ANDREA PALLADIO 1508 – 1580 (classic editing)

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STUDI ITALO - TEDESCHI DEUTSCH – ITALIENISCHE STUDIEN ANDREA PALLADIO 1508 – 1580 1980 – Celebrazioni nel IV centenario della morte 1980 – Gedenkfeier zur 400, Wiederkehr des Todestages COLLANA DI MONOGRAFIE DELL’ISTITUTO CULTURALE ITALO TEDESCO MONOGRAPHISCHE REIHE DES DEUTSCHATALIENISCHEN KULTURINSTITUTES MERANO

1984

MERAN


STUDI ITALO-TEDESCHI DEUTSCH ITALIENISCHE STUDIEN

IV. PALLADIO 1508-1580

1980 - Celebrazioni nel IV centenario della morte

1980 - Gedenkfeier zur 400. Wiederkehr des Todestages


COLLANA MONOGRAFICA CURATA DALL’ISTITUTO CULTURALE DI MERANO MONOGRAPHISCHE REIHE HERAUSGEGEBEN VOM DEUTSCH-TALIENISCHEN KULTURINSTITUT VON MERAN sotto la Direzione di

unter der Leitung von Luigi Cotteri

Direzione ed Amministrazione Direktion und Verwaltung ISTITUTO CULTURALE ITALO-TEDESCO MERANO DEUTSCHATALIENISCHES KULTURINSTITUT - MERAN (Prov. di Bolzano) (Provinz Bozen) 20 , Via Innerhofer -straße , 20

PREZZO del presente volume PREIS des vorliegenden Bandes EURO 7.00 c/c bancario

Bank KK

Nr. 757102 Cassa di Risparmio Sede di Merano

c/c postale

Post K/K

Nr. 13724398 Sparkasse Sitz Meran

Trento Trient

I edizione: Tip. LA BODONIANA - BZ Dicembre 1984 Dezember II edizione: Free University of Bolzano - Bozen Faculty of Design and Art Bachelor in Design and Art - Major in Art Typography and Graphics Prof. A. Benincasa Sara Moscatelli - Piera Pagnacco


RELATORI

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REFERENTEN

FRANCO BARBIERI

Professore ord. di storia dell’arte nell’Università statale di Milano.

ERIK FORSSMAN

Ord. Professor für Kunstgeschichte an der Universität Freiburg.

CONSIGLIO DI PRESIDENZA - PRÄSIDENTSCHAFTSAMT Presidente President

Prof. Dr. Franco Valsecchi (Roma)

Vice Presidente Vize-President

Prof. Dr. Ferdinand Holbick (Salzburg)

Direttore Direktor

Prof. Dr. Luigi Cotteri (Merano)

Vice Direttore Vize-Direktor

Prof. Dr. Stefan Steinmair (Meran)

COLLABORATORI

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MITARBEITER

Stefan Steinmair Emilia Romagna Matzneller Maria Maddalena Mussner Di Gennaro Maria Caterina Sassani Coco


VOM INSTITUT ORGANISIERTE EHRUNGEN 1964 Galileo Galilei (zur 400° Wiederkehr des Geburtstages) (veröffentlicht 1971 in den Akten der VII internationalen Tagung Deutsch-Italienischer Studien) 1965

Dante Alighieri (zur 700° Wiederkehr des Geburtstages)

1966 Gottfried Wilhelm Leibniz (zur 250° Wiederkehr des Todestages) (veröffentlicht 1971 in den Akten der VII internationalen Tagung Deutsch: Italienischer Studien) 1968

Giambattista Vico (zur 300° Wiederkehr des Geburtstages)

1968

Johann Joachim Winckelmann (zur 200° Wiederkehr des Todestages)

1969 Nicolò Machiavelli (zur 500° Wiederkehr des Geburtstages) 1970

G. W. Friedrich Hegel (zur 200° Wiederkehr des Geburtstages)

1973

Alessandro Manzoni (zur 100° Wiederkehr des Todestages)

1975

Michelangelo Buonarroti (zur 500° Wiederkehr des Geburtstages)

1977

Benedetto Croce (zur 25° Wiederkehr des Todestages)

1980 Andrea Palladio (zur 400° Wiederkehr des Todestages) 1982

Johann Wolfgang von Goethe (zur 150° Wiederkehr des Todestages)

1982

Publius Vergilius Maro (zur 2000° Wiederkehr des Todestages)

1983

Raffaello Sanzio (zur 500° Wiederkehr des Geburtstages)

1983

Karl Jaspers (zur 100° Wiederkehr des Geburtstages)


CELEBRAZIONI ORGANIZZATE DALL’ISTITUTO 1964 Galileo Galilei nel IV centenario della nascita (pubblicato negli ATTI del VII convegno internazionale di studi italo-tedeschi - 1971) 1965

Dante Alighieri nel VII centenario della nascita

1966 Gottfried Wilhelm Leibniz nel 250. anniversario della morte (pubblicato negli ATTI del VII convegno internazionale di studi italo-tedeschi - 1971) 1968

Giambattista Vico nel III centenario della nascita

1968

Johann Joachim Winckelmann nel II centenario della morte

1969 Nicolò Machiavelli nel V centenario della nascita 1970

Georg Wilhelm Friedrich Hegel nel II centenario della nascita

1973

Alessandro Manzoni nel I centenario della morte

1975

Michelangelo Buonarroti nel V centenario della nascita

1977

Benedetto Croce nel 25° anniversario della morte

1980 Andrea Palladio nel IV centenario della morte 1982

Johann Wolfgang von Goethe nel 150. anniversario della morte

1982

Publius Vergilius Maro nel bimillenario della morte

1983

Raffaello Sanzio nel V centenario della nascita

1983

Karl Jaspers nel I centenario della nascita,



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INDICE

INHALTSVERZEICHNIS

Pagina Seite Prefazione di Vorwort von

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FRANCO BARBIERI 23

ERIK FORSSMAN

Luigi Cotteri «Andrea Palladio nel IV centenario della morte: grandezza e limiti di un’utopia»

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«Andrea Palladio zur 400. Wiederkehr des Todestages: Größe und Grenzen einer Utopie» (Zusammenfassung)

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Tavole fotografiche Abbildungen

91

«Palladio und die Architektur in Deutschland und Skandinavien»

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«Palladio e l’architettura in Germania e in Scandinavia» (Riassunto)

126

Abbildungen Tavole fotografiche



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PREFAZIONE

Questo volume, corredato da tavole fotografiche, è un modesto contributo alla conoscenza del Palladio. Ci soffermiamo soltanto a illustrare in sintesi la sua personalità umana, la sua personalità artistica, la sua fortuna nel mondo, del resto messe in luce dai due illustri specialisti invitati a celebrare il IV centenario di Andrea Palladio. I) La sua personalità e il suo rapporto con il cantiere ce le descrive il biografo palladiano Paolo Gualdo nel 1617, scrivendo: «Fu il Palladio nella conversazione piacevolissimo e facetissimo, sicché dava estremo gusto alli gentiluomini e signori con quali trattava, come anco gli operai dei quali si serviva, tenendoli sempre allegri, e trattenendosi con molte piacevolezze, faceva che lavorassero leggerissimamente. Aveva preso gusto d’insegnare a quelli con molta carità tutti i buoni termini


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Prefazione

dell’Arte, di maniera che non vi era muratore, scalpellino o vignaiolo che non sapesse tutte le misure, i membri et i vari termini dell’Architettura». Ne deriva che Palladio - memore della sua esperienza giovanile di operato e scalpellino e consapevole come architetto maturo - curò molto i particolari nell’insegnamento perché riteneva che Opera artistica si qualificava proprio nella esecuzione dei membri architettonici particolari, dai piedistalli ai capitelli delle colonne, dalle cornici ai balaustri sui ballatoi. La terminologia della tecnica edile descritta con precisione nei «Quattro libri di Architettura» ebbe infatti la massima diffusione nei cantieri d’Europa. Non minore divulgazione la ebbero le imitazioni delle strutture architettoniche caratterizzate per il loro stile ionico e per Ordine su due piani di colonne o di pilastri fregiati di timpani. II) La personalità artistica del Palladio si distingue per la sua applicazione di metodi e soluzioni nuove dedotte anche dallo studio dell’arte architettonica romana, grazie al mecenatismo di Gian Giorgio Trissino che contribuì alla sua formazione conducendolo più volte a Roma. La convinzione della corrispondenza tra tecnica progettuale e tecnica costruttiva, la chiarezza razionale tra spazio e volume, la sensibilità nel rapporto tra architettura e paesaggio, sono attributi che fanno del Palladio il più grande artista che abbia avuto la Repubblica di


Prefazione

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Venezia e tale da considerarlo Autore di una nuova era classica per l’architettura religiosa, civile e urbanistica. La triade architettonica è considerevole nel Veneto e soprattutto nella sua Vicenza dove visse quasi tutta la vita dal 1523 al 1580. A Vicenza costruisce le sue opere monumentali. A trent’anni, con Inizio della Basilica il Palladio rivela il suo genio classico per inclinazione e per cultura; la sua celebrità conquista il Veneto, Udine e Venezia in particolare. Alla fine della sua vita, con la costruzione del Teatro per l’Accademia Olimpica, conclude la sua creazione artistica; Olimpico «presenterà, nella finale redazione postuma scamozziana del 1585, il sentimento e immagine della città ‘perfetta’ che non si era potuta attuare, finalmente viva, almeno nella finzione scenografica delle “cinque vie di Tebe’ dipartentesi dietro Varco trionfale del proscenio» (Barbieri). III) La fortuna del Palladio nel mondo si rivela per Influsso artistico detto «Palladianesimo», inteso come imitazione del modello palladiano e come fonte di nuove ispirazioni creative; il Palladianesimo riguarda l’erezione di templi e la costruzione di palazzi e di ville, e si protrarrà fino a tutto l’Ottocento. Il «Palladianesimo» si diffuse in Europa e persino negli Stati Uniti d’America; maggior diffusione ebbe


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Prefazione

in Inghilterra, nei Paesi Scandinavi e in Russia. La Guerra dei Trent’anni (1618-1648) impedire il diffondersi in Germania direttamente, ma lo avvenne in seguito con mediazione del «Palladianesimo inglese», dando luogo ad un nuovo «Palladianesimo tedesco», tanto da raggiungere la costruzione di numerose ville palladiane. In Austria invece Fischer von Erlach, benché avesse studiato a Roma, trasse insegnamento leggendo i «Quattro libri di Architettura» del Palladio. Il «Palladianesimo» è anche un problema attuale, perché l’architettura moderna cerca di nuovo di rifarsi alla tradizione non per una pura imitazione, ma per vedere cosa gli architetti del passato abbiano conservato della stessa» (Forssman). Merano, dicembre 1984 LC.


Prefazione

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Gli studiosi che desiderano approfondire la conoscenza del grande architetto possono leggere e consultare i seguenti volumi che sono a disposizione anche presso la Biblioteca dell’Istituto Culturale Italo-Tedesco: ANDREA PALLADIO, I quattro libri dell’Architettura, In Venetia, appresso Dominico de Franceschi, 1570 - Produzione in fac-simile a cura di Ulrico Hoepli Editore Libraio, Milano, 1980. LIONELLO PUPPI, Andrea Palladio, Electa Editrice, Milano, ristampa 1981. (Volume con bibliografia generale) FRANCO BARBIERI, ERIK FORSSMAN e AUTORI VARI, Corpus Palladianum, Edizione curata dal Centro Internazionale di Studi di Architettura «A. Palladio» di Vicenza. (Volumi pubblicati, in corso di stampa, in preparazione).


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VORWORT

Dieser Bildband ist ein bescheidener Beitrag zur besseren Kenntnis von Palladio. Wir beschränken uns darauf, seine Persönlichkeit als Mensch und Künstler, seinen Erfolg auf Weltweite synthetisch darzustellen, also das, was schon von den beiden berühmten Experten, die zur vierten Jahrhundert Feier von Andrea Palladio eingeladen wurden, ins Licht gerückt wurde. I. Seine Persönlichkeit und seine Beziehung zur Baustelle werden uns vom palladianischen Biographen Paolo Gualdo im Jahre 1617 so geschildert: «Palladio war im Gespräch äußerst angenehm und unterhaltsam, so dass Edelleute und Herren, mit denen er verhandelte, größten Genuss daran fanden, so wie auch die Arbeiter, deren er sich bediente und die er immer bei guter Laune hielt; indem er sie zuvorkommend behandelte, spornte


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Vorvort

er sie zu lustvoller Arbeit an. Er liebte es, ihnen mit großem Entgegenkommen alle Begriffe der Kunst beizubringen, so dass es keinen Maurer, Steinmetz oder Tischler gab, der nicht Masse, Glieder und die verschiedenen Begriffe der Architektur gekannt hatte.» Daraus ersieht man, dass Palladio - eingedenk seiner Jugenderfabrung als Arbeiter und Steinmetz und in seinem Bewusstsein als erfahrener Architekt - den Einzelheiten beim Unterrichten große Bedeutung zumaß, da er davon überzeugt war, dass sich das Kunstwerk gerade durch die Ausführung der einzelnen Bauglieder, angefangen von den Sockeln bis zu den Kapitellen der Säulen, von den Gesimsen zu den Balustraden der Balkone, auszeichnet. Die in den «Quattro libri di Architettura» genau beschriebene Bautechnik fand tatsächlich auf den europäischen Baustellen größte Verbreitung wie auch die Nachahmung der architektonischen Strukturen, die sich durch ihren ionischen Stil und durch die zweistöckige Reibung von Schulen oder mit Bogen Feldern verzierten Pfeilern kennzeichnen. II. Die künstlerische Persönlichkeit von Palladio zeichnet sich durch die Anwendung von neuen Methoden und Lösungen aus, die auch von der Befassung mit der römischen Architektur abgeleitet wurden dank des Mäzenatentums von Gian


Vorwort

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Giorgio Trissino, der zu seiner Ausbildung beitrug, indem er ihn öfters nach Rom brachte. Die Überzeugung von der Übereinstimmung zwischen Projektions- und Bautechnik, die rationale Klarheit zwischen Raum und Volumen, das Feingefühl in der Beziehung zwischen Architektur und Landschaft sind Eigenschaften, die Palladio zum größten Künstler machten, den die Republik Venedig je gehabt hat und dermaßen, dass er als Förderer einer neuen klassischen Epoche der religiösen, zivilen und städtebaulichen Architektur betrachtet wird. In Venetien ist die architektonische Triade beträchtlich und dies vor allem in seiner Stadt Vicenza, wo er fast das ganze Leben von 1523 bis 1580 verbrachte, In Vicenza errichtet er seine großartigen Werke. Mit dem Beginn der Basilika offenbart der dreißigjährige Palladio seinen von Neigung und Kultur her klassischen Geist; seine Berühmtheit erfasst Venetien, im besonderen Udine und Venedig. An seinem Lebensende schließt er seine künstlerische Schöpfung mit dem Bau des Theaters für die Olympische Akademie ab; das «Olimpico» übermittelt in seiner endgültigen nachgelassenen Gestaltung (durch Scamozzi) von 1585 Gefühl und Bild der «perfekten» Stadt, die niemals hatte verwirklicht werden können, die endlich lebt wenigstens in der Bühnen bildnerischen Fiktion der «cinque vie di Tebe», die hinter dem Triumphbogen auseinandergehen». (Barbieri)


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Vorwort

III. Der Welterfolg des Palladio zeigt sich im künstlerischen Einfluss, dem sogenannten «Palladianismus», der als Nachahmung des palladischen Modells und als Quelle neuer schöpferischer Anregungen verstanden wird; der «Palladianismus» betrifft die Errichtung von Tempeln, Palästen und Villen und wirkt bis ans Ende des 19. Jahrhunderts. Der «Palladianismus» verbreitete sich in Europa und in den Vereinigten Staaten; die größte Verbreitung fand er in England, in Skandinavien und Russland. Der Dreissigitbrige Krieg (1618-1648) verhinderte eine direkte Verbreitung in Deutschland, doch indirekt erfolgte sie durch die Vermittlung des «englischen Palladianismus», was zu einem neuen «deutschen Palladianismus» fieberte und die Errichtung einer Reibe von palladianischen Villen zur Folge hatte. In Österreich hingegen belebte sich Fischer von Erlach an der Lektüre der «Quattro Libri di Architettura» von Palladio, obwohl er in Rom studiert hatte. «Palladianismus ist auch ein aktuelles Problem, weil die moderne Architektur wieder Orientierungspunkte in der Tradition sucht, natürlich nicht, um wieder palladianisch zu bauen, sondern um zu lernen, wie sich die besten Architekten vergangener Jahrhunderte der Tradition gegenüber verhalten haben». (Forssman) Meran, Dezember 1984 L.C.


Vorwort

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Die Fachgelehrten, die die Kenntnis des großen Architekten vertiefen wollen, können folgende Werke, die auch in der Bibliothek des Deutsch-Italienischen Kulturinstituts zur Verfügung stehen, lesen und konsultieren: ANDREA PALLADIO, I quattro libri dell’Architettura, In Venetia, appresso Dominico de Franceschi, 1570 - Produktion in Fac-simile von Ulrico Hoepli Verleger, Mailand, 1980. LIONELLO PUPPI, Andrea Palladio, Verlagsanstalt Electa, Mailand, Neudruck 1981. (Band mit allgemeiner Bibliographie) FRANCO BARBIERI, ERIK FORSSMAN und VERSCHIEDENE VERFASSER, Corpus Palladianum, Herausgabe von «Centro Internazionale di Studi di Architettura ’A. Palladio’ di Vicenza». (Bande schon veröffentlicht, im Druck und in Vorbereitung).



