Chimica generale

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M. Avitabile G. Musumeci

Elementi di Chimica generale


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note

<Simplex Sigillum Veri>


L’origine 5

CAP. I Struttura della materia 1.1. Meccanica razionale e meccanica ondulatoria 8 1.2Le particelle e le antiparticelle 11 1.3 Il quark8 1.4. Le interazioni 16 1.5 Il principio di indeterminatezza10 1.6. I nucleoni e loro stati quantici 11 1.7. Isotopi ed isobari20 1.8. Il decadimento nucleare 21 1.9 Materia adronica ed atomi 22

Cap. II I sistemi e loro evoluzione 2.1. Sostanze e composti 27 2.2. Stato di un sistema 28 2.3. Miscugli e soluzioni 31 2 4. La misura 32

Cap. III L’atomo 3.1. Evoluzione del concetto di atomo 31 3.2. Modello di Bohr-Sommerfield: orbitali atomici 33 3.3. L’orbitali esterni e regola dell’ottetto 35 3.4 tavola periodica 36 3.5 Le proprietà periodiche 31

Cap. IV Le reazioni chimiche 4.1. Energia di reazione 42 4.2 Meccanismi di reazione 43 4,3 Tipi di reazioni 43


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4.4. Cinetica di reazione

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La terra era una massa informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell’abisso . Così ha inizio il racconto della Creazione nel racconto biblico. L' universo ancora increato, privo d’energia e allo stato di "zero entropia", vi è figurato come "massa abissale informe e vuota, immersa nelle tenebre". E Dio dissse: <sia la luce> e la luce fu. Sappiamo che la luce è formata da una infinita moltitudine di particelle che chiamiamo <fotoni> e che essi rappresentano la forma radiante della energia. Con <luce> si deve allora intendere la più attuale significazione di energia <Ed Egli vide che la luce era buona>. Cioè adatta al suo scopo creativo. Si può affermare che l’evoluzione del pensiero scientifico, sia consistito nei diversi e continui tentativi di trovare una esauriente spiegazione al concetto espresso in questi pochi brevi versi biblici.

L’origine Il desiderio di esplorare oltre i limiti del mondo conosciuto, appartiene alla natura umana. E’ oltre questi confini che l’uomo, sin dai suoi primi albori intellettuali, ricerca le sue origini ed è allora che concepisce il soffio perenne dell’infinito spazio che tutto che riempie tutto di sé e dell’ infinito tempo che si dilata fino all’eterno. In origine doveva essere solo quello incomprensibile tutto-nulla-infinito. Possiamo immaginarci l’ origine come un punto dello spazio-tempo dove era condensata tutta la materia-energia. Raggiunta una temperatura elevatissima, di miliardi di miliardi di gradi, quella materia doveva esitare l’intero creato entro uno spazio dilatato di un fattore pari a 1030 .in un tempo incredibilmente breve durato appena 10-30 secondi. Questa teoria, meglio conosciuta come teoria della <grande esplosione> ipotizza che, a seguito di quella colossale esplosione di materia primordiale, sebbene la temperatura cadesse rapidamente, per tutta la durata del primo minuto si doveva mantenere sopra i dieci miliardi di gradi Kelvin. Per lungo tempo l’universo si presentò come un plasma caldo di particelle libere da cui doveva in seguito nascere la materia barionica, la materia cioè fatta di particelle elementari instabili e particelle stabili (nucleoni ed elettroni) assieme a particelle di luce primordiale fatte di sola energia (fotoni). Leptoni e barioni formavano una sorta di “brodo” primordiale caldissimo con cui ebbe origine l’intero universo. Dopo circa 10.000 anni di espansione, l’universo si era raffreddato sufficientemente perché anche l’ultima delle particelle cariche venisse incorporata a formare le particelle atomiche: i protoni si combinavano attraverso varie reazioni nucleari, per formare i diversi nuclei atomici. Da quel momento dovevano


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Chimica generale trascorrere circa un miliardo di anni perché, per effetto dell’espansione, quella materia primordiale si raffreddasse abbastanza per consentire il formarsi delle prime stelle e delle prime galassie. Una volta giunti in un ambiente relativamente più freddo i nuclei che si erano andati formando, catturavano gli elettroni prodotti dallo stesso decadimento neutronico che li aveva generati, dando così origine ai primi atomi. La materia primordiale era così diventata materia elementare. Ma la sua inarrestabile evoluzione continuava e gli atomi ulteriormente rafffreddati cominciarono a stabilire tra loro dei legami. La materia elementare si era trasformata in materia molecolare. Per i successivi 13 miliardi di anni l’ universo continuò ad espandersi (e a raffreddarsi) fino a raggiungere le dimensioni attuali. il Sole, e i pianeti che lo circondano, si formarono all’incirca 5 miliardi di anni fa. La terra era una sfera incandescente formata prevalentemente di idrogeno e elio, ma anche di elementi pesanti come carbonio, azoto, ossigeno, ferro e silicio che erano stati proiettati nello spazio dall’esplosione della supernova che aveva avuto modo di sintetizzare al suo interno molti elementi pesanti a partire da idrogeno e elio, prima di disintegrarsi. Terminata la “scrematura cosmica” rimasero sul posto gli elementi che cominciarono a differenziarsi, per azione della gravità, in un «nucleo» centrale formato quasi esclusivamente di ferro e nichel, in un «mantello» sovrastante costituito di ossidi di elementi pesanti e in una «crosta» superficiale fatta soprattutto di silicati di elementi leggeri come alluminio, potassio e sodio. Durante la formazione e il consolidamento della crosta i gas più leggeri in parte reagirono con gli elementi più pesanti e in parte si dispersero nello spazio. In particolare si allontanò quasi tutto l’elio, che è un gas leggero e niente affatto reattivo, mentre una parte dell’idrogeno, l’elemento più leggero di tutti, si combinò con altri elementi formando composti idrogenati semplici come il metano (CH4), l’ammoniaca (NH3), l’acido solfidrico (H2S) e l’acqua (H2O). Attraverso le spaccature presenti nella crosta si liberavano molecole allo stato gassoso che andavano formanto quella che possiamo considerare la primordiale atmosfera della Terra, sicuramente priva di ossigeno, e piuttosto ricca di idrogeno. Le condizioni ambientali dovevano essere diverse da quelle attuali e in particolare doveva essere diversa la composizione dell'atmosfera che avvolgeva il nostro pianeta e, sicuramente, priva di ossigeno, anche qualora l’ossigeno fosse stato presente in piccole tracce, questo avrebbe immediatamente reagito con molti degli elementi esistenti, ossidandoli. Ma Come ha avuto inizio la vita sul nostro pianeta? Quali processi fisici e chimici hanno potuto trasformare la materia molecolare in uno stupefacente organismo vivente? Per quella continua ineluttabile trasformazione che investe ogni cosa oggetto dell’universo le molecole si dovevano organizzare in livelli strutturali sempre più elevati. L’ evoluzione della materia molecolare, iniziata sul nostro pianeta circa cinque miliardi d’anni or sono, sarebbe proseguita con la selezione di alcune specie molecolari, adatte a sostenere e sviluppare la vita. Con l’evoluzione di alcune specie

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molecolari, per così dire privilegiate, si dovevano concretare i tre regni della natura: il regno minerale (costituito dai corpi inorganici), ed il regno dei sistemi viventi distinto in regno vegetale ed animale. Se non si accetta l'ipotesi che la vita possa essere arrivata sulla Terra provenendo dallo spazio è gioco forza ammettere la possibilità della generazione spontanea, con una differenza, tuttavia, rispetto al passato. Prima di Pasteur si pensava infatti che il processo generativo avvenisse velocemente e continuamente, mentre la moderna teoria sull'origine spontanea della vita sostiene che il processo sia avvenuto lentamente e una volta sola. Due sono le ipotesi sulla su questa generazione spontanea: quella autotrofa e quella eterotrofa. Secondo la prima di queste ipotesi il primo essere vivente sarebbe stato un autotrofo cioè un organismo simile alle attuali piante verdi, capace di sintetizzare sostanze organiche utilizzando sostanze inorganiche attraverso quella complessa serie di reazioni chimiche, che prende il nome di «fotosintesi clorofilliana»; nella seconda ipotesi il primo essere vivente sarebbe stato un eterotrofo, cioè un organismo che non è in grado di fabbricarsi da solo gli alimenti, ma deve prenderli già belli e pronti da altri organismi viventi. L’ipotesi autotrofa nasce dall’osservazione che gli animali (eterotrofi) per vivere hanno bisogno delle piante (autotrofe), mentre le piante per vivere non hanno bisogno di nessuno. Ma come è possibile, ci si chiede, che gli autotrofi, che sono organismi costituiti di sostanza organica ben organizzata, siano comparsi prima delle sostanze che essi stessi producono? Gli studiosi, ritenendo molto improbabile la comparsa di organismi complessi in un ambiente fatto di forme molecolari semplici, si sono orientati verso l’altra ipotesi avviando ricerche volte a dimostrare la possibilità di una transizione spontanea dal semplice al complesso, cioè dal mondo inorganico delle piccole molecole a quello organico delle grandi molecole e poi ancora oltre fino alle strutture finemente coordinate presenti negli esseri viventi. Le prime idee al riguardo furono avanzate, alla fine degli anni Venti, dal biologo anglo-indiano John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964). Egli partiva dall'osservazione che la Terra primitiva doveva avere caratteristiche molto diverse da quelle attuali. In essa, tanto per cominciare, non c'era la vita, mentre in quella attuale la vita c'è. Se oggi si formasse spontaneamente del materiale organico - egli faceva notare - questo verrebbe immediatamente fagocitato da qualche organismo vivente, mentre sulla Terra primitiva, senza la presenza di organismi viventi, la materia organica che fosse comparsa spontaneamente non sarebbe stata decomposta dai batteri o da altri microrganismi e quindi avrebbe avuto tutto il tempo per svilupparsi ed eventualmente accrescere la sua complessità. Le stesse idee di Haldane erano state avanzate, in precedenza, da un ricercatore sovietico, Aleksandr Ivanovic Oparin. Le idee di Haldane e Oparin non vennero accettate di buon grado da chi riteneva che la vita non poteva essere nata attraverso l'incontro fortuito di atomi, e per tale motivo non poteva che essere il frutto di un intervento divino. Ad esempio le proteine - essi dicevano - sono molecole molto complesse e pretendere che si possano formare attraverso l'incontro casuale degli atomi che le costituiscono è privo di logica.

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La radiazione ultravioletta del Sole sarà stata sicuramente una fonte di energia importante per la sintesi dei composti organici, ma non l’unica, anche perché quel tipo di radiazione oltre che formarle, decompone molte molecole organiche. Le altre radiazioni elettromagnetiche provenienti dal Sole e in particolare la componente visibile di esse, non ebbero alcuna efficacia per le sintesi primordiali dei composti organici, mentre saranno determinanti nei successivi stadi dello sviluppo della vita. Molto importante, invece, per le sintesi organiche primordiali, fu l’energia derivante dalle scariche elettriche. Secondo la teoria dell’evoluzione sulla terra sono apparsi dapprima esseri molto semplici, dai quali sono derivati, col trascorrere dei tempi geologici le forme di vita più complessa. Gli studiosi, ritenendo molto improbabile la comparsa di organismi complessi in un ambiente fatto di forme molecolari semplici, si sono orientati verso un’ipotesi di una transizione spontanea dal semplice al complesso, cioè dal mondo inorganico delle piccole molecole a quello organico delle grandi molecole e poi ancora oltre fino alle strutture finemente coordinate presenti negli esseri viventi. Prove sicure sulla composizione dell’atmosfera primitiva non ce ne sono, ma di una si può esser certi e cioè che in quell’atmosfera non esisteva ossigeno libero, O2, nemmeno in quantità modestissime. Come si formarono allora gli oceani primordiali nei quali si suppone si venivano organizzando le prime forme di vita? Un ruolo molto importante per le sintesi organiche primordiali, dovette giocarlo l’energia derivante dalle scariche elettriche. I primi organismi svilupparono la capacità di elaborare pigmenti fotorecettori in grado di realizzare la sintesi di nuovi composti utilizzando la luce solare quale fonte di energia. Da un punto di vista strettamente biochimico ogni organismo vivente può essere considerato una complessa soluzione acquosa di macromolecole organiche in continua evoluzione dinamica e in grado di processare (metabolizzare) altri composti attraverso complesse sequenze di reazioni chimiche (metabolismi) da cui ricava l’energia necessaria al mantenimento delle sue stesse funzioni vitali. Per far ciò egli abbisogna di molecole adeguate allo scopo e sempre più specializzate. Con la comparsa della vita comunque doveva iniziare un nuovo tipo di evoluzione dovuta alla selezione di quelle molecole, ritenute dagli organismi viventi adatte al mantenimento delle loro funzioni vitali. Questa scelta, operata dagli stessi organismi sulla base del principio di ”selezione funzionale” doveva portare alla affermazione di solo quattro grandi classi di composti naturali: protidi, glicidi, lipidi ed acidi nucleici, come oggi li conosciamo sono il risultato di quella lenta e continua selezione operata dalla materia vivente sin dal suo primo apparire. Dal regno animale dovevano ancora evolvere i primi vertebrati e con essi i primati da cui ha origine il primo ominide a postura eretta: l’homo erectus. Dapprima arboricolo scende poi sul terreno e conquista la prateria, e affinata la sua mano come strumento di presa, diventa homo abilis. La stazione eretta, rendendo libere le mani, ha aperto ad essa un campo di attività con cui impegnava le sue facoltà cognitive e con esse ha inizio un circolo virtuoso attività–pensiero con


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cui impara ad elaborare il suo linguaggio ed a migliorare le sue capacità di comunicazione: tutto ciò gli permette di affermare la sua migliore qualità che è quella di formulare nuove idee. Così, divenuto sapiens, avrebbe infine conquistato l'ultimo e più elevato gradino dell’intera scala evolutiva, essendo egli divenuto il solo animale in grado di produrre la forma più evoluta di pensiero che è la base di ogni sua conoscenza. L’evoluzione doveva così concludersi con l’affermazione delle scienze umane, grazie al cui progredire, è stato possibile ripercorrere oggi le tappe di questa incredibile storia cosmica che si trova tutta scritta, capitolo dopo capitolo, nell’eterno libro del Creato.

Alla conquista della conoscenza L’origine della chimica risale agli albori della conoscenza umana; la stessa parola è di significato molto incerto, e sembra collegarsi alle storie mitiche sulle origini della disciplina alla quale ha dato il nome. Questa parola, infatti, veniva fatta derivare da Cham, uno dei figli di Noè; o da Kema, un libro dei segreti dell'arte egizia; o da Chemie (o Chamie), uno dei nomi dell'antico Egitto, dal quale si pensava provenissero le conoscenze naturali più remote e più vere. Tuttavia, malgrado la remota antichità del nome, e la conseguente incertezza sulle sue origini, questa scienza deve essere considerata una delle più esaltanti conquiste dell’ingegno umano. Da Empedocle di Agrigento, (V secolo a.C.), l'uomo considerò la materia come composta da 4 elementi combinati fra loro a formare "ogni cosa" che si potesse vedere o toccare: erano questi l'Acqua, l'Aria, la Terra e il Fuoco. Nella medesima epoca, due greci geniali, Leucippo e Democrito, affermavano che la materia non era divisibile in parti sempre più piccole all'infinito, ma formata da innumerevoli particelle indivisibili: gli atomi. Tuttavia il dotto Aristotele di Stagyra era di opinione contraria e con la sua autorità influenzò non soltanto i contemporanei, ma anche il Medio Evo e praticamente tutto il Rinascimento. Aristotele riconosceva i 4 elementi di Empedocle ai quali associava coppie di qualità tratte dalle antitesi dualistiche: caldo-freddo e umido-secco. II Fuoco era l'elemento al massimo grado caldo e secco, l'Aria al massimo grado calda e umida, l'Acqua fredda e umida, la Terra fredda e secca. La materia primaria si caratterizzava nelle diverse sostanze per combinazioni variabili dei 4 elementi, in diverse sfumature di preponderanza di una qualità sull'antagonista. Per tutto il medioevo e fino al tutto il XVII secolo si distingueva tra le conoscenze che appartenevano piuttosto alle tradizioni di tipo artigianale allora presenti nella medicina, nella farmacia, nella metallurgia,

Rappresentazione delle relazioni aristoteliche elementari.

nella tintoria, nella vetreria, nella profumeria, nella estrazione e produzione di sostanze fermentabili, e

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Chimica generale così via - che non ad una scienza vera e propria, nella quale era prevalente il ruolo della teoria sulla pratica, sulla conoscenza delle cause che non sull’osservazione degli effetti. Molte concezioni filosofiche generali sulla natura, sulla materia e sulle loro trasformazioni, presenti nei testi di alchimia, costituivano un patrimonio intellettuale comune a tutti gli uomini di scienza e sovente l’alchimista era anche medico, filosofo ed astrologo. Il linguaggio ed i simboli che servivano a denotare determinate sostanze o classi di sostanze, cui si attribuiva carattere spirituale, erano comuni. L’insieme dottrinario alchemico consisteva in un metodo con cui procedeva l’alchimista riassunto nelle due operazioni opposte:<<solve et coagula>>. Gli obiettivi fondamentali dell'opera alchemica era la trasmutazione dei metalli in oro e la scoperta di una medicina universale in grado di guarire tutte le malattie e riportare l'organismo alla sua integrità originaria erano le manifestazioni

Il mercurio alchemico sublimato e sciolto nella propria acqua e nuovamente coagulato

più appariscenti e sensibili dell'alchimista. I sette metalli (oro, argento, rame, stagno, piombo, ferro e mercurio) erano in relazione coi sette astri (Sole, Luna, Venere, Giove, Terra, Marte, Mercurio); ed entrambi con le parti anatomiche e le sette viscere dell'uomo. I metalli erano in relazione anche con le qualità morali degli esseri umani: il piombo corrispondeva al loro stato di imperfezione interiore, alla loro «caduta»; l'oro, invece, alla perfezione dovuta alla loro «rinascita» e alla loro liberazione, tramite una conoscenza concepita come illuminazione e unione intima col tutto. In questo contesto, la trasmutazione dei metalli «vili» (a partire dal piombo, il più «vile» ed imperfetto di tutti) in oro era appunto segno visibile e allusione metaforica di una rigenerazione spirituale. Per queste sue finalità l'alchimia può essere considerata piuttosto che una chimica prescientifica, un sapere mistico e sovrarazionale. Il dogma fondamentale era l'idea della perfettibilità della materia e della sua tendenza alla stabilizzazione. I diversi metalli avevano la stessa origine: o erano prodotti dalla mistione degli stessi principi eterogenei, o derivavano da una «materia prima» omogenea. I metalli, infatti, erano considerati composti e non corpi semplici e come tali chimicamente distinti e irriducibili. In quanto composti o prodotti della evoluzione finalistica di una «materia prima», essi si trovavano a diversi stadi del processo naturale di questo perfezionamento, che dovevano concludere con la finale trasmutazione in oro. La formazione e lo sviluppo naturale dei minerali e dei metalli nelle viscere della terra erano considerati analoghi a quelli dello sviluppo degli organismi viventi: così come il feto conteneva in sé le «potenzialità» dell'uomo adulto, allo stesso modo era possibile naturalmente il passaggio graduale dai metalli imperfetti all’oro. Le differenti proprietà possedute dai metalli rappresentavano stati accidentali di imperfezione che potevano essere loro tolti artificialmente per condurli, così, allo stadio finale di perfezione, cioè all'oro “un metallo prodotto di una «amicabile e perfettissima mistione» di «sostanze elementali, con egual quantità e qualità, l'una e l'altra apportionate e sottilissimamente purifiate» grazie al calore esistente nelle viscere della

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Terra” (Pirothecnia, 1540). Paracelso nel suo Tresor de Tresors ci descrive le tre sostanze che compongono ogni cosa ossia lo zolfo, il mercurio ed il sale: queste tre sostanze si uniscono formando ciò che si chiama un corpo. Wilhelm Homberg sosteneva che i metalli erano formati dai principi del «mercurio» e dello «zolfo», o «materia della luce». Il processo di «metallizzazione» sarebbe avvenuto grazie ad una lenta e differenziata penetrazione della materia della luce nel mercurio, attraverso successivi e continui gradi di perfezionamento, fino alla formazione dell'argento e poi dell'oro. Per questo raggiungimento <<la materia della luce deve impiegare molto meno tempo per l’argento che per la perfezione dell’oro>>. Fu tuttavia grazie agli sforzi di quegli studi che si ponevano seppur scompostamente la basi di una nuova scienza basata sullo studio della trasformazione della materia e delle sue leggi. Per l’affermazione del un metodo scientifico nella ricerca dobbiamo attendere l’affermarsi del pensiero galileiano con cui si enunciano i principi del metodo sperimentale. La scienza abbandona con Galieo le pretese di un sapere sistematico e chiuso per divenire consapevolmente un metodo aperto, affrancato dai ceppi della tradizione dogmatica; il seme gettato dal grande italiano era destinato a dare

Laboratorio alchemico

ben presto i suoi frutti. Il XVII I. secolo segna l’affermazione dei principi della scienza moderna cui viene riconosciuta la centralità nel complesso della cultura. Boyle che rigettò per primo l’antica teoria degli elementi può essere considerato il primo chimico scientifico. Le grandi scoperte chimiche avvennero nella seconda metà del secolo XVIII Ciò che caratterizza la chimica di questo periodo è la capacità sperimentale. A. Lavoisier nella ssua opera Trattato elementare di Chimica enuncia una moderna definizione di corpo puro e di elemento. Egli fornisce inoltre una spiegazione scientifica del fenomeno di combustione come combinazione dei corpi con l’ossigeno che gli permette una chiara enunciazione del principio di conservazione della materia con cui ebbe impulso lo sviuppo dei principi della analisi quantitativa che permise l’enunciazione delle prime leggi ponderali. Alla fine del Settecento, Jeremias Benjamin Richter enunciò un altro principio di conservazione della chimica, quello della neutralità dei sali nelle reazioni di doppio scambio: se si mescolavano due soluzioni neutre di sali, e si aveva una reazione fra questi, i prodotti finali erano anch'essi neutri. Da ciò Richter dedusse che gli elementi dei reagenti iniziali e dei prodotti finali dovevano trovarsi in rapporti determinati per quanto riguardava le loro masse. Ma Richter elaborò (1792) anche una fondamentale legge della combinazione chimica, la legge degli equivalenti, secondo la quale le quantità di alcali (o di acidi) che si combinano con qualsiasi acido (o alcale) conservano tra loro gli stessi rapporti nelle combinazioni con tutti

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Chimica generale gli altri acidi (o alcali). Attraverso una serie di ricerche condotte dal 1797 al 1809 sulla composizione degli ossidi metallici del ferro, del rame, dello stagno e su alcuni solfuri metallici (soprattutto del ferro), arrivò ad enunciare la legge delle proporzioni definite, secondo la quale ogni composto chimico era costituito da una proporzione fissa e costante dei componenti, indipendente dalle condizioni sperimentali nelle quali esso veniva formato. Per Proust, dunque, nelle sue produzioni materiali la natura era rigorosamente discontinua, e agiva secondo regole ponderali precise e immutabili. Lo stesso poteva dirsi della sperimentazione artificiale di laboratorio: questa dava luogo a composti esattamente identici a quelli naturali poiché esattamente identici erano i rapporti ponderali in atto tra i reagenti. Riprese alla metà del XIX secolo, esse costituirono il punto di partenza per la formulazione della legge di azione di massa degli equilibri chimici enunciata nel 1879 dai danesi Maximilian Guldberg e Peter Waage. Nei primi decenni dell’ottocento l’inglese Davy poneva i fondamenti dell’elettrochimica ottenendo l’isolamento del sodio e del potassio per elettrolisi e dimostrando al contempo che il cloro era un corpo semplice e che l’idrogeno era lelemento comune a tutti gli acidi. Nel 1860 sì svolgeva a Karlsruhe (Germanìa) un Congresso che riunìva ì 130 chimici più influenti d'Europa allo scopo fare il punto sulla conoscenza raggiunta in relazione alle teorie atomiche e definire una convenzione sul significato dei termini, le simbologie ed il peso degli atomi. Per Cannizzaro, fu l'occasione per la divulgazione delle sue idee sui i pesi molecolarí ed i pesi atomici di quasi tutti gli elementi allora conosciuti. Negli anni successivi tutti i chimici, convinti dell'esattezza del metodo di Cannizzaro, poterono usufruire di una più precisa e completa tabella di pesi atomici relativi, ricavati sperimentalmente e completata ad opera del gruppo di Berzelius. Con l'opera di Cannizzaro la Chimica prendeva definitivamente il suo avvio. Ma tutto il grandissimo insieme di ricerche che ha avuto luogo lungo i tre secoli di ricerche e studi dovevano concludersi con una radicale riconsiderazione sulla reale struttura della materia. Uno di questi aspetti riguarda il suo carattere particellato e discontinuo questione che verrà affrontata con l’affermazione della equivalenza materia-energia, equivalenza basata sul presupposto che entrambe sono formate da gruppuscoli, i quanta; ponendo così le basi di una nuova meccanica non più razionale bensì quantistica,

Sondando la materia infino ai suoi ultimi componenti strutturali si dovette ammettere che ognuno

dei gruppuscoli che formavano gli atomi accanto al comportamento proprio delle

particelle manifestava comportamenti propri delle onde (diffrazione, interferenza ecc.). Accanto 12 12


Chimica generale

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alla tradizionale meccanica razionale, che descriveva il comportamento dei corpi fisici, veniva elaborata una nuova meccanica che veniva perciò detta ondulatoria , basata cioè sul presupposto che l’energia posseduta da quelle particelle subatomiche doveva essere descritta in termini onde di opportuna lunghezza e frequenza. Il primo esempio di connessione tra variabili di tipo corpuscolare e ondulatorio si ha nei lavori di M.Planck sulla radiazione termica e di Albert Einstein sull’effetto fotoelettrico. L’ipotesi essenziale della meccanica ondulatoria, formulata da L.V.de Broglie nel 1924, è che ad ogni particella sia associata un’onda. Grazie a E. Schrödinger la nuova meccanica disponeva di una equazione con cui veniva descritta la legge di propagazione di queste onde materiali e dei previsti livelli di energia associata. La meccanica quantistica coordina in uno schema coerente le teorie elaborate per superare le difficoltà che le teorie classiche incontravano, nell’interpretazione di alcuni fenomeni, in particolare di quelli spettroscopici. Nello stesso tempo W.Heisenberg sviluppava la meccanica delle matrici. Il riconoscimento della equivalenza tra la meccanica delle matrici e meccanica ondulatori segnò la nascita della meccanica quantistica, formulata nella sua forma attuale da P.A.M.Dirac Saranno queste ultime teorie a consentire l’attuale poderoso sviluppo di quel sapere autonomo e distinto che ancora oggi chiamamo col nome misterioso di

Chimica

scienza sperimentale che si occupa dello studio della materia e deille leggi che governano ogni sua trasformazione nei suoi duplici aspetti, macroscopici e microscopici.

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note

Chimica generale

Nelle questioni naturali la cognizione degli effetti è quella che ci conduce all’investigazione e ritrovamento delle cause, senza quella il nostro sarebbe un camminare alla cieca. Galileo Galilei — (I dialoghi dei Massimi sistemi ) Il metodo sperimentale si realizza in quattro tempi che sono: osservazione, ipotesi , verifica, conclusione. La ricerca comincia con l‘osservazione dei fenomeni che si intendono studiare. Si avanza una ipotesi teorica sulla legge che esso sembra esprimere. Si procede quindi nel lavoro di verifica sperimentale che inizia con la raccolta dei dati di misura di cui si valuta la l’accuratezza, ripetitività e la riproducibilità, nel senso che debbono sempre poter essere ripetuti in qualsiasi altro luogo ed qualsiasi altro momento. la verifica delle ipotesi poste in premessa permette la conclusione dello studio con la formulazione di un eventuale enunciato di carattere universale. Ciascuna ipotesi può essere sempre soggetta a revisione, giammai lo possono ciascuno dei dati ottenuti sperimentalmente .

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Chimica generale

note

1 I primi 92 elementi esistono in natura, gli altri 11 sono stati creati in modo artificiale. Il peso a cui ci riferiamo è il "peso atomico", dato dalla somma dei pesi dei suoi componenti, ed il stingue gli elementi è il "numero atomico", che corrisponde al numero di protoni contenuto nel nucleo dell'atomo. Gli elementi chimici sono contraddistinti da un simbolo, uno diverso dall'altro, costituito da una o due lettere, come potete vedere dalla tabella che segue. Quindi anche il numero degli a relativamente pochi elementi vengono costruiti tutti gli svariatissimi aspetti della materia che conosciamo, ossia vengono formate le molecole. Tabella dei pesi atomici relativi degli elementi

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Elementi di CHIMICA GENERALE


note

Chimica generale

CAP. I

La materia

1.1 Materia ed energia

Isaac Newton

Albert Einstein

Quello di materia è un concetto che ha subito nel tempo parecchie variazioni di significato. Esso compare descritto nel <Philosophiae naturalis principia matematica> di I. Newton come uno dei due oggetti fondamentali della meccanica classica, essendol’altro il moto. Spetta ad A.L. Lavoisier averne dimostrato per primo il principio di conservazione. Nel XIX secolo fattosi più complesso il quadro concettuale della fisica, accanto al concetto di materia si associano i concetti di massa ed energia. Il problema dei rapporti tra questi enti fisicamente distinti doveva essere risolto da A. Einstein con la sua teoria ristretta della relatività. Questa, per molti aspetti rivoluzionaria teoria, afferma il principio di equivalenza tra massa ed energia per cui l’esistenza della materia presuppone l’esistenza della energia essendo l’una direttamente convertibile nell’altra. Facendo ricorso ad una definizione classica possiamo affermare semplicemente che materia è tutto ciò che occupa uno spazio in quanto dotato di massa e chiamare corpo ogni sua porzione definita da un preciso contorno volumetrico. La tendenza dei corpi a permanere nel loro stato di quiete (o di moto uniforme) è chiamata inerzia e la sua misura quantitativa massa. Il valore della massa è una grandezza invariante cioè indipendente dalla situazione fisica del corpo stesso (sua velocità, forze agenti su di esso, suo calore, ecc.). La descrizione delle leggi di moto o dello stato di quiete di ciascuna massa sono raccolte nell’ambito della meccanica razionale ove la definizione classica di massa è ricavata dalla legge di Newton:

F= ma (1) Qualsiasi corpo possiede oltre la massa anche energia, che risulta essere proporzionale alla velocità, v, che il corpo assume nello spazio, essendo la costante di questa proporzionalità la massa stessa del corpo. Questo tipo di energia prende il nome di quantità di moto, q, il cui valore è espresso dalla relazione:

q = mv (2) Ogni corpo in movimento possiede dunque una determinata quantità energia il cui valore è direttamente proporzionale alla velocità dello spostamento. Se il corpo aumenta la sua velocità (accelera) è perché è aumentata la sua energia, ma la sua massa, m, rimane costante sempre la stessa (invariante); essa rappresenta la costante di proporzionalità tra l’energia, espressa come quantità di moto, q, e velocità, v, posseduta dal corpo di massa. Tuttavia, per velocità elevatissime, cioè paragonabili a quella della luce, lo schema della meccanica classica non vale più e quanto descritto dalla meccanica razionale deve essere sostituito dalle leggi della meccanica relativistica. Prima di Einstein comunemente si operava una distinzione tra l'energia, E, e massa, m, ma Einstein con la sua famosa equazione ricavata dalla teoria della relatività generale, annullò questa distinzione considerando le due grandezze equivalenti, essendo Energia e materia due grandezze della stessa natura e quindi di-


note

Chimica generale rettamente proporzionali tra di loro; la costante di questa proporzionalità risultò essere pari al quadrato della velocità della luce e l’intera equivalenza veniva scritta come:

E = m c2 (3) La (3) ci permette di affermare che è possibile ricavare energia dalla materia, come avviene nei reattori nucleari e, viceversa, si può ottenere materia dall’energia, come avviene negli acceleratori di particelle. Dato il valore di c molto grande, basta una piccola quantità di materia per ottenere una grandissima quantità di energia, e, viceversa, è necessaria tantissima energia per ottenere una piccola quantità di materia. La massa associata ad ogni particella elementare, non è più una grandezza invariante ma aumenta con l’aumentare della velocità per cui per tutte le particelle di massa finita risulta impossibile raggiungere una velocità v che uguagli la velocità della luce, c (pari a 298.000Km/sec); tale valore limite è irraggiungibile giacché la massa avrebbe valore infinito stessa in accordo alla relazione relativistica di Einstein:

E= m0c2/√(1-v2/c2)

(4)

dove v è la velocità della particella di massa a riposo m0 e c la velocità della luce. Dalla (4) si può vedere facilmente che il valore limite di energia si ha per v = c, a questo valore corrisponde un valore di massa inerziale infinita. Questa velocità limite è dunque raggiungibile solo dalle particelle praticamente prive di massa tali sono i fotoni, che si devono considerare non già come vere e proprie particelle di massa definita bensì come particelle di energia definita (quantum). Il moto di queste particelle, non è più descrivibile in termini di quantità di moto come previsto dalla meccanica classica, ma richiede una nuova meccanica: la meccanica ondulatoria. La fisica delle particelle elementari ammette per ogni particella elementare un duplice aspetto, quello corpuscolare e quello ondulatorio: al movimento di una particella corrisponde la propagazione di un gruppo di onde e, viceversa, ad una propagazione ondosa corrisponde uno sciame di particelle. Le equazioni di moto delle particelle elementari, anziché dalle classiche funzioni lineari, sono quindi meglio rappresentate da equazioni d’onda formulate tenendo conto delle opportune correzioni ricavate dalla teoria dei quanti. Poiché per una particella classica l'energia è funzione della posizione e della velocità, M. Born affermò che la probabilità di trovare una particella di massa m nella posizione x all’istante t era espressa proprio da una funzione d'onda ϕ(x, t) . L'ipotesi essenziale della meccanica ondulatoria, formulata da L. V, de Broglie nel 1924, è che al moto di ogni particella sia associata un moto ondoso. Tale ipotesi trovò conferma sperimentale nell'osservazione degli effetti di diffrazione che si verificano quando un fascio di elettroni incide su di un cristallo; esperienze analoghe sono state successivamente effettuate anche con altre particelle (p.e. i neutroni) ottenendo sempre risultati che si accordano con le teorie di de Broglie. La meccanica ondulatoria parte dal presupposto che il comportamento dei costituenti ultimi della materia possa essere descritto mediante onde di opportuna frequenza (ν) e lunghezza d'onda (λ= 1/ν). Questa meccanica, valida per le particelle elementari (quali sono, ad esempio, gli elettroni), permette la descrizione della loro quantità di moto e degli stati gli stati energetici ad esso associati, che risulta essere non più proporzionale alla loro massa, bensì alla frequenza ν dell’ onda che ne descrive il moto:

Molecole→Atomi→particelle elementari. Ciascuna molecola è formata da un insieme ordinato di atomi u l t er i o r me n te sc i n d ib i l i i n particelle più semplici di massa infinitesima il cui moto non è più descrivibile negli stessi termini descritti dalla meccanica classica, ma richiede una nuova meccanica: la meccanica ondulatoria e la succedanea meccanica quantistica

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note

Chimica generale

E = hν (5) essendo h la nuova costante di proporzionalità che prende il nome di costante di Planck. Un postulato fondamentale di questa teoria è che le particelle elementari possono scambiare energia solo per valori discreti di energia , perciò detti quanta d’energia. Il primo esempio di connessione tra variabili di tipo corpuscolare e ondulatorio si ha nei lavori di M. Planck sulla radiazione termica e di A. Einstein sull'effetto fotoelettrico. Restava insoluto, tuttavia, il problema di trovare la legge di propagazione per queste «onde di materia»; il merito della soluzione spetta a E. Scrödinger, che ragionò in analogia con la meccanica classica arrivando a formulare l'opportuna equazione d'onda. Nel caso di sistemi per i quali l'energia totale è indipendente dal tempo, l'equazione di Schrödinger prevede l'esistenza di stati stazionari e di calcolare i relativi valori energetici (livelli). La meccanica ondulatoria ha originato (insieme alla meccanica delle matrici) la moderna meccanica quantistica che fornisce la descrizione più accreditata dei fenomeni fisici che coordina in uno schema coerente rende conto dell’esistenza dei livelli energetici di energia stazionaria che dipende dalla struttura interna del sistema. Un atomo può avere qualsiasi valore di energia traslazionale ma solo determinati valori di energia per ciascuno degli elettroni perinucleari, i cui stati energetici sono descritti da numeri interi che vengono detti numeri quantici. Gli elettroni possono passare da un livello, E1, all’altro, E2, solo se scambiano il quantum di energia corrispondente alla differenza dei due livelli quantici, ovvero alla differenza delle loro frequenze d’onda; infatti dalla (5) si ricava: E2-E1= hν2 − hν1 = h(ν2 − ν1) (6)

1.2 Antimateria La materia allo stato molecolare è quella che conforma la realtà del mondo in cui viviamo. Sulla superficie del nostro pianeta la materia esiste allo stato molecolare. Sono le molecole che realizzano i corpi distinti in sostanze minerali e organismi viventi. Ciascuna molecola è formata da un insieme ordinato di atomi così detti perchè erano una volta considerati indivisibili. Ciò che si ritiene indivisibile oggi è cosa ben diversa dagli atomi di Democrito che sono risultati essere ulteriormente scindibili in particelle più semplici cui si da il nome di elementari . Il principio che caratterizza tutte le particelle elementari è quello della loro indistinguibilità. Secondo questo principio due particelle aventi le stesse caratteristiche sono tra loro identiche e non possono essere in alcun modo distinte; da questo principio discende il principio di identità. Così, ad esempio, due elettroni sono tra di loro indistinguibili e per essi vale l’identità: da cui consegue la semplice relazione: 18 18

e—= e—


Chimica generale

note

e— — e— = 0 (7) in cui il significato matematico ci è ben chiaro, ma non altrettanto lo è il corrispondente significato fisico. Com’è possibile azzerare per sottrazione di una particella da un'altra? Quale realtà fisica si cela sotto questa semplice relazione? Siamo nel 1928, a quel tempo Dirac era alle prese con la sua equazione con la quale descriveva il comportamento di un elettrone che considerava come una particella che alla propria massa associava una determinata quantità di energia (il quantum); questa equazione, per qualunque soluzione di energia positiva, forniva altrettante soluzioni che mostravano valori di energia negativa, in netto contrasto con il senso fisico comune, che attribuisce un significato solo alle particelle con masse ed energia di valore positivo. Egli intuì allora che doveva esistere un tipo diverso di elettrone, prima d’allora sconosciuto, con una carica elettrica positiva e che chiamò <antielettrone>, cioè un elettrone di massa uguale ma carica elettrica opposta; con questa ipotesi Dirac poteva ora dare dava una corretta interpretazione alle equazioni in cui comparivano le masse di segno negativo: il loro significato fisico andava interpretato come: —m— = antiparticella = m+ (8) Queste antiparticelle, teorizzate in base alle equazioni della meccanica quantistica, furono in seguito scoperte sperimentalmente. Nel (1932) veniva scoperto l’antielettrone cui venne dato il nome di positrone; nel 1956 veniva scoperto l’antiprotone, cioè la particella di massa unitaria e carica elettrica negativa. In seguito veniva verificata sperimentalmene la presenza delle altre antiparticelle. Per ciascuna delle particelle note coesistevano altrettante anti-particelle (antiprotoni, anti-elettroni, anti-neutroni, ecc,) ciascuna avente massa uguale alla corrispondente particella ma energia di segno e carica opposta. Trovava sostegno sperimentale così l’ipotesi dell’effettiva esistenza di quella che era stata già chiamata l’<antimateria>, cioè di una materia tutta fatta di antiparticelle. In linea di principio possiamo supporre, infatti, che come l’insieme delle particelle forma la materia così l’insieme delle antiparticelle forma l’antimateria. Accanto ad ogni particella coesistono dunque altrettante anti-particelle (antiprotoni, antielettroni, antineutroni, ecc,) ciascuna avente massa uguale alla corrispondente particella ma energia di segno e carica opposta. E’ così ipotizzabile un mondo fatto di antimateria cioè tutto costituito di antiparticelle che danno vita ad antiatomi in cui i nuclei sono formati da antiprotoni ed antineutroni attorno cui orbitano i positroni. Per questi antiatomi varrebbero le stesse leggi che valgono per i nostri atomi e sarebbero le nostre particelle ad avere vita breve. Nel nostro mondo fisico, le particelle sembrano essere più numerose rispetto alle antiparticelle, ciò per la brevissima vita media di queste ultime. Quando s’incontrano particella e antiparticella avviene il fenomeno dell’ annichilazione, cioè entrambe scompaiono e al loro posto compare una equivalente particella di energia radiante pura, corrispondente alla loro massa in accordo alla equivalenza data dalla (3) e (5):

Energia ↔ materia+antimateria La creazione simultanea di una coppia negatone-nositone (elettrone negativo-elettrone positivo) può avvenire in prossimità di un nucleo ad alta energia per effetto di una interazione forte (decadimento ad uno stato meno eccitato). Questo processo ha costituito una evidente conferma del principio relativistico di equivalenza tra massa ed energia di Einstein ed ha anche confermato la teoria quantistica di Dirac in quanto le previsioni teoriche sono risultate in ottimo accordo con i dati sperimentali: Energia ↔ elettrone + positone

E = hν = mc2 con: h = costante di Planck, ν = frequenza della radiazione emessa, m = massa delle particelle annichili19


note

Chimica generale te, c = costante, (pari alla velocità della luce). Adesso possiamo comprendere meglio il significato della (6) che alla luce della (7) diventa:

L’elettrone è anche chiamato negatone: l’antielettrone è anche chiamato positone.

L'ipotesi essenziale della meccanica ondulatoria, formulata da L. V, de Broglie nel 1924, è che a ogni particella elementare sia associata un'onda. Tale ipotesi trovò conferma sperimentale nell'osservazione degli effetti di diffrazione che si verificano quando un fascio di elettroni incide su di un cristallo; esperienze analoghe sono state successivamente effettuate anche con altre particelle (p.e. i neutroni) ottenendo sempre risultati che si accordano con le relazioni di De Broglie.

e— + e+ = 0 (9) L’evento descritto nella (9) è meglio conosciuto come processo di annichilazione della coppia particella antiparticella. Tutti i costituenti fondamentali della materia vanno a coppie; per ogni tipo di particella vi è un’ antiparticella di uguale massa, ma opposta per quanto riguarda ogni altra proprietà (carica elettrica, spin, ecc.). Il processo di accoppiamento particella-antiparticella è stato ampiamente dimostrato sperimentalmente e coppie di esse sono state create, mediante collisioni ad alta energia, all’interno degli acceleratori di particelle. Nel 1930 Carl David Anderson, facendo interagire un fotone ad alta energia con il campo elettromagnetico di un nucleo, osservava la contemporanea formazione di una coppia elettrone-antielettrone. L’osservazione sperimentale della produzione fu realizzata alla fine del 1974 a Brookhaven (New York) e Stanford (California) con fasci di elettroni e positoni ad alta energia che si scontravano in corrispondenza di opportuni apparati di rilevazione. L’esperimento permise di accertare che la <nascita> di nuove particelle di materia era bilanciata con la creazione di altrettante antiparticelle di antimateria. Il principio di annichilazione descritto dalla (9) sancisce, al contrario, che quando si incontrano una particella con la propria antiparticella esse annullano tanto la loro carica quanto la loro massa che si trasforma in una corrispondente quantitum di energia radiante sotto forma di una coppia di raggi gamma. Questo processo deve dunque essere inteso come reversibile nel senso che l’energia di due fotoni che interagiscono può essere interamente convertita nella massa di una coppia particella-antiparticella. Il processo di annichilazione deve essere dunque considerato come un processo reversibile. La massa delle due particelle che si annichilano è trasformata in due corrispondenti fotoni gamma (γ) emessi in direzioni opposte così come e due fotoni gamma che interagiscono creano una corrispondente coppia particella antiparticella: ……..

m-- + m+ → 2γ (annichilazione) (10) 2γ → m-- + m+ (creazione) (11)

La (10) e la (11) pur descrivendo due eventi antitetici, realizzano chiaramente la medesima interazione e vengono rappresentati dallo stesso diagramma spazio-temporale di Feynman letto nelle diverse direzioni (vedi 1.5). L’energia è dunque l’essenza della materia, come la materia è l’essenza dell’energia. Materia ed energia costituiscono, infatti, una sola inscindibile realtà, potendosi l’una convertire nell’altra e compendiare questa visione nell’aforisma secondo cui una particella è come un quantum di <energia condensata> e viceversa un quantum di energia è come una particella di <materia sublimata>.

1.4. Le interazioni Quando due particelle si trovano in prossimità l’una dell’altra, esse interagiscono esercitando una reci20 20


Chimica generale

note

proca attrazione o repulsione, tale fenomeno prende il nome d’interazione. L’interazione si realizza grazie allo scambio di quanti di azione che variano a seconda della natura delle particelle. Tutti i processi interattivi che si osservano nella realtà fisica sembrano essere riconducibili a soli quattro tipi diversi di interazione le cui grandezze fanno riferimento alla intensità di interazione unitaria che è quella forte: interazioni forti di intensità unitaria, interazioni elettromagnetiche di intensità 10-2 volte più piccola, interazioni deboli (10-13) e gravitazionali (10-38). I diversi tipi di interazioni si distinguono ance in base al quanto di azione scambiato per come meglio appresso specificato: Interazione nucleare forte: attrazione reciproca esercitata dai nucleoni nella formazione dei nuclei atomici; la forza d’interazione nucleare non sembra estendersi oltre la distanza pari al raggio nucleare (forza a breve distanza) e non sembra distinguere le particelle che differiscono solo per il valore di carica elettrica (Es. protoni e neutroni; pioni positivi negativi e neutri). La legge che esprime la forza d’interazione nucleare non è nota. Il quanto di azione scambiato è un tipo di mesone che prende il nome di pione o mesone π, particella elementare di massa a riposo intermedia tra quella dell’elettrone (me) e quella del protone (1838 me). Interazione nucleare debole: è la forza responsabile del decadimento nucleare, cioè di quel processo per cui un nucleone, emettendo un elettrone (o un positrone), trasforma il nucleo nel suo isotono isobaro. Le interazioni deboli sono responsabili del decadimento di un mesone p (pione) in un mesone m (muone). Esso svolge un ruolo importante nei processi d’evoluzione della materia in quanto è causa della trasformazione della materia adronica in materia atomica. I quanti di interazione scambiati nei processi di interazione debole sono i bosoni intermedi (W) (vedi diagramma di Feynman di pag.24) Quando un neutrone ddu decade in un protone duu un suo quark cambia il sapore (da d ad u), emettendo al contempo un bosone intermedio W di carica unitaria –1 che a sua volta decade in un elettrone (di carica -1) ed un antineutrino. In tale processo si conserva la carica ma non la parità. Il neutrino è una particella di spin 1/2 come l'elettrone e il quark, ma non ha né massa né carica, per cui non interagisce coi fotoni. Non interagisce neanche coi gluoni, ma solo col W (fig. a lato). I W sono bosoni di spin 1, come i fotoni e i gluoni. Essi cambiano il « sapore » e la carica dei quark (il quark d, di carica - 1/3, viene cambiato in 'quark u, di carica + 2/3) ma non il loro « colore ». Il W— trasporta carica - 1 e la sua antiparticella, W + , porta carica + 1, per cui essi interagiscono anche coi fotoni. Il decadimento beta impiega un tempo molto maggiore di quello caratteristico per le interazioni tra fotoni ed elettroni, per cui si pensa che, a differenza di fotoni e gluoni, i W hanno massa molto alta (circa 80.000 MeV). Interazione elettromagnetica: attrazione esercitata da tutte i corpi dotati di massa e carica elettrica. E’ responsabile della formazione strutturale degli atomi e delle molecole. Sono le interazioni meglio conosciute; la legge di forza è nota come Legge di Coulomb. La forza coulombiana, che può essere attrattiva (per le cariche eterologhe) o repulsiva (per le cariche omologhe), si esercita anche a grandi distanze. Il quanto di azione scambiato nel processo di interazione elettromagnetica è il fotone. Interazione gravitazionale: attrazione esercitata da tutti i corpi anche a grande distanza; essa regola la

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note

Chimica generale dinamica dei corpi celesti. La legge di forza è espressa dalla legge di Newton. Il quanto di azione si suppone essere il gravitone.

Tutte le particelle composte da quark appartengono a una di due possibili classi; quelle fatte da un quark e da un antiquark (mesoni), e quelle da tre quark (barioni); protoni e neutrone sono gli esempi più comuni di queste ultime. Le cariche dei quark u e d si combinano in modo da dare + 1 per il protone e zero per il neutrone (in basso sono riportati un neutrone a sinistra ed un protone a destra.

Nel 1953 Heisenberg iniziava la ricerca di una nuova teoria di unificazione generale, secondo la quale tutte le particelle e tutti i campi di forza dovrebbero derivare da un'unica equazione fondamentale. Il sistema utilizzato per descrivere un’interazione tra particele elementari è il cosiddetto diagramma spaziotemporale di Feynman a fianco rappresentato. Nel piano dello spazio-tempo si riportano le interazioni e gli eventi che modificano lo stato posizionale rispetto al tempo. Nella figura riportata a fianco è rappresentata l’interazione di un elettrone (tratto rettilineo) con un fotone (tratto ondulato). L’interazione fotone-elettrone comporta solo cambiamento delle coordinate dell’elettrone mentre scompare il fotone che ha interagito. Lo stesso diagramma può anche servire per descrivere un processo in cui un fotone si disintegra con creazione di una coppia elettrone-positone (ovvero la coppia annichila la loro massa trasformandola in un fotone). Una conseguenza dello studio delle interazioni è la formulazione del principio di conservazione con cui si afferma che durante una interazione energia, carica, spin, quantità di moto e momento magnetico devono rimanere costanti. Se una interazione genera nuove particelle esse dovranno soddisfare il principio di conservazione, pertanto dovranno avere caratteristiche tali che la somma dei loro singoli valori eguagli le grandezze della particella iniziale: all’origine di ogni particella deve sempre corrispondere una antiparticella cioè una particella che ha massa uguale ma caratteristiche intrinseche opposte.

1.5. Le particelle elementari Si definiscono elementari tutte quelle particelle che rappresentano i componenti ultimi della materia. Dopo la scoperta dell’elettrone il numero delle particelle elementari è andato via via aumentando e oggi se ne conoscono un centinaio ma non tutte stabili . Quando due particelle vengono a trovarsi vicine interagiscono scambiando reciprocamente il valore di alcune grandezze ma sempre mantenendo costante il valore di energia, carica elettrica, spin, quantità di moto e momento magnetico. La costanza di queste grandezze durante un processo interattivo permette di formulare i principi di conservazione. Se l’interazione genera nuove particelle esse dovranno avere caratteristiche tali che la somma dei loro singoli valori eguagli le grandezze delle particelle iniziali. (L’evento descritto dalla (9) osserva il principio di conservazione della carica in quanto relativamente alle cariche elettriche diventa: 0 = +1—1). Le particelle elementari classificate in base al loro spin si distinguono in fermioni e bosoni: quelle con spin semiintero vengono dette fermioni e quelle con spin intero bosoni. Una seconda classificazione viene fatta a seconda della loro intensità d’interazione (vedi 1.5.): gli adroni sono fermioni sensibili alle interazioni forti (vedi 1.5.), i leptoni sono fermioni sensibili alle interazioni deboli. Le particelle elementari così sono state convenientemente raggruppate in tre categorie: A) bosoni: Particelle con massa a riposo nulla, tali sarebbero i fotoni i gluoni ed i teorici gravitoni. I gluoni sono le ipotetiche particelle che dovrebbero legare i quark nella formazione di mesoni e barioni.

22 22


note

Chimica generale B) leptoni: Gruppo di 12 particelle elementari, 6 sono veri e propri leptoni: elettroni , muoni, particelle tau, tre diversi tipi di neutrini e 6 sono i corrispondenti antileptoni. Si tratta di particelle sensibili sia alle interazioni nucleari deboli sia a quelle elettromagnetiche. I leptoni sono,probabilmente, insieme ai quark le uniche particelle realmente elementari. C) adroni: distinti in mesoni e barioni. I mesoni, particelle instabili con massa a riposo intermedia tra quella dell’elettrone e quella del protone, decadono spontaneamente dando origine a particelle stabili (leptoni, neutrini, fotoni). I barioni comprendono i nucleoni protoni e neutroni. La forza di coesione del nucleo dell'atomo (interazione nucleare forte) è dovuta allo scambio di un mesone, particella neutra con una massa di circa 200 volte quella dell'elettrone. I primi fasci di mesoni furono generati nel 1948 nel il ciclotrone di Lawrence.

