George Ivanovitch Gurdjieff

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James Moore

George Ivanovitch

Gurdjieff Anatomia di un Mito


INDICE

Ringraziamenti Documentazione dei diritti Introduzione Parte Prima: Auto-mitologia 1. La formazione del pensiero 2. La lunga ricerca Parte Seconda: La rivelazione nel quesito La rivelazione nel quesito Parte Terza: Gli archivi della Lega 1. Il Principe Ozay 2. Santa affermazione 3. Miraggi di salvezza 4. La Primula Rossa del Caucaso 5. Tra i Menscevichi 6. “The Struggle of the Magicians” 7. Il Signor Gurdjieff cambia treno 8. Haida Yoga 9. Cavalcare la tigre 10. La morte e l’autore 11. Poche ghiande sparpagliate 12. Santo rifiuto 13. Modalità di cura 14. C’est la guerre 15. Santa riconciliazione 16. Au revoir, tout le monde Cronologia Note Sigle delle citazioni Bibliografia Illustrazionia

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INTRODUZIONE

George Ivanovich Gurdjieff ebbe una vita straordinariamente ricca e vivace, anche se è difficile comprenderne appieno il significato. Due punti di vista estremi possono servire di riferimento: secondo alcuni fu un ciarlatano e secondo altri, al contrario, fu “la figura più immediata, più valida e più rappresentativa dei nostri tempi”. Quest’ultimo encomio (accordato da Peter Brook) suscita esiti affascinanti, essendo Gurdjieff discutibilmente non rappresentativo all’ennesimo grado: avvocato e agente della tradizione in un’epoca febbrilmente “progressista”, patriarca incorreggibile in un’epoca di sensibilità post-femminista, campione di qualità in un’epoca sedotta dalla quantità, eroe in una cornice culturale antieroica e soprattutto un’incarnazione della consapevolezza in un mondo ormai arreso alla trance. Il cliché giornalistico del “ciarlatano”, però, non mi rende troppo felice, per non dire che mi lascia inorridito! Senza presunzione di censurare il censore, ci si può solamente interrogare a proposito della familiarità con il Gurdjieff storico e l’etimologia degli epiteti. La radice di ciarlatano è ciarlare, che significa chiacchierare, tuttavia Gurdjieff fu economo nelle parole e si distinse per la qualità dei suoi silenzi; per migliaia di persone sensibili e intelligenti che ebbero l’ingegno di vedere al di là della sua occasionale maschera di fraudolenza, egli arrivò a rappresentare l’incarnazione viva dell’autenticità. Ci sono delle mode nelle biografie e l’impulso contemporaneo è evidentemente di sezionare le figure di primaria importanza. Gurdjieff è reputato tale? Forse non in Gran Bretagna, anche se il mondo del bon ton culturale (che egli incidentalmente disdegnò) lentamente, quasi tremando, sembra attirarlo al suo seno. Egli domina almeno cinquanta memorie e studi, è citato nell’Enciclopedia Britannica, nel 1979 il suo libro autobiografico Incontri con uomini straordinari divenne un grande film e nel marzo del 1987 tenni il primo seminario sulle sue idee all’Università di Oxford. A ogni modo, la sua posterità è tutta da giocare, poiché solo nel senso più meccanicista l’opera di quest’uomo può essere esaurita in quattro libri, un balletto, trecento pezzi per pianoforte e un centinaio di 9


