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GRAND TOUR

A sinistra: Anonimo, Facciata di Sant’Apollinare Nuovo, acquerello a colori, fine fine XIX secolo, Forlì, Raccolta Piancastelli, Biblioteca Comunale. A destra: Romolo Liverani, Veduta interna della Basilica di San Vitale, disegno ad inchiostro chiaroscurato all’acquarello, 1843, Forlì, Raccolta Piancastelli, Biblioteca Comunale.

“Dogana” San Vitale

Una vita spericolata

Dopo aver criticato di passaggio le «eccessive modernizzazioni» degli addobbi con cui la nostra Cattedrale, «alta e immensa», era stata agghindata in vista del centenario di Sant’Apollinare, motivo in più per fargli optare per una assai più “gradevole” passeggiata «a lenti passi, nella luce del crepuscolo agostano, lungo la navata tranquilla di Sant’Apollinare» (evidentemente poco “apollinaresco” per la Curia ravennate di allora), James ritorna col ricordo all’«imponente chiesa ottagona di San Vitale». Qualunque paludato storico dell’architettura e dell’arte inorridirebbe all’effettivamente curioso paragone scaturito dalla fantasia dello scrittore: «simile ad un ufficio di cambio o a una dogana». Offesa che non si lava nemmeno con la successiva “insicura” puntualizzazione: «Credo sia stata costruita sul modello di Santa Sofia a Costantinopoli». «Decisamente solenne», la basilica è una sorta di museo che conserva nel coro una collezione di «veri e propri quadri, pieni di movimento, di gestualità e di prospettive», in cui le «tinte sono state smorzate dal tempo quel tanto che basta a convincere l’osservatore della loro antichità». Se tornasse oggi, dopo le recenti puliture, James avrebbe qualche dubbio? Proprio al centro dell’ottagono, un artista intento a ritrarre il coro diviene oggetto dell’interesse dello scrittore. Il risultato del suo sforzo artistico, destinato, suppone James, «ad una parete della biblioteca nella casa di una qualche persona di buon gusto», anche se fosse stato «migliore di quanto non desse a vedere […] non avrebbe mai potuto narrare» al suo futuro proprietario – «a meno che non ci fosse già stato» – «in quale angolo silenzioso, consunto, appartato dell’antica Italia quel quadro era stato dipinto». Ravenna silente, dimenticata in un angolo dalla storia… ma adesso, caro James, dopo che è arrivato Lou Reed, tuo conterraneo, non è più così.

Un artista che «nutra passione per gli oscuri recessi architettonici» non potrebbe trovare, per James, «luogo migliore» che la «piccola e straordinaria chiesa dei Santi Nazaro e Celso, altrimenti conosciuta come il mausoleo di Galla Placidia». In verità, anche “troppo oscura”, perché si possono incontrare fiere difficoltà a «distinguere il verde dal rosso» (al di là di possibili daltonismi). Il luogo – James lo riconosce immediatamente – è un vero e proprio genius loci della città. Il «punto […] dove l’impressione possiede un’autorità sovrana ed una grande forza emotiva». Ma non per il motivo che ci aspetteremmo tutti, i mosaici. Lo scrittore è infatti attratto dai «tre enormi sarcofagi barbarici che contengono i resti di altissimi personaggi del basso impero» che si scorgono «attraverso la luce fioca». E qui James si rivolge direttamente ai ravennati – col «voi» – elogiandone l’attività di “archeologi” della storia : «È come se la storia si fosse nascosta sotto terra per sfuggire alle ricerche e voi l’aveste felicemente riportata alla luce». Splendida immagine dell’eterna lotta tra l’oblio del tempo (come non pensare al mausoleo di Teodorico “interrato” dell’incisione di Piranesi (due secoli ante Podrecca…) e la cocciuta memoria degli uomini. Accanto alle ceneri di Onorio (perché non lasciarlo credere a chi vuol crederlo?) e di Costanzo III (idem) quelle di Gallia «una donna – scrive eufemisticamente James – che credo debba aver trascorso una vita decisamente avventurosa». D’un tratto le tre tombe e i baluginanti mosaici creano l’illusione di «una piccola grotta naturale, striata di minerali luminescenti». Ma, immediatamente, l’idillio svanisce e James riconosce come vi sia «qualcosa di assolutamente spaventoso a sostare in silenzio così vicino a questi tre fantasmi imperiali». La Storia con la S maiuscola ci guarda da quel piccolo capolavoro di semplici mattoni: «L’ombra del gran nome romano»… grande nel bene e nel male (più nel male, direbbe Simone Weil).


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