Rapporto Confidenziale - n°35 - Speciale Locarno 64

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numero35 . speciale Locarno 64

RR: Effettivamente nel tuo film sembra esserci strato molto spazio per l’improvvisazione. E poi scopri che invece è tutto scritto. Come hai lavorato, hai effettuato delle letture con gli attori prima di girare per verificare che tutto funzionasse? Quante stesure ci sono state prima di quella definitiva? ARP: Carlen ed io abbiamo parlato a lungo dei personaggi, alcuni mesi; abbiamo parlato della loro provenienza, di cosa stavano facendo delle loro vite, dei loro comportamenti. Una volta fatto tutto ciò, abbiamo pensato alle storie per loro. Abbiamo dovuto pensare a quante scene avrebbero avuto, dov’erano, che persone avrebbero incontrato, cosa sarebbe successo loro. Questo era un abbozzo, ho scritto una stesura della sceneggiatura in cui entrambi i personaggi avevano la mia voce, quindi l’ho passata a Carlen che ha riscritto tutto ciò che aveva a che fare con il suo personaggio. Questa è stata la seconda stesura. Questo accadeva nel novembre del 2009 e abbiamo girato nel giugno del 2010. Tra novembre e giugno abbiamo provato due o tre volte a settimana e abbiamo riscritto le scene durante le prove. Capitava che lei dicesse: “Abbiamo bisogno di una scena che sia molto imbarazzante per il mio personaggio”. E procedevamo in quel senso. Diceva: “Dobbiamo avere una scena in cui il mio personaggio incontra un suo idolo che la umilia”. Alla fine abbiamo avuto sei o sette stesure, abbiamo provato moltissimo per ottenere il ritmo che volevamo perché girare in 16mm non permette di improvvisare granché, devi sapere cosa stai dicendo, devi conoscere il materiale. Ci vuole tempo. Ci sono voluti sei mesi di prove. RR: Non ne sono sorpreso. A proposito, la scelta di filmare in 16mm anziché in video, come molti fanno anche per una questione di comodità, a cosa è dovuta? ARP: Per noi non si è trattata nemmeno di una vera scelta. Il mio direttore della fotografia fa di tutto: da opere di finzione e non, video, 16mm, super 16mm, ma preferisce il 16mm. Anche il mio primo film è stato girato in 16mm. Gli ho portato la sceneggiatura e ne abbiamo parlato. Gli ho detto che non avevo mai recitato prima e che temevo che avrei sprecato molta pellicola e che questo sarebbe stato molto costoso, ma lui mi ha chiesto quale tono avrebbe avuto il film. Gli ho spiegato che volevo un senso molto classico dell’America, con motel, ristoranti a basso prezzo, l’autostrada, e lui mi ha risposto: “Allora deve essere in bianco nero. Non puoi filmare un ristorante come quelli a colori, non susciteresti alcuna emozione. Se lo filmi in bianco e nero, con un po’ di grana, invece, improvvisamente la gente penserà a qualcosa di molto specifico, qualcosa di fuori moda, e capirà che si tratta di una scelta precisa. Se lo filmi in video, diventa una cosa che fanno tutti, ma il bianco e nero sarà recepito come una scelta”. Quindi quando vedi il film, ogni scena, per come l’abbiamo girata, rappresenta una nostra scelta molto importante. Dopo quella prima conversazione di due minuti non c’è stato più niente da decidere, era ovvio che avrebbe dovuto essere filmato in 16mm e in bianco e nero. È diventato parte del linguaggio del film. RR: Tutte queste scelte sono state prese prima di girare il film? ARP: Sapevamo quale sarebbe stato l’arco del film e ne conoscevamo il finale. Soprattutto sapevamo ciò che sarebbero stati i personaggi, sapevamo dove avremmo voluto lasciarli alla fine del film. Avevamo bisogno di costruire la sceneggiatura per arrivare a quello. Avevamo bisogno di una storia che iniziasse con due persone che sono legate e che non si sopportano, e sapevamo cosa sarebbe dovuto succedere tra loro alla fine. Tutto avrebbe dovuto spingerli ad avvicinarsi. Qualsiasi persona incontrino nel corso della storia, qualsiasi personaggio con cui parlino, deve spingerli ad avvicinarsi sempre di più fino a quando realizzano che non proverebbero alcuna tolleranza per nessuno al mondo ad eccezione che per loro