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Franco Barbieri ANDREA PALLADIO NEL IV CENTENARIO DELLA MORTE: GRANDEZZA E LIMITI DI UN’UTOPIA

Vicenza presenta un nucleo «storico» di limitate ma non troppo esigue proporzioni, se rapportate al metro comune nelle città venete di terraferma tra 400 e 500; cosa strana, cinto però da un sistema difensivo piuttosto antiquato che mostra chiaramente di risalire, nella sua impostazione fondamentale, addirittura all’alto medioevo con successive principali aggiunte, ad opera degli Scaligeri, nella seconda metà del ’300, salvo qualche accrescimento e ritocco di poca entità, da parte dei Veneziani, all’inizio del ’400. II fatto diviene tanto più inquietante se osserviamo essere state le città vicine munite nel ’500 di bastioni davvero formidabili: basti pensare, per restare agli esempi maggiori, alla Padova delle famose porte del Falconetto, a Verona con le porte Nuova e del Palio, dovute a Michele Sanmi-


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Franco Barbieri

cheli, alla stessa Treviso. Lo spessore delle mura è dovunque aumentato e gli spalti si sviluppano su pianta curvilinea onde meglio resistere all’impatto della nuova terribile arma offensiva costituita dalle già numerose e potenti artiglierie. Unica tra le consorelle, Vicenza offre ancora ad un assalto eventuale esigue cortine di spessore relativamente modesto, in pietre e filari di mattoni, intervallate da torricelle a superata sezione quadrangolare o, tutt’al più, poligonale e sempre, comunque, ad andamento rettilineo: si consideri quanto ne rimane lungo l’attuale viale Mazzini, i viali Legione Gallieno e Margherita oppure pensiamo ad una piccola porta, St. Lucia, o, magari, a più complessi ma sempre non aggiornati strumenti militari quali le porte di S. Croce e del Castello. Per contrapposto, appena superate le porte ed il contrasto, si badi, doveva affermarsi un tempo assai più stridente, posta la sostanziale ambiguità e, talvolta, pressoché assenza dei sobborghi - ci si apre dinnanzi, come si è detto, un apparato urbano di sorprendente ed articolata qualificazione; e tale da non risultare eguagliato, almeno sotto alcuni aspetti, neppure da pit ampie e popolose città: Verona, diciamo, o la stessa vicina Padova. Il fatto postula e merita una spiegazione: soprattutto sapendo quante volte il governo della Serenissima si fosse invece attivamente preoccupato di


A. Palladio nel IV centenario della morte: grandezza e limiti di un’utopia

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adeguare Vicenza - la «figlia primogenita» consegnata in spontanea dedizione ai Veneziani nel 1404 - alle «moderne» esigenze di guerra. Già nel 1509-10, subito dopo i rovesci della «Lega di Cambrai» e preoccupato della pericolosa facilità con la quale il fuo­­riuscito Leonardo Trissino era entrato in città alla testa delle truppe di Massimiliano d’Austria, il capitano veneto Bartolomeo d’Alviano aveva impostato un grandioso progetto che prevedeva addirittura la costruzione di una fortezza sul sovrastante Monte Berico e Allargarsi intorno di poderosi bastioni, specie nei tratti ad ovest ea nord della vecchia cintura; ma poco o nulla venne eseguito all’infuori di alcuni torroncini rotondi - cinque, per l’esattezza, due dei quali sopravvivono - nell’intervallo tra le porte di S. Bortolo e di S. Croce. Il problema si ripropose ancora nel 1525-26, intorno agli anni 30 e specialmente tra il 1545 e il 1548, quando se ne occupa Michele Sanmicheli, riprendendo e sostenendo con ulteriori argomenti, in sostanza, le posizioni del d’Alviano. Da ultimo, si investì della questione il valente architetto militare cremasco Tensini, sempre insistendo sulla necessità di munire convenientemente il colle Berico. Tuttavia ogni tentativo in merito, nonostante l’indiscusso prestigio degli «addetti ai lavori» e l’incondizionato appoggio delle autorità veneziane, è destinato a fallire; anzi, ogni qualvolta nell’ambiente vicentino si ha la sensazione che qualche


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Franco Barbieri

cosa si stia in proposito concretando, autorevoli esponenti locali - Luigi da Porto nel 1509 e Giangiorgio Trissino nel 1532, per dare un Semis - si fanno decisi interpreti del disagio e dei pesanti malumori dei concittadini e riescono a differire, in realtà «sine die», l’inizio della ventilata operazione. Uno degli argomenti più insistentemente addotti dai sostenitori dello «status quo» - che poi riassumono, è facile avvedersene, il parere dominante è la presunta insistita povertà di Vicenza piccola e debole: attuare un programma di fortificazione avrebbe significato dover operare tutta una serie di distruzioni a largo raggio negli immediati sobborghi ed anche all’interno nonché sperperare ingenti mezzi economici il cui reperimento si sarebbe rivelato estremamente gravoso. Giudicando a posteriori, la scusa non sembra del tutto credibile e, quanto meno, andrebbe seriamente ridimensionata: proprio nel periodo della deplorata «indigenza», a partire dal secondo, terzo decennio del 500 e almeno fino all’avanzata seconda metà del secolo, assistiamo ad una generale ripresa dell’attività costruttiva cittadina e, in particolare, ad un singolare risveglio dell’edilizia privata. Se poi riflettiamo che, in situazioni analoghe, città «sorelle» quali le ricordate Verona, Padova, Treviso, reagiscono e, se del caso, subiscono, le dure necessità in maniera del tutto diversa, verrebbe da concludere che non già mancavano le risorse, come


A. Palladio nel IV centenario della morte: grandezza e limiti di un’utopia

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si amava far credere, quanto piuttosto si desidera coinvolgere l’impiego secondo specifici obiettivi di potenziamento ed abbellimento delle strutture private urbane a scapito delle pubbliche e di comune possibile difesa. Si aggiunga che, all’arrivo delle soldatesche imperiali capeggiate dal Trissino nella richiamata funesta congiuntura del 1509, le accoglienze riservate agli «invasori» dai maggiorenti vicentini nella quasi totalità, sia pure con un’ampia gamma di variazioni e sfumature, sono in sostanza entusiastiche 0, quanto meno, di piena adesione: il Leone glorioso di S. Marco viene abbattuto dalla relativa colonna di Piazza dei Signori e sostituito senza esitazioni dall’insegna dell’aquila bicipite. Ancora nel 1545-48, stendendo la sua puntuale relazione sulla necessità troppe volte elusa di fortificare Vicenza, il Sanmicheli fornirà alcune preziose indicazioni capaci davvero di aprire, sia pur inconsciamente, una valida spia per aiutarci a comprendere l’ambiguo atteggiamento dei Vicentini. Conclude, dunque, il Sanmicheli come, data la sua posizione troppo facilmente vulnerabile ai piedi di un colle, sé Vicenza non esistesse, sarebbe certo meglio non fonda è il nodo - allo stato attuale la città può dirsi sguarnita ed inerme di fronte a qualsiasi invasore, specialmente i Tedeschi dal nord, calcolata la effettiva vicinanza degli agevoli passi montani a settentrione.


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Esistono, in effetto, ed agiscono, nella particolare situazione vicentina del primo e medio ’500, potenti e decisi gruppi aristocratici detentori di notevoli risorse economiche, basate per massima parte su rendite agrarie e immobiliari, e monopolizzatori della concomitante incontrastata supremazia culturale, nettamente caratterizzati da simpatie filoimperiali. La loro indiscussa «leadership» spetta a Giangiorgio Trissino, letterato e cavaliere, personalità poliedrica di umanista e, anche ad accertarne i non pochi limiti, di vasto respiro, influente per addentellati in campo internazionale attraverso la frequentazione delle corti cesarea e papale. La sua produzione letteraria ed i suoi studi sulla lingua italiana sono particolarmente fecondi proprio nel periodo critico di maturazione di questa sdegnosa coscienza civica vicentina: dal 1524, quando viene edita la «Sofonisba», prima tragedia «regolare» in lingua italiana, al 1534-35, intervallo entro il quale escono le sue opere principali, al 1548, anno di pubblicazione del poema sull’«Italia liberata dai Goti». Vi si esprimono un pensiero ed una cultura basati su di una impostazione fondamentalmente e, spesso, pedissequamente intrisa di aristotelismo ed imbevuti per giunta, causa la formazione scolastica aiutata dall’albagia nobiliare, di classiche paludate reminiscenze che li facevano facilmente protesi a sogni di romana grandezza; e vi si univano più o meno urgenti e confessate vel-


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leità di particolarismo municipale, in un curioso ma abbastanza giustificabile amalgama, perfettamente calzante ad una cerchia di «eletti», legata da comuni spiriti di fronda anti veneziana. Perché, mentre titoli nobiliari e privilegi di antica origine feudale vengono a questi ceti, in una con le amate insegne araldiche, da ormai anacronistiche «investiture» degli imperatori «tedeschi», la Serenissima, conquistato il Veneto, ne ha inesorabilmente privato i rappresentanti di ogni potere politico e decisionale che non sia rimasto circoscritto all’amministrazione delle loro ricchezze familiari e della vita quotidiana cittadina. Non sarà, adesso, difficile rendersi conto del fatto che le aspirazioni frustrate di questa proterva aristocrazia locale tentino ogni comprensibile rivalsa con i pochi mezzi a disposizione, specie dopo che le vicende tumultuose della «Lega di Cambrai» hanno pur dimostrato una tal quale insospettata debolezza del «sistema» dominante veneziano. Vanificata, per ovvie ragioni di indiscussa supremazia, qualsiasi velleità di rivolta aperta e diretta, uno di tali mezzi, indiscutibilmente privilegiato per la sua immediata «presa diretta» sul piano spettacolare, sarà quello della «riforma urbana». Consideriamo che l’aspetto «monumentale» di Vicenza si era venuto fissando, dalla metà del ’400, in forme desunte dal «gotico fiorito» di estrazione lagunare, sulla scia di uno spirito di emulazione


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Franco Barbieri

animatosi nell’ambiente provinciale subito dopo la conquista veneziana. Sarà sufficiente in proposito uno sguardo alle tante residenze signorili ed architetture «minori» che ingannano le contrade con le loro polifonie, le eleganti monofore, i modiglioni scolpiti, tutti insomma gli stilemi «gotici» davvero degni dei canali veneziani; in una coerente «escalation» culminante, dopo la famosissima «Ca d’Oro», addirittura nel Palazzo della Ragione, sede delle magistrature civiche, attestato sulle piazze principali con il diretto intervento di un maestro della capitale, Domenico da Venezia. Cambiare questa «facies» civica, tanto inequivocabilmente «segnata» di ascendenti lagunari, secondo criteri «moderni» che non potevano, a voler essere aggiornati sulle trionfanti novità centro-italiane, se non desumersi dal repertorio del «classicismo» di ascendente tosco-romano, significava, di conseguenza, non solo aderire alle nuove divulgate tendenze, quanto, con più vigore, concorrere ad obliterare le denunce più clamorose ed appariscenti della sudditanza non gradita: e ciò proprio muovendosi sul terreno della organizzazione dello spazio abitabile e fruibile dalla comunità, così altamente coinvolgente di ogni aspetto della vita associata. Il clima di fronda in altri campi precluso poteva così risolversi in una sua tangibile concretezza; di più, la «renovatio urbis» condotta nell’ossequio ai dettami della «classicità» cinquecentesca, pareva


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finalmente destinata ad attingere, nello splendore magniloquente dei risultati a lungo vagheggiati, esiti in pieno accordo con le incoercibili aspirazioni cesaree fervide nell’ambiente. Nella gara, era questa volta Venezia, troppo legata ad una indissolubile, specifica situazione topografica irripetibile, condannata alla lunga a soccombere: prova ne siano gli esiti contrastanti, malcerti ed «utopici» della travagliata introduzione del linguaggio architettonico cinquecentesco nelle sue strutture costruttive; vicenda risolta in molte drastiche rinunce e qualche magari splendido «compromesso», ogni «novità», in definitiva, allineandosi entro la ferrea coerenza di un paradigma inesorabile e consacrato. Veniva, inoltre, affiorando nell’ambiente vicentino o, meglio, si direbbe, prendendo corpo un desiderio inconfessato, un segreto «arrière-pensée»: se la «città ideale» di cui si auspicava con entusiasmo |’avvento fosse risultata, nel paludamento sontuoso delle «classiche» ordinanze, degna della imperiale maestà, scopo ultimo dell’operazione poteva in fondo delinearsi, per avventura, la preparazione di conveniente ricetto al suo trionfale ritorno. Di qui, a saldare il cerchio, la pervicace volontà di lasciare Vicenza sguarnita ed invitante alle soglie della via d’Alemagna, quasi pronta al passaggio del monarca. Tanto più che, in non casuale coincidenza, proprio all’aprirsi del terzo decennio del ’500 il sogno


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Franco Barbieri

imperiale acquista nuovo slancio con L’avvento al trono di Carlo d’Asburgo, quel Carlo V davvero predestinato, almeno agli occhi di molti tra i contemporanei ammirati, a risollevare i fasti del dominio universale sotto il suo unico scettro. Subito, il Trissino coglierà la congiuntura favorevole, uscendone rafforzato nella fede, anacronistica e «medievaleggiante» ma, forse per questo ancoraggio «retrò», decisamente saldissima nel suo limbo extratemporale, in una assoluta e suprema potestà civile, allargata sulla terra sotto il segno trionfante dell’aquila, parallela e contrapposta in pari dignità alla suprema potestà religiosa, raccolta sotto il segno della croce. A questo vertice «laico» si attribuiscono addirittura facoltà al limite del taumaturgico, di redenzione per il genere umano è di correzione della stessa autorità religiosa qualora traligni dal mandato divino: giustificando così, quasi in una luce di mistica redenzione attraverso la punizione ed il sangue, tragedie quali il «sacco di Roma» del 1527 per mano dei Lanzichenecchi. E a Carlo, «il più virtuoso et il pit degno Principe» succedutisi all’imperio da Giustiniano in avanti, delegato divino a liberare «tutta la Christianità da la sevizia de li Ottomani» ed a riconquistare Costantinopoli e Oriente con moto alterno a quello di Giustiniano che aveva riscattato contro i «Goti» la sede «de l’antiqua Roma», il letterato vicentino - giubilato nella personale inarrivabile soddisfa-


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zione di esser stato chiamato a reggere con altri accoliti il manto imperiale durante le cerimonie per l’incoronazione bolognese del 1530 - dedicherà commosso il suo lungo ed amatissimo poema sulla «guerra gotica» e le gesta di Belisario e di Narsete, costato gli vent’anni di dura ininterrotta fatica. Da questo punto di vista l’emblematica introduzione di due scene profetiche, nei libri IX e XXIII del poema, concorre a far emergere il filo conduttore di una devozione costante ed appassionata, tesa per tutta una vita senza tentennamenti né rimpianti. Allo stupefatto Belisario un angelo anticipa la visione di «Carlo figlio di Filippo», mandato agli uomini «da la Divina altezza per adornare, e rassettare il mondo», e capace, «col suo valore immenso», di «far ritornare a Vitalia il secol d’oro»; più avanti, la Sibilla mostrerà a Narsete il grande Carlo «correttore del mondo», vincitore a Mühlberg, il fatidico 24 aprile 1547, sulla «Lega smalcaldica» degli inquieti vassalli protestanti. L’evento è solenne e vi spira un indiscutibile afflato di commozione che riscatta la troppo spesso insistita opacità del canto rossiniano: ecco, da un lato, «apparir con gran furore/il fier Langravio, e’l Duca di Sassogna/con altri molti capitani illustri» e «quella infinita gente/de la lega smalcaldica...tutta coperta di brunito acciaio, /e tante arterie, tante bombarde,/ faran sparare a un tempo, che la terra/ tremar vedrassi et oscurarsi il sole».


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Chiuso, isolato nella sua fierezza, «da l’altra parte il correttore del mondo/ sopra il suo ferocissimo corsiero/ starassi armato intrepido, e virile»: la sua presenza animerà le armate e le porterà alla vittoria. I versi, oltre tutto, stesi «a caldo», si direbbe, all’annuncio dell’impresa - l’editio princeps dell’«Italia liberata» del 1548 - richiamano in maniera abbastanza trasparente il solenne ritratto commemorativo della battaglia di Mühlberg, con il «Carlo V a cavallo», espressamente dipinto da Tiziano ad Augusta dall’aprile al settembre 1548; e vien da considerare tali da costituirne pressoché simultaneo, sincero e, in fondo, non indegno commento. Il momento preciso nel quale questa a buon diritto definibile «Weltanschauung», peculiare alla «forma mentis» del Trissino ed ai circoli vicentini culturalmente preminenti, da lui influenzati e su di lui accordati, traducendosi ormai da qualche tempo in un conseguente «Kunstwöllen» deciso ad intervenire a livello effettuale di ristrutturazione urbana, viene a saldarsi con le emergenti capacità professionali di Andrea di Pietro - il futuro Palladio - può ben individuare con sicurezza a cavallo degli anni quaranta. Mentre infatti allora si esperiscono senza esito soddisfacente - dato il tono piuttosto rigido e dogmaticamente aprioristico delle esigenze locali - vie alternative con le chiamate a Vicenza del Sansovino (1538), di Sebastiano Serlio (1539), del Sanmicheli (1541) 0 di Giulio Romano (1542), tutti interpel-


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lati per lo spinoso problema del «ripristino» delle logge del Palazzo della Ragione, crollate ancora nel lontano 1496, Giangiorgio, tramite il cantiere attivo a rimodernare intorno al 1537 - secondo una traccia desunta dal prospetto raffaellesco verso il cortile di villa Madama - la sua villa suburbana di Cricoli ed affidato alle maestranze della bottega di Pedemuro, inizia più proficuo e diretto rapporto con il giovane Andrea, allora trentenne. Dissipato il fumo della leggenda che ama qui parlare di scoperta improvvisa del «genio» da parte dell’intuito del «mecenate», il fortunato avvenimento andrà anzi visto come la felice conclusione di un itinerario ben altrimenti articolato. Nato a Padova nel 1508, in borgo Rogati, da Pietro «dalla gondola» operaio in un mulino e da Marta la «zoppa», Andrea, a tredici anni, era stato posto dal padre quale apprendista presso il lapicida Bartolomeo Cavazza da Sossano nella stessa città del Santo; ma nel 1523 era fuggito a Vicenza, insofferente di condizioni a lui non adatte di vita e di lavoro e con il probabile appoggio dello scultore Vincenzo de Grandi, attivo in Padova ma di origine vicentina, e suo padrino al fonte battesimale. Dopo un fugace rientro padovano, il giovanetto si era stabilito definitivamente a Vicenza dove, nell’aprile 1524, figurerà iscritto alla «fraglia» dei muratori e manovali, alloggiato presso i maestri Giovanni di Giacomo da Porlezza e Girolamo Pit-


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toni da Lumignano, scultori e modesti architetti di portali, di tombe, di altari, nonché titolari di una prospera bottega in contra’ Pedemuro S. Biagio. Ivi Andrea iniziava serio e metodico apprendistato, appoggiandosi all’insegnamento acerbamente «rinascimentale» dei Pedemuro ed allargandolo sia mediante più ampi contatti con gli evoluti circoli padovani di Alvise Cornaro e del Falconetto sia con la Verona «archeologica» e sanmicheliana. E intanto, a partire dal 1530, la sua personalità cominciava ad emergere traendosi con fatica, ma non senza qualche successo, dall’indistinto fondale dell’«atelier». Del 1531 avevamo avuto il portale di S. Maria dei Servi, in piazza delle Biade; nel 1532-33 la cappella ed il monumento funerario Godi nella distrutta chiesa di S. Michele; attorno al 1533 il portone di palazzo Conti a S. Stefano; nel biennio 1534-36 l’altar maggiore della cattedrale; del 1537-38, il monumento tombale di Giovanni da Schio, vescovo di Vasone, sempre nella Cattedrale; cose tutte rientranti in toto, quanto alle responsabilità meramente esecutive ed amministrative, nei limiti della «équipe» dei Pedemuro, ma nelle quali già scorgiamo una diversa è più alta qualificazione, l’acerbo apparire, insomma, di quello che sarà più tardi il tipico «modus operandi» di Andrea. Da ultimo, i Pedemuro approdavano appunto alla trissiniana Cricoli, unici «impresari» in loco di


