma le retribuzioni risultano basse per il 60% dei nuovi assunti. Inoltre, il 63,5% dei nuovi rapporti di lavoro è costituito da contratti precari: il tem po indeterminato rimane di gran lunga il rapporto di lavoro subordinato preferito da aziende e im prese. Basse retribuzioni e precarietà rappresentano tuttora le coordinate di base di un mercato del lavoro sempre più dequalificato. La dinamica espansiva delle attivazioni di contratti a tempo indeterminato (senza le garanzie dell’articolo 18) non può che essere letta alla luce di questi dati e di altri, come l’esplosione di nuove frontiere di precariato a partire da quella dei voucher liberalizzati dal Jobs Act (un vero e proprio boom nei primi 8 mesi del 2015, con più di 61 milioni di voucher ven duti, 9 milioni solo nel mese di Agosto). Inoltre, l’evidente connessione fra l’incremento dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e gli incentivi fiscali (più di 790.000 dei rapporti di lavoro a tempo di lavoro a tempo indeterminato ha usufruito dell’esonero contributivo) ci interroga sull’effetto doping generato dalla decontribuzione: una vera e propria bolla occupazionale

4http://www.inps.it/docallegati/DatiEBilanci/osservatori/Documents/Osservatorio_Precariato_GenAgo_15.pdf 12


#siamoincredito, è ora di riscuotere prodotta dalla corsa delle imprese per accaparrarsi il risparmio fiscale garantito dal Governo, ma che solleva non pochi dubbi sulla sostenibilità nel medio-lungo termine dell’occupazione prodotta. Infatti, non soltanto ci troviamo di fronte a un quadro di tutele sociale profondamente destrutturato dal Jobs Act, che apre a una rottura dei rapporti di lavoro attiva ti una volta concluso il beneficio triennale della decontribuzione, ma la stessa crescita strutturale dell’occupazione mantiene basi fragile senza una vera programmazione industriale e un piano di investimenti pubblici in grado di sostenere i settori strategici. Costruire un modello alternativo di fiscalità, guardando in particolar modo all’influenza che questo può generare sul sistema produttivo, significa per noi affrontare due nodi principali: da un lato, la necessità di aprire una riflessione sulla sostenibilità ambientale del modello di produzione, dall’altro, interrogare la distribuzione del carico fiscale tra salari, auto-imprenditoria, grande proprietà e rendita finanziaria.

Fiscalità e Ambiente La crisi ambientale e climatica che stiamo attraversando a livello globale non può che essere interpretata alla luce di una più generale crisi del modello produttivo e delle contraddizioni di un capita lismo internazionale sempre più finanziarizzato ed estrattivo. Il Governo Renzi ha espressamente deciso da che parte stare: con lo Sblocca Italia ha deciso di continuare a promuovere un modello energetico basato sui combustibili fossili, altamente inquinanti e dipendenti da modalità di ricerca ed estrazione che mettono a rischio la tenuta paesaggistica ed ambientale dei nostri territori. L’esigenza di una riconversione ecologica del modello produttivo ed energetico passa anche da una precisa linea di programmazione industriale e di politica fiscale, entrambe decisive per orientare le scelte dei soggetti privati nelle dinamiche del mercato. Per questo ci immaginiamo un approccio alla fiscalità e alla finanza pubblica che tenga in considerazione: • Quale decontribuzione? Gli incentivi di impresa devono essere regolamentati sulla base di principi e obiettivi sociali. In particolare, deve essere potenziato il risparmio fiscale sugli investimenti nelle energie rinnovabili e nei macchinari e processi produttivi che favoriscono una riconversione sostenibile dal punto di vista ambientale. • Chi inquina paga! Principio formalmente riconosciuto alla base delle politiche comunitarie in materia sin dalla revisione del Trattato di Roma del 1987, la sua attuazione materiale ha incontrato enormi difficoltà, ostaggio degli interessi di poteri economici e finanziari. Sul piano giudiziario si sono fatti dei passi avanti con l’introduzione degli ecoreati nel codice penale, ma è necessario fare progressi per aggredire i profitti economici generati dallo sfruttamento del territorio e dall’inquinamento dell’ambiente. La tassazione delle attività produttive deve disincentivare i processi inquinanti con carichi fiscali modulati (come, ad esempio, una vera e propria Carbon Tax, da tempo indicazione comunitaria inevasa dal no stro Paese) e mandare in soffitta benefici inquinanti come il sostegno alle fonti fossili.