1.4. Le particelle fondamentali le particelle elementari certamente stabili sono poche e precisamente i leptoni (elettroni, fotoni, neutrini) e i quark. A queste due categorie di particelle per distinguerle dalle altre particelle elementari instabili si da il nome di particelle fondamentali. Tutte le particelle elementari ma non fondamentali sono instabili nel senso che dopo un certo tempo, più o meno lungo, decadono originando particelle di massa più piccola fino a creare particelle di massa leptonica o sistemi stabili di quark. Le particelle formate da quark sono gli adroni distinti in barioni (come i protoni e i neutroni) formati da tre quark e mesoni formati da un quark e da un antiquark tenuti assieme dalla forza d’interazione di gluonica. I mesoni sono tutti instabili mentre dei barioni solo i nucleoni lo sono: il protone è comunque stabile mentre il neutrone è stabile solo se opportunamente legato ad altri nucleoni. Il modello teorico prevede per i quark sei differenti stati teorici chiamati sapori: up(u), down(d), strano(s), charm (c), alto (t) e basso (b) e tre diverse condizioni chiamate colori (Rosso, verde e blu) che può cambiare quando un quark emette un gluone: ad esempio un quark u rosso diventa verde u quando emette un gluone rosso-antiverde interagendo con un quark d verde che diventa d rosso. I quark possiedono carica elettrica frazionaria rispetto a quella unitaria dell’elettrone: i quark u, c e t hanno carica pari a +2/3 di e, mentre i quark d, s e b hanno carica –1/3 di e (e corrisponde alla carica unitaria dell’elettrone). Tutti i barioni sono costituiti da tre quark: il protone ha composizione uud; la sua carica q è quindi +1 ((q= 2/3 + 2/3 - 1/3 = +3/3 = +1); mentre il neutrone, che ha composizione udd, ha carica zero (q = 2/3 - 1/3 1/3 = 0). La forza d’interazione dei quark è molto forte tanto che la possibilità di rivelarli allo stato libero è praticamente impossibile e non è mai stata realizzata la loro separazione mediante urti ad alta energia. La materia barionica è soggetta ad una evoluzione successiva alla sua formazione, per la quale si riorganizza in materia atomica. Il processo di questa evoluzione è il decadimento neutronico. Quando un singolo neutrone decade in un protone è perché uno dei suoi quark di sapore u si trasforma in quark di sapore d contemporaneamente si assiste ad emissione di un bosone intermedio , W, di massa molto alta, circa 80.000 Mev e di carica —1 che subito si trasforma in un elettrone ed un antineutrino. Il decadimento neutronico comporta conservazione della carica ma non della parità (vedi 1.7.).

u(2/3)

Anti neutrino

Elettrone-1

d(-1/3)

Quando un neutrone ddu decade in un protone duu un suo quark cambia il sapore (da d ad u), emettendo al contempo un bosone intermedio W di carica unitaria –1 che a sua volta decade in un elettrone (di carica -1) ed un antineutrino. In tale processo si conserva la carica (ma non la parità)

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note

Chimica generale

1.6. I nucleoni

Interazione di un elettrone (tratto rettilineo) con un fotone (tratto ondulato). L’interazione comporta solo cambiamento delle coordinate spazio-temporali dell’elettrone mentre il fotone viene assorbito completamente.

Protoni e neutroni, li ritroviamo quali costituenti dei nuclei atomici ove addensano la quasi totalità della massa atomica. Le dimensioni nucleari sono dell’ordine di 10-13 cm, mentre quelle atomiche sono dell’ordine di 10-8 cm., cioè il nucleo è circa centomila volte più piccolo dell’intero atomo. Nel nucleo stazionano i protoni, che sono barioni stabili di massa e carica elettrica positiva unitaria, ed i neutroni, di massa anch’essa unitaria ma privi di carica elettrica. Data la complessità della realtà nucleare la descrizione dei fenomeni nucleari richiede l’impiego di modelli teorici in grado di giustificare il loro comportamento. A tali schemi si da il nome di modelli nucleari. Essi si dividono essenzialmente in due classi: la prima classe che presuppose il moto di un nucleone strettamente correlato a quello degli altri componenti e talmente complicato da richiedere l’applicazione di metodi statistici, ad es. il modello a goccia liquida che si mostra particolarmente utile nella descrizione degli stati altamente eccitati; la seconda classe di modelli in cui il movimento di ciascun nucleone è descritto considerandolo, in prima approssimazione, come indipendente dagli altri componenti (modelli a particella singola). Il modello a particella singola, detto modello a gusci, ammette che ogni nucleone si muova in un potenziale medio che ne definisce il livello energetico dello stato, a tale livello la meccanica quantistica da il nome di strato o, in analogia al modello quantistici dell’elettrone, orbita. Quando le particelle elementari sono costrette a condividere uno spazio limitato, (tale situazione è quella delle particelle che costituiscono lo stesso sistema atomico), la loro energia si distribuisce lungo un percorso che prende il nome generico di orbita: fintanto ché la particella occupa una determinata orbita essa non scambia in alcun modo energia (stato energeticamente stazionario). Passare dall’orbita ove risiede ad un’altra vuol dire per la particella dover passare da uno stato d’energia, E1, ad un altro, E2. La particella dovrà, quindi, scambiare il corrispondente quantum di energia che è pari alla differenza tra le due quote permesse:

∆E = E 2 – E 1= hν2−hν1 Le particelle elementari stabili che costituiscono l’atomo sono dunque: Elettroni (e-), particelle di carica elettrica negativa e massa circa duemila volte più piccola della massa unitaria di riferimento, che viene detta: unità di massa atomica = uma; e = 1/1870 uma; ossia 1830 e = 1 uma. Si producono, assieme ai protoni, nel processo di decadimento neutronico Protoni (p+), particelle di carica elettrica positiva e massa unitaria. L’unità di massa (atomica) è un uma.. I protoni sono particelle stabili. Neutroni (n), particelle di massa unitaria ma prive di carica elettrica. Sono stabili se interagiscono ciascuno con un a coppia, o doppietto, è formata da un protone ed un neutrone prende il nome di nucleone. I nucleoni sono stabili e fortemente coesi per effetto della cosiddetta forza di →interazione forte.

1.7. Gli stati quantici 24 24


Chimica generale

note

Il postulato fondamentale della meccanica quantistica è che ciascuna particella può scambiare (cedere o assumere) energia soltanto per valori discreti che vengono detti quanta (quantum al singolare). Gli stati di energia permessi ad una qualsiasi particella elementare sono quelli caratterizzati da valori, detti livelli, rappresentati dai relativi numeri quantici. Il numero quantico principale, n. descrive lo stato energetico per essere completamente definito richiede che siano assegnati altri tre valori quantici: la determinazione dello stato energetico richiede quindi una quaterna di numeri. Ciascuno dei nucleoni risulta caratterizzato univocamente da una quaterna di numeri quantici n, l, j, m, così definiti: n, numero quantico principale e definisce l’energia della particella; n può assumere tutti i valori interi da 1 a infinito n=1,2,3,4,5…... l, numero quantico azimutale e definisce la forma dell’orbita; l può assumere tutti gli (n-1), (n-3), (n5)…. valori fino a 1, o zero. Ad es. per n=1 si ha un solo valore di l (l =0), per n=2 →l= 1, se n=3→l= 2, 0 j, numero quantico di spin, ci dice se il moto della particella nell’orbita procede nella stessa direzione o in direzione opposta al suo spin; j può assumere i l+1/2 ed l-1/2 valori positivi. Nell’esempio sopra riportato il nucleone che risiede sul terzo livello n=3 avrà due diversi numeri di spin: se l=0 →J= (1/2) se l=2→ J=(1/2) e J=(3/2). m, numero quantico magnetico, ci dice qual è l’orientazione dell’orbita nello spazio rispetto ad una direzione data; m può assumere i valori che vanno da j, (j-1), (j-2), …0….. fino a –j. Nell’esempio sopra riportato i cinque valori che m assume per J=(3/2) sono ( 3/2), (1/2), 0, - (1/2), - (3/2). Assegnare una quaterna di valori quantici ad un nucleone, vuol dire definirne completamente lo stato energetico. Per le particelle elementari vale sempre il principio di esclusione detto anche principio di Pauli. Tale principio esclude che possano coesistere nello stesso sistema atomico due particelle caratterizzate dalla stessa quaterna quantica. Utilizzando tutti i valori permessi dai numeri quantici è possibile fare un elenco completo delle orbite permesse per ciascun nucleone. Per n=1 si ha un solo valore di l (l=0), un solo valore di j (j=0) e due valori di m (1/2 e -1/2). Al primo livello di energia troviamo quindi due nucleoni ciascuno caratterizzato da una propria quaterna quantica (1, 0, 0, +1/2) e (1, 0, 0, -1/2). I nucleoni che differiscono solo per il numero quantico di spin si dice che formano un doppietto. Ogni nucleone del doppietto è vincolato rispetto all’altro dalla forza di legame nucleare. Le grandezze caratteristiche delle particelle sono la loro massa, la carica elettrica, il momento magnetico angolare intrinseco (spin) , il momento magnetico e la parità, per come specificati appresso: 1) La massa che dipende dalla velocità assunta dalla particella stessa, in base alla formula relativistica: m = m0c2/√ 1-v2/c2 2) la carica elettrica, che può essere negativa, positiva o nulla –1,0,+1 3) lo spin o momento angolare intrinseco; è la grandezza che esprime il momento di rotazione della particella sul suo asse. Si misura in unità h/2π dove h è la costante di Planck, e rappresenta le possibili orientazioni che la particella può assumere rispetto ad una data direzione (se s è il numero quantico di spin il numero di tali orientazioni è 2s+1).

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note

P+ n + e+ ν Il positone, e+, si forma anche da processo di decadimento protonico per cui un protone decade in un neutrone emettendo un positone ed un neutrino. I decadimenti sono tipici processi di trasformazione con conservazione di carica: un neutrone di carica elettrica zero decade in un elettrone (carica -1) e in un protone (carica +1) oltre a un neutrino (carica zero); la carica totale dei prodotti del decadimento neutronico è quindi zero. Nel decadimento protonico invece si conserva la carica elettrica +1: un protone (carica +1) decade in un positrone (carica +1) e un neutrone e un neutrino entrambi con carica zero.

Decadimento neutronico beta—: N → P + e,- + antiν Decadimento protonico beta+: P + → N + e+ + ν Cattura elettronica(C.O.): P+ + e- = Ν Annichilazione: e— + e+ ↔ 2 γ , 26 26

Chimica generale 4) Il momento magnetico che può essere negativo positivo o nullo (si misura in multipli del magnetone di Bhor,µβ, dato dalla relazione µβ =εη/4πm dove e è la carica dell’elettrone ed m la sua massa). 5) La parità ossia la grandezza che esprime il comportamento della funzione d’onda associata alla particella (vedi 2.2) rispetto all’inversione delle coordinate spaziali. La parità di una particella di momento angolare orbitale l (ovvero con numero quantico azimutale l) risulta essere (-1)l , cioè può essere positiva o negativa a secondo che nell’inversione il segno cambi o no. In generale una funzione d’onda associata ad una particella può essere rispetto all’origine simmetrica (pari) o antisimmetrica (dispari). Il concetto di parità è proprio della meccanica quantistica. La conservazione della parità richiede che se due particelle che interagiscono la cui somma dei valori di l è pari prima deve essere pari anche dopo l’interazione. Ad esempio due nucleoni con l=4 che interagiscono possono finire uno in un orbita con l=1 e l’altro in l =3 essendo sempre un numero pari la somma prima dell’urto (l=4+4=8) e dopo l’urto (l=3+1=4) . Per tutte i tipi di interazioni la parità, si conserva nel tempo; solo nel caso delle interazioni deboli (responsabili dei processi di decadimento e delle disintegrazioni), la parità non viene conservata.

1.8. Isotopi ed isobari Un neutrone è stabile solo se è coniugato con un protone, se invece è isolato, al contrario, esso sarà instabile e costretto entro alcuni minuti a decadere in un protone,un elettrone ed un antineutrino: in pratica, un atomo di idrogeno. Più in generale, nel processo di decadimento neutronico, detto anche decadimento β − viene rilasciata una coppia formata di un elettrone nucleare ed un antineutrino; nel decadimento protonico, detto anche decadimento β+, vengono emesse le rispettive antiparticelle cioè un positrone (antielettrone) ed un neutrino decadimento beta più, β+ :

n → p+ + e– + antiν. p+ → n +e++ν Quest’evento è accompagnato da liberazione di una quota discreta (quantum ) di energia pari a 0,786 MeV. Nel nucleo atomico i diversi nucleoni saranno disposti secondo i diversi livelli di energia. Al primo e più basso livello caratterizzato dal numero quantico principale n=1, possiamo trovare o un neutrone isolato instabile ovvero un protone isolato stabile; nel primo caso si tratta di un atomo di idrogeno allo stato primordiale, nel secondo di un vero e proprio nucleo dell’atomo di idrogeno, chiamato anche prozio, simbolo chimico H, è il più semplice di tutti gli atomi . Nello stesso livello n=1 possiamo trovare un doppietto nucleonico formato dalla coppia stabile protoneneutrone (a tale coppia si da il nome di deutone) con un solo elettrone perinucleare. Si forma così il deuterio, D. Col deutone si completa il livello n=1. Tra i due nucleoni si esercita una intensa forza di reciproca attrazione, che tuttavia diventa repulsiva se essi distano meno di 0,4x10-13 cm; si dice anche che essi formano uno stato di


Chimica generale doppietto. Se il nucleo è formato da tre nucleoni, una coppia di essi starà nel livello n=1 mentre il terzo rimane isolato nel livello superiore n=2; se esso è un protone (stabile) si conformerà il nucleo dell’isotopo di elio He stabile (A=3, Z=2), se invece il il livello n=2 e occupato da un neutrone esso rimarrà allo stato isolato e costretto a decadere in breve tempo. Il nucleo così formato prende il nome di trizio, T, radioattivo. Quando entrambi i livelli n=1 ed n=2, sono occupati dai rispettivi doppietti deuteronici il nucleo viene detto a strati chiusi: tale è il caso del nucleo di He4, eccezionalmente stabile. e il nucleone ulteriore eventuale dovrà collocarsi sul livello n=3. Nel decadimento di un singolo neutrone si forma il più semplice di tutti gli atomi, qual’è l’atomo di idrogeno, nel cui nucleo risiede il protone formatosi e che, grazie alla propria carica elettrica positiva, mantiene in orbita il proprio elettrone. Il decadimento di un neutrone da un doppietto di neutroni produce un nucleone, anch’esso stabile, che prende il nome di deuterone (D): nn* → np+ + e— .Con tale tipo di decadimento si forma un atomo isotopo dell’idrogeno il cui nucleo è costituito dal deuterone, D+, e sempre da un solo elettrone orbitalico. Il simbolo del deuterio è pertanto 2H. Il numero dei protoni nucleari distingue chimicamente un atomo dall’ altro. A tale numero, si dà il nome di numero atomico, e viene indicato con la lettera Z. Il numero che esprime la somma complessiva dei protoni e neutroni prende il nome di numero di massa, e si indica con A. Atomi che hanno lo stesso numero atomico e differiscono per il numero di massa prendono il nome di isotopi. Atomi che hanno lo stesso numero di massa ma numero atomico diverso, prendono il nome di isobari. Un ipotetico nucleo formato da da una popolazione di n neutroni (con n ≤20 ) tutti allo stato di singoletto, la metà di essi sono dstinati a decadere in un isotopo che ha numero di massa pari a n e numero atomico pari a n/2. Protoni e neutroni che si trovano associati a formare i nuclei degli atomi si ritiene che siano essenzialmente la stessa particella in quanto indistinguibili se non per la carica elettrica ma le forze che si esercitano tra di loro i (vedi interazioni forti, 2.2) sono sempre della stessa intensità si tratti di coppie protone-protone, o protone neutrone che neutrone-neutrone. Queste coppie rappresentano lo stesso stato nucleare, la stessa particella, che si presenta in due stati con carica diversa (Z= 0, 1) e alla quale viene dato il nome di nucleone (vedi il modello a quark). La struttura atomica è rappresentata essenzialmente da tre tipi principali di particelle: neutroni, protoni ed elettroni. Queste particelle sono qualitativamente identiche per tutte le specie di atomi: è solo il numero e la differente combinazione di esse a determinare le differenti proprietà fisico-chimiche che distinguono le diverse specie chimiche. Gli atomi hanno un nucleo attorno al quale ruotano gli elettroni. Il nucleo, è la porzione in cui è concentrata tutta la sua massa (oltre il 99% della massa totale), esso non viene coinvolto in alcuna delle trasformazioni chimiche. l'atomo appare circondato da una zona decisamente meno densa, la nube elettronica. Sono gli elettroni che determinano i cambiamenti che caratterizzano le reazioni chimiche. Il numero di protoni costituisce l’identità chimica di ciascun atomo (numero atomico=Z); dato che ogni elemento è formato da atomi uguali, il numero atomico è caratteristico di ciascun elemento. I neutroni contribuiscono a dare stabilità al nucleo, anche in presenza di forze di repulsione tra i protoni

note

Le proprietà chimiche degli atomi isotopi dello stesso elemento sono assolutamente identiche dato che esse dipendono dal numero atomico.Per distinguere gli isotopi si scrive davanti al simbolo chimico il numero di massa in alto e il numero di atomico in basso

Num.di massa Num. atomico

A

Z

X

Simbolo elemento

il numero atomico spesso si omette perché surrogato dallo stesso simbolo chimico.

27


Chimica generale tutti positivi. La presenza dei neutroni nel nucleo contribuisce a determinare la massa dell’atomo. Esistono atomi dello stesso elemento che hanno però massa diversa: due atomi dello stesso elemento hanno lo stesso numero Z ma se la loro massa è diversa significa che è diverso il numero di neutroni. Il numero che si ottiene sommando i protoni e i neutroni di un atomo viene definito numero di massa a indicato con la lettera A Ne consegue direttamente che:A – Z = numero di neutroni. Assegnando valore unitario al protone e al neutrone si ottiene facilmente il peso atomico per ciascun isotopo che viene così espresso in unità di massa atomica (uma). . I nuclei meno stabili sono quelli che contengono un numero dispari di neutroni e di protoni; tutti i nuclei di questo tipo, tranne quelli di quattro elementi, sono radioattivi. In genere, un numero di neutroni molto superiore a quello dei protoni rende il nucleo instabile; i nuclei di tutti gli isotopi degli elementi oltre il bismuto posseggono questa caratteristica, e infatti sono tutti radioattivi. La maggior parte dei nuclei stabili contiene un numero pari di protoni e di neutroni.

1.9. La risonanza magnetica nucleare (NMR) Ogni nucleo possiede un momento angolare totale che è la somma vettoriale dei singoli momenti angolare dei protoni e neutroni che lo costituiscono. Secondo le regole della meccanica quantistica le componenti del momento angolare in una data direzione possono assumere tutti i valori compresi tra +J e –J cioè in totale i 2J+1valori. Poichè i protoni sono dotati di carica elettrica, la loro rotazione provoca anche la nascita di un dipolo di momento magnetico µ, che risulta collegato allo spin dalla relazione µ= γ p dove γ (rapporto giromagnetico) è una quantità positiva o negativa a seconda che p e µ siano paralleli o antiparalleli. (Se lo spin del nucleo è zero si ha µ=0). Se un dipolo di momento magnetico µ viene immerso in un campo magnetico esterno i 2J+1 valori dello spin si separano in livelli energetici discreti che opportunamente registrati forniscono lo spettro di risonanza magnetica, o NMR (nuclear magnetic resonance). La risonanza magnetica viene oggi usata anche come tecnica tomografica per la realizzazione di immagini molto utili nel settore della diagnosi medica. La NMR, a differenza dell’indagine detta di tomografia assiale computerizzata (TAC), non impiega radiazioni ionizzanti quali i raggi X ma solo radiofrequenze; si tratta dunque di una tecnica non invasiva priva di rischi sia per il paziente che per gli operatori.

note

Un nucleone che si trova a livelli energetici superiori decade al livello più basso consentitocce rappresenta il suo stato fondamentale, cedendo la differenza sotto forma di quantum di energia elettromagnetica, hν cioè sotto forma di fotone, ad altissima frequenza che prende il nome di raggio gamma, γ.

1.10. Tipi di decadimento nucleare La forza di legame tra i nucleoni può risultare insufficiente a garantire la stabilità di alcuni nuclei i quali, per raggiungere un livello di maggiore stabilità, sono costretti ad emettere alcune particelle. Tale processo è stato chiamato decadimento nucleare o più semplicemente radioattività, che può essere naturale, quando la si osserva per sostanze che si trovano in natura sulla crosta terrestre o nell’atmosfera. La radioattività si dice invece artificiale quando essa è stata indotta dall’intervento dell’uomo. Il decadimento radioattivo consiste nella transizione di uno stato ad alta energia verso un altro di energia

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note

Chimica generale

NEUTRONE(0)

Wantiν (↓) elettrone (-

PROTONE(+1)

Cattura elettronica e conversione di un protone in neutrone

NEUTRONE(0)

positrone(+1)

ν (↑)

W+ PROTONE(+1)

Decadimento protonico con rilascio di un positrone e un neutrino

PROTONE

(+1)

minore. Nel decadimento detto beta il nucleo varia il suo numero atomico o per emissione di un elettrone o per emissione di un positrone. In entrambi i casi il suo stato nucleare varierà da n a n± 1: Il decadimento beta— formerà l’isobaro n+1, il decadimento beta+ formerà invece l’sobaro n-1. Se il numero di massa è tale da mantenere uno stato di equilibrio, principalmente tra le forze colombiane e le forze dell’interazione nucleare, allora il nucleo risulterà stabile. Il generale possiamo dire che se il numero di protoni è in eccesso rispetto a questo stato di equilibrio allora esso decadrà in un positrone ed un neutrino. I positroni emessi vanno incontro al processo di annichilazione . Le masse delle due particelle scompaiono e trasformata in due fotoni gamma emessi in direzioni contrapposte. Oltre al decadimento protonico (β+) si conosce un processo di decadimento neutronico(β−), il processo responsabile della formazione di materia atomica. Occorre naturalmente che ciascun elettrone sia “catturato” dal proprio protone, ristabilendo in tal modo la stessa neutralità di carica che il neutrone possedeva prima di decadere. Un terzo tipo di decadimento è quello che comporta la cattura, da parte di un protone, di un elettrone perinucleare dello strato K o L, con conseguente sua conversione in neutrone. Questo processo è equivalente al decadimento protonico ed è spesso in competizione con questo; ad esempio il nuclide Pm141 decade per il 57% per emissione postonica e per 43% per cattura elettronica. La cattura di un elettrone converte un protone in un neutrone (vedi diagrammi di Feynman a lato). Come si può facilmente costatare, tutti e tre tipi di decadimento si realizzano con conservazione della carica e della massa. I decadimenti beta rientrano nell’ambito dei processi di interazione debole. La velocità di disintegrazione, definita come periodo di semitrasformazione o tempo di dimezzamento, è una variabile specifica e costante per ogni specie isotopica. Il tempo di dimezzamento (t½) è il tempo richiesto perché si disintegri la metà dei nuclei contenuti nel campione radioattivo. Oltre il decadimento per emissione beta esistono le radiazioni conosciute come radiazioni α e γ. Le radiazioni α e β consistono in vere e proprie particelle (elioni, elettroni o antielettroni rispettivamente) mentre le radiazioni gamma consistono in fotoni ad alta energia. Il decadimento alfa interessa solo isotopi che hanno elevato numero atomico (i così detti nuclei pesanti).

antiν(↓) elettrone(-1)

1.11. La formazione della materia atomica WNEUTRONE(0)

Decadimento neutronico con rilascio di un elettrone e un antineutrino

Abbiamo visto come il decadimento nucleare neutronico converta un neutrone in un protone per contemporanea emissione di un elettrone (particella beta) e un antineutrino. Se consideriamo un singolo neutrone isolato, esso per effetto di una interazione debole in breve tempo, decade dando origine ad un atomo di idrogeno H: n* →p+ + β− = 1H1. 1H1

= Idrogeno o prozio, numero atomico 1, numero di massa 1, simbolo H. Con questo decadimento la materia “neutronica” si trasforma in materia atomica, nel nucleo dei quali si 29 29


Chimica generale trovano i protoni ed altrettanti elettroni richiesti per la formazione degli orbitali. Occorre naturalmente che ciascun elettrone sia “catturato” dal proprio sistema nucleare che lo ha generato, formando in tal modo un atomo elettricamente neutro. Questa riappropriazione dell’elettrone emesso avviene per successivi riavvicinamenti, durante i quali esso realizza traiettorie sempre più prossime al nucleo, e quindi di energia più bassa; ciascuno dei livelli energetici occupati dall’elettrone prende il nome di orbitale. Il decadimento di un neutrone a partire da due neutroni genera un atomo di deuterio (numero atomico 1, numero di massa 2, simbolo D); La coppia protone-neutrone che si viene a formare prende così il nome di deuterone. Il processo è così schematizzato: 2n = nn*(instabile) → (np+) + β− → D1 (stabile) Il decadimento di un solo neutrone a partire da tre neutroni genera un atomo di trizio (numero atomico 1, numero di massa 3, simbolo T) che a sua volta decade ulteriormente (con una semivita 12,5 anni) dando origine a formazione di un atomo di elio (numero atomico 2 numero isotopico di massa 3, simbolo He): 3n = (Dn*) + β− = 3 T (radioattivo per decadimento neutronico) → β− + 3He A partire da due coppie di neutroni si ha formazione di una coppia di deuteroni particolarmente stabile cui si dà, il nome di particelle alfa (elioni): 4n = (nn* nn*) → 2D + 2β− = 4He Con analoghi decadimenti si ha formazione del Litio 5, e così oltre sino a ottenere tutti i diversi isotopi stabili che troviamo sul nostro pianeta. In conclusione: col decadimento neutronico la materia neutronica si trasforma in materia barionica; pertanto se n neutroni legati tra loro con forza nucleare forte decadono, si ha formazione di un atomo che ha n protoni nucleari, ed n elettroni perinucleari, oltre ad n antineutrini. I neutroni che non decadono contribuiscono a mantenere la stabilità del nucleo in quanto servono a smorzare le forze elettrostatiche di repilsiome che si esercitano tra protoni positivamente carichi.

note

Il più semplice nucleo è quello formato da un singolo protone, H, o da un singolo deuterone, cioè da un doppietto nucleonico protone-neutrone, D. Il deuterone completa il primo livello di energia. Per un nucleo invece formato da tre nucleoni essendo il primo livello occupato dal doppietto il terzo nucleone si colloca al secondo livello. Se esso è un protone. si ha formazione di un elione a massa 3 stabile; se invece si colloca un neutrone esso risulta isolato ed è quindi destinato a decadere nell'isobaro elione stabile. Si è formato cioè il trizione. Una popolazione di n atomi di trizio risulta in un tempo di appena 11 secondi praticamente dimezzata (si dice meglio che la loro semivita è di 11 sec). Il secondo livello si completa con una coppia protone neutrone e sia il più stabile elione a massa 4 il nucleo più stabile perché completa o ,come si dice in gergo quantistico, chiude il secondo strato: con l’elione si ha infatti il primo nucleo a strati chiusi che è particolarmente stabile (particella α).

1.12. Numero atomico e numero di massa Il nucleo è la parte dell’atomo ov’è concentrata tutta la carica elettrica positiva e, praticamente, tutta la massa. Gli atomi differiscono tra di loro per il numero di nucleoni. Le proprietà chimiche e fisiche degli atomi dipendono dal loro numero: se differiscono per il numero dei protoni essi appartengono a specie chimiche diverse, sono invece uguali chimicamente se posseggono lo stesso numero di protoni anche se differiscono per il numero di neutroni. In tutti gli atomi alla somma dei protoni nucleari corrispondono altrettanti elettroni pernucleari, ciò permette una perfetta neutralizzazione delle cariche, di conseguenza l'atomo non ha carica elettrica. Al numero dei protoni nucleari si dà il nome di numero atomico, e viene indicato con la lettera Z. La massa di un nucleo

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note Il principio di Heisenberg è espresso matematicamente dalla relazione:

∆x=errore nella misura d ella posizione; ∆mv= errore nella misura della quantità di moto; h = costante di Planck= =6,626176×10-34 Js

Chimica generale risulta pari alla somma dei protoni, Z, e dei neutroni, N, che vi risiedono. Il numero che esprime tale somma viene detto numero di massa, A (A=Z+N). Tutti i nuclei con uguale Z, seppure con valori diversi di A, appartengono allo stesso elemento chimico, e vengono detti isotopi; tutti i nuclei che hanno lo stesso valore di A, seppure con diversi valori di Z, prendono invece il nome di isobari. Nuclei che hanno lo stesso numero di neutroni e diverso numero atomico prendono il nome di isotoni. Ciascun elemento è in realtà formato da una mescolanza di isotopi, così è, ad esempio, per l’idrogeno, il più piccolo elemento che si conosca, formato da un solo protone ed un solo elettrone perinucleare. La sostanza comunemente chiamata idrogeno è costituita in realtà da una miscela di prozio e deuterio naturalmente presenti nella proporzione di circa 1: 6000. Le molecole di H2, HD e D2 contenute nell’idrogeno molecolare ordinario possono essere separate sulla base del loro peso molecolare differente in quanto queste molecole sono formate da atomi che hanno massa diversa.

1.13. L’ indeterminazione di Heisemberg La conoscenza di un fenomeno fisico si realizza mediante l’osservazione e lo studio delle grandezze che vi sono implicate. La misura trasforma ogni grandezza in un numero razionale esprimente il rapporto tra il valore della grandezza osservata e il valore di una grandezza campione, convenzionalmente assunta come unità di misura. Le grandezze possono quindi essere trattate tanto teoricamente, usando i numeri, quanto sperimentalmente, eseguendo le misure. Il metodo sperimentale consiste nel verificare la fondatezza dei principi teorici postulati matematicamente mediante confronto con i valori forniti dalle misure sperimentali. Il limite intrinseco a ciascuna misura è dunque il grado di accuratezza della strumentazione impiegata e ciascuna misurazione ha sempre implicito certo grado di incertezza o di approssimazione che dipende dal tipo di strumentazione adottata. Tali incertezze sono sistematiche e determinabili a priori (teoria degli errori). Se intendiamo misurare la massa di in una particella elementare risulta impossibile disporre di alcuna strumentazione in grado di misurare contemporaneamente il valore esatto della sua posizione e della velocità: la misura esatta della posizione genera incertezza nella misura della velocità e viceversa. Tale impossibilità è alla base di quella che viene enunciata come Principio di indeterminazione di Heisemberg e costituisce il principio basilare della meccanica quantistica. Tale principio valido per tutte le particelle elementari afferma che: tanto più e precisa la misura della posizione quanto più è approssimato il valore della quantità di moto e viceversa. Le due grandezze sono tra di loro inversamente proporzionali il che implica che il loro prodotto risulta costante e l’accuratezza non può essere spinta oltre questo valore dato da h (costante di plank):

∆x x m∆v ≥ h (1.12) la costante h viene detta costante di Planck e vale 6,6256 10-34 x s. Dalla (1.12) risulta evidente che misurando la posizione con l’incertezza ∆x, la sua velocità non potrà essere misurata simultaneamente con un’incertezza 31 31


Chimica generale

note

minore di h/∆x. Il principio di Heisemberg indica chiaramente l’impossibilità di descrivere con precisione le traiettorie delle particelle elementari che si muovono con una data quantità di moto. Questa difficoltà è rimossa dalla meccanica quantistica che descrive lo stato di ciascuna particella considerandone solamente i valori di energia (discreta) da assegnare a quest’ultima. Data l’estrema piccolezza di h, il principio di indeterminazione non influisce in pratica sulle misure di grandezze macroscopiche, ma interessa esclusivamente i fenomeni che si svolgono nel dominio atomico e nucleare.

1.14. Radionuclidi I radionuclidi sono isotopi instabili che decadono per emissione di particelle fino a trasformarsi in isotopi stabili. Esistono radionuclidi naturali quali l’uranio, il torio il radio e radionuclidi preparati artificialmente mediante bombardamento con particelle ad alta energia (p.e. neutroni, deutoni, elioni) o per irraggiamento con neutroni prodotti dai reattori nucleari o per fissione nucleare o per fissione (frazionamento) del nucleo atomico di un elemento pesante in due o più parti. Nei primi anni Trenta, gli esperimenti compiuti dai fisici francesi Irène e Frédéric Joliot-Curie mostrarono che i nuclei di elementi stabili potevano essere resi radioattivi in modo artificiale, bombardando gli atomi con particelle nucleari accelerate, oppure con radiazioni di frequenza opportuna. Questo procedimento determina la formazione di isotopi radioattivi, detti anche radioisotopi, che sono il prodotto di complesse reazioni nucleari. Lo sviluppo di potenti acceleratori di particelle, che permette di accelerare i proiettili nucleari a energie molto elevate, ha reso possibile l'osservazione di migliaia di reazioni nucleari e lo studio del comportamento di isotopi radioattivi di diversa natura. Nel 1932 i due scienziati britannici John Cockcroft ed Ernest Walton furono i primi a impiegare particelle accelerate artificialmente per disintegrare nuclei atomici. Nel corso di un celebre esperimento, essi bombardarono un bersaglio di litio con un fascio di protoni accelerato da un moltiplicatore di tensione. I nuclei di litio 7 si spezzarono in due frammenti, ciascuno dei quali era un nucleo di elio 4. La reazione nucleare che ha luogo in questo processo può essere espressa per mezzo dell'equazione: 7 Li+ 1 H =2 4 He; Il litio 7, l'idrogeno fondamentale e l'elio 4 hanno rispettivamente massa 7,018242 uma, 1,008137 uma e 4,003910 uma. La somma delle masse dei reagenti è uguale a 8.026379 uma, mentre quella dei prodotti vale 8,007820 uma: la reazione comporta quindi una perdita di massa pari a 0,018559 uma. Ricorrendo all’'equazione di Albert Einstein che esprime l'equivalenza tra massa ed energia, si conclude che 1 uma equivale a 931,3 MeV, e che la reazione nucleare indicata è accompagnata dal rilascio di 17,28 MeV. La quantità di massa persa si trasforma in energia cinetica dei nuclei di elio.

32


note

Chimica generale

1.15. Leggi di decadimento Il decadimento di un determinato nucleo è sempre un fatto casuale e non prevedibile. Il suo comportamento può quindi essere espresso solo in termini di probabilità e le leggi che lo esprimono sono quindi leggi statistiche cioè riferite non al singolo evento bensì ad una moltitudine di eventi relativi ad una popolazione, cioè ad un numero sufficientemente grande, di isotopi radioattivi. Si definisce allora attività radioattiva, o più semplicemente attività, il numero totale di disintegrazioni per unità di tempo; l’unità di misura dell’attività e il Becquerel (Bq) cioè numero di disintegrazioni al secondo

Bq= disintegrazioni/s = N0 ⋅ λ

dove N0 è il numero iniziale di isotopi radiattivi della specie N, e λ è la probabilità che un singolo isotopo decada nell’unità di tempo. La legge di decadimento di una popolazione di N0 isotopi radioattivi è di tipo esponenziale:

Nt=. N0 e-λt

La legge di decadimento di N0 isotopi radioattivi è di tipo esponenziale. In figura sono indicati i tempi di dimezzamento T1/2, cioè il tempo richiesto affinché una popolazione di N0 isotopi si sia ridotta

Questa relazione che esprime la legge di decadimento mostra che partendo da N0 isotopi il numero di Nt atomi presenti all’istante t (non ancora disintegrati) decresce esponenzialmente nel tempo (e = 2,718 corrisponde alla base dei logaritmi naturali; viene anche detto numero di Nepero). L’inverso della costante di decadimento λ, corrisponde alla cosiddetta vita media t:

t = 1/λ

Il periodo di dimezzamento t1/2 è invece il tempo necessario affinché il numero di isotopi radioattivi si riduca della metà: t1/2 = 1/2 N0 . La relazione tra vita media e tempo di dimezzamento è:

t = 1,44 t1/2

Solitamente viene fornito il valore di t1/2 in quanto quest’ultimo risulta essere un parametro intuitivamente più semplice.

1.16. I radionuclidi quali traccianti biologici I radionuclidi trovano numerose e importanti applicazioni, sia industriali, che nel campo della ricerca scientifica. L'applicazione più importante è il loro impiego come traccianti: mescolando a un elemento una piccola quantità di un suo isotopo radioattivo, dalla misura della radiazione è possibile seguire tutte le vicende dell'elemento attraverso una serie qualsiasi di trasformazioni. In chimica vengono impiegati nello studio delle reazioni di scambio. Come traccianti vengono impiegati in studi di genetica, del metabolismo, della divisione cellulare; in medicina trovano impiego sia per usi diagnostici che terapeutici, soprattutto nelle forme tumorali. I radionuclidi vengono inoltre impiegati come sorgenti ionizzanti o energetiche (p.e. nelle batterie nucleari), nella radiografia industriale e per le misure di spessore (in base alle informazioni fornite sulla natura e le caratteristiche dei materiali dall'assorbimento e dalla diffusione delle radiazioni), nello studio delle età dei minerali 33 33


Chimica generale e nella datazione dei fossili e dei resti archeologici (basato sul tempo di decadimento dei radionuclidi) etc. I radioisotopi naturali sono piuttosto rari (proprio in virtù della loro instabilità), ma per mezzo dei reattori nucleari si possono produrre in grandi quantità atomi radioattivi, bombardando altri atomi con particelle altamente energetiche. È ugualmente possibile ottenere elementi comunemente presenti nel mondo biologico sotto forma di specie marcate con radioisotopi. La reazione emessa è rivelatile in varie maniere. Gli elettroni si possono rivelare con il contatore di Geiger, grazie alla ionizzazione che inducono in un gas, oppure con uno scintillatore in fase liquida, per le emissioni luminose causano da parte di opportuni fluidi. I metodi suddetti consentono di dosare quantitativamente un particolare isotopo presente in un campione biologico. È possibile pure localizzare l'isotopo sfruttandone l'azione sui granuli d'argento di una emulsione fotografica, che verrà poi sviluppata mettendo in evidenza le macchie (autoradiografia). I metodi di rivelazione descritti assicurano sensibilità elevatissime, tanto che, è possibile rivelare praticamente uno per uno gli eventi di disintegrazione e, quindi, ogni singolo atomo che subisce il decadimento radioattivo. Uno dei primi impieghi della radioattività in biologia consistette nel determinare il percorso chimico del carbonio durante la fotosintesi. Si immersero alghe verdi unicellulari in un'atmosfera contenente CO2, marcata (14CO z) e, dopo averle esposte alla luce solare, se ne separarono mediante cromatografia su carta i contenuti solubili a intervalli di tempo regolari. Disponendo una lastra fotografica sul cromatogramma essiccato si rivelarono piccole molecole che avevano incorporato il 14C proveniente dalla CO2. Il metodo permise di identificare la maggior parte dei componenti principali dell'iter fotosintetico che ha inizio con la CO2, e si conclude con la sintesi dello zucchero. Le molecole radioattive possono servire a seguire il corso di quasi qualunque processo cellulare. Un'esperienza tipica consiste nell'aggiungere alle cellule un precursore radioattivo, in modo che le molecole marcate si mescolino con quelle marcate già esistenti; differendo solamente per la massa nucleare le due e vengono trattate dalla cellula nella medesima maniera, e si possono seguire i mutamenti di ubicazione o di forma chimica delle molecole radioattive in one del tempo. Si può sovente esaltare la risoluzione di esperimenti come questi ricorrendo alla tecnica di marcatura intermittente («pulse and chase»), nella quale il materiale radioattivo si aggiunge solo per un brevissimo periodo (pulse), eliminandolo poi per lavaggio e sostituendolo con materiale non radioattivo (chase). A differenti intervalli si prelevano campioni, identificando volta per volta la forma chimica o l'ubicazione della radioattività. Metodi del genere facilitano lo studio perfino di molecole stabili e inerti come le proteine della cartilagine e dell'osso. I traccianti radioattivi, infatti, hanno dimostrato che quasi tutte le molecole di una cellula vivente subiscono continuamente la demolizione e la sostituzione. (turnover) Processi così lenti di ricambio sarebbero praticamente impossibili da scoprire se non ci fossero gli isotopi radioattivi. Al giorno d'oggi è virtualmente possibile marcare con isotopi radioattivi qualunque molecola biologica. Uno degli impieghi importanti della radioattività in biologia cellulare è la localizzazione dei composti radioattivi in sezioni di cellule intere o di tessuti, cosa che si effettua per mezzo dell'autoradiografia. In questa procedura si espongono brevissimamente le cellule a un determinato composto radioattivo e poi si mettono a

note Amedeo Avogadro (1776-1856) studiò le leggi di combinazione dei gas introducendo la fondamentale distinzione fra atomo e molecola. La sua legge, valida per i gas perfetti, afferma che volumi uguali di gas nelle stesse condizioni di pressione e temperatura contengono un ugual numero di molecole

una mole è una quantità di sostanza contenente un numero di Avogadro di molecole.

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note Il Litio ha peso atomico pari a 6,9258;Tale valore è il risultato della media ponderale delle due percentuali isotopiche: 6Li= 6x 0,0742+ 7Li=7 x 0,9258.

Chimica generale incubare per periodi variabili di tempo prima di fissarle o di trattarle per la microscopia ottica o elettronica. A questo punto si ricopre il preparato con pellicola fotografica sottile e lo si conserva al buio per parecchi giorni, durante i quali il materiale radioattivo decade. Alla fine si effettua lo sviluppo dell'emulsione, determinando così la posizione della radioattività nella cellula in base a quella dei granuli neri dell'argento. Incubando, per esempio, le cellule con un precursore radioattivo del DNA ([3H-timidina), si constata che il DNA viene fabbricato nel nucleo e vi permane. A1 contrario, marcando le cellule con un precursore radioattivo dell'RNA ([3H-]uridina) si osserva che l'RNA inizialmente fabbricato nel nucleo si accumula poi rapidamente nel citoplasma. Isotopi di alcuni elementi in grado di emettere positroni, come il C11 , O15, N13 e F18, sono utilizzati come traccianti radioattivi in quanto, se inseriti in particolari molecole capaci di localizzarsi in determinati tessuti, renderanno tali tessuti γ−emittenti. Questa metodica consente una realizzazione radiografica e prende il nome di PET. Il metodo PET ha consentito, ad esempio, di evidenziare un maggiore consumo di glucosio-C11 nelle regioni sensoriali del cervello. Si poteva osservare così che in alcuni pazienti, dopo stimolazione visiva di un occhio, un incremento nell’utilizzo di glucosio nella regione sensoriale controlaterale del cervello. Gli elementi che emettono positroni hanno un tempo di dimezzamento molto breve che varia da 2 min a 2 ore, il che consente dosi massive di somministrazione causando nei pazienti tempi di esposizione alle radiazioni relativamente piccoli. Così uno stesso paziente può essere sottoposto a ripetute indagini.

1.17. Il peso atomico Gli elementi presenti in natura esistono come miscele isotopiche a diversa percentuale. Ad esempio il litio è presente come isotopo a massa 7 per il 92,58% e solo per il restante 7,42%, come isotopo a massa 6. La loro media ponderale definisce il peso atomico dell’elemento Litio che è 6,9258 unità di massa. Le masse atomiche sono misurate in base alla scala dei pesi atomici. Questa scala ha come unità l’unità di misura atomica (uma). Essa è definita come la massa corrispondente ad un dodicesimo della massa dell’atomo di carbonio 12 ossia 1,66 x 10 –24 g.

1.18. La mole ed il Peso molare Un concetto strettamente correlato al peso relativo e fondamentale in chimica per i calcoli quantitativi è quello di mole. La mole è una delle 7 grandezze fondamentali, definite nel Sistema Internazionale (SI) di unità di misura come quantità di sostanza: simbolo mol. La mole è una quantità di una sostanza chimica numericamente uguale al suo peso polecolare, espresso in grammi anziché in uma. Uno dei problemi pratici che più spesso si pongono nei calcoli chimici quantitativi è trasformare un deter35 35


Chimica generale

note

minata quantità di sostanza espressa in grammi nel corrispondente numero di moli (n) o viceversa. Per far ciò è ovviamente necessario conoscere il peso di una mole o Peso molare. Il Peso molare PM (più correttamente Massa Molare) è il peso (massa) di 1 mole e si misura in g mol-1 (più correttamente in kg mol-1). Il Peso molare di una sostanza rappresenta quindi un fattore di conversione che permette di trasformare una quantità di sostanza espressa mediante il suo peso (Weight), nell’equivalente numero di moli n e viceversa. Infatti se consideriamo il peso in grammi W(g) di una sostanza e vogliamo sapere a quante moli n corrispondono dobbiamo dividere W per il peso di una mole, cioè per il Peso molare. n ( mol ) =

W (g) PM ( g / mol )

Viceversa se vogliamo calcolare quanti grammi pesa un determinato numero n moli di una sostanza, sarà sufficiente moltiplicare il numero n di moli per il peso di una mole, cioè per il Peso molare.

1.19. Il numero di Avogadro Si può facilmente verificare che 1 mole di una qualsiasi sostanza contiene sempre lo stesso numero di particelle costituenti (atomi, ioni, molecole etc). Il Peso molare ed il Peso molecolare relativo sono 23 1 per definizione numericamente uguali per x10 mol – qualsiasi sostanza. Il numero di particelle contenuto in una mole risulta essere il medesimo per ogni sostanza. Tale numero, indicato con NA, è conosciuto come numero di Avogadro e si può ottenere con diversi tipi di misurazioni basate su fenomeni come la diffusione della luce,sulla radioatttività o sull’elettrolisi. Tutte le misure hanno sempre confermato il valore di 6,022045x1023. Per calcolare tale numero è sufficiente dividere il peso di una mole (Peso molare) per il peso assoluto di una particella (Peso molecolare assoluto). NA =

PM (g/mol) PM = = 6 ,022 Pa (g) Pr ⋅ 1,660 538 73 ⋅ 10 − 24

È così possibile introdurre una definizione più generale di mole: una mole è una quantità di sostanza contenente un numero di Avogadro di particelle costituenti. Diventa così possibile parlare, ad esempio, di una mole di elettroni senza far riferimento al loro peso, ma al loro numero e, in definitiva alla loro carica complessiva, e quindi ad una certa quantità di carica elettrica (1 mole di elettroni corrisponde ad 1 Faraday = 96.485,34 Coulomb). Una conseguenza del principio di Avogadro è che un medesimo numero di moli di una qualsiasi sostanza gassosa devono occupare sempre il medesimo volume (a P e T costanti). Infatti se ‘volumi uguali di gas diversi nelle stesse condizioni di T e P contengono lo stesso numero di particelle., allora se ne deduce che gas che contengono lo stesso numero di particelle devono occupare lo stesso volume e che una mole di un qualsiasi gas, contenendo sempre lo stesso numero di particelle (il numero di Avogadro) deve occupare sempre il medesimo

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note

Chimica generale volume ed in particolare, a 0째C e alla pressione di 1 atm occupa un volume pari a 22,414 l, detto volume molare standard. .

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note

Chimica generale

Cap II

L’atomo

2.1 Evoluzione del concetto di atomo L'atomo è distinto in una parte centrale più densa, il nucleo, contenente protoni e neutroni, ed in una parte periferica in cui si trovano gli elettroni, detta nube elettronica. Per ciascun atomo il numero di elettroni orbitanti deve ovviamente corrispondere al numero di protoni nucleari. Nel caso in cui il numero di elettroni è diverso, per motivi inerenti alla stabilità atomica, l’atomo risulterà elettricamente carico e prenderà il nome di ione. Se uno ione possiede un numero di elettroni maggiore del numero dei protoni nucleari esso sarà negativamente carico e prenderà il nome di anione, mentre se tale numero è inferiore esso prenderà il nome di catione

La moderna teoria atomica si può fare risalire all'inglese John Dalton che all'inizio del XIX secolo enunciava una teoria in cui si confermava il carattere dell’ indistruttibilità, teoria poi perfezionata e completata dall'italiano Amedeo Avogadro, nella prima metà del XIX secolo, e soprattutto dal russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev. La definizione di atomo, che nella lingua greca vuoi dire indivisibile, fu data a significare che esso doveva rappresentare la più piccola particella di materia esistente, non più frazionabile Verso la fine del XIX secolo un grande apporto alla definizione della struttura dell'atomo veniva, dagli studi e gli esperimenti effettuati da Thompson sul comportamento delle radiazioni emesse dai raggi catodici. Nel 1901 J.B.Perrin ipotizzava gli atomi come formati da un nucleo centrale attorno al quale, come i pianeti del sistema solare, ruotano gli elettroni. Nel 1902 Lord Kelvin proponeva un modello atomico con soli elettroni in equilibrio elettrico. Robert Andrews Millikan dimostra nel 1908, con una sua famosa esperienza basata sulla misura della carica elettrica mediante deposizione per attrito su piccole gocce d'olio, la reale esistenza dell'elettrone. La sua carica elettrica risultava essere pari a 1,591·10-19 coulomb, ossia 0,00000000000001591Coulomb. Nel 1911 E. Rutherford, in seguito ai suoi esperimenti di diffrazione di un fascio di raggi alfa attraverso una sottilissima lamina metallica (oro, argento o platino), presentò un modello in cui l’atomo doveva essere costituito da un nucleo centrale piccolissimo in cui era praticamente racchiusa tutta la massa. Il sistema atomico questo modello può essere paragonato al sistema solare e cioè con un nucleo positivo centrale (il sole) attorno al quale ruotano gli elettroni negativi (pianeti). Nel nucleo è praticamente concentrata tutta la massa dell'atomo. Il modello di Rutherford però, presta il fianco ad un'osservazione: dato che ogni carica elettrica in movimento genera un campo magnetico che, se variabile, ha come conseguenza la formazione di onde elettromagnetiche, anche gli elettroni, che sono particelle cariche di elettricità, genererebbero, con il loro moto circolare, ossia dotato di accelerazione angolare, un campo magnetico variabile, per cui dovrebbero emettere energia sotto forma di onde elettromagnetiche irradiantesi nello spazio. Essi pertanto sarebbero destinati a ridurre le loro traiettorie fino a “sbattere” sul nucleo. Bohr superava le contraddizioni insite nel modello di Rutherford assumendo che ogni sistema atomico, quando è stazionario, non irradia e non assorbe energia. In una sua memoria del 1913 egli ipotizzava che gli elettroni perinucleari possano esistere solo in determinati stati o livelli di energia stazionaria: l'irraggiamento o l'assorbimento di energia si verifica solo al passaggio da un livello ad un altro di energia e comporta lo scambio di un'entità, che egli chiama quantum, corrispondente alla differenza dei due livelli interessati.