Danze Sacre o “Movimenti”. Gurdjieff fu il fattore decisivo e vivificante per innumerevoli vite umane e la sua vera eredità può quindi essere percepita come una corrente di influenza sotterranea che è ben lontana dall’essersi placata. Offrire al lettore un’introduzione divertente e istruttiva alla vita del mio soggetto e affrontare la questione basilare “E cosa accadde in seguito?” sono stati i miei scopi nel preparare questa prima biografia. Gurdjieff: anatomia di un mito è un titolo scelto a ragion veduta, ma m’impone il compito da spiegare. La parola “mito” non ha mai avuto un significato peggiorativo per me e nel contesto attuale è nobilitata dall’immenso significato che Gurdjieff stesso attribuì alla tradizione. Così, è nel senso più positivo che Gurdjieff è una creatura del mito, ripetendo in abiti moderni l’urgente rierca del primo eroe della letteratura, Gilgamesh, re di Uruk. Ma ogni bastone ha due estremità. Se Gurdjieff non è destinato a diventare il giocattolo amorfo di immaginazioni stravaganti, il suo mito esige lo scheletro di una cronologia articolata e la muscolatura di una robusta storicità. È precisamente verso la taratura del mito e della storia che io ho lavorato. I lettori che interpreteranno male il mio titolo, come se promettese una specie di assassinio del personaggio, rimarranno sfortunatamente delusi. Né potranno, nel complesso, essere biasimati. La biografia moderna è tediosamente iconoclasta e tende a fondarsi sulla denuncia sessuale. L’indifeso soggetto è presentato orizzontalmente: le sue tendenze sessuali, le sue “performances” e perversioni graficamente dettagliate al servizio del candore contemporaneo e della vendita di libri. Senza dubbio vi sono uomini rischiarabili soprattutto attraverso le loro relazioni con le donne: degli Antoni difficilmente pensabili eccetto che nella loro polarità con delle Cleopatre. Andrebbe benissimo, se Gurdjieff fosse stato un uomo simile. Ma non lo fu. È perfettamente vero, come dice T.S. Matthews, che “le sue seguaci naturalmente lo adoravano e alcune che avevano trovato favore ai suoi occhi ebbero dei ricordi visibili: bambini dalla carnagione scura e dagli occhi chiari”. Tuttavia, se gli accoppiamenti casuali di Gurdjieff gli fecero mai perdere la testa, se coinvolsero seriamente il suo cuore oppure deviarono il corso delle sue azioni per un pelo, stranamente non è suffragato da prove. Episodi così brevi, e chiaramente tangenziali alla traiettoria della vita del mio soggetto, li ho giudicati estrinseci. Il commovente matrimonio di Gurdjieff con Julia Ostrowska (che morì di cancro nel 1926) è tutta un’altra faccenda che trova qui ampio spazio. Come la Gallia di Cesare, la mia biografia è divisa in tre parti. La prima parte esamina la prima metà della vita di Gurdjieff, quando era un fervente ricercatore e allievo. L’ho chiamata “auto-mitologia”, non desiderando celare il mio castigante (benché non esclusivo) affidamento in questo punto a elementi autobiografici delle quattro opere del mio soggetto stesso. Nella breve seconda parte, “la rivelazione nel quesito”, offro uno schizzo delle idee principali di Gurdjieff. Questo ostacolo dev’essere affrontato in modo risoluto. Non stiamo 10


trattando qui semplicemente con un uomo che aspirò a portare una critica superiore adeguata al temperamento moderno, ma con uno la cui vita e il cui pensiero furono profondamente integrati. Infine, la terza parte espone con dovizia di particolari la seconda metà della vita di Gurdjieff, quando con la sua energia demoniaca egli inseguì il suo destino come maestro esoterico. È un periodo documentato in maniera abbondante, anche se confusa, nei ricordi enfatici dei suoi seguaci e dei suoi nemici e l’ho chiamata (scusandomi con Hermann Hesse) “gli archivi della lega”. Questo per quanto riguarda la struttura e il contenuto. Che dire del linguaggio? Per prima cosa, voglio avvisarvi che Gurdjieff stesso sembra parlare con un’incredibile varietà di voci. I resoconti offrono i suoi discorsi diretti in due modi fortemente contrapposti: dotto e ignorante. Benché poliglotta nelle lingue asiatiche, Gurdjieff raramente si sforzò di migliorare un rudimentale inglese (nomi senza articoli, verbi senza avverbi) che conferiscono a un intero genere di memorie inglesi e americane la loro qualità picaresca. Per contro, nelle superbe traduzioni di P.D. Ouspensky, allievo al quale insegnò in russo, si vede un Gurdjieff padrone di una prosa limpida, corretta e persino sofisticata. Similmente, negli stessi scritti di Gurdjieff, la semplicità stilistica di Incontri con uomini straordinari è acutamente in disaccordo con la voluta opacità di I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote, che in certi punti sconfina nel barocco. Solamente un’espressione tecnica reclama energicamente una spiegazione preliminare ed è precisamente “l’Opera”. Il termine emerse timidamente a Pietrogrado nel 1916 semplicemente come contrazione di comodo di Gurdjieff dell’ “opera del gruppo”. Gradualmente però divenne un’espressione “valigia”, schiacciata al servizio come nome e come aggettivo per indicare virtualmente qualsiasi cosa specificamente “gurdjieffiana”. Il lettore intelligente coglierà velocemente e facilmente il senso dei diversi significati dati dal contesto. Qui si potrebbe aggiungere un codicillo a proposito del mio idioma bibliografico. Nel lessico gurdjieffiano la parola “idiota” non significa ottuso, ma semplicemente (dall’antica radice greca) “mi arrangio”. L’ “idiozia” di questo libro è inevitabilmente mia. Benché all’inizio cercassi un aiuto primario da quelle rare fonti qualificate per fornirlo, nessun individuo e nessuna organizzazione (assolutamente nessuno) sono implicati nel mio punto di vista, nei miei errori di fatto o di tono. Durante tutta la sua vita Gurdjieff provocò forti antipatie e fedeltà, che nel loro scontro rinfrescarono continuamente le questioni poste dalla sua opera. Poco o niente è cambiato. Il biografo d’oggi (s’ingegnerà come può) troverà un campo o l’altro sinceramente offeso dal suo tono di voce: alcuni lo accuseranno di lèsemajesté, altri di adulazione servile. Devo parlare secondo quello che ho scoperto. Secondo me sistemare il mio stile e il mio punto di vista per favorire le forti preferenze di altri, chiunque siano, sarebbe stato un tradire sia la mia arte, che Gurdjieff stesso. Allora, se vi è 11


