Il cortile dello zio

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IL CORTILE DELLO ZIO di Marco Casula

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Raff Mantega era da quattro ore alle prese con la sua modella. Nello studio fotografico appositamente realizzato al piano rialzato della sua lussuosa villa con piscina e palestra annessa, sulla Cassia, a Ro ma, non c’era molto spazio e il termometro là dentro segnava ventinove gradi centigradi. Nonostante i trentacinque anni suonati, aveva ancora un bel fisico. Il torso nudo metteva in risalto una vigorosa muscolatura, frutto dell’esercizio sportivo che praticava ogni giorno. Una fascetta scura gli cingeva la fronte e teneva raccolti i folti capelli neri ondulati che davano risalto agli occhi di un azzurro profondo. Portava indosso solo un paio di logori jeans e seguiva scalzo, passo passo, con l’occhio incollato al mirino della fotocamera, Sue, la top-model, cachet da cinquanta mila dollari, un corpo fulgido come un diamante. Le indicava la posizione, l’atteggiamento, l’espressione del viso. I riflettori emettevano strisce di luce che le passavano sul viso come i denti di una forchetta d’oro. Raff si terse il sudore. Erano tre settimane che si leccava le ferite, lavorando a testa bassa ad


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un servizio fotografico di moda che Prada gli aveva commissionato. Collezione primavera-estate. Si sentiva una merdaccia, in quei giorni sembrava dal suo viso che portasse un cartello con la scritta prendetemi a calci, e per questo meditava di spogliarsi della propria pelle e di uscire dal suo trantran quotidiano per dimenticare e rifarsi una vita. Una notte si era svegliato con questi pensieri: farla finita, tagliare gli ormeggi e andarsene da qualche parte in vacanza appena avrebbe potuto. Dal giorno della morte di Dora non conosceva sabati o domeniche. Lavorava senza sosta, e anche quella sera non aveva mollato un momento. Dicono che se provi a cambiar vita, quando muore una persona a te cara, hai molte probabilità di farcela. Ma se è la persona che ami, che stai per sposare, e l’hai trovata morta, imbottita di cocaina e tu non ti sai spiegare com’è potuto accadere, come è che non ti sei accorto di niente, allora è meglio che trovi il modo di rinascere e di ricominciare tutto da capo. Altrimenti, non avrai scampo. Dicono che è normale sentirsi una merda dopo che hai scoperto di non aver capito nulla della persona che amavi. Fanculo la moda e la pubblicità pensò, mentre uno dei due assistenti gli porgeva un esposimetro. Erano sei anni che faceva quel lavoro, tutto funzionava a meraviglia, stava guadagnando una fortuna, ci si divertiva e amava circondarsi di ogni piacere. Ora invece si sentiva depresso come mai in vita sua. Un tempo era più conosciuto come reporter di guerra, professione che, come egli stesso ammetteva, amava quanto amava i soldi, e che per i soldi aveva tradito con la moda e la pubblicità per ancor maggior celebrità e ricchezza. Sì, un tempo era un grosso foto-giornalista, ma ora la sua vita stava per arrivare a una svolta. C’era poco da scherzare. Anche se vinceva l’Oscar come miglior fotografo di moda dell’anno al massimo cosa


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avrebbe significato? Nulla, senza uno straccio di prospettiva di vita che Dora gli avrebbe assicurato. Dora gli aveva dato ciò che altre donne, più interessate al suo denaro che non a lui, non erano state capaci di dargli. Prima di lei, non aveva mai avuto una relazione stabile, cosa impossibile da evitare con tutte le tentazioni cui era continuamente esposto. E le donne lo deliziavano con le loro sorprese. Usciva con fanciulle dal volto dolce e dall’aspetto serio e verginale e poi scoprire i loro seni e trovarli inaspettatamente floridi in contrasto col viso da madonnine. Lo colpivano il pudore e la timidezza in ragazze dall’aspetto sensuale o scoprire chi si atteggiava a donna fatale, divoratrice di centinaia di uomini e che poi, quando le aveva da sole, doveva battagliare per ore per prenderle, scoprendo che erano vergini. Con Dora, no. Avrebbe smesso di condurre quel tipo di vita, si era divertito abbastanza con le donne. Con Dora aveva scoperto l’importanza di avere una famiglia, dei figli da crescere e da educare e che avrebbe portato a passeggio la domenica. Insieme, avrebbero ricevuto di quando in quando qualche amico e avrebbe avuto più cura di lei e di se stesso. Anche il loro lavoro ne avrebbe potuto trarre giovamento. Aveva avuto progetti ambiziosi al riguardo. Sarebbe stato un impero basato sul denaro, il più forte, il più ambito dei poteri. Il fatto è, che era sempre stato generoso e onesto con tutti. Poteva diventare come molti creativi o produttori e manager che si trovavano in giro in quel variegato mondo di carta patinata, soliti a dar la caccia a belle donne con brama libidinosa. Ma lui no, famoso e ricco, non era mai stato una celebrità boriosa, non aveva mai rifiutato nulla a nessuno, neanche alle donne con le quali si accompagnava di volta in volta. Ragazze per le quali aveva fatto tutto quanto era stato in suo potere, regalando ad esse notorietà, opportunità di lavoro, se non l’equivalente di decine e decine di migliaia di dollari. Usava la ricchezza e il potere