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#siamoincredito, è ora di riscuotere • Finanza pubblica e programmazione industriale. Progressività fiscale e tassazione modulare delle attività inquinanti devono rappresentare una leva per incamerare risorse destinate ad investimenti strategici per quanto riguarda sia la manutenzione del territorio (bonifiche, prevenzione dal dissesto idro-geologico, ecc.), sia lo sviluppo di nuovi processi produttivi e sistemi energetici. Inoltre, nel nostro Paese è completamente assente una programmazione industriale degna di questo nome: la creazione di buona occupazione e lo sviluppo di una produzione eco-compatibile passa necessariamente da questo nodo, non sicuramente dal livellamento verso il basso di diritti e tutele sociale come previsto nel Jobs Act. • Centralità di Ricerca e Sviluppo. Per fare questo non può bastare una strategia basata su credito di imposta e incentivi fiscali, anzi un piano del genere è ormai dimostrato come non sia in grado di favorire quegli investimenti che non comportano profitti nel breve-termine. La ricerca di base deve essere adeguatamente finanziata con risorse pubbliche provenienti dalla fiscalità generale ed orientata su settori strategici per innovazione e riconversione ecologica.

Fiscalità e Lavoro Le imposte sul lavoro (dirette, indirette e previdenziali) e sulla produzione sono al centro di un dibattito troppo spesso egemonizzato dalle esigenze di imprenditori e grandi gruppi industriali. Il pia no triennale di abbassamento delle tasse presentato dal Governo Renzi sembra riprodurre questo schema, con la prospettiva di diminuzione lineare di IRES (Imposta sul reddito delle società) e IRAP (Imposta regionale sulle attività produttive) per le imprese. La problematica dell’incidenza della pressione fiscale sul costo del lavoro complessivo (subordinato e autonomo) deve essere affrontata con uno sguardo più ampio. Il rapporto 2015 di Eurostat su Retribuzioni e costo del lavoro5 spiega come il cuneo fiscale sui lavoratori a bassa retribuzione in Italia raggiunge una della percentuali più elevate dell’Unione Europea (42,5%). Il carico fiscale sul lavoro risulta, quindi, una delle variabili più importanti per l’evoluzione della dinamica salariale. In particolare, negli ultimi 25 anni - in connessione con l’eliminazione della scala mobile, l’andamento al rialzo dei prezzi, la precarizzazione del lavoro, la moderazione salariale e ’attacco alla contrattazione nazionale - le imposte sul lavoro hanno impattato negativamente sulle retribuzioni nette e sui salari reali. Il contributo offerto dalla quota del lavoro ai profitti è così cresciuto in maniera esponenziale dal 1993 al 2012, per un valore cumulato di “trasferimenti impliciti” dal basso verso l’alto di ben 1.069 mld di € 6: una cifra sintomatica dell’incapacità. Cifre roboanti che non possono stupire chi ha maneggiato i numeri sulla cresci ta degli working poors nel nostro Paese: più di 2 milioni fra lavoratori dipendenti e autonomi. Questi dati dimostrano che parlare genericamente della riduzione del cuneo fiscale non

5http://ec.europa.eu/eurostat/statisticsexplained/index.php/Wages_and_labour_costs/it#Costo_del_lavoro 6http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-regola-d-oro-dei-salari-e-i-suoi-effetti-20288 14