Chimica generale Tale ipotesi metteva in crisi la teoria elettromagnetica classica e decretava la nascita di una nuova meccanica detta “quantistica". A.Sommerfeld (1919) proponeva un modello atomico, basato sulle proposte di Bohr, introducendo anche il concetto che le orbite degli elettroni non sono eguali fra loro, ma circolari od ellittiche e praticamente paragonabili a "gusci". Nel 1932, il fisico britannico James Chadwick scopriva il neutrone, una particella nucleare avente massa quasi identica a quella del protone, ma priva di carica elettrica. Oggi si sa che tutti i nuclei sono costituiti esclusivamente da protoni e neutroni; inoltre, in ogni atomo il numero di protoni è uguale al numero di elettroni, e quindi al numero atomico. In tal modo l'atomo, possedendo un ugual numero di cariche positive e negative, risulta elettricamente neutro. Gli isotopi di uno stesso elemento possiedono un ugual numero di elettroni e di protoni, e quindi manifestano le stesse proprietà chimiche, ma differiscono per il numero dei neutroni Gli atomi hanno dimensioni di circa 10-8 cm di diametro, (in un grammo di una qualsiasi materia vi sono circa 1023 atomi, una quantità enorme, che sfugge alla nostra immaginazione. Malgrado la presenza di elettroni, protoni e neutroni, gli atomi sono, per la massima parte, occupati da spazio vuoto! Il modello atomico proposto da Bohr-Sommerfeld, anche se presenta alcune incongruenze, è tuttora considerato in linea di principio valido. Nel 1920 Rutherford teorizzava un nucleo formato da un numero di protoni eguale al suo numero atomico e da particelle neutre, senza carica elettrica, aventi una massa eguale a quella dei protoni, supposizione confermata più tardi da James Chadwick, con la scoperta dei neutroni (19329). Uno dei principali successi dei fisici teorici fu la spiegazione degli spettri a righe caratteristici di ciascun elemento. Atomi eccitati da un'opportuna sorgente esterna di energia emettono radiazione elettromagnetica, di frequenza ben definita. Ad esempio, idrogeno gassoso tenuto in condizioni di bassa pressione in un tubo di vetro, emette luce visibile di color rosso, quando il tubo è attraversato da cariche elettriche. L'esame di questa radiazione, eseguito a mezzo di uno spettroscopio, mostra che in realtà il gas emette uno spettro a righe, ovvero radiazione di una serie di frequenze a distanza regolare una dall'altra. La teoria di Bohr permetteva di calcolare le lunghezze d'onda dello spettro di emissione in modo semplice e preciso, ipotizzando che ciascuna riga spettrale corrisponda al salto di un elettrone da un livello di energia superiore, e quindi più distante dal nucleo, a un livello caratterizzato da una energia inferiore. Gli elettroni che normalmente occupano i livelli quantici più vicini al nucleo, e perciò hanno energia più bassa, vengono "eccitati" dalle scariche elettriche, ovvero assorbono energia, e saltano a livelli quantici superiori; da qui possono "ricadere" ai livelli inferiori, cedendo nuovamente energia all'esterno sotto forma di radiazione elettromagnetica. Molti atomi pesanti possono essere eccitati in modo da coinvolgere gli elettroni più vicini al nucleo e da provocare transizioni elettroniche tra livelli energetici interni. Queste transizioni richiedono grosse quantità di energia, e determinano l'emissione di raggi X, radiazioni molto penetranti a frequenza altissima. Louis Victor de Boglie e Erwin Schrödinger, a partire dal 1925, basandosi sui concetti della

note Il modello di Rutherford aveva insite due contraddizioni: le forze repulsive coulombiane agenti tra le cariche positive protoniche, confinate in un limitato volume, avrebbero dovuto infatti dar luogo ad una istantanea disgregazione del nucleo. Infatti in base alle leggi dell’elettrodinamica classica, ogni carica che si muove di moto non uniforme irradia onde elettromagnetiche a spese della propria energia di moto. In un tempo molto piccolo un elettrone atomico (circa 10-8 sec) dovrebbe quindi cadere sul nucleo. Era impossibile così giustificare la stabilità temporale dell’atomo Il primo problema fu risolto con l’introduzione delle forze nucleari agenti solo all’interno dei nuclei: la cosiddetta interazione nucleare forte Il secondo problema fu risolto da Bohr nel 1913 ricorrendo alle nuove ipotesi connesse con la teoria dei quanti elaborata da Planck nei primi anni del 1900.

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note

Gli elettroni che normalmente occupano i livelli quantici più vicini al nucleo, e perciò hanno energia più bassa, se "eccitati" saltano a livelli quantici superiori; da qui possono "ricadere" ai livelli inferiori, cedendo la stessa quantità di energia assorbita sotto forma di radiazione elettromagnetica di frequenza ν in accordo alla relazione di Planck E=hν.

Chimica generale meccanica ondulatoria, affermavano che non si può più parlare di orbite atomiche, perchè l'elettrone non è più esattamente localizzabile nello spazio, introducendo la teoria della probabilità, ossia che esso, ad un dato istante, si trovi in un determinato punto dello spazio. W. Pauli, nel 1931, ipotizza l'esistenza del neutrino, che verrà poi osservato nel 1953. Werner Heisenberg formula l’ipotesi che protoni e neutroni stiano insieme nel nucleo grazie a forze di interazioni che nascono per esigenze di simmetria. Nel 1947 viene formulata la teoria della elettrodinamica quantistica (E.Q.) e nel 1949 la teoria delle interazioni fra le particelle elementari. Uno dei principali successi dei fisici teorici fu la spiegazione degli spettri a righe caratteristici di ciascun elemento: atomi eccitati da un'opportuna sorgente esterna di energia emettono radiazione elettromagnetica, di frequenza ben definita. Ad esempio, idrogeno gassoso tenuto in condizioni di bassa pressione in un tubo di vetro, emette luce visibile di color rosso, quando il tubo è attraversato da cariche elettriche. L'esame di questa radiazione, eseguito a mezzo di uno spettroscopio, mostra che in realtà il gas emette uno spettro a righe, ovvero radiazione di una serie di frequenze a distanza regolare una dall'altra.

2.2. Il dualismo onda corpuscolo Tutto ciò che riusciamo a vedere di un elettrone è la traccia che esso lascia su uno schermo fluorescente quando va ad urtargli contro: in quella circostanza l'elettrone ci appare come corpuscolo che va a colpire il bersaglio in un punto determinato. Ma gli stessi elettroni, quando attraversano fessure molto sottili, creano, sullo schermo sul quale si vanno a stagliare, delle bande di luce e di ombra come se a passare attraverso le fessure fossero state delle onde e non dei corpuscoli. I concetti di onda e di particella, visti in senso classico, non erano più idonei a descrivere in maniera soddisfacente i fenomeni tipici dell'infinitamente piccolo. Quindi l'elettrone (ma anche il protone, il fotone ed altre particelle elementari ), ci appare ora come onda ora come particella a seconda del modo in cui viene condotto l'esperimento atto a metterlo in evidenza. Bohr, nel 1927, suggerì l’ipotesi che per le entità di piccole dimensioni, valessero entrambi i modelli, cioè quello di onda e quello di particella, a seconda dell'utilità descrittiva: questa affermazione va sotto il nome di principio di complementarità. Quindi, l'elettrone non può essere descritto con le leggi della meccanica classica, bensì richiedono di una nuova teoria in grado di conciliare l'aspetto ondulatorio e quello particellare delle entità di piccole dimensioni e quindi di rappresentare finalmente in modo coerente i fenomeni riguardanti il mondo microscopico degli atomi. Si tratta, tuttavia, di una teoria prettamente matematica che non è in grado di produrre modelli concreti. Il comportamento degli elettroni perinucleari viene teorizzato secondo i principi della meccanica ondulaoria di De Broglie. Egli postulava che ogni particella di massa m che si muove con una velocità v si debba considerare come particella di quantità di moto mv ed al contempo come un’onda di quantità di moto hν e cioè come un’onda di lunghezza λ. In altre parole, per le particelle subatomiche vale il dualismo onda-corpuscolo, mv= hν, ed essendo ν=1/λ si ricava facilmente la relazione :

Niels Bohr

40 40


note

Chimica generale cresta

cresta vincolo

in cui h è la costante di Planck ed m rappresenta la massa della particella che si muove con velocità v. Se supponiamo che l'elettrone nel suo moto orbitale si comporti come un'onda, affinché ciò possa avvenire in maniera stabile si deve realizzare un'onda stazionaria stabile; in questo caso è necessario che la circonferenza dell'orbita, 2πr, sia uguale ad un numero intero, n, di lunghezze d'onda, λ ; ovvero:

2πr = nλ.

Se così non fosse le onde interferirebbero "distruggendosi" e rendendo quindi instabile l’atomo. Nel 1926, Schroedinger propose un'equazione che mette in relazione l'energia cinetica e l'energia potenziale con'energia totale del sistema in esame, per ogni punto delle coordinate spaziali. La soluzione di questa equazione è la funzione d'onda del sistema, e si indica con ψ. L'interpretazione della funzione d'onda nasce da un'idea di Max Born, in analogia con la teoria ondulatoria della luce, secondo la quale, il quadrato dell'ampiezza di un'onda luminosa ha il significato di intensità, che in termini quantistici equivale al numero di fotoni presenti. Così, mentre ψ può essere visto come ampiezza della funzione d'onda, ψ2 esprime la probabilità di trovare l'elettrone in un determinato punto di coordinate x, y, z. Più esattamente, se in un punto r(x,y,z) la funzione d'onda dell'elettrone ha ampiezza ψ, la probabilità di trovare l'elettrone nel volume infinitesimo δv è proporzionale a ψ2. Per trasformare questa proporzionalità in una uguaglianza è sufficiente introdurre una adeguata costante di proporzionalità, scelta in modo che la somma delle singole probabilità, estesa a tutto lo spazio, sia uguale a 1, ovvero:

Questo procedimento si dice normalizzazione della funzione d'onda. Per l'elettrone dell'atomo di idrogeno nello stato fondamentale, la funzione d'onda normalizzata è:

Dove a0 = 0.53 Å e r distanza dal nucleo. Quindi, la probabilità di trovare l'elettrone in un elemento di volume infinitesimo , a distanza r dal nucleo, è data dalla relazione:

Il grafico di questa funzione, descrive la cosiddetta densità di probabilità elettronica. Come si può osservare, la densità per unità di volume è massima sul nucleo e decresce progressivamente allontanandosi da esso, fino a diventare zero a distanza infinita. È essenziale capire che tutto ciò non significa che la probabilità di trovare l'elettrone sul nucleo è

vincolo

cresta

vincolo

vincolo

vibrazione vibrazione

cavo

cavo

cavo

λ= 2 L Vibrazione fondamentale

nodo

λ=

λ= L Prima armonica

nodo

2 L 3

λ=

Seconda armonica

2 L 4

Terza armonica

esempi di onde stazionarie lineari in risonanza armonica: le diverse lunghezza d’onda λ pari a 2L/n; devono soddisfare la condizione quantica cioè che n non può assumere valori frazionari ma solo valori interi: la vibrazione fondamentale si ha per n=1, la prima armonica per n=2, la seconda per n=3 e la terza per n=4.

r

esempio di onda stazionaria circolare di lunghezza d’onda λ=2πr/n,, n deve assumere solo valori interi cioè deve sempre soddisfare la condizione quantica.

41


note

Chimica generale

Ψ2

r

massima. Se confrontiamo un elemento di volume in prossimità del nucleo con uno identico lontano da esso, riscontriamo in effetti che è più probabile trovare l'elettrone nell'elemento di volume più vicino al nucleo. Tuttavia, man mano che ci allontaniamo dal nucleo, il numero degli elementi di volume cresce proporzionalmente al quadrato della distanza (l'area di una superficie sferica è data da 4p r2). Quindi, è molto più indicativo considerare la funzione che descrive la probabilità di trovare l'elettrone su una superficie sferica. Dato che r2 aumenta in modo quadratico al crescere del raggio, mentre ψ2 diminuisce, la funzione di distribuzione radiale assume la forma illustrata in figura dove si evidenzia un massimo che corrisponde al raggio più probabile, r = a0, al quale si può incontrare l'elettrone intorno al nucleo. Per l'atomo di H nello stato fondamentale questo valore coincide con il raggio di Bohr in cui l'elettrone si trova solo ad una distanza definita dal nucleo. Secondo la meccanica ondulatoria l'elettrone è invece del tutto "non localizzato" , ma si trova con maggior probabilità a distanza 0.53 Å dal nucleo: in ogni punto distante r dal nucleo e massima la probabilità di localizzare l'elettrone all'intera superficie di massima probabilità si da il nome di orbitale. E’ conveniente, descrivere un elettrone peri-nucleare come una nuvola elettronica, cioè dobbiamo rappresentarlo non più come una particella, ma come una superficie di distribuzione di una carica diffusa. Questa superficie avrà la forma propria dell'orbitale e sarà più o meno estesa intorno al proprio asse con una probabilità del 90 o 95%: ciò vuol dire che l'elettrone passa il 95 % del proprio tempo all'interno di questa determinata superficie"; ovvero il 95% della carica elettronica è localizzato all'interno di quella determinata superficie". Gli elettroni si collocano a varie distanze dal nucleo nella cosiddetta corteccia elettronica ove individuano i diversi livelli d’energia, che si succedono secondo valori crescenti, individuando le orbite. Nell'ambito d’ogni orbita gli elettroni possono stazionare in un dato numero di orbitali.

2.3. Gli orbitali atomici Densità di probabilità elettronica Ψ2 in funzione della distanza dal nucleo, r, (in Ǻngström)

42 42

Gli elettroni, secondo il modello quantistico, possono "saltare" da un'orbita all'altra ed ogni salto è accompagnato da uno scambio di energia elettromagnetica quale sono i fotoni. Il livello d’energia sarà tanto maggiore quanto più grande sarà la distanza fra l'orbita di Bisogna tener conto che il nucleo esercita sull'elettrone una forza d’attrazione tanto maggiore quanto più vicino ad esso si trova l’elettrone, di conseguenza si avrà assorbimento di energia quando esso passa da un'orbita più interna ad una più esterna; col movimento di avvicinamento al nucleo al contrario l’elettrone passa da stati di energia elevata verso stati di energia inferiore, radiando l’energia corrispondente ai “salti” effettuati, fino a raggiungere il livello stazionario più basso consentito, cioè collocandosi su orbitali che hanno man mano traiettorie sempre più prossime al nucleo. Tale modello, completamente descritto dalla meccanica quantistica, assume che ciascuna orbita venga considerata come stato (o livello) di energia stazionaria. Il concetto di stato stazionario richiede per essere descritto in termini quantistici di quattro numeri detti, appunto, numeri quantici. Fino a quando l’elettrone permane nel suo stato stazionario (la sua orbita) esso non scambia in alcun modo energia e mantiene la stessa quaterna quantica; se, al contrario, assorbe il quantum di energia necessario a collocarlo su una nuova orbita


Chimica generale egli raggiungerà il nuovo stato di energia superiore e il nuovo stato sarà descritto da una nuova quaterna quantica (il livello raggiunto sarà detto stato energeticamente eccitato. L’elettrone perinucleare può essere visualizzato come una nuvola di carica elettrica negativa che avvolge il nucleo. Questa nuvola viene descritta matematicamente da un equazione differenziale di Schrodingher, detta anche funzione d’onda ψ, le cui soluzioni (o autofunzioni), sono ottenute sulla scorta di autovalori, i quattro numeri quantici, prendono il nome di orbitali atomici (O.A) ψn,l,m,s,. Il valore attribuito a ciascuna quaterna quantica (n,l,m,s) non può essere assegnato arbitrariamente, essendo essi vincolati da una serie di restrizioni, come di seguito descritto. 1) n, numero quantico principale: numero intero i cui valori vanno da 1 , 2 …. ad n; esso assegna il valore di energia di ciascuna orbita permessa e ne definisce la grandezza. 2) l, numero quantico azimutale; esso descrive la geometria dell’orbitale; i valori di l sono solo i numeri interi compresi tra zero ed n-1 (l= 0,1,2,….n-1); Ciò significa che se n=1, l può essere solo zero; se n=2, l può assumere due valori possibili: zero ed 1; se n=3 i tre valori possibili di l saranno zero. 1 e 2, e così oltre. 3) m, numero quantico magnetico; esso esprime il grado di degenerazione dell’orbitale; i valori di m sono ristretti dal valore di l, essendo essi tutti i valori interri, compreso lo zero, che vanno da -l a +l cioè: -l < m < +l, ciò comporta che se l=0 allora m può assumere il solo valore zero, se l=1 allora m può avere solo tre valori, l’orbitale sarà quindi tre volte degenere: m=-1, 0, +1; per l=2 si hanno 5 valori di m, l’orbitale sarà quindi 5 volte degenere m=-2, -1, 0, +1, +2, e così oltre. 4) s, numero quantico di spin esso assume solo i valori semi-interi +l/2 e -1/2 In assenza di un campo magnetico esterno l’energia di un orbitale atomico è determinata solo dai valori di n ed l. IIl numero di elettroni che un atomo mette a disposizione nella formazione di un legame con un altro atomo uguale o diverso viene detto genericamente valenza. I soli elementi del sistema periodico che praticamente non reagiscono sono i gas nobili in quanto le loro configurazioni elettroniche esterne sono complete: tutti i gas nobili, ad eccezione dell'elio, presentano nello strato esterno otto elettroni di cui due si trovano sull'orbitale s,mentre gli altri sei occupano l'orbitale p. La configurazione elettronica esterna s 2p6 (ottetto) è perciò una configurazione particolarmente stabile che gli atomi tendono a raggiungere con la formazione di legami chimici scambiando elettroni con altri atomi al fine di raggiungere una configurazione ottieziale Gli orbitali atomici vengono praticamente designati con i termini ottenuti dalla osservazione dei loro spettri le cui righe apparivano diverse per aspetti qualitativi (in inglese: Sharp, Principal, Diffuse; Fondamental). Le iniziali di questi attributi fornivano il nome ai diversi tipi di orbitali s, p, d, f in corrispondenza dei diversi valori quantici di l e precisamente: l=0 → s, l=1 → p, l=2 → d, l=3 → f. Il numero quantico che definisce il tipo di orbitale è dunque il numero quantico secondario l: quando il valore di l è zero l’orbitale sarà di tipo s; se l è 1 l’orbitale sarà di tipo p; se l = 2 l’orbitale sarà di tipo d; se infine l=3 l’orbitale sarà di tipo f. Ciascuna orbita e caratterizzata da un determinato valore di energia (livello quantico) e comprende uno o più orbitali. Possiamo così riassumere come segue: Prima orbita (K) n= 1; un solo orbitale l=0 che ospita fino ad un massimo di due elettroni (1s2).

note

la funzione di distribuzione radiale evidenzia un massimo che corrisponde al raggio più probabile, r = a0, con a0 =

0.53 Ångstrom.

43


note

Chimica generale L’elemento che completa la prima orbita è il gas nobile elio. Seconda orbita (L) 2 orbitali l=0 2s e l=1 2p che ospitano fino ad un massimo di otto elettroni (2s2 2p6). L’elemento che completa la seconda orbita è il gas nobile neon. Terza orbita (M) 3 orbitali 3s, 3p, 3d che ospitano fino ad un massimo di diciotto elettroni (3s2 3p6 3d10). Quarta orbita (N) 4 orbitali 4s, 4p, 4d e 4f che ospitano fino ad un massimo di trentadue elettroni (4s2 4p6 4d10 4f14). Quinta orbita (O) 4 orbitali 5s, 5p, 5d e 5f che ospitano fino ad un massimo di trentadue elettroni (5s2 5p6 5d10 5f14). L’elemento che completa la quinta orbita è il gas nobile xeno. Sesta orbita (P) 4 orbitali 6s, 6p, 6d e 6f che ospitano fino ad un massimo di trentadue elettroni (6s2 6p6 6d10 6f14). L’elemento che completa la sesta orbita è il gas nobile radon. Settima orbita (Q) 4orbitali 7s, 7p, 7d e 7f che ospitano fino ad un massimo di trentadue elettroni (7s2 7p6 7d10 7f14. Occorre sin d’ora precisare che l’ordine di riempimento degli elettroni negli orbitali non rispetta l’ordine di successione del numero quantico principale n, ad esempio l’orbitale s della quarta orbita si trova ad un livello energetico inferiore dell’ orbitale 3d della terza orbita (→ auffbau).

2.4 Orbitali esterni e regola dell’ottetto La configurazione elettronica di un atomo deve essere quella riferita al suo stato fondamentale cui compete il minimo di energia e, quindi, il massimo di stabilità. Ogni elettrone deve collocarsi su di un orbitale al più basso livello energia possibile secondo un principio di costruzione (aufbau) enunciato da Pauli. Secondo questo principio si procede aggiungendo gli elettroni uno per volta, occupando gli OA disponibili, seguendo l’ordine di energia crescente sino a che non si configuri un atomo il cui numero di elettroni non sia pari al numero di protoni nucleari (numero atomico). In ordine di energia crescente si avrà la successione di orbitali 1s2 2s2 2p6 3s2 3p6; a questo punto occorre tener presente che anche la terza orbita ha raggiunto la configurazione otteziale (l’elemento relativo è infatti un gas nobile), per cui l’ulteriore elettrone dovrà collocarsi sulla successiva (quarta) orbita ove è disponibile l’orbitale 4s. Il riempimento avverrà mediante una successione del tipo: 1s2 2s2 2p6 3s2 3p6 4s1. Questa successione di orbitali costituisce la base razionale della cosiddetta regola dell’ottetto: il livello più esterno di ogni atomo può contenere fino ad un massimo di otto elettroni; tutte le proprietà chimiche di ciascun elemento dipendono da questo numero. Quando un atomo scambia elettroni per formare un legame esso perde, acquista o compartecipa un numero di elettroni tale che il suo strato esterno completi il numero di otto elettroni, cioè la configurazione tipica di un gas nobile. 44 44


Chimica generale

2.5. Principio di esclusione di Pauli Ciascun elettrone si caratterizzata con una quaterna di numeri quantica: due elettroni dello stesso atomo non possono mai avere la stessa quaterna : essi devino differire almeno per il numero quantico di spin. Tale impossibilita prende il nome di principio di esclusione di Pauli. Ciò vuol dire che se due elettroni risiedono sullo stesso orbitale (cioè hanno uguali valori di n, l ed m) devooo avere spin opposto o , come si dice in gergo quantistico, devono essere antiparalleli. In questo caso si dice che essi formano un doppietto di elettroni. In tal modo per ogni n , e cioè per ogni strato di orbite, rimane fissato il numero di elettroni che lo occupano. Il principio di esclusione di Pauli fornisce la chiave per l’interpretazione degli spettri atomici , della valenza e dello stesso sistema periodico di degli elementi

2.6. Sistema periodico Heitler e London nel 1927 scoprirono che se un atomo possiede gli orbitali più esterni incompleti, può combinarsi con altri atomi. La complessiva capacità di combinarsi con altri elementi ed ogni altra caratteristica chimica di ciascun atomo è data infatti dal numero degli elettroni che esso possiede sugli orbitali più esterni. Atomi che hanno lo stesso numero di elettroni sull’orbita più esterna hanno le stesse caratteristiche (covalenza, numero di ossidazione, elettronegatività, ecc.) Ogni atomo, ad eccezione dei gas nobili, ha almeno un orbitale con un elettrone spaiato e pertanto tenderà a formare legami con altri atomi allo scopo di realizzare la configurazione otteziale. La tavola periodica degli classifica gli elementi in base al loro numero atomico crescente ordinandoli in modo che elementi con caratteristiche chimiche simili, cioè con lo stesso numero di elettroni in orbita esterna, cadano nella stessa colonna cui si da il nome di gruppo. Nella tavola periodica si riconoscono 8 gruppi principali o elementi del gruppo A, trenta metalli detti del gruppo B o di transizione, quattordici metalli della serie dei lantanidi o terre rare e e quattordici metalli così detti attinidi. Con una prima grossolana descrizione possiamo dire che gli elementi che hanno nell’ultima orbita da uno a quattro elettroni avranno tendenza a cederli e sono detti metalli (elettron-donatori), quelli che hanno da quattro a sette elettroni avranno tendenza ad acquistarne e sono detti non-metalli elettron-accettori).

note Quando l’atomo H si trova nel suo stato fondamentale, vale a dire allo stato stazionario, l’elettrone ruota attorno al nucleo su un’orbita conservando costante la sua energia totale (in pratica senza irradiare energia). Quando l’atomo viene energeticamente eccitato l’elettrone può saltare in un’orbita successiva di raggio più elevato però caratterizzata da un ben definito e costante contenuto d’energia chiamata da Bohr stati stazionari. Se non viene fornita la quantità esatta d’energia che è pari alla differenza tra l’energie delle due orbite, il salto dell’elettrone non avviene. Una volta cessata l’eccitazione energetica ogni elettrone ritorna al proprio stato fondamentale rimettendo l’energia acquistata sotto forma di un fotone di frequenza ν

2.6.1 Elementi del gruppo A; I gruppo: hanno un solo elettrone periferico ed essendo scarsamente elettronegativi, tendono a perderlo cedendolo ad altri elementi con i quali si combinano. Essi avranno caratteristica chimica tipica dei metalli e vengono perciò chiamati metalli alcalini. Elementi del II gruppo: hanno due elettroni periferici che tendono a cedere (metalli alcalino–terrosi).

45


note Per orbitale si intende la regione perinucleare ove si ha la massima probabilità di trovare un lettrone. durante il suo movimento. Gli elettroni, secondo il modello quantistico, possono "saltare" da un'orbita all'altra: ogni salto è accompagnato da uno scambio di energia elettromagnetica sotto forma di “quantum” fotonico, di energia pari alla differenza tra i due livelli: ∆E = h n2- h n 1 . L’insieme di questi quanti, opportunamente registrati, formano il cosiddetto spettro atomico

Chimica generale Elementi del III gruppo: hanno tre elettroni periferici che ugualmente tendono a cedere (metalli terrosi). Elementi del IV gruppo: avendo 4 elettroni periferici, possono cederli o acquistarli, hanno perciò un comportamento metalloidico o anfotero. Elementi del V, VI, e VII gruppo: avendo rispettivamente 5, 6, 7 elettroni periferici, tendono, per raggiungere una configurazione stabile, ad acquistare gli elettroni mancanti da altri elementi disposti a cederli; il loro comportamento chimico è qello tipico dei non-metalli. Elementi del gruppo VIII : lo strato esterno è saturo di elettroni (8); essi si trovano in uno stato di massima stabilità, per cui non tendono a combinarsi con nessun elemento, vengono perciò detti gas nobili.

2.6.2 Elementi del gruppo B o metalli di transizione Sono detti metalli di transizione quegli lementi che riempiono gli orbitali di tipo d. Essi pertanto sono t metalli in quanto in orbita esterna posseggono due elettroni s2.. In generale si chiamano elementi di transizione tutti quegli elementi che riempiono gli orbitali d. Essi venivano raggruppati in analogia degli elementi del gruppo A in otto gruppi che prendevano il nome di elementi del gruppo B.

2.6.3 Lantanidi

due elettroni che risiedono sullo stesso orbitale devono avere spin opposto (antiparalleli) e formare così un doppietto elettronico.

↓↑

rappresentazione simbolica di un doppietto di elettroni antiparalleli

46 46

Sono detti lantanidi i quattordici elementi che riempiono gli orbitali 4f prendono il nome dal primo di essi il lantanio e vengono perciò detti Lantanidi o terre rare.

2.6.4 Attinidi

Sono detti attinidi i quattordici elementi che riempiono gli orbitali 5f prendono il nome dal primo di essi l’ Attinio e vengono perciò detti Attinidi.

2.6.5. Elementi transuranici

Fu Enrico Fermi (1901-1954) ad individuare nel neutrone la particella più adatta a penetrare nei nuclei degli atomi pesanti e a rimanerne intrappolata. I nuovi nuclei che ne risultavano per la maggior parte erano instabili e tendevano a ripristinare la stabilità liberandosi di un elettrone e di un antineutrino (decadimento beta); in altri termini bombardando con neutroni lenti il nucleo di un elemento pesante se ne formava un isobaro di quello sottoposto al trattamento. Nel 1940 Edwin M. McMillan e Philip H. Abelson estrassero da un campione di uranio, che in precedenza era stato irradiato con neutroni, l’elemento 93, il primo al di là dell’uranio. Ad esso dettero il nome di nettunio dato che Nettuno è il primo pianeta dopo Urano. Nel corso degli anni quaranta e cinquanta un gruppo di fisici, continuando le ricerche scoprirono il oltre al plutonio dal pianeta Plutone) tutta una serie di nuovi elementi che andavano ad occupare i posti compresi fra il numero 95 e il 100; essi erano: americio, curio, berkelio, californio, einstenio e fermio, tutti prodotti per cattura neutronica e susseguente decadimento beta. Con il fermio terminava però la possibilità di ottenere atomi attraverso il bombardamento con neutroni lenti perché al di là di un certo assembramento di particelle all’interno del nucleo non si realizzava più il decadimento beta. Per continuare a produrre elementi sempre più pesanti si doveva cambiare strategia. Il nuovo metodo che venne adottato fu quello di far collidere nuclei


Chimica generale relativamente leggeri (carbonio, azoto e ossigeno) con elementi transuranici. Per eseguire questi esperimenti era però necessario imprimere ai proiettili grandi velocità. Furono quindi studiati acceleratori di nuova concezione. Nel 1955 il gruppo di Berkeley sintetizzava l’elemento 101 per fusione di elio e einstenio e ad esso era stato dato il nome di mendelevio. Poi, fra il 1958 e il 1974 furono sintetizzati gli elementi nobelio (102), lawrencio (103), rutherfordio (104), dubnio (105) e seaborgio (106). Poco dopo vennero anche sintetizzati l’elemento 108 e il 109. Al primo fu assegnato il nome di assio (dalla regione tedesca dell’Assia dove si trova Darmstadt) e al secondo il nome di meitnerio (in onore di Lise Meitner, la straordinaria fisica austriaca morta nel 1968 all’età di novanta anni). Fra il dicembre del 1994 e il febbraio del 1996 il gruppo di fisici tedeschi riuscì a sintetizzare, non senza difficoltà, pochi atomi degli elementi numero 110, 111 e 112 a cui a tutt’oggi non è ancora stato assegnato un nome ufficiale. Ma l’ambizione dei fisici è quella di riuscire ad aggiungere alla serie altri sei elementi, fino ad arrivare a quello con numero atomico 118, in modo da completare il settimo periodo del Sistema Periodico. A titolo di esempio utilizziamo il principio di costruzione per l’elemento che ha numero atomico 53 cioè esso possiede 53 elettroni che saranno così distribuiti: 1s2 2s2 2p6 3s2 3p6 4s23d104p6 5s2 4d10 5p5 Per quanto detto esso avrà una distribuzione (in ordine di energia crescente) del tipo: Prima orbita (k) due elettroni 1s2 Seconda orbita (L) otto elettroni 2s2 2p6 (primo periodo) Terza orbita (M) diciotto elettroni 3s2 3d10 3p6 ( secondo periodo) Quarta orbita (N) diciotto elettroni 4s2 4d10 4p6. ( primo grande periodo) Quinta orbita (O) sette elettroni 5s2 5d5 (secondo grande periodo) Si tratta di un elemento che in orbita esterna possiede sette elettroni; esso è quindi un non metallo del VII gruppo. Col numero atomico 53 troviamo infatti l’elemento Iodio (alogeno) .

note

Il numero di ossidazione di un elemento in una molecola tiene conto del numero di elettroni che esso impegna complessivamente nella formazione dell’intera molecola. Nel caso dell’acido solforico H2SO4 il n. di ox dello zolfo (S) è +6. Vediamo perché: il numero nella molecola (N.O.=0) di H2SO4 è pari a +1x2=2 relativamente all’H; —2x4=—8 relativamente all’ O; il S deve quindi avere N.O, +6 (essendo la somma pre l’intera molecola zero: —2—8+6=0). Esso è dunque definibile a posteriori.

2.7. Le proprietà periodiche Sono dette proprietà periodiche tutte quelle proprietà che variano al variare del numero di elettroni in orbita esterna. Sono principalmente:

Energia di ionizzazione: è l’energia necessaria a staccare un elettrone da un atomo con formazione di uno ione positivo. L’energia di prima ionizzazione è l’energia occorrente per allontanare il primo elettrone esterno di un atomo.

Affinità elettronica: è l’attrazione esercitata da un atomo nei confronti di elettroni supplementari ed è l’energia che si ottiene quando un atomo acquista elettroni.,I metalli hanno energie di ionizzazione e affinità elettronica basse. I non metalli hanno energie di ionizzazione e affinità elettroniche alte.

Elettronegatività: è la tendenza relativa di un atomo ad attrarre un elettrone. Come detto il carattere metallico degli elementi aumenta man mano che si scende nella tavola e l’ultimo membro di ciascun gruppo manifesta proprietà decisamente metalliche. Le proprietà tipiche dei metalli sono

47


note

Chimica generale

Prima orbita K Quarta orbita K; n=1; l=0 m=0: n=4, l=0, l=1,l=2,

unsolo orbitale l=3: Quattro s orbitali: 4s 4p 4d 4f ψ1,0,0 (1s) ψ 4, 0 , 0 (4s) Seconda orbita L n=2 l=0, l=1:

due orbitali 2s m = 0 , 2 p 1<m<+1 ψ2, 0 ,0; (2s)

ψ2, 1,−1; ψ2,1,0, (2p) ψ2,1,+1 Terza orbita M;

n=3, l=0 S, l=1 p, l=2 tre o r b it a l i: 3 s 3 p 3d: ψ3,0,0 (3s)

ψ3,1,−1 ψ3,1,0 (3p) ψ3,1,+1 ψ3,2, −2 ψ3, 2, +1 ψ3,2 0 (3d) ψ3,2, +1 ψ3, 2, +2 48 48

ψ 4, 1 −1 ψ 4, 1, 0 (4p) ψ4, 1,+1 ψ 4, 2, −2 ψ 4, 2, −1 ψ4 ,2, 0 (4d) ψ4, 2, +1 ψ4, 2, +2 ψ4, 3, − 3 ψ4, 3, −2 ψ4, 3, −1 ψ4, 3, 0 (4f) .ψ4, 3, +1 ψ4, 3, + 2 ψ4, 3 , + 3

durezza, lucentezza e buona conducibilità del calore e dell’elettricità (proprietà fisiche).I metalli hanno un’elevata capacità di cedere elettroni e proprietà tipiche dei metalli sono durezza, lucentezza e buona conducibilità del calore e dell’elettricità (proprietà fisiche). I metalli hanno un’elevata capacità di cedere elettroni e sono quindi in grado di formare ioni positivi hanno energie di ionizzazione e affinità elettronica basse. I non metalli hanno energie di ionizzazione e affinità elettroniche alte, sono gas o solidi friabili; la loro superficie è opaca e isolanti. Come proprietà chimica i non metalli hanno la capacità di prendere elettroni e perciò sono in grado di formare ioni negativi. Infine alcuni elementi hanno proprietà sia metalliche che non e vengono indicati come semi metalli; per esempio il silicio. Le proprietà metalliche lungo un periodo diminuiscono procedendo da sinistra verso destra. I raggi atomici aumentano procedendo nella tavola periodica dall’alto in basso e da destra verso sinistra. I metalli I gruppi B mostrano tutti proprietà metalliche e anche attinidi e lantanidi. enzialmente dalla capacità che gli elementi hanno di scambiare elettroni (mediante cessione, acquisto o compartecipazione) con altri atomi. Questa capacità viene espressa in diverse maniere e precisamente come potenziale di ionizzazione , affinità elettronica, elettronegatività, valenza e numero di ossidazione. A tali proprietà, che variano periodicamente al variare del gruppo, si dà il nome di proprietà periodiche. Si definisce potenziale di ionizzazione l’energia richiesta a per portare all’infinito uno o più elettroni da un atomo neutro con formazione del relativo catione. Si esprime in elettronvolt eV. L’energia per strappare il primo elettrone viene detta energia di 1 ionizzazione, l’energia per strappare il secondo elettrone viene detta energia di 2 ionizzazione e così via; mentre l’affinità elettronica è l’energia che si libera quando un elettrone viene associato ad un atomo neutro allo stato gassoso per formare un anione. Anche per le affinità elettroniche vale il criterio di periodicità: esse diminuiscono con l’aumentare del numero atomico dell’elemento nello stesso gruppo. Misurata per gli elementi alogeni ossigeno e carbonio. Più gli elettroni si allontanano dal nucleo e meno sono attratti dalle cariche positive dei protoni. La terza maniera di esprimere la tendenza a scambiare elettroni di ciascun elemento, e che combina le prime due, è quella introdotta da L.Pauling e R.Millikan definita come elettronegatività. nella Tabella che segue sono riportati i valori di elettronegatività di alcuni elementi, secondo Pauling. L'elettronegatività è una proprietà periodica degli elementi, Come si può osservare gli elementi classificati nel I A possiedono tutti nell’ultima orbita un solo elettrone (cioè ns1), essi hanno tipico comportamento metallico essendo caratterizzati da una scarsa propensione a trattenere questo elettrone, cioè hanno bassissimo valore di elettronegatività (<1). Gli elementi del II gruppo A possiedono tutti due elettroni sull’ultima orbita e precisamente ns1; sono anch’essi elettrondonatori (bassa elettronegatività) hanno quindi caratteristiche metalliche . Nella tavola periodica il carattere metallico aumenta dall’alto verso il basso e diminuisce da sinistra verso destra. Il cesio è quindi il metallo più attivo; il fluoro è il non metallo più attivo.


note

Chimica generale Elettronegatività di alcuni elementi, secondo Pauling

H 2.1 Li 1.0

Be 1.5

B 2.0

C 2.5

N 3.0

O 3.5

F 4.0

Na 0.9

Mg 1.2

Al 1.5

Si 1.8

P 2.1

S 2.5

Cl 3.0

K 0.8

Ca 1.0

As 2.0

Se 2.4

Br 2.8

Te 2.1

I 2.5

Le proprietà periodiche che meglio devono essere conosciute sono quelle che si riferiscono al numero di elettroni ell’ultima orbita; tali proprietà, che fanno direttamente riferimento alla capacità di ciascun elemento a formare i diversi legami con altri atomi, sono la covalenza ed il numero di ossidazione. Covalenza La covalenza è quel numero assoluto che esprime la capacità dell’elemento a formare legami covalenti. Tale numero corrisponde quindi al numero di elettroni spaiati che ciascun elemento possiede sull’ultima orbita. La valenza di ciascun elemento è dunque definibile a priori essendo ricavabile dalla posizione che esso occupa nella tavola periodica: IA monovalenti: (Li, Na, K, Ru, Cs)

Il.riempimento degli orbitali avviene secondo la direzione indicata dalle frecce. La successione degli orbitali, in ordine crescente di energia è dunque:1s2 2s2 2p6 3s2 3p6 4s23d104p6 5s2 4d10 5p6 6s2 4f14 5d10 6p6 7s2 ...........

Energie di 1 ionizzazione

IIA bivalenti (Be, Ca, Mg, Sr, Ba) 25

IVA tetravalenti (C, Si, Ge; Sn, Pb)

20

VA trivalenti (N, P, As, Bi, Sb)

15

VIA bivalenti (O, S, Se, Te, Po) VIIA monovalenti (F, Cl, Br, I)

Numero di ossidazione Il numero di ossidazione (N.O) è un numero convenzionale algebrico che

definisce il numero di elettroni effettivamente impegnati nella formazione di legami interatomici. Tale numero può essere conosciuto solo dopo aver definito l’intera molecola (composto) alla cui formazione concorre l’elemento. Il numero di ossidazione di ciascun elemento è dunque definibile a posteriori: esso può essere determinao solo dopo che si conoscono i tipi di lagame che esso realizza nell’intera molecola cui appartiene. Per ciascun elemento si possono solo prevedere, a priori solo i valori minimi e massimi in base al gruppo di appartenenza, per come riportato di seguito: IA

eV

IIIA trivalenti (B,Al, Ga, In, Tl)

21,56 17,41 14,45 13,61 11,26 9,32 8,98 8,29 5,39 5,01

10 5 0 0

5

10

15

Z L’ energia di ionizzazione segue il criterio di periodictà degli elementi, aumenta cioè con il progredire del periodo e i suoi valori sono comparabili nell’ambito del gruppo .

N.O min 0 max +1 49


note

Chimica generale IIA

N.O min 0 max +2

IIIA N.O min 0 max +3 IVA N.O min –4 max +4 VA

N.O min—3 max +5

VIA N.O min –2 max +6

Regola dell’ottetto: il livello più esterno di ogni atomo può contenere fino ad un massimo di otto elettroni cioè la configurazione del gas nobile, Fanno eccezione l’idrogeno e l’elio il ci orbitale si completa con due elettroni. La regola dell’ottetto costituisce la base razionale per la previsione del comportamento chimico di ogni elemento.

VIIA N.O min –1 max +7 Le convenzioni che permettono di calcolare il N.O. sono: A) Ciascun elemento che forma legami con se stesso (stato elementare) ha un numero di ossidazione zero. B) L ‘idrogeno combinato ha sempre N.O. = +1 (ad eccezione degli idruri ove ha valore –1) C) L’ossigeno combinato ha sempre N.O. = —2 (ad eccezione dei perossidi –O-O– in cui assume il valore di –1). D) Il numero di ossidazione dell’intera molecola deve essere zero N.O. = Il numero di ossidazione di uno ione corrisponde alla sua carica ionica. E) Per ogni altro il suo N.O. deve essere calcolato come numero algebrico in modo che l’N.O. dell’intera molecola sia sempre pari a zero.

2.8.Spettroscopia Le radiazioni elettromagnetiche (sia visibili che non) sono caratterizzate da una frequenza n pari al numero di oscillazioni nell'unità di tempo (espressa perciò in s-1). La radiazione si propaga con velocità c che è massima nel vuoto: c = 2,997925x10-8 ms-1 (cioè circa 300.000 km/s). Possiamo schematizzare lo spettro elettromagnetico come un insieme di bande di lunghezze d'onda decrescente in scala esponenziale, dalle onde radio fino ai raggi gamma: La lunghezza d'onda λ è lo spazio percorso nella direzione di propagazione x in una oscillazione completa. A è l'ampiezza, che corrisponde all'intensità della radiazione. La lunghezza d'onda è legata alla frequenza  attraverso la relazione  = c/, in cui c è la velocità della luce.

50 50

Gli atomi e le molecole se eccitati emettono radiazioni del tipo : infrarosso (IR) 9 x 10-2 ¸ 8 x 10-5 cm; visibile (Vis) 8 x 10-5 ¸ 4 x 10-5 cm; ultravioletto (UV) 4 x 10-5 ¸ 2 x -6 10 cm Ad ogni radiazione corrisponde un quanto di energia dato dalla relazione di Planck: secondo la relazione


Chimica generale

note

E = hν quantizzata secondo la costante di Planck h che vale: h = 6,626196 x 10-34 J s L'interazione luce-materia comporta scambi di E ed avviene per quanti o fotoni, pacchetti di energia hn Se eccitiamo degli atomi (sono gli elettroni a subire l'eccitazione, passando a livelli più alti di energia) questi, tornando al loro stato iniziale, emettono radiazioni che possiamo analizzare con un metodo che le disperda: può essere un prisma (per il visibile), come nello schema precedente, oppure un appropriato reticolo (per altre radiazioni). Analizzando lo spettro emesso dall'idrogeno nella zona del visibile, Johann Jacob Balmer (1825-1898), fisico svizzero, scoprì l'esistenza di una certa regolarità nelle righe dello spettro:

radiazioni possono venire disperse (o scomposte) nelle λ componenti, mediante prismi o reticoli. Lo schema rappresenta la dispersione della luce visibile, da parte di un prisma, nelle diverse lunghezze d’onda componenti.

51


note

La covalenza corrisponde al numero di elettroni spaiati che ciascun elemento possiede sull’ultima orbita. La valenza di ciascun elemento è definibile a priori, conoscendo la posizione che esso occupa nella tavola periodica

Chimica generale 1° GRUPPO: METALLI ALCALINI. Hanno un elettrone nel livello esterno. Litio (Li), Sodio (Na), Potassio (K). Hanno valenza rispetto H =1. 2° GRUPPO: METALLI ALCALINO-TERROSI. Hanno due elettroni nel livello esterno. Berillio (Be), Magnesio (Mg), Calcio (Ca). Hanno valenza rispetto H =2. 3° GRUPPO: ELEMENTI TERROSI. Hanno tre elettroni nel livello esterno. Boro (B), Alluminio (Al). Hanno valenza rispetto H =3. 4° GRUPPO: GRUPPO DEL CARBONIO. Hanno quattro elettroni nel livello esterno. Carbonio (C), (Si), Stagno (Sn), Piombo (Pb). Hanno valenza rispetto H = 4 . 5° GRUPPO: GRUPPO DELL'AZOTO. Hanno cinque elettroni nel livello esterno. Azoto (N), Fosforo (P), Arsenico (As). Hanno valenza rispetto H =3 6° GRUPPO:CALCOGENI Hanno sei elettroni nel livello esterno. Ossigeno (O), Zolfo (S). Hanno valenza rispetto H =2, 7° GRUPPO: ALOGENI . Hanno sette elettroni nel livello esterno. Fluoro (F) , Cloro (Cl) Bromo (Br), Iodio (I) .Hanno valenza rispetto H = 1. 8° GRUPPO: GAS NOBILI. Hanno otto elettroni nel livello esterno. Elio

(He), Neon (Ne), Argon (Ar),

Krypton (Kr), Xeno (Xe), Radon (Rn). Hanno valenza rispetto H = 0 (zerovalenti) 52 52


Chimica generale

note

53


1

Chimica generale Tavola Periodica Degli Elementi

2,1

H

1,0 4

Li

1,5

5

2,0

Be

litio

B

berillio

6

2,5 7

3,0

C

N

6,941

9,01218

10,81

Boro

Carbonio 12,011

14,0067

1

2

3

±4(2)

5(4)±3(2,1)

1,0 12

Na

1,2

13

Mg

1,5 14

Al

azoto

1,8 15 2,1

Si

Alluminio 26,9815

28,086

30,9738

1

2

3

±4

5(4)±3(1)

0,8 20

K

1,0

Ca

21

1,3 22

Sc

1,5 23

Ti

1,6 24

V

1,6 25

Cr

1,8 27

Fe

1,9 30

1,6

31

1,6

32

Zn

Ga

Ge

S

Zolfo

32,06

35,453

39,948

34

2,4 35

Se

Manganese 54,9380

55,847

58,9332

58,71

63,546

65,37

69,72

72,59

74,9216

Arsenico

Selenio 78,96

79,904

1

2

3

4(3)

5,4-(3,2)

6,3(2)

7,6(4,3)2

3,2

3,2

(3)2

2(1)

2

3

4

5,±3

(6)4(-2)

(5)±1

1,4 41

1,6 42

Nb

1,8 43

Mo

1,9 44

Tc

2,2 46

Rh

1,9 48

Ag

49

1,7 50

In

52

2,1 53

I

Zirconio 91,22

92,9064

Niobio

Molibdeno 95,94

98,9062

101,07

102,9055

Rodio

Palladio 106,4

107,868

112,40

114,82

118,69

Stagno

Antimonio

Tellurio

Iodio

1

2

3

4

(5)3

6(5,4,3)

7

(8,6)4,3(2)

(4)3(2)

(4)2

(2)1

2

3

4,2

5,±3

(6)4(-2)

7(5)±1

Cs

Ba

132,9055

1

cesio

87

1,3 73

1,5 74

Hf

137,34

138,9055

178,49

180,9479

Tantalio

Timgsteno

2

3

4

5

6(5,4,3)

Bario

0,9

Fr

Ra

Lantanio

89**

Afnio

1,1 104

Ac

Ku

Ha

(204)

(260)

(223)

226,0254

Attinio

Curciatovio

1

2

3

4

4f *

1,9 76

W

Re

183,85

186,2

2,2 77

Os

Renio

2,2 78

Ir

Osmio

Iridio

190,2

2,2 79

7(6,4,2,-1) (8,6)4(3,2) (6)4,3(2)

1,9

81

Hg

1,8

82

Tl

1,8 83

Pb

1,9

Bi

84

2,0 85

Au

Po

195,09

196,9665

Oro

Mercurio 200,59

204,37

Tallio

Piombo 207,2

208,9806

Bismuto

Polonio

Astato

4,2

(3)1

2(1)

(3)1

4,2

(5)3

(4)2

(7,5,3) ±1

(210)

58

1,1 59

Ce cerio

140,12

1,1 60

Pr

Praseodimio 140,9077

1,2 61

Nd

Neodimio 144,24

62

Pm

Promezio 144,24

1,2 63

Sm

64

Eu

Samario

Europio

150,4

151,96

1,1 65

1,2 66

Gd

Tb

157,25

158,9254

Gadolinio

Terbio

67

1,2

68

1,2

69 1,2

Dy

Ho

Er

Tm

162,50

164,9303

167,26

168,26

Disprosio

Olmio

Erbio

Tulio

70

1,1

Yb

Itterbio

173,04

90

1,3 91

Th torio

232,0381

4

1,5 92

Pa

Protoattinio 231,0359

1,7 93

U

Uranio

238,029

1,3 94

Np

Nettunio

237,0482

1,3 95

Pu

Plutonio (244)

1,3

96

97

Am

Cm

(243)

(247)

Americio

Vurio

98

Bk

Berchelio (247)

99

Cf

Californio (251)

100

Es

Fm

(254)

(257)

Einsteinio

Fermio

101

102

Md

Mendelevio (258)

Xe Xeno

(210)

(222)

71

1,2

Lu

Lutezio

174,97

103

No

Lr

(259)

(260)

Nobelio Laurenzio

5S(4D)5P

131,30

Rn

(4)3

5f **

Cripto

At

Anio

4S(3D)4P

83,80

2,2 86

Pt

Platino

192,22

2,4 80

127,60 126,9045

105

Radio

(227)

Ta

1,7 75

La

0,7 88

francio

1,1 72

121,75

Kr

2,5 54

Te

Ittrio

57*

Indio

1,9

Sb

88,9059

0,9

Cadmio

1,8 51

Sn

87,62

0,7 56

Argento

1,7

Cd

Stronzio

55

Rutenio

2,2 47

Pd

Bromo

rubidio

85,4678

Tecnezio

2,2 45

Ru

Argo

2,8 36

Br

Cromo

Zr

3S3P

6,4(±2) 7,5,3,±1

51,996

40

Neon

Ar

Cloro

2S2P

20,179

Cl

50,9414

Y

Ne

3,0 18

47,90

39 1,3

Gallio Germanio

2,0

As

2,5 17

Titanio

1,0

Zinco

(+1)-1

Scandio

Sr

Rame

-2(-1)

44,9559

0,8 28

Nichel

Fluoro

Fosforo

1,8 33

Cu

Ossigeno

15,9994 18,9984

40,08

Rb

Cobalto

1,8 29

Ni

F

1S

Elio

4,0 10

Calcio

37

Ferro

1,8 28

Co

O

9

potassio 39,102

Vanadio

1,5 26

Mn

Silicio

3,5

P

Magnesio 24,305

8

16

sodio

22,9898

19

7

4,0

1(-1)

11

6

1,0080

1(-1)

2

5

He

idrogeno

3

4

H

idrogeno 1,0080

3

2,1 2 note

1

Rado

6S(4F)(5D)6P


note

Chimica generale

Attinio

Ac

Numero Peso AtoAtomico mico 89 227.0278

Alluminio

Al

13 26.98154

Elemento

Simbolo

Elemento

Simbolo

Einsteinio Elio

Es He

Numero Ato- Peso Atomico mico 99 (252) 2 4.00260

Erbio

Er

68

167.26

Europio

Eu

63

151.96

100

(257)

Americio

Am

95

(243)

Antimonio

Sb

51

121.75

Argento

Ag

47 107.8682

Fermio

Simbolo

Argon

Ar

18

39.948

Fluoro

F

Arsenico

As

33

74.9216

Astato

At

85

(210)

Fosforo

P

Azoto

N

7

14.0067

Bario

Ba

56

137.33

Berkelio

Bk

97

(247)

Berillio

Be

4

9.01218

Bismuto Boro

Bi B

18.998403 15 30.97376

Simbolo

Numero Peso AAtomico tomico 71 174.967

Lutezio

Lu

Magnesio

Mg

12

24.305

Manganese

Mn

25

54.9380

Meitnerio

Mt

109

(266)

Mendelevio

Md

101

(258)

Mercurio

Hg

80

200.59

Molibdeno

Mo

42

95.94

Francio Gadolinio

Fr Gd

87 64

(223) 157.25

Neodimio

Nd

60

144.24

Neon

Ne

10

20.179

Gallio

Ga

31

69.72

Nettunio

Np

93 237.0482

Germanio

Ge

32

72.59

Nickel

Ni

28

58.69

Hafnio

Hf

72

178.49

Nielsbohrio

Ns

107

(262)

10.81

Hahnio

Ha

105

(262)

Niobio

Nb

41

92.9064

Hs

108

(265)

Nobelio

No

102

(259)

Oro

Au

79 196.9665

Osmio

Os

76

190.2

Ossigeno

O

8

15.9994

83 208.9804 5

9

Elemento

Bromo

Br

35

79.904

Hassio

Cadmio

Cd

48

112.41

Holmio

Ho

Calcio

Ca

20

40.08

Idrogeno

H

1

1.00794

Californio

Cf

98

(251)

Indio

In

49

114.82

Carbonio

C

6

12.011

Iodio

I

53 126.9045

Palladio

Pd

46

106.42

Cerio

Ce

58

140.12

Iridio

Ir

77

192.22

Piombo

Pb

82

207.2

Cesio

Cs

55 132.9054

Ferro

Fe

26

55.847

Platino

Pt

78

195.08

Cloro

Cl

17

35.453

Krypton

Kr

36

83.80

Plutonio

Pu

94

(244)

Cobalto

Co

27

58.9332

Lantanio

La

57 138.9055

Polonio

Po

84

(209)

Cromo

Cr

24

51.996

Potassio

K

19

39.0983

Lawrencio

Lw

Curio

Cm

96

(247)

Praseodimio

Pr

59 140.9077

Disprosio

Dy

66

162.50

Promezio

Pm

61

Litio

Li

67 164.9304

103 3

(260) 6.941

(145)


note

Chimica generale

Elemento

Simbolo

Numero Peso AtoAtomico mico

Elemento

Simbolo

Numero Peso AAtomico tomico

Protoattinio

Pa

91

231.0359

Tungsteno

W

74

183.85

Radio

Ra

88

226.0254

Unnilhexio

Unh

106

(263)

Radon

Rn

86

(222)

Ununnilio

Uun

110

(269)

Rame

Cu

29

63.546

Uranio

U

92

238.0289

Renio

Re

75

186.207

Vanadio

V

23

50.9415

Rodio

Rh

45

102.9055

Xenon

Xe

54

131.29

Rubidio

Rb

37

85.4678

Ytterbio

Yb

70

173.04

Rutherfordio

Rf

104

(261)

Yttrio

Y

39

88.9059

Rutenio

Ru

44

101.07

Zn

30

65.38

Sm

62

150.36

Zinco

Samario

44.9559

Zr

40

91.22

Sc

21

Zirconio

Scandio

Zolfo

S

16

32.06

Seaborgio

Sg

106

(263)

Selenio

Se

34

78.96

Silicio

Si

14

28.0855

Sodio

Na

11

22.98977

Stagno

Sn

50

118.69

Stronzio

Sr

38

87.62

Tallio

Tl

81

204.383

Tantalio

Ta

73

180.9479

Tecnezio

Tc

43

(98)

Tellurio

Te

52

127.60

Terbio

Tb

65

158.9254

Titanio

Ti

22

47.88

Torio

Th

90

232.0381

Tulio

Tm

69

168.9342

56


note

Chimica generale

Cap. III

Elementi di interesse biologico

3.1. IA Metalli alcalini: I metalli di questo gruppo (Li, Na, K, Ru, Cs) hanno struttura elettronica con un solo elettrone sull’orbitale più esterno s1 per cui, a causa del loro basso valore dei potenziali di prima ionizzazione, allo stato naturale piuttosto che come metalli si trovano allo stato ossidato e i loro cationi come sali minerali molto solubili. Tra questi cationi solamente o il sodio ed il potassio svolgono un ruolo significativo nei sistemi biologici. Essi sono presenti, in natura, in quantità praticamente equivalenti, tuttavia la loro distribuzione nei vari organi è ben diversa: in generale si può dire che Na+ è l'elettrolita più abbondante nei fluidi biologici extracellulari mentre K+ lo è nei fluidi intracellulari. Ciò è dovuto fondamentalmente ad un processo di scambio attivo intracellulare che prende il nome di pompa sodio-potassio. Essi sono tra i principali responsabili oltre del mantenimento della pressione osmotica e di una serie di importanti funzioni quali il mantenimento dei potenziali elettrici nelle cellule nervose. Insieme agli ioni Mg++ e Ca++ concorrono a regolare il tono muscolare e l'attività nervosa, agendo inoltre come mediatori nel processo della visione. In conseguenza della molteplicità delle funzioni svolte, evidente che qualunque sbilanciamento dell'equilibrio Na'/K' può sere responsabile di gravi alterazioni fisiologiche. Così, ad esempio, una eccessiva sudorazione, che provoca una perdita degli ioni, in particolare di Na+' e K+, può causare alcuni disturbi a carico dei sistemi nervoso e muscolare i cui segni con la comparsa di disturbi quali nausea, vomito, astenia e crampi muscolari.. La richiesta giornaliera di Na+ è di circa 2-3 grammi e quella di K+ è circa il doppio. Il loro sovradosaggio alimentare, in particolare per quanto riguarda il cloruro (sale da cucina) può essre motivo di alcuni disturbi principalmente correlati alla comparsa di fenomeni ipertensivi (ipertensione arteriosa).