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malvolentieri, attento

per

convinzione

donne

che

le

timore

di essere

l’avrebbero

ingannato, co n

sicuramente

tradito

la e

abbandonato. Ma tutto questo era successo molto tempo prima. Il set oggi aveva un cattivo odore, lucido da scarpe e polistirolo. Si era fermato solo per addentare un boccone, aveva inserito n ello stereo un cd di Eric Dolphy, e subito aveva ripreso a scattare con la sua vecchia hasselblad. L’immersione totale nel lavoro lo costringevano a non pensare a Dora. Era una terapia che si era mostrata efficace per dimenticare il suo bel viso che la morte per overdose aveva imbruttito a tal punto da renderlo irriconoscibile. Da quando l’aveva conosciuta, Raff aveva puntato tutto su di lei, Dora De Francisci, la sua compagna, una giovane e promettente ricercatrice presso il Centro europeo di fisica nucleare di Ginevra, un lavoro niente male e, ancor più, una sfavillante carriera. Raff e Dora si amavano da un anno e contavano di sposarsi. Certi importanti studi portati avanti con l’università di Toronto l’avevano allontanata per qualche mese da lui. Andiamo a vivere insieme in Canada si erano poi detti in un progetto di vita ormai comune. Raff Mantega non aveva problemi di soldi, gli piaceva vivere nel lusso. Stava giusto trattando l’acquisto di una splendida villa sull’Ontario. Era solo una questione di mettersi d’accordo sul prezzo. Vivere su quel lago sarebbe stato il coronamento del loro amore. Un sogno che si era drammaticamente infranto una sera d’inverno, quando Raff l’aveva trovata riversa sulle lucide mattonelle del pavimento di cucina nell’attico della palazzina di piazza Navona dove essa abitava, uccisa dalla droga. Una vestaglia color albicocca lasciava scoperte le gambe, lunghe, ben fatte. Non era stato necessario avvicinarsi per vedere, tra i soffici capelli ramati, la bella bocca che si era trasfigurata


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in un ghigno spastico. Una morte inaspettata, una vita recisa improvvisamente. Pochi erano a conoscenza di questa sua debo lezza, sniffava cocaina a go-go. Anche se non era stato il primo caso, l’inchiesta era stata seguita con curiosità, i tabloid erano stati ricchi di notizie e particolari. La coppia era nota, il fotografo famoso che aveva scoperto il cadavere della fidanzata appartenente ad una ricca e importante famiglia della città. C’era di che riempire per giorni e giorni le pagine dei giornali locali e nazionali. Raff si era lasciato andare a dichiarazioni avventate, minacciando denuncie e vendette. Sfoghi irrazionali. Sfoghi di rabbia per una morte di cui non si dava pace. Da allora erano passati due mesi esatti. Due mesi nei quali Raff si era buttato nell’irrefrenabile vortice della sua attività. Una vita, la sua, di cui, per il vero, egli voleva liberarsi, ma che o ra gli serviva quale toccasana per allontanare il ricordo della tragedia e cui contribuiva la vicinanza e l’amicizia della sua modella preferita, Sue, dal dolce viso e il corpo sinuoso. Sebbene, per principio, non mischiasse mai il lavoro con il sesso, aveva fatto un’eccezione per Sue. Lei meritava un altro trattamento. Era più alta di lui, oltre l’uno e ottantacinque, il corpo di un’antilope dalla carnagione di uno squisito bruno vellutato e gli occhi grandi, viola chiaro con folte ciglia che ombreggiavano il volto delizioso. Lei era stata, prima di conoscere Dora, una delle tante ragazze che più gli erano piaciute, di cui era rimasto amico e con le quali di quando in quando andava ancora a letto, con spirito cameratesco. Non gli sfuggiva però il fatto che, dentro quel mondo ingordo di sesso, denaro e pubblicità, le donne lo cercassero per un proprio tornaconto personale. Nei giorni drammatici seguiti alla morte di Dora, Sue gli era stata molto vicino e lui si era dato alla sua mercé, ma quella notte aveva veramente toccato il fondo,