una profonda insistenza esistenziale nel messaggio di Gurdjieff (e senza dubbio vi è), essa garantisce gravitas; tuttavia, se il suo senso dell’umorismo fu sviluppato ad altezze surreali (e senza dubbio lo fu), legittima qui e là una certa levità contrappuntistica. È proprio l’intrigante dualità di Gurdjieff che reclama violentemente “un’appropriata agiografia”. Essendo la letteratura gurdjieffiana così pesantemente sovraccaricata di pseudo-epigrafi, critiche da partigiano e fantasiosi auto-annunci, una nota personale può aiutare per una valutazione del mio quoziente di autenticità. Avevo diciannove anni quando Gurdjieff morì nel 1949 e non l’avevo mai incontrato. Sono grato per aver incontrato, dei suoi allievi del periodo russo classico, M.me Olga de Hartmann e M.me Jeanne de Salzmann, due dei cinque membri fondatori del suo Istituto per lo Sviluppo Armonioso dell’Uomo. Tra quelli il cui attaccamento cominciò più tardi a Londra, Parigi e New York agli inizi degli anni venti, ho incontrato Jane Heap, Jessmin Howarth, Rowland Kenney, Louise March, Rose Mary Nott, Stanley Nott e Jessie Orage, e degli allievi successivi (spesso molto sorprendenti) ne ho incontrati troppi per citarli. Ho visitato certi luoghi in cui andò Gurdjieff. Mi sono immerso nella sua musica. Inutile dire che ho letto assiduamente la letteratura gurdjieffiana pubblicata e non e (non da ultimo nel mio giudizio), dal 1956 ho fatto continuamente un onesto collaudo della sua metodologia. Spetta al lettore giudicare in quale grado questi “requisiti” siano adeguati nella pratica, ma almeno essi poggiano su un principio basilare di esperienza, nata dal buon senso e verificabile, che arriva fino a un periodo di sette anni dopo la morte del mio soggetto. Sono dolorosamente consapevole di aver dedicato il mio libro a qualcuno che potrebbe guardarlo con sospetto. Lo standard che M.me Henriette Lannes stabiliva per sé e per gli altri in verità era impegnativo. Per quelli della mia generazione capaci di avvicinarsi a lei, fu molto più che la voce dell’insegnamento di Gurdjieff in Inghilterra per quasi trent’anni: essa divenne la prova vivente della sua trasmissibilità e della sua potenza. Sono obbligato a rendere testimonianza della sorprendente ricchezza del suo essere che sarebbe un’impertinenza lodare. Nessun anniversario conferisce qualche particolare vantaggio alla pubblicazione di questo libro, pur tuttavia, essa non poteva avvenire in un momento di maggior dolorosa importanza per i “gurdjieffiani” d’ogni risma. La morte della sua allieva più anziana, Jeanne de Salzmann, all’età di 101 anni, chiuse, per così dire, l’“Età d’Argento”. Sulle spalle d’altri stanno ora scendendo le gravi responsabilità che essa sostenne in modo così meraviglioso fino alla tarda età. Possa la buona sorte assisterli. James Moore Londra, luglio 1991 12


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