Quello che c'è - Luglio 2016

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La musica dei Piqued Jacks alla conquista degli USA (e non solo...)

di Francesco Storai

uonano musica interessante? Si. Hanno successo? Ce l’hanno. Vivono il sogno americano? Decisamente si. Sono i Piqued Jacks, quattro giovani musicisti che da Borgo a Buggiano sono riusciti a portare la loro musica sui palchi di mezza Italia e su quelli a stelle strisce... non una, ma ben quattro volte. I Piqued Jacks sono Andrea “E-King” Lazzeretti, voce e pianoforte, Francesco “Penguinsane” Cugia, chitarra e cori, Francesco “Littleladle” Bini, basso, Matteo “The dog” Cugia, batteria. Giovani, ma con le idee ben chiare. Quello Che C’è li ha incontrati nel loro quartier generale, a pochi passi dalla nostra redazione. Da giocare insieme quando eravate bambini a suonare negli States... che salto! «Assolutamente si. Siamo tutti cresciuti insieme dai tempi dell’asilo, praticamente siamo amici da sempre. Ci siamo avvicinati alla musica seguendo percorsi diversi, iniziando un po’ per gioco... fino al 2006, quando sono nati ufficialmente i Piqued Jacks». Chi vi ha influenzato musicalmente all’inizio? «Inizialmente erano i Red Hot Chili Peppers, soprattutto “Californication”. Suonavamo le loro cover ma presto abbiamo sentito la voglia di metterci in gioco scrivendo i nostri pezzi: così abbiamo fatto, con grande soddisfazione».

E poi sono arrivati sempre più concerti, ben cinque album e quattro viaggi negli States! «Non male, eh? Nel 2013 il produttore Brian Lanese si è offerto di produrre il nostro album: è nato così “Just a Machine” a cui è seguito un tour di cinque mesi con 50 concerti. Abbiamo suonato al mitico “The South by Southwest”, uno dei festival musicali più importanti di tutti gli States, dal 2013 al 2015. Siamo stati apprezzati, la gente si è divertita con le nostre esibizioni, abbiamo sentito il loro calore. Eravamo “The Italians” e già questo, in America, è un gran bel biglietto da visita!». Così tanti viaggi in America a suonare... era il sogno di una vita? «Esatto. Ci teniamo a ringraziare le nostre famiglie che ci hanno sempre incoraggiato e aiutato economicamente. Le esperienze americane sono state assurde: mesi e mesi di couchsurfing (servizio gratuito di scambio ospitalità – n.d.A.), migliaia di chilometri alla guida del furgone prima dei concerti, junk food e sonno praticamente azzerato. Ma è stata la fine del mondo, vogliamo tornarci!».

Tanti successi, ma qualche volta vi sarà andata male: la vostra peggiore performance? Si guardano tra di loro e ridono... «Nel 2009 a Ponte Buggianese. E’ stato grottesco perchè non c’era nessuno a sentirci e i pochi presenti ci hanno ignorato totalmente. Ci è venuto da ridere sul palco, ma siamo rimasti...». E la migliore? «L’anno scorso abbiamo aperto il concerto degli Interpol di New York a Pra-

to. Dal pubblico ci è arrivata un’ondata di energia che ci ha galvanizzato. Non c’è niente da fare: il calore del pubblico è tutto per un musicista». Le vostre esibizioni live sono sempre accompagnate da un costume di scena. Cosa rappresenta? «Ogni album racconta una storia, e il costume di scena ne fa parte. L’ultimo si chiama “Climb like Ivy does”... Ivy è l’edera. E i nostri costumi attuali ricordano questa pianta particolare. Ma album nuovo, costume nuovo». Un concerto del passato che avreste voluto vedere dal vivo? Andrea: «I Coldplay di “A rush of blood to the head”». Francesco, il chitarrista: «I Queens of the Stone Age del 2005, con Dave Grohl alla batteria». Francesco, il bassista: «I Red Hot Chili Peppers all’Alcatraz di Milano nel 2006». Progetti futuri? «Creare nuova musica come già stiamo facendo da qualche mese, suonare. Vorremo trovarci nelle possibilità di fare qualcosa di qualità e di crescere... magari anche negli States!».


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