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si era sentito un verme. Era stato allora che aveva capito di dover arrivare a una decisione. Sicché quella sera, come altre, Raff era nel suo studio di posa fotografico, inondato dal caldo suono del sax. Sue, già in posa, con movenza da pantera, aspettava istruzioni da lui. Musica jazz e sensualità. In disparte, in un angolo dello studio, l’amico Luigi Monser, giornalista della France Press, sdraiato su una comoda poltrona, i piedi sulla scrivania, attendeva paziente che Raff concludesse la tornata di lavoro. «Mi ritiro un anno, Luigi, devo cambiare aria» gli aveva detto Raff il giorno prima incontrandolo alla veloce nella sua redazione dove si recava ogni tanto. Luigi Monser era un amico di lunga data fin dai tempi dell’universi tà. In quel periodo, poco più che ventenni, trascinati dalla comune passione politica si erano aggregati ad una delle spedizioni di Greenpeace nelle Isole Marshall, in Nuova Zelanda, per partecipare ad un’azione antinucleare contro il governo statunitense e francese impegnati a rincorrersi nella progettazione di nuove e sempre più distruttive armi nucleari. La spedizione era stata la prova del fuoco per i due giovani. C’era stato un attentato, due esplosioni avevano squarciato lo scafo della nave ormeggiata nel porto di Aulkland, la Rainbow Warrior affondò e un fotografo portoghese, loro collega, rimase ucciso. Quell’esperienza avrebbe lasciato una traccia profonda nel loro destino. Continuarono a frequentarsi anche negli anni successivi. Inchieste giornalistiche nelle borgate romane, collaborazioni varie, fotografia scientifica, poi il sodalizio professionale si era interrotto. Luigi aveva preso la strada del giornalismo puro, Raff aveva continuato a fare il fotografo.


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Nello studio di posa del vecchio amico, Monser era arrivato preoccupato da quella minaccia, «Mi ritiro», che non sembrava buttata a caso, anche perché Raff, nel lavoro, qualsiasi fosse, era tipo che si prendeva maledettamente sul serio. Luigi aveva la stessa età di Raff, un aspetto piuttosto c omune, una corporatura tendente alla pinguedine e i capelli di un biondastro lucido. Se ne stava col palmo della mano appoggiato sulla guancia, colpito da un abbiocco che la melodia del sax favoriva. Per il vero, Raff la stava tirando per le lunghe, non mostrava fretta, concentratissimo sulla figura della modella. Stava fotografandola in primi piani per mettere in risalto lo splendido collo. Scattò una decina di pose, poi modificò l’inclinazione dello spot per dare più lucentezza agli occhi. Clic. Clic. Clic. Sue si lasciava guidare docilmente da lui, ponendosi ora di profilo, ora quasi di schiena, lo sguardo sempre diretto verso l’obiettivo. Quindi scivolava lungo il fondale azzurro con passo morbido, così che il decolté nell’abito di seta nera che indossava risaltasse. Aiutato dall’uso sapiente delle luci, non sarebbe stato difficile per Raff continuare il lavoro. L’otturatore della macchina fotografica si apriva e si chiudeva in rapida sequenza. Mentre Sue si disponeva per un’altra inquadratura, egli ca lcolò la temperatura di colore della luce. Fu l’ultima operazione, perché di colpo sembrò che qualcosa lo avesse interrotto, guardò l’orologio, e fu come se l’incantesimo si fosse infranto. «Bene. Basta così per oggi. Tutti a casa! Vi ringrazio, domani vi farò sapere il programma. Buonasera a voi!» disse. Anche Sue rimase sorpresa, ma era abituata a non discutere le scelte di Raff. Al pari di tutti gli altri lavoranti, assistenti e collaboratori che facevano parte dello staff, sapeva che quando Raff diceva una cosa, era