3.2. IIA Alcalino terrosi. Tutti gli elementi di questo gruppo (Be, Mg, Ca, Sr, Ba) ,hanno una struttura elettronica con due elettroni nell’orbitale più esterno s2 . Il potenziale di prima e seconda ionizzazione è relativamente basso e permette facilmente la loro ossidazione con formazione dei relativi cationi bivalenti. Tra gli elementi di questo gruppo solo Mg e Ca rivestono particolare importanza per i ruoli biologici che essi svolgono. I loro sali hanno solubilità molto variabile in funzione dell'anione che li salifica. Questa duplice caratteristica di sali fortemente solubili, quali ad esempio i cloruri e praticamente insolubili quali i carbonati ed i fosfati spiega il duplice ruolo svolto sia


note

Chimica generale allo stato di cationi liberi che immobilizzati sotto forma di minerali insolubili. (calcoli, tessuto osseo di sostegno, ecc.) I1 magnesio è un tipico catione di supporto dell'attività di alcuni enzimi, e risulta abbondante all'interno dei sistemi cellulari dove partecipa alle più disparate attività metaboliche e fisiologiche grazie alle sue repentine variazioni di concentrazione intracellulare dove raggiunge il valore millimolare (mM), mentre è estremamente scarso nei liquidi extra-cellulari. Il Ca presenta invece è presente nel comparto cellulare in concentrazioni micromolare (µM.). Questa altissima concentrazione può subire variazioni di concentrazione di uno o più ordini di grandezza dovute al rilascio da parte di organelli di deposito o alla complessazione da parte di altri sistemi, possono essere repentine e causare una rapida regolazione di diversi meccanismi biologici. Il Calcio realizza complessi esacoordinati il che lo rende adatto ad occupare siti di regolazione enzimatica con gruppi proteici già legati in una struttura complessa. Esso costituisce circa il 2% del peso corporeo essendo immobilizzato per di circa il 99% come idrossiapatite 3 Ca3(P04)2.Ca(OH)2; fluoroapatite CaF2•3 Ca3(P04)2; cloroapatite CaC12 . 3Ca3 (P04)2 ; dallite CaC03.3 Ca3 (P04)2 che conferiscono ai vari apparati la necessaria rigidità (ossa , denti, ecc.), mentre Il rimanente 1% si trova praticamente nei liquidi extra-cellulari o in depositi intra-cellulari dai quali può essere rilasciato a seguito di stimolazioni chimiche opportune. Il mantenimento di una bassa concentrazione dello ione Ca++ libero nel liquido citoplasmatico è assicurato dai sistemi di trasporto attivo (le pompe ioniche) che estrudono il Ca++ agendo contro gradienti di concentrazione. Tra le funzioni regolate da questo ione ricordiamo: la contrazione muscolare, il corretto svolgimento delle attività nervose, la coagulazione del sangue e la regolazione dei flussi di altri ioni attraverso le membrane cellulari. In questa ultima veste il Ca++ si rivela un vero e proprio coordinatore di una gran parte delle funzioni cellulari anche quando non è coinvolto direttamente in quelle attività in quanto partecipa a mantenere nei limiti richiesti le concentrazioni di molti ioni. Il Mg++ non ha funzioni di supporto ma assolve a funzioni di regolazione essendo spesso un elemento da sito attivo cioè essenziale per lo svolgimento di attività enzimatiche. In particolare è in grado di formare complessi con i nucleotidi trifosfati (ad esempio l'adenosintrifosfato, ATP) essenziali per l'attività catalitica di molti enzimi. Va ricordato infine il ruolo he svolge nella formazione della clorofilla, il composto che forse più di ogni altro ha contribuito a modificare le condizioni ambientali dell’intero pianeta.

3.3. VI A Calcogeni Gli elementi del sesto gruppo (O, S, Se, Te; Po)) sono caratterizzati dal fatto di possedere in orbita esterna sei elettroni distribuiti negli orbitali s2 p4. Tra i non-metalli di questo gruppo tre sono quelli di rilevante interesse bio58 58


Chimica generale

note

logico O, S e Se. Con H danno composti binari con caratteristiche acide le cui costanti di dissociazione acida aumentano all'aumentare del peso atomico dell'elemento. L'ossigeno è l'elemento più abbondante sulla crosta terrestre ove si trova di norma combinato a formare H 2 O e ossidi. La sua abbondanza relativa è del 53,8%, il che lo rende di gran lunga più rappresentato di altro elemento. Nell'atmosfera O 2 si presenta libero con una abbondanza relativa di circa il 21 % e nel corpo umano esso rappresenta il 25,6 %.Di grande interesse per lo studio dei fenomeni biologici è la elevata presenza di O 2 nell'atmosfera. L'ossigeno molecolare libero deriva dalla presenza degli organismi capaci di liberarlo . La sua comparsa in quantità apprezzabili sulla Terra si ritiene sia cominciato circa due miliardi di anni fa in concomitanza con un notevole sviluppo delle alghe verdi fotosintetiche contenenti clorofilla. Un altro importante fattore per il mantenimento della vita sulla Terra, è dovuto alla presenza nell’atmosfera di ozono (uno stato allotropico dell’ossigeno con formula O 3 ) che schermando i raggi ultravioletti ha contribuito notevolmente al mantenimento degli organismi.. Le forme attivate di O2 prendono il nome di ossigeno singoletto, O', e sono estremamente reattive. Per andare nello stato caratteristico di singoletto è necessario fornire energia. L'entità di tale energia potrebbe acquistarla dalle radiazioni solare la cui energia non è in grado di eccitare la molecola. Ciò può invece avvenire mediante il legame che esso esercita con i pigmenti respiratori qual è la protoporfirina. Alcune manifestazioni cliniche di questo fenomeno possono essere osservate nelle patologie note come porfirie in cui si ha emolisi dei globuli rossi, a seguito dell'esposizione alla luce solare, probabilmente mediata da O'. L'ossigeno oltre ad essere essenziale per la vita può quindi rivelarsi anche un agente tossico. Grande importanza assumono infatti i meccanismi

di detossificazione dai derivati reattivi dell'ossigeno la cui riduzione porta alla formazione

dell'anione superossido. La reazione questo radicale può andare incontro è la sua dismutazione in acqua ossigenata e, probabilmente, O'. L’ acqua ossigenata è un agente ossidante ta reazione è tossica porta alla formazione di radicale HO·

c;he è il più potente ossidante conosciuto può agire sullo ione ferroso

emoglobinico ossidandolo a ione ferrico: H2O2 + Fe++ → OH - + HO- + Fe+++ Nelle cellule aerobiche la concentrazione di questo anione raramente raggiunge i valori necessari per la sua la spontanea dismutazione e pertanto il radicale superossido può reagire con altre molecole danneggiandole. Per questo motivo esiste in tutte le cellule aerobiche un enzima scavenger (letteralmente: spazzino) la superossido dismutasi, (SOD) che catalizza la reazione di dismutazione anche a concentrazioni estremamente basse proteggendo così le altre strutture cellulari. La più importante funzione sostenuta da O2 nei tessuti animali è la respirazione cellulare, durante la quale 59


note

Chimica generale una molecola di O2 reagisce con quattro atomi di idrogeno per formare H ZO ed energia che viene poi immagazzinata prevalentemente sotto forma di ATP. La riduzione di O2 consiste nella somma in sequenza di 4 elettroni. Questa riduzione reazione fortemente esoergonica è la fonte primaria di energia per tutte le cellule aerobiche. Lo zolfo è formalmente, simile ad O. In realtà la totale disponibilità degli orbitali 3d vuoti, la cui energia di poco superiore a quella degli orbitali 3s e 3p, conferisce allo zolfo caratteristiche umiche ben diverse del suo omologo inferiore: presenta diversi numeri di ossidazione (da - 2 a +6.). Negli stati di ossidazione più elevati esso dà luogo ad anidridi che portano alla formazione di due ossiacidi:H2SO4 e H ZSO3, entrambi acidi forti cioè completamente dissociati. Allo stato di massima riduzione forma l’acido solfidrico, composto omologo dell’acqua. Il caratteristico gruppo sulfidrilico (-SH) lo troviamo in molti composti tra i quali ricordiamo la cisteina che, formando il suo dimero cistina e nel glutatione che risulta essenziale per la detossificazione dai derivati reattivi di O2 grazie allazzione di ossidazione del glutatione ridotto a glutatione ossidato. Altri composti che sontengono il sulfidrile sono l’aminoacido treonina ed il coenzima A, quest’ultima specializzata nel trasporto di radicali acilici, che lega al proprio gruppo -SH. È proprio il suo caratteristico modo di ossidarsi che dà luogo alla formazione di gruppi disolfuro (S-S), Nello stato di massima ossidazione (+6), dà luogo alla formazione dello ione solfato (S04——) che, oltre a costituire la forma in cui questo elemento viene eliminato dall'organismo, entra anche a far parte della struttura di alcuni importanti mucopolisaccaridi quali ilcondroitin-solfato, e l'acido ialuronico. In tutte queste molecole la presenza di ioni solfato e solfito ne aumenta la idrofilicità e fa sì che con l’acqua esse formino dei gel stabili che sono essenziali per il mantenimento delle proprietà strutturali delle cartilagini e della pelle. Sempre nello stato di massima ossidazione S partecipa alla eliminazione di metaboliti rendendoli più solubili in H2O e permettendone così l'escrezione urinaria. Il s e l e n i o . N o n ostante la sua configurazione elettronica sia simile a quelle di O e S, poiché gli elettroni di valenza si trovano nel quarto livello e quindi molto schermati dal nucleo, la minore elettronegatività espressa fa sì che le proprietà dell'elemento non siano più decisamente non metalliche ma risultino tipicamente anfoteri. Il selenio è un elemento essenziale nella dieta ma in quantitativi estremamente modesti, circa in centinaio di microgrammi al giorno. Elevati dosaggi di Se risultano tossici provocando danni al meccanismo della visione e necrosi del fegato. In quantità molto basse è invece indispensabile per la normale attività dell'enzima glutatione perossidasi che svolge un ruolo essenziale per la detossificazione dei fluidi biologici dai perossidi. L'elevata tossicità di Se dipende dalla sua capacità di sostituire S in molti composti dando luogo a individui chimici estremamente più reattivi

3.4. Metalli del gruppo B 60 60


Chimica generale

note

Tutti gli elementi di transizione hanno due elettroni nell’orbitale esterno s2 ed uno o più elettroni nell’ orbitale d. Tutti gli elementi di transizione sono dunque metalli caratterizzati dalla possibilità di dare luogo alla formazione di ioni complessi con molecole aventi una o più coppie di elettroni disponibili per formare legami di tipo dativo. Il Fe può che ha configurazione elettronica 1s2 2s2 2p6 3s2 3p6 3d6 4s2 può cedere i due elettroni 4s ossidandosi a ione ferroso Fe ++ che può ulteriormente ossidarsi a ione ferrico cedendo un elettrone dal 3d; gli ioni Fe++ e Fe+++ possono poi dare luogo alla formazione di ioni complessi esacoordinati con gruppi in grado di donare coppie di elettroni. Un esempio di questi donatori è lo ione cianuro: CN- che complessandosi con gli ioni Fe dà luogo a: ione ferrocianuro [Fe(CN)6]----; ione ferricianuro [Fe(CN)6]---. Nell'uomo la quasi totalità di Fe si trova sotto forma di composti di coordinazione con molecole capaci di donare una coppia di elettroni. Il sistema costituito da quattro anelli pirrolici uniti fra di loro da ponti metinici per formare la porfirina, L’emoglobina è un tetramero formato da 4 catene polipeptidiche, due a due uguali, ed ogni catena è associata ad un gruppo prostetico, l'eme, che contiene un atomo di ferro bivalente (Fe`). L'emoglobina nel polmone, dove la pressione parziale dell'ossigeno è alta, è in grado di legare a ciascuna subunità una molecola di ossigeno. L'ossigeno viene liberato nei tessuti e impiegato nella respirazione cellulare dà luogo ad una struttura che permette agli atomi di azoto pirrolici di coordinarsi stabilmente con gli ioni Fe. Questo tipo di complesso costituisce l’eme presente sia nell'emoglobina che nei citocromi che sono le macromolecole deputate al trasporto di Ossigeno e di elettroni rispettivamente. C=O o lo ione CN— sono in grado di dare complessi stabili sia con l'emoglobina che con i citocromi rendendoli quindi indisponibili a svolgere le proprie funzioni. Si spiega così perché la loro tossicità L'eme è formato da uno scheletro costituito da 4 anelli pirrolici uniti da 4 ponti metinici (-CH=). A causa della risonanza la posizione dei singoli e dei doppi legami nel nucleo tetrapirrolico dell'eme non può essere definita e la formula riportata a lato non è che una delle diverse formule che possono essere scritte. I numerosi doppi legami fanno sì che la struttura sia piana. Il nucleo tetrapirrolico privo di sostituenti

Il Fe ha configurazione elettronica 1s2 2s2 2p6 3s2 3p6 3d6 4s2 può cedere i due elettroni 4s ossidandosi a ione ferroso Fe ++ che può ulteriormente ossidarsi a ione ferrino cedendo un elettrone dal 3d; gli ioni Fe++ e Fe+++ possono poi dare luogo alla formazione di ioni complessi esacoordinati per ibridazione Ibridazione sp3d2: tali orbitali si realizzano per mescolamento di un orbitale s con tre orpitali p e due orbitali d; si formano quindi sei orbitali ibridi diretti lungo i vertici di un ottaedro regolare e in grado di formare legami cocrdinativi con gruppi in grado di donare coppie di elettroni.

sugli atomi di carbonio periferici si chiama porfina, un composto che non esiste in natura. Esistono invece numerosi derivati che si differenziano per il tipo di sostituenti. Nella protoporfirina i sostituenti sono 4 radicali metilici, 2 vinilici e 2 di propionato. La distribuzione di questi gruppi può essere varia per cui esistono 15 forme isomeriche di protoporfirina. Quella dell'eme è la protoporfirina IX. I 4 azoti, rivolti all'interno del nucleo tetrapirrolico planare, costituiscono un sito capace di alloggiare ioni metallici come Fe

2+, Fe 3+ e,

Mg2+ o Co+ +. Due azoti pirrolici dissociano H+ acquistando una carica

negativa ciascuno; le due cariche negative sono distribuite uniformemente sui 4 atomi di azoto per effetto della risonanza. Sia il ferro ferroso che il ferro ferrrico formano 6 legami di coordinazione: 4 61


note

Chimica generale giacciono sul piano tetrapirrolico mentre gli altri due sono ortogonali a detto piano; uno è utilizzato per legare il residuo istidinico della globina, e l’altro per legare l’eventuale molecola di O=O o C=O nel primo caso si ha formazione di ossiemoglobina HbO 2 , nel secondo si forma la carbossiemoglobina (HbCO). Per capire il meccanismo è innanzitutto necessario considerare i legami dell'Fe2+ con la porfirina e la globina. Il'Fe2+ varia il tipo di legame coordinativo con l'ossigenazione: è prevalentemente ionico nella deossiemoglobina e prevalentemente covalente nell'ossiemoglobina. Questa variazione è dimostrata dallo stato degli elettroni degli orbitali esterni dell'Fe2+. La deossiemoglobina è una sostanza paramagnetica e questo indica che vi sono elettroni spaiati (sono 4) negli orbitali 3 d del ferro e che l’Fe

2+

è unito ai 4 azoti

dell'anello tetrapirrolico e a quello dell'His con legami coordinativi prevalentemente ionici. Quando l'O2 si lega al sesto legame i 4 elettroni spaiati dell'Fe2+ vengono spinti ad occupare due soli

Ferroprotoeme (eme)

orbitali 3 d e i 6 orbitali esterni ricevono doppietta elettronici dai 5 azoti e dall'ossigeno (figura a lato). I legami di coordinazione sono in questo caso prevalentemente covalenti. L'ossiemoglobina è una sostanza diamagnetica perché priva di elettroni spaiati. Nella deossiemoglobina l’ Fe2+ a causa della situazione dei suoi elettroni è troppo voluminoso per entrare nel centro dell'eme e si trova spostato verso l'istidina della globina. L'ossigeno legandosi al sesto legame di coordinazione modifica la situazione degli orbitali del Fe2+; il cui raggio ionico diminuisce del 13 % circa. Il Fe2+ può così inserirsi al centro della porfirina. Ne risulta un movimento di circa 1 A del ferro che trascina verso l’eme l’ His. globinica. Il piccolo cambiamento nel raggio del ferro viene così amplificato in un movimento di maggiore entità della catena globinica. Questo movimento rappresenta la prima delle complesse modificazioni molecolari provocate dall'assunzione di ossigeno.

62 62


note

Chimica generale

Cap IV Gli orbitali ibridi 4.1. Tipi di ibridazione L’ibridazione è quel fenomeno per cui due o più orbitali atomici di livelli energeticamente comparabili si combinano fra di loro per dare altrettanti orbitali isoenergetici che vengono detti ibridi, cioè ottenuti per mescolamento di due o più orbitali puri. L’ibridazione si ha in genere in concomitanza alla formazione del legame. A seconda del tipo e del numero di orbitali puri che partecipano al mescolamento si possono avere i diversi tipi di ibridazione: Ibridazione digonale o sp: si realizzano per mescolamento di un elettrone in s con un elettrone in p; si formano quindi due orbitali ibridi che formano tra do loro un angolo di 180°. Ibridazione trigonale o sp2: si realizzano per mescolamento di un elettrone in s con due elettroni in p; si formano quindi tre orbitali ibridi che formano tra loro un angolo di 120°. Per la loro natura geometrica essi giacciono sullo stesso piano. Ibridazione tetragonale o sp3: si realizzano per mescolamento di un elettrone in s con tre elettroni in p; si formano quindi quattro orbitali ibridi che formano tra loro un angolo di 109,50°. Per la loro natura geometrica essi sono diretti lungo i vertici di un tetraedro. Geometria lineare triangolare planare tetraedrica bipiramidale triangolare ottaedrica bipiramidale pentagonale

ibridazione sp sp2 sp3 sp3 d sp3 d2 sp3 d3

I quattro elettroni spaiati del carbonio possono ibridare in tutte e tre le forme suddescritte dando cosi origine ai composti saturi (sp3 ) ed insaturi con doppi legami (sp 2) e tripli legami (sp). Ibridazione planare quadrato sp2d: si realizzano per mescolamento di un elettrone in s con due elettroni in p e un elettrone in d; si formano quindi quattro orbitali ibridi formanti tra loro un angolo di 90°. Per la loro natura geometrica essi sono diretti lungo i vertici di un quadrato giacente sul piano xy Ibridazione trigonale bipiramidale sp3d: si realizzano per mescolamento di un elettrone in s con tre elettroni in p e un elettrone in d; si formano quindi cinque orbitali ibridi diretti lungo i vertici di una bipiramide trigonale. Tipica dei composti

pentacoordinati.


Chimica generale

note

Ibridazione ottaedrica sp3d2: si realizzano per mescolamento di un elettrone in s con tre elettroni in p e due elettroni in d; si formano quindi sei orbitali ibridi diretti lungo i vertici di un ottaedro regolare.

4.2. I Complessi di coordinazione I complessi di coordinazione formano una classe molto vasta ed importante di sostanze chimiche. In realtà ogni ione in soluzione acquosa è coordinato con molecole d'acqua ed i processi di idratazione e di solvatazione portano alla formazione di ioni di coordinazione. Oltre alla formazione di ioni di coordinazione con molecole polari neutre, i cationi possono legarsi con gruppi di anioni dando luogo ad altri numerosi complessi di coordinazione. Ad esempio, lo ione ferroso Fe ++ , si combina con lo ione cianuro per formare il complesso Fe(CN) 64-. La maggior parte dei complessi di coordinazione, sono formati da cationi associati con molecole o anioni. Comunque, anche i complessi dei non metalli hanno proprietà chimiche molto simili a quelle dei complessi metallici. In senso lato, tutti gli aggruppamenti poliatomici potrebbero considerarsi complessi di coordinazione. Possiamo spiegare la geometria dei complessi attraverso il concetto di ibridazione degli orbitali dello ione centrale e tutte le geometrie dei complessi si possono spiegare come dovute a particolari ibridazioni dello ione centrale. Si osservi che lo ione deve avere un gruppo opportuno di orbitali vuoti perché i ligandi possano disporvi gli elettroni di legame. La base chimica per la formazione di un complesso di coordinazione è il legame di coordinazione. Perché si abbia la formazione di questo legame, deve esistere un accettore di una coppia di elettroni e un donatore. Quindi, le reazioni di coordinazione sono esempi di neutralizzazioni acido-base secondo Lewis. Lo ione centrale è l'acido di Lewis o accettore di coppie di elettroni e i gruppi intorno, detti ligandi, sono basi di Lewis o donatori di coppia elettronica. Si noti che i ligandi possono essere molecole come NH 3, o anioni come CN-, NO2 — e F—. La natura del legame di coordinazione varia da covalente a ionica. Nel caso di complessi come Na (HZO)x+ in soluzione acquosa, lo ione sodio interagisce con le molecole d'acqua di coordinazione. I ligandi possono essere polari o polarizzabili e possedere coppie elettroniche disponibili per la formazione di legami di coordinazione con lo ione centrale. I ligandi si possono classificare in unidentati e polidentati in base alla loro capacità di formare legami, e l’intero complesso viene chiamato chelato ed il legante polidentato viene detto chelante. Per molti aspetti il legame nei complessi è analogo a quello elle molecole covalenti, con legami

64


note

Chimica generale direzionali che danno strutture lineari, tetraedriche e ottaedriche.

4.3. Teoria VSEPR e geometria molecolare Gli elettroni di legame tendono a disporsi il più lontano possibile gli uni dagli altri, in modo da rendere minima la forza repulsiva e più stabile l'intera molecola. La teoria VSEPR (Valence-Shell Electron-Pairs Repulsion) partendo da semplici considerazioni sulla repulsione elettrostatica che i doppietti elettronici esercitano reciprocamente, permette di prevedere gli angoli di legame e quindi l’intera geometria delle molecole. . La teoria prevede inoltre che i doppietti elettronici liberi (non impegnati in legami) tendano ad occupare un volume maggiore rispetto ai doppietti elettronici condivisi (impegnati in legami) e esercitino in

a) 2 doppietti Presentano struttura di questo tipo, p.e.:l'anidride carbonica CO2 O=C=O l'acido cianidrico HCN H—C≡N

b) 3 doppietti Struttura trigonale relativa a 3 doppietti impegnati nella formazione di legami. p.e. lo ione carbonato CO3——

definitiva una forza repulsiva più intensa. In generale le intensità della repulsione esercitata tra coppie di elettroni varia in maniera decrescente secondo: repulsione tra doppietti > repulsione tra doppietti liberi e di legame > repulsione tra doppietti di legame. Sulla base di queste semplici premesse possiamo esemplificare alcune delle strutture geometriche molecolari previste dalla teoria VSEPR distinguendo i seguenti casi: A) 2 doppietti Il caso più semplice consiste in un atomo centrale con due coppie di elettroni. La teoria prevede in tal caso una struttura lineare con i doppietti elettronici equidistanti, a formare angoli di 180°, come a lato esemplificato. B) 3 doppietti La teoria prevede una struttura trigonale planare con angoli di 120°. Possiedono tale struttura, ad es. lo ione carbonato CO3—— (vedi figura a lato). Nel caso di un doppietto non impegnato in alcun legame esso esercita una repulsione maggiore sui due doppietti impegnati, i quali si avvicinano leggermente. Ne risulta una struttura con un angolo di legame leggermente inferiore a 120°. possiedono strutture di questo tipo l'anidride solforosa SO2 e l'ozono O3 .

Struttura trigonale planare con un doppi etto n on impegnato. Possiedono tate struttura l’anidride solforosa e l’ozono.

C) 4 doppietti La teoria prevede una struttura tetraedrica con angoli di legame di 109,5°. Hanno strutture di questo tipo il metano CH4 e lo ione solfato SO42-. Nel caso uno dei doppietti non sia condiviso rimane una struttura a piramide triangolare, con gli angoli leggermente compressi, minori di 109,5° (intorno ai 107°). Le strutture VSEPR con più di 4 doppietti elettronici sono più complesse, specialmente quando vi sono coppie elettroniche non impegnate in legami. Diamo di seguito solo le strutture con più di 4 doppietti e tutte le coppie impegnate in legami. Nel caso di un doppietto non impegnato in alcun legame si ha una struttura a piramide triangolare, con gli

65 65


note

Chimica generale angoli leggermente minori di 109,5° (intorno ai 107°) p. es. l’ammoniaca e lo ione solfitoNel caso le coppie non impegnate in legami siano 2 rimane una struttura angolare con angoli ancor più compressi (per le presenza di due doppietti liberi), intorno ai 103 - 104°.P.e. l'acqua H2O e l'acido solfidrico H2S.

c) 4

doppietti

Struttura tretraedica con angoli di legame di 109,5° (a sinistra) e con un doppietto non impegnato nella formazione di legami.(a destra).

E) 5 doppietti La teoria prevede una struttura bipiramidale triangolare (due piramidi a base triangolare, aventi la base in comune. Presenta una struttura di questo tipo il pentacloruro di fosforo PCl5. f) 6 doppietti La teoria prevede una struttura ottaedrica (due piramidi a base quadrata con la base in comune. Presenta una struttura di questo tipo l'esafluoruro di zolfo SF6. g) 7 doppietti La teoria prevede una struttura bipiramidale pentagonale (due piramidi a base pentagonale, aventi la base in comune). Presenta questa struttura l'eptafluoruro di iodio IF7. Le strutture previste dalla teoria VSEPR sono state ampiamente confermate dai dati sperimentali.

Esempi di molecole con due doppietti di legame e due doppietti non impegnati nella formazioni di alcun legame.

L'introduzione del concetto di orbitale ibrido è una diretta conseguenza dei buoni risultati che tale teoria consente di ottenere nel prevedere la geometria delle molecole. In altre parole se la teoria prevede per una certa molecola una struttura tetraedrica e tale struttura viene sperimentalmente confermata, diventa necessario ipotizzare che l'orbitale s e i 3 orbitali p superficiali si siano mescolati a formare 4 orbitali perfettamente identici (ibridazione sp3). Vi è dunque una stretta corrispondenza tra geometria delle molecole e tipi di ibridazione. E' opportuno sottolineare che una particolare ibridazione viene assegnata solo dopo che le previsioni VSEPR sulla geometria della molecola sono state sperimentalmente confermate.

66


note

Chimica generale

Cap V I Legami chimici 5.1 Rimaneggiamento elettronico. Nel corso di una reazione gli atomi acquistano, perdono o compartecipano un numero di elettroni tale che il loro strato esterno contenga sempre otto elettroni, cioè la configurazione tipica di un gas nobile. E’ il modo in cui vengono rimaneggiati questi elettroni esterni che condiziona il tipo di legame interatomico realizzato. Col termine legame chimico si indicano globalmente le interazioni fra i singoli atomi con formazione di aggregati stabili di dimensioni e struttura definita cui si da il nome di molecole ovvero alla formazione di cristalli ionici o di tipo metallico. Tali aggregati si formano in quanto i singoli atomi hanno la possibilità di risistemare i loro elettroni delle orbite esterne che assumono confígurazioni energeticamente più stabili. La natura dei legami chimici dipende dalla natura chimica degli atomi reagenti in quanto alcuni hanno tendenza a cedere elettroni ossidandosi nei rispettivi in ioni positivi (cationi), altri invece tendono ad acquistare uno o più elettroni, riducendosi

Reazione di trasferimento di un elettrone da un atomo di F ad uno di Cl e formazione di ioni Na+ e Cl– ciascuno configurante l’ottetto dei gas nobili Ne e Ar

nei rispettivi anioni. Gli atomi possono raggiungerre la configurazionee elettronica otteziale in due modi e due sono fondamentalmente i tipi di legame che essi formano: un tipo di legame è quello ionico, che si verifica con trasferimento di elettroni da un orbitale esterno di un atomo a quello di un atomo di un altro elemento. L'altro tipo di legame è quello covalente, che avviene mediante la messa a comune di elettroni da parte di due o più atomi. Ma una descrizione più completa si ottiene solo con ipotesi che tengono conto della meccanica quantistica. Queste teorie hanno avuto origine da due approcci distinti: il metodo del legame di valenza (valence bond) di Pauling ed il metodo degli orbitali molecolari di Mulliken.

5.2 Legame ionico. Il legame ionico o legame elettrostatico si verifica normalmente tra un atomo avente un basso valore del potenziale di ionizzazione ed un atomo con elevata affinità elettronica. Quando, ad esempio, vengono posti in reciproca presenza un atomo di sodio ed uno di cloro, l'atomo di sodio che,come abbiamo già visto possiede un basso valore del potenziale di ionizzazione cede facilmente l'elettrone che possiede sull'orbitale 3s-Il cloro,invece,a causa della sua notevole affinità elettronica acquista facilmente un elettrone.Pertanto,nella reazione tra sodio e cloro,il sodio cede un elettrone che viene acquistato dal cloro. L'atomo di sodio perdendo l'elettrone diventa Na+ con configurazione elettronica esterna ad ottetto,mentre l'atomo di fluoro completa il suo ottetto acquistando l'elettrone e formando lo ione cloruro: Na + Cl → Na+ + Cl— I due ioni che così si sono formati si attraggono reciprocamente con forze di natura coulombiana e danno luogo al


note

Chimica generale composto cloruro di sodio (NaCl). Questi ioni si arrangiano nello spazio impaccandosi in reticoli, detti cristallini, in quanto danno origine per ripetizione in tutte le direzioni dello spazio danno luogo al vero e proprio cristallo.

∆EN

0.2

0.4

0.6

0.8

1.0

1.2

1.4

1.6

1.8

2.0

2.2

2.4

2.6

2.8

% ionicità

1

4

9

15

22

30

39

47

56

63

70

76

82

86

5.3 Legame covalente. II legame covalente consiste nella messa a comune o condivisione di elettroni, in modo tale che essi si vengono a trovare contemporaneamente sotto l'influenza di due nuclei. Un legame covalente è un legame più difficile da visualizzare del legame ionico perché comporta un'interazione piuttosto complessa fra

Interazione tra le particelle presenti in una molecola di idrogeno

nuclei ed elettroni. La sua stabilità si può attribuire alla attrazione di ambedue i nuclei per la coppia di elettroni messa a comune. Allo stesso tempo, però, esistono forze repulsive tra i due nuclei e tra le nuvole elettroniche degli atomi legati. Queste forze sono grossolanamente schematizzate nel caso semplice della molecola d'idrogeno nella figura a lato. Questo tipo dì modello statico non rappresenta, però, fedelmente la molecola, perché gli elettroni non sono fermi ma hanno una distribuzione spaziale intorno ad ambedue i nuclei, esattamente come in un orbitale atomico. É chiaro, tuttavia, che, anche in questa situazione dinamica, ciascun elettrone, indipendentemente dalla sua provenienza, viene attratto da ambedue i nuclei. Ogni atomo possiede sull’ultima orbita almeno uno o più elettroni alcuni saranno allo stato di singoletto (elettroni spaiati) altri allo stato di doppietto (coppie di elettroni). spaiati e pertanto tenderà a formare legami con altri atomi allo scopo di realizzare la configurazione otteziale, per cui ciascun elettrone spaiato realizza una situazione di massima stabilità appaiandosi con un altro elettrone. Tale situazione si realizza o per trasferimento o per compartecipazione. Nel primo caso si formano gli ioni legati da forze elettrostatiche nel secondo l’appaiamento si realizza allorquando i due atomi entrano in reciproco contatto. Avviene così un processo di sovrapposizione degli orbitali atomici con formazione di un nuovo orbitale detto orbitale molecolare (OM). Gli elettroni di un legame covalente occupano un orbitale di legame. La teoria quantistica impone agli orbitali di legame limitazioni del tutto simili a quelle esistenti per gli orbitali atomici. Il principio di esclusione di Pauli impone, anche in questo caso, che i due elettroni di legame debbano avere spín opposti. Inoltre, l'orbitale non può essere occupato da più di due elettroni.

68


note

Chimica generale Due differenti teorie sono state sviluppate per spiegare la diminuzione di energia che accompagna la formazione di un legame covalente. La teoria del legame di valenza è la più vecchia e, in genere, descrive bene le geometrie molecolari. Tuttavia, raramente fornisce informazioni quantitativamente esatte sugli stati di energia delle molecole. La teoria degli orbitali molecolari è migliore della prima per quello che riguarda l'aspetto energetico del problema. Esamineremo i concetti base di ciascuna teoria poiché ambedue forniscono descrizioni delle molecole qualitativamente corrette. Esse differiscono radicalmente soprattutto nel modo di descrivere il processo di formazione del legame covalente. La teoria del legame di valenza individua la formazione di legami covalenti nella sovrapposizione di orbitali atomici. Quando due atomi si avvicinano l'un l'altro, gli orbitali atomici si sovrappongono e si viene a formare un orbitale di legame. Se i due elettroni hanno spin opposti all'avvicinarsi degli atomi l'energia del sistema diminuisce per la comparsa di nuove forze attrattive tra nuclei ed elettroni. L'energia decresce fino a che un ulteriore riduzione della distanza interatomica provoca un brusco aumento della repulsione fra i nuclei. Quindi, la curva di energia passa per un minimo che, per la molecola H2, corrisponde a 0,74 A: questa è la distanza di legame della molecola. Per distanze interatomiche minori o maggiori, il sistema possiede energia maggiore. La massima densità elettronica si trova lungo l'asse di legame, ma gli elettroni sono distribuiti anche attorno ai due nuclei, incluse le regioni esterne dello spazio internucleare. Per avere un minimo dell'energia potenziale è necessario che i due elettroni abbiano spin opposto. Se gli spin sono paralleli, l'energia potenziale cresce. In questo caso non si verifica legame e il sistema consegue l'energia minima quando gli atomi sono separati, a distanza infinita.Oltre a soddisfare questi requisiti energetici, gli orbitali debbono avere geometrie opportune per formare legami. Soltanto gli orbitali s hanno simmetria sferica intorno al nucleo e, quindi, possono interagire in qualsiasi direzione con altri nuclei. Vediamo, per esempio, il ruolo degli orbitali p nel legame della molecola di fluoro, F2, e nell'acido fluoridrico, HF. Nel fluoro, l'orbitale di legame é costituito da uno degli orbitali atomici 2p di ciascun atomo di fluoro. Analogamente, il legame H-F risulta dalla combinazione dell'orbitale ls dell'idrogeno e dall'orbitale 2p del fluoro. I legami, in ambedue le molecole, giacciono nella direzione in cui gli orbitali atomici 2p del fluoro hanno alta densità elettronica. Esaminiamo sotto questo aspetto la molecola N2 . Questa può essere rappresentata come :N: : :N: ovvero: N≡N

69 69


Chimica generale

note

ed è caratterizzata da un triplo legame. L'atomo di azoto ha la seguente struttura elettronica fondamentale 1sz2s22px12py12pZ1 ed è facile quindi capire che il triplo legame nasce dalla sovrapposizione dei tre orbitali 2p dei due atomi d’azoto In generale quando due atomi di uno stesso elemento si uniscono tra di loro il legame che si forma è un legame apolare,in quanto entrambi gli atomi posseggono la stessa elettronegatività. In questo caso si ammette che il legame avvenga con la messa a comune degli elettroni di valenza. Questo tipo di legame è detto legame covalente apolare. Ogni orbitale molecolare ospita cosi un doppietto di elettroni a spin antiparallelo, detto doppietto di legame. La forza del legame è, come detto, tanto più grande quanto maggiore è la sovrapposizione degli orbitali atomici che concorrono alla sua formazione. A seconda della densità di distribuzione elettronica di tate doppietto, i legami si distinguono in σ e π,

5.3.1 Legame σ Un legame covalente si dice di tipo sigma (σ) σ) quando la massima'densità elettronica si trova lungo la congiungente i nuclei dei due atomi. La più semplice molecola con legame σ è quella dell'idrogeno, dove l'orbitale molecolare è dovuto alla sovrapposizione di due orbitali atomici s. Un legame si dice di tipo pi-greco (π) quando il massimo di densità elettronica si trova al di fuori della congiungente i nuclei: Il legame Π ha origine per sovrapposizione laterale di due orbitali p fra loro paralleli. Nel caso della formazione di una molecola di cloro (Cl2), ad esempio, si ha che i due atomi di cloro di configurazione elettronica 1s 2,2s2,2p6,3s2,3p5, completano il loro ottetto mettendo in comune un elettrone per ciascuno Indicando con un trattino le coppie di elettroni scriveremmo anche: Cl ─C l Gli elettroni che formano il legame σ sono quelli che da soli occupano un orbitale p e perciò detti spaiati.

5.3.2. Legame π E' frequente il caso in cui gli elettroni messi in comune tra due atomi siano più di due; in tal caso il legame si dice doppio: uno σ e l’altro π . Gli elettroni messi in comune nel doppio legame sono quattro. Un legame si dice triplo ( uno σ e due Π) se gli elettroni condivisi sono sei. Nella molecola di acetilene (C2H2), ad esempio ciascun atomo di carbonio mette in comune anche i due lettroni π spaiati e si forma un triplo legame (uno σ e due π, ovvero :

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note

Chimica generale H— C ≡ C —H Il legame covalente si verifica anche tra atomi diversi che presentano valori di elettronegatività non molto differenti tra loro In tal caso il legame covalente è anche parzialmente ionico o polare. Ad esempio nel caso della molecola di acido cloridico (HCl) l'atomo di cloro è più elettronegativo dell'atomo di idrogeno; ne consegue che la coppia di elettroni messa in comune non è egualmente condivisa tra i due atomi, ma è più spostata verso il cloro per cui la moleco di HCl è un dipolo:Questo significa che il legame che tiene uniti gli atomi di idrogeno e di cloro della molecola di HCl è in parte di tipo covalente ed in parte di tipo ionico. La polarità di una molecola non dipende solo dalla differenza di elettronegatività ma anche dalla sua geometria che viene definita dagli angoli di legame soprattutto quando la molecola è poliatomica. Se un atomo è unito ad altri due atomi l’angolo compreso tra i due assi di legame è detto angolo di legame. La distanza tra i nuclei di due atomi legati covalentemente lungo l’asse di legame è detta distanza di legame oppure lunghezza di legame. Questa lunghezza non è costante perché il legame si comporta come se fosse una molla: gli atomi vibrano come se il legame si allungasse e si contraesse alternativamente. Quando il legame covalente riguarda molecole costituite da atomi aventi diversa elettronegatività, uno degli atomi attrae il doppietto di legame più energicamente dell’altro. Le sostanze costituite da molecole polari hanno punti di ebollizione più elevati dei composti non polari. Molti composti costituiti da molecole polari in condizioni ambientali sono dei solidi. Le strutture di lewis sono spesso sufficienti per descrivere il legame covalente in quanto rappresentano gli elettroni di valenza come singoletti e doppietti. Sono gli elettroni allo stato di singoletto che vengono compartecipati covalentemente, mentre gli elettroni allo stato di doppietto possono essere impegnati nella formazione di legami di tipo dativo.

5.4. Polarizzazione di legame: A) effetto induttivo. Un legame covalente tra due atomi diversi sarà necessariamente più o meno polarizzato in quanto l'atomo più elettronegativo manifesta tendenza ad attrarre il doppietto di legame, acquistando così una maggiore densità elettronica a scapito dell'altro atomo. Tale delocalizzazione, che conferisce polarità alla molecola, prende il nome di effetto induttivo. I due atomi, che portano parziale carica, vengono designati con la notazione δ+ e δ −. Inoltre la polarizzazione può essere simboleggiata da una freccia, diretta nel senso dello spostamento di ca71 71


Chimica generale

note

rica, posta in corrispondenza del doppietto di legame. Il valore assoluto della carica elettrica δ dipende dalla differenza di elettronegatività fra i due atomi. I valori estremi di δ sono: δ=0 nel caso di un legame covalente puro, di un legame cioè tra atomi di uguale elettronegatività; δ=1 nel caso di un legame ionico, di un legame cioè tra atomi di grande differenza di elettronegatività. In tutti gli altri casi si avrà: 0<δ< 1 Nel caso di una catena carboniosa la polarizzazione si trasmette lungo tutta la catena anche se con intensità decrescente. Se la catena contiene solamente legami semplici, l'effetto si attenua rapidamente ed è praticamente nullo oltre il terzo legame. Gli effetti induttivi convenzionalmente vengono confrontati prendendo come riferimento il legame carbonio-idrogeno: quei sostituenti, che attraggono elettroni di legame in misura maggiore dell'idrogeno, si dice che esercitano effetto -I; quei sostituenti, che attraggono elettroni di legame in misura minore dell'idrogeno, si dice che esercitano effetto +I.

L’ HF fornisce un empio di molecola dipolare per effetto induttivo

B) effetto mesomero. Nel caso di un sistema di doppi lega-

mi coniugati gli elettroni p risultano distribuiti lungo

rutto il sistema coniugato. Si realizza infatti, per tali sistemi, un nuovo tipo di distribuzione di densità elettronica che prende il nome di legame π delocalizzato. Un modo di spiegare tale fenomeno è quello di ammettere lo spostamento di una coppia di elettroni π da un atomo all'altro della molecola. Si crea così una nuova distribuzione elettronica dalla quale si può riottenere quella iniziale per spostamento a ritroso dei doppietti in questione: Questa interpretazione del fenomeno rende conto della formazione di forme polari limiti, la cui esistenza deve essere necessariamente postulata per comprendere il comportamento chimico dei composti contenenti doppi legami coniugati (dieni, polieni). Allorquando, per una data molecola, è possibile formulare due o più strutture limiti elettroniche, senza cambiare la disposizione degli atomi, ma solamente la distribuzione elettronica (come abbiamo visto nel caso dei doppi legami coniugati), si ha il fenomeno della mesomeria, Le strutture limiti costituiscono particolari isomeri detti elettromeri. In realtà, nessuna delle forme limiti rappresenta la distribuzione attuale degli elettroni all'interno della molecola.

72


note

Chimica generale Nell'esempio del butadiene né la formula dello stato fondamentale CH 2=CH—CH=CH2 né le due formule polari limiti

La molecola di anidride solforosa SO2 e in risonanza tra due strutture polari limiti a più alta energia n cui si ha separazione di carica elettrica.

— + CH 2 —CH=CH—CH2 + — CH 2 —CH=CH—CH2

possono essere considerate come una rappresentazione fedele della reale distribuzione della densità elettronica in seno alla molecola, ma deve essere inteso come un ibrido tra queste strutture mesomere. L'ibrido di risonanza è la struttura che meglio si presta all'interpretazione delle caratteristiche chimicofisiche peculiari di composti contenenti sistemi coniugati. Ad esempio le lunghezze dei legami C-C nel butadiene sono apprezzabilmente diverse rispetto alle distanze di 1,54 Å del legame semplice C-C e di 1,33 Å del lega-

Acido ipocloroso HClO HO─Cl Acido cloroso HClO2 ( + ) (—) HO─Cl→O

me doppio C=C. Infatti le distanze non risultano essere: 1,33 1,54 1,33

C=C–C=C come ci si dovrebbe attendere se i doppi legami fossero localizzati, bensì: 1,35 1,46 1,35

C=C–C=C

il che equivale ad ammettere che il legame semplice centrale ha un parziale carattere di doppio legame e che

acido clorico HClO3 (++) H-O-C1→O(—) ↓ O(—)

i doppi legami hanno un parziale carattere di legame semplice.

Acido perclorico HClO4 O(—) ↑(+++) H─O─Cl→O(—) ↓ O(—)

associate a questi stati sono quantizzate e definite. Lo stato fondamentale di un sistema è definito come lo stato

Il concetto di mesomeria non è limitato a sistemi di doppi legami coniugati, ma va esteso ad una vasta classe di molecole contenenti legami multipli. Alla base del concetto di mesomeria sta il più generale concetto quantomeccanico di risonanza. Secondo la meccanica quantistica, una molecola può esistere in una serie di stati quantici stazionari ,le energie quantico stazionario corrispondente al livello energetico più basso. Nell'esempio citato del butadiene le forme polari limiti si trovano ad uno stato di energia superiore, rispetto all'ibrido di risonanza, che pertanto deve essere inteso come lo stato fondamentale della molecola che per convenzione si dice risonante fra le strutture limiti a), b), c). La differenza fra l'energia associata alla molecola mesomera nel suo stato fondamentale e l'energia associata alla molecola nelle forme limiti viene, detta energia di risonanza.

73 73


note

Chimica generale

5.5. Legame di coordinazione o covalente dativo Nel legame di tipo dativo gli atomi risultano ancora legati covalentemente, però gli elettroni messi a comune provengono da un solo atomo (detto donatore) il quale possiede una coppia di elettroni non condivisi che possono essere accettati da un altro atomo che invece dispone di un orbi tale vuoto. Ad

esempio,

se

consideriamo

l'acido

ipocloroso

(HClO),

il

cloro

e

l'idrogeno

risultano

legati

convalentemente allo ossigeno nel modo seguente: H─O─Cl . In tale molecola l'atomo di cloro possiede tre coppie di elettroni non condivisi ed esso può legare con legame dativo uno, due o tre atomi di ossigeno ognuno dei quali possedendo un orbitale vuoto : ─ |O — è capace di accogliere una coppia o più doppietti di elettroni disponibili del cloro. Avremo così formazione di acido cloroso ( HC1O 2),clorico ( HC1O 3) e perclorico ( HC1O4): In questi casi per indicare che gli elettroni messi a comune appartengono originariamente ad un determinato atomo si usa la seguente grafia:→ con la quale si distinguono i legami dativi. Tale tipo di legame non è un legame puro, ma in parte covalente ed in parte elettrostatico. La formazione del legame dativo, infatti, avviene con trasferimento di elettroni e ciò comporta l'instaurarsi di una carica positiva sull'atomo datore e di una negativa su quello accettore. L’acido ortofosforico di seguito rappresentato realizza tutti e tre tipi di legami atomici fin quì esaminati: Il legame P→O è di tipo dativo, in quanto è il fosforo che fornisce il doppietto elettronico di legame; gli altri legami P-O si possono invece considerare come covalenti puri. I rimanenti legami ─O—H sono invece legami covalenti parzialmente ionici. Sono loro a conferire il carattere di acidità all’intera molecola

5.6. Legami intermolecola-

ri

I legami intermolecolari si rea-

lizzano tra le molecole e ne influenzano lo stato si esi-

stenza (sia esso solido liquido o

gassoso. Queste forze che sono forze deboli in quanto

74


note

Chimica generale sono molto più deboli dei legami intramolecolari, si manifestano essenzialmente tra molecole polari e sono dovute all’attrazione dipolo-dipolo. I composti covalenti apolari mostrano anch’ esse questa attrazione soprattutto se allo stato gassoso. Anche in questo caso le forze, dette di Van DerWaals sono dovute all’attrazione dipolo-dipolo degli elettroni di un atomo verso i protoni dell’’altro. Due molecole della stessa sostanza o di sostanze diverse possono presentarsi come dipolari e saranno entrambe dipoli permanenti verranno attratte l’una dall’altra. Due molecole apolari invece saranno attratte solo al momento del loro urto. In prossimità di questo evento le le nuvole elettroniche si respingono deformando così la densità di distribuzione degli elettroni perinucleari creando tra le due molecole di una situazione di momentaneo dipolo (dipolo indotto) per cui esse sono attratte l’una all’altra. tensione sterica è correlata alle forze di Van der Waals, forze molto deboli che si

Dipoli istantanei indotti

generano tra gruppi non polari per la comparsa in essi di momentanee fluttuazioni di carica nelle nuvole elettroniche, con conseguente formazione di dipoli temporanei. Le forze di Van der Waals hanno un raggio di azione molto piccolo, differente per ogni atomo (o raggruppamento chimico). È quindi possibile definire, per ogni atomo, una distanza, detta Raggio di Van der Waals, che ne definisce le dimensioni in termini di capacità di interazione con gli altri atomi. Il raggio di Van der Waals di un atomo ne definisce il suo ingombro sterico (steric hindrance). Quando due atomi non legati vengono avvicinati, l’attrazione dovuta alle forze di Van der Waals aumenta fino a diventare massima quando i loro nuclei si trovano ad una distanza pari alla somma dei loro raggi di Van der Waals. Qualora si tenti di avvicinare ulteriormente gli atomi, l’attrazione di Van der Waals si trasforma in una repulsione via via crescente, che tende ad aumentare l’energia potenziale del sistema, destabilizzandolo e generando una tensione sterica.

5.7. Legami ad idrogeno Quando in un composto l'idrogeno si trova legato covalentemente ad un altro atomo fortemente elettronegativo(fluoro,ossigeno,azoto) esso risulta sede di una parziale carica positiva che gli consente di legare con de-

Molecole associate di aacido acido fluoridrico.

bole legame elettrostatico un altro atomo parzialmente negativo (Legame intermolecolare). La molecola di acido fluoridrico,ad esempio possiede un atomo di idrogeno legato ad un atomo di fluoro il quale, essendo fortemente elettronegativo attira gli elettroni di legame, ne consegue una molecola polare con l'atomo di fluoro parzialmente negativo e l'atomo di idrogeno parzialmente positivo

H─F …H─F; In queste condizioni l'a-

tomo di idrogeno di una molecola H-F lega con un debole legame di tipo elettrostatico un atomo di fluoro di

75


note

Chimica generale un’altra molecola (molecole associate). Questo tipo di legame,sebbene sia un legame energicamente assai debole, tuttavia è di notevole importanza poiché influenza notevolmente te proprietà fisiche e strutturali delle sostanze in cui esso è presente. Questo tipo di legame, sebbene sia energicamente assai debole, tuttavia è di notevole importanza poiché influenza notevolmente le proprietà fisiche e strutturali delle sostanze in cui esso è presente.Ad esempio il legame idrogeno che s'instaura tra molecole di acqua ne modifica notevolmente lo stato di aggregazione, influendo sulla sua temperatura di ebollizione, e la temperatura di fusione.