#siamoincredito, è ora di riscuotere chiarisca la reale direzione dell’intervento: la riduzione può andare a vantaggio esclusivamente del datore di lavoro o del lavoratore, oppure prevedere un risparmio fiscale per entrambi. La stessa polemica aperta dalla Commissione Europea con il Governo Renzi sulla priorità da conferire all’abbassamento delle tasse su lavoro e produzione rispetto a quelle sulla casa si basa sugli studi di Eurostat, FMI e Ocse, tutti concordi nella necessità di spostare l’onere tributario dai fattori produttivi verso i consumi e il patrimonio; tuttavia, se da un lato la richiesta di aumentare le tasse sui consumi - a partire dall’IVA - impatta in maniera regressiva sulle possibilità di spesa dei redditi medio-bassi, dall’altro le scelte fiscali in materia di lavoro e produzione non sono mai neutre. Anche in questo caso, la dicotomia in campo è fra un’ottica redistributiva che incida positivamente sui salari reali e un ennesimo regalo di risorse pubbliche alle imprese mediante la fiscalità generale. Dal nostro punto di vista, gli interventi devono essere ispirati dal primo approccio, a partirea dalle seguenti priorità: • Riduzione carico fiscale su lavoro e pensioni. E’ necessario andare oltre gli spot, rivedendo le modalità con cui è stato definito il bonus Irpef degli 80 euro. La misura deve diventare un alleggerimento strutturale delle imposte dirette del lavoro, da estendere anche a pensionati - gravate in Italia da una pressione fiscale doppia rispetto alla media Ocse -, lavoratori incapienti e titolari di partita IVA. • Auto-imprenditorialità. L’avviamento di impresa è oggi condizionato in maniera decisiva dalla possedimento di capitali preesistenti. Devono essere aumentati gli strumenti di sostegno e i benefici fiscali verso i redditi medio-bassi per esperienze di auto-imprenditorialità, cooperative di professionisti e avviamento di piccole imprese condizionate al raggiungimento di standard di innovazione, di ricerca e sviluppo, di sostenibilità sociale e ambientale. • Lavoro autonomo e partite IVA. I professionisti atipici titolari di partita IVA versano i contributi previdenziali alla Gestione Separata Inps, praticamente l’unica cassa di previdenza in attivo, ma sfruttata come vero e proprio bancomat per riequilibrare le gestioni in perdita sulla pelle di migliaia di freelance. Pressione tributaria e contributi previdenziali incidono negativamente sui redditi di grafici, videomaker, web-designer, ma anche di consulenti del terziario avanzato, archeologi e altre professioni ad alto tasso di formazione che non hanno una cassa ordinistica di riferimento. Anche le professioni degli ordini subiscono un carico fiscale che spesso si traduce in un processo di esclu sione censitaria dall’accesso alla professione: emblematica in questo senso la proposta dello scorso anno di Cassa Forense di cancellare dall’albo gli avvocati morosi, indipendentemente da reddito e fatturato annui. Chiediamo pertanto: • Blocco degli aumenti progressivi dell’aliquota INPS Gestione Separata previsti dal Governo Monti e suo immediato abbassamento al 24%, al pari di commercianti e artigiani; • Estensione universale delle prestazioni sociali (malattia, genitorialità) al mondo delle partite IVA; • Ammortizzatori sociali specifici e calibrati sul lavoro autonomo per garantire continuità di reddito; • Sospensione degli obblighi previdenziali e tributari, senza more e interessi, nei periodi di malattia grave ed eliminazione dell’assurdo limite temporale a 60 giorni del beneficio;