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quella e basta. Quindi prese le sue cose, si cambiò alla svelta, lo salutò con un bacio sulla guancia e andò via insieme agli altri. Il trambusto finì, le palpebre di Luigi si schiusero e l’abbiocco cessò. Doveva prenderlo di petto, se voleva convincerlo che stava facendo una sciocchezza. «Che diavolo ti è preso Raff?» lo apostrofò appena furono soli. «Perché vuoi chiudere con Prada, se hai appena iniziato? La morte di Dora deve averti dato alla testa! Se non ti conoscessi e non avessi vist o come lavori… A momenti mi veniva un colpo, quando me lo hai detto. Ero troppo di fretta per stare a sentirti, ma adesso mi devi spiegare tutto, per dio! Sono venuto apposta…» Raff gli cinse le spalle, affettuoso, sorrise. «Adesso calmati Luigi, lascia che ti spieghi. Sarà anche una pazzia, ma un anno sabbatico è quello che ci vuole per me» e gli offrì un altro drink invitandolo a mettersi comodo, di fronte a lui. Un sorso e Raff attaccò. «Non so neanch’io perché ho accettato di fare anche questo serviz io. La verità è che non ne posso più. È venuto il momento di farla finita con un lavoro per copertine patinate, di chiudere con questo mondo. Sarà che la morte di Dora mi ha cambiato, non lo so, ma ho bisogno di tornare al lavoro che m’interessa davvero, mostrare la realtà, respirare un’altra aria, voglio fare solo questo, ciò che so fare meglio, nient’altro…» «Ehi ehi! Vacci piano… è anche questo il tuo lavoro, Raff» esclamò Luigi indicando lo studio nel quale si trovavano, gli spot, il trepp iede della vecchia hasselblad. «Lo hai sempre fatto. Che storia è questa! Sei il più bravo…» «Solo perché ho saputo sfruttare la popolarità che mi ha dato il giornalismo. Dai, Luigi, non dobbiamo essere ipocriti. È venuto il


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momento per me di lasciare la moda e la pubblicità. Che cosa sarà mai? Ho già alcune idee…» «Proprio non ti riconosco,» lo interruppe ancora Luigi, «ti devi essere bevuto il cervello!» «Mi sto ammazzando di lavoro per dimenticarla, Luigi. Devo cambiare aria… Devo uscirne. Sto raccogliendo informazioni per andare in Darfur o in Somalia, ma la trafila per aggregarsi ad un qualche contingente Onu è lunga. Dopo l’undici settembre tutto è più complicato, se non hai gli agganci giusti. Tu sai come lavoro. Sono un cane sciolto, difficilmente quelli accettano chi lavora senza essere aggregato ad organizzazioni già collaudate.» «Smettila… Non ti mancherà il lavoro, se è questo che temi. Da qualsiasi parte ti giri trovi una guerra. Tutto grasso che cola per te, puoi dirti fortunato. Ma se lasci Prada hai pensato al danno d’immagine che te ne verrà?» insisté Luigi. Raff posò il bicchiere e si alzò. Sembrava riflettere, poi continuò. «Sì, lo so, ma non ho alcuna intenzione di riprendere a fare il fotografo di gioielli. Abbandonare mi costerà certo un fracco di soldi e ne avrò un danno a tutti gli effetti, non c’è dubbio.» «Meno male che lo riconosci,» ribatté l’amico allargando le braccia, «Benvenuto tra la gente che la pensa in modo normale! Sentirti parlare in un certo modo mi ha sorpreso, lo sai? Ti conosco troppo bene perché ti possa prendere sul serio. Sei stimato, famoso, sei un serio professionista. Le tue foto sono esposte alla National Gallery, riviste e giornali pubblicano i tuoi lavori a occhi chiusi, sei il più ricercato tra i fotografi. Vuoi mandare tutto a puttane? Vuoi lasciare una macchina infernale che fabbrica soldi, che si è ormai messa in moto e gira magnificamente?» La mente di Raff rincorreva altri pensieri. «Adesso risparmiati la