Molecole associate di acqua allo stato liquido

Molecole associate di acqua allo stato solido

76 76


Chimica generale

Cap VI Le reazioni chimiche 6.1 La teoria delle collisioni Nel prendere in considerazione una reazione chimica occorre tener conto delle condizioni fisiche in cui si trovano i componenti, Le Perché essa Secondo la teoria cinetica dei gas, l’energia cinetica media delle molecole si manifesta sotto forma di temperatura, ed al suo variare varia la loro velocità. Se essa varia aumenta Perché una reazione chimica possa avvenire, si devono realizzare a livello molecolare le condizioni che favoriscono la rottura dei corrispondeti orbitali di legame con formazione di nuovi. Perché ciò avvenga occorre che le due molecole reagenti devono urtarsi in corrispondenza del legame che deve essere rotto e che al momento dell’urto esse posseggano l’energia sufficiente a rompere i vecchi legami per formarne di nuovi; a tale evento si da il nome di urto efficace al seguito del quale i composti reagenti si trasformano in nuove specie molecolari che sono i relativi prodotti di reazione. Non tutte le molecole reagenti, però, danno luogo ai prodotti, cioè non tutti gli urti sono efficaci anzi, in genere, l’incontro tra due molecole si conclude con un semplice urto elastico, il che vuol dire che l’energia posseduta dalle molecole prima dell’urto, in termini di quantità di moto, viene conservata e dopo l’urto ciascuna molecola procede con la stessa velocità, cambiando solo la direzione di propagazione: l’ urto sarà stato di tipo elastico e le specie reagenti si saranno mantenute integre: in qualsiasi collisione vale sempre il principio di conservazione della quantita di moto del sistema. Perché l’urto sia efficace ai fini della reazione chimica occorre che al momento dell'urto, le molecole posseggano una determinata energia detta energia libera di attivazione: se, infatti, al momento dell'urto le molecole reagenti possiedono energia superiore od eguale alla energia di attivazione, si avrà un urto efficace, cioè si formerà un intermedio di reazione dal cui rimaneggiamento si otterranno i prodotti della reazione. Il fattore limitante perché una reazione avvenga è, quindi, l'energia libera di attivazione, definita come la quantità minima di energia che deve essere posseduta dalle molecole al momento dell'urto affinché si abbia formazione dell'intermedio di reazione. L'energia di attivazione va considerata come una barriera che si oppone alla reazione stessa. Una reazione, il cui decorso prevede uno stato di transizione ad alta energia libera di attivazione, sarà termodinamicamente sfavorita, nel senso che potrà avvenire solo fornendo al sistema la quantità di energia corrispondente, molto spesso sotto forma di calore. Tali reazioni avvengono, quindi, solo ad alta temperatura. Si comprende che ai valori di temperatura ordinaria non tutte le reazioni possono avvenire. E' questo il caso delle reazioni di

note


note

Chimica generale ossidazione con ossigeno atmosferico, come, ad esempio, le reazioni di combustione dei composti carboniosi, che portano a formazione di CO2 ed H2O. Se le suddette reazioni di ossidazione avessero, al contrario, un basso valore di energia di attivazione tale da potersi realizzare a temperatura ambiente, i composti organici, e con essi ogni forma di vita, subirebbero l'inesorabile destino della combustione. La chimica del carbonio conoscerebbe allora un solo composto: la CO2 La conoscenza degli stati energetici iniziali e finali è importante per una valutazione termodinamica della reazione, tuttavia fornisce scarse informazioni riguardo alla cinetica di reazione. La maggior parte delle reazioni organiche procedono a velocità misurabili e molte sono lente. Ciò è dovuto al fatto che le molecole reagenti, come detto, devono passare attraverso lo stato intermedio attivato che non deve essere inteso come uno stato reale, stabile o metastabile, ma piuttosto come uno stato transitorio fra due stati stabili.

La possibilità di collisione è espressa dal prodotto del numero di molecole A per il numero di molecole B: se abbiamo 6 molecole di A e 3 molecole di B ci sono 18 possibili combinazioni di collisioni.

Una reazione nella quale l'energia libera dei prodotti è inferiore a quella dei reagenti si dice esoergonica, tale è il caso della reazione rappresentata in figura; una reazione nella quale l'energia libera dei prodotti è superiore a quella dei reagenti si dice endoergonica. Di solito i processi che implicano l'interazione tra ioni avvengono molto velocemente generalmente esse avvengono in tempi dell’odine dei millisecondi o microsecondi. Quando si avvicinano ioni di carica opposta essi si attraggono e reagiscono senza doversi preventivamente orientare l'uno rispetto all'altro. Al contrario molecole o gruppi con legami covalenti reagiscono spesso lentamente, questo perché il legame covalente per essere rotto richiede che le particelle reagenti abbiano

al momento dell’urto 1'energia

necessaria (energia di attivazione) e i loro legami devono essere opportunamente orientati ai fini della reazione. La frazione di collisioni che porta a reazione è bassa perché molte collisioni non sono sufficientemente energiche e perchè alcune collisioni pur avvenendo con alta energia le molecole collidono con orientazione sbagliata. Considerando una molecola di A e una di B nell'unità di volume, possiamo postulare una possibilità di collisione entro un certo intervallo di tempo. Se poniamo una seconda molecola di A nello stesso volume di reazione, ci saranno due possibilità di collisione nello stesso intervallo di tempo. Un ulteriore aumento delle molecole di A a parità di volume produrrà un aumento proporzionale del numero di possibilità di collisione tra la molecola A e la molecola B. Se si aggiungono più molecole di B troviamo che il numero di possibilità di collisione è il numero delle molecole A moltiplicato il numero delle molecole B. La teoria delle collisioni o degli urti per la reazione semplice tra le ipotetiche molecole A e B si può estendere a reazioni chimiche reali che coinvolgono un gran numero di molecole. Al numero di molecole nell'unità 78 78


Chimica generale

note

di volume si possono sostituire i valori di concentrazione in termini di molarità o di pressione parziale. La simbologia comunemente adottata usa le parentesi: [A] sta per moli di A per litro quando A è in soluzione mentre si usa PA (pressione parziale di A) quando A è un gas. Il profilo energetico di una reazione può essere ben seguito in un diagramma che riporta la variazione di energia libera dei reagenti in funzione degli intermedi e relativi prodotti di reazione: la reazione illustrata in figura a lato ha un andamento esotermico perchè il valore di entalpia dei reagenti Hr è maggiore del valore di entalpia dei prodotti Hp. Quindi si ha:

∆H= Hp—Hr < 0.

6.2. Velocità e ordine di reazione La velocità di reazione è definita come la variazione nel tempo del numero di moli della specie considerata per unità di volume. Essa è in generale funzione della temperatura, della pressione oltre che della concentrazione delle specie chimiche

variazione di energia libera per una generica reazione esotermica. Si noti che il valore entalpico dei prodotti di reazione (H prodotti) è inferiore del valore entalpico dei reagenti (H reagenti)

intervenute. La dipendenza della velocità di reazione dalla

concentrazione viene espressa come ordine di reazione n, definito come la somma degli esponenti con cui le concentrazioni dei singoli componenti di una reazione chimica compaiono nell’espressione della velocità di reazione. Per descrivere il decorso di una reazione risulta necessario conoscere il tipo di cinetica che le caratterizza, il che implica la necessità di determinarne l’ordine di reazione cioè l'espressione matematica fornita dai dati sperimentali di reazione. Una volta ricavata tale espressione l'ordine risulta determinato e potremo identificare il possibile meccanismo di reazione. La probabilità di collisione tra A e B caratterizza la velocità di reazione, ossia:

velocità di reazione= k x [A] x [B] La descrizione completa di una reazione chimica deve tenere presente non solo dei reagenti ed i prodotti ma anche e soprattutto delle specie di intermedi che si realizzano nel corso della reazione stessa e che non alla fine della stessa non compaiono tra i prodotti. La loro conoscenza e delle modalità con cui si realizzano consente di attribuirle il meccanismo attraverso cui la reazione evolve. I meccanismi di reazione, possono essere previsti solo dopo attento esame delle caratteristiche elettroniche dei reagenti che, sebbene di facile determinazione, può essere accertata solo mediante indagine sperimentale. Il decorso di una reazione da un punto di vista della rottura del legame può essere assegnato a due grandi classi di reazioni: 79


note

Chimica generale — reazioni con rottura di legame omolitico (radicali) — reazioni con rottura di legame eterolitico (ioni) I reattivi, a loro volta, vengono classificati in elettrofili, nucleofili e radicali. Gli elettrofili sono dotati di parziale o totale carica positiva e quindi attratti da siti molecolari di elevata densità elettronica. I nucleofili sono, al contrario, dotati di parziale o totale carica negativa e quindi attratti da siti molecolari dotati di parziale carica positiva nucleare. Infine se il reagente si presenta con un elettrone a spin disaccoppiato esso viene detto radicale. Le reazioni si possono distinguere in reazioni omogenee, se avvengono tra specie chimiche tutte nella stessa fase (solida, liquida o gassosa) e reazioni eterogenee se avvengono tra specie chimiche che si presentano in fasi diverse. Tipico esempio di reazioni omogenee sono quelle che avvengono tra specie gassose, mentre tipiche reazioni eterogenee sono la combustione di solidi con l’ossigeno atmosferico. Le reazioni che è possibile descrivere utilizzando un’unica equazione stechiometrica e un’unica equazione cinetica vengono dette reazioni singole; le reazioni multiple sono invece quelle per le quali occorrono più equazioni stechiometriche e cinetiche per descrivere le modalità di variazione dei diversi componenti del sistema. Esempio di reazioni multiple sono le cosiddette reazioni in serie, nelle quali la trasformazione da reagenti in prodotti avviene passando attraverso fasi intermedie nelle quali più di una reazione coinvolge uno stesso reagente. Le reazioni chimiche possono essere ancora suddivise sulla base del verso seguito dalla reazione, per cui si parla di: reazioni reversibili e di reazioni irreversibili. Gran parte delle reazioni sono reversibili. quando ci si avvicina alla condizione di equilibrio la velocità delle reazioni diretta e inversa divengono confrontabili e la reazione può essere considerata come reazione reversibile Supponiamo un'ipotetica reazione chimica, in cui una molecola di A entri in reazione chimica con se stessa. Questa reazione si rappresenta con l'equazione chimica A→ B. Assumiamo di poter seguire questa reazione e di poter conoscere ad intervalli di tempo le variazioni di concentrazioni di A o di B (Se ad esempio A ha un color rosso e B è incolore, potremmo usare un colorimetro per misurare la velocità di scomparsa di A dall'indebolirsi del colore rosso) la velocità di questa reazione è proporzionale alla concentrazione iniziale di A e la velocità è anche descritta dal rapporto tra la variazione di concentrazione di A e il tempo in cui questa variazione ha luogo. Se uniamo questi termini che descrivono la velocità di questa reazione abbiamo: velocità di reazione: = k [A ] =

80 80


note

Chimica generale ‗ _ ∆[A] ∆t

(variazione di [A]) (Intervallo di tempo)

Da questa espressione deduciamo che la concentrazione di A nel termine k [A] compare alla prima potenza: questa reazione è dunque del primo ordine. La stechiometria fosse stata 2A→B la cinetica sarebbe stata del secondo ordine cioè v = k[A]2 ; fermo restando che l'espressione matematica si deve accordare con i dati sperimentali della cinetica di reazione. Come si giustifica questo risultato con la teoria delle collisioni? Una molecola che reagisce può acquistare attraverso una collisione, energia sufficiente per subire decomposizione o un riarrangiamento interno di legami originando nuovi prodotti. La particella con cui urta non è un reagente ma la collisione è necessaria per fornire alla specie che reagisce l'energia richiesta per fare avvenire la reazione stessa. Tornando alla ipotetica reazione A → B, la velocità di questa reazione è funzione non solo della diminuzione della concentrazione del reazione ma anche dell'aumento di concentrazione del prodotto. Dipende dalla specifica reazione in esame in quale modo sia più conveniente esprimere la velocità di reazione. Per esempio, se il reagente è colorato e il prodotto è incolore è sperimentalmente più facile seguire la diminuzione di colore quale misura variazione di concentrazione del reagente. Se facile misurare la quantità di prodotto, allora l’equazione diventa: K[A] =

∆[B] (variazione di [B]) ∆ t (Intervallo di tempo) La costante di proporzionalita, K, prende il nome di costante cinetica di reazione. La reazione 2A→B sarà invece del secondo ordine rispetto ad A: la sua cinetica di reazione sarà infatti: V= K[A]2. Una generica reazione aA+bB →cC +dD sarà invece di ordine a+b (dove con a e b si rappresentano i relativi coefficienti stechiometrici) e la relativa equazione cinetica sarà:

Vd= Kd[A]a x[B]b se la reazione è reversibile allora i reagenti a loro volta reagiranno tra loro

con una cinetica data

dall’equazione:

Vi = Ki[C]cx[D]d

6.3. Lo stato di equilibrio dinamico. Molte reazioni che avvengono nei sistemi naturali raggiungono l’equilibrio soltanto in tempi relativamente

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note

Chimica generale lunghi. Lo scopo della termodinamica è quello di studiare le condizioni di equilibrio per una data reazione chimica, mentre obiettivo della cinetica è quello di studiare le modalità con le quali tali condizioni di equilibrio termodinamico vengono raggiunte. Lo stato di equilibrio è invariante cioè mantiene costante nel tempo nel tempo ogni sua proprietà, se le condizioni restano le stesse. Tale equilibrio si dice che è dinamico in quanto, nell’unità di tempo, un ugual numero di molecole passa da uno degli stati all’altro; ciò è conseguenza dell’eguaglianza di velocità di trasformazioni opposte; raggiunto spontaneamente ed indifferentemente a partire da uno qualsiasi degli stati coesistenti; esso si mantiene stabile. All’ equilibrio le due reazioni, quella diretta e quella inversa procederanno fino a raggiungere lo stato di equilibrio, cioè

fino a quando le due velocità della reazione diretta e della

reazione inversa non saranno uguali:

Vd = Vi , cioè: La curva V1 è relativa alla cinetica della reazione diretta (Vd), la curva V2 è relativa alla cinetica della reazione inversa (Vi): quando le due velocità si eguagliano il sistema ha raggiunto lo stato di equilibrio e la velocità di reazione si mantiene costante (tratto rettilineo)

Kd[A]a x [B]b = Ki[C]c x [D]d Da cui si ha la relazione:

Kd ___ = Ki

[C]cx[D]d _______________ [A]a x[B]b

Kd Ed essendo —-- = Keq (il rapporto di due costanti e sempre una costante) si ha la relazione: Ki

[C]cx[D]d _____________ = [A]a x[B]b

Keq

Dove Keq prende il nome di costante di equilibrio chimoco. Questa relazione esprime la legge dell’azione della massa detta anche legge di Guldber e Waage in , secondo la quale in una reazione omogenea e reversibile a temperatura costante che ha raggiunto il suo stato di equilibrio è costante il rapporto delle concentrazioni dei prodotti e dei reagenti ciascuna elevata al proprio coefficiente stechiometrico. Lo stato di equilibrio viene rappresentato con due frecce parallele e di verso discorde poste tra le specie in equilibrio. 82 82


Chimica generale

note

6.4. Principio dell’equilibrio mobile di Le Chatelier Se un sistema viene allontanato dallo stato di equilibrio da una variazione di stato, ovvero si modifica uno dei fattori che determinano lo stato di equilibrio, il sistema si sposta per raggiungere una nuova condizione di equilibrio. Nel far ciò il sistema tende a minimizzare la perturbazione esterna, secondo quanto espresso dal principio di Le Ch'atelier che afferma: se un sistema all’equilibrio viene perturbato da una sollecitazione atta a modificare qualcuno dei fattori che determinano lo stato di equilibrio, il sistema reagirà in modo da opporsi alla variazione apportata. Il principio di Le Ch'atelier permette così di prevedere la risposta qualitativa di un sistema di fronte a cambiamenti delle condizioni esterne. I fattori che possono influenzare lo stato di equilibrio di un sistema sono: la temperatura; il volume; la pressione e la concentrazione delle specie all’equilibrio.

6.4.1.. Effetti della variazione della tamperatura. Una variazione di temperatura influenza profondamente l’equilibrio di reazione cioè modifica il valore della costante in quanto il sistema evolve nel senso atto ad opporsi alla variazione apportata raggiungendo così una nuova condizione di equilibrio. Un aumento di temperatura provoca un aumento sia della velocità della reazione diretta sia di quella della reazione inversa, per cui la condizione di equilibrio sarà raggiunta in minor tempo. Bisogna però tener presente che l’influenza della temperatura è tanto più marcata quanto più elevata è l’energia di attivazione. In particolare: nelle reazioni endotermiche (∆ ∆H > 0), un aumento di temperatura sposterà l’equilibrio verso verso i prodotti, cioè nel senso atto ad assorbire calore e quindi ad abbassare la temperatura del sistema. D’altro canto è facile osservare che per una reazione endotermica la costante di equilibrio aumenta all’aumentare della temperatura; nelle reazioni esotermiche (∆ ∆H< 0), un aumento di temperatura sposterà l’equilibrio verso i reagenti, cioè nel senso atto a raffreddare il sistema. D’altra parte per un reazione esotermica la costante di equilibrio diminuisce all’aumentare della temperatura.

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note

Chimica generale 6.4.2. Effetti della variazione del volume Nelle reazioni che procedono con aumento del numero di moli: a+b>c+d, ( ad esempio la reazione di dissociazione di una mole di reagente in due moli di porodotto)m la velocità della reazione inversa sarà accelerata da una diminuzione di volume più di quanto lo sia la velocità della reazione diretta, per cui la posizione di equilibrio si sposta verso sinistra, ossia verso i reagenti. D’altra parte, in tali reazioni, una diminuzione di volume rende il denominatore della costante di equilibrio più piccolo, per cui l’equilibrio può essere ristabilito solo con un aumento del denominatore, ossia con un aumento del numero di moli dei reagenti; nelle reazioni senza variazioni del numero di moli (a+b=c+d), la diminuzione di volume accelererà in eguale misura le velocità della reazione diretta ed inversa per cui la posizione dell’equilibrio non viene mutata. D’altra parte, in tali reazioni, il volume non compare nell’espressione della costante di equilibrio. Quindi una diminuzione di volume riduce il tempo necessario per raggiungere la condizione di equilibrio e sposta la posizione dell’equilibrio nel verso della reazione che comporta una diminuzione del numero di moli. Un aumento di volume provoca un aumento del tempo necessario per raggiungere la condizione di equilibrio e sposta la posizione di quest’ultimo nel verso della reazione che comporta un aumento del numero di moliEffetti della variazione della concentrazione . L’aggiunta o la sottrazione di una delle specie all’equilibrio, sbilancia quest’ultimo e costringe il sistema a modificarsi evolvendo verso un nuovo stato di equilibrio nel senso atto a opporsi (consumare o produrre) alla variazione apportata. L’aggiunta di un reagente o la sottrazione di un prodotto, rendendo la velocità della reazione diretta maggiore di quella della reazione inversa, sposta l’equilibrio verso i prodotti. L’aggiunta di un prodotto o la sottrazione di un reagente, rendendo la velocità della reazione inversa maggiore di quella della reazione diretta, sposta l’equilibrio verso i reagenti

6.4.3. Effetti della presenza di un catalizzatore. La presenza di un catalizzatore riduce della stessa entità sia l’energia di attivazione Ed della reazione diretta sia quella Ei della reazione inversa. Pertanto le velocità delle reazioni diretta ed inversa vengono accelerate nella stessa misura e la condizione di equilibrio viene raggiunta in un tempo minore senza mutare la sua posizione. 84 84


Chimica generale

note

6.5. Catalisi enzimatica. Un ruolo molto fondamentale nella chimica della materia vivente (biochimica) spetta agli enzimi, sostanze di natura proteica aventi carattere catalitico ad elevata specificità. Queste sostanze, hanno l'importantissima funzione di elevare la velocità di reazione che, alla temperatura corporea di 37°C, sarebbe altrimenti trascurabile. I composti su cui agiscono gli enzimi prendono il nome generiso di substrati. Gli enzimi per la loro natura macromolecolare (il loro peso molecolare è compreso tra 104e 106 u.m.a.) esistono in soluzione come dispersioni colloidali ed esercitano una azione catalitica con un meccanismo che è intermedio tra quello della catalisi omogenea e quello della catalisi eterogenea: Il loro meccanismo prevede adsorbimento sulla superficie gel-catalizzatore con formazione del complesso enzima-substrato i cui centri catalitici caratterizzati dal specificità assoluta possono svolgere il loro meccanismo di reazione danno luogo alla formazione di un prodotto intermedio, a più basso livello di attivazione. Il substrato forma un complesso intermedio in cui il substrato risulta orientato in modo da entrare in contatto intimo col centro catalitico dando luogo ai prodotti di reazione,i quali non possedendo più affinità alcuna per il catalizzatore lo abbandonano e lo rendono disponibile per altre molecole di substrato. Per spiegare l'andamento della reazione catalizzata da un enzima si consideri la reazione non catalizzata di un substrato (S) che dà luogo alla formazione di prodotti(P) la reazione sarebbe particolarmente lenta: la reazione non catalizzata si riconosce del primo ordine e la velocità di reazione è proporzionale alla concentrazione di S: V K [S]. Nel caso della reazione catalizzata dal suo enzima si osserva sperimentalmente che la velocità della reazione (ferme restando le variabili pH e temperatura) varia in funzione della concentrazione del substrato (e di quella dell'enzima), per cui, mantenendosi costante la concentrazione dell'enzima, dato che esso alla fine della reazione si ritrova qualitativamente e quantitativamente inalterato, la relazione precedente si può scrivere: V = K' [S] dove : K' = K [E]. Dalla relazione : V = K' [S] si ricava che la velocità di reazione deve aumentare con la concentrazione del substrato. Nella pratica si osserva però che a differenza di altre reazioni, la velocità della reazione enzimatica non aumenta indefinitamente con l'aumentare della concen-

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note

Chimica generale trazione del substrato, ma raggiunto un valore massimo (Vm) si mantiene costante anche se viene aumentata ulteriormente la concentrazione di S. La velocità massima raggiungibile, a sua volta, è funzione della concentrazione dell'enzima. Infatti dalla relazione K' = K [E] si nota che aumentando la concentrazione dell'enzima aggiunto alla reazione aumenta il valore di K' e quindi

La reversibilità è un processo ideale praticamente impossibile a realizzarsi. Questo non impedisce, tuttavia, la possibilità di estendere i concetti termodinamici relativi a trasformazioni infinitesime, che avvengono in tempi infinitamente lunghi, alle trasformazioni reali In termodinamica la reversibilità implica che si può invertire una reazione per piccolissime variazioni di P, T o di concentrazione in qualsiasi momento e che la reazione va di pochissimo nella direzione opposta. Quando si inverte una reazione in questo modo, la reversibilità prevede che non ci siano effetti termici sull'intorno, il che è praticamente irrealizzabile.

anche il valore della velocità massima raggiungibile. Iottenuto sperimentalmente riportando su un sistema di assi coordinati cartesiani il valore della velocità di reazione (V) in funzione della concentrazione del substrato S. Dall’andamento della curva si nota che la velocità di reazione nel primo tratto della curva è del ordine cioè la v aumenta proporzionalmente con l’aumentare della concentrazione nel secondo tratto devia per raggiungere un andamento asintotico Si può notare come la velocità della reazione enzimaticma, (SE).m Successivamente l'intermedio si scinde neii prodotti di reazione (P) e nell'enzima libero (E); cioè la reazione: enzima + substrato f prodotti + enzima avviene attraverso due stadi intermedi di cui il primo è reversibi le (doppia freccia) e molto più veloce del secondo. Quindi è il secondo stadio che determina la velocità della reazione globale: K1 10

stadio: S+E

← K2

K3 2 ° stad io: SE →

SE

P+E

In tale schema Ki. K2 e K3 sono le costanti di velocità delle relative reazioni. Tenuto conto che la velocità con cui si forma 1'intermedio, SE, è molto più elevata della velocità con cui l'intermedio si scinde nei prodotti,è logico che la velocità dell'intera reazione enzimatica sia regolata da quella del secondo stadio.La velocità è data dall'espressione V = K3[SE] e dipende quindi dalla concentrazione dell'intermedio SE. Questo significa che, per concentrazione costanti di enzima, la velocità di reazione è proporzionale alla concentrazione del substrato,dato che per concentrazioni superiori di S diventa maggiore il numero di molecole di substrato legate all'enzima e quindi aumenta la concentrazione dell'intermedio SE. La velocità della reazione però cresce con l'aumentare della concentrazione del substrato fino a raggiungere un valore massimo. La cinetica inizialmente è di primo ordine (tratto rettilineo), dato che a basse concentrazioni del substrato realmente la ve locità di reazione aumenta proporzionalmente con l'aumentare di S. La velocità massima raggiungibile (Vm) è l'asintoto verso cui tende la velocità di reazione (V) al crescere di [S]. Raggiunta la veloci tà massima la reazione essa si mantiene costante anche per ulteriori aggiunte di substrato. Cioè la velocità di reazione è di ordine zero rispetto ad S; si può quindi scrivere: V=K' x [S]° = K'x1= K’ 86 86


Chimica generale

note

Questo comportamento della reazione enzimatica è dovuto alla formazione di un complesso intermedio instabile, substratoenzi-ma, (SE) che successivamente si scinde nei. prodotti di reazione e nell'enzima libero (E); cioè la reazione avviene attraverso due stadi intermedi di cui il primo è reversibile (doppia freccia) e molto più veloce del secondo: 1) E + S ↔ ES 2) ES→ prodotti + enzima E’ i l s e condo stadio che determina la velocità della reazione globale.in quanto la velocità con cui si forma 1'intermedio, SE, è molto più elevata della velocità con cui l'intermedio si scinde nei prodotti: la velocità dell'intera reazione enzimatica è dunque regolata dal secondo stadio, la cui velocità dipende dalla concentrazione dell'intermedio SE. Questo significa che la velocità di reazione è proporzionale alla concentrazione del substrato, dato che per concentrazioni superiori di S diventa maggiore il numero di molecole di substrato legate all'enzima e quindi aumenta la concentrazione dell'intermedio SE. La velocità della reazione aumenta con l'aumentare della concentrazione del substrato fino a raggiungere un valore massimo,cioè finché l’ulteriore l'eccesso di substrato trova tutte le mo1ecole dell'enzima impegnate cioè l'enzíma è in condizioni di saturazione. La velocità massima si raggiunge quindi quando sarà [SE] = [E] e cioè sarà Vm = K3 [SE] = K3 [E] . Si con facili passaggi matematici, che la relazione che esiste tra velocità iniziale della reazione e concentrazione del substrato è espressa dall'equazione: Vmx[S] V= ____________ Km + [S] Questa equazione è nota come equazione di Michaelis e Menten e graficamente è rappresentata da un ramo di iperbole equilatera a fianco rappresentata. La costante Km, detta costante di Michaelis, è la costante relativa all'equilibrio del primo dei due stadi attraverso cui si svolge la reazione enzimatica il cui valore corrisponde a quella concentrazione di substrato per cui si ha una velocità di reazione semimassimale. Tanto minore è il valore di Km quanto maggiore sarà la velocità di reazione enzimatica velocità che è espressione dell'affinità dell'enzima per il substrato.Le curve di cinetica enzimatica si ottengono sperimentalmente riportando le velocità di reazione in funzione dell’aumento della concentrazione del substrato. Il valore di Km, si ricava per estrapolazione dai valori della curva sperimentalmente ottenuta e corrisponde a quella concentrazione di substrato per cui si ha una velocità di reazione semimassimale: più piccolo è il valore di Km, più grande è la specificità dell’enzima per quel dato substrato .

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Chimica generale

Cap VII

note

La forza guida delle reazioni chimiche

7.1 L'idea di reversibilità in termodinamica presenta analogie col concetto di idealità di comportamento di un gas ideale. Nessun gas obbedisce veramente alla legge dei gas PV=nRT, e, tuttavia, il modello di gas ideale ha permesso una utile e fondamentale interpretazione del comportamento dei gas. In maniera analoga, la reversibilità non si verifica mai nella realtà ed è nient'altro che una notazione per indicare che una reazione può procedere in ambedue le direzioni. . Una trasformazione chimica avviene quasi sempre con assorbimento o cessione di calore. La quantità di calore in gioco in una trasformazione tra sistema e intorno dipende da quanto lavoro è contemporaneamente effettuato dal sistema. Ciò implica il dovere identificare, oltre l'energia interna e l'entalpia, altre funzioni di stato cioè l'entropia S e l'energia libera G. L'entropia ∆S di un sistema è una funzione che esprime la misura del suo disordine; quando si fornisce calore al sistema, esso diventa più disordinato. L'equazione descritta si applica ad una trasformazione reversibile in un sistema a pressione e temperatura costante, ma si può applicare a tutte le trasformazioni, con l'avvertenza che la variazione di entropia di un processo, ∆S, è uguale o maggiore del rapporto: q T Le misure termochimiche rendono possibile il calcolo di variazioni entropiche, particolarmente se si sceglie per le entropie assolute un punto di riferimento arbitrario. L'entropia di un cristallo perfetto allo zero assoluto si assume abbia valore nullo (non c'è disordine in questo sistema): In base a questo valore assunto l’'entropia può essere calcolata misurando il calore necessario per scaldare la sostanza da circa 0 a 298 °Kelvin. Poiché S (0°K ) = 0, l'entropia nello stato standard si calcola sommando la variazione di entropia di ogni stadio reversibile per l'aumento di temperatura da 0 K fino a 298 K. Quello che misuriamo è il calore necessario ad innalzare la temperatura della sostanza ed a far avvenire tutti i passaggi di stato previsti in questo intervallo di temperatura. Questo calore si divide per la temperatura alla quale avviene lo scambio termico in ogni stadio. Poiché l'entropia è una funzione di stato, la sua variazione lungo una trasformazione si può calcolare conoscendo le entropie dello stato iniziale S1 e finale S2:

La relazione che esiste tra entropia di un sistema e disordine può essere messo in evidenza con un esempio: mettendo 100 palline, 50 bianche e 50 nere, in una scatola tenendole inizialmente separate. Se scuotiamo la scatola, constateremo che le palline si saranno mescolate assumendo uno stato di maggiore disordine: esse hanno aumentato la loro entropia ed è del tutto improbabile che, continuando ad agitare la scatolasi ristabilisca l’ordine iniziale: l’aumento di entropia è un processo irreversibile,meglio descritto dalla relazione:∆S>0 Nei sistemi molecolari il numero di particelle è di molto maggiore e inoltre, possono non solo essere differenti tra loro, ma anche comportarsi in modo molto più complesso, partecipando, per esempio, a processi chimici. Ciò nonostante vale lo stesso concetto di entropia intesa come misura del loro disordine: ∆S >∆q T


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Chimica generale S2- S1 = ∆S. In una reazione esotermica, la reazione procede perché il sistema cede energia sotto forma di calore, cioè diminuisce l’entalpia ∆H del sistema. Sono questi due fattori, la variazione di entalpia e la variazione di entropia, a determinare la spontaneità delle reazioni chimiche.

7.2 L’equazione di Gibbs Quando una reazione chimica mostra una tendenza per un minimo di entalpia ed un massimo di entropia, la reazione procede spontaneamente. I due termini ∆H e ∆S s on o tr a l or o le ga t i c on una nuova f u nz i o ne d i sta t o l'energia libera, indicata col simbolo G, nella relazione di Gibbs:

∆G=∆H-Τ∆S Non è possibile, né necessario conoscere il valore assoluto di H e di G ma è possibile misurare la loro variazione ∆H e ∆G. ∆G, rappresenta l'energia disponibile per compiere lavoro e questa energia è minore del contenuto entalpico H di una quantità TS, frequentemente indicata come energia inutilizzabile. Poiché il sistema tende ad andare verso stati di energia più bassi, un processo sarà spontaneo quando il valore ∆Gè negativo mentre sarà all'equilibrio se ∆G è uguale a zero. La spontaneità, di una trasformazione in un sistema chiuso è così legata sia alla variazione di entalpia che di entropia. Quando ∆G = 0 il sistema è all'equilibrio, ma ogni qualvolta ∆G è negativo (l'energia libera decresce per effetto del processo) la trasformazione è spontanea. Queste considerazioni sono la base della affermazione che l'energia libera dell'universo tende ad un minimo e l'entropia tende ad un massimo. Poiché, come abbiamo visto, ∆G contiene il termine entalpico e quello entropico, una trasformazione spontanea, a pressione e temperatura costante, si può ottenere in diversi modi; deve comunque essere verificato che AG < 0: a) Se ∆H < 0, il termine - Τ∆S può essere sia negativo che positivo. In questo secondo caso deve essere: | Τ∆ S| < |∆H | b) Se 0H > 0, il termine - TAS può essere solo negativo e deve verificarsi che 89 89


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|Τ∆S| > |∆H| Questo è il caso delle trasformazioni spontanee endotermiche (per esempio la fusione del ghiaccio). c) Se AH = 0, il termine - Τ∆S deve essere negativo. In questo caso il fenomeno è spontaneo come il caso del mescolamento nelle soluzioni ideali. Le calorie fornite ad 1 mole(18g) di acqua a 0°C (=273°K) ed 1 atm sono necessarie per il passaggio dallo statto solido a quello liqido. Questo calore scambiato a temperatura costante di 273°K è pari ad 1440/273=5,2 calorie/°K e rappresenta le unità entropiche necessarie per la sua fusione. Analogamente,il calore necessario per convertire una mole di acqua (18g) a 100 °C in vapore la variazione d'entropia è 9720/373= 26 unità antropiche. Questo significa che l’acqua allo stato vapore è più disordinata di quanto non sia allo stato liquido. Analogamente, allo stato solido essa possiede più ordine (meno entropia) che allo stato liquido.Il congelamento lento dell'acqua a ghiaccio a 0 °C ed 1 atm è una trasformazione reversibile solo se il ghiaccio si può ritrasformare in acqua aggiungendo lentamente la stessa quantità di energia ceduta nel I congelamento. Una trasformazione si può considerare re- ( versibile solo se una volta riportata allo stato iniziale non provoca effetti sull'universo. Una trasformazione è, invece, irreversibile se nel tentativo di tornare al suo stadio iniziale, produce trasformazioni d'energia del sistema o del suo intorno. Un semplice criterio di reversibilità è rappresentato dalle relazioni seguenti:

∆ S= q/T relativa ad una trasformazione reversibile

∆ S ≠ q/ T relativa ad una trasformazione non-reversibile.

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Cap VIII Sostanze e miscugli 8.1. la sostanza Materia è tutto ciò che occupa uno spazio in quanto dotata di massa e ciascun corpo ne rappresenta una porzione definita per la forma e per la sostanza. La materia allo stato elementare, atomico o molecolare conforma ogni tipo di realtà. L’ osservazione quotidiana c’insegna che i corpi sono sempre riducibili in più piccoli frammenti per semplice frantumazione meccanica. Con tale procedura si altera la forma del corpo, ma per quanto tale operazione possa essere spinta, ciascun frammento risulterà sempre formato dalla medesima sostanza di cui conserva ogni sua proprietà (sostanziale). L’ultima riduzione idealmente realizzabile identifica una particella ultima che ancora mantiene tutte le proprietà sostanziali del corpo. A tale ultima particella si dà il nome molecola: è’ la massa delle molecole che nel loro insieme determinano la massa dei corpi. Sono le molecole che realizzano i corpi naturali siano essi semplici aggregati minerali che complessi organismi viventi. Ciascun corpo fisico si caratterizza tanto per la forma acquisita dal complessivo contorno volumetrico, quanto per la sottostante forma che veniva chiamata, appunto, sostanza. Entrambe sostanza e forma sono caratterizzate dalle rispettive qualità che vengono dette formali (stato di aggregazione, volume proprio, ecc.), se riferite alla loro forma, ovvero sostanziali (peso, comportamento chimico ecc.), se riferite alla loro sostanza. E’ invalso anche il riconoscimento di quelle che vengono dette proprietà intrinseche ed estrinseche; le prime sono quelle che cambiano col cambiare della sostanza del corpo e ne definiscono il comportamento chimico, le seconde si riferiscono ai fenomeni di cambiamenti di forma, come ad esempio lo stato fisico (solido, liquido gassoso) e definiscono le proprieta fisiche. Se viene descritto facendo solo riferimento alle sue qualità sostanziali (senza alcun riferimento alle formali) il corpo prende il nome di sostanza chimica o semplicemente sostanza. L’analisi elementare ci insegna che ciascuna molecola è formata da un insieme di atomi legati tra di loro con un legame forte chimico interatomico (detto anche intramolecolare). Sulla superficie del nostro pianeta la materia esiste allo stato molecolare. Sono le molecole che realizzano tutti i corpi naturali siano essi minerali che organismi viventi. Le molecole possono aggregarsi tra loro mediante forze di legame debole di tipo intermolecolare. Gli atomi differiscono tra loro per il loro comportamento chimico. Un insieme di atomi, tutti della stessa specie, e che quindi hanno lo stesso comportamento chimico, si dice che formano un elemento. Nel caso di un corpo formato da molecole (di specie chimiche diverse), esso prende il nome di composto. In natura esistono fino a 92 tipi di elementi chimici stabili; gli altri, conosciuti come elementi transuranici, sono instabili giacché costretti a decadere, cioè a trasmutare nei corrispondenti elementi più stabili, mediante un processo che prende il nome di decadimento radioattivo.

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Chimica generale Ciascuno elemento è caratterizzato da specifiche proprietà sostanziali che nel loro insieme definiscono il carattere chimico vale a dire la complessiva capacità a scambiare legami con altri elementi; ciò avviene nel corso di un evento che prende il nome di reazione chimica. Il composto chimico può essere meglio definito come un insieme di molecole che ha una propria natura, cioè un proprio comportamento chimico (reattività,) e proprietà fisiche (colore, grado di durezza, temperatura, ecc.) che lo caratterizzano. Il peso molecolare è la somma dei singoli pesi degli atomi che la compongono.I corpi si offrono alla nostra osservazione per le proprie caratteristiche che vengono perciò dette proprietà. Le proprietà che eccitano i nostri organi di senso (colori, sapori odori) si dicono anche organolettiche.

8.2. Sistemi e loro proprietà La porzione di materia che cade sotto la nostra osservazione prende il nome generico di sistema. Un sistema è dunque ogni porzione isolata o limitata dello universo. Quando realizziamo una reazione chimica tra soluzioni acquose in un recipiente, il sistema è costituito dal contenuto del recipiente e non dal recipiente stesso. Il recipiente, l'aria e ogni altra cosa nelle vicinanze si dicono intorno del sistema. Tutto ciò che è posto al suo interno viene detto componente; le parti esterne ad esso costituiscono il così detto ambiente. Facendo riferimento ai possibili rapporti di scambio con l’ambiente, un sistema può essere chiuso, aperto, o isolato: un sistema si dice aperto se sono consentiti scambi tanto di materia quanto di energia tra l’interno e l’ambiente; il sistema si dice chiuso se esso non può scambiare con l’ambiente alcun componente, ma può scambiare solo energia; infine, si dice isolato se esso non può scambiare né materia ne alcuna forma di energia. Un sistema si dice chiuso, se non scambia materia con l'ambiente; isolato se non scambia neppure energia con l'ambiente. Ciascun componente in funzione della forma che assume rispetto il volume del sistema che lo contiene possono trovarsi in uno dei tre diversi stati di aggregazione, solido, liquido e gassoso. Un componente che si presenta con forma (e volume) propria, si dice che esso è allo stato solido (per i solidi la forma coincide col volume). Se invece il volume di un corpo abbisogna, per essere mantenuto, di un opportuno contenitore, si dice genericamente che esso è un fluido. Per i fluidi occorre disinguere tra fluidi liquidi e gas. Se il fluido assume la forma del suo contenitore mantenendo un volume proprio (cioè il volume proprio del contenitore non coincide con il volume proprio del fluido contenuto) si dice che esso è allo . stato liquido se invece esso, per effetto della sua espansione in tutte le direzioni, assume tanto la forma quanto il volume del contenitore, si dice che il fluido è un gas. Le caratteristiche riguardanti lo stato fisico sono di tipo formale; le caratteristiche che attengono al comportamento chimico sono invece di tipo sostanziale. Lo studio di un sistema prevede lo studio di ciascuno dei suoi 92 92


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componenti ciascuno dei quali si presenta alla nostra osservazione per le proprie caratteristiche che vengono perciò dette proprietà. Ogni proprietà si può esprimere come grandezza cioè correlabile alla nozione di numero reale. Ciascuna proprietà deve essere misurabile; è la misurazione che rende ogni fenomeno sperimentalmente determinabile ed i numeri ne sono l’espressione. L’osservazione scientifica si propone di confermare l’accordo tra le misure effettuate sperimentalmente ed i principi teorici espressi con le relazioni ricavate dalla logica matematica. I corpi si offrono alla nostra osservazione per le proprie caratteristiche, perciò dette proprietà. E’ attraverso l’osservazione condotta al fine di ricavare le informazioni necessarie per la valutazione delle proprietà di un corpo che si realizza la complessiva conoscenza. Il metodo scientifico realizza tale conoscenza mediante misurazioni delle proprietà che vengono espresse come rapporti (in lat. rationes) tra le grandezze osservate e le unità di misura scelte come riferimento. Le scienze sperimentali pertanto sono anche dette scienze razionali perché realizzano la conoscenza mediante tali misurazioni. Le proprietà che eccitano i nostri organi di senso, si dicono anche organolettiche, (tali sono il colore, il sapore, l’odore ecc.) Un processo evolutivo di un sistema è tale in quanto, alcuni (o tutti) dei suoi componenti mostrano cambiamento misurabile di una o più delle loro proprietà Ogni parametro necessario per descrivere uno stato viene definito funzione di stato. Pertanto, nella equazione dei gas ideali la pressione, il volume e la temperatura sono funzioni di stato. Anche l'energia è una funzione di stato. È importante ricordare che, se si specificano i valori di alcune funzioni di stato, tutti i valori delle altre funzioni vengono fissati di conseguenza. Per esempio, se si specifica la pressione e il volume di una mole di gas ideale, ne risulta fissata anche la temperatura (come pure l'energia e altre funzioni di stato). Una delle caratteristiche fondamentali delle funzioni di stato consiste nel fatto che le loro variazioni, lungo una trasformazione, non dipendono dal cammino percorso. Per esempio, se si varia il volume di un gas da VI a V2, la variazione A V non dipende da come si è effettuata la trasformazione. Quindi, per determinare le variazioni di una funzione di stato, è necessario conoscerne soltanto i valori iniziali e finali.

8.3 Aspetti energetici A) energia termica. Essa è la forma d'energia più nota e differisce dalla temperatura, in quanto quest'ultima è una misura arbitraria del livello termico del sistema. L'energia termica si misura arbitrariamente per mezzo di una unità di misura detta caloria. La caloria è quantità di calore necessaria per innalzare la tempera tura di un grammo di H 2O da 14,5° a 15,5 °C. Sperimentalmente si trova che 4,184 joule di energia meccanica si possono convertire in una caloria di energia termica. Le due quantità di energia si possono, pertanto, 93


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Chimica generale considerare equivalenti, anche se la trasformazione inversa non si effettua facilmente.

B) energia meccanica. si presenta sotto diverse forme tra cui possiamo citare l'energia cinetica e quella potenziale. In termodinamica, la forma di energia meccanica più frequente è il lavoro misurato in termini di forza x distanza o di pressione x volume. Le unir dimensionali del lavoro sono uguali nei due casi perchè la pressione è una forza per unità di superficie. Pertanto, il prodotto PV di un gas, rappresenta una energia e ha quindi le dimensioni di un lavoro. Questo tipo di lavoro è fatto dal sistema sul suo intorno. C) Energia chimica Se i componenti di un sistema variano la loro forma (i propri volumi,) lasciando inalterata la natura della sostanza, si dice che essi hanno subito un cambiamento dello stato fisico: i corpi hanno semplicemente scambiato energia con l’ambiente circostante (cioè si sono riscaldati o raffreddati). Lo scambio di energia può comportare un cambiamento dello stato fisico (passaggio di stato) o della natura chimica in quest’ultimo caso si dice che il componente ha subito cambiamento dello stato chimico, cioè nel sistema è intervenuto un fenomeno che prende il nome di reazione chimica. L’energia che si libera quando due atomi si legano tra loro per formare la molecola viene detta energia di legame. L’energia dei un legame covalente tra due elementi A e B di uguale elettronegatività è uguale alla media delle energie di legame delle molecole A-A e B-B dei due atomi costituenti, mentre se l’elettronegatività dei due atomi che si legano è molto diversa, l’energia di legame rispetto alla media delle energie di legame degli atomi costituenti risulta superiore un termine detto energia di risonanza, La molecola cioè risulta più stabile per la possibilità che ha di rimanere tra una forma covalente e una forma ionica.

8.4. Le fasi Secondo il loro stato di esistenza i corpi possono essere gassosi, liquidi o solidi. I primi posseggono il volume e la forma del contenitore i secondi posseggono la forma del contenitore ma volume proprio, gli ultimi, infine, posseggono forma e volume propri. Se due stati coesistono, essendo separati da una ben distinta superficie, a ciascuno di essi si da il nome di fase. Tale è, ad esempio, il sistema formato dal ghiaccio fondente, vale a dire acqua in fase solida (ghiaccio) in presenza della sua fase liquida; la medesima sostanza può dunque esistere contemporaneamente in due diversi stati di aggregazione, quando si realizza tale circostanza si dice allora che essa realizza un sistema bifasico; in opportune condizioni (cioè per determinati valori di temperatura e pressione) il composto realizza l’equilibrio trifasico, cioè si trova contemporaneamente allo stato solido, liquido e gassoso. Due liquidi diversi tra di loro immiscibili formeranno un sistema di due fasi (bifasico) mentre se sono completamente miscibili formeranno una fase unica (sistema monofasico) che prende il nome di soluzione, se sono 94 94


Chimica generale parzialmente miscibili formeranno un sistema bifasico. Il cambiamento dallo stato solido a quello liquido prende il nome di fusione, il cambiamento dallo stato liquido allo stato gassoso prende il nome di ebollizione, il passaggio dallo stato gassoso a quello liquido prende il nome di liquefazione e da liquido a solido solidificazione. Un particolare passaggio di stato prevede il passaggio dallo stato solido allo stato di vapore tale passaggio viene detto sublimazione e brinamento il passaggio inverso. Lo stato gassoso di un composto che in condizioni normali si trova allo stato liquido o solido, prende il nome di vapore. Se invece cambia la natura della sostanza del corpo, si dice che esso ha subito un cambiamento dello stato chimico e cioè che si è realizzato un fenomeno che prende il nome di reazione chimica. Ciascun corpo può esistere in uno dei tre diversi stati di aggregazione in funzione di quella che si chiama energia interna. Un corpo si dice che è allo stato solido se con la sua massa occupa un proprio volume, un corpo si dice che è allo stato liquido se esso possiede massa propria ma occupa il volume del suo contenitore, si dice infine che esso è allo stato di gas (ovvero di vapore) se la sua massa occupa tutto il volume che gli offre il circostante ambiente. In linea di principio possiamo affermare che a bassi valori di energia i corpi mantengono lo stato solido, per valori intermedi lo stato raggiunto è quello liquido, per alti valori i corpi si trovano allo stato di gas. Per tutti i corpi sono sempre possibili scambi di energia sotto forma di calore, ne risulta che il riscaldamento (o raffreddamento) comporta una modificazione dello stato fisico, meglio conosciuta come cambiamento di fase. La misura facilmente realizzabile per questi scambi di calore è la temperatura. Gli atomi che formano le molecole di ciascun componente allo stato solido non sono immobili, ma oscillano in continuazione e questa loro oscillazione aumenta con l'aumentare della temperatura dell’intero sistema. Quindi l'energia termica propria del corpo, quella che noi avvertiamo come la sua temperatura, è data dall'energia prodotta dal movimento degli atomi. Quando la temperatura del corpo raggiunge determinati valori, le aumentate oscillazioni degli atomi fanno sì che essi non occupino più il loro posto ma si trovino circondati da altre molecole anch’esse in moto disordinato. A questo punto si verifica la fusione del corpo, che da solido diventa fluido. La stessa cosa avviene in un liquido, che si trasforma in gas o, come si dice, evapora

note

Diagramma di stato dell’acqua: Un diagramma di stato riporta gli stati di esistenza di un sistema in funzione delle variabili fisiche pressione e temperatura, Al valore presso rio di una atmosfera (760mmHg) l’acqua fonde a zero gradi Celsius, pari a 273 gradi Kelvin (gradi assoluti) e bolle a cento gradi celsius (pari a 373 gradi assoluti.

8.5.1 Lo stato gassoso Boyle fu il primo a studiare quantitativamente la comprimibilità dei gas in un sistema isolato e cioè la loro capacità di variare il proprio volume al variare della pressione esterna. I risultati dei suoi esperimenti gli permisero di enunciare legge isoterma (detta di Boyle):a temperatura costante, il volume V di un campione di gas varia in modo inversamente proporzionale alla sua pressione P; cioè PV = costante

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Chimica generale Da tempo si sapeva che il volume di un gas tendeva ad aumentare all’aumentare della temperatura. Nel 1793 si interessò a questo problema Alessandro Volta, il quale intuì che il volume dei gas aumentava linearmente con l’aumentare della temperatura. Fu il fisico Charles a rilevare che il volume di gas differenti aumentava di una stessa frazione del volume occupato a 0°C. Più tardi Gay-Lussac enunciò la legge (detta isobara di Charles e Gay-Lussac o . Tale legge afferma che: a pressione costante, il volume di un gas per ogni variazione di 1°C della temperatura varia di 1/273 del volume Vo misurato alla temperatura di zero gradi centigradi : Vt = VO + 1/273 VO T= VO (1 + 1/273 T) La seconda legge o isocora di Charles e Gay-Lussac assume che: a volume costante, la pressione di un gas varia di 1/273 della pressione che il gas esercita a 0°C, per ogni grado centigrado di variazione della temperatura: Pt = PO + 1/273 Pot. Il valore 1/273 viene denominato coefficiente di dilatazione termica di un gas. La temperatura di -273°C rappresenta la temperatura più bassa alla quale può essere rappresentata la materia; essa non può essere sperimentalmente raggiunta e perciò viene indicata come lo zero assoluto della scala Kelvin. Le leggi finora viste possono essere combinate in un’unica legge che è espressa dalla relazione:

PV/T = costante Da questa relazione si può ottenere la relazione generale:

PV = nRT dove n sono le moli di gas. La costante R è detta costante universale dei gas ideali Le regolarità osservate da Gay-Lussac nei rapporti di combinazione dei gas hanno consentito ad Avogadro di: sviluppare la teoria atomico-molecolare e porre le basi per la determinazione dei pesi molecolari e delle masse atomiche degli elementi chimici. Questo perché: le particelle dei gas sono molto distanti le une dalle altre il volume occupato dalle particelle di un gas può essere considerato trascurabile rispetto al volume totale occupato dal gas. Secondo il principio di Avogadro il volume di una mole di qualunque gas è costante e corrisponde a 22,4 litri, alla temperatura di 273 oK e al valore di pressione unitario di una atmosfera. Tale volume contiene un numero sostante di molecole il cui valore più approssimato è pari a 6,022 x 1023; tale valore si può ottenere con misurazioni basate sui più disparati fenomeni quali la radioattività, l’elettrolisi, la teoria cinetica dei gas, la diffusione della luce, ecc. Per i gas reali le leggi enunciate valgono soltanto quando si opera a basse pressioni e a temperature elevate.