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mezzi ed abilità tali da soddisfare nell’occasione le particolari esigenze del committente. La sequenza lungo la quale, al di fuori di ogni sovrastruttura agiografica, abbiamo cercato di scandire le tappe ragionevoli di quelli che dovettero essere stati i progressivi contatti tra l’esordiente Andrea, di venti in trent’anni, ed il letterato cinquantenne - era nato nel 1478 - si conclude nel febbraio 1538, allorché un documento del giorno 9 attesta la prima effettiva presenza del giovane in casa di Giangiorgio Trissino al Pozzo Rosso. Subito dopo, cessano gli accenni ad una sua partecipazione nella officina dei vecchi maestri; finalmente, in due carte d’archivio del 25 febbraio e del 10 marzo 1540, Andrea non compare più indicato con il genitivo paterno, denuncia della sua modestissima origine, ma con l’appellativo di «Palladio». L’origine del termine - divenuto, tout-court, il «nome» con il quale l’artista andrà glorioso nel mondo - è abbastanza trasparente: Palladio sarà nel libro quinto dell’Italia liberata», Angelo custode di Belisario che salva alcuni «baroni» dell’esercito di Giustiniano, imprigionati nel bel giardin di Acratia»; dotto illustratore di strumentazioni militari, di strutture edilizie e di conformazioni urbane, a la sua «scesa le compresse nebbie/ si dilatano, e serenissi il cielo». Ma ciò che conta è che la perdita del patronimico da parte di Andrea e ’imposizione della nuova denominazione di Palladio – a prescindere dal lieve


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senso di disagio che il vocabolo, scopertamente «retorico», può talvolta insinuare - denuncia l’avvenuta acquisizione dell’architetto a presunto docile strumento atto alla realizzazione dello specifico invocato programma di «riforma» urbana. Di logica conseguenza, cadranno adesso gli studi e le ricerche preliminari alla definizione dello schema della «casa di città», consacrati in non pochi fogli autografi palladiani della londinese raccolta del R.I.B.A. Del 1540-41 è la definizione di palazzo Civena; quasi contemporanei, se non forse addirittura precedenti, devono essere, almeno nell’impostazione, i palazzetti Capra presso piazza del Castello e Da Monte a S. Corona; dal 1542 è facile vadano concretandosi gli approcci progettuali al palazzo dei fratelli Thiene a S. Stefano. Finalmente, nel 1543 si tenta un primo esperimento di «trasfigurazione» dell’immagine civica. Lo mette in moto l’arrivo in diocesi di Niccolò Ridolfi, dal 1524 vescovo eletto di Vicenza, che decide di raggiungere, a vent’anni dalla nomina, la sua sede, in omaggio ad una inversione di tendenza, preludio alla restaurazione della Controriforma tridentina. Per degnamente presentarsi al Ridolfi, fiorentino, nipote di Papa Leone X, consanguineo di Clemente VII e, dal canto suo, dotto e convinto umanista, un decreto del maggior Consiglio il 25 agosto 1543 dispone di paludare la città «alla classica», per mezzo di un vistoso spiegamento


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di archi trionfali bifronti, di obelischi, di «mete», di pitture, sculture, decorazioni in legno, teloni e stucco, eseguite da tutta una schiera di maestri locali - dagli onnipresenti Pedemuro a Benedetto Montagna, da Giovanni Speranza a Girolamo Dal Toso a Giambattista Maganza seniore - sotto la direzione del Palladio. Ma non sarà pensabile estranea alla formulazione di quel programma l’intenzione del Trissino, da anni legato al Ridolfi in amichevole consuetudine tramite conoscenze romane; e, del resto, il Ridolfi, arrivato il 14 settembre, stara anzitutto due giorni ospite dei Trissino a Cricoli. Allorché, poi, il 16, farà il suo ingresso in città, il solenne corteo del prelato toscano trascurerà il percorso più diretto, da Cricoli per porta S. Bartolomeo lungo contra’ Porti fino alla Piazza dei Signori ed al Vescovado, ad evidenza ritenuto troppo poco aulico è soprattutto viziato da vistosi compromessi edilizi con il linguaggio «fiorito» delle lagune; con sintomatica decisione, gli si preferisce il più lungo giro da Borgo S. Felice per la Porta del Castello, della quale si potevano magari supporre ragionevoli origini romane, infilandosi poi lungo la «Strada maggiore»: un tratto della consolare «via Postumia» - corrispondente all’attuale corso Palladio - che costituisce tuttora l’ossatura portante del sistema viario cittadino così come lo costituiva «ab origine», in quanto «decumanus» dell’antico organismo romano ad isolati perpendicolari.


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E se rimane vero che addobbi simili erano comuni a molte città italiane in analoghe occasioni, è a posteriori che qui possiamo e dobbiamo valutare l’incisività dell’avvenimento. Conclusesi le feste per il Ridolfi e smontate le «scenografie», i propositi di «riassetto» non si esauriscono a Vicenza, seguendo la prassi pit consueta, con lo spegnersi della fiammata di un momentaneo entusiasmo; vanno invece consolidandosi in un impegno progressivamente maggiore, volto a sottrarsi all’effimero della «mise-en-scine» e ad agire sulla realtà operativa. Si scaglionano infatti, immediatamente a ridosso del fatidico ’43, la ripresa e la definizione dei lavori palladiani per il palazzo Thiene; intanto, appena chiusa una breve parentesi (ville Gazzot – Marcello a Bertesina, 1542; Pisani a Bagnolo di Lonigo, 1542 e 1545; Muzani alla Pisa di Malo, 1545; Saraceno al Finale e Caldogno a Caldogno, c. 1545; Thiene a Quinto, 1545-46), dedicata ad approntare i mezzi più idonei per una estensione nel territorio dei «giusti» principi dell’architettura riformata, in un clima favorito dalla politica di reinvestimento fondiario conseguente alla crisi dei traffici marittimi veneziani, Palladio passa ad occuparsi della ricostruzione delle logge del Palazzo della Ragione. Tenuto conto che, durante la fase elaborativa del suo progetto, il Palladio si mantiene in diretto continuo contatto con il Trissino - ospite della casa romana del letterato a studiarvi dal vivo le sospi-


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rate antichità fin dall’autunno del ’45, tornandovi più tardi, salvo una breve trasferta vicentina nella primavera del ’46, fino al luglio del 47 e che la versione definitiva delle logge sarà preparata, fra il 48 la vittoria decisiva dell’11 aprile ‘49, in perfetta concomitanza con la pubblicazione integrale dell’«Italia liberata dai Goti» nel 1548, correrà ovvio constatare come, superando le opposizioni ed imponendo la versione palladiana, il «partito» trissiniano conseguisse finalmente pieno successo essendo riuscito a modificare secondo la sua nuova ottica addirittura l’edificio emblematico, sede e simbolo del potere civico. Gli sviluppi ulteriori di questa unica ed entusiasmante avventura vedranno l’architetto, quasi autentico «intellettuale organico» in senso moderno, impegnato nella ridefinizione urbana; e seguendo proprio le direttive degli assi principali, a maglie, in sostanza, ortogonali di tipica origine romana, del tessuto stradale di una città quale Vicenza, la cui «classica» impostazione non sembrava richiedere, quindi, alcun radicale sovvertimento per collimare con il gusto «moderno» dell’artista cinquecentesco di estrazione trissiniana; semmai, chiedeva soltanto di essere assecondata. Di questa situazione, certo, occorrerà tener conto, in una con l’indiscutibile fondamento del «pragmatismo» dell’architetto, volendo spiegare l’irriducibile contrarietà palladiana ad impegnarsi in disquisizioni astratte volte a delineare una ipote-


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tica, ideale, «forma urbis» avulsa da concrete referenze. Tale astratto teorizzare viene evitato persino nella pur idonea sede teorica del «Trattato» del 1570, non trovandosi in merito nei «Quattro Libri», e precisamente nel terzo, se non una sparsa precettistica, per giunta non coordinata, sulle vie, i ponti e le piazze. D’altronde, anche là dove tale generica normativa sembra restringersi a più puntuale verifica, si direbbe che, sempre, in controluce, trasparisca la precisa esperienza dell’habitat» vicentino. La piazza, vagheggiata al capitolo sedicesimo «nel mezo» della città, «accioché» sia comoda «a tutte le parti», e vi si affacciano il palazzo della Signoria con le vicine adiacenti prigioni, e la Curia e, «nella parte volta alla più calda regione del cielo», conveniente Basilica, ripete e sublima l’ordito della Piazza dei Signori, a Vicenza, con la sua Basilica appunto sul lato a mezzogiorno e le connesse prigioni e, al luogo della Curia, la Loggia del Capitaniato. Tra i ponti esemplificati, due sono vicentini, e di fattura antica romana, sul Bacchiglione e sul Retrone. Ma, soprattutto, nella «strada diritta, ampia e polita», destinata a rendere «bellissima vista», condotta «essendone, ciò dal sito concesso», in linea retta da una porta civica alla porta opposta, é, più che suggerito, imposto il modello della «strada maggiore» di Vicenza, tesa dal ponte degli Angeli alla porta del Castello, sul vecchio tracciato del «decumanus».


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Giovandosi di una ricognizione «diacronica» su basi topografiche, troveremo, dunque, l’attenzione del Palladio concentrarsi anzitutto ad est del nucleo «storico», laddove, sulla spianata dell’ «Isola», prossima alla confluenza del Retrone e del Bacchiglione – ragion prima, tra l’altro, della specifica ubicazione «ab antiquo» dell’insediamento abitato vicentino - necessariamente confluivano le vie d’approccio provenienti da oriente: da Padova, quindi, e in ultima analisi, da Venezia; sia che si facesse il cammino di terra, valicando il Bacchiglione al ponte, di origine romana, allora esistente sebbene manomesso, degli Angeli; sia che ci si servisse delle pigre ma sicure imbarcazioni naviganti, a ritroso dalla laguna, le pigre acque del fiume. Sull’Isola affacciano maestose le logge del palazzo di Gerolamo Chiericati e del figlio Valerio (1550), uomo d’arme e di guerra: costituivano l’autentico solenne antefatto della «scena» urbana, pronto a recepire dagli aerei voltatesta l’arrivo delle direttrici prospettiche diagonali afferenti alla piazza. più in disparte, quasi all’incontro dei due fiumi, era il palazzo Piovene - sciaguratamente distrutto -iniziato circa il 1569; nel 1572 tornava il Palladio sul posto intervenendo nella sistemazione della zona portuale. Infilato il «decumanus», odierno corso Palladio, sulla destra di palazzo Chiericati ecco subito il «paramento» di casa Cogollo (1559-1562); pressoché a mezzo dello sviluppo del «decumanus» verso


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occidente, sul lato meridionale, appare il prospetto di palazzo Pojana (1560-1561) a cavallo, con un arco, di contra’ Due Ruote; più avanti e probabilmente sul lato opposto, nell’isolato tra l’attuale chiesa dei Filippini ed il retrostante ospedale di S. Marcello, era stato progettato (1563-1564) un palazzo per Giulio Capra; alla fine, chiude la sequenza meridionale verso piazza del Castello, al lato opposto del «decumanus» rispetto a palazzo Chiericati, la piccola, ma elegante - e purtroppo sconciata al piano inferiore facciata di quel palazzetto, pure molto probabilmente dei Capra, che da poco recuperabile al catalogo palladiano, vi si può d’altronde, per la cronologia, inserire come un tentativo iniziale. Quanto alla piazza del Castello, ingresso deputato alla città da ovest, l’architetto vi arriva nella fase tarda, con due opere incompiute o manomesse da esecuzione altrui: la torreggiante iperbole degli intercolumni giganti di palazzo Porto, sul lato sud, e l’affrettata, convulsa cadenza dei due ordini di Palazzo Thiene-Bonin, a cerniera con il «decumanus», in esatta corrispondenza frontale con la «esercitazione» giovanile di palazzetto Capra. Effettuando, invece, il percorso nel senso del «cardo maximus» principale - pure esso, si badi, inizia, a sud, da piazzetta S. Giuseppe, con le rovine del teatro romano di «Berga» e prosegue sul ponte di S. Paolo, anch’esso nel Cinquecento di superstite struttura romana, valicante il Retrone - passiamo,


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salendo verso nord, sotto le «classiche» arcate delle nuove logge (1549) della «Basilica»; giunti nella piazza maggiore o «dei Signori», vediamo, a sinistra, la Loggia del Capitaniato (1565 e 1571), con il suo caldo paramento d’ordine gigante in mattone scoperto. Risalita contra’ del Monte e superato l’incrocio con il «decumanus», scendiamo lungo contra’ Porti: vi si 1562 e nel 1576 - si libra la cupola della Cattedrale, «sistemata», su progetto palladiano, in due riprese del 1558 e del 1565, a significare, nella straordinaria «emergenza» del monumento sulle altre costruzioni cittadine, l’estendersi vittorioso dei propositi riformatori dalla più disponibile sfera «laica» alle più tenacemente conservatrici gerarchie ecclesiastiche. Si osservi, in proposito, che la cupola, visibile, appunto, per la sua altezza - la massima raggiunta da un edificio del «centro storico» dopo la torre comunale -a larghissimo raggio e, sovrastando le frapposte costruzioni, dalla stessa piazza dei Signori, luogo privilegiato, tra le logge della «Basilica» e le colonne giganti del «Capitaniato», all’azione riformatrice, appare davvero concepita per esercitare un’energica presenza centripeta sullo spazio circostante. Infatti, la sua struttura, a calotta ribassata coronata da una lanterna con cupolino, ne contrappone decisa l’organismo centralizzato, pur nella pianta necessariamente ellittica, alle precedenti membrature di base quattrocentesche


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e proto cinquecentesche, ancor risolte nello spirito di un Lorenzo da Bologna e di un Rocco da Vicenza: sovrapponendosi, di fatto, alle grandiose pareti dell’abside poligonale dal ben diverso, univoco orientamento est-ovest impostole secondo la naturale, più limitata specifica sua funzione originaria di «chiusura» solenne della Cattedrale, a conclusione dell’asse maggiore al polo opposto della facciata. E, insieme, non si manchi di considerare come ciò avvenga, ancora una volta, proprio insistendo detta cupola anzi, verrebbe a dire, quasi incombendo precipite, in un preciso punto nevralgico d’incontro delle coordinate longitudinali e latitudinale dell’antico, persistente tessuto viario romano. Tuttavia, nonostante il numero e l’importanza dei cantieri aperti è la polivalenza delle loro presenze, il bilancio dell’azione riformatrice, sullo scorcio di quell’ottavo decennio del Cinquecento che vedrà il Palladio trasferirsi a Venezia - divenuto «proto» della Repubblica dopo la morte del Sansovino -e si concluderà con la morte del Maestro nell’agosto del 1580, sarà ben lungi dal chiudersi come il Trissino prima e la sua «consorteria» e, morto il letterato corifeo nel 1550, l’aristocrazia e la «intellighentia» vicentina poi, raccolte dal 1556 nella fondazione dell’Accademia Olimpica, avevano sperato. Una spia della situazione potrebbe aversi già nel 1565 quando, per l’entrata del vescovo Matteo


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Priuli, la città che, ad evidenza, non è ancora come si vorrebbe, sente la necessità di una «riedizione» del precedente «apparato» Ridolfi del 1543: e sia pur allestito con attenuata sontuosità, data la rigorosa intransigenza controriformistica del prelato. Ma due ineccepibili testimonianze ci documentano meglio e senza possibilità di equivoco, sullo «status quaestionis» nel frangente che ci interessa. Tra luglio 1576 ed il marzo 1577, estesosi a Vicenza il contagio della peste scoppiata a Venezia, matura la decisione di offrire alla Madonna di Monte Berico un modellino votivo e propiziatorio della città, in legno rivestito d’argento: lavoro congiunto dell’«agrimensore» Girolamo della Torre e di un illustre orefice, attivo a Venezia e non facilmente identificabile, e a cui collabora in supervisione straordinaria lo stesso Palladio. L’opera egregia, finita un po’ tardi, nel 1580 e sciaguratamente distrutta dai Francesi nel 1797, ad oggi, per nostra fortuna, puntualmente recuperabile grazie a sicure ed ineccepibili referenze iconografiche: il santo diacono Vincenzo vi figura sempre rappresentato nell’atto di reggere il modello della Vicenza della quale è patrono. Preme qui ribadire come, contro le più logiche aspettative, questo famoso modello - sebbene preparato, ricordiamolo, a conclusione della «stagione» palladiana e partecipandovi il Maestro appaia essere stato concepito eliminando ogni travisamento di idealizzazione «monumentale»,


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e restringendo anzi l’area urbana, oggetto della «trascrizione», a quella del pit vecchio nucleo «storico», compreso entro le mura dell’alto Medioevo ad andamento pressoché circolare. Ne esce l’immagine di una città compatta ed omogenea, ancora dominata dal fusto della torre comunale svettante tra una selva di campanili, di cuspidi e di torri in pittoresco disordine, cinta dalla bassa e modesta cortina di mura merlate. Del Palazzo della Ragione, avviato da trent’anni a trasformarsi con le logge palladiane nell’aulica, classicheggiante «Basilica», si esalta pur sempre la grande, inconfondibile carena tardogotica luminescente di lastre di piombo. Vicino, spicca invece proprio la cupola della Cattedrale, momento del «discorso» palladiano quasi del tutto finora - salvo qualche accenno del Puppi - dimenticato dalla critica, preoccupata unicamente di sistemare gli aspetti filologici, trascurandone ogni possibile ulteriore significato. Fatto sta che, delle tante «presenze» palladiane, adesso, circa il 1580, sintetizzandosi di necessità immagine urbana per consacrarla, questa sola e dominante della cupola rimane viva e presente riassorbendo ogni altra: il pennello dei pittori seicenteschi ce la tramanda, poi, quale nota «luminosa», coronata dalla gigantesca figura dell’angelo dorato, sovrappostavi nel 1575 e che presto cadrà nel 1620: qui, nei dipinti, inoltre dilatata in significativa iperbole. Un atto di contemplazione, insomma,