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predica e smettila di fare il fratello maggiore…» rispose distratto. Monser lo incalzò, ironico. «Hai troppa stima di te stesso per mollare tutto e tutti. Non sottovalutare le conseguenze di un gesto del genere. Scusa se insisto, ma, secondo me, se ti ritirassi faresti la cosa più insensata e stupida che ci sia! Parli senza riflettere. Pensaci, Raff. Prima, porta a termine il servizio che hai in corso, poi fatti una vacanza, goditi la tua bella villa… Altrimenti vai là dove sei nato, a Santa Maria Navarrese, fai visita a tua zia Nicoletta, che non vedi da una vita, e ritemprati…» «Questa volta è diverso. Lavorare nella pubblicità ormai mi annoia tremendamente. Sono stanco. La moda mi ha stufato … Inseguire gli art-director, stare dietro alle bizze delle modelle, lavorare secondo gli orari sindacali degli assistenti… No, basta. Cambierò vita. Voglio riprendere a fare il mestiere che amo, è quello di cui ho bisogno.» Raff socchiuse le palpebre, si passò la mano sulla fronte e sui capelli. «Hai novità sul fronte delle indagini?» domandò. Luigi sospirò sconsolato. «Nessuna. Rizzo ha perso lo spacciatore che riforniva Dora. È stato lui, questo è accertato, a venderle la dose fatale…» Raff annuì. «Già, quella schifezza… Polvere di marmo e coca… dieci a uno.» «Lo hanno trovato sotto una montagna di rifiuti con un buco nella schiena. Da qualche tempo Rizzo gli stava dietro. Un balordo che batteva la zona del quartiere Trionfale insieme ad altri della sua risma, la Banda dello Sguincio. Tutti volatilizzati. Ma Rizzo dice che è sulla pista giusta, vuole arrivare ai pesci grossi. Sono diversi giorni che non lo sento, ma ti prometto che appena so qualcosa di nuovo, ti aggiornerò.» «Ti confesso che quel poliziotto non m’ispira molta fiducia…»


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«Forse perché lo vedi così dimesso e anonimo. Ti assicuro che è un ottimo segugio.» «Parli così, perché è tuo amico… Sarà come dici, ma non ha combinato molto, a quanto pare. Ha lasciato che facessero fuori l’unico che lo avrebbe portato a ottenere qualcosa, e si ritrova con un pugno di mosche…» Luigi non lo fece finire. «Non ricominciare, anche tu hai messo del tuo a creare confusione. Quelle dichiarazioni ai giornali da giustiziere della notte. Cose da pazzi. Hai bisogno di una persona come me che ti sorvegli per non farti dire sciocchezze, quando sei fuori di testa.» Raff afferrò una sedia e vi si abbandonò spaparanzato. «Lasciamo correre, non ne voglio sentir più parlare di questa storia. A che serve ormai? Se il tuo amico poliziotto è così bravo … meglio lasciar fare a lui. È ad altro che voglio pensare adesso.» «Così va già meglio. Ma non aspettarti molto da me.» Monser sapeva che non lo avrebbe abbandonato. In realtà, era già rassegnato a capitolare di fronte all’amico che si era ficcato in testa di gettare, come una sigaretta fumata, una parte importante della sua vita. Raff non era più disposto a seguire le indagini di polizia che avrebbero riaperto la sua ferita. Voleva piantare tutti in asso, illudendosi così di mettere una pietra sopra al suo passato. Erano trascorsi quattro mesi dalla morte di Dora. Raff Mantega aveva impresso una svolta alla sua vita e ora, disteso sulla poltrona, stava riflettendo sulle conseguenze delle sue decisioni. Troncare un contratto. Una cosa che non gli era stata perdonata. Si sa come vanno queste cose. Gli affari sono affari e, passato il momento del cordoglio, di fronte a un contratto non onorato, nessuno aveva più tenuto conto del suo dramma familiare, né era stato comprensivo. Non