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#siamoincredito, è ora di riscuotere • Abbassamento strutturale del carico fiscale. • Rendita fiananziaria e tassazione progressiva della ricchezza. Oltre al recupero dell’evasione fiscale, un piano straordinario di abbassamento delle tasse sul lavoro deve essere finanziato con un aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, tanto a livello nazionale che transnazionale. Solo seguendo questa strada, solo in parte e in maniera non sufficente adottata dal Governo Renzi per il bonus 80€, l’abbassamento degli oneri tributari sul lavoro può rientrare in un’operazione di redistribuzione fiscale, anziché una pietra di scambio con il taglio di servizi pubblici e prestazioni sociali. Inoltre, questo punto deve essere affrontato su un piano almeno europeo, data la mobilità del capitale finanziario su sca la internazionale: da questo punto di vista riteniamo centrale riaprire un ragionamento sulla Tobin Tax, tassazione delle transizioni sui mercati finanziari proposta negli anni ‘70 del secolo scorso da James Tobin per contrastare le fluttuazioni specultarive, da finalizzare a un chiaro intento redistributivo e al raggiungimento di obiettivi sociali. • Infine, una politica fiscale redistributiva si misura con la capacità di stabilire una tassazione progressiva sulla ricchezza e sui patrimoni: chi ha di più deve contribuire in misura maggiore alla finanza pubblica e al perseguimento degli interessi collettivi. • Salario minimo e contrattazione. Una riflessione sull’andamento dei salari reali non può ignorare il tema della retribuzione oraria e quello della contrattazione. Dobbiamo superare un modello produttivo fondato sulla svalutazione competitiva dei salari e sul depotenziamento della contrattazione nazionale. Al contrario, chiediamo un salario minimo europeo che in tutto il continente impedisca lo sfruttamento del lavoro sottopagato e rivendichiamo la centralità della contrattazione nazionale, con forme di inclusione che consentano di garantire tutele alle forme di lavoro attualmente scoperte.

Fiscalità e istruzione: scuole ed università gratuite Oggi nonostante i principi costituzionali e internazionali, anche l’istruzione “dell’obbligo” non è realmente gratuita, accessibile a tutti e finanziata totalmente da fiscalità. Secondo il Codacons ogni anno ogni famiglia spende circa 500 euro in media solo per il corredo scolastico a cui, aggiungendo il costo dei libri di testo, si raggiunge una spesa complessiva di circa 1100 euro. Vi sono inoltre: spese di trasporto per gli studenti pendolari, spese per attività e viaggi d’istruzione non ga rantiti a tutti gli studenti dalle scuole. I “costi nascosti” dell’istruzione sono una delle principali ragioni della dispersione scolastica che ha raggiunto il 17,6%. Dal punto di vista universitario le politiche di austerità sull’istruzione ed il connesso aumento dei costi degli studi universitari hanno causato un calo delle immatricolazioni universitarie. In dieci anni, dal 2004 al 2014, gli iscritti al primo anno sono passati da 338.482 a 260.245 (dati Miur). Solo 4 studenti diciannovenni su 10 si iscrivono all’università e, secondo il rapporto Svimez, il tasso di passaggio tra scuola superiore ed istruzione terziaria è sceso al Nord al 58,8 per cento con picco al Sud al 51,7, ossia 45.000 studenti in meno, le cifre più basse dell'ultima decade. Vi è inoltre un calo dei laureati di 37.616 unità (circa il 12,