stessi. Non sono perfetti, ma sono quanto di meglio possibile l’uno per l’altro ed è sempre stato così. Ogni parte della sceneggiatura, in ogni stesura, va verso quella direzione. RR: Dopo la proiezione, ho sentito parte del pubblico riferirsi ai due protagonisti come due sfigati. Io invece ho pensato questo delle persone che li circondavano nel film. Come le ex compagne di scuola, che pensano di essere “supercool” mentre hanno esistenze normalissime, anche un po’ grigie. ARP: Obiettivamente non penso siano “cool” perché sono goffi e inadeguati, non riescono a integrarsi nella società e non riescono ad avere amici. Non penso lo siano davvero, ma io e Carlen abbiamo provato molta simpatia per i nostri personaggi e non abbiamo mai voluto ridere di loro. Una delle ragioni per cui abbiamo scritto le nostre stesse parti e per cui ho deciso di interpretare io stesso il ruolo di Colin, è stato perché gli spettatori sapessero che il regista e gli sceneggiatori del film provavano affetto per i personaggi. Non avrei dato al personaggi il mio volto se avessi voluto che tutti ridessero di lui o pensassero che è uno sfigato. Mi sono esposto chiedendo al pubblico di provare almeno un po’ simpatia per il personaggio. Non è un personaggio trionfante, non è popolare, non ha successo con le donne però sa esprimere ciò che sente – e trovo questo ammirevole – e non sarà remissivo. Entra in una stanza – questo vale anche per Carlen – entrano in una stanza e dicono ciò che sentono, fanno osservazioni inappropriate, offendono i presenti, e questo è per me il segno di una persona che si sente molto sicura e interessante. RR: Condivido. Li trovo entrambi molto espliciti e non mi sorprende che fatichino a integrarsi nella società, se la società è quella che si vede nel film… ARP: Sì, emarginati, solitari, miscredenti…definirli sfigati significherebbe dire che sono anche in competizione, e io non penso che a nessuno dei due interessi competere con quelle persone. RR: Parlando dei luoghi che hai scelto per il film, il motel, il ristorante, li hai scelti in quanto simboli di una certa America o sono luoghi legati alla tua personale memoria? ARP: Sono luoghi senza tempo. Il motel deve essere degli anni ’70 e da allora non è affatto cambiato. Il ristorante è più o meno altrettanto vecchio. Si tratta di un film nuovo fatto da gente giovane, ma non ci sono telefoni cellulari, computer, nulla di moderno e parte di questo contribuisce a costruire l’atmosfera. Mentre stavo preparando il film ho visto un’esposizione di fotografie di Robert Frank, The Americans, e questo ha cambiato tutto per me perché era molto potente, l’immaginario che presentava è stato tanto evocativo per me e completamente senza tempo. Questo è ciò che volevamo. Gli angoli delle strade, i ristoranti, i motel nelle sue fotografie non assomigliano a niente altro, ma poi, quando trovi un luogo che gli assomiglia un poco, istintivamente sei lì, ti ci trovi. È stato molto interessante per me. Quelle location avrebbero potuto essere ovunque, avrebbero potuto trovarsi in qualsiasi punto nel tempo degli ultimi 40 anni. L’hotel è sul lato di una strada del New England e la stanza sembra esattamente quella in cui sto adesso qui a Locarno. È lo steso tipo di camera, lo stesso tipo di interno marrone e bianco, lo stesso letto, lo stesso soffitto con parti in legno. Si può trovare ovunque. RR: Ciò che rende molto particolare il motel del tuo film è il suo proprietario…

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