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si straccia un contratto da favola come se fosse carta igienica. Per quel che riguardava gli affari, Raff giudicava il mondo che aveva frequentato per sei anni, un mondo di pidocchiosi, attaccati persino al centesimo. Aveva deciso di non mollare. Avrebbero sudato sangue, prima di ottenere anche solo una parte della penale che il giudice sicuramente gli avrebbe ingiunto di pagare . I suoi avvocati di Lugano erano già in movimento. Si levò in piedi e si avvicinò all’angolo bar. Tek e ciliegio, targhe appese al muro, coppe e trofei, tra cui una foto di Luigi al tempo dell’università. Pensò ai suoi amichevoli rimbrotti. L’amico aveva temuto che la tragica scomparsa di Dora gli avesse fatto perdere lo smalto dei giorni migliori. Aveva torto. Il suo nome era ancora garanzia di qualità, era ancora ricordato nel mondo come fotoreporter free-lance di vaglio. Avrebbe dimostrato all’amico e a se stesso che a guidarlo, per una volta, era stato l’istinto, non l’odore dei soldi. Comunque sia, acqua passata. Si versò rum e cola e si apprestò ad annullarsi nuovamente sulla sua poltrona preferita. Un’occhiata al televideo, ora che Monser era andato via. Raff si prefisse di non commettere in avvenire altri errori. Non aveva accettato due proposte di lavoro: una della McDonald per il rilancio dei suoi prodotti sul mercato cinese, così come l’altra della rivista Vogue America. Diecimila dollari rifiutati senza rimpianti. Certo, non si era mai trovato nella condizione di stare più di una settimana senza lavoro. Prima le proposte si susseguivano con una frequenza così incalzante che era dovuto diventare un campione per soddisfarle tutte. Per i soldi tutti diventano campioni. E tra un servizio e un altro curava i suoi affari. Aveva fissato la sua residenza a Lugano per alleggerire il peso delle tasse, che, a suo dire, gli mangiavano più della metà dei guadagni. Nella ridente città svizzera vivevano i suoi


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migliori amici: avvocati, commercialisti o consulenti finanziari che gli consigliavano come investire i suoi soldi. Incontri, cene di lavoro, scartoffie da firmare, insomma una vita indaffarata, la sua. In piedi, adesso, era rimasta la faccenda della villa sull’Ontario, in Canada, il cui contratto di compravendita avrebbe dovuto affrettarsi a concludere. Il venditore temporeggiava. Voleva far salire il prezzo, il bastardo, nell’attesa di altre offerte, e lui avrebbe dovuto essere lì per seguire gli sviluppi e non farsi fregare. Se le cose fossero andate diversamente, sarebbe volato a Toronto. Quella villa valeva una fortuna, e avrebbe potuto rivenderla in qualsiasi momento a prezzo doppio il giorno che se ne fosse stancato. Con Dora sarebbe stata un’altra cosa. Con lei, l’idea di vivere in Canada lo eccitava. Presto, come per il contratto con Prada, avrebbe dato l’incarico a un suo mandatario di abbandonare la trattativa per l’acquisto della villa. La sua vita così si sarebbe liberata anche di quel ricordo. Decise che la zia Nicoletta avrebbe gradito un’improvvisata nella sua casa di Santa Maria Navarrese, nello splendido scenario del golfo di Orosei. O forse era meglio andare più lontano, ai Caraibi… o a Cuba. Una vacanza me la merito -pensò. Se… se… se… Raff si alzò e prese dal ripiano della libreria, in fondo allo s tudio, un ritratto di Dora. Era di un anno prima, in maggio, durante una loro vacanza, vissuta in piena libertà allo stato brado, nell’isola di Mal di Ventre. Lei ora non c’era più, ed era inutile ora continuare a fantasticare sui loro sogni. Dora riposava nella tomba di famiglia nel cimitero inglese, dove lui, di quando in quando, si recava per deporre un mazzo di rose. Raff era sempre in contatto con la France Presse per aggiornarsi sulle notizie dei corrispondenti nel mondo.