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#siamoincredito, è ora di riscuotere 72%). I costi dell’istruzione ricadono sempre più solo sugli studenti, come se l’istruzione non avesse valore sociale per la collettività tutta. Ne è esempio lampante la questione della tassa regionale di 140 euro che ogni studente paga per garantire la borsa di studio agli aventi diritto. In questo quadro non stupisce che inizino ad essere proposti da tutti gli istituti finanziari prestiti d’onore per coprire le spese derivanti dalla scuola secondaria e dalla formazione universitaria, una soluzione incentivata dagli ultimi governi, ma assolutamente inaccettabile perché rende lo studente ricattabile nel presente e nel futuro. L’istruzione sembra sempre più una “prestazione individuale”, un investimento del singolo per la propria vita ed il proprio tornaconto, perdendo sempre più il proprio valore sociale in termini collet tivi. Rendere gratuita l’istruzione e finanziandola attraverso la fiscalità generale significa considerare l’istruzione fondamentale per la promozione del benessere collettivo ed individuale e volano per lo sviluppo del Paese, livellando verso l’alto gli obiettivi sociali in un’ottica di promozione dell’innovazione. Rendere gratuita l’istruzione significa anche mettere a disposizione di tutti uno strumento di autodeterminazione indipendentemente dall’età, intendendo l’istruzione come strumento di autodeterminazione e mobilità sociale anche per gli adulti e riorientamento al lavoro per precari, disoccupati e neet. La formazione, inoltre, in un ottica di life long learning, al fine di un pieno abbattimento delle bar riere formative derivanti dal contesto socioculturale di appartenenza, non può essere considerata solo accademica, ma anche nella sua parte informale e non formale: consumi culturali, libri non scolastici o universitari, cinema, teatri, ecc… Partendo dagli articoli 3, 33 e 34 della nostra Costituzione repubblicana, è necessaria una radicale inversione di marcia che renda il diritto allo studio, un diritto di cittadinanza imprescindibile. Il nostro Paese deve garantire il libero accesso ai saperi, per liberarli dalle catene del profitto e renderli mezzo di emancipazione e crescita individuale e collettiva, per po ter innalzare i livelli generali di alfabetizzazione, di competenze critiche, di opportunità per tutte e tutti. In questo senso occorre ripensare l'intero sistema di welfare, oggi fortemente familistico e la vorista, con l'obiettivo di garantire la piena autonomia sociale del soggetto in formazione dal conte sto socio-economico di partenza. La nostra idea di istruzione gratuita comprende: • totale gratuità di iscrizione in tutta la filiera della conoscenza dalle scuole dell’infanzia ai percorsi universitari. Conseguente abolizione dei contributi volontari e delle tasse universitarie. • comodato d’uso dei libri di testo e rimborso totale delle spese connesse all’istruzione • totale gratuità delle attività extrascolastiche garantite dalla scuola • gratuità delle spese di trasporto pubblico e delle spese di accesso ai consumi culturali • istituzione di un reddito di formazione per la piena autodeterminazione del singolo, svincolato da criteri di merito. • istituzione di una legge quadro nazionale sul diritto allo studio con Livelli Essenziali delle Prestazioni definiti e uniformati con criteri di assegnazione basati su principi fortemente

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#siamoincredito, è ora di riscuotere reddituali. Istituzione di un fondo perequativo statale che ponga fine alle disparità presenti tra le varie Regioni in termini di finanziamenti e prestazioni erogate e aiuti le Regioni stesse a rispettare i L.E.P. • Favorire ed estendere il sistema di life long learning ed educazione permanente degli adulti • Abolizione immediata dell’IVA sui consumi culturali, fondamentali oggi nella formazione dell’individuo e della collettività, tassello fondamentale per valorizzare l’accesso a forme sempre più importanti dei saperi.

Fiscalità e ricerca E’ necessario rilanciare il ruolo innovatore dello Stato. Ciò significa da un lato costruire un maggiore finanziamento della ricerca pubblica martoriata dai tagli degli ultimi anni e costretta sempre più a ricercare finanziamenti di natura privata. I finanziamenti per la Ricerca e lo Sviluppo in Italia, Francia, Inghilterra e Germania nel 2012 sono stati rispettivamente di 11.500, 19.500, 13.000 e 31.000 milioni di dollari. In totale, tra tagli e inflazione, nel 2013 gli Enti pubblici di ricerca italiani vigilati dal MIUR hanno perduto quasi 290 milioni rispetto al 2010, pari al 15,9% del loro budget attuale. Dall’altro lato è necessario istruire un ragionamento sulla ricerca privata. La ricerca privata viene incentivata attraverso il credito d'imposta le imprese che fanno ricerca ricevono un credito (quindi uno sconto sulle tasse) in sede di dichiarazione dei redditi. E’ utile quindi condizionare positivamente il rapporto tra imprese e ricerca, nei termini di ammodernamento del sistema produttivo e della sua riconversione, attraverso delle contribuzione e degli incentivi ad obiettivo finalizzati alla promozione dell’innovazione dal punto di vista produttivo e industriale. E’ necessario allo stesso tempo vincolare gli incentivi ed il credito di imposta alla pubblica utilità della ricerca ed istituire strumenti di controllo al fine di disincentivare i privati ad investire in capitoli di spesa dannosi per la salute e l’ambiente.