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8.5.2. Lo stato liquido Lo stato liquido è per molti aspetti uno stato con proprietà intermedie tra quelle dello stato solido e quelle dello stato gassoso. Alcune proprietà dei liquidi sono, infatti, simili a quelle dei solidi (volume proprio, incomprimibilità, espansione termica, densità, intensità delle forze tra le particelle, ecc.): altre sono invece vicine a quelle dei gas (mancanza di forma propria, isotropia, dinamicità delle particelle. ecc_). Risulta così che i liquidi possono essere accomunati ai solidi, venendo collettivamente chiamati fasi condensate, oppure ai gas, venendo chiamati, fluidi. Secondo il modello cinetico molecolare un liquido ha le seguenti caratteristiche: le particelle sono in moto continuo completamente disordinato; l'energia cinetica media è proporzionale alla temperatura assoluta: le particelle sono relativamente vicine tra loro. Nei liquidi, a differenza dei solidi, le particelle possono scorrere le une sulle altre ciò spiega perché essi non hanno forma propria. Quando un liquido è in movimento, le sue particelle, scorrendo tra loro, incontrano una resistenza chiamata viscosità, o attrito interno.La viscosità dipende dalle forze esistenti tra le particelle e dalla temperatura. Secondo il modello cinetico molecolare un liquido ha le particelle in moto continuo completamente disordinato (moto browniano). Lo stato liquido è per molti aspetti uno stato con proprietà intermedie tra quelle dello stato solido e quelle dello stato gassoso. Le sostanze covalenti e ioniche, a causa dei forti legami primari, in condizioni ordinarie sono solide ed hanno temperature di fusione elevate (dell'ordine di 1000"C e oltre). Anche i metalli sono quasi tutti solidi, ma hanno temperature di fusione estremamente varie (da 3 8 , 9 " C per il mercurio a 3380" C per il tungsteno). L'energia cinetica media delle particelle è proporzionale alla temperatura. Se le forze attrattive tra le particelle sono abbastanza intense (l'energia potenziale media è superiore all'energia cinetica media):le particelle sono relativamente vicine tra loro. Si può facilmente osservare che le prime due caratteristiche sono comuni ai gas (ed infatti anche per le particelle dei liquidi vale la legge di distribuzione delle energie secondo Maxwell e Boltzmann): le ultime due sono invece comuni ai solidi. Ad eccezione del mercurio, che è un metallo, i liquidi a pressione e temperatura ambiente sono costituiti da molecole, la cui coesione è dovuta alle forze intermolecolari. Essi sono quindi delle sostanze apolari di peso molecolare intermedio (es. CCI 4, CS2), oppure delle sostanze polari con basso peso molecolare (, CHCI 3, CH30 H , C2H S OH, ecc.). Le sostanze covalenti e ioniche, a causa dei forti legami primari, in condizioni ordinarie sono solide ed hanno temperature di fusione elevate (dell'ordine di 1000"C e oltre). Anche i metalli sono quasi tutti solidi, ma hanno temperature di fusione estremamente varie (da - 3 8 , 9 " C per il mercurio a 3380 " C per il tungsteno).

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8.5.3.Tensione superficiale ed evaporazione. Legge di H enry A temperatura costante, la quantità di un gas che si scioglie in un dato v o l u m e d i liquido, è direttamente proporzionale alla pressione esercitata sul gas.

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L'energia superficiale viene definita come il lavoro che bisogna compiere per aumentare la superficie. Essa trae origine dal fatto che le particelle sulla superficie di un liquido o di un solido sono attratte in modo diverso da quelle situate all'interno della massa. Ciò può essere spiegato in modo molto semplice: Le particelle interne sono statisticamente attratte dalle altre particelle in Tutte le direzioni. mentre quelle superficiali risentono di una forza attrattiva risultante diretta verso l'interno. Per aumentare la superficie di un liquido occorre che le particelle interne salgano in superficie ma, per fare questo, bisogna fornire loro un'energia tale da vincere l'energia attrattiva cui sono soggette, la quale è sempre maggiore di quella posseduta dalle molecole superficiali. L'energia che deve essere fornita è chiamata energia superfi-ciale. Anche questa proprietà delle fasi condensate è proporzionale alle forze che agiscono tra le particelle: essa viene espressa in joule/m2. Nel caso dei liquidi, correntemente si parla di tensione superficiale, anziché di energia superficiale. Le due grandezze hanno lo stesso valore numerico, ma la tensione superficiale è espressa in newton/m. Un aspetto interessante legato alla tensione superficiale è la forma delle gocce dei liquidi: per avere la minima energia superficiale, a parità di volume, i liquidi tendono ad assumere la forma che permette di ridurre al minimo la superficie, cioè la forma sferica. Una forma esattamente sferica è però realizzabile solo in assenza della forza di gravità: quest'ultima infatti deforma le gocce facendole assumere una forma allungata. Altri aspetti legati alla tensione superficiale sono la capillarità, la bagnabilità di una superficie, ecc. Per esempio, il mercurio non aderisce alle pareti del vetro: ciò significa che l'interazione tra gli atomi di mercurio è più forte di quella con le 'molecole" dei silicati che compongono il vetro; il contrario succede con l'acqua.Anche la forma del menisco (la superficie del liquido che si incurva a contatto delle pareti) è influenzata dalla tensione superficiale (convesso nel caso del mercurio, .ovvero nel caso dell'acqua). L'energia superficiale diminuisce con l'aumentare della temperatura. L’acqua evapora velocemente quando la superficie di estensione è elevata. Se mettiamo la stessa quantità di acqua in un recipiente chiuso notiamo che prima il livello diminuisce, ma che poi si ferma. Le particelle di un liquido non hanno tutte la stessa energia cinetica. Alcune delle particelle situate vicino alla superficie libera del liquido e che hanno energia cinetica più elevata riescono a vincere la forza di coesione passando allo stato di vapore. In un recipiente aperto a poco a poco tutta l’acqua diventa vapore. In un recipiente chiuso aumenta anche la possibilità che alcune particelle si condensino ed ad un certo punto si arriva alla condizione in cui il numero di particelle che diventano vapore nell’unità di tempo (velocità di evaporazione) eguaglia il numero di particelle che ridiventano liquide nell’unità di tempo (velocità di condensazione): si dice allora che il sistema ha raggiunto lo stato di equilibrio dinamico ed in q.ueste condizione il vapore si dice saturo, ad indicare che il numero di particelle presenti nella fase vapore è il numero massimo compatibile con la temperatura del sistema. La pressione costante che le particelle di vapore saturo esercitano sulla superficie del liquido è detta tensio-


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note

ne di vapore del liquido. Essa ha un valore tipico per ogni liquido puro e viene misurata con una canna barometrica. La tensione di vapore dipende da due fattori: la massa molecolare del liquido in quanto le molecole più pesanti si muovono più lentamente delle molecole più leggere hanno minor tensione di vapore, e le forze intermolecolari che determinano la coesione del liquido stesso. Liquidi caratterizzati da forze intermolecolari elevate richiedono una notevole quantità di energia e la loro tensione di vapore è elevata.

8.6. La legge di Henry 'Se consideriamo (ad esempio l'acqua) a contatto con un gas, (per esempio ossigeno) le molecole del gas in continuo movimento urtano contro la superficie libera del liquido ed il gas si scioglie nell'acqua, diffondendo poi in tutto il volume del liquido. Col passare del tempo altre molecole del gas si sciolgono, ma contempora-neamente molecole di gas disciolto abbandonano l'acqua per tornare nella fase aeriforme. A un certo punto si raggiunge un equilibrio dinamico, per cui il numero delle molecole di gas che si sciolgono nel liquido è uguale a quello delle molecole che abbandonano la soluzione per tornare allo stato aeriforme. Questo perché le molecole del gas in continuo movimento urtano contro la superficie libera del liquido ed il gas si scioglie nell'acqua. Se noi aumentiamo la pressione esercitata sul gas, il numero delle molecole per unità di volume aumenta e quindi aumenta il numero delle molecole di gas che vengono a contatto col liquido ed il numero delle molecole di gas che si sciolgono. Possiamo ora enunciare la legge di Henry e dire che:"a temperatura costante, la quantità di un gas che si scioglie in un dato v o l u m e d i liquido, è direttamente proporzionale alla pressione esercitata sul gas. Nell'acqua vi è sempre dell'ossigeno disciolto e la presenza di questo ossigeno rende possibile la vita dei pesci e delle piante acquatiche. Se noi abbassiamo la pressione, togliendo l'aria da un recipiente riempito parzialmente di acqua, la quantità di ossigeno disciolto nell'acqua diminuisce e in quest'acqua non possono più vivere pesci. La quantità di un gas che. si scioglie in un liquido non dipende solo dalla pressione e temperatura ma anche da altri fattori che sono la natura chimica del liquido e del gas. Alcuni gas, come l'azoto, l'ossigeno e l'elio, hanno una bassissima solubilità in acqua perché, essendo questi gas poco reattivi, non si formano dei forti legami tra le loro molecole e le molecole di acqua. Vi sono invece dei gas che reagiscono con l'acqua, dando dei veri composti chimici ben definiti. Ad esempio l’'anidride carbonica CO2, reagisce con l’acqua secondo la seguente reazione: CO2+H2O↔H2CO3; cioè una soluzione di anidride carbonica ha una parte di molecole fisicamente disciolte ed una parte che ha invece reagito formando l'acido carbonico. Dato che il solvente al quale ci riferiamo, definiamo coefficiente di solubilità di un gas il volume del gas che in condizioni normali (0° cd una atmosfera) si scioglie in un volume unitario di acqua. Un altro fattore

Le particelle interne sono statisticamente attratte dalle altre particelle in Tutte le dire z ioni. me ntre que lle superficiali risentono di una forza attrattiva risultante diretta verso l'interno. Solo le molecole dotate di grande valore di energia possono passare nel sovrastante fase vapore (evaporazione). E’la

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note

Chimica generale

La Concentrazione 1)la percentuale in volume (%): numero di centilitri (Vi) di un componente, i, contenuti in 100 ml di soluzione %=

Vi litri soluto ⋅ 100 = litri soluzione Vt ⋅ 100

2)la frazione molare (xi): rapporto fra il numero di moli (ni) del componente “i” e il numero di moti totali (nt=n1+...+ni) presenti in soluzione xi =

ni nt

con

∑ xi = 1 i

3) la molarità (M): numero di moli (ni) di un soluto “i” contenuti in un litro di soluzione M=

n soluto Vsoluzione

da prendere in considerazione è la temperatura. All'aumentare della temperatura l'energia cinetica delle molecole aumenta e quindi i legami che si sono formati tra le molecole di gas e quelle dell'acqua sono rotti più facilmente. Ne risulta che la solubilità di un gas diminuisce all'aumentare della temperatura. E’ esperienza comune che portando a temperatura ambiente un bicchiere di birra fredda, dopo un po' di tempo, man mano che la birra si riscalda, si formano delle bollicine, proprio perché all'aumentare della temperatura la solubilità dei gas diminuisce. Se si porta all'ebollizione dell'acqua, la solubilità dei gas disciolti (azoto ed ossigeno) diminuisce talmente che l'acqua può considerarsi deareata. L'acqua bollita, per esempio, non può essere immediatamente utilizzata per i pesci, perché non contiene ossigeno. L'effetto della temperatura sulla solubilità di un gas in un liquido ha importanza anche per la respirazione umana. Il trasferimento di ossigeno dagli alveoli nel flusso sanguigno è aiutato dal fatto che la temperatura del sangue che lascia i polmoni è leggermente inferiore a quella del sangue che vi arriva.

8.7.1. Miscugli e soluzioni Un insieme di due (o più) composti formano un miscuglio. Se ciascuno dei componenti la miscela conserva dopo il mescolamento tutte le proprie caratteristiche fisiche inalterate (colore, peso specifico, densità, indice di rifrazione, ecc.), si dice che essi formano un miscuglio; esso risulta pertanto fisicamente eterogeneo in quanto ciascun componente conserva le proprietà fisiche che lo caratterizzano sono per cui, con opportune ed adeguate metodiche, è sempre possibile separarlo dalla miscela. Quando invece la miscelazione risulta in un intimo mescolamento dei componenti, per cui non è più possibile differenziarli nelle singole caratteristiche fisiche, allora si dice che si è avuta formazione di una soluzione cioè di una miscela fisicamente omogenea in ogni suo punto. Il componente presente in maggiore quantità prende il nome di solvente e quello, o quelli, in minore quantità prende (prendono) il nome di soluto. Le sostanze usate per definire la composizione di una soluzione si dicono componenti: Il componenti, di solito quello presente in grandissima quantità, è detto solvente; ogni altro componente è detto soluto. Nel seguito si considereranno quasi esclusivamente soluzioni formate da due componenti.

8.7.2. La concentrazione delle soluzioni A seconda dello stato di aggregazione le soluzioni possono essere:gassose; i gas, con l’eventuale eccezione dei casi in cui avvengono delle reazioni chimiche, sono miscibili fra di loro in assosi è regolato essenzialmente dalla legge di Dalton; liquide; le soluzioni liquide possono essere costituite da una delle seguenti coppie soluto100 100


Chimica generale

note

solvente; liquido-liquido; gas-liquido; solido-liquido; solide; le soluzioni solide possono essere costituite da una delle seguenti coppie soluto-solvente: liquido-solido; gas-solido; solido-solido. La quantità relativa di una sostanza è nota come la sua concentrazione e viene espressa secondo diverse serie comuni di unità. La ragione dell’uso effettivo di diverse unità di misura è legata al fatto che esistono diversi metodi sperimentali per determinare le concentrazioni e che alcune leggi delle soluzioni possono essere espresse per mezzo di formule matematiche particolarmente semplici scegliendo una opportuna unità di misura per la concentrazione. In generale si definisce concentrazione di una soluzione la quantità di soluto presente in un volume unitario di soluzione, restando sottinteso che la soluzione è allo stato liquido, essendo il solvente l’acqua. La concentrazione viene, infatti, comunemente espressa come grammi/litro cioè grammi di soluto presenti in un litro di soluzione (g/l). Nei calcoli si preferisce esprimere la quantità di soluto in numero di moli. Una mole corrisponde al peso molecolare espresso in grammi. Una maniera abituale di esprimere la concentrazione è anche il percento, vale a dire il rapporto tra la quantità di soluto, misurata in peso o in volume, e la quantità di soluzione riferita a 100 parti in peso, ovvero in volume. La notazione percentuale è così seguita dalle unità di misura prescelte (% g/g, % g/v ovvero %v/v). Infine può essere utile esprimere la concentrazione come rapporto fra il numero di moli del soluto e il numero di moli totali (soluzione più soluto). I modi più comuni per esprimere le concentrazioni sono dunque i seguenti: Percentuale in peso (%): numero di grammi (gi) di un componente “i” contenuti in 100 g di soluzione. Se una soluzione viene preparata pesando le quantità dei vari componenti, può essere comodo esprimere la concentrazione di un componente come rapporto fra la massa del componente in questione e la massa della soluzione. 2) La molarità (M): numero di moli n, di soluto contenuti in un litro (=1000 cc) di soluzione 3) la molalità (m): numero di moli ni di un soluto “i” contenuti in 1000 g di solvente. La molalità è una unità utile nei calcoli di crioscopia (punto di congelamento) e di ebullioscopia delle soluzioni, ma poiché è difficile pesare i solventi liquidi, la molalità è scomoda per il comune lavoro da laboratorio. Per soluzioni acquose molto diluite (ossia numero di moli di soluto piccolo rispetto al numero di moli di solvente) la molalità è circa uguale alla molarità, poiché la densità della soluzione è circa uguale ad 1 (densità dell’acqua). Per le soluzioni in cui i singoli componenti isolati siano allo stato solido (in genere tali sono i sali), le quantità solitamente si esprimono in grammi (g); per le soluzioni i cui componenti sono allo stato fluido (liquido o gas) le quantità si esprimono in litri, l, o nei sui sottomultipli i millilitri, ml (1). Se non è altrimenti specificato, per solvente si deve sempre intendere l’acqua e la soluzione deve essere sempre intesa come soluzione acquosa. Nei calcoli chimici le concentrazioni sono anche espresse in:

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note

Chimica generale 3) normalità (N) in cui la quantità di soluto è calcolata come numero di grammo-equivalenti (o più semplicemente equivalenti) di soluto presenti in un litro di soluzione, essendo: Grammo equivalente = grammomolecola/n Con n numero intero. Per calcolare n occorre prima definire la natura chimica del soluto e precisamente nel caso di acidi n è uguale al numero di protoni acidi ovvero, nel caso di basi di ioni ossidrile che essa dissocia; nel caso che il soluto debba essere impiegato in un sistema di ossido-riduzione n corrisponde alla differenza del numero di ossidazione prima e dopo la reazione stessa. Si hanno diversi tipi di soluzione secondo la diversa natura chimica di ciascuno dei suoi componenti oltre che del loro stato di aggregazione. Una soluzione in cui il solvente è allo stato di gas e il soluto è un solido prende il nome di fumo; nel caso in cui il solvente sia allo stato solido ed il soluto allo stato gassoso si parla di pomici. Nel caso di una soluzione il cui solvente è in fase liquida e di un soluto in fase gassosa, si parla di schiuma. Alle soluzioni, in cui il solvente è un liquido (in particolare il mercurio) ed il soluto un solido (in particolare un metallo) si dà il nome di amalgama. Un amalgama particolare è quello realizzato sciogliendo nel mercurio (liquido) diversi metalli quali l’oro, il sodio ecc. Nel caso che il soluto sia una macromolecola o un polimero, cioè una molecola formata da molte decine o centinaia di migliaia di atomi (tali sono alcuni polimeri naturali come l’ amido o gli acidi nucleici) si ottengono particolari soluzioni dette colloidi. Esistono delle sostanze, dette tensioattive, che fanno diminuire sensibilmente la tensione superficiale dell'acqua, anche se aggiunte in piccole quantità, migliorandone le capacità emulsionanti e detergenti.

8. 8. Metodi di separazione I principali metodi per separare un sistema eterogeneo nelle fasi che lo costituiscono sono di due tipi: metodi fondati sulla differenza di densità tra le fasi sfruttando l’azione della forza di gravità (sedimentazione) o della forza centrifuga (centrifugazione); metodi fondati sulla differenza di dimensioni (filtrazione) delle particelle che costituiscono le fasi: il sistema passa attraverso un materiale poroso che funziona da filtro. I metodi che permettono di separare un solido da un liquido sono la decantazione sono la decantazione, la filtrazione e la centrifugazione

8.8.1 La decantazione Il procedimento della decantazione sfrutta la forza di gravità che spinge verso il basso le particelle solide in

102 102


Chimica generale

note

soluzione. Per eseguire una decantazione basta lasciare sedimentare il solido al fondo del contenitore e allontanare quindi il liquido sovrastane per versamento.

8.8.2 filtrazione La filtrazione è la tecnica più comunemente usata sia che si voglia recuperare la fase liquida, sia che interessi raccogliere la fase solida. Il materiale comunemente adottato nell’allestimento di un sistema filtrante è la carta da filtro costituita da semplici fibre di cellulosa. Gli interstizi tra le diverse fibre definiscono la porosità e quindi le dimensioni delle particelle che essa è in grado di filtrare. Altri filtri possono essere fatti di porcellana o di asbesto o anche polvere di diatomee (farina fossile). Questi materiali che possiedono fori piccolissimi sono impenetrabili ai comuni batteri ma non ai virus, per cui vengono spesso usati nelle tecniche di batteriologia. Filtri a porosità ancora minore (ultrafiltri) vengono utilizzati per filtrare le particelle colloidali. Tali dono i filtri dializzatori di cellophan che vengono impiegati nelle tecniche di biologia molecolare.

8.8.2 centrifugazione La centrifugazione è il metodo più convenientemente usato nei laboratori quando si voglia separare un solido da un liquido o da un altro liquido di diversa densità per mezzo della forza centrifuga. Tale tecnica diventa esclusiva nel caso si vogliano recuperare piccole quantità di solido molto finemente disperso in soluzioni di tipo colloidali: tale è il caso delle macromolecole biologiche e degli organuli sub-cellulari. La sostanza da trattare viene immessa in un rotore posto in rapida rotazione intorno al proprio asse L’accelerazione centrifuga che ne deriva per effetto della rotazione agisce sui corpi in soluzione che tenderanno a disporsi sul fondo della provetta che li contiene Le comuni centrifughe cosiddette da tavolo raggiungono una velocità di sole 3.000-5.000 giri al minuto (r.p.m.) Le supercentrifughe raggiungono i 20.000-50.000 r.p.m. e le ultracentrifughe superano i 70.000. r.p.m.

8.8.3 distillazione Nel caso di un sistema omogeneo per la separazione dei diversi componenti si sfrutta il loro diverso grado di volatilità mediante il procedimento della distillazione. Una distillazione si esegue mediante ripetute evaporazioni e condensazioni in modo da arricchire gradualmente il vapore del componente più volatile; la distillazione è impiegata, ad esempio, per ottenere i cosiddetti distillati dalle bevande alcoliche di fermentazione naturale e quindi a basso tenore alcolico: I distillati, al contrario, può arrivare ad un contenuto alcolico fino al 50-70% e oltre in contenuto alcolico.

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note

Chimica generale Condizione essenziale affinché si possa eseguire una distillazione è che i componenti non si decompongano per effetto del riscaldamento. La distillazione si dice semplice se comporta la separazione di un liquido volatile da una o più sostanze non volatili. Al contrario si dice frazionata se comporta la separazione di un composto da una miscela di due o più liquidi con differente temperatura di ebollizione. La distillazione semplice la miscela viene posta in un palone e riscaldata fino a quando il componente a più basso valore di temperatura di ebollizione non si separa ed il vapore raccolto (distillato) da un condensatore. Nella distillazione frazionata si interpone fra il pallone ed il condensatore una colonna di distillazione: il vapore che sale nella colonna per effetto del calore si condensa nella colonna; continuando il riscaldamento sale altro vapore che scambia col liquido della colonna il proprio calore facendo evaporare una frazione più volatile che sale per ricondensarsi sul piatto della colonna più in alto. In tal modo solamente la frazione più volatile riuscirà a raggiungere la testa della colonna e a distillare. Quando è passata la prima frazione si aumenta il riscaldamento facendo distillare la seconda frazione.

8.9. Le miscele azeotropiche E’ noto che non tutte le miscele liquide sono separabili per distillazione, tale è il caso delle miscele azeotropiche. Vengono dette azeotrope quelle miscele che per ebollizione danno un vapore di composizione analoga alla composizione del liquido da cui si liberano. Distillando un azeotropo non si riesce perciò ad arricchire la fase vapore del componente più volatile. Così, ad esempio, da una miscela di acqua ed alcole etilico si riesce al massimo ad ottenere per distillazione una concentrazione di alcole del 95%: raggiunta questa concentrazione il liquido distilla un vapore la cui concentrazione è sempre la stessa, di conseguenza la miscela distilla inalterata e la composizione del distillato è sempre quella dell’azeotropo.

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note

Chimica generale

Cap IX Le proprietà colligative 9.1. Legge di Raoult Ogni soluzione consiste in una miscela fisicamente e chimicamente omogenea, costituita da due o più componenti dispersi l’uno nell’altro sotto forma di particelle ioniche o molecolari di composizione variabile, almeno entro certi limiti, in modo continuo. L’aggiunta di un soluto poco volatile (ad es. solido) in un solvente causa variazione della tensione di vapore e per conseguenza di tutte le proprietà ad essa collegate che per ciò stesso vengono dettte colligative. Tali sono l’abbassamento crioscopico, l’innalzamento ebullioscopio e la pressione osmotica. Le variazioni della tensione di vapore sono direttamente proporzionali alla concentrazione del soluto espressa come frazione molare x. Queste proprietà dipendono dal numero relativo di particelle di soluto rispetto al solvente. In linea di principio esse sono una diretta conseguenza della Legge di Raoult. Tale legge afferma che la pressione parziale di un componente una soluzione ideale è uguale alla sua tensione di vapore moltiplicata per la sua frazione molare:

Pi = xiP°i dove Pi e xi sono la pressione parziale e la frazione molare del componente i-esimo e P°i è la tensione di vapore del componente i-esimo puro alla stessa temperatura. Per soluzione ideale si intende una soluzione la cui diluizione abbastanza diluita tale che nel suo comportamento rispetta appunto la legge di Raoult. Una soluzione ideale deve essere tale in quanto nella miscelazione dei suoi componenti non viene scambiato calore e inoltre il volume complessivo deve essere uguale alla somma dei volumi dei singoli componenti. Così, ad esempio, una soluzione di acqua ed alcol non è ideale in quanto nella miscelazione acqua-alcol etilico si ha contrazione di volume. Nel caso di una soluzione il cui soluto è poco o niente volatile (tali sono i sali) si ha un netto abbassamento della tensione di vapore del solvente (acqua). A questo abbassamento corrisponde un innalzamento del punto di ebollizione ed un abbassamento del punto di congelamento. L’abbassamento della tensione di vapore di un liquido causato dall’ aggiunta di un soluto non volatile può variare facilmente all’interno di una canna barometrica. Tale abbassamento è visualizzato dall’innalzamento del livello del mercurio nella canna barometrica rispetto al livello raggiunto dal solvente puro. Tale diminuzione è proporzionale al numero di mole di un soluto presente nella soluzione considerata. Ciò significa che in uguali quantità in peso di un medesimo solvente si solubilizza, ad esempio, lo stesso numero di moli di soluti diversi si osserva che l’abbassamento della tensione di vapore ha lo stesso valore per ogni soluzione. Come abbiamo detto la temperatura di ebollizione corrisponde a quel valore di temperatura alla quale la


note

Chimica generale P tensione di vapore eguaglia la tensione atmosferica (760 millimetri di mercurio). Si comprende allora che l’ab(mmHg) bassamento della tensione di vapore di una soluzione la temperatura di ebollizione aumenterà rispetto alla temperatura di ebollizione del solvente puro. Se consideriamo una generica soluzione acquosa essa bollirà non piu a 100 gradi bensi ad una temperatura superiore. Tale aumento risulta essere proporzionale alla concentrazione espressa in molarità:

∆Teb=kebxm

tensione di vapore della soluzione

liquido ghiaccio

760

Dove: keb=costante ebuldoscopica m=concentrazione in molarità

vapore ∆t

0

eb

Temperatura (°C)

All'innalzamento della temperatura di ebollizione corrisponde un'abbasamento della temperatura di fusione; tale abbassamento si musura con un apparecchio detto criostato. Tale abbasamento è sempre proporzionale al numero di moli del soluto:

∆Tcr=kcrxm Dove: kcr=costante croscopica m=concentrazione in molarità La costante criosopica è 1,86°C. il che vuol dire che un po di soluto della soluzione si innalzerà di 1,86°C

9.2. La pressione osmotica Ponendo a contatto due soluzioni a differente concentrazione il processo di diffusione del soluto porta all'annullamento di tale differenza. E un processo sostanzialmente simile a quello che avviene quando colleghiamo due recipienti che contengono dei gas a differente pressione. Se poniamo invece tra le due soluzioni una membrana semipermeabile, tale processo non avviene in quanto la membrana semipermeabile non permette il passaggio del soluto. Tale situazione è illustrata in figura a lato. La membrana è in contatto da una parte con la soluzione (B) e dall'altra con il solvente puro (A). Tra le due fasi - solvente e soluzione - si verifica un passaggio di solvente nel senso atto a diluire la soluzione. Interviene un processo di diffusione del solvente che aumenta il volume della soluzione e di conseguenza la sua pressione idrostatica il cui valore prende il nome di pressione osmotica. L'osmosi, cioè il passaggio di solvente e non del soluto attraverso le membrane semipermeabili si realizza mediante membrane di tipo diverso. Il comportamento di membrane vegetali ed animali è correttamente inter-

.. . .. . . . . B. . . . .

. .

A

.

innalzamento livello

.

.

solvente

.

.

106


note

Chimica generale pretabile come modello delle membrane semipermeabili in quanto realizzano un processo di solubilità selettiva. Quando due soluzioni hanno la stessa concentrazione in particelle, hanno la stessa pressione osmotica; si dicono allora isotoniche, nelle soluzioni isotoniche gli scambi di solvente si equilibrano e non si manifesta pressione osmotica. Il comportamento delle molecole di soluto all'interno della soluzione è simile a quello delle molecole di una massa gassosa. Per la pressione osmotica, vale la stessa equazione trovata per i gas. Il suo valore è infatti calcolabile con una espressione perfettamente identica a quella del gas sostituendo al valore della pressione P il valore della pressione osmotica Π si ottiene la relazione:

ΠV = n R T possiamo esprimere la π in f unz ione della molarità:

Π V = [M]RT dove: Π = pressione osmotica in atm n = numero di moli R = 0,0821 atm/mol K (costante universale dei gas perfetti) V = volume della soluzione in litri [M] = molarità della soluzione

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Chimica generale

Cap X Le soluzioni elettrolitiche 10.1. Il grado di dissociazione. Le sostanze che si sciolgono in acqua (ed in generale nei solventi polari) si dividono in elettroliti e nonelettroliti. Gli elettroliti sono sostanze che disciolte in acqua si dissociano, in misura più o meno elevata, in ioni di carica opposta. Il termine "elettrolita" fa riferimento al fatto che solo le soluzioni che contengono ioni di carica opposta sono in grado di dare processi elettrolitici. I non-elettroliti, al contrario, sono sostanze che sciolte in acqua non si dissociano in ioni di carica opposta. Sono esempi di non elettroliti il glucosio, l'alcool etilico, l'anidride carbonica. Il termine "non-elettrolita" fa riferimento all'impossibilità per le soluzioni che contengono questo tipo di soluti di dare il processo dell'elettrolisi. Gli elettroliti si dicono forti quando si dissociano in modo completo. Sono elettroliti forti quasi tutti i sali, gli acidi forti (HCl, HBr, HI, HNO3 etc) e le basi forti (idrossidi dei metalli alcalini e alcalino-terrosi). Gli elettroliti si dicono deboli quando sono solo parzialmente dissociati. Sono elettroliti deboli gli acidi deboli (HF, H2S, HCN HNO2 etc) e le basi deboli (gli idrossidi degli altri metalli). Si definisce grado di dissociazione α il rapporto tra il numero di moli dissociate ed il numero di moli inizialmente presenti.

α=

ndissociate niniziali

Il grado di dissociazione è evidentemente uguale a 0 per i non-elettroliti, è pari a 1 per gli elettroliti forti e assume valori compresi tra 0 ed 1 per gli elettroliti deboli. Se una sostanza presenta ad esempio un grado di dissociazione pari a 0,3 significa che per ogni 100 molecole che sono state poste in soluzione, 30 si sono dissociate in ioni, mentre 70 sono disciolte senza essere dissociate. Per esemplificare quanto detto prendiamo in considerazione la pressione osmotica. Abbiamo visto che la pressione osmotica si calcola dalla relazione:

π = MRT La pressione osmotica di una soluzione 0,1 M di un qualsiasi soluto a 20°C dovrebbe dunque essere pari a

π = 0,1 ⋅ 0,082 ⋅ 293 = 2,4atm Tuttavia, se misuriamo la pressione osmotica di una soluzione 0,1 M di cloruro di sodio, NaCl nelle stesse con-

note


note

Chimica generale dizioni di temperatura, troviamo un valore doppio, pari a 4,8 atm. Tale fenomeno si spiega facilmente se consideriamo che il cloruro di sodio, come quasi tutti i sali, è un elettrolita forte (α = 1) ed è quindi completamente dissociato. In soluzione non si trovano dunque 0,1 moli per litro di molecole di NaCl, ma 0,1 mol/l di ioni Na+ e 0,1 mol/l di ioni Cl-,

per un totale di 0,2 mol/l di particelle.

Poiché la pressione osmotica è una proprietà colligativa, il suo valore effettivo dipende dal numero di particelle effettivamente presenti, che in questo caso particolare risultano essere esattamente il doppio di quelle teoricamente immesse in soluzione. In generale dunque per ottenere dei valori attendibili per le proprietà colligative sarà necessario moltiplicare il numero di moli teoriche per un coefficiente che ci dia il numero di particelle effettivamente presenti in soluzione. Per trovare il numero di particelle effettivamente presenti possiamo procedere in questo modo: supponiamo di mettere in soluzione n moli di un elettrolita E il quale si dissoci in n ioni e presenti un grado di dissociazione α. Allora: n = numero di moli inizialmente presenti nα = numero di moli che si dissociano n - nα = numero di moli indissociate nαν = numero di ioni che si formano dalle moli dissociate

(n - nα) + nαν = numero di moli indissociate + numero di ioni che si formano = numero totale di particelle. Raccogliendo a fattor comune il numero di moli n inizialmente presenti si ottiene

n (1 - α + αν) La quantità (1 - α + αν) è detta numero i di van't Hoff e rappresenta per l'appunto il coefficiente per cui è necessario moltiplicare il numero di moli iniziali n per ottenere il numero di particelle effettivamente presenti in soluzione. Il numero “i” di van't Hoff rappresenta quindi il coefficiente per cui è necessario moltiplicare il valore teorico di una proprietà colligativa per ottenere il valore effettivo. Nel caso della pressione osmotica possiamo dunque scrivere

109 109


Chimica generale

π effettiva = π teorica ⋅i =

( n ⋅i ) RT V

Consideriamo ad esempio un generico elettrolita debole A B, per il quale esiste in soluzione il seguente equilibrio: AB <-> A+ BEd indichiamo con a il grado di dissociazione e con v il numero di ioni che provengono dalla dissociazione

note π = c RT π = Pressione osmotica c= concentrazione in molarità R = costante universale dei gas perfetti= 0,0821 T = temperatura in °K = °C +273 i= coefficiente di van 't Hoff = Πsperimentale Π calcolato

di una singola molecola. Il numero totale di particelle dopo la dissociazione è dato dall’espressione:

∆sperimentale I = —————————— ∆calcolato

numero totale di particelle dopo dissociazione 1+α(v−1) = ——————————————————— = ——————- = 1+α(v+1) numero totale di particelle disciolte 1

Nel caso di elettroliti forti i è dunque un numero intero ν esprimente il numero di particelle ioniche dissociate. Abbiamo visto che un elettrolita debole si può considerare dissociato completamente solo a diluizione infinita, per cui una soluzione di elettroliti debole contiene generalmente anche molecole di soluto non dissociate (a < 1). Il totale delle particelle di elettroliti debole presenti in soluzione, ntot, sarà quindi dato dalla somma delle particelle dissociatesi (ioni), pari a αnν, e di quelle rimaste indissociate (molecole), pari a: n -

α n; per cui: n tot, = α n ν + (n - α n) Mettendo in evidenza n, ed α possiamo scrivere: ntot, = n [ 1 + α (ν - 1)] L'espressione tra parentesi quadrate della è il fattore di dissociazione che va introdotto nelle formule delle proprietà colligative relative a soluzioni di elettroliti deboli. Per soluzioni sufficientemente diluite, esso è pari al fattore di van’t Hoff, dalla cui determinazione si può quindi risalire al grado di dissociazione α dell'elettrolita debole.

10.2. Osmolarità L’abbassamento della tensione di vapore, l’innalzamento della temperatura di ebollizione, l’abbassamento delle temperatura di congelamento e la pressione osmotica sono tutti fenomeni causati dall'aggiunta di un soluto. Tali proprietà sono funzioni del numero delle particelle di soluto effettivamente presenti in soluzio-

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note

Chimica generale ne, per cui, piuttosto che di molarità si deve parlare di osmolalità di una soluzione. Viene definita osmole di una sostanza la quantità della stessa che, in soluzione realizza una mole di particelle. Se prendiamo in esame, ad esempio, il cloruro di sodio che si d issocia in Na + e Cl - , per avere una osmole è necessario prendere 1/2 mole del sale. Quindi: 1 mole = 58,5 g; 1 osmole = 58,5 g/2 = 29,25 g. Per il CaCl2, che sciolto in acqua dà 3 ioni, la osmole sarà pari a 1/3 di mole. Quindi 1 osmole = 111 g/3 = 27g. Quindi: 1 mole = 58,5 g; 1 osmole = 58,5 g/2 = 29,25 g

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note L’unita di misura dei pesi è il grammo, g che corrisponde al peso di un centimetro cubo di acqua. Spesso vengono anche impiegati i suoi sottomultipli che sono mg= 0,001g = 10-3 g; pg= picogrammo = 0,000001g = 10-6 g; ng= nano grammo = ,000000001g = 10-9g. nei calcoli tecnici si usano spesso alcuni multipli del grammo che sono: Kg (chilogrammo)=1000g= 103 g; Ton = tonnellata = 1.000.000 g = 106 g L’unita di misura usata per misurare i volumi è il centimetro cubo (cm3, ovvero cc); nella pratica la misura dei volumi si esprime in litri l, che equivale a 1000 cc. Conoscere il volume occupato da un corpo di massa m, V, vuol dire determinarne la densità, δ, dalla semplice relazione di proporzionalità : V = δ x m → δ = m/V. Per un liquido di densità unitaria, ed è questo il caso dell’acqua, si ha l’uguaglianza tra la sua massa espressa in peso e suo volume: V = m, cioè 1 cc=1

Chimica generale

Cap XI La misura 11.1 strumenti di misura ed errori La misura del valore di ciascuna grandezza viene realizzata mediante l’impiego di opportuni strumenti. Ogni strumentazione è tuttavia sempre soggetta ad errori insiti con la meccanica di costruzione; tali tipi di errori vengono allora detti sistematici. Gli errori che dipendono dalla capacità di lettura dell’operatore, sono invece detti errori casuali. Ogni misurazione per essere attendibile deve presentare un alto grado di riproducibilità. Quando la stessa misura viene ripetuta più volte quanto più sono i valori tra loro vicini quanto più è alto il grado di precisione. La conversione di una grandezza fisica in un valore numerico di un fenomeno qualitativamente osservabile consente la sua trasposizione in un modello matematico sperimentalmente misurabile. L'idea che guida il ricercatore nell'elaborazione di tale modello è che una situazione sperimentale qualsiasi è determinata. Lo studio del fenomeno che costituisce questa situazione sperimentale consiste nel mettere in evidenza possibili cambiamenti che si possono spiegare con meccanismi che modificano le probabilità di risposta. La serie di avvenimenti che si verifica, di prova in prova, può essere espressa dalle modificazioni di tali probabilità. Quando ci si trova in presenza di un numero elevato di situazioni, le modificazioni, sotto forme diverse, portano a un modello probabilistico.

11.2. Il modello matematico Quattro tappe successive permettono l'elaborazione di un modello matematico con cui interpretare ogni processo: La cosiddetta formalizzazione consiste nella messa a punto di un modello matematico a partire da una data situazione sperimentale e da una teoria che si riferisce a essa. Una teoria è un insieme di conoscenze puramente razionali, che servono di base al sistema descritto e relativo a una classe di situazioni e non a una situazione particolare. Un modello rappresenta un insieme di assiomi formulati matematicamente, relativo a una classe di situazioni ed esprimente una teoria. Lo sviluppo di un modello da sottoporre ad analisi matematica porta a risultati teorici immediatamente controllabili sperimentalmente. Il modello è interamente definito dagli assiomi; una volta posto, non vi è introdotta in effetti alcuna ipotesi; in realtà esso contiene più di quanto gli sia stato fornito in partenza poiché si possono trarre risultati teorici convalidabili che non si sarebbe potuti dedurre da


Chimica generale

note

un ragionamento che non fosse sostenuto dallo strumento matematico. Il confronto statistico è la tappa successiva nella quale il confronto delle predizioni teoriche del modello e i dati sperimentali pongono problemi che la metodologia statistica più delle volte risolve. Si può pensare a priori che, quando il confronto delle predizioni teoriche del modello e i dati sperimentali sono in accordo, le ipotesi di base del modello siano confermate sperimentalmente; ciò nondimeno esse non lo sono tutte sistematicamente e in tutti i casi: le stesse predizioni sono in questo caso ricavate solo da una parte delle ipotesi. Si è allora potuto mettere in evidenza la compatibilità del modello iniziale con tutta una classe di modelli (modi lo generale), di cui il modello iniziale sarebbe solo un rappresentante. In genere, le situazioni particolari dei diversi possibili modelli possono essere sottoposte a un'analisi che metta in evidenza serie di particolarità, le quali servono da elementi per il modello generale. Infatti si può affermare che lo studio dei modelli mostra come essi acquisiscono un senso completo e una loro utilità proprio nei confronti tra vari esperimenti, La realizzazione un modello richiede comunque un'analisi critica severa e sistematica della teoria; inoltre essa può programmare la ricerca, servendo di guida per nuove ipotesi che potranno a lo volta essere di guida per la formulazione finale di una legge.

113


Chimica generale

Cap. XII Rapporti ponderali di combinazione 12.1 leggi fondamentali Boyle (1600) fu il primo a seguire un nuovo metodo di indagine in chimica il cui scopo era quello di stabilire la struttura dei corpi attraverso la loro analisi (decomposizione). Si distinguono due tipi di analisi chimica: qualitativa che serve a determinare quali elementi sono presenti in un certo composto, e analisi quantitativa che serve a stabilire in quale rapporto ponderale i vari elementi sono combinati tra loro nello stesso composto

12.2.1. Legge della conservazione della massa (legge di Lavoisier) L. Lavoisier (1700) fu il primo a misurare la massa delle sostanze prima e dopo una certa reazione chimica attraverso l’impiego della bilancia. Osservò che riscaldando del mercurio in presenza di aria, si formava una polvere rossa (ossido di mercurio): la polvere pesava di più del metallo di partenza ma si accorse che 1/5 del volume dell’aria veniva assorbita dal mercurio: l’aumento in peso del mercurio era uguale al peso dell’aria assorbita. Lavoisier aveva dimostrato che l’aria non era un elemento, ma che era costituita per 1/5 in volume da un gas che si combinava con i metalli per 4/5 da un gas che invece non reagiva. Lavoisier poté così enunciare la legge della conservazione della massa: in una reazione chimica la massa totale delle sostanze che entrano in reazione è uguale a quella delle sostanze ottenute alla fine della reazione. Lavoisier notò che questo gas costituiva la parte dell’aria che permetteva la combustione e la respirazione, perché l’aria che rimaneva non permetteva nessuno dei due fenomeni enunciati sopra. Chiamò: questo nuovo gas dapprima come aria eminentemente respirabile e poi come ossigeno (per la sua capacità di dare sostanze acide reagendo

12.2.2. Legge delle proporzioni definite (legge di Proust) Proust (1754/1826) analizzando molti campioni di pirite si accorse che ogni campione del minerale conteneva sempre gli stessi due elementi, il ferro (Fe) e lo zolfo (S). Decise di preparare lo stesso minerale in laboratorio operando in modi diversi, partendo sempre da ferro e zolfo. Qualunque fosse il metodo seguito, otteneva campioni del composto contenenti sempre nello stesso rapporto fra le masse del ferro e quelle dello zolfo. Egli si rese conto di avere scoperto una legge generale della chimica, che chiamò legge delle proporzioni definite e costanti e che si può enunciare nel seguente modo: in un

note


Chimica generale

note

composto chimico le masse degli elementi sono sempre presenti in un rapporto definito e costante

Lavoisier dimostrò che in una 12.2.3 Legge delle proporzioni multiple (legge di Dal ton) Dalton nel 1804 elaborò la teoria atomica che può essere così riassunta: la materia è costituita da particelle piccolissime e indivisibili chiamate atomi. l’atomo è la più piccola parte di un elemento. gli atomi di uno stesso elemento sono tutti uguali e hanno la stessa massa, ma atomi di elementi differenti sono differenti e hanno masse diverse. le reazioni chimiche avvengono fra atomi interi e non frazioni di atomi. in una reazione chimica gli atomi degli elementi conservano la loro identità e non vengono distrutti. Egli trovò che alcuni elementi potevano combinarsi insieme secondo più rapporti di combinazione. (es. e 3 parti di carbonio potevano combinarsi sia con 8 che con 4 parti di ossigeno per formare 2 composti differenti. Il primo è il diossido di carbonio, il secondo il monossido di carbonio). Dalton nel 1803 arrivò ad enunciare la legge delle proporzioni multiple: se due elementi formano più di un composto le masse di un elemento, che si combinano con una massa costante del secondo, stanno fra loro in un rapporto espresso da numeri piccoli e interi. Le leggi riguardanti i rapporti di combinazione degli elementi chimici sono state enunciate tutte sotto forma

reazione chimica si conserva: la massa totale delle sostanze reagenti: in una reazione chimica gli atomi dei singoli elementi: si conservano e non si possono trasformare gli uni negli altri Lavoisier aveva: dimostrato che l’idea degli alchimisti (gli elementi potevano essere trasformati tra di loro) era sbagliata; aveva così fornito una prova indiretta dell’esistenza degli atomi e della conservazione della loro massa in una reazione chimica

di “leggi dei rapporti ponderali di combinazione” Gay-Lussac misurò, in condizioni di temperatura e pressione uguali,:i volumi dei gas che reagiscono tra loro e i volumi dei gas che si formano, giunse alla seguente generalizzazione, nota come legge dei volumi di combinazione: in una reazione chimica tra sostanze allo stato gassoso, i volumi dei gas che si combinano e quelli dei gas prodotti nella reazione stanno fra loro in rapporti espressi da numeri semplici. Nella decomposizione dell’acqua il volume di idrogeno è doppio rispetto a quello dell’ossigeno. Se invece mescoliamo idrogeno e ossigeno per formare acqua il loro rapporto volumetrico di sarà di 2 a 1

12.2.4. Legge di Avogadro Secondo Berzelius (1800) volumi uguali di gas diversi contenevano lo stesso numero di atomi; il peso atomico di un certo gas poteva essere determinato confrontando il suo peso con quello di un ugual volume di idrogeno. Era necessario stabilire una certa quantità di misura con la quale esprimere:la massa delle sostanze durante le attività di laboratorio e la massa assoluta delle molecole.

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Chimica generale

note

Per ogni sostanza venne stabilito di riferirsi a una quantità contenente tante molecole quante sono contenute in 12g di carbonio. Questo si trovava in contraddizione con la legge di Gay-Lussac. Se volumi uguali di gas differenti contenevano lo stesso numero di atomi, allora il volume di idrogeno avrebbe dovuto dare un volume di cloruro di idrogeno: la molecola di cloruro di idrogeno doveva essere costituita da un atomo di idrogeno e uno di cloro. Gay-Lissac otteneva invece due volumi anziché uno. Per avere una spiegazione concreta della legge di Gay-Lussac si dovette aspettare Avogadro, che ebbe un’intuizione veramente eccezionale: introdurre il concetto di molecola e di distinguerlo da quello di atomo. Avogadro definiva allora molecola la particella più piccola di una sostanza, capace di esistenza indipendente: l’atomo era la particella più piccola di un elemento che entra nella formazione dei suoi composti. Egli si accorse inoltre che alcuni elementi (idrogeno, ossigeno, azoto, cloro) dovevano avere molecole biatomiche (2 atomi identici). La sua ipotesi gli permise di enunciare il seguente principio: volumi uguali di gas differenti, nelle stesso condizioni di temperatura e pressione, contengono lo stesso numericelle che Avogadro chiamò molecole integranti per distinguerle dalle molecole elementari (gli atomi) Numero di Avocado. L’utilizzazione dei pesi molecolari delle sostanze pone un problema pratico in quanto questi pesi sono espressi in unità di peso atomico e l’unità di peso atomico è molto piccola. Il peso di ogni singola molecola è così basso che è impossibile misurarlo in laboratorio per cui per un uso più pratico è necessaria un’unita più grande. L’unità di peso che si usa in laboratorio è il grammo (g); possiamo scegliere allora un numero di atomi il cui peso complessivo espresso in grammi sia numericamente uguale al peso di un atomo espresso in unità di peso atomico. Questo numero di atomi andrà bene per tutti gli elementi. I chimici hanno trovato che 6,02 x 1023 atomi di un elemento hanno un peso in grammi uguale al numero che esprime il peso di un suo atomo in unità di peso atomico (per esempio un atomo di idrogeno pesa 1,0079 uma; 6,02 x 1023 atomi di idrogeno pesano 1,0079 g). Questo numero (6,02 x 1023 ) è chiamato numero di Avogadro; il simbolo per indicare questo numero è N.

12.3. Peso atomico e molecolare. Grammo atomo e grammo molecola Il principio di Avogadro permise di stabilire per ogni sostanza gassosa la sua massa molecolare relativa (peso atomico). La densità gassosa è il numero che esprime il rapporto fra la massa di un qualsiasi volume di quella sostanza e la massa di un volume uguale del gas di riferimento, nelle stesse condizioni di temperatura e pressione. Il peso atomico di un elemento o di un composto è la massa della sua molecola riferita alla massa dell’atomo

116


note

Chimica generale di idrogeno posto uguale a 1. Il peso molecolare corrisponde alla somma dei singoli pesi atomici degli atoni che compongono la molecola. Esso è un numero adimensionale che indica quante vale la massa di una molecola di un certo elemento è maggiore di quella dell’unità di misura. Oggi l’unità di misura delle masse atomiche corrisponde a 1/12 della massa dell’isotopo 12 del carbonio. Il volume molecolare di un gas ideale è pari a 22,412L in condizioni normali. Tale valore è considerato una invariante, la mole occupa sempre un volume pari a 22,412 litri. In una mole di qualsiasi gas è contenuto

Volumi uguali di gas differenti, nelle

stesso

condizioni

di

temperatura e pressione, contengono lo stesso numero di molecole. N (= 6,02x1023) atomi di un

N

elemento hanno un peso in grammi

= 6,023 * 10. La massa di una mole di sostanza espressa in grammi viene definita massa molare e corrisponde a

pari al loro peso atomico. A tale peso

6,023x1023 atomi o molecole della sostanza. Un grammoatomo di un elemento è così la massa atomica relativa

si dà il nome di grammoatomo.

sempre lo stesso numero di molecole. Questo numero (N), noto come numero di Avogadro, è grandissimo:

al peso atomico espressa in grammi. Una grammomolecola o mole è pari al peso molecolare espresso in grammi. Per stabilire il valore della massa molare di un qualsiasi gas basta misurare il volume, in condizioni standard di pressione e temperatura, di un campione di sostanza, a, e pesarlo. Esso può essere calcolato con una proporzione: M : 22.4 = a : b in cui M rappresenta la massa molare, a la massa del campione e b il suo volume che esso. occupa Una mole di una qualsiasi sostanza contiene sempre il numero di Avogadro di atomi o molecole.

N (= 6,02x1023) molecole di un composto hanno un peso in grammi pari al loro peso molecolare. A tale peso

si

da

il

nome

grammomolecola o mole.

Quando Canizzaro nel 1858 pubblicò il libro Sunto di un corso di filosofia della chimica, riuscì a far accettare l’ipotesi di Avogadro e a precisarne l’importanza per la determinazione dei pesi molecolari delle sostanze gassose. Egli espresse una regola per la determinazione dei pesi atomici che afferma: il peso atomico di un elemento chimico è il numero corrispondente alla più piccola quantità di esso contenuta nei pesi molecolari dei suoi composti.

117

di


note

Chimica generale

Cap XIII La stechiometria Nel caso dei composti per

13.1. formule brute e di struttura

ottenere il peso della molecola si

La formula H2O indica che nella molecola d’acqua ci sono 2 atomi di idrogeno legati con 1 atomo di ossigeno. Questa formula viene detta formula minima o empirica o grezza perché indica soltanto il rapporto di combinazione fra gli atomi. Questo tipo di formula viene stabilita in base ai dati sperimentali ottenuti attraverso l’analisi chimica; essa è la formula più semplice esprime il rapporto di combinazione più semplice fra gli atomi

devono sommare i pesi atomici di tutti gli atomi di quella molecola. Nel caso dei composti ionici è

e indica anche quanti atomi dei vari elementi sono presenti nella molecola del composto. Tale formula viene

improprio

detta formula bruta.

molecolare, perciò il peso di un

Le formule che forniscono più informazioni sono le formule di struttura. Esse forniscono una rappresentazione corretta del modo in cui i vari atomi sono legati fra loro indicano il numero dei legami attraverso i vari atomi legati fra loro. Tuttavia non forniscono alcuna rappresentazione sulla disposizione degli atomi nello spazio; tale compito è invece riservato alle cosiddette formule steriche. Per la massima parte delle formule dei composti inorganici sono sufficienti le formule brute.

13.2. Stechiometria di reazione Quando determinate molecole subiscono una qualsiasi variazione dei legami esistenti tra gli atomi costituenti,, per cui si trasformano in altre specie chimiche, si dice che esse hanno realizzato una reazione chimica; tale evento viene rappresentato per mezzo di una equazione in cui i termini di sinistra ,indicano le sostanze reagenti e quelli di destra i prodotti di reazione. Ad esempio, in una generica reazione: A + B = C + D: A e B sono i reagenti, mentre C e D rappresentano i prodotti della reazione. Volendo specificare l'andamento di una reazione, il generico segno uguale viene sostituito da una freccia → orientata verso i prodotti. In tal caso si vuole significare che la trasformazione delle sostanze reagenti nei prodotti di reazione è completa (irreversibile); p. es.: KOH + HCl → KC1 + H2O Quando, invece, la reazione è incompleta (reversibile) cioè conduce ad uno stato di equilibrio, il segno uguale viene sostituito da una freccia (↔) orientata nei due sensi; p, es.: H 2CO3+H2O↔H 3 O++ HCO3—.

parlare

di

peso

composto ionico è definito peso formula.


note

Chimica generale L’esempio su riportato si riferisce ad una reazione in cui ciascuna specie interviene una sola volta, cioè i re-

Formula bruta H2O Formula di struttura H—O—H

Formula sterica

H / O \ H

lativi coefficienti stechiometrici sono uguali all’unità: Se consideriamo invece la reazione p.e. tra idrogeno (H2) ed azoto (N2) che da come prodotto ammoniaca (NH3) l’equazione richiede l’introduzione di coefficienti stechiometrici in quanto in effetti la reazione prevede che tre molecole di idrogeno reagiscono con due molecole di azoto per dare due molecole di ammoniaca: 3H2 + N2 ↔ 2NH3; occorre pertanto introdurre i coefficienti stechiometrici per far sì che la reazione sia bilanciata ovvero siano uguali il numero di atomi che intervengono nella reazione (al primo e secondo membro); i sei atomi di idrogeno e i due atomi di azoto avranno formato due molecole di ammoniaca in accordo al principio della conservazione della massa: si dice allora che la reazione è stechiometricamente bilanciata.