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questo «modello» del 1580, che vorremmo definire da «laudatores temporis acti», un ripiegare quasi su di un’oasi di felicità perduta nell’esaltazione della città chiusa e turrita, tradizionale e perfino «arcaica», all’ombra della sua torre civica e del suo duomo. Nello stesso concludersi degli anni Settanta, squadre di rilevatori, sotto la presumibile direzione di Giandomenico Scamozzi, preparano quello specifico, particolareggiato «ritratto» di Vicenza che va, comunemente, sotto il nome di «Pianta Angelica». Nel foglio risultante, al 1580, da sei strisce di carta incollata, di circa 130 x 140 cm. di ampiezza complessiva, l’abilità dell’estensore definitivo, il ricordato Gianbattista Pittoni, tra dicembre 1579 e gennaio 1580 – uno dei quattro figli di quel Girolamo Pittoni da Lumignano responsabile assieme al socio Giovanni di Giacomo da Porlezza della bottega di Pedemuro, officina del futuro Palladio - ha ottenuto una delle più suggestive immagini di città di tutto il Rinascimento. In scala, approssimativamente, di 1 : 1.700, vi si percorre Vicenza «a volo d’uccello», colta da un insolito punto di vista a settentrione, fuori Porta S. Croce, sollevati ad una quota presunta di qualche centinaio di metri nella zona di Monte Crocetta. Ora, la lettura attenta dell’«Angelica», opportunamente integrata da fonti complementari emerse di recente, quali i «Libri dell’estimo» di Vicenza


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del 1563-1564, pubblicati dalla Battilotti (1980), denuncia chiaramente che al 1580, l’anno della scomparsa del Palladio, le principali fabbriche da lui promosse sono rimaste, senza scampo, dei tronconi in varia misura mutili; 0 sono addirittura naufragate, come volontà progettuali, senza lasciar traccia. Seguendo le medesime direttive poc’anzi proposte per il loro censimento, troviamo palazzo Chiericati allo stadio iniziale, ristretto alla sola ala meridionale; la situazione di palazzo Piovene alla confluenza di Bacchiglione e Retrone appare ancora alquanto confusa, come quella di palazzo Pojana alle Due Ruote; del palazzo per Giulio Capra non si parlerà più; i palazzi Porto e Thiene su piazza del Castello sono di là da venire; la Loggia del Capitaniato è bloccata a tre archi sui quattro o sette previsti; palazzo Barbarano è incompleto e quello di Iseppo Porto limitato al corpo di fabbrica su contra’ Porti, per giunta non finito; del palazzo Thiene a S. Stefano si ergono a malapena due lati, e non completi; palazzo Valmarana al Pozzo Rosso si affaccia sulla strada ma rimane non definito verso il cortile; il progetto per Giacomo Angarano a S. Faustino non sarà mai concretato, e quello per i Pojana a S. Tomaso si fermerà ad un intercolumnio; la residenza dei fratelli Trissino in contra’ Riale non vedrà mai la luce e quella di Giambattista Garzadori sarà realizzata in maniera diversa e più semplice. Si salvano appena le cose minori: il


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palazzo Civena al ponte Furo, casa Cogollo e palazzetto Capra ai poli estremi del «decumanus» palazzetto Da Monte a S. Corona, la casa di Bernardo Schio in Pusterla. Le resistenze, opposte da difficoltà obiettive quali le probabili permanenze di certe sacche di gusto «arretrato» ma pil ancora da difficoltà economiche insormontabili in rapporto alla vastità e complessità dei progetti, aggravate da non sempre amichevoli e fiduciosi rapporti tra le famiglie nobili, dal delinearsi di turbamenti sociali e dall’acuirsi dei problemi della conduzione dei latifondi, origine indiscussa e primaria se non unica dei cespiti di guadagno da riversarsi nell’investimento edilizio, nonché, da ultimo, l‘inaridirsi progressivo della suggestione esercitata dalle fastosità dell’«apparato» in animi molto spesso ormai inclini a «deviazioni» di austerità ereticale e, di conseguenza, più d’appresso investiti dal moto inverso del processo controriformistico o sensibilizzati all’incombere di calamità naturali quali la pestilenza del 1576, determinano il fallimento del sogno della totale «renovatio» della città intrapresa con tanto slancio. E ancora, alcuni avvenimenti, dalla morte del Trissino nel 1550 all’abdicazione di Carlo V nel 1556 alla sua scomparsa nel 1558, favoriscono, in concomitanza con i fattori ricordati nel crollo conseguente di molti ideali, lo spegnersi di ogni anche più tenue speranza di una ormai impossibile «restaurazione»;


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così, dall’assommarsi delle cause negative, vien meno quella tensione «eroica» che aveva dall’inizio animato e giustificato l’impresa della «riforma» urbana. Di fronte al dramma delta ideologia frustrata, assistiamo a due diversi atteggiamenti di rivalsa. Da un lato, è il Palladio medesimo ad avvedersi delle difficoltà sopraggiunte e sempre più pesanti: isolati in un contesto precostituito - anche se, in sostanza, accettabile nei suoi fondamenti «antichi» di romana nobiltà - e per la maggior parte incompleti, i suoi «inserti» appaiono destinati ad assumere tutt’al più: la funzione di proposte catalizzatrici, vere e proprie «emergenze» il cui compito resterà quello di mettere in moto, lungo determinate direttive, il meccanismo della trasformazione urbana. All’affermarsi di una città tutta e solo palladiana è necessario, per intanto, rinunciare sul piano esistenziale; ed ugual sorte incombe sulla programmata «triangolazione» del territorio impostata con il diffondersi delle «ville». A posteriori, constatiamo che il compito di portare avanti la realizzazione della Vicenza «palladiana», intesa quale luogo deputato di razionale perfezione, costituirà un tipico pil tardivo procedimento di «architecture moralisée», postulato, con superiore intelligenza critica, nel Settecento illuminista, da un Arnaldi e da un Bertotti Scamozzi e proseguito, sebbene troppo spesso con dogmatica


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pesantezza, dal credo «neoclassico» di un Calderari e di un Malacarne, per prolungarsi, ormai anacronistico, in esiti del medio e tardo eclettismo ottocentesco. Al Palladio, giunto all’aprirsi dell’ottavo decennio del secolo al punto cruciale di un ripensamento autocritico dell’esperienza vissuta, giova, intanto, proporre di sé un’immagine «astratta», al di fuori di ogni più immediata referenza con le asperità e le contraddizioni del «reale»: referenze giudicate dall’artista controproducente pericolose al fine di una propria definizione celebrativa, la sola che egli ritenga adatta a qualificarlo presso i posteri. Eccolo dunque preparare i suoi famosi «Quattro Libri dell’Architettura», editi a Venezia presso il De Franceschi nel 1570: e l’avanzata ipotesi che, del Trattato, sia stata affrettata la pubblicazione proprio in vista del concorso a «proto» della Serenissima affrontato dal Palladio dopo la morte del Sansovino, è una conferma dello scopo promozionale che l’architetto si riprometteva dalla comparsa del volume. Vi si tratteggia il ritratto di un colto e appassionato umanista, interessato alle cose d’architettura fin dalla serena e tranquilla giovinezza, studioso degli antichi e dei «moderni» nei testi reciprocamente fondamentali di un Vitruvio o dell’Alberti, scaltrito in agevoli viaggi affrontati allo scopo di ben dosate ricognizioni archeologiche. L’assoluto silenzio sugli oscuri natali dell’artista e sulle ristrettezze


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della modesta, povera giovinezza padovana come sul duro e faticoso cammino vicentino dell’apprendistato e perfino sul vero nome del protagonista e sull’avvenimento, per lui determinante, della «iniziazione» trissiniana e convincente premessa alla disinvolta esposizione, nei libri I, II e III, della cultura e dell’abilità tecnicopratica conseguite dal Maestro. Specialmente coerente ne risulta la presentazione delle proprie «invenzioni», rielaborate in immagini allontanate e quasi prive di «qualità materica», delineate sulla «tabula rasa» della pagina bianca, astraendo dagli «accidenti» di tempo e di luogo via via invece purtroppo presentatisi durante l’aspro controverso cammino delle opere eseguite: ottenendosene, cosi, dei paradigmi di immutabile perfezione offerti quali corretti esempi di soluzioni tipologiche, adattate ad una nutrita casistica di edilizia residenziale civile. Conta osservare come i legami di ogni «invenzione» con le varie situazioni ambientali che le hanno, in prima remota istanza, promosse, smentiti drasticamente nella «idealizzazione» utopistica dei disegni, siano richiamati nelle ampie e circostanziate, abilissime didascalie, molto attente alla situazione patrimoniale degli immobili descritti: specchio fedele di quella «ambiguità» lungo la quale si estende la traiettoria dell’operazione palladiana. I desideri, e la vanità, dei committenti non potevano, infatti, essere elusi tacendo nel Trattato la responsabilità promozio-


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nale delle iniziative edilizie; eppure queste dovevano, a loro volta, essere sottratte alla casistica contingente che ne aveva determinato la sconfitta sul piano esistenziale. Sebbene a conti fatti, alcuni elementi rimangano, nello stesso ordinamento della materia, a ricordare, nel Libro secondo, il legame perenne con la città; il palazzo Chiericati vi apre la serie degli «exempla» vicentini e lo seguono i palazzi di Iseppo Porto, dei fratelli Thiene e dei Valmarana, il progetto di Giulio Capra elencati in un ordine che sembrerebbe proprio non casuale, legato com’è strettamente ad un «percorso» da est ad ovest, da piazza dell’Isola alla porta del Castello in stretta aderenza al reticolo viario; unico scarto essendo costituito dal ritorno, però su breve tratto, al palazzo di Montano Barbarano in contra’ Porti. Il successo largo ed incondizionato dei «Quattro Libri», giustamente definiti (Argan) «la grande spinta che lo stesso Palladio ha dato al palladianesimo» e subito rivelatisi veicolo facile ed immediato alla divulgazione - e non solo europea ma allargata all’America anglosassone - di un preciso «tipo» di architettura «classicheggiante», conferma, comunque, da ogni punto di vista, la validità della soluzione adottata. Le aderenze ed i collegamenti con la piccola «provinciale» Vicenza sfumano presto, nella mente dei lettori «forestieri», fino a scomparire; se, nel primo ‘600, Inigo Jones verrà dall’Inghilterra a controllare ade visu» le incisioni del Trat-


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tato e ne postillerà, meravigliato, la discordanza tra la «realtà» e l’«utopia», già alla metà del secolo Nicolas Poussin, senza, a quanto ci consta, preoccuparsi minimamente di compiere una qualsiasi trasferta in loco, si servirà di quello stesso materiale grafico delle tavole per attingervi «episodi» del tutto staccati - l’angolo di palazzo Thiene, il progetto per i Garzadori, il disegno per il Chiericati - onde comporne, insieme con altri «pezzi» desunti dal «repertorio» archeologico e cinquecentesco, il «collage» supremamente distaccato e «raisonné» dei fondali architettonici e paesaggistici di alcuni tra i suoi quadri più famosi, quasi autentico viatico all’ideale «classico» nel ’600 europeo. Pensiamo alla «Morte di Saffira», al «Cristo che risana i ciechi di Getico», alla «Rebecca al pozzo» del Louvre od al «Mose affidato alle acque» dell’Ashmolean Museum di Oxford. Su questa scia, non molto dopo, un illustre compatriota del Poussin, potrà anzi tranquillamente concludere che, «a l’égard de Palladio, son livre est si bien imprimé qu’il me semble qu’il vaut bien l’ouvrage sur le lieu». E a sfatar questa convinzione non basterà il lavoro critico dell’Illuminismo; occorreranno, dopo le indispensabili premesse gettate dall’ostinata indagine storiografica ottocentesca, l’accanita volontà di ricerca archivistica e l’acribia dell’esegesi contemporanea per restituirci, sotto il manto aulico del Palladio, la figura viva e spesso dimenticata di Andrea di Pietro.


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Dal lato opposto, si pongono i committenti ossia, in quella situazione, i cittadini che contano. In loro, il «sentimento» della ideale città non demorde: bloccato sul versante, rivelatosi fallimentare, del reale, se ne libera incanalandosi in quello della esperienza teatrale e si risolve, alla fine, nell’incanto di una scenografia. La sequenza degli avvenimenti, al riguardo, è esemplare. Dietro le mura un po’ squallide di un involucro volutamente scelto disadorno e «casuale» - a marcare, è pensabile, il significato intimistico ed elitario del risultato che si vuole ottenere all’interno - entro la vecchia fortezza rimaneggiata del «Territorio, a pochi passi dal mercato fluviale dell’Isola» e dai quartieri «bassi» oltre Bacchiglione, gli Accademici Olimpici, uscita appena Vicenza dalla peste del 1577-78 e, forse, spinti anche da una comprensibile reazione all’incubo del flagello, decidono di preparare finalmente degna e fastosa sede stabile alle adunanze del sodalizio, quanto opportunamente riservata: ed officiano al delicato incarico, nel 1579, il Palladio. Non è qui il caso di ritornare sulla qualità e le caratteristiche della risposta fornita dall’architetto, giunto ormai al crepuscolo insieme dell’attività e della vita, conclusasi l’anno dopo, nell’agosto del 1580. Del resto, essa risposta è del tutto conseguente a quell’aura di crisi e di sfiducia nel linguaggio «classico» che caratterizza da un certo tempo gli esiti palladiani: basti pensare a palazzo Valmarana (1565), alla Log-


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gia del Capitaniato (1571), al palazzo Porto in Piazza del Castello o dall’aggiunta al Santuario di Monte Berico, dopo il 1576. Così, entrò l’Olimpico finalmente attuato nel 1585, sia pure con non evitabili interventi estranei, nella tensione dinamica impostata dalla reciproca dialettica di cavea e proscenio, si realizza la perfetta «civitas», degno ricetto di uguali, viventi e già immortalati nelle loro effigi tramite le statue affaciantesi d’ogni dove, in una distribuzione che, mentre nega la differenziazione gerarchica, sembra escludere l’eventuale partecipazione dei non iniziati. Senonché, l’intenzione degli «uguali», destinati fruitori di questa «civitas», va appunto oltre e procede imperterrita al suo ultimo fine. Quando, nel 1585 lo Scamozzi verrà chiamato ad allestire le scene per la rappresentazione inaugurale con l’«Edipo Re» di Sofocle, si insiste sulla tematica della città e, dilatate al di là di quanto previsto dalla impostazione palladiana le porte dell’arco di proscenio, si allargano ancora dietro di esso cinque scorci prospettici di strade urbane, fiancheggiate da sontuosi edifici a simulacro delle cinque vie della mitica Tebe di Beozia. L’architettura, per lo Scamozzi, è «scienza»: procede per puri ed immutabili principi, giunge ai suoi ineccepibili risultati spogliandosi «sopra tutto delle passioni, e degli affetti che per natura l’huomo suole havere alle cose proprie»; e dunque proprio ogni accidentalità del «vissuto» si spegne in queste


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fabbriche, librate, fuor di ogni riferimento naturalistico, in un’aria immobile e rarefatta.Lo stesso scarto subitaneo delle proporzioni delle «scene» accordate, non appena superate le porte del proscenio, non sulle normali dimensioni di un qualsiasi «attore» ma su di un metro «astratto», che rende impraticabili gli edifici se non a condizione di spezzarne l’incanto - concorre a trasferire l’«invenzione» sul piano dell’«irreale». Ne escono depurate tutte le sottili possibili implicazioni «politiche» e velleitarie emergenti dal sottofondo più o meno confessato di «revanche» che poteva aver promosso ed incentivato la genesi del complesso fenomeno della «riforma» urbana. Lo spazio «umano» - inteso quale luogo ove si agitano le vicende ed i problemi dell’esistenza - sembra davvero arrestarsi all’arco ed alle aperture trabeate del proscenio; oltre la soglia, esso ha soltanto «risonanze» lunghe o brevi secondo la diversa estensione, e scansione, di queste strade, ove non la remotissima ignota Tebe si rievoca ma una «metafisica» Vicenza si cristallizza: volgendo da semplice, e pericolosa, glorificazione retorica d’un piccolo centro provinciale al paradigma della vera e degna «universale» città che doveva essere e non fu solo qui, finalmente si invera. A questo punto si spiega la progressiva «solidificazione» dell’addobbo del 1585, promosso da scena provvisoria giusto la consueta prassi teatrale, ad apparato stabile: l’Olimpico, concepito


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quasi luogo «metastorico» della perfetta vita associata secondo ordine, simmetria e decoro contro il disordine, l’asimmetria e gli aspetti deteriori del contingente, dove gli Accademici gestiscono le loro cerimonie gratulatorie ed autocelebrative, aveva trovato finalmente davvero il suo «protagonista». Passano, di conseguenza, in secondo piano la funzionalità ed agibilità dell’ambiente ai fini più propriamente teatrali: aspetti che dovettero apparire subito quanto meno dubbi se gli Accademici, fatto recitare qui dentro, ma non è neppure certissimo, l’«Eugenio» di Fabio Pace nel 1598 e, nel 1605 0 1608, il «Torrismondo» del Tasso, chiusero ben presto questo capitolo. La vita teatrale vicentina continuerà in tutt’altre sedi, dal teatro di Piazza o «delle Garzerie», inaugurato nel 1665, al Tornieri o «delle Grazie» del 1711, per arrivare al più noto «Eretenio», aperto la sera del 10 luglio 1784. In Olimpico, dall’ipiente 600 alla metà dell’800, allestiti due tornei nel febbraio 1588 e nel marzo 1612 nonché una «pompa», la «Mensa degli Dei» di Paolo Bissari, si tennero solo, oltre alle adunanze accademiche, «apparati» in onore di ospiti illustri: addirittura ventisette, instaurando una tradizione continuata anche in seguito, con i «ricevimenti» di Vittorio Emanuele II (novembre 1866) e di Giuseppe Garibaldi (marzo 1867). Bisogna arrivare al settembre 1847 per assistere ad una ripresa dell’«Edipo» con Gustavo Modena, seguita, nel luglio


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1857, dall’«Oreste» dell’Alfieri; ed al nostro secolo per trovarvi una certa continuità nell’organizzazione degli spettacoli. Ma resta, e anzi tanto più riemerge ed ingigantisce, quanto più gli si fa, magari inconsciamente, violenza, la carica vitale di questo spazio che, pregno esso stesso di una fortissima risonanza emotiva, appare così ricco di elementi «segnati» e immediatamente «significanti» - per dirla in termini semantici - da divenire, in prima persona quasi personaggio recitante e da non parer ammettere che altri, dentro, si affannino inutilmente ad animarlo. Così, mentre denuncia, nella concretizzazione illusoria dell’effimero, il sostanziale fallimento del recupero esistenziale della «ideale» città, l’Olimpico la propone nel futuro con la forza pietrificata del mito: ed è pur giusto che quel mito, annidato da millenni nel cuore dell’uomo e coltivatovi come utopia o come speranza, sia rimasto fermato per sempre.