La fiscalità e la redistribuzione delle ricchezze: il reddito di base La crisi finanziaria scoppiata nel 2008 e divenuta, nell’Europa dell’austerità, recessione strutturale ha rappresentato e continua a rappresentare una straordinaria occasione di sottrazione della ricchezza sociale dal basso verso l’alto. La forbice fra i redditi si è profondamente ampliata, con il l’1% più ricco che detiene il 15% della ricchezza mentre il 40% meno abbiente si deve spar tire il 5%. Non certo una peculiarità italiana, ma una realtà da inserire nello scenario internaziona le, dove nel 2014 l’1% più ricco - l’élite economica e finanziaria del capitalismo globale - detiene il 48% della ricchezza. Il recente rapporto Oxfam su Povertà e Disuguaglianza in Europa 7 dipinge efficacemente il proces-

7http://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2015/09/EU-report_finale_08.09.pdf 18


#siamoincredito, è ora di riscuotere so di accumulazione e della ricchezza e del potere che si è dispiegato su scala continentale, a fron te di crescenti fasce della popolazione che scivolano verso la povertà e l’impossibilità materiale di decidere sulla propria vita. Dentro i confini dell’Unione Europea oltre un quarto della popolazione (123 milioni di persone) sono a rischio di povertà ed esclusione sociale. Tra il 2009 e il 2013 il numero delle persone soggette a grave deprivazione materiale è aumentato di 7,5 milioni nel complesso dei 27 Paesi UE, registrando un incremento in 19 di essi. Inoltre, donne, giovani e migranti risultano i gruppi di popolazione maggiormente esposti al rischio di povertà. L’aumento della povertà e delle disuguaglianze in Europa non sono un problema di carenza, ma di distribuzione delle risorse. L’iniquità dei sistemi fiscali, anziché intervenire correggendo i divari di reddito, comporta un allargamento del divario sociale. Al tempo stesso, lo smantellamento del wel fare portato avanti in anni di neoliberismo: basti pensare al taglio del 58% dal 2008 al 2014 del Fondo sociale o all’impatto del ridimensionamento della sanità pubblica sulle fasce più deboli della società. In generale, il regime di austerity ha comportato la demolizione tassello dopo tassello (sotto la parola d’ordine del contenimento della spesa pubblica o “spending review”) dello Stato Sociale conquistato in anni di mobilitazioni. E’ necessario ribaltare questo schema e ripensare la fiscalità generale approfondendo la connessione con le prestazioni sociali e la redistribuzione della ricchezza. In primo luogo, va considerato che il potenziamento e l’estensione delle misure di welfare riducono l’impatto della pressione fiscale, in particolare per le fasce più deboli della società: infatti, le tasse che gra vano sul reddito in questo ambito si riducono sensibilmente. Inoltre, deve essere profondamente rivisto il baricentro delle politiche fiscali: se il Governo ha da tempo lanciato la sua campagna d’autunno sull’abbassamento delle tasse, a partire da quelle sulla casa e sul patrimonio immo biliare, e su interventi marginali per il contrasto della povertà (1,5 miliardi di euro prevalentemente rivolte a famiglie indigenti con figli), la nostra riforma del fisco muove dalla necessità di una riforma universale del welfare, a partire dall’introduzione del reddito. Consideriamo il Reddito di Dignità una misura non più rimandabile, per rendere illegale la povertà, rompore il ricatto al lavoro coercitivo e sottopagato, restituire dignità al la voro, alla formazione, alle competenze di milioni di persone. Un reddito non condizionato nell’erogazione dall’accettazione di qualsiasi proposta di lavoro, indipendentemente dalle dinamiche di demansionamento personale e dei livelli retributivi: questa impostazione è purtroppo molto spesso una caratteristica portante delle politiche attive in Europa, determinando una riduzione del le prestazioni sociali a un workfare coercitivo e ricattatorio. Vogliamo un reddito pienamente universale, individuale ed emancipatorio rispetto alle condizioni familiari,economiche e sociali di partenza. Un reddito necessario a colmare le diseguaglianze sociali del Paese, ad aggredire le enormi ricchezze illecitamente accumulatesi, restituendo dignità e potere decisionale ai milioni di cittadini a cui sono stati negati. Un reddito a tutela della democrazia che necessariamente dovrà finanziarsi attraverso delle misure redistributive della ricchezza e quindi anche attraverso un intervento sulla fiscalità generale. I dati sulla dispersione scolastica (17% a livello nazionale, con punte del 25% nelle regioni meridionali) e sui canali di accesso sempre più ristretti all’università (-45.000 iscritti in 10 anni),inoltre, riflettono una situazione drammati ca di esclusione sociale, nella quale si materializzano le profonde connessioni tra espulsione dai processi formativi e povertà culturale da un lato con la condizione di subalternità e deprivazione. Vogliamo un reddito che rompa completamente con una visione del welfare legata