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Grande amico, Luigi. Gli era stato molto vicino, quando ne aveva avuto bisogno, ma non mancava di fargli sapere come la pensava. Pur non avendo condiviso in questo caso la sua scelta, Luigi lo aveva assecondato. Era nata l’occasione di recarsi in Iraq al seguito di una troupe di giornalisti della catena televisiva americana ABC. Ma l’aveva scartata. «L’idea di rinchiudermi come un collegiale dentro il Palestine non mi alletta per niente» aveva detto a chiare lettere a Luigi che aveva scosso la testa. Raff era sicuro che avrebbe trovato di meglio per un servizio giornalistico che lo interessasse di più. Luigi, nello stesso tempo, lo teneva informato di quanto emergeva dalle indagini sulla morte di Dora e sul traffico di droga che a quella morte era collegato. Il suo amico dell’Interpol, Gennaro Rizzo, era stato incaricato delle indagini dalla Procura. Era un uomo dal volto serafico, cui riusciva difficile vedere al di là dei semplici fatti, ma era un buon investigatore, perché consapevole dei propri limiti, scrupoloso nel notare ogni minimo dettaglio. Nei suoi rapporti, che tutti odiavano leggere tanto erano lunghi, si nascondeva sempre, sotto una montagna di parole, la chiave importante per aprire qualsiasi caso. Era arrivato a un passo dallo scoprire la provenienza della droga acquistata dalla ragazza, ma voleva il pesce più grosso, Rizzo. Aveva cominciato con quelli più piccoli, individuando lo spacciatore dal quale Dora si riforniva abitualmente, ma, prima di riuscire a catturarlo, lo avevano ritrovato sotto una discarica a cielo aperto. Poi, più nulla. Sembravano spariti tutti, spacciatori e poliziotti che se ne stavano occupando. Nessuno ne parlò più. Tacquero anche i giornali scandalistici. I titoloni corpo quaranta, prima pagina di spalla, erano scomparsi. Rizzo, gola profonda, aveva interrotto il flusso di informazioni.

Il

caso

aveva

tutta

l’aria

di

essere

finito

nel


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dimenticatoio. In Raff si consolidò l’opinione che fosse stata messa la parola fine alla faccenda una volta per tutte. Opinione che divenne certezza la sera in cui Luigi lo chiamò in redazione per fargli leggere il lancio di un’agenzia: Un aereo statunitense carico d’armi e di mercenari, i cosiddetti “contractor”, è stato sequestrato due giorni fa dalla guerriglia colombiana. E più sotto: Il FARC,

Fronte

Armato

Rivoluzionario

della

Colombia, ha

comunicato che un Boing 707-100 Cargo statunitense, atterrato sul territorio da esso controllato, è stato sequestrato. A bordo c’erano armi leggere e una squadra di uomini di varia nazionalità, certamente mercenari. Fonti della stessa guerriglia, nel denunciare l’accaduto a distanza di alcuni giorni, hanno riferito che non è dato sapere quale fosse la destinazione del velivolo, ma che l’obbiettivo sarebbe stato quello di fornire supporto all’esercito regolare, in contrasto alle convenzioni stabilite dal “Plan Colombia” sottoscritto con gli stessi Stati Uniti. Il portavoce del governo e dell’esercito colombiano hanno tuttavia smentito tale ipotesi. Raff non sapeva niente di quel Paese e di quale fosse la sua attuale situazione politica. Per solito, prima di partire per i suoi servizi, non era uso approfondire le ragioni e i torti dei contendenti in armi. Per lui avrebbero potuto scannarsi all’infinito. Si ricordò che quando faceva quel mestiere adorava andare nelle zone di guerra o in qualsiasi merdaio lo portassero le guerre, aveva conservato questo spirito, gli


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andava pure che scoppiassero dieci, cento, mille crisi nel mondo, qualunque controversia, purché gli offrissero la possibilità di ricavarne un reportage lucroso. Questa gli parve l’occasione da non farsi scappare. Immediatamente, Raff fece circolare nell’ambiente giornalistico la propria intenzione di recarsi in Colombia. Il primo a prendere in considerazione il suo progetto fu Monser che, contraddicendo se stesso, per aiutare l’amico, si mise subito al lavoro. Lo avvertì, però. «Niente salti nel buio, trovati un committente per il tuo reportage.» Raff seguì il consiglio. Si mosse in tutte le direzioni, ascoltò pareri, bussò a qualche porta, finché Monser gli suggerì di contattare un influente giornalista del Chicago Tribune, esperto di America Latina. Urgeva recarsi a Chicago.