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NOTA BIBLIOGRAFICA Sul problema delle fortificazioni di Vicenza e, in senso più largo, su alcuni specifici aspetti della società vicentina tra Quattro e Cinquecento, si vedano F. ZULIANI, Le mura medioevali e L. PUPPI, Le fortificazioni della città agli inizi del ’500, in «AA. VV., Vicenza illustrata», Vicenza, 1976, pp. 43-49 e 174-178, nonché U. SORAGNI, Vicenza nel Cinquecento, in «Storia della città», IV (1979), pp. 35-64: il tutto inquadrato entro alcune coordinate (pp. 429 sgg.) offerte dal recentissimo esauriente lavoro di E. FRANZINA, Vicenza. Storia di una città, Vicenza, 1980. Per quanto concerne la complessa figura del Trissino ed il suo «entourage», si può ora benissimo rimandare a AA.VV., Convegno di studi su Giangiorgio Trissino, a cura di N. Pozza (Vicenza, 31 marzo - | aprile 1979), Vicenza, 1980: lavoro esauriente e fondamentale. Dove, per un incontro più ravvicinato, vedi specialmente F. BARBIERI, Trissino e Palladio, pp. 191-211. I richiami al regesto palladiano - dati cronologici e precisazioni filologiche - sono fatti sulla base del «corpus» schedato da L. PUPPI, Andrea Palladio, Milano, 1973, Vol. II. La possibile acquisizione al Palladio di palazzetto Capra, in angolo tra corso Palladio e piazza Castello di fronte a palazzo Thiene-Bonin, e oggetto di un particolareggiato intervento di F. BARBIERI, I disegni di Francesco Muttoni a Chatsworth. Qualche appunto sui disegni muttoniani di Washington: un possibile aggancio per una ipotesi palladiana?, in «Civiltà neoclassica nella provincia di Como». Atti del Convegno (Como 10-14 ottobre 1979), NN. 55-57 di «Arte Lombarda», N. Milano, 1980, pp. 219-235 (232-235). I riferimenti all’Estimo di Vicenza 15 1564 vanno precisati in D. BATTILOTTI, Vicenza al tempo di Andrea Palladio attraverso i libri dell’Estimo del 1563-1564, Vicenza, 1580; e, sulla Vicenza «antica», basilare G.P. MARCHINI, Vicenza romana. Storia, topografia, monumenti, Verona, 1979. Riguardo alla «Pianta Angelica» ed al modellino votivo argenteo della città nel Santuario di Monte Berico, i rimandi, per ogni pit completo dettaglio, sono a F. BARBIERI, La pianta prospettica di Vicenza del 1580, Vicenza, 1973 e Modello della città di Vicenza, in «<AA.VV., Oggetti sacri del secolo XVI nella Diocesi di Vicenza».


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Catalogo della Mostra a cura di E. Motterle, Milano, 1980, pp. 53-57 (scheda 84). Nel cit. Barbieri 1973, p. 48, sono appuntati i principali contributi alla questione del Palladio «urbanista» reperibili alla data; e vi si può far capo senza ripeterli, solo integrandoli con due titoli li mancanti: M. TAFURI, Teatro e città nell’architettura palladiana e A. CORBOZ, Procedimenti dell’urbanistica palladiana, in «Bollettino del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio», X (1968), pp. 65-78 XIV (1972), pp. 235-250. In seguito, poco o nulla e da aggiungere oltre a quanto contenuto sull’argomento nel citato contributo di U. Soragni, Vicenza nel Cinquecento, particolarmente da p. 48. Ma l’idea qui sostenuta (p. 55), secondo la quale «l’azione urbanistica attribuita» al Palladio, spetterebbe, «a Vicenza, molto più alle chiese, ai monasteri ed agli ospedali», che sarebbero stati «fondati numerosi verso la fine del secolo» XVI, intervenendo addirittura «con strumenti d’ordine gestionale di immediata incidenza sull’organizzazione cittadina», non par sostenibile: sia sul piano effettivo della cronologia delle fabbriche, ecclesiali o comunque religiose vicentine del Cinquecento, piuttosto rade e, in fondo, scarsamente impegnate, tranne casi sporadici, per tutto l’arco del secolo, sia di conseguenza, su quello di una loro plausibile incidenza sul volto del centro storico, in particolare nel pit ristretto nucleo mediano, più esposto invece al peso dell’azione palladiana. Cfr. anche T. MOTTERLE, Presentazione, in «Oggetti sacri del secolo XVI nella Diocesi di Vicenza» cit., pp. 9-15 (12-13). Dalla imponente letteratura sul «Trattato» palladiano si sono tenuti particolarmente presenti F. BARBIERI, Il valore dei Quattro Libri e L. PUPPI, Il Trattato del Palladio e la sua fortuna in Italia e all’estero, in «Bollettino del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio», rispettivamente XIV (1972), pp. 63-79 e XII (1970), pp. 257-272: ancora utili nella lettura e nella interpretazione del testo. Assieme, si ricordino le pit recenti edizioni dei «Quattro Libri», a cura di B. FORSSMAN, Hildesheim-New York, 1965 e di L. MAGAGNATO con la collaborazione di P. MARINI, Milano, 1980: questa seconda arricchita di copiosissima bibliografia.


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E ancora, si vedano alcuni saggi contenuti in «AA.VV., Andrea Palladio, Il Testo, immagine, la città». Catalogo della mostra a cura di L. PUPPI, Milano, 1980. Ivi, da parte di F. BARBIERI, Immagini di Vicenza cinquecentesca e palladiana, più articolata disamina (pp. 150-153) degli «inserti» palladiani nel Poussin; sull’argomento e sul Palladio in Francia, cfr. C. MIGNOT, Lettura del Palladio nel XVIT secolo: una riservata ammirazione, in: AAV N., «Palladio e la sua eredità nel mondo». Catalogo della mostra, Milano, 1980, pp. 207-208 e 209 (scheda 2). Ma tutto il volume resta basilare per il problema del palladianesimo: sul quale, ad ogni modo, ci si affidi al filo conduttore brillantemente tracciato da G.C. ARGAN, Palladio e palladianismo, in «AANV., Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento». Catalogo della mostra, Milano, 1980, pp. 11-15. E, quanto all’Olimpico, per la proposta di uno specifico «taglio» di lettura di quello spazio, mi si consenta la ripresa di F. BARBIERI, Il Teatro Olimpico: dalla città esistenziale alla città ideale, in «Bollettino del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio», XVI (1974), pp. 309-322.


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In Padova im Jahr 1508 als Sohn des Müllers Pietro della Gondola und der Marta «der Hinkenden» geboren, wurde Andrea in jungen Jahren vom Vater dem Steinmetz Bartolomeo Cavazza da Sossano in die Lebre gegeben. Aber im Jahr 1523 fliegt er nach Vicenza, wo er sich 1524 endgültig niederlässt. Nachdem er sich in die «fraglia» der Maurer und Handlanger hat eintragen lassen, bezieht er Wohnung in der «bottega» des Meisters Giovanni da Porlezza und Girolamo Pittoni da Lumignano, zweier bescheidener Bildhauer und Baumeister (es ist dies die bekannte «bottega di Pedemuro»); und er beginnt als seriöser und planmäßig vorgehender Künstlerin, indem er sich auf die streng nach der Renaissancekunst ausgerichteten Lebre des Pedemuro stützt und diese weiter entfaltet, sei es zunächst durch engen Kontakt mit dem fort-


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schrittlichen peruanischen Milieu von Alvise Cornaro und von Falconetto, sei es wenig später durch solche mit der «archäologischen» Stadt Verona und Michele Sanmicheli. Inzwischen, es ist das Jahrzehnt 1530-40, tritt die Persönlichkeit des Andrea allmählich in Werken in Erscheinung, die gewiss im anonymen Bereich der «bottega» ausgeführt worden sind, aber originelle Akzente offenbaren. Man betrachte das Portal der «Chiesa dei Servi» (1531) und den Palazzo Conti, den Hochaltar und das Grabmal des Bischofs von Schio in der Kathedrale von Vicenza (1534-37-38). Und gerade in dieser Zeit dürften sich bestimmte Beziehungen mit den am meisten fortgeschrittenen Kulturkreisen von Vicenza gefestigt haben, die unter dem herrschenden Einflug von Giangiorgio Trissino stehen. Das literarische Schaffen und die Studien über die italienische Sprache des Letzteren sind übrigens in der betreffenden Zeit besonders fruchtbar. Es geht um eine Idee und eine Kultur, die im wesentlichen auf aristotelischem Gedankengut beruhen, außerdem erfüllt sind von klassischen Reminiszenzen und getragen von Träumen römischer Große. Dazu kommt noch die Vorliebe für kleinstädtischen Partikularismus, die einem Kreis von aristokratischen Prominenzen genehm ist. Diese fühlen sich durch reichsfreundliche Sympathien und gemeinsame antivenezianische Gesinnung verbunden, nachdem die Serenissima sie


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nach der Eroberung des Veneto zu Beginn des 15. Jahrhunderts erbarmungslos jeder wirklichen politischen und entscheidenden Macht beraubt hat. In einer solchen Lage und besonders nach den Wirrnissen des Krieges der «Liga von Cambrai» gehen die vereitelten Bestrebungen der Aristokratie darauf aus, sich mit den wenigen zur Verfügung stehenden Mitteln schadlos zu halten; und eines dieser Mittel, das bevorzugt wird wegen seiner unbestrittenen aufsehenerregenden Wirkung, ist eben jenes der Erneuerung der Stadt («riforma urbana»). Wenn man davon ausgeht, dass das monumentale Antlitz des historischen Zentrums von Vicenza, wenigstens seit der Mitte des 15. Jahrhunderts, sich allmählich Formen, die sich aus dem «gotico fiorito» lagunarer Abstammung ableiten lassen, zu eigen gemacht hatte, bedeutete die Veränderung dieser «Facies» nach «modernen» Kriterien zweierlei: nicht nur, da man sich den neuen Tendenzen eines ruhmvollen Einflusses römisch-toskanischer Prägung anschließen wollte, sondern man versuchte vielmehr, die offensichtlichsten Zeugnisse der Untertänigkeit auszulöschen, indem man hinsichtlich der künstlerischen Ausgestaltung der Stadt - die mit allen Aspekten des Gesellschaf Eislebens immer so eng verflochten ist - jenes Klima der Auflehnung verwirklichte, das auf anderen Gebieten zu verwirklichen nicht möglich war.


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Außerdem schien sich die «renovatio urbis» nach den Richtlinien des Klassizismus des 16° Jahrhunderts und seinen prachtvollen Zeugnissen mit den imperialistischen Bestrebungen vereinbaren zu lassen, gleichsam als wollte man eine ideale Stadt aufbauen, die in allem Caesar würdig ist. Dies alles geschieht aufgrund eines sonderbaren Verhaltens, das anders nicht zu erklären wie, das ständig jeden Versuch ablehnt, das vicentinische Abwehrsystem den Erfordernissen der Zeit anzupassen, treu dem Beschluss der Scaligeri im 13° Jahrhundert, die auf diese Weise über die Wirtschaftsgüter anders verfügten und Vicenza schwach und verlockend beliefen - es lag ja so nahe an den Grenzen Alemanniens, aus dem die letzten Kaiser, von Maximilian bis Karl VI, gekommen waren. Der genaue Zeitpunkt, in dem sich diese «Weltanschauung» dadurch, dafi sie sich in «Kunstwollen» verwandelt, allmählich mit den hervorragenden Fähigkeiten des Andrea di Pietro verbindet, dürfte wohl mit dem Ende der Dreißiger und dem Anfang der Vierziger Jahre zusammenfallen. Es ist die Zeit, in der man ohne befriedigenden Erfolg Alternativwege zu gehen versucht: mit der Berufung nach Vicenza von Sansovino (1538), von Sebastiano Serlio (1539), von Sanmicheli (1541) und Giulio Romano (1542), um die Loggien des Palazzo della Ragione wieder aufzubauen, die 1496 eingestürzt waren. Im Jahr 1537 knüpft Trissino mittels der Fachar-


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beiter des Pedemuro, dem er die Modernisierung seiner Vorstadtvilla von Cricoli in Auftrag gegeben hat, engere und unmittelbare Beziehungen mit Andrea an; von dessen Erfolgen mußte er allerdings schon friber gebohrt haben. Die 1538 erfolgte Verleihung des pompösen Namens Palladio an Andrea, der nun mehr den bescheidenen Vatersnamen aufgegeben hat, in direkter Übereinstimmung mit dem allmächtigen Engel Palladio, von dessen Heldentaten wir aus der «Italia liberata dai Goti» von Trissino erfahren, bestätigt die Tatsache, da der Baumeister ein wahrscheinlich gefügiges Instrument zur Verwirklichung eines spezifischen Programmes geworden ist; es sollte unmittelbar im Lande verbreitet werden infolge einer Politik zußunsten der Grundstücke Investition als direkte Folge der Krisensituation des venezianischen Seehandels. In den Jahren 1540-41, nach einer ganzen Reihe von Studien und Voruntersuchungen über die Pläne von Palästen und Villen, stoßen wir auf den Palazzo Civenna als erstes erwiesenes städtisches Bauwerk des Palladio. Aus derselben Zeit, wenn nicht auch etwas früher, durften die Aufträge für den Palazzo Capra und den Palazzo Da Monte datieren; aus 1541-42 jene der Villen Valmarana von Vigardolo und Gazzotti Marcello von Bertesina; 1542 dürfte mit den Vorarbeiten für den Palazzo Thiene und die Villa Pisani von Bagnolo begonnen worden sein.


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Im Jahr 1543 versucht man ein organisches Experiment der «Erneuerung» der Stadt, wobei diese am 16. September anlässlich des feierlichen Einzugs des Bischofs Niccolo Ridolfi in seine Diözese mittels eines auffälligen, provisorischen «Schmuckes», dessen Anbringung von Palladio geleitet wird, eine feierliche Umgestaltung erfuhrt. Am Anfang des Jahrzehnts, und zwar im Frith Jahr des Jahres 1541, war unter der Schirmherrschaft des Trissino die Übersiedlung nach Rom erfolgt: so wie der spätere längere Aufenthalt im Jahre 1547 wird dieser, auf der Basis der sich bisher angeeigneten Bildung, die logische Vorliebe des Palladio für die Klassik des Raffaello und des Bramante bestätigen. Palladio bemerkt allerdings anscheinend die Krise nicht, die sich vom reifen Michelangelo bis zu den Dilemmen des Manierismus erstreckt. Von diesem Augenblick an wird es aufgrund des eng bemessenen zur Verfügung stehenden Raumes unmöglich, in einer ausführlichen chronologischen Reihenfolge das so reichlich ausgefüllte «Curriculum» durchzugehen. Es beweist, wie der Künstler vier lange Jahrzehnte bis zu seinem Tode (August 1580) ein unermüdlich Schaffender war. Wir müssen uns darauf beschränken, das Werk, das übrigens leicht in typologische Schemata eingeordnet werden kann, in seiner Entwicklung zu verfolgen. Die Stadtpaläste erweisen sich als Varianten eines «Typus», der nach dem Muster von Vitruv, Serlio und Bra-


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mate ausgearbeitet ist, wobei einige wesentliche Merkmale des Veneto beibehalten werden wie z.B. der zentral gelegene Durchgangsraum; das Ganze paft sich aber den Erfordernissen der verschiedensten Umstände an. Wir denken dabei an den Palast für Iseppo Porto (aus dem Jahr 1547 wenn nicht schon früher) mit seiner in eine enge Stadtgasse eingefügten Fassade, an den Palazzo Chiericati (1550-51), der an der Grenze eines der dichtesten und ältesten Stadtviertel angesetzt ist und durch seine «dreidimensionale» Fassade das Häuser Gefüge zum freien Raum des gegenüberliegenden «Largo dell’Isola» avnet. Das sensationelle Projekt des Wiederaufbaues der Loggien des Palazzo della Ragione zeigt uns in den späteren Fassungen (154649), die nicht zufällig gleichzeitig mit der vollständigen Veröffentlichung (1548) des Buches «L’Italia liberata dai Goti» erschienen, einen Baumeister, der den einfacheren Dogmatismus zu meiden vermag und, in völliger Freiheit, der wesentlichen Funktion der Loggien beipflichten: Vervollsténdigung und «moderner» Schmuck und gleichzeitig wirksames statisches Hilfsmittel eines «gotischen» Gebäudes, das unbedingt beibehalten werden muss. Die Ausübung eines ähnlichen «direkten und konkreten Einflusses auf die Wirklichkeit Arbeit, Wirtschaft, Sitten - seiner Zeit» (Rosci) und seines Milieus Spielt man noch deutlicher in der Ausführung der Villen: in den Meisterwerken


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(Badoer in Fratta Polesine, 1550 c.; Emo Capodilista in Fanzolo, 1555-59 c.; Barbaro in Maser, 1558 c.) wird die Symbolik des hierarchischen Privilegs, die der Herrschafts Residenz eigen ist, gepriesen und gleichzeitig schliefen sich ihr die zur Führung des Großgrundbesitzers notwendigen Wirtschaftsgebäude an; dies alles in einer sowohl gewagten als auch einwandfreien Form Synthese, die in mustergültigen Gleichgewicht und mit offenbarer Mühelosigkeit, die nur mit der von Raffaello verglichen werden kann, scheinbar gegensätzliche Erfordernisse vereint. Nur in Einzelfällen - La Malcontenta (1555 ¢.), La Rotonda (1567-68) - wird wieder das Thema der Villa vorgeschlagen, die betontere «humanistische» Distanz hält: diese Distanz wird aber durch die in weiches Licht getauchte Landschaft des Veneto entschärft. Schwieriger zeigt sich das Problem des Kirchenbaues: der unerlässliche Bezug zum in archäologischer Hinsicht neuerlich untersuchten Tempel erweist sich als unzuverlässig und hinderlich; die offen ausgesprochene Vorliebe der Renaissance für die Kirchenbauten mit Zentralbau, die den neuen liturgischen Erfordernissen vor allem im neuen Klima der Tridentinischen Gegenreformation nicht entgegenkommen, gestaltet diesen Bezug noch verwickelter. So gelingt es Palladio nur im kleinen Tempel der Villa Barbaro in Maser, der 1580 erbaut wurde, sich mit einer gewissen Freiheit an die antiken Vorbilder zu


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halten; in S. Giorgio Maggiore (1566) und in Redentore (1577) für Venedig ergeben die aufgezwungenen Schiffe eine perspektivische Langsreibung, die teilweise unvereinbar ist mit dem von den Kuppeln angeregten zentralisierten Bild. An seinem Lebensabend kommt Palladio zur Einsicht, da seine in Angriff genommene Erneuerung nur teilweise geglückt ist: besonders im Bereich der Stadt haben der von der «Tradition» ausgehende Widerstand und vor allem wirtschaftliche Schwierigkeiten und soziale Unruhen zu viele Initiativen mehr oder weniger an ihrer Vollendung gehindert; ein dramatischer Beweis hiefür ist die berühmte «pianta Angelica» von Vicenza, die aus dem Jahr 1580 datiert. Den Ausweg aus diesem Patt findet Palladio auf zwei Arten. Einerseits liefert der Künstler von sich ein «Bild» absoluter Abstraktion, indem er von sich zufällig ergebenden strittigen Auseinandersetzungen abstrahiert; er sammelt in seinem Werk «Quattro Libri dell’Architettura» (Venedig, 1570) die nachträglich überarbeiteten und in Mustern unveränderlicher Vollkommenheit festgehaltenen Projekte der Bauten, deren Werdegang von noch quälenderen Widersprüchen gekennzeichnet war, die den Kampf zwischen den Erfordernissen der Auftraggeber und der Begrenztheit des Raumes widerspiegeln, wobei er sich aufsehenerregenden Absagen der venezianischen Kreise mit keinem


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Wort erwähnt. Andererseits übermittelt das letzte Werk des Palladio, das Theater für die Olympische Akademie, «<Olimpico» genannt (1580), in seiner endgültigen nachgelassenen Gestaltung (durch Scamozzi) von 1585 Gefühl und Bild der «perfekten» Stadt, die niemals hatte verwirklicht werden können, die endlich lebt – wenigstens in der bühnen bildnerischen Fiktion der «cinque vie di Tebe», die hinter dem Triumphbogen des Proszeniums auseinandergehen. Dies, obwohl das «Olimpico» innerhalb der Grenzen eines «akademischen» Kompromisses konzipiert wurde, der, im Vergleich zu zeitgenössischen Bauten Mittelitaliens, eine im wesentlichen «verspätete» archäologische Idee beinhaltet. Das «Olimpico» beendet eine Reihe von spaten Werken, die ihrerseits «entwürdigend» und nonkonformistisch sind und einen Effekt von fast fantastischem Irrationalismus erreichen (Palazzo Valmarana, 1565 und Palazzo Porto-Breganze; Loggia del Capitaniato, 1571). Von hieraus erklärt sich die große Verschiedenheit der späteren Interpretationen von und über Palladio. Palladio, dessen Tätigkeitsbereich besonders die Baustelle war und der in seiner Stadt Vicenza unter ganz bestimmten 6rtlichen und ereignisbezogenen Gegebenheiten wirkte, liefert im spezifischen operativen Bereich des architektonischen «Verfahrens» ein hochwertiges Modell, das zu gültigen Folgeerscheinungen in und außerhalb Italiens


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fort, von Bernini zu Inigo Jones, von den Illuminaten zu Quarenghi; die vollkommenen und «abstrakten» Modelle des Palladio, die von den «Quattro Libri» überliefert und allzu oft auf eine einfache Formel gebracht sowie als anti barock, neoklassisch und nur von der funktionellen Perspektive aus erklärt werden, lassen gerne die breitgefächerte Thematik des Meisters, die ihm aus seiner direkten Erfahrung kommt, zu einem bequemen Stichwortregister zusammenschrumpfen: dies ist der unvermeidliche Auftakt zum Missverständnis, das «palladianesimo» genannt wird.