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#siamoincredito, è ora di riscuotere esclusivamente al lavoro fordista e che non si pone il tema di garantire universalmente l’accesso ai saperi e alla conoscenza. Vogliamo un reddito di formazione individuale, che consenta a tutti di poter studiare indipendemnete dai condizionamenti economici e familiari. Una tassa ordinaria sulle Grandi Ricchezze ispirata al modello francese, con una previsione di imposta mediamente dell’1,0% a carico delle famiglie con una ricchezza complessiva sopra gli 800mila euro, potrebbe generare, secondo i calcoli della CGIL, un gettito di circa 15 miliardi di euro l'anno. Una tassa che colpirebbe solo il 5% più ricco e ricchissimo della popolazione italiana, senza gravare sulle altre fasce di reddito. Sarebbero infatti soggetti a tale imposta tutte le famiglie la cui ricchezza complessiva, mobiliare e immobiliare, superi gli 800mila euro l'anno al netto dei mutui e delle altre passività finanziarie. Allo stesso tempo, ne sarebbero esclusi tutti coloro che, pur essendo proprietari di una o più abitazioni, nonché depositi in conto corrente, titoli di Stato o altre obbligazioni, non raggiungano il limite indicato. Secondo i calcoli dell’Istat, 15 miliardi di euro sono sufficienti per il finanziamento di una buona legge sul reddito. Inoltre, le scelte in materia fiscale già messe in campo dal Governo Renzi hanno spostato un ammontare di risorse pressoché identico: 9,5 miliardi per il bonus Irpef 80 euro e i 5 miliardi per gli incentivi alle assunzioni. Non si tratta, in definitiva, di un problema di carenza di risorse, ma di precise scelte fiscali e in materia di welfare, che incidono sulla distribuzione della ricchezza e sul livello delle disuguaglianze all’interno del Paese. Per parte nostra, welfare universale e reddito contro povertà ed esclusione sociale non possono che discendere da una riforma della fiscalità generale che riduca la pressione tributaria sul lavoro e aggredisca le grandi ricchezze mobiliari e immobiliari in ottica redistributiva.

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