13.3 Coefficienti stechiometrici e bilanciamento Affinché l’equazione descriva la reazione non solo dal punto di vista qualitativo (quali specie chimiche sono coinvolte nella reazione), ma anche quantitativo, è necessario anteporre a ciascuna formula un numero intero, detto coefficiente stechiometrico, che specifichi il numero di molecole di ciascuna specie chimica che partecipano alla reazione. La determinazione dei coefficienti stechiometrici costituisce il bilanciamento della reazione.Bilanciare una reazione significa dunque calcolare opportuni coefficienti affinché ogni elemento compaia in entrambi i membri (a sinistra e a destra del segno di reazione) con il medesimo numero di atomi. Una reazione così bilanciata soddisfa il principio di conservazione della materia e saremo in grado di effettuare considerazioni di tipo quantitativo sulla reazione. Per bilanciare una reazione non vi sono regole precise, ma in genere è opportuno seguire i seguenti consigli: Si pareggiano inizialmente gli atomi dei metalli, poi dei non metalli ed infine gli idrogeno: l’ossigeno a questo punto dovrà risultare pareggiato per cui il suo conteggio serve da verifica. Bilanciamo ad esempio la seguente reazione Fe2(CO3)3 + HNO3→ Fe(NO3)3 + H2CO3 Iniziamo bilanciando il ferro: poiché vi è un atomo di ferro tra i prodotti di reazione e 2 tra i reagenti, moltiplichiamo per 2 il nitrato ferrico Fe(NO3)3 ponendogli davanti un coefficiente "2". Fe2(CO3)3 + HNO3 → 2Fe(NO3)3 + H2CO3 in tal modo abbiamo modificato anche il numero di atomi di azoto tra i prodotti di reazione che ora sono 6. Poiché tra i reagenti vi è un solo atomo di azoto, poniamo un coefficiente "6" davanti all'acido nitrico HNO3 Fe2(CO3)3 + 6HNO3→ 2Fe(NO3)3 + H2CO3

119 119


Chimica generale

note

Ora sia il ferro che l'azoto sono bilanciati. Bilanciamo il carbonio. Vi sono 3 atomi di carbonio tra i reagenti e 1 tra i prodotti di reazione. Poniamo quindi un coefficiente "3" davanti all'acido carbonico Fe2(CO3)3 + 6HNO3 → 2Fe(NO3)3 + 3H2CO3 Contiamo l'idrogeno: 6 atomi tra i reagenti, 6 atomi tra i prodotti di reazione. L'idrogeno è bilanciato. Verifichiamo infine l'ossigeno. 27 atomi tra i reagenti, 27 tra i prodotti di reazione. L'equazione è bilanciata!

120


note

Chimica generale

Cap XIIII Le soluzioni elettrolitiche

%=

gr . soluto ⋅ 100 = gr . soluzione

m=

n soluto ⋅1000 gr solvente

14.1. La solubilità I gas sono miscibili fra loro in tutte le proporzioni; nella maggior parte dei casi di componenti allo stato liquido o solido, la miscibilità è limitata a intervalli di concentrazione ben definiti. Mentre vi sono molte coppie di sostanze che, come l’acqua e l’alcool etilico, possono venire mescolate in qualunque proporzione formando in ogni caso soluzioni omogenee, la capacità di un solvente di sciogliere un dato soluto spesso è invece limitata. Quando un solvente, posto in contatto con un eccesso di soluto raggiunge e mantiene una concentrazione costante in soluto, il soluto e la soluzione sono all’equilibrio, mentre si dice satura quella soluzione in cui l’eccesso di soluto rimane indisciolto. Per solubilità di un componente della soluzione, ad una data temperatura, si intende la quantità di soluto in equilibrio di soluzione con il solvente. La solubilità di una soluzione dipende dalla natura chimica del soluto e del solvente, dalla pressione e infine dalla temperatura. Nella maggior parte dei casi un aumento di temperatura provoca un aumento della solubilità. Questo perché il processo di dissoluzione è quasi sempre un processo endotermico, un processo cioè che avviene con assorbimento di calore da parte del sistema a spese dell’ambiente esterno. In conformità con il principio dell’equilibrio dinamico, il sistema costituito da una soluzione satura (soluzione in presenza di uno dei componenti allo stato puro) reagisce ad un aumento di temperatura in modo da minimizzare tale aumento. Se il processo di dissoluzione è un processo endotermico, il sistema si oppone all’aumento di temperatura facendo sciogliere una certa quantità di soluto puro ed assorbendo in tal modo del calore. Viceversa, se il processo di dissoluzione è esotermico, il sistema reagisce ad un aumento della temperatura trasformando parte del soluto in soluzione in soluto allo stato puro, assorbendo anche in questo caso una parte del calore fornito dall’esterno. Arrhenius, osservò che alcune sostanze erano conduttori di corrente e altre no. in relazione alla loro capacità di condurre la corrente in soluzione acquosa; egli distingueva le sostanze in: buoni conduttori p.e. cloruro di sodio (NaCl); cattivi conduttori, p.e. acido acetico (C2H4O) e in non-conduttori, p.e. saccarosio (zucchero). Secondo Arrhenius, le sostanze che conducono la corrente elettrica sono quelle che, disciolte nell'acqua, si scindono in ioni: cationi e anioni. Una soluzione è tanto più conduttrice quanto maggiore è il numero degli ioni di elettrolita che in essa sono presenti. Così gli elettroliti si distinguono in forti se in soluzione acquosa si dissociano del tutto (reazioni di

Molecola di acqua e relative distribuzione di carica elettrica.


note

Chimica generale dissociazione irreversibili) e deboli se in soluzione acquosa si dissociano solo parzialmente in quanto danno luogo a reazioni di dissociazione reversibili. Sono elettroliti gli acidi le basi ed alcuni Sali.

14.2. Gli Acidi e basi Il primo tentativo di interpretare chimicamente il comportamento degli acidi e delle basi spetta ad Arrhenius In base ai risultati delle osservazioni sulla dissociazione elettrolitica, egli definì acidi le sostanze che in soluzione acquosa si dissociano, liberando uno o più ioni idrogeno, o protoni; basi le soluzioni che in soluzione acquosa si dissociano, liberando uno o più ioni idrossido, OH- . Tale definizione escludeva da questa categorie sostanze come CO2 e NH3. L’ NH3, che non contiene gruppi OH- e quindi non può liberarli, si comporta invece come una base, la CO2, che non contiene atomi di idrogeno e quindi non può liberarli, si comporta invece come un acido. Per includere questi tipi di sostanze, si ipotizzò che le loro proprietà acide o basiche dipendessero dalle loro reazioni con il solvente acqua. Nel 1923 Brönsted e Lowry contemporaneamente, ma separatamente, dettero una definizione nuova ad acido e base, senza legarla al tipo di solvente essi definirono: Acido ogni sostanza in grado di cedere in soluzione acquosa ioni idrogeno H+, cioè protoni o, meglio, H3O+; Base: sostanza che accetta ioni idrogeno H+ ; gli acidi dissociano di fatto un protone ed una base ad essi coniugata: L'acido è forte quando ha una grande tendenza a cedere protoni. La base è forte quando ha una grande tendenza ad accettare protoni.

Ioni solvatati in acqua (in alto) con relativo orientamento e numero di idratazione (in basso).

Ad un acido forte corrisponde dunque una base coniugata debole; ad un acido debole corrisponde una base coniugata forte; ad una base forte corrisponde un acido coniugato debole; ad una base debole corrisponde un acido coniugato forte. Si può scrivere la costante di equilibrio keq, che: nel caso di un acido, si chiama costante di acidità ka ; nel caso di una base, si chiama costante di basicità kb. La ka di un acido si può ricavare la kb della base coniugata e viceversa, in base alla relazione:

Ka Kb = kw = 10-14 Gli acidi di Brönsted sono le molecole che contengono un H legato ad un atomo più elettronegativo; le basi di Brönsted sono le molecole che contengono un atomo che ha un doppietto d’elettroni in grado di legare un protone. Gli acidi reagiscono l’acqua formando ioni H3O+ dissociando quella che viene detta la loro base coniugata. In pratica possiamo schematizzare tutte le reazioni acido base nei due casi generali:

122 122


Chimica generale Dissociazione Acida: HA + H2O = A- + H3O+ Dissociazione Basica: B + H2O = BH+ + OHCom'è facile osservare ogni specie chimica può essere considerata come una coppia acido/base. Prendiamo l'esempio dell'ammoniaca: 1)

NH3 + H2O =NH4+ + OH-

2)

NH4+ + H2O = NH3 + H3O+

Notiamo che nella prima relazione NH3 si comporta come una base mentre nella seconda è NH4+ a comportarsi come un acido. Quindi una stessa specie chimica può essere vista come una coppia coniugata acido-base (nel caso dell'ammoniaca la coppia acido-base è NH4+ / NH3 ). Vediamo di seguito alcuni esempi di acidi e basi coniugate con relativi valori di Ka e Kb:

note Arrhenius definisce acidi quelle sostanze che in soluzione acquosa dissociano uno (o più) protoni H+, basi i composti che in soluzione acquosa dissociano uno (o più) ioni idrossido, OH- . Brönsted e Lowry definirono: acidi quelle sostanze che in soluzione acquosa dissociano uno o piu protoni H+, o meglio, H3O+; base quei composti che sono in grado di accettare ioni idrogeno H+. Secondo questa definizione gli acidi di fatto dissociano una base ad essi coniugata. Lewis definisce un acido come una molecola o uno ione che può accettare una coppia di elettroni e base una sostanza che può cedere

123


Chimica generale

note

14.3 Teoria di Lewis Lewis definisce acido una molecola o uno ione che può accettare una coppia di elettroni, e base una sostanza che dispone di una coppia di elettroni che può cedere. Un acido di Lewis reagisce con una base di Lewis con cui forma un legame covalente dativo, per cui è necessario che la base abbia almeno una coppia di elettroni non impegnata in alcun legami e che l'acido abbia almeno un orbitale vuoto e quindi in grado di accettare la coppia di elettroni. Il meccanismo della formazione di un legame di coordinazione si può esplicitare con l’esempio del legame di un protone ad una molecola di ammoniaca con relativa formazione dello ione ammonio NH4+:

.. H H + + H :N: H → [ H:N: H] + H H

È evidente che la teoria di Lewis si applica non soltanto al comportamento chimico descritto dalla teoria di Bronsted ma anche a molte reazioni chimiche che non prevedono trasferimento di protoni.

124


Chimica generale

Cap XV L’acqua e sue proprietà 15.1. Proprietà chimico-fisiche L’acqua è un composto chimico di formula H2O. La molecola dell’acqua presenta un caratteristico insieme di proprietà chimiche e fisiche che rendono, tra l’altro, possibili i fenomeni biochimici e con essi la vita di tutti gli organismi animali e vegetali. Le due coppie di elettroni che legano i due atomi di idrogeno a quello d’ossigeno risultano spostate verso l’atomo d’ossigeno per cui essa assume carattere polare. Per questa motivazione, le molecole quando si avvicinano l’una all’altra esercitano reciprocamente una

forza di legame (legame a idrogeno) per cui le

molecole si dice che sono associate. Nell’acqua il legame a idrogeno, si forma tra un vertice negativo di una molecola e il vertice positivo di un’altra. Ogni singolo legame a idrogeno è molto più debole di un legame covalente o di un legame ionico. In oltre, a una vita estremamente breve: in media, un legame a idrogeno in acqua, allo stato liquido, a una durata di circa 1/1010 di secondo, ma quando se ne spezza uno se ne forma un altro; complessivamente però, i legami a idrogeno hanno una forza considerevole e riescono a tenere unite le molecole d’acqua in condizioni normali di temperatura e pressione. Nell’acqua solo un piccolissimo numero di molecole è dissociato in ioni H+ e OH-. In realtà gli ioni provenienti da questa dissociazione non rimangono allo stato libero ma si associano immediatamente con una molecola d’acqua non ionizzata, formando gli ioni H3O+, detti ioni idronio o idrossonio. Il numero di molecole ionizzate è però estremamente basso; esso aumenta con l’aumentare della temperatura. Nell’acqua pura il numero di ioni H+ è esattamente uguale al numero di ioni OH-. Dal punto di vista chimico, è un composto molto stabile che solo a temperature superiori ai 1500 ºC comincia a decomporsi sensibilmente in idrogeno e ossigeno; la dissociazione diviene praticamente completa solo a temperature molto più elevate, oltre i 3000 ºC. I due atomi di idrogeno si trovano alla distanza di 0,95 Å da quello di ossigeno, rispetto al quale sono disposti in modo da formare un angolo prossimo ai 105º. Le due coppie di elettroni che legano i due atomi di idrogeno a quello di ossigeno risultano spostate verso l'atomo di ossigeno (a causa dell'attrazione del doppietto di elettroni dell'ossigeno) per cui esso presenta una frazione di carica negativa, e i due di idrogeno una frazione di carica positiva: ne deriva cioè una struttura dipolare. Di conseguenza, l'atomo di ossigeno di una molecola di acqua

note


Chimica generale

note

può attrarre un atomo di idrogeno di un'altra molecola che tendono a mantenersi tra loro unite. Allo stato di vapore ciascuna molecola si muove invece liberamente nello spazio e l'evaporazione dell'acqua consiste proprio nella rottura dei legami di idrogeno presenti nell'acqua allo stato liquido. La struttura dipolare dell'acqua favorisce la dissociazione e la solubilità dei sali e in generale delle sostanze a carattere ionico; la molecola dipolare si dispone infatti a contatto o entro il reticolo ionico salino annullando parzialmente con le sue cariche l'attrazione elettrostatica tra gli ioni: di conseguenza l'agitazione termica prevale sulla coesione liberando gli ioni del sale in soluzione. L'acqua liquida presenta una conducibilità elettrica molto bassa, pari a 3,8×10-8 ohm cm a 18 ºC. La densità aumenta con l'aumentare della temperatura e raggiunge il valore massimo (unitario) a una temperatura di 4 ºC. per poi nuovamente diminuire. A pressione ambiente (1 atmosfera) l’acqua bolle alla temperatura di 100 oC e alla temperatura di 0 ºC l'acqua solidifica cedendo il suo calore latente di solidificazione che è pari a 79,4 cal/g. Con il variare della pressione i punti di fusione e di ebollizione variano: con l'aumentare della pressione il punto di ebollizione aumenta mentre il punto di congelamento si abbassa e risulta p. es. di -2,5 ºC alla pressione di 336 atm e di -20 ºC a quella di 2042 atmosfere. Questa influenza della pressione sulla diminuzione dei punti di fusione è dovuta al fatto che l'acqua, come pochissime altre sostanze (il bismuto metallico e la ghisa tra quelle più note), congelando aumenta di volume. Il fatto che il ghiaccio sia più leggero del suo liquido e quindi in grado di galleggiare sull'acqua ha grande importanza per tutte le specie animali marine che vivono in prossimità dei poli in quanto il ghiaccio formatosi per l’abbassamento della temperatura galleggia mantenendo l’acqua sottostante in forma liquida.

15.2 Tensione Superficiale La tensione superficiale rappresenta la forza con cui le molecole sono attratte dalla superficie di un liquido verso l’interno, facendo sì che lo strato superficiale si comporti come una sottile pellicola elastica. L’acqua (a causa dei legami ad idrogeno) presenta un valore della tensione superficiale tra i più alti che si conoscano. La coesione è l’attrazione di molecole della stessa sostanza mentre l’adesione è l’attrazione tra le molecole di sostanze differenti. La combinazione della coesione e dell’adesione rende manifesto il fenomeno della capillarità per cui l’acqua si diffonde attraverso i micropori del terreno rendendosi disponibile alle radici delle piante.

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note

Chimica generale

15.3 Ebollizione L’acqua a 760 mmHg bolle a 100 °C ( in assenza di legami ad idrogeno, il punto di ebollizione dovrebbe

DIAGRAMMA DI STATO DELL’ACQUA

essere di circa 80°C). Ciò significa che occorre fornire alle molecole di acqua una grande quantità di energia per farle passare allo stato gassoso. Questa energia è misurata in calore latente di evaporazione che nell’acqua è molto elevato e viene restituito quando l’acqua passa di nuovo allo stato liquido (calore latente di condensazione). In altri termini l’acqua quando evapora assorbe dall’ambiente una quantità di calore che cede quando condensa, precipitando come pioggia.

15.4. Calore specifico La quantità di calore richiesta da una sostanza perché si verifichi un determinato aumento della temperatura è detto calore specifico o capacità termica. Si definisce caloria la quantità necessaria di calore per produrre l’aumento di temperatura (esattamente da 14,5° C a 15,5° C) di un grammo d’acqua pari a 1cm3. Il calore specifico dell’acqua è molto alto. Ciò è conseguenza del legame idrogeno, in quanto essi tendono a limitare il movimento delle molecole. Perchè l’energia cinetica delle molecole aumenti sufficientemente da elevare buon numero di legami a idrogeno. Quando scaldiamo dell’acqua è necessario, per prima cosa, rompere il legame a idrogeno tra le molecole. Soltanto una quantità relativamente piccola d’energia è, perciò, disponibile per far accelerare il movimento delle molecole. L’elevato calore specifico dell’acqua comporta che, per un dato apporto di calore, la temperatura dell’acqua aumenta più lentamente della temperatura di quasi ogni altra sostanza. Viceversa, la temperatura diminuisce più lentamente quando si sottrae calore. Ciò garantisce agli organismi che vivono in acqua, un ambiente la cui temperatura è relativamente costante.

15.5 L’idrosfera La terra è l’unico pianeta del sistema solare così ricco d’acqua: il 70% della sua superficie è infatti, ricoperto dall’acqua degli oceani, dei mari, dei ghiacciai, dei fiumi e dei laghi; una certa quantità di acqua è presenta anche nel sottosuolo e come vapore nell’atmosfera. L’insieme delle acque che si trovano sulla superficie

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Chimica generale

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terrestre costituisce l’idrosfera. L’acqua dell’idrosfera non è una sostanza pura ma è sempre una soluzione: quando la concentrazione dei sali disciolti (salinità) è elevata si parla di acqua salina o marina, quando è bassa si parla di acqua dolce. La distribuzione dell’acqua sulla terra non è omogenea, ciò fa si che il suo consumo sia molto variabile.

15. 6. Il ciclo dell’acqua Il ciclo dell’acqua o ciclo idrologico si svolge essenzialmente attraverso i due processi dell’evaporazione (trasformazione dallo stato liquido allo stato di vapore per opera dell’energia solare) e della condensazione del vapore e successiva precipitazione come pioggia o neve. Nei vegetali, la perdita di acqua come vapore viene più precisamente indicata come traspirazione, poiché viene controllata dagli stessi organismi attraverso la regolazione d’aperture presenti nell’epidermide fogliare, dette stomi. Dell’acqua che precipita sulla terra una parte ritorna verso il mare scorrendo in superficie e fluendo nel sottosuolo. Questo flusso d’acqua verso il mare è stimato in circa 40mila miliardi di metri cubi l’anno e comprende la frazione d’acqua che può essere utilizzata dall’uomo e quella che viene trattenuta dal terreno e in parte assorbita dalle piante, L’acqua esercita anche una funzione fisiologica molto importante; l’integrità stessa dei nostri tessuti è assicurata dall’equilibrio fra contenuto in lipidi, protidi, sali etc. e contenuto in acqua che si stabilisce, come abbiamo detto, in ogni singola cellula dell’organismo. L’assorbimento dell’acqua e naturalmente dei sali presenti in essa avviene a livello dell’intestino tenue e crasso. Il bisogno di acqua e sale sembra sia regolato da meccanismi fisiologici; il nostro organismo richiede 1 g di acqua e 0.2 mg di sale per ciascuna caloria introdotta. Il mantenimento di dato equilibrio è per la massima parte assicurato grazie al sistema vascolare e linfatico: il sistema linfatico penetrando negli alimenti e da quella prodotta nello stesso organismo nel corso delle reazioni metaboliche. A causa dell’elevato calore specifico

e della facilità di evaporazione, l’acqua ha pure funzione

termoregolatrice; infine ha veri e propri compiti di alimento in quanto partecipa direttamente, con la sua molecola, a importanti sintesi e partecipa a non meno importanti demolizioni di grosse molecole organiche nei fenomeni della digestione.

15. 7. L’acqua alimentare 128


note

Chimica generale

Gli alimenti contengono quantità variabili di acqua e si ritiene che circa il 70% in peso della massa alimentare sia costituita da acqua; la quantità di acqua apportata giornalmente con gli alimenti è in media 1 litro\1 litro e mezzo: tale quantità aumenta se prevalgono la frutta e i legumi verdi e si abbassa se l’alimentazione è a base di legumi secchi e cereali. La quantità giornaliera d’acqua introdotta direttamente come bevanda ( comprendendo le minestre, il vino, le bibite) può essere considerata nella misura media di un litro. Complessivamente, in una forma o nell’altra, si può calcolare che l’uomo assuma circa tre litri d’acqua al giorno. L’acqua viene eliminata attraverso varie vie: con il sudore, la respirazione, le feci, le urine; la quantità bevuta non deve mai scendere sotto un certo livello per evitare un lavoro eccessivo al rene. Le acque destinate potabili devono presentare caratteristiche particolari, devono cioè essere limpide, fresche, senza coloranti e odori particolari, esenti da microrganismi patogeni e sostanze tossiche, e i vari sali minerali in esse disciolti non devono superare determinate concentrazioni. Le fonti idriche di approvvigionamento sono costituite, tralasciando le acque meteoriche o piovane, da acque sorgive, acque profonde e acque superficiali. In

Italia,

diversamente

da

quello

che

avviene

nella

maggior

parte

delle

nazioni

europee,

l’approvvigionamento è fornito dalle acque sotterranee e solo in minor misura da quelle superficiali. Le acque profonde derivano da acque meteoriche che non sono evaporate ma si sono infiltrate nel suolo; vengono distinte in acque di falda quando il terreno è costituito da strati alterni permeabili di sabbia o ghiaia e impermeabili di argilla ed acque di vena rocciosa quando l’acqua, dopo aver attraversato rocce compatte di natura silicea o calcarea, scorre fino ad uno strato impermeabile dando origine ad una vena idrica. Le acque sorgive e profonde dovrebbero essere considerate potabili senza bisogno di trattamenti in quanto protette da inquinamenti. Le acque superficiali che possono essere impiegate a scopo potabile sono l’acqua di mare, che richiede un processo di dissalazione, le acque di lago, di fiume e dei bacini artificiali. Ma anche in questo caso l’inquinamento è intervenuto e quindi questo approvvigionamento, pur offrendo grandi quantità d’acqua, richiede sempre trattamenti di potabilizzazione.

15. 8. Le piogge acide Le piogge acide raccolgono le emissioni di ossidi di zolfo e ossidi d’azoto conseguenti all’impiego di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) da parte dell’uomo. Questi composti chimici sono presenti anche in

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note

Chimica generale natura e sono il prodotto della decomposizione della materia organica nelle zone umide, della combustione spontanea della vegetazione e delle eruzioni vulcaniche. Il flusso degli ossidi di zolfo e d’azoto provenienti dalle attività umane, risulta essere fino a dieci volte maggiore dei valori naturali determinando profonde alterazioni all’ambiente. Gli ossidi di zolfo e d’azoto, una volta emessi in atmosfera, tendono a trasformarsi rispettivamente in acido solforico (H2SO4) e nitrico (HNO3) e vengono trascinati poi al suolo con la pioggia, causando l’abbassamento del pH dell’acqua, da valori di circa 5,6 (dovuti alla presenza d’acido carbonico) a valori mediamente compresi fra 4 e 3 e talvolta anche meno.

15. 9. La biodegradabilità e il potere autodepurante Le acque naturali posseggono un potere autodepurante, che si manifesta nella capacità di decomporre biologicamente (biodegradare) i composti organici di provenienza animale e vegetale e anche alcune sostanze sintetiche, oltre a vari composti inorganici (tra cui i sali del fosforo e alcuni sali azotati). Questa capacità è dovuta all’azione di

microrganismi presenti nelle acque, che sono in grado di ossidare i materiali

biodegradabili, demolendoli in molecole semplici che prendono parte ai cicli naturali (per esempio CO2, H2O, NH3 e nitrati). Sono biodegradabili le sostanze organiche naturali che in presenza d’abbondante ossigeno, vengono ossidate biologicamente da batteri aerobici e da questi degradate a CO2 e H2O; oppure, se l’ossigeno è scarso, vengono trasformate dall’azione di batteri anaerobi, in H2S, CH4 ed in altre sostanze in genere tossiche. I microrganismi che subentrano nella scomposizione delle materie inquinanti, dipendono quindi, dalla presenza o meno di ossigeno. La richiesta di ossigeno è espressa da due parametri detti domanda biochimica di ossigeno (BOD) e domanda chimica di ossigeno (COD). Fondamentale per la vita delle biocenosi acquatiche, è la presenza di sufficiente ossigeno disciolto.

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note

Chimica generale

Cap XVI Gli equilibri in soluzione 16.1 Equilibrio acido-base Come ogni reazione chimica anche la reazione acido-base possiede una costante chimica che ne determina l'equilibrio. Data quindi una generica dissociazione acido (o basica) la costante d'equilibrio chimico può essere definita come: HA + H2O ↔ A- + H3O+

. Analogamente possiamo ottenere la costante di basicità (Kb ): B + H2O = BH+ + OH-

Abbiamo precedentemente osservato come una specie chimica si presenti come una coppia coniugata acidobase. Le costanti di equilibrio di una stessa coppia coniugata acido-base sono legate fra loro. Prendiamo nuovamente in considerazione un generico acido HA. La sua dissociazione acida sarà: HA + H2O = A- + H3O+ Da cui ricaviamo la sua costante di acidità:

Prendiamo ora in considerazione il coniugato basico dell'acido generico HA, ovvero A-, e determiniamone la reazione di dissociazione basica: A- + H2O = HA + OHDa cui otteniamo la costante di basicità:

Moltiplicando membro a membro otteniamo la relazione:

e semplificando otteniamo:


Chimica generale

note

Ka · Kb = [ H3O+ ]·[ OH- ] Poiché Ka e Kb sono costanti possiamo concludere che anche il rapporto tra gli ioni H+ e gli ioni OH- è costante all'interno di una soluzione.

16.2. Prodotto ionico dell’acqua Anche l'acqua può essere considerata sia una base che un acido. Di fatto: H2O + H2O

H3O+ + OH-

da cui possiamo ricavare la costante di dissociazione dell'acqua: Kw = [ H3O+ ]·[ OH- ] Osservando attentamente questa costante notiamo che questa è identica a quella ottenuta come rapporto tra la costante di acidità e di basicità di una coppia coniugata. Ovvero: Kw = Ka · Kb Quindi, conoscendo la costante di acidità (o di basicità) di una qualsiasi specie chimica è possibile ricavare la costante di basicità (o acidità) della specie chimica coniugata. Questa costante, definita come Kw (ovvero costante acqua) ha un valore sperimentale ed equivale a: Kw = 1,00 · 10-14 Dal valore ottenuto per la Kw possiamo facilmente intuire il motivo per cui l'acqua è praticamente non dissociata: infatti la Kw è talmente piccola che la reazione è quasi in modo assoluto spostata verso i reagenti, quindi verso l'acqua pura. Ritornando alla Kw possiamo ricavare la concentrazione di ioni H+ presenti in una soluzione neutra. Di fatto abbiamo: Kw = [ H3O+ ]x[ OH- ]; Poiché l’acqua è una soluzione neutra possiamo accettare l’uguaglianza: [ H3O+ ] = [ OH- ]

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note

Chimica generale Da cui ricaviamo: Kw = [ H3O+ ]·[ H3O+ ] = [ H3O+ ]2 E infine risolvendo per [H3O+] otteniamo: ;

ovvero:

pH + pOH =7 La notazione: p=-log fu introdotta dal chimico danese Sorensen per semplificare il calcolo.

16.3. Il pH La notazione di Sorensen viene utilizzata per la definizione di pH dove per H si intende la concentrazione idrogenionica. Il PH è dunque il cologaritmo della concentrazione idrogeninica effettivamente presente in soluzione acquosa:

pH = -log[H+] La caratteristica acida o basica di una soluzione è determinata dalla concentrazione di ioni H+ all'interno della soluzione. Poiché il prodotto tra la [H+] e la [OH-] è costante possiamo determinare la caratteristica acida o basica di una soluzione attraverso lo schema riportato: [ H3O+ ] = [ OH- ] Soluzione neutra [ H3O+ ] > [ OH- ] Soluzione acida [ H3O+ ] < [ OH- ] Soluzione basica Quindi possiamo definire il pH di una soluzione come l'attività degli ioni H+ all'interno di una soluzione. In realtà gli ioni H+ non esistono nelle soluzioni acquose, perché sono punti estremamente piccoli di lelettricità positiva, che tendono a disperdere la loro carica sulla più ampia superficie possibile; ciò avviene sulle stesse molecole non dissociate di acqua, perché l'ossigeno dell'acqua, elemento fortemente elettronegativo, rende disponibili suoi elettroni allo ione H+: si ottiene così lo ione idrossonio H3O+. Naturalmente la minima quantità di molecole di acqua così sottratte fa in modo che il prodotto ionico sia sempre 10-14. Ai fini pratici è

133 133


Chimica generale

note

perciò indifferente parlare di concentrazione di ioni H+ o di ioni idrossonio H3O+. Il prodotto ionico mantiene lo stesso valore nelle soluzioni acquose diluite di un acido o di una base, ma in una soluzione acida la concentrazione di H+ prevale sulla concentrazione degli ioni OH-, mentre accade il contrario in una soluzione basica. Per es., in una soluzione decinormale (N/10) di acido cloridrico, si ha un valore molto vicino a [H+] = 10-1, e in una soluzione N/10 di soda, [OH-] = 10-1 cioè [H+] = 10-13. Se conosciamo il pH di una soluzione acida e la concentrazione dell'acido possiamo ricavarci dalla relazione generale sull'equilibrio chimico il valore della costante di acidità o viceversa, se conosciamo la costante di acidità e la concentrazione dell'acido, possiamo ricavarci il pH della soluzione. Possiamo applicare lo stesso ragionamento per una soluzione basica cioè utilizzando come variabile dipendente la concentrazione degli ioni OH-. Il risultato sarà espresso come: pOH = – log [ OH- ]; ed essendo pH + pOH = 14 si ottiene la relazione: pH = 14— pOH

16.2.1. pH di acidi e Basi Forti Gli acidi (o basi) si dicono forti in quanto tedndono a dissociarsi totalmente e praticamente la loro costante d'acidità (o basicità) è prossima al valore infinito. Prendiamo ad esempio l'acido cloridrico: HCl + H2O → Cl- + H3O+ la sua dissociazione è talmente forte che posto in soluzione acquosa tutto l'acido risulta completamente dissociato e la concentrazione degli ioni H+ all'interno della soluzione equivale alla concentrazione dell'acido disciolto . In generale, dato un qualsiasi acido forte HA otteniamo: HA + H2O → A- + H3O+ [ HA ] = [ H3O+ ] = [ A- ] Per cui il pH di un generico acido forte sarà uguale a: pH = – log [ H+ ] = – log [ HA ] Lo stesso discorso è applicabile ad una qualsiasi base forte BOH. Il cologaritmo (—log) della concentrazione della generica base forte equivale al p OH della soluzione, e quindi: pH = 14 – log [ OH—] = 14 – log [ BOH ]

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note

Chimica generale

16.2.2. pH di acidi e Basi Deboli pH= 1/2 (pKa — log [HA]

Per gli acidi (e basi) deboli per il calcolo della {H+} bobbiamo tener conto della loro costante di dissociazione. Prendiamo ad esempio il solito e generico acido debole HA, dallo schema otteniamo HA ↔ A— + H+; cioè la [HA] in soluzione non corrisponde ad altrettanti ioni : la [HA] ≠ [H+] ma la concentazione idrogenionica sara uguale a quella anionica cioè: H+] = [A—] perché questi si formano contemporaneamente e l'uno dipende dall'altro in quanto per ogni mole di ione H+ formato esiste una mole di A- dissociata; per cui otteniamo, considerando la costante di acidità del generico acido, si ha la relazione:

Da cui l'equazione:

ovvero:

pH= 14— 1/2(pKb — log[BOH] Lo stesso ragionamento è applicabile ad una base debole, l'unica differenza che il risultato finale sarà espresso come pOH, il quale dovrà necessariamente essere riconvertito in pH.

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note

Chimica generale

16.4. Sistemi acido-base: Sistemi tampone Si definisce sistema tampone quel sistema (di due componenti) in grado di opporsi a piccole variazioni di pH.

I sistemi tampone non sono altro che soluzioni acquose che possiedono la proprietà di contenere entro

limiti molto ristretti le variazioni del pH per aggiunta di piccole quantità di acidi o di basi forti. L'aggiunta di acidi o di basi, anche in piccole dosi, a sistemi che non hanno le caratteristiche dei sistemi tampone, comporta una variazione del pH molto netta. Ad esempio, l'aggiunta di 0,01 moli di HCl (una frazione di grammo) ad un

{

Acido acetico Acetato sodico

litro di acqua, produce una variazione del pH da 7 a 2, mentre l'aggiunta della stessa quantità di acido ad un litro di soluzione tampone produrrebbe, come vedremo, una variazione del pH quasi inapprezzabile. Un sistema tampone è costituito da una coppia acido debole-base coniugata, oppure da una coppia base debole-acido coniugato. Una soluzione tampone può quindi essere ottenuta sciogliendo ad esemoio in acqua l'acido acetico (acido debole) e l'acetato di sodio, il quale, dissociandosi in acqua, genera gli ioni CH3COO- che

{

Acido carbonico Bicarbonato sodico

rappresentano la base coniugata dell'acido CH3COOH. Nell'acqua si verrà quindi a formare il seguente equilibrio: CH3COOH + H2O → CH3COO- + H3O+ , al quale corrisponde la seguente costante di equilibrio: [CH3COO-]·[H3O+] ──────────── = Ka [CH3COOH] espressione che può essere anche scritta nel modo seguente: 1 1 [CH3COO-] ———— = ——— · ——————— , [H3O+] Ka [CH3COOH] la quale, a sua volta, può venire espressa in termini logaritmici nel modo seguente:

Un acido debole in presenza del suo sale con una base forte formano un sistema a due componenti che ha la proprietà di opporsi a variazione del pH per piccole aggiunte in soluzione di acidi o di basi

1 1 [CH3COO-] log ———— = log ——— · ——————— , [H3O+] Ka [CH3COOH] E introducendo la notazione di Sorensen p=-log si ha: [CH3COO-] pH = pK + log ——————— [CH3COOH]

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Chimica generale

note

Questa espressione è detta equazione di Henderson-Hasselbach. Supponiamo ad esempio, di preparare una soluzione tampone mescolando in acqua una mole di acido acetico e una mole di acetato di sodio fino ad ottenere un litro di soluzione totale. In soluzione si instaura l'equilibrio che già conosciamo: CH3COOH + H2O ↔ CH3COO- + H3O+ Se alla soluzione aggiungiamo ora una piccola quantità di un acido forte, per esempio 0,01 moli di HCl, gli H+ si uniranno alla base CH3COO-, presente in abbondanza, formando molecole di CH3COOH e spostando a sinistra l'equilibrio. Aggiungendo invece piccole quantità di base, gli ioni OH- strapperanno gli H+ dall'acido trasformandolo in CH3COO- e quindi producendo uno spostamento dell'equilibrio a destra. Per capacità tamponante di una soluzione tampone si intende la quantità massima di acido o di base che essa è in grado di neutralizzare prima che il suo pH cambi in misura apprezzabile. E' facile verificare che quando il rapporto fra la quantità di sale e di acido debole (o di sale e di base debole) presente in soluzione è esattamente uguale a 1, si notano le minime variazioni di pH per l'aggiunta di acidi (o di basi) forti. E poiché in queste condizioni si ha pH = pK, si può affermare che una soluzione è al massimo delle sue possibilità tamponanti quando il suo pH è uguale al pK dell'acido debole (o della base debole) utilizzati per la sua preparazione. E’ evidente che il valore del pH dipende dalla Ka dell'acido (o dalla Kb della base) che è stato scelto per preparare la soluzione e dal rapporto delle concentrazioni del sale e dell'acido che sono stati posti in soluzione. Quando il rapporto tra le concentrazioni del sale e dell'acido è uguale a 1 il pH della soluzione è uguale al pK dell'acido. Variando opportunamente il rapporto [sale]/[acido], è possibile comunque variare, entro certi limiti, il valore del pH. Se si dovesse, ad esempio, preparare una soluzione tampone nella quale fosse necessario che il pH si mantenesse intorno al valore di 6,36, allora potremmo utilizzare il sistema tampone H2CO3/HCO3— (acido carbonico/bicarbonato) nel rapporto di 1:1 (il quale si ottiene mescolando l'acido carbonico e un suo sale acido come ad esempio il bicarbonato di sodio NaHCO3. in concentrazioni equimolecolari. La Ka' dell'acido carbonico è 4,1·10-7 a cui corrisponde pK=6,36. Se si dovesse invece operare in condizioni di perfetta neutralità, la nostra soluzione tampone dovrebbe avere un pH = 7. Per preparare una tale soluzione potremmo scegliere, ad esempio, il sistema tampone H2PO4-/HPO4-- cui compete Ka" = 6,2·10-8 e quindi pK = 7,21. Dovremmo quindi mescolare in acqua il fosfato monosodico NaH2PO4 e il fosfato bisodico Na2HPO4, ma non in quantità equimolecolari, in questo caso il pH risulterebbe

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uguale a 7,21; mescolando invece in quantità opportune il sale e l’ acido, si ottiene il pH desiderato, tenendo sempre presente che sono consentite variazioni di pH entro il limite di una unità: pK-1<pH< pK+1.

16.5. I tamponi fisiologici Per l’effetto del metabolismo si producono una notevole quantità di acidi; principalmente l’acido carbonico (dovuto all’instaurarsi dell’equilibrio CO2 + H2O ↔ H2 CO3 ↔ H+ + HCO3— ed ancora l’ acido lattico formatosi in seguito ad intenso sforzo muscolare, gli acidi acetacetico e β-ossi–butirrico che si formano assieme ad acetone in particolari condizioni metaboliche (p.e. acetonemia diabetica , digiuno prolungato ecc.). Il pH ematico tuttavia rimane costante al valore di 7,4 grazie ai sistemi tampone presenti nel plasma ed alla fisiologia di alcuni orbani che provvedono allo scambio di ioni H+. Un sistema tampone fisiologico è quello formato dal sistema bicarbonato NaHCO3 (accettore di protoni), e acido carbonico H2 CO3 (donatore di protoni). La concentrazione di bicarbonato prende il nome di riserva alcalina. L'H2 CO3 formatosi si dissocia in prossimità degli alveoli polmonari in CO2 + H2O. L’organismo deve disporre di un meccanismo capace di rigenerare il bicarbonato consumato nella neutralizzazione degli acidi e di un meccanismo per eliminare gli H+ che si vanno accumulando. Nell'organismo umano a tutto questo provvedono interi organi (rene, polmoni e cellule gastriche) che in condizioni normali la concentrazione di H+ ematico viene mantenuta costante, entro pochi nano equivalenti/ litro, al valore di 7.4. Nel sangue la concentrazione di bicarbonato è di 24 mEq/l. mentre la H2CO3 (essendo la pressione parziale di CO2 pari a 40 mmHg) avra il valore di 40 0,03 = 1,2 mM/l ed il pH diventa pari a: 6,1 + log 24/ 1,2.= 7,4. Il sistema bicarbonato/acido carbonico è il principale sistema tampone dell'organismo, anche se

esistono altri importanti sistemi tamponanti sia plasmatici, quali le proteine che eritrocitari quali il sistema l'emoglobina/ emoglobinato. L'eliminazione dei protoni è compito precipuo del rene. Nelle cellule del tubulo prossimale, ove esiste l'anidrasi carbonica, l'H2CO3 viene scisso in H+ e HCO3—. L'H+ viene scambiato con Na+, dalle cellule del lume tubulare generando una urina acida e ripristinando la riserva alcalina. Gli H+ nel luma tubulare si coniugano con gli anioni presenti nella preurina formando acidi o Sali monopodici (NaH2PO4, NaHSO4 e HCl) Cl. Il risultato è che il pH urinario si acidifica fino e non oltre il valore di 4,5. Il rene supplisce a questa limitazione scambiando l’ Na riassorbito con lo ione ammonio che si forma nelle cellule tubulari principalmente dalla deaminazione della glutamina ad acido glutamico. La quantità di H+ escreta sotto forma di fosfati e solfati acidi viene chiamata acidità titolabile, la escrezione netta di acidi è data invece dalla somma della acidità titolabile e della escrezione di ammoniaca meno i

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Chimica generale

note

bicarbonati escreti. Occorre menzionare infine il sistema tampone fosfato monosodico/fosfato bisodico la cui azione diviene significativa nell’ambiente intracellulare ed il sistema tampone pasmatico proteine/proteinati; nel plasma dove le proteine si comportano da acidi deboli. Un cenno a parte merita l’emoglobina eritrocitaria, la cui principale caratterista ai fini della regolazione del pH consiste sta nel suo diverso comportamento acido nelle due forme ossigenata e desossigenata: la desossiemoglobina infatti è un acido più debole dell’ossiemoglobina (cioè lega un maggior numero di H+ rispetto all’ossiemoglobina. Quindi la sua funzione sarà da un lato fornire O2 ai tessuti e nella forma deossigenata capta protoni (ion H+); In tal modo il pH del sangue periferico modifica di poco. E importante notare che disturbi e alterazioni al sistema respiratorio possono modificare la concentrazione di CO2 nel sangue. Ad esempio alcuni stimoli e situazioni patologiche provocano un aumento della ventilazione con conseguenza diminuzione della pressione parziale di ossigeno sistemica, come ipossia, stati di ansia, gravidanza, malattie cardiopolmonari. Un cattivo funzionamento dei sistemi tampone causa stati di acidosi o alcalosi. Un disordine primitivo consiste in una alterazione del meccanismo di rimozione polmonare di anidride carbonica sia in difetto (apnea) che in eccesso (iperventilazione), causando acidosi o alcalosi respiratoria, rispettivamente. Nell'uomo è

NaHCO3 + Acido lattico → Acido carbonico+lattato sodico; Acido carbonico↔CO2+H2CO3 La riserva alcalina neutralizza l’acido lattico prodotto dai muscoli trasformandolo in lattato e acido carbonico, quest’ultimo è in equilibrio di dissociazione con l’anidride carbonica e acqua. Negli alveoli polmonari, dove la CO 2 viene eliminata, questo equilibrio è spostato verso la formazione di altra CO2 in accordo al principio di Le Chatelier.

abbastanza frequente riscontrare alterazioni del pH come stati di acidosi e di alcalosi di natura metabolica. L’acidosi metabolica si riscontra quando il bicarbonato scende al di sotto di 24 meq/L.

16.6.1 Determinazione del pH La determinazione sperimentale del pH di una soluzione acquosa presenta una grande importanza soprattutto nei sistemi biologici, Esso può essere determinato con diverse metodiche principalmente: 1) attraverso il metodo colorimetrico che si basa sull'osservazione del colore assunto nella soluzione da un indicatore colorato, la cui zona di viraggio comprende il pH che si vuole misurare. Tale metodo tuttavia risulta poco rapido e relativamente poco preciso; 2) mediante il metodo potenziometrico, preciso, ma che richiede apparecchiature più complesse; esso richiede un potenziometro per misurare la forza elettromotrice di una pila costituita da due soluzioni di diversa concentrazione, una delle quali è la soluzione in esame, l'altra la soluzione di riferimento, a pH uguale a zero, e nelle quali sono immersi due elettrodi costituiti ognuno da una lama di platino “platinato” attorno alla quale si fa circolare idrogeno gassoso.

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note

16.6.2 Gli indicatori Per conoscere il pH di una soluzione si può far uso del piaccametro (misuratore di pH), uno strumento che fornisce una misura immediata e precisa dell'acidità della soluzione, oppure si può far ricorso a speciali sostanze dette indicatori chimici. Con alcune di queste sostanze forse senza rendersi conto hanno a che fare quotidianamente molte persone. Tutti avranno notato che il the schiarisce per l’aggiunta di alcune gocce di succo di limone: è evidente pertanto che in quell’infuso sono contenute delle sostanze colorate che a contatto dell’acido contenuto nel succo di limone (acido citrico) reagiscono trasformandosi in altre sostanze incolori. Se ora a questo the decolorato si aggiungessero alcune gocce di ammoniaca, sostanza notoriamente basica, l’infuso riacquisterebbe il suo colore scuro. Gli indicatori sono acidi organici deboli (il famoso tornasole, ad esempio, si ricava dai licheni, altri sono preparati artificialmente) che hanno la proprietà di assumere colorazioni diverse a seconda che siano nella forma indissociata o nella forma dissociata La loro struttura molecolare è molto complessa e pertanto li considereremo di formula generica HIn. Dove la molecola HIn di colore diverso dallo ione In-. Gli indicatori vengono sempre usati in quantità minime per non turbare, con la loro presenza, gli equilibri di dissociazione presenti

in soluzione, che sono poi quelli di cui si deve valutare il pH. Se in soluzione sono

presenti gli ioni H3O+ in quantità notevole, l'equilibrio scritto sopra risulterà spostato a sinistra e prevarrà il colore rosso delle molecole indissociate; se in soluzione vi sarà un eccesso di ioni OH- questi abbasseranno la concentrazione degli ioni H3O+ dell'equilibrio, il quale conseguentemente si sposterà verso destra e si noterà il colore giallo dello ione In-. All'equilibrio è possibile applicare la legge di Henderson-Hasselbach: [In-] pH = pK + log ———— [HIn] Da questa equazione si ricava immediatamente il colore della soluzione al cambiare del pH. Se l'indicatore fosse posto in una soluzione a pH = 5, poiché anche il pK dell'indicatore è 5, il logaritmo del rapporto [In-]/[HIn] sarebbe uguale a zero e il rapporto [In-]/[HIn] varrebbe 1: il colore sarebbe quindi arancione (misto fra rosso e giallo). Se lasciassimo invece cadere una goccia di questo indicatore in una soluzione a pH=7 il colore della soluzione sarebbe invece giallo. Infatti:

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note

Chimica generale [In-] log ——— = pH - pK = 7 - 5 = 2. [HIn] Poiché 2 è il logaritmo di 100, abbiamo che [In-]/[HIn] = 100 e quindi la concentrazione della specie ionica di colore giallo risulta 100 volte maggiore dalla concentrazione della specie molecolare di colore rosso. Una soluzione con pH minore di 5 risulterebbe colorata, per la presenza del nostro indicatore, in rosso. Comunemente si usa dire che gli indicatori servono per indicare l'acidità o la basicità di una soluzione, ma ciò non è esatto. Gli indicatori sono in grado solo di specificare se la soluzione in cui vengono immersi ha un pH maggiore o minore del pK dell'indicatore stesso. Quando il pK dell'indicatore è uguale al pH della soluzione si dice che si è sul punto di viraggio: in corrispondenza di questo valore di pH la soluzione cambia di colore per l'aggiunta di piccole quantità di acido o di base. Nella pratica non è possibile cogliere con precisione il punto di viraggio in quanto, in prossimità di tale punto, è sufficiente l'aggiunta di una piccolissima quantità di acido o di base alla soluzione per scavalcarlo nettamente. Bisogna parlare allora più propriamente di intervallo di viraggio, cioè di un intervallo di pH entro il quale, diventa apprezzabile il cambio di colore dell’indicatore. ll valore pH = pK, è detto punto di viraggio. .

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note

Chimica generale

16.7. Equilibrio di idrolisi Quando in soluzione si sciolgono i Sali che sono elettroliti forti, essi si dissociano completamente dei rispettivi ioni ( Es. NaCl → Na

+

+ Cl— ; KNO3 → K+ + NO3—). Le soluzioni acquose di questi sali presentano

reazione neutra e non fanno variare il pH. Lo stesso non può dirsi per quei sali formati dalla salificazione di basi deboli come, ad esempio NH4Cl che in soluzione si dissociano ioni NH4+ Cl—; Tra gli ioni Cl— e H+ presenti nella soluzione non si ha reazione alcuna (HCl è un acido forte e quindi totalmente dissociato). Gli ioni NH4+ e OH— invece reagiscono tra loro per formare molecole indissociate di ammonio idrato in equilibrio di dissociazione secondo la reazione: NH4++ HOH ↔ NH4 OH +H+ . Tale reazione si verifica giacché il composto NH4OH è una base debole e quindi poco dissociata pertanto in soluzione aumenterà la concentrazione idrogenionica pertanto il pH si abbasserà. A tale fenomeno si da il nome di idrolisi acida. Se invece in soluzione si scioglie un sale formato dalla salificazione di un acido debole (Es. NaHCO3, CH3 COONa) si avrà aumento degli ioni OH

per l’instaurarsi degli equilibri di idrolisi basica: HCO3— + HOH ↔

H2CO3 + OH—; ; pertanto in soluzione aumenterà la concentrazione ossidrilionica pertanto il pH aumenterà. A tale fenomeno si da il nome di idrolisi basica.

16.8 Equilibrio di solubilità Quando si scioglie in acqua un sale poco solubile esso se in piccola quantità si scioglie e si stabilisce un equilibrio tra il solido disciolto e gli ioni che derivano dalla sua dissociazione. Se aggiungiamo successivamente altro sale arriveremo al punto in cui la soluzione sarà satura ed il sale ulteriormente aggiunto non si scioglierà più. In tali condizioni il valore della concentrazione degli ioni è massimo ed il loro prodotto assume un valore che rimane costante a temperatura costante. Si consideri, ad esempio, una soluzione acquosa satura di un sale poco solubile come AgCl.

In tale

soluzione si realizza un equilibrio eterogeneo (fase solida e fase in soluzione) cioè un equilibrio tra il corpo di fondo AgCl(solido), ed il solido disciolto AgCl (n soluzione) e un equilibrio omogeneo tra AgCl in soluzione) ed i suoi ioni dissociati Ag+ e Cl— in soluzione.'.Applicando la legge di massa all'equilibrio omogeneo si ha: K=[Ag+][Cl—]/[AgCl]; ovvero: [Ag+][Cl—]= K[AgCl];

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note

Chimica generale La concentrazione di [AgCl] indissociato nella soluzione è, in presenza del suo corpo di fondo, una costante per cui può essere conglobata nella costante di equilibrio: K[AgCl] = [Ag+][Cl—] = Kps Il prodotto di due costanti è una costante per cui possiamo enunciare la seguente legge generale della solubilità: il prodotto delle concentrazioni specie ioniche in equilibrio di solubilità col corpo di fondo (cioè in una soluzione satura) è costante. Il corpo di fondo prende il nome usuale di precipitato. Da questa espressione si deduce che in una soluzione satura di un sale poco solubile il prodotto delle concentrazioni dei suoi ioni in soluzione ciascuna elevata al proprio coefficiente stechiometrico è costante a temperatura costante. Kps è detto prodotto di solubilità del sale, I sali sono elettroliti forti e come tali in soluzione si trovano pressoché totalmente dissociati. Ad esempio dalla dissociazione di una mole di AgC1 si ottengono praticamente un grammoione di Ag + ed un grammoione di C1— e quindi sarà [Ag+1 = [C1— ]. Pertanto esprimendo la solubilità, di AgCl in moli per litro, essa sarà uguale alla concentrazione di ciascuno ione espressa in grammoioni per litro, e cioè: S (solubilità) = [Ag+] = [C1—] e l’ espressione del prodotto di solubilità può essere anche scritta nella for ma: [Ag+]2 = [C1—]2 = KpsAgCl da cui: e quindi la solubilità S di AgCl risulta eguale a:

__________ [ A +] = [[C1—] = √KpsAgCl ______ √2,8x10-10 = 1,7x 10—9

Dall'espressione del prodotto di solubilità si può valutare l'effetto che l'aggiunta di uno ione comare comporta sulla solubilità di un sa le poco solubile: è chiaro che se si aumenta la concentrazione di uno ione, affinchè rimanga invariato il valore del Kps del sale deve ne cessariamente diminuire quella dell'altro ione. Se ad una soluzione satura di cloruro d'argento viene aggiunto del xcloruro di sodio (sale molto solubile e fortemente dissociato nei suoi ioni) la concentrazione degli ioni cloruro aumenta notevolmente, allontanandosi dal valore che ad essa spetta in base al valore del Kps di AgCl. Per ripristinare le condizioni di equilibrio parte de gli ioni C1 reagiscono con gli ioni Ag + per formare AgCl indissociato, che sotto forma di solido si deposita sul fondo del recipiente e la precipitazione continua finchè la concentrazione dello ione Ag+ in soluzione non si sia ridotta abbastanza da soddisfare la relazione [Ag +][Cl —] = 2,8 x 10 -10 Questa diminuzione della solubilità del cloruro d'argento in conseguenza dell'aggiunta di cloruro di sodio è uno degli effetti dello ione a comune. Da quanto detto deriva che quando il prodotto delle concentrazioni degli ioni supera il valore del prodotto di solubilità il sale precipita e la reazione continua fino a che il prodotto delle concentrazioni de gli ioni rimasti in soluzione non si riporti al valore definito e costante del prodotto di solubilità; a fianco

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Chimica generale

sono riportati i valori del prodotto di solubilità di alcuni Sali a 25 oC. Il principio del prodotto di solubilità ha grande rilevanza nell’interpretazione di molti fenomeni di interesse biologico. Basti ricordare il processo di. ossificazione che si realizza per per la precipitazione di fosfato tricalcico sulla matrice proteica delle ossa, evento che si verifica quando il prodotto della concentrazione degli ioni calcio per quella degli ioni fosfato supera il valore del prodotto di solubilità del fosfato di calcio.

note

Valori del prodotto di solubilità di alcuni sali a 25°C.. Kps in moli/1: CARBONATO DI CALCIO 8,7 X 10-9.

