Il testo e il problema - La Divina Commedia

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letteratura italiana libro aperto

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«Se è “finzione” – riprendiamo ancora le considerazioni di Mineo – la condizione di visione corporale del mondo di là, non può essere “finzione” (per la gravità che non potevano non assumere indicazioni siffatte nel medioevo) l’indicazione in sé di una eccezionalità di condizione. Si deve dunque dedurre che l’itinerario interiore si è svolto in condizioni di divina illuminazione, quando non anche di visione divinamente spirata. Dalla verità dell’illuminazione divina discende la verità dell’apprendimento di Dante, cioè dei fatti, delle nozioni e delle profezie che egli dovrà comunicare, insomma la verità del messaggio profetico». Dante era dunque convinto di aver ricevuto una divina ispirazione a comporre la propria opera. Il fatto che noi moderni possiamo sentirci distanti da quella cultura, che metteva poesia e profezia quasi sullo stesso piano, non ci esime, nell’interpretare l’opera, dall’obbligo di prendere sul serio questa sua convinzione.

La Commedia come “visione” Nel canto di Cacciaguida, il trisavolo invita Dante a rendere manifesta la sua «vision» (v. 128). Vi sono diversi indizi che autorizzano l’interpretazione di questo termine in senso propriamente mistico. «Non sembra autorizzato – osserva ancora Mineo – supporre che un cristiano del Trecento rappresentasse situazioni di elezione, visione, rapimento, servendosene solo come di metafore di comuni esperienze intellettuali. In assoluta convinzione Dante poteva credere che certe idee ricorrenti, certe immagini, certe speranze, certe nozioni e certe sicurezze dottrinali potevano essergli state comunicate per gratuita illuminazione»3. In questa direzione, un indizio di grande interesse ci è fornito proprio dal passo del Purgatorio che abbiamo qui antologizzato, e che potrebbe apparire a prima vista del tutto estraneo alla questione.

Da Bonagiunta allo Spirito santo A prima vista si tratta, come è noto, di una semplice questione di storia letteraria. Il siculo-toscano Bonagiunta Orbicciani da Lucca definisce i caratteri della scuola a lui successiva (il «dolce stil novo», che proprio da questi versi prenderà il proprio nome) e li identifica nella totale aderenza dei nuovi poeti all’ispirazione amorosa. Secondo la proposta interpretativa di Mineo, però, il passo può essere letto in maniera assai più sottile: «Il termine “spira” era usato sia per indicare l’ispirazione poetica che quella profetica e mistica. Il termine “dittare” si riferisce sia alla composizione di opere poetiche di alto stile sia all’atto dell’ispirazione divina. Anche il termine “notare” può aver riferimento all’atto dell’accoglimento di un messaggio divino. Colui che ispira è Amore, che può essere sia il sentimento d’ordine religioso-morale ipostatizzato nella Vita Nuova sia l’Amor divino, lo Spirito santo». Ed è proprio quest’ultima l’interpretazione suggerita dal critico: un’interpretazione che sembra provata dal fatto che «nello stesso canto, colui che “ditta” è chiamato “dittatore” e questo è un termine adoperato da Dante quest’unica volta in volgare; pure una sola volta egli ha adoperato, nella Monarchia (III, iv, 11), il corrispondente termine latino, dictator, e in questo caso come predicato di Dio e alludendo all’ispirazione della sacra scrittura. Si può vedere in tutto ciò una dichiarazione, in forma velata, dell’ispirazione divina della propria poesia»4. Possiamo aggiungere, a queste considerazioni, un’ulteriore notazione: nel discorso di Bonagiunta, il nuovo stile creato da Dante viene fatto cominciare dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore. Proprio questa canzone, nella Vita nuova, è presentata come frutto di un’ispirazione in cui la lingua del poeta ha per la prima volta parlato «quasi come per se stessa mossa», in una sorta di raptus mistico in cui egli appare posseduto da una forza G8b] e della prosa che la introduce [ G8a] per un più superiore. Rimandiamo all’analisi della canzone [ puntuale chiarimento della questione. In questa sede ci sembra importante sottolineare il fatto che la citazione messa in bocca a Bonagiunta ci riconduce a un testo giovanile di Dante che viene dallo stesso autore presentato come frutto di ispirazione profetica: difficile pensare che il riferimento possa essere casuale. Dante stesso (Paradiso, XXV, vv. 1-2) definisce la sua opera «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra». È probabile che il poeta, con estrema semplicità, abbia voluto dire con queste parole esattamente quello che ha detto. Componendo la Commedia, Dante era convinto che un “dittatore” celeste scrivesse per mano sua. Ciò non gli impediva di costruire con arte il suo poema né di intesserlo, come è giusto che accada di un’opera poetica, di molte bellezze fittizie. Gli garantiva però la possibilità di credere che, nell’atto del suo scrivere, si stesse rivelando (a lui stesso e, per suo tramite, all’umanità traviata) una verità superiore. Una verità che poteva mostrarsi soltanto con la forza della parola; e che, anche per questa ragione, andava gridata ancor più forte.

3 Ivi, p. 163 4 Ivi, pp. 195-196.


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