76 ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI 1 - Il «centro storico» di Vicenza nella pianta prospettica del 1580, detta «Pianta Angelica». Entro quest’ area si sviluppano le grandi imprese edilizie palladiane. 2 - A. Palladio. Palazzo Chiericati: facciata su piazza dell’Isola (ora piazza Matteotti). 3 - A. Palladio. Casa Cogollo. 4 - A.Palladio. Palazzo di Marc’Antonio Thiene: voltatesta tra contra’ S. Gaetano e stradella della Banca Popolare. 5 - A. Palladio. Palazzo di Marc’Antonio Thiene: lati settentrionale ed orientale del cortile. 6 ~ A. Palladio. Logge del Palazzo della Ragione, la cosiddetta «Basilica palladiana»: lati settentrionale e occidentale. 7 - A. Palladio. Palazzo di Marc’Antonio Thiene: sviluppo complessivo secondo la pianta e lo spaccato delineati nella tavola dei «Quattro Libri dell’architettura», L. II, Cap. III. 8 - A. Palladio. Palazzo di Iseppo Porto. 9 - A. Palladio. Palazzo Valmarana. 10 - A. Palladio. Palazzo di Montano Barbarano: scorcio della facciata su contra’ Porti e voltatesta verso contra’ Riale. 11 - A. Palladio. Loggia del Capitaniato: fronte su piazza dei Signori e voltatesta su contra’ del Monte. 12 - A. Palladio. Palazzo Porto-Breganze: i due intercolumni della facciata, nell’esecuzione di Vincenzo Scamozzi. 13 - A. Palladio. Teatro Olimpico: veduta complessiva dell’interno dalla loggia meridionale sopra la cavea. 14 - A. Palladio, Proscenio del teatro Olimpico: dietro le porte si aprono le scene prospettiche di Vincenzo Scamozzi.


77 VERZEICHNIS DER ABBILDUNGEN 1 - Die «Altstadt» von Vicenza im Perspektivplan von 1580, «Pianta Angelica» genannt. Innerhalb dieses Raumes entstehen die großen Bauwerke Palladios. 2 - A. Palladio. Palazzo Chiericati: Fassade auf Piazza dell’Isola (heute Piazza Matteotti). 3 - A, Palladio. Casa Cogollo. 4 - A. Palladio. Palazzo von Marc’Antonio Thiene: Ecke an der contra’ S. Gaetano und dem Weg der Banca Popolare. 5 - A. Palladio. Palazzo von Marc’Antonio Thiene: Nord- und Ostseite des Hofes. 6 - A. Palladio. Loggien des Palazzo della Ragione, der sog. «Palladio-Basilika»: Nord- und Westseite. 7 - A. Palladio. Palazzo von Marc’Antonio Thiene: Gesamtbau nach Plan und Aufriss, die auf der Tafel der «Quattro Libri dell’architettura», Bd. II, Kap. III skizziert sind. 8 - A. Palladio. Palazzo von Iseppo Porto. 9 - A. Palladio. Palazzo Valmarana. 10 - A. Palladio. Palazzo von Montano Barbarano: Ansicht der Fassade auf contra’ Porti und der Ecke an der contra’ Riale. 11 - A. Palladio. Loggia del Capitaniato: Vorderseite auf die Piazza dei Signori und Ecke an der contra’ del Monte. 12 - A. Palladio. Palazzo Porto-Breganze: die zwei Interkolumnien der Fassade, ausgeführt von Vincenzo Scamozzi. 13 - A. Palladio. Olympisches Theater: Gesamt-Innenansicht, von der Sidloggia liber dem Zuschauerraum aus gesehen. 14 - A. Palladio. Proszenium des Olympischen Theaters: hinter den Türen öffnen sich die perspektivischen Szenen von V. Scamozzi.


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DE I DISEGNI che feguono in forma maggiore; il primo è di parte della facciata; il secondo di parte del Cortile della sopraporta fabbrica


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Uber den Palladianismus in Deutschland und Skandinavien sprechen setzt voraus, da es so etwas wie eine Nord-Süd-Achse des Palladianismus gibt, die von Vicenza über die Alpen, durch Deutschland und bis hinauf nach Skandinavien reicht. Natürlich konnte man auch eine andere Achse wählen, um daran die Verbreitung des Palladianismus aufzuzeigen, etwa eine Ost-West-Achse, die von Russland über Skandinavien und England nach den Vereinigten Staaten verläuft. Man konnte auch noch weitergehen, bis nach Indien, und dort die von England herkommenden Spuren Palladios finden, denn, wie sehr treffend gesagt worden ist: “In Palladios Reich geht die Sonne nicht unter”. Wenn ich im folgenden einige Beispiele von Palladianismus an der Nord-Süd-Achse vorstelle, so soll damit auch gleichzeitig etwas deutlicher gemacht


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werden, was Palladianismus eigentlich ist, denn der Begriff ist nicht so widerspruchslos akzeptiert worden, wie es vom Veneto aus gesehen den Anschein haben könnte. Manche bezweifeln, da es einen Palladianismus überhaupt gegeben hat, bzw. da es einen Sinn hat, den Begriff zu brauchen, da er allzu vage sei. Insbesondere sei es schwer, ihn vom Klassizismus abzugrenzen, womit ja beinahe dasselbe gemeint sei. 1) Zunichst muss man sich gegenwärtig halten, dass der Einflug Palladios auf außeritalienische Architekten meistens nicht durch einen Direktkontakt, durch Studium seiner Werke im Veneto, erfolgte, sondern durch die Vermittlung seines theoretisch-praktischen Werkes «I Quattro Libri dell’architettura», Venedig 1570. Es scheint so zu sein, da unser Meister zu seinen Lebzeiten nördlich der Alpen ein völlig Unbekannter gewesen ist. Erst um die Jahrhundertwende, in den Jahren 1598 und 1600 ist der württembergische Hofarchitekt Schickardt zweimal für wenige Tage auf der Durchreise in Vicenza gewesen und hat dort einige der bedeutendsten Werke Palladios, darunter das Teatro Olimpico, zeichnerisch aufgenommen. Etwas später kam sein berühmterer Zeitgenosse, der Augsburger Architekt Elias Holl ins Veneto.


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2) Aber weder bei dem einen noch bei dem anderen hat sich die unmittelbare Kenntnis von Palladios Werken in den eigenen Entwürfen niedergeschlagen, keinen von ihnen kann man als Palladianer ansprechen. Trotzdem wird der erste Schritt in diese Richtung in Augsburg getan, das schon immer intensive wirtschaftliche und kulturelle Kontakte mit Venedig hatte. Ein Holzmodell von 1607 zu einem kommunalen Versammlungslokal, einer Art von Palazzo Comunale, das zusammen mit noch einem weiteren, in Augsburg verwahrt wird, zeigt deutlich den Einflug der vicentinischen Basilika, besonders im Untergeschoß (Abb. 1). Das Obergescho mit seinen übergiebelten Fenstern erinnert dagegen an Fassaden von Renaissance-Palasten am Canal Grande. 3) Wahrend das Untergeschoß also aus den “Quattro Libri” kopiert sein könnte, würde das Obergeschoß eigentlich die Kenntnis des venezianischen Milieus voraussetzen. Das von den beiden manieristischen Künstlern, Joseph Heintz d. A. und Mathias Kager, hergestellte Modell, wurde leider nicht für ein Gebaude in Augsburg benutzt, so dass auch dieser greifbare erste Ansatz noch keine architekturgeschichtlichen Folgen zeitigte. Was nun die Bedeutung der Quattro Libri für die allmähliche Entstehung eines europäischen Palladianismus betrifft, so muss man sich davor hüten,


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dieses Werk sozusagen pauschal als dessen Quelle zu bezeichnen, denn jedes einzelne der vier Bücher oder Stücke zielt in eine andere Richtung und hat dementsprechend auch verschiedene Folgen in der europäischen Architektur gezeitigt. 4) Das Primo Libro handelt von den Regeln der guten Baukunst, den fünf Säulenordnungen und anderen grundsätzlichen Fragen. Die wichtige Materie der fünf Ordnungen war bereits seit Bramante nach Form und Bedeutung kodifiziert worden. Auf diesem Gebiet durfte Palladio keine Originalität beweisen, sondern musste sich an Vitruv und die neueren Autoritäten anschließen, z.B. an die Architektur-Bücher Serlios und Vignolas, denen sein Primo Libro auch äußerlich ähnlich sieht. Darin besteht das klassizistische Element, das selbstverständlich auch in Palladios Architektur enthalten ist und sie mit pragt. Aber deswegen darf man Palladianismus und Klassizismus nicht gleichsetzen: das klassizistische Element, vor allem also die Ordnungen mit ihren Proportionen und Ornamenten, ist dem ganzen Zeitalter gemeinsam: Renaissance, Manierismus, Barock und Klassizismus kommen ohne sie nicht aus, sie sind nichts für Palladio Spezifisches, und insofern ist Palladio weder mehr noch weniger «Klassizist» als irgend ein anderer Architekt des vitruvianischen Zeitalters.


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Palladios Quarto Libro über die römischen Tempel gehört in gewisser Weise mit dem Primo Libro zusammen, indem es sozusagen die Regeln der klassischen Architekturam konkreten Beispiel zeigt. Dabei hat Palladio allerdings nicht wie ein Archäologe gehandelt, sondern er stellt die antike Baukunst als eine intakte Welt dar, die noch zu brauchen ist, so als wenn die Romer ihre Tempel eben erst verlassen hatten. Diese heilen Tempel sind also mehr oder weniger seine Schépfungen, Renaissance-Bauwerke, an denen der Leser des Quarto Libro lernt, wie er sich der Antike für seine neuen Schöpfungen bedienen kann. Ganz anders nun das Secondo Libro. Es enthalt in Grundrif, Aufriss und Schnitt die verschiedenen Bauwerke, die Palladio selber gebaut oder wenigstens geplant hat. Die acht Palaste und zwanzig Villen haben vieles miteinander gemeinsam, sie haben den gleichen persönlichen Stil, aber sie sind doch auch alle untereinander verschieden. Palladio spricht selbst davon, da der Architekt «varietà» praktizieren muss, d.h. er hat seine eigenen Werke nicht vorgestellt, damit sie genau wiederholt oder nachgeahmt, sondern damit sie variiert werden. So haben die schöpferischen Palladianer diese Quelle auch verstanden. Das Terzo Libro schlielich handelt von den Strafen, Plitzen und öffentlichen Gebaduden, darunter der Basilika in Vicenza, die, wir haben es schon gesehen, in Augsburg auch


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nicht nachgeahmt, wohl aber als Anregung benutzt worden ist. Der Palladianismus steht also auf einem breiten Fundament, was natürlich auch zu Missverständnissen und auf Holzwege führen kann. Er besteht erstens aus den Regeln des Primo Libro, woraus sich unter Umstanden blo ein uninteressanter Klassizismus entwickeln kann. Zweitens besteht er aus den Werken selberim Veneto, die man zum Vorbild nehmen und nachahmen kann, wobei die Gefahr besteht, ein so unnachahmliches Werk wie die Villa Rotonda unschöpferisch zu wiederholen. Drittens gehört zum Fundament des Palladianismus die varietà, wie sie im Secondo Libro dargestellt ist am Beispiel nicht eines Palastes oder einer Villa sondern vieler, die zwar alle zum selben Typus gehören, aber gleichzeitig Entfaltungen mit sehr verschiedenen Erscheinungsbildern sind. So mannigfaltig war also das Lehrgebaude, in Werk, Wort und Bild, das Palladio der Nachwelt hinterlassen hat. Nach diesen Vorbemerkungen wollen wir nun die Geschichte des Palladianismus zu umreißen versuchen. Sie fangt merkwürdigerweise nicht in Deutschland an, sondern, wenn wir uns nur auf die Nord-Süd-Achse konzentrieren, in Schweden. Das hat aber ganz natürliche Gründe, denn 1618 brach der Dreiftigjahrige Krieg aus, der Deutschland wirtschaftlich vernichtete. In den dreißiger Jahren


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und fast bis ans Ende des Jahrhunderts wurde in Mitteleuropa kaum etwas Großes gebaut. Dahingegen profitierte das perifare Schweden durch die Eroberungen Gustaf Adolfs und seiner Nachfolger vom Krieg. Der Adel, der die schwedischen Heere auf deutschem Boden angeführt hatte, kam zum erstenmal mit der Wohnkultur Mitteleuropas in nähere Bertihrung und wollte nun ebensolche Schlösser in Stockholm und auf dem Lande haben. So kam es in Schweden zu einer wahren Blütezeit der Baukunst. Seit den 1640er Jahren, noch ehe der Krieg zu Ende war, wurden zahlreiche Paläste in Stockholm und große Landsitze in der Provinz gebaut, die nun ganz deutlich von einem palladianischen Stil geprägt sind. Er entstand aber nicht etwa so, darf nun Architekten aus dem Norden nach dem Veneto gereist waren, um sich die Werke Palladios anzusehen. Er entstand auch nicht nur durch das Studium der Quattro Libri, sondern er kommt fertig vom Westen her nach Schweden, aus Holland, wo es schon etwas früher einen Palladianismus gegeben hatte. Wahrscheinlich frühestes Beispiel in Stockholm ist der Palast des Louis de Geer. Der Auftraggeber war selbst Holländer. Er war Waffenhandler und versah die Heere Gustaf Adolfs mit Waffen, denn die beiden protestantischen Nationen hielten im Krieg zusammen. Man sieht einmal ganz konkret, dass Protestantismus und Palladianismus eine gewisse Affinität zueinan-


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der haben. Sie verhalten sich beide dem römischen Barock gegenüber ablehnend. Louis de Geer fand es vorteilhaft, seine Kriegsgewinne in Stockholm zu verzehren und lief sich wahrscheinlich von einem Landsmann seinen Palast errichten. Er ist eine etwas einfachere Variante des Mauritzhuis in den Haag, das Jacob van Campen 1633 für Johann Moritz von Nassau erbaute. 5) Beide haben die auch von Palladio bevorzugte groe jonische Pilaster-Ordnung, sieben Fensterachsen und einen Dreiecksgiebel über den mittleren drei Achsen. Der Giebel hat hier keine Giebel Funktion sondern ist nur das Würdezeichen für ein adliges Haus. An den vicentinischen Palasten kommt diese Verwendung des Giebels nicht vor. Hier haben wir es also schon mit einer Weiterentwicklung von Palladio zum Palladianismus zu tun, d.h. nicht mit Nachahmung, sondern mit einem Resultat der «varietà». Ein prachtigeres Beispiel desselben Stils in Stockholm ist das Versammlungshaus des Adels (Riddarhuset), das auch in den 1640er Jahren begonnen wurde, aber eine lange Bauzeit gehabt hat. 6) Die Wandgliederung ist hauptsächlich dem Holländer Justus Vinck boons zu danken, der sich um 1650 in Stockholm aufhielt und dann später das


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Trippenhuis in Amsterdam erbaute, ebenfalls ein Beispiel des holländischen Palladianismus. Beim Stockholmer Adelshaus ist die jonische Ordnung, die Palladio selbst meistens bevorzugte, und die überall im Palladianismus die tibliche ist, transponiert in die gröbere Pracht der korinthischen Ordnung. Diese entspricht besser dem politischen Stil, der sich um die Mitte des 17° Jhs. in Schweden unter dem Adel ausbreitete und dann in den Absolutismus führte. Bezeichnenderweise ist das Kénigliche Schlof in Stockholm nach dem Brand von 1697 in römischem Barock wiederaufgebaut worden, in einem berninesken Stil: Absolutismus und Palladianismus scheinen sich weniger gut miteinander zu vertragen. Palladios Architektur war das Vorbild für Aristokratie und Grofbürgertum, was besonders im 18. Jh. in England sehr deutlich zu sehen ist. Der Absolutismus, besonders wenn er seine Macht ostentativ darstellen wollte, brauchte dazu römische Formen und die Pracht der korinthischen Ordnung. Der Palaststil mit der großen Ordnung und dem Giebel über der Mitte ist in Schweden ohne Bedenken auch für Landsitze verwendet worden. Man griff nicht auf Palladios Villen zurück, sondern reduzierte stattdessen das Format der Palastfassade. Dadurch entstand der Typus eines Herrenhauses, das im Norden mehr als ein Jahrhundert grund-