I calcoli che si formano nelle vie urinarie sono dovuti a precipitazione di sali poco solubili quali gli urati e gli ossalati. I calcoli, in genere, sono formati da ossalato di calcio, fosfato di calcio, fosfato ammonico-magnesiaco, acido urico e urati. Sodio potassici poco solubili E' stato visto che se nella soluzione satura di un sale poco solubile viene aggiunto uno ione a comune diminuisce la solubilità del sale e si ha precipitazione di una certa quantità di quest'ultimo.

OSSALATO DI CALCIO 2,6 X 10 —9 CLORURO DI ARGENTO 2,8 X 10 —10 SOLFATO DI BARIO 1,0 X 10

—10

IODURO mercurio 3,2 x10 —29

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note

Chimica generale

Cap XVII Le soluzioni elettrolitiche 17.1 Grado di dissociazione Se consideriamo il caso di una soluzione acquosa di un elettrolita debole, ad esempio un acido debole CH 3COOH, in soluzione saranno presenti oltre ai suoi ioni anche molecole di acido indissociate, in questo caso si scrive: CH 3COOH, ↔ CH 3COO — + H + In generale gli elettroliti deboli in soluzione acquosa danno luogo ad un equilibrio di dissociazione per cui per essi è possibile misurare il loro grado di dissociazione, α, definito come la frazione di mole dissociata rispetto al numero totali di moli di soluto . Il valore di α può variare,quindi,tra zero ed uno 0<α<1 Esso è zero quando nessuna molecola è dissociata (non elettrolita) mentre assume il valore unitario quando tutte le molecole sono dissociate (elettrolita forte). I1 grado di dissociazione di un elettroliti debole dipende notevolmente dalla sua concentrazione. Ostwald ha dimostrato sperimentalmente che il suo valore aumenta con la diluizione della soluzione. Si consideri

la

dissociazione del succitato esempio dell'acido acetico. Dalla relativa relazione di equilibrio si osserva che se viene diminuita la concentrazione (cioè se si diluisce la soluzione) dell'acido, in obbedienza alla legge dell'azione di massa aumenta il valore del grado di dissociazione dell'elettrolita. Quindi la dissociazione degli elettroliti deboli è tanto maggiore quanto più è diluita la soluzione.

17 .2. L ’ “i ” di Va nt ’off Le espressioni relative alle grandezze colligative,(abbassamento della tensione di vapore innalzamento del punto ai ebollizione, abbassamento del punto di gelo e pressione osmotica) delle soluzioni ideali sono state ricavate considerando che le molecole dei soluti rimanessero integre nel passare in soluzione acquosa. Le proprietà colligative,come detto, dipendono dal numero di particelle presenti in soluzione siano esse molecole indissociate che particelle ioniche; se ne deduce che,per soluzioni acquose di elettroliti,i valori di abbassamento della tensione di vapore,di innalzamento del punto di ebollizione, di abbassamento del punto di gelo e di pressione osmotica risultano minori rispetto alle stesse proprietà determinate sperimentalmente. Ad esempio la pressione osmotica, determinata sperimentalmente, di una soluzione 0,2M di NaCl è 9,5 atm a 20°C. Calcolando invece lo stesso valore mediante l'uso della formula π = c RT si ottiene un valore di pressione


note

Chimica generale osmotica eguale a 4 ,8 atmosfere ( π= 0,2 x 0,0821 x293 = 4,8 atm). Questa differenza è dovuto al fatto è aumentato il numero di particelle rispetto a quelle che si avrebbero state in assenza della dissociazione. E' chiaro, quindi, che le formule, relative alle proprietà colligative, perchè siano valide anche per le soluzioni elettrolitiche devono essere modificate introducendo un fattore che tenga conto dell'aumento del numero di particelle in conseguenza della dissociazione elettrolitica. Tale fattore, detto fattore di van 't Hoff, si ricava dal rapporto tra il valore di una delle proprietà colligative misurato sperimentalmente ed il valore della stessa grandezza calcolato in base molare. Esso viene indicato col simbolo i che risulta uguale al rapporto:

valore sperimentale valore calcolato Per una soluzione ideale di un non elettrolita il fattore di vani Hoff è uguale a 1, e per una soluzione molto diluita di un

elettroli ta forte il fattore i è sempre maggiore di 1. Per esempio il valore di i per soluzioni molto diluite di NaCl è 2; mentre per soluzioni molto diluite di BaC12 il valore di i è uguale a 3. Questo significa che il rapporto: numero totale di particelle dopo dissociazione numero totale di molecole disciolte e quindi nel caso di NaCl e BaC12, essendo questi elettroliti forti, avremo rispettivamente due e tre ioni dissociati dai rispettivi sali: NaCl → Na+ + Cl—; BaC12→Ba++ + 2 Cl— cioè da una mole di NaCl si originano due moli di ioni, e tre nel caso di BaC12. Le espressioni che consentono di calcolare, per soluzioni elettrolitiche, ( l'abbassamento della tensione di vapore, l'innalzamento della temperatura di ebollizione, l'abbassamento della tempera tura di congelamento, e la pressione osmotica,) saranno quindi i-volte più grandi e quindi le relative grandezze colligatiive dovranno essere corrette per i ad es.:

Π = cRT i

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Chimica generale

note

Cap XVIII Le soluzioni colloidali

18.1. I colloidi Le soluzioni, come si è visto, costituiscono dei sistemi omogenei, in cui le particelle di soluto (molecole, ioni, atomi) sono disperse nel solvente, così da essere invisibili sia a occhio nudo sia con l'uso di strumenti ottici. In un sistema eterogeneo o miscuglio le dimensioni delle particelle sono invece di dimensioni tali da essere visibili, almeno al microscopio; ne sono esempio le sospensioni, in cui particelle solide sono disperse in un liquido. Intermedie tra questi due tipi di sistemi sono le dispersioni colloidali o soluzioni colloidali, contenenti particelle il cui diametro è compreso all'incirca tra 10 e 1000 àngstróm. Le particelle di una soluzione colloidale hanno dimensioni sub-microscopiche, tuttavia, come vedremo, esse sono visibili all'ultramicroscopio, diffondono in genere con molta lentezza e non passano attraverso gli ultrafiltri. Le soluzioni colloidali vengono classificate, in base allo stato di aggregazione delle fasi costituenti, in quattro categorie: soli, geli, emulsioni, aerosoli. I soli sono dispersioni in liquidi di solidi costituiti da particelle di grandi dimensioni o da aggregati di particelle più piccole. Qualunque sostanza che allo stato molecolare sia insolubile in un solvente può generare, se dispersa in esso, una soluzione colloidale; tali soluzioni, per essere stabili nel tempo, richiedono però che le particelle rechino delle cariche elettriche tutte di egual segno, le quali, essendo situate alla loro superficie, impediscono ad esse di riunirsi in aggregati più grandi e quindi di precipitare come corpo di fondo sotto l'azione della forza di gravità. Le cariche in superficie si generano per l'adsorbimento di ioni presenti in soluzione. Consideriamo, per esempio,i- una soluzione di un sale di argento; se ad essa si aggiunge un eccesso di ioduro di potassio, si ha la formazione della specie AgI, pochissimo solubile in acqua; le particelle di ioduro di argento però possono adsorbire sulla loro superficie ioni ioduro, per cui, invece di riunirsi in aggregati di maggiori dimensioni e quindi precipitare, si stabilizzano respingendosi. La coagulazione o precipitazione di questi sistemi può avvenire spontaneamente, per l'instabilità propria presentata da questo tipo di soluzioni, ma può anche essere accelerata con l'aggiunta di elettroliti capaci di diminuire o annullare le cariche presenti in superficie; nell'esempio considerato sopra ciò risulterà dall'azione di ioni carichi positivamente, che, permettendo l'avvicinamento delle particelle, favoriscono la formazione del coagulo; in generale uno ione è tanto più attivo quanto maggiore è la sua carica elettrica.

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note

Chimica generale I geli sono soluzioni in cui il soluto presenta una particolare affinità per il solvente, che viene trattenuto dal soluto anche dopo che è avvenuta la precipitazione. Un esempio di gel inorganico è rappresentato dalla formazione di allumina colloidale, che si osserva durante la precipitazione dei sali di alluminio. Anche i geli possono avere una carica elettrica; questa non è tuttavia indispensabile alla stabilità della soluzione. Essi possono essere precipitati per aggiunta di notevoli quantità di elettroliti o mediante agenti disidratanti. Le emulsioni sono colloidi costituiti da un liquido disperso in un altro liquido; possono essere ottenute mescolando liquidi immiscibili e sottoponendo poi il miscuglio a forte agitazione. Alcune emulsioni sono molto stabili; ne è un esempio il latte, il cui caratteristico aspetto bianco deriva in gran parte dalla presenza di lipidi dispersi in acqua. Gli aerosoli, infine, sono costituiti da particelle di solidi o liquidi dispersi in un gas. Esempi di questo tipo di colloidi sono i fumi e le nebbie. I colloidi passano attraverso i filtri comuni; essi vengono invece trattenuti dagli ultrafiltri, costituiti da membrane di colloidi solidi, come il cellofan, o da membrane naturali, animali o vegetali, tipo la pergamena. Mentre le soluzioni vere e proprie dializzano, cioè attraversano una membrana di pergamena posta tra la soluzione ed il solvente puro, le soluzioni colloidali non dializzano. Su questo principio è basata la dialisi cioè facendo circolare acqua pura all’esterno di un sistema membranario contenente il colloide: le sostanze non colloidali diffondono attraverso la membrana e, dopo un tempo più o meno lungo, si ottiene all’inerno della membrana una soluzione colloidale pura. Come abbiamo detto sopra, le particelle delle soluzioni colloidali sono visibili all'ultramicroscopio. Quest'ultimo consiste di un comune microscopio cui è applicato un dispositivo d'illuminazione laterale.Le soluzioni colloidali danno luogo all'effetto Tyndall, dovuto al fatto che le particelle colloidali con diametro dell'ordine della lunghezza d'onda della luce incidente disperdono questa in tutte le direzioni, creando in questo modo una luminosità che permette di seguire il cammino del raggio ottico: osservata all'ultramicroscopio, una soluzione colloidale mostra diversi punti luminosi dispersi in tutto il sistema; si può così mettere in evidenza l’esistenza presenza dei moti browniani , dovuti agli urti delle molecole di solvente con le particelle colloidali. L'entità della dispersione della luce dipende dalle dimensioni e dalla forma delle particelle, dalla loro struttura e dalla differenza tra gli indici di rifrazione del solvente e delle particelle. Si adopera il termine colloide anche per sostanze di alto peso molecolare (colloidi molecolari). Essi consistono di molecole di stinte, anche se di grandi dimensioni e formano quindi soluzioni vere e proprie. Tuttavia per raffreddamento o concentrazione, queste possono dare geli trasparenti (gelatine), che inglobano tutto il Solvente. Le macromolecole biologiche, come gli acidi nucleici, le proteine ed i polisaccaridi hanno tutte un peso molecolare

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note

Chimica generale

molto elevato e ciò fa sì che le loro soluzioni possano presentare proprietà colloidali. Questo comportamento è alla base del loro ruolo fisiologico. Ad esempio i mucopolisaccaridi acidi, che agiscono come lubrificanti (ad esempio nel liquido sinoviale delle articolazioni) o come sostanze cementanti intercellulari in vari tessuti. Il mucopolisaccaride acido più importante è l'acido ialuronico, che, oltre che nel liquido sinoviale, è presente nell'umor vitreo dell'occhio. Le sue soluzioni si presentano altamente viscose per la tendenza delle sue lunghe catene polianioniche ad aggregarsi tra loro per interazioni mediate dai cationi polivalenti, come il Ca'. Si formano in questo modo delle particelle di dimensioni colloidali, che inglobano quasi tutto il volume d'acqua a disposizione. La repulsione tra le residue cariche negative superficiali di tali particelle impedisce la

Schema

di

formazione

particelle

colloidali

d’argento

per

di

ioduro

adsorbimento

cariche negative.

formazione di aggregati di maggiori dimensioni, garantendone la loro solubilità.

149

di di


note

Chimica generale

Cap XVIII Le REAZIONI DI OSSIDO-RIDUZIONE Molte reazioni chimiche comportano un trasferimento di densità elettronica da un atomo a un altro. Nel loro insieme, tali reazioni sono chiamate reazioni di ossido-riduzione, o semplicemente reazioni redox. Il termine ossidazione indica la perdita di elettroni da parte di un reagente, mentre riduzione si riferisce all’acquisto di elettroni da parte di un altro reagente. L’ossidazione e la riduzione si realizzano sempre contemporaneamente. Nessuna sostanza può essere ossidata senza che un’altra si ridotta nello stesso momento. Altrimenti gli elettroni dovrebbero apparire come prodotti di reazione, cosa che non viene osservata. Durante una reazione redox, quindi, una sostanza deve accettare gli elettroni persi da un’altra. Questa sostanza elettron-accettore è chiamata agente ossidante, la sostanza che fornisce elettroni agente riducente. Per esempio, la reazione fra zinco e rame: Zn + Cu + + = Zn + + + Cu

comporta la perdita di due elettroni da parte dello zinco (ossidazione dello zinco) e un guadagno di due elettroni da parte del rame (riduzione del rame). Lo zinco viene ossidato ed è l’agente riducente, il rame viene ridotto ed è l’agente ossidante. numero di ossidazione come la differenza tra il numero atomico e il numero di elettroni orbitali, o più semplicemente come la carica netta presenta sull’atomo, o carica dello ione. Così gli stati di ossidazione di S2-, Cl-, Co2+ e Fe3+ sono rispettivamente -2, -1, +2 e +3. Lo stato di ossidazione di una specie elementare in qualsiasi forma allotropica è sempre zero.

È evidente che gli elementi allo stato elementare debbano avere n.o. eguale a zero; infatti se consideriamo, ad esempio, l’idrogeno elementare, H2, la coppia di elettroni di legame deve essere egualmente ripartita tra i due atomi in quanto essi sono identici e pertanto la loro carica formale sarà eguale a zero. Per i composti ossigenati, consideriamo, ad esempio H2O. Le due coppie di elettroni che formano i due legami O¾H devono essere attribuite all’ossigeno in quanto più elettronegativo dell’idrogeno e quindi ne segue che l’idrogeno


Chimica generale

note

presenterà una carica formale +1 e l’ossigeno una carica formale -2. Nei composti detti perossidi come H2O2, acqua ossigenata o perossido di idrogeno, abbiamo, applicando il criterio sopra esposto, che l’idrogeno presenta carica formale +1 e i due atomi di ossigeno, considerati nel loro complesso, avranno carica formale -2; pertanto ogni atomo di ossigeno in H2O2 presenta una carica formale eguale a -1. Infine il composto OF2 rappresenta l’unico caso in cui l’ossigeno ha n.o. positivo; ciò è agevolmente comprensibile in quanto questo è anche l’unico esempio di composto in cui l’ossigeno sia legato ad un atomo più elettronegativo. Ogni qualvolta incontriamo una reazione chimica la prima cosa che dobbiamo chiederci è se essa è o meno una reazione di ossido-riduzione. IL CONCETTO DI SEMIREAZIONE. L’aspetto più significativo delle reazioni redox è che possono essere condotto con i reagenti separati nello spazio e connessi solo da un conduttore elettrico. Si consideri la cella galvanica di figura che implica la reazione fra zinco metallico e ione rame: Zn(s) + Cu + + (aq ) = Zn + + (aq ) + Cu( s)

La cella è formata da due bicchieri, uno dei quali contiene una soluzione di un sale di Cu e una bacchetta di rame, e l’altro una soluzione di un sale di Zn e una bacchetta di zinco. I due contenitori sono connessi con un ponte salino, un tubo contenente una soluzione elettrolita, in genere una soluzione acquosa di KCl, che ne assicura il contatto elettrico tra le due soluzioni ma ne ostacola il mescolamento per diffusione degli ioni. Quando le due bacchette sono collegate ad un amperometro si ha immediata evidenza di una reazione chimica. La bacchetta di zinco inizia a passare in soluzione e il rame metallico si deposita sulla bacchetta di rame. La soluzione Zn2+ diventa più concentrata e la soluzione di Cu2 si diluisce. L’amperometro indica che c’è un flusso di elettroni dallo zinco al rame. La reazione continua fino a che la connessione o il ponte salino non vengono rimossi e fino a che è diversa da zero la concentrazione di tutti i reagenti. Si ha evidenza che gli elettroni fluiscono dalla bacchetta di zinco a quella di rame nel circuito esterno e che gli ioni zinco si formano man mano che la bacchetta si discioglie. Queste osservazioni possono essere espresse scrivendo: Zn = Zn + + ( aq ) + 2e −

(sulla bacchetta di zinco)

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note

Chimica generale Inoltre si nota che gli elettroni fluiscono sulla bacchetta di rame, che il numero di ioni rame in soluzione diminuisce e che il rame metallico si deposita: Cu 2 − ( aq ) + 2e − = Cu

(sulla bacchetta di rame)

Il ponte salino evita un accumulo di ioni o cariche in ognuno dei bicchieri permettendo agli ioni negativi di abbandonare il bicchiere di destra e passare in quello di sinistra, diffondendo attraverso il ponte. Contemporaneamente ci può essere una diffusione di ioni positivi da sinistra a destra. Se non avvenisse la migrazione di ioni per diffusione, l’accumulo di carica impedirebbe il flusso di elettroni attraverso il circuito esterno e la reazione si fermerebbe: tale passaggio è necessario per assicurare la neutralità elettrica delle soluzioni delle due semicelle e il funzionamento della pila. Anche se il sale non prende parte alla reazione chimica nella cella, esso deve essere presente perché la cella possa funzionare. L’analisi di questa cella suggerisce che la reazione redox globale può essere separata in due semi-reazioni:

Zn = Zn++ + 2e− 2e- + Cu++ = Cu

Zn + Cu++ = Zn++ + Cu

(ossidazione) (riduzione)

(redox)

Molte altre reazioni red-ox possono essere condotte con successo in celle galvaniche ed è naturale pensare a questi processi come a semi-reazioni che avvengono ai due elettrodi. Pertanto ogni reazione red-ox che avvenga in qualsiasi condizione può essere separata concettualmente di due semi-reazioni. Le semi-reazioni possono essere molto utili nel bilancio delle equazioni redox e inoltre costituiscono lo strumento per la comparazione della forza degli agenti ossidanti e riducenti.

Per bilanciare le equazioni redox può essere

adottato un metodo pratico che prevede quattro momenti di calcolo: 1) Identificazione delle specie che si sono ossidate o ridotte 2) Scrivere le semi-reazioni separate per i processi di ossidazione e riduzione. 3) Bilanciare queste semi-reazioni rispetto agli atomi e alla carica elettrica. 4) Combinare le semi-reazioni bilanciate per formare la reazione totale di ossido-riduzione. Celle galvaniche Le celle elettrochimiche possono essere usate per paragonare la forza degli agenti

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Chimica generale

note

ossidanti e riducenti. Si consideri ad esempio la cella galvanica di Daniel i cui elettrodi siano connessi ai terminali di un voltmetro. Si può osservare sperimentalmente che, a temperatura costante, il voltaggio della cella è funzione del rapporto delle concentrazioni dello ione zinco e dello ione rame. Se la temperatura e 25°C e le concentrazioni degli ioni Zn2+ e Cu2+ sono uguali, il voltmetro legge 1,10 V. Se la concentrazione dello zinco viene aumentata, o quella del rame diminuita, il voltaggio diminuisce, e viceversa. Si immagini ora che la semicella Cu/Cu2+ venga sostituita da una semicella contenente un filo d’argento immerso in una soluzione di nitrato di argento. Anche in questo caso il voltaggio misurato è funzione delle concentrazioni ioniche in soluzione: quando queste sono uguali il potenziale della cella è 1,56 V. Pertanto voltaggio di una cella galvanica è caratteristico sia delle sostanze chimiche sia delle loro concentrazioni. Per poter paragonare le diverse celle galvaniche, bisogna misurare il voltaggio di ognuna nelle stesse condizioni standard di concentrazione e temperatura. Le condizioni standard scelte sono: concentrazione 1 m (molalità) la pressione è di 1 atm e la temperatura di 25°C. Il voltaggio misurato in queste condizioni è detto potenziale normale (o standard) di cella ed è indicato con il simbolo ∆E°. Quando una cella opera in condizioni standard, il suo voltaggio, ∆E°, dipende solo dalla natura chimica dei reagenti e dei prodotti. D’altro canto la quantità di carica che una cella può fornire dipende dalla quantità di sostanza disponibile per la reazione della cella. Pertanto tra i fattori che determinano la capacità di una cella elettrochimica a compiere lavoro, solo il DE° è direttamente legato alla natura chimica delle specie reagenti. Il potenziale standard può essere considerato una misura quantitativa della tendenza dei reagenti nel loro stato standard a formare prodotti nel loro stato standard. In breve, ∆E° rappresenta la forza che pilota (driving force) la reazione chimica: se una reazione procede spontaneamente da sinistra a destra, il ∆E° è positivo, se la direzione spontanea è da destra a sinistra, ∆E° assume segno negativo. Per quanto riguarda il segno di ∆E° è opportuno ricordare che più positivo è il valore del ∆E°, maggiore è la tendenza della reazione a procedere da sinistra a destra. Nel caso della cella rame-zinco, il valore di ∆E° può essere accettato come misura della tendenza dello zinco metallico a perdere elettroni e a dare ioni zinco e dello ione rame ad accettare elettroni e diventare rame metallico. In altre parole, ∆E° è una rappresentazione simultanea della forza dello zinco metallico come riducente e della capacità ossidante del rame. Così per poter comparare la forza di diversi ossidanti e riducenti sarebbe opportuno avere una misura della tendenza di una semi-reazione a procedere e, cioè, sarebbe utile avere i valori dei potenziali standard di semicella, piuttosto che i valori di ∆E°. Il valore di ∆E° può essere considerato correttamente come la somma di due potenziali di semicella, ognuno

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note

Chimica generale associato con ciascuna delle semireazioni della cella. Ma poiché ogni cella galvanica coinvolge due reazioni, non è possibile misurare il valore assoluto del potenziale di una semicella, ma solo la somma algebrica di due valori. Di conseguenza, è possibile avere i valori numerici per i potenziali di semicella solo assegnando arbitrariamente il valore zero al potenziale di una semicella. Pertanto si è convenuto dare alla semireazione idrogeno elementare (gas)/idrogenione il valore zero quando i reagenti ed i prodotti sono negli stati standard:

H 2 (1 atm) = 2H + + 2e − Per assegnare il potenziale di semicella alle altre semi-reazioni, si misura il valore della forza elettromotrice relativa alla cella ottenuta accoppiando la semi-reazione in oggetto con la semicella ad idrogeno. Quando la semicella zinco-zinco ione è accoppiata all’elettrodo standard a idrogeno, la misura della f.e.m. dà il valore 0,76 V e gli elettroni fluiscono dall’elettrodo a zinco a quello a idrogeno, mentre quanto la semicella rame-rame è accoppiata all’elettrodo ad idrogeno, la misura della f.e.m. dà 0,34 V e gli elettroni fluiscono dall’elettrodo a idrogeno al rame. La direzione delle reazioni di cella spontanee è:

Zn(s) + 2 H + (1 M)

→ ←

Zn 2 + (1 M) + H 2 (1 atm)

Cu 2 + (1 M) + H 2 (1 atm)

→ ←

Cu + 2 H + (1 M)

Questa informazione ci permette di dire che il valore assoluto del potenziale della coppia Zn-Zn2+ è 0,76 V e il valore assoluto del potenziale della coppia Cu-Cu2+ è 0,34 V. Per quanto riguarda, invece, il segno di tali potenziali, se si adotta la convenzione di scrivere le reazioni come riduzioni il valore e il segno del potenziale devono riflettere la tendenza relativa delle reazioni a procedere da sinistra a destra. Ora, gli esperimenti riportati in precedenza dicono che nella cella zinco-idrogeno riduce spontaneamente l’idrogeno ione. Pertanto il potenziale di semicella della reazione idrogeno ione-idrogeno deve essere più positivo di quello della reazione zinco ione-zinco, poiché quando le due reazioni vengono combinate la prima procede da sinistra a destra. Similmente gli esperimenti con la cella rame-idrogeno mostrano che lo ione rame è un ossidante migliore dello ione idrogeno o che la semireazione Cu2/Cu ha una tendenza più spiccata a procedere da sinistra a destra rispetto alla coppia H+/H2. Ne consegue che il potenziale della coppia Cu2+/Cu deve essere più positivo di quello della reazione ione-idrogeno.

154


Chimica generale

note

Si ha pertanto: → Zn ← → 2 H + + 2e − H ← 2 → Cu 2 + + 2e − Cu ← Zn + 2 e −

∆ E ° = − 0 ,76 V ∆ E ° = 0 ,00 V ∆ E ° = + 0 ,34 V

È da tenere presente che l’aumento del potenziale sta ad indicare una tendenza crescente per le semireazioni a procedere da sinistra a destra. Si possono così riassumere le convenzioni concernenti i potenziali delle semicelle:

155


Chimica generale

note

All’elettrodo standard a idrogeno si attribuisce il valore convenzionale di potenziale zero (volt). Scrivendo tutte le semi-reazioni come riduzioni, le reazioni che procedono verso destra più facilmente di quanto si ha per la coppia H+/H2 avranno potenziale positivo, quello che manifestano una tendenza minore hanno un potenziale di semicella negativo. Il valore (in senso algebrico) del potenziale di semicella è una misura quantitativa della tendenza di una reazione a procedere da sinistra a destra. Se si inverte il verso di una semi-reazione si cambia il segno del potenziale. Se una semi-reazione è moltiplicata per un numero positivo, il potenziale resta invariato.È opportuno classificare i semielementi in base alle loro caratteristiche costitutive. In un primo tipo si possono includere i semielementi metallici: sono quelli già visti e sono costituiti in genere da una lamina metallica (elettrodo) immersa in una soluzione contenente ioni del metallo stesso. L'elettrodo ha la duplice funzione di condurre gli elettroni e di partecipare alla reazione. Al secondo tipo appartengono gli elettrodi a gas. Essi sono costituiti da un elettrodo metallico, generalmente platino la cui superficie è trattata in modo da adsorbire il gas che viene fatto gorgogliare su di esso ad una determinata pressione. Nella soluzione ci sono gli ioni corrispondenti ad uno stato ossidato o ridotto dell'elemento gassoso adsorbito sull'elettrodo. Pertanto sono semielementi a gas con pressione unitaria del gas, i seguenti: Pt (CI2) | Cl— PC12 = 1 atm Pt (CI2) | CIOg— PC12 = 1 atm Pt

(H2) |H30+

pH2 = 1 atm Si noti che in questo tipo di semielementi l'elettrodo non partecipa alla reazione ma ha funzione sia di supporto al gas, sia di conduzione elettronica. Infine nel terzo tipo di semielementi sono compresi i semielementi le cui specie redox sono ambedue in soluzione. In questo caso l'elettrodo ha solo una funzione di conduzione elettronica. La tendenza di una particolare coppia redox a subire ossidazione o riduzione in una pila può essere misurata costruendo una cella come quella in figura. Una pila è sempre costituita da due semielementi o semipile. una di riduzione e l'altra di

156


note

Chimica generale

ossidazione. Se vogliamo misurare il potenziale di una particolare semipila, questa deve essere accoppiata con un'altra semipila, di potenziale noto. Dalla misura della differenza di potenziale totale è possibile ricavare il potenziale redox di quella particolare semipila. Tradizionalmente, la semipila di riferimento è costituita da un semielemento standard ad idrogeno, consistente in un elettrodo di platino. coperto di platino nero spugnoso, immerso in una soluzione di H30 + 1 M, saturato con H, gassoso alla pressione di 1 atmosfera a 25 °C. La reazione elettrodica nella semicella standard è 2H 30+ + 2e-_± H2 + 2H 2O Poiché le concentrazioni e la temperatura influenzano il potenziale elettrochimico di una reazione reversibile, è necessario specificare le condizioni in cui si trovano tutti i reagenti. Alla semicella standard ad idrogeno si è assegnato convenzionalmente un potenziale di 0,00 volt. Il potenziale redox di una semireazione può essere misurato per confronto con quello della semicella standard ad idrogeno. Per esempio, il potenziale standard E° del sistema Zn` + 2e <-- Zn e quindi misurato a 25 °C. ad 1 atmosfera e con [Zn Zn i Zn

2+1M il H30+

21] unitaria,

si può misurare attraverso la pila:

M i Pt, H2 (1 atm)

Il segno del potenziale elettrochimico indica la facilità di ossidarsi o di ridursi. Allo zinco si assegna un potenziale negativo perché questo elemento viene più facilmente ossidato che non ridotto, mentre un potenziale positivo indica che la sostanza viene ridotta più facilmente dello ione idrogeno. Il potenziale standard del rame è +0,34 V, e questo valore è una misura del suo carattere redox nei confronti dello ione idrogeno. 1Per convenienza si usano come elettrodi di riferimento altre semicelle, oltre a quella ad idrogeno. L'elettrodo a calomelano è uno di questi. Tuttavia, il loro potenziale è sempre riferito alla semicella ad idrogeno. Il voltaggio della semicella a calomelano Hg | HgzClz,( KCl satura) è pari a +0,245 V rispetto a quella ad idrogeno. La cella a calomelano è di uso frequente per la sua praticità e riproducibilità. Nella tabella 16.2 si riportano i potenziali standard per alcuni semielementi. La tabella mostra gli elementi più facilmente ossidabili in cima all'elenco e termina con i più riducibili.

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note

Chimica generale La concentrazione degli ioni che partecipano alla reazione redox in un semielemento di una cella galvanica esercita una influenza ben precisa sul voltaggio della cella. In una semicella a zinco l'equilibrio tra zinco metallico e ioni zinco può essere spostato combiando la concentrazione di Zn` e cambiando quindi il potenziale della semicella. Quando [Zn`] è 1 M, il potenziale standard è -0,76 V ma se [Zn

z+]

diminuisce, l'equilibrio Zn` + 2e # Zn si sposta a sinistra e, poiché il potenziale misura la tendenza di una reazione ad avvenire, il potenziale elettrochimico della semicella diventa più negativo. La relazione che descrive questo comportamento quantitativamente è la equazione di Nernst (v. riquadro): E = Eo + Dove:

Cella zinco-idrogeno

E

RT In [OX] nF [rid]

(16.8)

è il potenziale della semicella,

E ° è il potenziale standard, R è la costante universale dei gas perfetti T è la temperatura assoluta, n

è il numero di elettroni scambiati nella reazione redox,

F

è il Faraday,

[OX] è la concentrazione di Zn` [RID] è la concentrazione di Zn metallico. Vediamo ora l'espressione della equazione di Nernst per i tre tipi di semielementi precedentemente considerati. Per un semielemento Fe |Fe 2 + si ha: E-= E° + RT In nF

[ Fe++]

[ Fe]

In realtà l'equazione di Nerst si riferisce ad una cella e non ad un semielemento; tuttavia, è più conveniente descrivere separatamente la dipendenza del potenziale di un semielemento dalla concentrazionedell’idrogeno . Questo si realizza separando le due semireazioni e accoppiandole alla reazione standard dell’idrogeno

158 158


note

Chimica generale

Cap XIX NOMENCLATURA I diversi tipi di nomenclatura: La nomenclatura tradizionale: trae origine dalla distinzione degli elementi in metalli e in non metalli. La nomenclatura IUPAC: è quella più razionale e mette in evidenza il numero di atomi

19.1 Composti binari contenenti idrogeno L'idrogeno si trova nel 1° gruppo e nel 1° periodo si può combinare con un solo elemento; ha bisogno di un solo elettrone; ha valenza 1, (monovalente) La valenza degli altri elementi rispetto all'idrogeno varia da 1 a 4 dal 1° al 4° gruppo cresce, dal 5° al 7° decresce. Nella molecola ci sono tanti atomi di idrogeno quanto è la valenza dell'elemento combinato con l'idrogeno: prima si scrive l'elemento meno elettronegativo, poi quello più elettronegativo XH se x appartiene al 1° gruppo Es, NaH (idruro di sodio) XH2 se x appartiene al 2° gruppo Es.CaH2 (idruro di calcio) XH3 se x appartiene al 3° gruppo Es. AlH3 (idruro di alluminio) XH4 se x appartiene al 4° gruppo Es. CH4 (metano) XH3 se x appartiene al 5° gruppo Es, NH3 (ammoniaca) H2X se x appartiene al 6° gruppo Es. H2O (Acqua) HX se x appartiene al 7° gruppo Es. HCl (ac. cloridrico) IDRURI: idrogeno + metallo Per denominarli si ricorre all’espressione “idruro di...” seguito dal nome dell’elemento combinato con l’idrogeno IDRACIDI idrogeno + non metalli Sono preceduti dal termine acido + radice del nome del non metallo col suffisso -IDRICO (Es. HCl acido cloridrico;HI acido iodidrico; H2S acido solfidrico; HBr acido bromidrico;HF acido fluoridrico). Se un elemento è bivalente, sono denominati con la radice del nome del non metallo + il suffisso -URO + la radice del nome del metallo +:-OSO per il numero di ossidazione minore; -ICO per il numero di ossidazione maggiore. Esempi: FeCl2 cloruro ferroso: FeCl3 cloruro ferrico.

19.2 Idrossidi


note

Per il ferro che presenta due stati di ossidazione (+2 e +3) la nomenclatura è differente, l’ossido FeO con N.O. inferiore prende la desinenza oso; l’ossido Fe2O3 con N.O. superiore prende la desinenza ico. La stessa regola vale per tutti i metalli che hanno numeri di ossidazione diversi.

Chimica generale

CaII + O2 → CaO

2Ca + O2 → 2 CaO

Ossido di calcio

MgII+ O2 → MgO

2Mg + O2 → 2MgO

Ossido di magnesio

BaII + O2 → BaO

2Ba + O2 → 2BaO

Ossido di bario

AlIII + O2 → Al2O3

4Al + 3 O2 → 2Al2O3

Ossido di alluminio

FeIII + O2 → Fe2O3

4Fe + 3O2 → 2Fe2O3

Ossido di ferrico

FeII + O2 → FeO

2Fe + O2 → 2FeO

Ossido ferroso

CuI + O2 → Cu2O

4Cu + O2 → 2Cu2O

Ossido rameoso

CuII + O2 → CuO

2Cu + O2 → 2CuO

Ossido rameico

PbII + O2 → PbO

2Pb + O2 → 2PbO

Ossido di piombo

.

Composti binari metallo non-metallo Se ci sono più atomi dei due elementi il loro numero viene espresso mediante i prefissi di-, tri-, tetra-, penta-, esa-, epta- Esempi: Fe3S2 solfuro di triferro; Fe2S solfuro di ferro; FeCl2 dicloruro di ferro; FeCl3 tricloruro di ferro. Nelle formule si pone per primo l’ elemento meno elettronegativo Nomenclatura IUPAC: Radice del nome dell'elemento a destra + suffisso -URO + DI + nome dell'elemento a sinistra. ESEMPI: LiF fluoruro di litio; NaCl cloruro di sodio.

160 160


Chimica generale

note

Sono formati dalla reazione: OSSIDO BASICO + ACQUA= IDROSSIDO. Sono caratterizzati dalla presenza di uno o più gruppi -OH chiamato ossidrile; è monovalente: ci sono tanti gruppi -OH quanto è lo stato di ossidazione del metallo

Nomenclatura IUPAC. Sono denominati con l’espressione “idrossido di...” + nome del metallo. Nel caso che ci siano più atomi o più composti -OH si aggiungono al termine idrossido i consueti prefissi (mono, di, tri...). Esempi: NaOH idrossido di sodio; Ca(OH)2 diidrossido di calcio; Al(OH)3 triidrossido di alluminio; Fe(OH)2 diidrossido di ferro; Fe(OH)3 triidrossido di ferro; Cu(OH) idrossido di rame; Cu(OH)2 diidrossido di rame. Sono anche denominati con l’espressione "idrossido di" + nome del metallo. Nel caso di metalli con più valenze, si mette tra parentesi il numero romano che indica lo stato di ossidazione del metallo. Esempi: Ca (OH)2 idrossido di calcio (II); Al(OH)3 idrossido di alluminio (III); Fe(OH)2 idrossido di ferro (II); Fe(OH)3 idrossido di ferro (III). Nel caso che il metallo sia monovalente, sono denominati con l’espressione "idrossido di" + nome del metallo. Nel caso di metalli con più stati di ossidazione, sono denominati con l'espressione "idrossido" + radice del nome del metallo + il suffisso: -oso per lo stato di ossidazione più basso; -ico per per lo stato di ossidazione più alta. Es: Fe(OH)2 idrossido ferroso; Fe(OH)3 idrossido ferrico; Cu(OH) drossido rameoso; Cu (OH)2 idrossido rameico

19.3 Gli ossiacidi Sono il prodotto della reazione:

OSSIDO ACIDO + ACQUA. Sono composti da idrogeno + non metallo + ossigeno (in sequenza ). Es. SO2 + H2O ⇒ H2SO3; SO3 + H2O ⇒ H2SO4;; N2O3 + H2O ⇒ H2N2O4 ⇒ 2 HNO2; N2O5 + H2O ⇒ H2N2O6 ⇒ HNO3 ; Cl2O + H2O ⇒ H2Cl2O2 ⇒ 2 HClO; Cl2O3 + H2O ⇒ H2Cl2O4 ⇒ 2 HClO2 ; Cl2O5 + H2O ⇒ H2Cl2O6 ⇒ HClO3; Cl2O7 + H2O ⇒ H2Cl2O8 ⇒ HClO4

Nomenclatura IUPAC Sono denominati col termine acido + il numero di atomi do ossigeno (prefissi monosso-, diosso-, triosso-...) + radice del nome del non metallo + suffisso -ICO + tra parentesi lo stato di ossidazione del non metallo. Se sono presenti più atomi del non metallo, il nome di questo viene preceduto dai soliti prefissi. Es. H2SO3

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Chimica generale

note

acido triosso solforico (IV); H2SO4 acido tetraosso solforico (VI); HNO2 acido diosso nitrico (III); HNO3 acido triosso nitrico (V); HClO acido monosso clorico (I); HClO2 acido diosso clorico (III); HClO3 acido triosso clorico (V); HClO4 acido tetraosso clorico (VII)

Nomenclatura tradizionale Sono denominati col termine "acido" + la radice del nome del non metallo + il suffisso: -OSO per lo stato di ossidazione minore; -ICO per lo stato di ossidazione maggiore. Es.: H2SO3 acido solforoso; H2SO4 acido solforico; HNO2 acido nitroso; HNO3 acido nitrico; HClO acido ipocloroso; HClO2 acido cloroso; HClO3 acido clorico; HClO4 acido perclorico.

19.4.1 I Sali Derivano dagli acidi per sostituzione completa o parziale dei loro atomi di idrogeno con atomi di un metallo (salificazione).

Nomenclatura IUPAC Radice del nome del non metallo + il suffisso -ATO + la valenza del non metallo tra parentesi + la preposizione DI + il nome del metallo (se ci sono più atomi metto i soliti prefissi). Es.: HNO2 ⇒ NaNO2 ⇒ diosso nitrato (III) di sodio; HNO3 ⇒ NaNO3 ⇒ triosso nitrato (V) di sodio; H2SO3 ⇒ K2SO3 ⇒ triosso solfato (IV) di di potassio; H2SO4 ⇒ K2SO4 ⇒ tetraosso solfato (VI) di di potassio; HClO ⇒ LiClO ⇒ monosso clorato (I) di litio; HClO2 ⇒ LiClO2 ⇒ diosso clorato (III) di litio; HClO3 ⇒ LiClO3 ⇒ triosso clorato (V) di litio; HClO4

⇒ LiClO4 ⇒ tetraosso clorato (VII) di litio.

NOMENCLATURA TRADIZIONALE Sono denominati colla radice del nome del non metallo + il suffisso:-ITO al nome del corrispondente acido oso; -ATO per la l’acido –ICO + la preposizione di + il nome del metallo. ESEMPI: HNO2 ⇒ NaNO2 ⇒ nitrito di sodio; HNO3 ⇒ NaNO3 ⇒ nitrato di sodio; H2SO3 ⇒ K2SO3 ⇒ solfito di potassio;

162


Chimica generale

note

H2SO4 ⇒ K2SO4 ⇒ solfato di potassio; HClO ⇒ LiClO ⇒ ipoclorito di litio; HClO2 ⇒ LiClO2 ⇒ clorito di litio; HClO3 ⇒ LiClO3 ⇒ clorato di litio; HClO4 ⇒ LiClO4 ⇒ perclorato di litio:

19.4.2 Sali idrati Alcuni sali formano solidi cristallini in cui è presente acqua di cristallizzazione secondo proporzioni ben definite. Tali sali si dicono idratati. L'acqua di cristallizzazione viene scritta dopo la molecola del sale, separata da un punto. CuSO4.5H20

solfato rameico pentaidrato

SrCl2. 6H20

cloruro di stronzio esaidrato

CaSO4.2H20

solfato di calcio biidrato (gesso)

19.4.3. Sali doppi I sali doppi si possono considerare come formati dall'unione di due sali semplici che presentano l'anione in comune e cationi diversi o, più raramente, il catione in comune e anioni diversi. I sali doppi mantengono in soluzione le stesse caratteristiche analitiche dei sali semplici da cui provengono. In altre parole un sale può essere considerato doppio quando posto in soluzione si dissocia negli stessi ioni in cui si dissocierebbero i sali semplici da cui proviene se fossero posti in soluzione. Sali doppi con l'anione in comune, Es.:K2Mg(SO4)2 → 2K+ + Mg++ + 2SO4—— (solfato doppio di K e Mg); si ottiene la stessa soluzione sciogliendo separatamente il solfato di potassio ed il solfato di magnesio. Sali doppi con il catione in comune Piuttosto rari. Sono sali di questo tipo i minerali noti come apatiti. Es.: Ca5F(PO4)3 (fluorofosfato di calcio o fluoroapatite)

19.4.4. Sali complessi Si definiscono complessi quei sali che dissociandosi formano ioni diversi rispetto a quelli che si formano dalla dissociazione dei sali semplici che li formano.

163


note

Chimica generale Ad esempio se dissociamo separatamente il cloruro di sodio NaCl ed il cloruro platinico PtCl4, si ottiene NaCl → Na+ + ClPtCl4 → Pt4+ + 4Clma se mescoliamo le due soluzioni si ottiene un sale complesso, l'esacloroplatinato di sodio Na2PtCl6, il quale non è un sale doppio, ma un sale complesso in quanto si dissocia in Na2PtCl6 → 2Na+ + PtCl62La soluzione presenta quindi caratteristiche diverse da quelle delle soluzioni dei sali semplici. I sali complessi dissociandosi possono dar luogo ad un anione complesso (come nell'esempio precedente), ad un catione complesso o ad entrambi. Sali con anioni complessi: Si conoscono molti sali con anioni complessi derivati dagli idracidi. SiF62-

anione esafluosilicato

AuCl4—

anione tetracloroaurato

SnCl6 — —

anione esaclorostannato

PtCl6 — —

anione esacloroplatinato

Fe(CN)

6 ———

anione esacianoferrato o ferricianuro

Fe(CN)

6 — — — –-

anione esacianoferrito o ferrocianuro

Tutti questi sali possono essere considerati come derivati da acidi complessi, alcuni dei quali sono in grado di esistere allo stato libero come: HBF4

acido fluoborico

HAuCl4

acido cloroaurico

H2SiF6 H4Fe(CN)6

acido fluosilicico acido ferrocianidrico

Un gruppo particolarmente numeroso di sali complessi sono i solfosali, che si formano per reazione tra solfuri metallici e solfuri di semimetalli. Na2S + CS2 → Na2CS3 (solfocarbonato o tritiocarbonato sodico) Lo zolfo, che appartiene allo stesso gruppo chimico dell'ossigeno, presenta per certi versi una chimica ad esso parallela. La reazione tra il solfuro di sodio e il solfuro di carbonio, ad esempio, è analoga a quella che avviene tra un ossido e un'anidride. Se sostituiamo lo zolfo con l'ossigeno otteniamo infatti la reazione:

Na2O + CO2

→ Na2CO3

164


Chimica generale

note

Così i solfuri metallici possono essere pensati come solfoossidi, mentre i solfuri dei semimetalli come solfoanidridi. La loro reazione produce dei solfosali. 3CaS + As2S5 → Ca3(AsS4)2 solfoarseniato (o tetratioarseniato) di calcio 3CaO + As2O5 → Ca3(AsO4)2 arseniato di calcio Analogamente si possono ottenere solfoarseniti (o tritioarseniti) come Na3AsS3, solfoantimoniti (o tritioantimoniti) come Na3SbS3, solfostannati (o tritiostannati) come Na2SnS3 etc.

19.4.5. Sali con cationi complessi Anche se meno numerosi, esistono anche sali che presentano cationi complessi. Se ad esempio viene aggiunta dell'ammoniaca NH3, ad una soluzione satura di cloruro di argento AgCl (sale poco solubile), il precipitato si scioglie per la formazione del catione complesso: Ag(NH3)2 +

ione diammino argento

Cationi complessi si formano ad esempio ogni volta che un sale ferrico viene sciolto in acqua. Il Fe3+ forma infatti con sei molecole d'acqua il catione complesso Fe(H2O)6+++ ione esaacquoferrico, responsabile del colore porpora delle soluzioni dei sali ferrici. Il colore giallastro, molto comune nelle soluzioni dei sali ferrici, è prodotto dalla sostituzione di una molecola d'acqua con un ossidrile: Fe(OH)(H2O)5 ++

(ione penta-acquo– idrossi ferrico)

Naturalmente si possono formare anche sali in cui sia l'anione che il catione sono complessi, come: Co(NH3)(H2O)3Fe(CN)6 esacianoferrato (o ferricianuro) di trammino-triacquo-cobalto Cu(NH3)43(AsS4)

tetratioarseniato tetraamminorameico

Cr(NH3)4Cl2Pt(NH3)Cl3 monoammino-tricloro-platinito tetrammino-dicloro-cromico

Composti complessi e agenti complessanti Sali e acidi complessi appartengono ad un vasto gruppo di composti detti "complessi". In generale un composto complesso si forma quando ad un atomo o ad un catione centrale si legano, spesso con legami di tipo dativo, più molecole di una sostanza detta "complessante", avente una o più coppie di elettroni non condivisi da impegnare. Gli agenti complessanti, detti anche "leganti", sono anioni o sostanze neutre.

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Chimica generale

note

Sistematica LA VALENZA RISPETTO ALL'OSSIGENO L'ossigeno appartiene al 6° gruppo e al 2° periodo; può ricevere al massimo 8 elettroni nel livello di valenza, in quanto ne ha già 6 ha valenza 2 (bivalente) La valenza degli altri elementi rispetto all'ossigeno si esprime meglio come numero di ossidazione (n.ox) COMPOSTI BINARI CONTENENTI OSSIGENO

A)

Sono denominati col termine "ossido di" seguita dal nome del metallo. Per indicare il numero di atomi si usano i prefissi mono-, di-, tetra-, penta-, esa- e epta- che precedono i omi; Negli ossidi l'ossigeno ha valenza 2. Nelle Metalli e non-metalli

formule il simbolo dell'ossigeno è preceduto dal simbolo dell'elemento con cui si combina. Sono denominati col termine "ossido di" seguita dal nome dell'elemento, senza bisogno di prefissi. Quando l'elemento ha più di 1 valenza si mette "ossido di" + nome dell'elemento + la valenza dell'elemento tra parentesi Es.: FeO ossido di ferro (II); Fe2O3 ossido di ferro (III) La nomenclatura tradizionale opera la distinzione tra metalli e non metalli: metallo + ossigeno ⇒ OSSIDI BASICI i metalli monovalenti vengono denominati col termine "ossido di" + nome del metallo i metalli bivalenti vengono denominati col termine "ossido" + radice del nome del metallo +:suffisso -OSO per la valenza più bassa; suffisso -ICO per la valenza più alta. Es.: CaO ossido di calcio; FeO ossido ferroso; Fe2O3 ossido ferrico. Anche i non metalli reagiscono con l’ossigeno per formare composti che si chiamano anidridi o ossidi acidi. Non metallo + ossigeno formano gli ossici acidi denominati anidridi + nome del non metallo seguito dal suffisso -OSO per il numero di ossidazione più bassa; suffisso -ICO per il numero di ossidazione più alto. Esempi: N2O3 anidride nitrosa; N2O5 anidride nitrica; P2O3 anidride fosforosa; P2O5 anidride fosforica; SO2 anidride solforosa; SO3 anidride solforica.

SALI BINARI: metallo + non metallo:Se monovalenti, sono denominati con la radice del nome del non metallo + il suffisso -URO + DI + nome del metallo, Esempi: NaCl cloruro di sodio; LiF fluoruro di litio.

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Chimica generale

note

Si dice che il catione centrale "coordina" intorno a sè le molecole leganti. Per questo motivo i composti complessi sono anche detti composti di coordinazione. I cationi che più facilmente formano complessi sono quelli che presentano le più elevate densità di carica (ione piccolo con carica elevata). Il numero di leganti che un catione è in grado di coordinare è detto numero di coordinazione dello ione complessante. Il numero di coordinazione di gran lunga più frequente è il 6. Abbastanza comuni anche il 2 e il 4. Molto più rari i numeri dispari. Il numero di coordinazione di un catione è quasi sempre pari al doppio del suo nox più elevato. Ad esempio: il Ferro (n.ox +2, +3) presenta

numero di coordinazione 6; il Rame (n.ox +1, +2) presenta numero di

coordinazione 4; l'Argento (n.ox +1) presenta numero di coordinazione 2; il Cobalto (n.ox +2, +3) presenta numero di coordinazione 6 I complessi esacoordinati sono ottaedrici; ad esempio nello ione complesso esammino cromico, Cr(NH3)63+, lo ione Cr3+, forma 6 orbitali ibridi sp3d2, con disposizione ottaedrica, disponibili per formare 6 legami dativi con altrettante molecole di ammoniaca I complessi tetracoordinati sono tetraedrici o quadrati planari. I complessi bicoordinati sono lineari

.Regole convenzionali per la scrittura di un complesso Prima si scrive il metallo (agente complessante); poi si scrivono i leganti in ordine alfabetico preceduti dal prefisso che ne indica il numero (mono-, di-, tri-, tetra- etc)

Nomenclatura dei complessi ANIONI COMPLESSI:

il metallo con desinenza -ato, seguito dal suo numero di ossidazione in numeri romani tra

parentesi, secondo la notazione di Stock, codificata dalla convenzione IUPAC, oppure, secondo la vecchia terminologia, il metallo con desinenza -ato o -ito in relazione al suo stato di ossidazione. Es.: Fe(CN)64 — anione esacianoferrato (II) (leggi: esacianoferrato due) oppure anione esacianoferrito Fe(CN)63—

anione esacianoferrato (III) (leggi: esacianoferrato tre) oppure: anione esacianoferrato

CATIONI COMPLESSI:

il metallo seguito dal suo nox in numeri romani tra parentesi, secondo la notazione di

Stock, codificata dalla convenzione IUPAC oppure, il metallo con desinenza -oso o -ico, in relazione al suo numero di ossidazione: Cu(NH3)42+ ione tetraammino rame (II); oppure: ione tetraamminorameico.

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