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sätzlich unverändert seine Modernität behielt. Das Landhaus Fulleré bei Vasteras, um 1750 von einem unbekannten, einheimischen Architekten entworfen, ist ein schönes Beispiel dafür (Abb. 2). Das Schema ist leicht wiederzuerkennen: Sieben Achsen, Pilaster durch zwei Geschosse, also sogen. «große Ordnung», Dreiecksgiebel über den drei mittleren Achsen. Früher war das Haus auf dem Wasserwege von Stockholm aus am bequemsten zu erreichen, eine Situation, welche die schwedischen Landsitze oft mit den Villen im Veneto gemeinsam haben, die man wenn möglich auch so anlegte, da sie von Venedig aus zu Schiff erreichbar waren. Das Landhaus Fulleré ist, wie viele ähnliche Hauser in Schweden, ganz aus Holz. Das Thema «Palladio in Holz» müsste einmal besonders behandelt werden. So wie Palladio seine Architektur in seinem Secondo Libro wiedergibt, hat sie keine materielle Substanz. Sie ist in Stein gedacht, in Wirklichkeit aus Backstein und Putz erstellt und dann auf dem Papier so dargestellt, da8 man nicht ohne weiteres wissen kann, in welchem Material sie eigentllich realisiert werden soll. Es war also gar nicht abwegig, seine Entwürfe dem nationalen Baumaterial, Holz, anzupassen. In Amerika hat man das ja auch getan. In Schweden kommt dann oft noch der traditionelle rote Anstrich dazu, der das Holz konserviert, wobei allerdings das gliedern de System wei gestrichen wird. Manchmal kommen Material


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und Form in Konflikt miteinander, etwa bei den segmentfärmigen Fensterüberdachungen, denn runde Flächen gehören grundsätzlich nicht zur Entwurfspraxis in Holz. Bis dahin wissen wir nichts darüber, ob schwedische Architekten wirklich im Veneto gewesen sind. Wahrscheinlich haben sie sich mit den «Quattro Libri» oder mit der in Holland so populären “Idea della Architettura universale” von Scamozzi begnügt. Die erste dokumentierte Studienreise eines Schweden nach dem Veneto erfolgte immerhin schon 1656-57: Damals hielt sich der Festungsbaumeister, Architekt und Topograph Erik Dahlberg, zusammen mit dem Maler Klécker-Ehrenstrahl, in Venedig auf und zeichnete bedeutende Bauwerke des Cinque- und Seicento ab, darunter Palladios Kirchen. 7) Dahlberg hat dann später mehrere Jahrzehnte an einem topographischen Tafelwerk, “Suecia antiqua et hodierna” gearbeitet, einer Art von “Vitruvius Britannicus”, das mit ungefähr 300 Veduten bedeutender Bauwerke im Königreich Schweden 1716 posthum herauskam. Es ist eine unschätzbare Quelle für unsere Kenntnis der Architektur in Schweden, als das Land noch eine europäische Großmacht war und es den großen Nationen auch in der Baukunst gleichtun wollte. Darin figuriert als ein für unser Thema interes-


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santes Objekt das Landhaus Oster Malma, nicht weit von Stockholm wiederum am Wasser gelegen (Abb. 3). Wir sehen ein kubisches Haus, an allen vier Seiten beinahe gleich gestaltet, mit je einem Giebel über der Mitte der Wand, und oben im Zentrum ein turmartiges Belvedere, wo man sich wohl eine Kuppel erwartet hatte. Im Zentrum hat diese «Villa» zwar keinen Saal, aber trotzdem erinnert der duRere Eindruck unweigerlich an ein illustres Vorbild, die Villa Rotonda bei Vicenza, vermittelt freilich schon durch andere, vornehmlich holländische Zwischenglieder. Die um 1660 erbaute Villa wurde entworfen von Jean de la Vallée, einem aus Frankreich stammenden, aber bezeichnenderweise über Holland eingewandertem Architekten, der in Schweden der Hauptvertreter dieses rustikalen Palladianismus wurde. 8) An den vielen Nachfolgern der Villa Rotonda kann man vielleicht am besten ablesen, welches Schicksal der Palladianismus in der Geschichte der Architektur gehabt hat. Sie war eben eine pragnante Erfindung, die man entweder einfach nachahmen konnte, oder die man mit ganz besonderer Erfindungsgabe zum Ausgangspunkt einer neuen Schöpfung machen mußte. Der schwedische Architekt Nicodemus Tessin dJ. ließ 1714 Ludwig XIV. in Versailles seinen Entwurf zu einem Apollo-Tempel unterbreiten, der auch


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eine Weiterentwicklung aus dem Schema der Rotonda heraus darstellt. 9) Ludwig starb im selben Jahr und hat den Entwurf wahrscheinlich nie zu Gesicht bekommen. Auch hatte wohl in Frankreich niemand daran gedacht, ihn zu verwirklichen, ganz abgesehen davon, dass das Zeitalterdes Absolutismus seinen Höhepunkt schon liberschritten hatte. Der Apollo-Tempel sollte ein Pendant zum Schloss von Versailles werden und am Ende des großen Teiches stehen, wo sich die Achse des Parks in die offene Landschaft verliert. Tessin, der Frankreich gut kannte, meinte wohl, dass diese Achse vom Schloss aus gesehen einen architektonischen Fixpunkt brauchte. Ludwig wurde mit Apollo gleichgestellt und geno auch im absolutistischen Schweden große Verehrung bei Hofe, deshalb war es gar nicht so verwunderlich, da der nordische Architekt auf die Idee kam, dem neuen Apollo einen Tempel errichten zu wollen. So wurde die palladianische Rotonda zum Ausgangspunkt für einen Tempel, in dem der König der Musen und der Wissenschaften verehrt werden sollte. Ein ganzes Programm sinnbildlicher Skulpturen gehört zu dem Entwurf, Musen und Tugenden, die alle dem Sonnenkönig huldigen. Im Inneren sind die Wande mit großen Spiegeln ausgekleidet, die wahrscheinlich an die Spiegelgalerie im Schloss


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am anderen Ende des Teiches erinnern sollen, und in der Mitte ist ein Becken mit einer Fontaine. Von Palladios Rotonda sind noch det quadratische Umrig, der kreisrunde Saal und die Kuppel übrig. Der Baukörper ist aber durch Vor- und Rücksprünge im Sinne des Barock plastisch artikuliert worden, was der Art Palladios widerspricht, bei seinen Villen glatte Wände und einfache Formen zu zeigen. Barock und Absolutismus können zwar aus Palladio etwas Neues machen, aber dabei entfernen sie sich eben doch sehr weit von dem Ursprung, so da der Einfluss sich entweder auf das ganz Allgemeine oder bloß auf das Einzelne beschrankt. Inzwischen regte sich nun aber doch die Baukunst auch in Deutschland wieder. In dem neuen Staatswesen Brandenburg-Preufen entstanden bedeutende Bauwerke, z.B. das Schlof in Charlottenburg bei Berlin. 10) Sein Architekt J.A. Nehring mute 1695 seine Plane dem schwedischen Hofarchitekten Tessin zur Begutachtung einreichen - man sieht, die NordSüd-Achse war eine Realität. Uns interessiert nur der ursprüngliche Kern der im 18° Jh. bedeutend erweiterten Anlage, das einstige Jagd- und Lusthaus (Abb. 4). Wir erkennen daran das Schema des palladianischen “Sockelhauses” mit rustiziertem Erdgeschof, piano nobile mit korinthischen Halbsaulen


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als große Ordnung, Mittelrisalit von drei Achsen mit Giebel darüber. Das sichtbare Walmdach und die Kuppel auf hohem Tambour weichen allerdings vom Schema ab, im Grundnf auch der ovale Saal, der aus der französischen Architektur des 17° Jhs. kommt. Dazu noch ein weiteres Beispiel aus der Architektur des preußischen Absolutismus, das Berliner Zeughaus, auch von Nehring angefangen, von Andreas Schlüter und anderen um 1700 weitergebaut. Hier hat man wieder den rustizierten Sockel, das mit einer Ordnung ausgezeichnete piano nobile und einen Giebel über den mittleren drei Achsen. Wieder kann man sagen, das sei ohne Palladio nicht denkbar, aber es ist natürlich etwas ganz Neues daraus entstanden, Mit der dorischen Ordnung und dem plastichen Schmuck lat der Barock sozusagen die Muskeln spielen. 11) Für ein Arsenal oder sonst martialische Bauten hatte auch die Generation Palladios die Dorica gewählt, man vergleiche die wehrhaften Stadttore Sanmichelis in Verona, aber es wäre nicht so plastisch und dekorativ geschehen, sondern ernster und einfacher. Dazu kommt die Breitenausdehnung, 19 Achsen statt der bei Palladio täglichen 7 oder höchstens einmal 11, das ist eine Überdehnung, die nur durch plastische Behandlung des


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Baukörpers davor bewahrt werden kann, monoton zu wirken. Es gibt noch andere Einzelheiten, die der Barock aus dem Lehrgebaude Palladios entnehmen konnte, und zwar die Innenarchitektur betreffend. Palladio hatte aus dem 6° Buch Vitruvs gewisse Räume des antiken Hauses rekonstruiert und in seinem Secondo Libro im Anschluss an seine eigenen Hauser in Text und Bild dargestellt. Darunter war das Atrium des römischen Hauses in seinen verschiedenen Varianten. Palladio selbst hat mehrfach das «Atrio di quattro colonne» in seinen eigenen Bauwerken verwendet, z.B. im Palazzo baute Augustinerinnen-Kirche S. Maria Nuova, wahrscheinlich von Domenico Gruppino. Hier kann man sehr gut sehen, wie ein lokaler Baumeister Palladios Vorschlag wörtlich genommen und die Saalkirche fast genau nach dessen Vorschrift entworfen hat. Nun haben aber die Architekten des Barock solche Prachtsäle im Zentrum ihrer gro8en Schlösser gebraucht, und mußten sich also nach Richtlinien dafür umsehen. Nichts war natürlicher, als dass man wieder Vitruv und Palladio befragte. Sehen wir uns daraufhin den berühmten Kaisersaal in der Würzburger Residenz an (Abb. 7). Selbstverständlich fallen zuerst Tiepolos Fresken und der reiche Stuck auf, die alle Wände und die Decke überspielen und dem Saal unzweifelhaft einen Rokoko-Effekt geben. Aber man darf doch


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nicht vergessen, da das architektonische Gerüst, das diese ganze Dekoration tragt und in Ordnung halt, vom Architekten Balthasar Neumann entworfen war. Schon 1742 war die architektonische Innenausstattung fertig, bestehend aus großen korinthischen Säulen mit Figuren-Nischen in den Interkolumnien, wobei sich Breite zu Lange wie 3 zu 5 verhalten, Das merkt man nicht gleich, weil die Interkolumnien an den vier Ecken nach barockem Brauch schräg gestellt sind, aber mir scheint gar kein Zweifel möglich, da sich Neumann hier am Raumtypus der Sala Corinzia orientiert hat. Übrigens hatte der antike oecus corintius kein Exterieur, weder Vitruv noch Palladio haben sich darüber geäußert, der Saal war einfach irgendwie in den Umrif des Hauses eingeschrieben. Im Barock ließ man ihn nun auch äußerlich hervortreten, weil er ja der Prachtsaal war, in dem sich alle Repräsentation abspielte. An der Würzburger Residenz gibt sich deshalb der Kaisersaal an der Gartenseite mit seinen fünf Fensterachsen und mit korinthischen Säulen deutlich als Hauptraum im Gesamtvolumen zu erkennen. Der Architekt mußte also, ausgehend von der vitruvianisch-palladianischen Anregung, auch selbst etwas dazutun, in diesem Falle zu einem Prachtraum ein entsprechendes Exterieur erfinden. Die Stilgeschichte ist vielleicht zu schnell bereit, Grenzen zwischen der Renaissance Palladios und dem Barock Neumanns zu sehen. Eine


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Ikonographie der Architektur, welche das Leben und den Sinn der Formen durch die Jahrhunderte, von der Antike bis in den Barock und noch darüberhinaus verfolgt, verkennt nicht die gemeinsame Wurzel, bei erscheinungsbildlich sehr verschiedenen Werken. Im Zeitalter des Klassizismus, seit der Mitte des 18° Jhs., verlieren Palladios Architektur und sein Lehrgebäude ihre Aktualität nicht, auch wenn die Einflüsse sich jetzt anders auswirken. In Preußen beginnt eine neue Zeit mit Friedrich dem Großen. In den 1740er Jahren lief er dem Charlottenburger Schloss nach Osten durch seinen Hofarchitekten G.W. von Knobelsdorff einen sehr langen, im AuSeren ziemlich monotonen Flügel anfügen. Nur in der Mitte treten 5 Achsen deutlich betont hervor, und man kann schon ahnen, dass dahinter der große Saal liegt. Im Inneren kann man sich davon ö über zeugen, dass dieser sog. «Weife Saal» tatsachlich ein durch eine korinthische Pilasterordnung im Verhältnis 3 zu 5 proportionierter Raum ist, der trotz einer gewissen klassizistischen Kithle eindeutig Palladios Rekonstruktion der Sala corinzia nachgebildet ist. Friedrich der Große war mit dem französischen Rokoko aufgewachsen, wovon die Inneneinrichtung seines Lieblingsschlosses Sanssouci in Potsdam zeugt. Aber in der Mitte des Jahrhunderts änderte sich plötzlich sein Geschmack.


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1740 hatte Friedrich den venezianischen Grafen Francesco Algarotti nach Potsdam berufen, und dieser setzte sich nun mehr für die italienische Kunst am Hofe ein. Er belieferte den König auch mit Architekturbüchern, darunter den “Quattro Libri”. Die Folge davon war, da Friedrich nun den Befehl gab, die Fassaden der Bürgerhäuser in der Garnison-Stadt Potsdam nach italienischen, darunter vorzugsweise vicentinischen und veronesischen Mustern zu gestalten. 14) In einer Stadt, in der es nur Bürger und Militär, aber kaum Adel gab, wurden zwangsweise Palastfassaden, sei es auch in vereinfachter und meist verkleinerter Form, eingeführt. Dafür gibt es auch heute noch, obgleich der Bestand durch den letzten Krieg dezimiert worden ist, einige interessante Beispiele. Wiederhergestellt ist z.B. das Exterieur des ehem. Rathauses in Potsdam, das der Architekt Johann Boumann 1753 errichtete. Er verwendete dabei das Fassadenschema des Palazzo Angaran aus Palladios Secondo Libro. Dieser Palast war für Vicenza bestimmt, wurde dort aber nie gebaut. Fast zwei Jahrhunderte später konnte also diese Fassade, verringert um 2 Achsen noch immer als Muster dienen und sogar einem ganz neuen Zweck-Rathaus statt Adelspalast-dienstbar gemacht werden. Der Potsdamer Architekt


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hat einen Turm hinzugefügt, denn nach deutscher Vorstellung müsste ein Rathaus einen Turm haben. Zum besonderen Klassizismus im Zeitalter Friedrichs des Großen gehört auch die Berliner Oper an der Prachtstrafe Unter den Linden (Abb. 8). Sie wurde 1741-43 von Knobelsdorff erbaut, im Inneren immer wieder verändert, auerlich aber immer so wiederhergestellt, wie sie von Anfang an war. Die Hauptfront mit dem Portikus auf hohem Sockel und dem Giebel darüber verleugnet nicht ihre Herkunft aus der Villenarchitektur Palladios. Auch die Figuren in den Nischen und auf dem Giebel kommen von daher, sei es auch, da Knobelsdorff statt der Quattro Libri hier eher noch den “Vitruvius Britannicus” konsultiert hat. Der Operntempel war It. Inschrift von “Fridericus Rex Apollini et Musis” geweiht, das erklärt wohl die größere Pracht des korinthischen Stils an diesem Exterieur. Für fürstliche und öffentliche Bildungsbauten scheint sich auch sonst der Palladianismus empfohlen haben. Das sieht man z.B. am Museum Fridericianum in Kassel, von Simon Louis du Ry 1769 begonnen. 15) Man hat das Gefühl, daf sich der Palladianismus, der einmal vom Barock integriert gewesen war, jetzt aus diesem Griff wieder befreit und im klassizistischen Sinne gereinigt neu in Erscheinung tritt. Das geschieht auf unserer Nord-Süd-Ac-


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hse meist mit Hilfe des inzwischen weit verbreiteten englischen Palladianismus. Der L. andgraf Friedrich II von Hessen-Kassel, der Auftraggeber des Museums, war mit einer Tochter Georgs I. von England verheiratet. Er war ein aufgeklarter Herrscher, und die Aufklarung war ja in fast ganz Europa anglophil und damit automatisch auch palladianisch gesonnen. Aufklarung und Palladianismus sind geistesverwandt miteinander, daher jetzt der jonische Portikus und die große jonische Pilasterordnung am Museum Fridericianum. Da man neuerdings die Musterentwürfe eines Franzosen, J.F. Neufforge, als Vorbilder für dieses Bauwerk herangezogen hat, ändert nichts an dem palladianischen Gesamteindruck, denn auch die französischen Architekturlehrer sind seit der Mitte des 18° Jahrhunderts wieder an Palladio interessiert, selbst sog. Revolutionsarchitekten wie Ledoux. Im Klassizismus wurde auch das Teatro Olimpico wieder aktuell, nachdem das barocke Theater eine ganz andere Entwicklung genommen hatte. Goethe war 1786 im vicentinischen Theater und fand es “unaussprechlich schön”, wenn auch für moderne Theaterzwecke nicht mehr zu gebrauchen. 16) Schon 1783 war ein schwedischer Architekt, Erik Palmstedt in Vicenza gewesen und hatte in seinem Tagebuch Palladio den “Prince de Parchi-


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tecture” genannt. Auch er hatte das Teatro Olimpico über alle Maen gelobt, und als ihm sein König Gustav III, der schwedische “Musenkönig”, den Auftrag gab, im Schloss Gripsholm ein kleines Schloss-Theater einzurichten, erinnerte er sich gleich des Teatro Olimpico. 17) Das lag insofern nahe, als das Theater in einem sehr massiven runden Turm aus dem Mittelalter plaziert werden mußte. Der ganz kleine Zuschauerraum wurde amphitheatralisch aufgebaut und oben mit einem Saulenkranz abgeschlossen, so wie es auch in Vicenza ist (Abb. 9). Übrigens steht dieses Hoftheater in der Nachfolge Palladios nicht alleine da. In der Eremitage in Petersburg errichtete Giacomo Quarenghi gleichzeitig für die große Gegnerin Gustavs III, die Zarin Katharina d. Gr. ein Schlosstheater verwandter Art. Um noch einen Augenblick in Schweden zu bleiben, so lässt sich feststellen, da auch in der feudalen und großbürgerlichen Zivilarchitektur der Palladianismus wieder Boden gewinnt und neben dem strengen Klassizismus einen unverwechselbar eigenen Charakter behale. Das lässt sich an der Villa Elghammar zeigen, die 1809 etwa 60 km von Stockholm entfernt erbaut wurde, auch wieder an einem See, allerdings mit der Eingangsfassade dem


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Land zugewendet (Abb. 10). Diese Villa hat einen fünfachsigen jonischen Pseudoportikus mit Giebel und im rechten Winkel zum Hauptbau zwei Flügel, die über der Mitte auch kleine Giebel tragen. 18) Die Geschichte dieses Hauses ist merkwürdig international: Der Auftraggeber war der schwedische Diplomat Graf von Stedingk, der um 1800 schwedischer Gesandter in Petersburg war. Er beauftragte dort den bedeutendsten Architekten Giacomo Quarenghi, ihm ein Landhaus zu entwerfen, was dann in Schweden gebaut wurde. 1875 ging es in den Besitz des Herzogs von Otranto über, der ein Nachfahre des berüchtigten französischen Polizeiministers Fouché war: Wenn man diese Geschichte summiert - Schweden, Ru8land, Italien, Frankreich - dann ahnt man etwas von der europäischen Geltung des Palladianismus auch noch in dieser Zeit. Wenn man nach 1800 palladianische Bautypen wieder aufgriff, so brauchte das nicht immer in klassizistischer Einfachheit zu geschehen. Ein pompöses Beispiel für die Wiederverwendung der Villa Rotonda ist die Nikolai-Kirche in Helsinki. Sie bildet die Krone in einem ganz neuen Stadtzentrum, das nach der Loslösung Finnlands von Schweden entstand. Der Architekt Carl Ludwig Engel war von Berlin über Petersburg, wo er die Werke Quarenghis kennengelernt hatte, nach Helsinki gekom-


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men und begann die Planung der Kirche 1818. Ihr Grundrif ist ein griechisches Kreuz, und vor jedem Kreuz arm steht ein sechssauliger korinthischer Pronaos, d.h. die mittlere jonische Ordnung der Rotonda ist in die einer Kirche angemessenere korinthische Pracht hinauftransponiert. Auf einem hohen Tambour erhebt sich in der Mitte eine Kuppel. Durch spatere Anderungen - die Anlage der großen Freitreppe und die Pavillons an den Ecken - ist der Eindruck schließlich schon beinahe neobarock geworden. Zum Schluss möchte ich noch auf ein paar weitere Varianten der Villa Rotonda im spaten Klassizismus hinweisen, um deutlich zu machen, wie dieses oft geistlos nachgeahmte Beispiel palladianischer Architektur doch noch Anlass zu interessanten Neuschöpfungen geben konnte. Zuerst die Villa Baur, das sog. “Elbschßchen” in Altona bei Hamburg, von dem dänischen Architekten Christian Fredrik Hansen. Diese Gegend war damals noch dänisch, und Hansen wirkte hier 20 Jahre als Landbaumeister. Von Altona bis Blankenese baute er an der Elbe entlang viele schüne Hauser und Villen für Hamburger Großkaufleute - Adel gab es dort nicht. Die Hamburger Kaufleute ließen ihre Schiffe auf den Weltmeeren fahren und erbauten sich ihre Hauser an einem Wasserweg: Die Situation erinnert deutlich an diejenige der seefahrenden venezianischen Patrizier, die sich ihre Hauser und Vil-


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len an der Brenta erbauen ließen. Die Villa Baur hat einen quadratischen Grundrif mit einem kreisrunden Saal in der Mitte, der mit einer flachen Kuppel bedeckt ist (Abb. 11). Das Vorbild der Rotonda scheint noch durch, obwohl der Stil ein anderer ist: Der einfache Kubus, in den ein Zylinder eingesenkt ist, spricht von der Stereometrie der sogen. Revolutionsarchitektur, die das Vorbild wesentlich modifiziert hat. Das tut auch die Kargheit des Exterieurs mit dem in die Flache eingezogenen Portikus, der zwar immer noch jonisch ist, aber nicht mehr als selbstandiges. Glied vor die Fassade tritt, sondern sich nur noch als Durchlag in den geschlossenen Baukérper darstellt. Die rechts vom Eingang gelegene ovale Treppe ist wiederum ein palladianisches Detail - Hansen, den man den “Palladio des Nordens” genannt hat, erweist sich mit diesem und anderen Häusern als ein Architekt, der ganz im Stil seiner Zeit entwirft, aber dabei das Erbe seines großen Vorbildes mit einsetzt. 19) Wenn man vom Norden Deutschlands in den Süden geht, kann man auch dort ähnliche Erscheinungen finden. Dort spielte Karl von Fischer. 20) eine ähnliche, wenn auch nicht so beherrschende Rolle wie Hansen in Hamburg-Altona. Die 1812 von ihm erbaute Villa Hompesch existiert lei-


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der nicht mehr. Nach Umbauten im Laufe des 19. Jhs. wurde sie im zweiten Weltkrieg zerstört. Ihr Grundrif bestand wieder aus einem Quadrat, in das ein Kreis eingeschrieben war. Auch hier erhob sich über dem zentralen Saal eine flache Kuppel. Das Quadrat des Grundrisses war auf eine einfache und praktisch brauchbare Ast in quadratische und rechteckige Raume eingeteilt. Statt des großen Portikus befand sich hier an der Eingangsseite eine jonische Arkade, auf die man durch seitliche Rampen mit dem Wagen gelangen konnte. Man darf wohl behaupten, da hier die von Vitruv und Palladio für alle gute Baukunst verlangten Grundeigenschaften von “utilitas” und “venustas” noch einmal eine geglückte Verbindung eingegangen waren. Im 20° Jh. kann man keine Hauser mehr bauen, die sich sofort als Nachahmungen der palladianischen Rotonda zu erkennen geben würden. Aber man kann immer noch - oder sollte man richtiger sagen: heute wieder? - Grundrisse und Aufrisse entwerfen, die Grundsätzliches von dem einmaligen vicentinischen Vorbild übernehmen. Bei einem nordischen Wettbewerb um neue Formen für freistehende Einfamilienhäuser gewann 1964 der norwegische Architekt Sverre Fehn mit einem nach seiner eigenen Aussage von der Rotonda inspirierten Entwurf, der im schwedischen Norrköping auch verwirklicht wurde (Abb. 12). Der Grundrif dieses


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originellen Hauses stellt ein griechisches Kreuz dar. Die Kreuzarme vertreten die Stelle der Portiken. In ihnen liegen die Wohn- und Schlafraume. Die Mitte, die wie ein zentraler Saal von oben erhellt wird, wird von der sog. Nasszelle eingenommen, d.h. Küche, Bad und Toilette, ein höchst profaner Ersatz für den kreisrunden Saal der Rotonda. Am Exterieur ist die Ahnlichkeit mit dem Urbild gering. Man mu schon um das Haus herumgehen und die erhöhte Mitte als eine Art Erinnerung an die Kuppel betrachten, um die Rotonda wiederzuerkennen. Aber darauf ist es dem Architekten ja auch gar nicht angekommen. Er wollte ein Haus, das skandinavischen Wohngewohnheiten entspricht: Die Küche als Zentrum der häuslichen Gemeinschaft in die Mitte stellen und die anderen Raume um sie herum anordnen, dabei trotzdem einen prägnanten Umrif erzielen, eine Ordnung statt bloßer Zusammenfügung. Das lie sich offenbar mit Hilfe Palladios erreichen. Aber dann kommt das Material der skandinavischen Architektur ins Spiel, Backstein, Holz und Glas, und damit wird das südliche Vorbild der einheimischen nordischen Architektur-Tradition einverleibt. Palladio hat der Nachwelt zwar ein Lehrgebaude hinterlassen, aus dem sie über drei Jahrhunderte hinweg schöpfen konnte. Aber es war keine Doktrin, die zum Nachahmen konkreter Bauwerke oder Entwürfe aufforderte, sondern im Gegenteil: Ein


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Beispiel der Freiheit, Aufforderung zur “varietà”, weshalb die besten Werke in der Nachfolge Palladios auch nicht diejenigen sind, die den seinen am ähnlichsten sehen. Palladianismus hat sich einige Male in der Geschichte der Architektur zu einem dominierenden Baustil entwickelt: In Holland und Skandinavien im 17° Jh., in England im 18° Jh. In Deutschland haben stattdessen einzelne Architekten immer wieder neu eine individuelle Begegnung mit Palladio gesucht, ohne da jemals ein vorherrschender Stil daraus entstanden wäre. Wie immer man Palladianismus auffaft - als Zeitstil, Regionalstil, individuellen Stil - er zeugt von der einzigartigen Wirkung, welche die Werke und die Gedanken Palladios auf die Geschichte der Architektur gehabt haben.


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ANMERKUNGEN 1) Um eine Inventarisierung palladianistischer Bauwerke in Europa und Amerika und um eine Definition dessen, was mit Palladianismus gemeint sein kann, bemühte sich die Ausstellung “Palladio - la sua eredita nel mondo”, vgi. den Katalog, Vicenza 1980. Siehe ferner die Beitrage, die im “Bollettino del Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio” seit dem |. Band, Vicenza 1961, veröffentlicht worden sind. 2) W. Hager, “Uno studio sul palladianesimo di Elias Holl”, im Bollettino CISA, IX 1967. 3) R. Pfister, “Die Augsburger Rathausmodelle des Elias Holl”, im Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, N.F., Bd. XII 1983. 4) Uber die Entstehung und die Gliederung der Quattro Libri siehe die Einleitung von E. Forssman zum Reprint, Hildesheim 1979. 5) JJ. Terwen betont den Unterschied zwischen dem Einfluss Palladios und demjenigen Scamozzis auf die holländische Architektur im 17. Jh., vgl. Johan Maurits van Nassau-Siegen 1604-1679. A humanist Prince in Holland and Brazil”, den Haag 1979. 6) Uber den Palladianismus in Schweden gibt es bisher nursporadische Veröffentlichungen, vgl. E. Forssman, “Palladianesimo in Scozia” im Bollettino CISA, IV 1962. 7) W. Nisser, “Die italienischen Skizzenbücher von Erik Jonsson Dablberg und David Klécker Ebrenstrabl,” 1-2, Uppsala 1948. 8) T.O. Nordberg, “De la Vallée. En arkitektfamilj i Frankrike, Holland och Sverige”, Stockholm 1970. 9) R. Josephson, “Apollotemplet i Versailles”, Uppsala 1925.


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10) M. Kithn, “Die Bauwerke und Kunstdenkmüler von Berlin: Schlass Charloitenburg”, Berlin 1970. 11) Uber Ikonographie und Gebrauch der Säulenordnungen siehe E. Forssman, “Dorico, ionico, corinzio nell’architettura del Rinascimento”, Roma-Bari 1973. 12) Siehe R. Wagner-Rieger, “Il palladianesimo in Austria”, im Bollettino CISA, VII 1965, S. 77 fF. 13) Vgl. 2.B. das Haus des Labyrinths in Pompeji, abgebildet bei Th. Kraus, “Pompeji und Herculaneum”, Kiln 1977. Abb. 73. 14) Zahlreiche Beispiele von Bürgerhäusern mit Palast-Fassaden bei F. Mielke, “Das Bargerbaus in Potsdam”, Tubingen 1972. 15) Zur Geschichte des Museum Fridericianum siehe den Ausstellungskatalog “Aufklärung und Klassizismus in Hessen-Kassel”, Kassel 1979. 16) “Italienische Reise”, in Goethe, Gedenkausgabe der Werke, Band 17, Zürich 1950, S. 57: “Das Olympische Theater ist ein Theater der Alten im kleinen realisiert und unaussprechlich schön, aber gegen die unsrigen kämmt mit’s vor wie ein vornehmes, reiches, wohl gebildetes Kind gegen einen klugen Weltmenschen, der, weder so vornehm, noch so reich, noch so wohlgebildet, besser weiß, was er mit seinen Mitteln bewirken kann.” 17) Die Geschichte des Schlosstheaters bei A. Beijer, “Court Theatres of Drottningholm and Gripsholm™, New York 1972. 18) G.Upmark, “Elghammar” in “Svenska Slott och Herresdten”, Band 1, Stockholm 1908. 19) W. Jakstein, “Landesbaumeister Christian Friedrich Hansen”, Neumünster 37. 20) O. Hederer, “Karl von Fischer”, München 1961.


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Il termine «palladianismo» non viene accettato da tutti gli studiosi, ma il fenomeno in se stesso è incontestabile, Si tenterà perciò di dimostrare cosa possa significare «palladianismo» sul esempio di un asse nord-sud che corre dall’Italia alla Germania alla Scandinavia. Palladio ai suoi tempi era quasi sconosciuto fuori d’Italia. La conoscenza della sua architettura venne divulgata nel Nord principalmente attraverso i suoi «Quattro Libri»; solo pochi architetti nel ‘600 si recavano nel Veneto e studiavano le opere del Palladio in loco. Il documento più antico di un’influenza di un’architettura palladiana in Germania è il modello per un Palazzo Comunale del 1607, che viene conservato insieme ad un altro ad Augsburg. La Guerra


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dei Trent’Anni impedì un ulteriore sviluppo in Germania, dove fino alla fine del secolo non si costruì più niente di importante, al contrario la Svezia era diventata attraverso la guerra una grande potenza. In questo periodo la nobiltà si fece costruire palazzi e residenze di campagna nello stile del palladianismo olandese. Dal momento che il materiale da costruzione nazionale nel Nord è il legno, ci sono anche molte costruzioni in legno che presentano le caratteristiche fondamentali del palladianismo: pilastri su due piani e il timpano triangolare sopra alla facciata. Sempre attuale per l’architettura europea è stata la villa «Rotonda» di Vicenza. Un esempio lo abbiamo in Svezia, dove venne usata come modello, anche se in una versione molto rustica, da Jean de la Vallée per la Villa Oster Malma non lontano da Stoccolma. L’architetto Nicodemo Tessin junior progettò nel 1714 un tempio di Apollo per Versailles, che dedicò a Luigi XIV, rifacendosi anche lui alla Rotonda. Nel periodo barocco ci si ispirò più al Bernini e all’architettura romana che a Palladio. Nonostante ciò Palladio non perde del tutto la sua influenza. Il palazzo Charlottenburg nei pressi di Berlino mostra caratteristiche palladiane nella facciata: uno zoccolo con bugnato rustico, un piano nobile ed un mezzanino adornati con l’ordine corinzio e un timpano sulla parte centrale.


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Anche nel barocco austriaco non manca del tutto l’influsso del Palladio, cfr. il Palazzo Trautson a Vienna. Le sale dei grandi palazzi dell’epoca barocca in Germania e in Austria sono spesso progettate secondo il disegno della «Sala Corinzia» che Palladio ha ricostruito nel suo Secondo Libro in base al testo di Vitruvio. Con il Neoclassicismo, che in Prussia ebbe inizio con Federico il Grande (regno dal 1740 al 1786), ci si rifece di nuovo più spesso al Palladio. Lo si vede nell’Opera di Berlino, che Knobelsdorff probabilmente ha progettato con l’aiuto del «Vitruvio britannico». Anche S.L, du Ry ha creato ispirandosi a questa fonte, come si può vedere nel suo Museo Fridericianum a Kassel. Al tempo del Neoclassicismo viene di nuovo molto ammirato il Teatro Olimpico, che non veniva trattato nei «Quattro Libri», per esempio da Goethe nel suo viaggio in Italia nel 1786. L’architetto svedese E. Palmstedt che visite in lungo e in largo il Veneto nel 1783 è chiamò Palladio un «principe dell’architettura», ideò il piccolo teatro reale nel Palazzo di Gripsholm rifacendosi a questo modello. Anche la villa palladiana riacquista la sua attualità nel periodo neoclassico. In questo periodo i committenti erano nobili e ricchi cittadini, che per il loro alto tenore di vita necessitavano di edifici simili a quelli dei nobili vicentini due secoli prima.


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In Germania e in Svezia perciò si trovano intorno al 1800 ancora begli esempi di tali ville. Talvolta anche la «Rotonda» serve come modello, perfino ancora per una villa assai originale in vetro, legno e mattoni, che fu costruita presso Norrköping in Svezia nel 1964 per un concorso. Palladio ha lasciato ai posteri un’eredità che non si presta molto ad una imitazione diretta, ma piuttosto ad essere usata con libertà e varietà. Le opere più valide del «palladianismo» perciò non sono sempre quelle più simili ai modelli. Ma tutte testimoniano dell’effetto singolare che Palladio ha avuto sulla storia dell’architettura europea ed americana dal Rinascimento fino ad oggi.



126 VERZEICHNIS DER ABBILDUNGEN 1 - Holzmodell für einen Palazzo Comunale in Augsburg, 1607. 2 - Landhaus Oster Malma bei Nyképing, Schweden, Mitte 17° Jh. 3 - Landhaus Fullerd bei Vasteras, Schweden, Mitte 18° Jh. 4 - Schloss Charlottenburg, Berlin, 1695 beg. 5- Palais Trautson, Wien, Anfang 18° Jh. 6 - Die Oper unter den Linden in Berlin, 1741-1743 7 - Der korinthische Saal, Abb. im Secondo libro, 1570 8 ~ Kaisersaal in der Residenz Würzburg, 1742 erbaut 9 - Schlosstheater in Gripsholm, Schweden, 1783 10 - Landhaus Elghammar, Schweden, 1809 11 - Villa bei Norrköping, Schweden, 1964 12 - Villa Baur, «Elbschlösschen», Altona bei Hamburg, 1804-06


127 ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI 1 - Modello in legno per un Palazzo Comunale ad Augsburg, 1607. 2 - Residenza di campagna Oster Malma nei pressi di Nyképing, Svezia, metà del sec. 18’ 3 - Residenza di campagna nei pressi di Vasteras, Svezia, metà del sec. 18’ 4 - Palazzo Charlottenburg, Berlino, 1695 5 - Palazzo Trautson, Vienna, inizio del sec. 18° 6 - L’opera «unter den Linden» a Berlino, 1741-1743 7 - La sala corinzia, fig. dal Secondo libro, 1570 8 - Sala imperiale del palazzo residenziale di Würzburg, costruito nel 1742 9 - Teatro di corte del palazzo di Gripsholm, Svezia, 1783 10 - Residenza di campagna Elghammar, Svezia, 1809 11 - Villa nei pressi di Norrköping, Svezia, 1964 12 - Villa Baur, «Palazzetto sull’Elba», Altona presso Amburgo, 1804-06


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Finito di stampare Fertig gedruckt nel mese di Luglio 2021 im Monat Juli 2021 presso le Officine in den Werkstätten della Libera Università di Bolzano der Freien Universität Bozen su carta Fomo 120g/m2 auf Fomo 120g/m2 Papier con mit font: Neco Medium, Neco Italic, Neco Bold



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