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Alle nove del mattino di martedì sedici giugno, all’aeroporto di Chicago-O’Hare arrivarono il fotoreporter Raff Mantega e il suo amico e collega Luigi Monser, giornalista dell’agenzia di stampa France Press. Mantega, il più alto dei due, e anche il più magro, capelli neri e ondulati, occhi azzurro mare e fisico atletico, aveva con sé un borsone nero a tracolla. Monser era corpulento con lineamenti marcati, capelli tra il biondo e il castano tanto puliti e lucidi da dare l’idea che ci si potesse specchiare. Era quello più carico di bagagli, cosa che aveva prolungato alla partenza le operazioni di controllo al check-in. Scesi ora dall’aereo, i due uomini si diressero verso la piazzola dei taxi, ne scelsero uno e vi salirono chiedendo al tassista di portarli al Megan Hotel in centro città. «Che tipo è questo Liam Neik?» domandò Mantega, mentre distrattamente guardava le vie che stavano percorrendo. Luigi, appoggiato allo schienale della macchina, gli riferì tutte le informazioni di cui disponeva. Liam Neik era uno dei più importanti ed influenti giornalisti degli Stati Uniti, proprietario di una quota del Chicago Tribune e di un’agenzia di stampa con decine e decine di redattori. Era nel

Sindacato

consulente

del

dei

Giornalisti

Dipartimento

per

l’Informazione

Comunicazione

Nazionale

Internazionale

e per


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l’America del Sud del Ministero della Difesa, diretta emanazione dei Servizi d’Intelligence, il che significava semplicemente che sulla questione era un ascoltato esperto del Presidente degli Stati Uniti, con lui aveva pranzato un paio di volte alla Casa Bianca. Suo padre, un ufficiale dello Stato Maggiore della Marina Militare durante la guerra di Corea, aveva conosciuto John Edgard Hoover e le sue conoscenze si sarebbero dimostrate utili un giorno per entrare nel mondo che conta. Ma nulla di tutto questo era così impressionante, queste erano le relazioni ufficiali. Liam aveva un potere reale enorme per i mille fili che lo legavano al sistema mediatico in generale, a quello della carta stampata in particolare e per la forte influenza che esercitava tra questo mondo e l’establishment economico e sociale e quello politico. Aveva molti

agganci,

dunque.

Principalmente

perché

era

un

acceso

reazionario, e in parte era un megalomane che amava esercitare un potere dispotico senza riguardo al fatto che così facendo si procurava legioni di nemici dappertutto. «Però è un eccellente giornalista,» concluse Luigi, «un tipo tosto, ma persona certo disponibile a riconoscere la professionalità dei colleghi. Domani al party del governatore lo conoscerai. Il suo giornale, il Chicago Tribune, di cui è caporedattore esteri, ha portato avanti, sin dai tempi della presidenza Clinton, una forte campagna di stampa per la lotta alla droga in Colombia.» Mantega era raggiante. «Hai avuto una grande idea a portarmi con te, Luigi. Te ne sono grato. Non vedo l’ora di buttarmi in quest’impresa. Mi hai detto che è uno che ha lavorato al Plan Colombia, il programma di punta contro il crimine organizzato e il traffico di droga in Colombia, finanziato dal Congresso americano. Sarà un bel colpo per me! E dire che all’inizio ho pensato che non fossi dalla mia parte.» Monser scrollò il capo. «Sono sempre dalla tua, Raff, ma resto della


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stessa opinione. Mandare tutto carte e quarantotto lasciando pure un lavoro redditizio, ammettilo, non è stato corretto.» Mantega sorrise. «Sei un brontolone. Ti ricrederai, quando vedrai che anche il risultato di questo servizio che conto di fare porterà un assegno con tanti zeri.» «Sei il classico lupo che perde il pelo, ma non il vizio» replicò Luigi con un’ombra di risentimento. «Spero per te che dopo sei anni non ti sia dimenticato come si fa un’inchiesta giornalistica.» Raff amava darsi arie. «Caro Luigi, la mia quotazione è commisurata alla fama che mi sono costruito per le mie capacità. Ormai, mi pagano per il nome che ho. Basta la parola…» «Sarà così nella moda o nella pubblicità, dubito che lo sia anche nel giornalismo serio, di certo Niek non si accontenterà della tua notorietà, lo dovrai stupire con bel altro.» «Scommetto ciò che vuoi che il Tribune non solo mi pagherà fior di dollari, ma, alla fine, mi ringrazierà. Vedrai, gli porterò un servizio dalla Colombia che Neik rimarrà senza fiato, e non potrà rifiutarlo.» «In questo lavoro, caro signor modestino, dovrai superare te stesso. Liam Neik è uno che conosce come pochi l’America Latina. Non si diventa consulenti di Reagan, di Clinton e della CIA se non si hanno due palle d’acciaio.» Il taxi superò un cavalcavia per immettersi in Milwakee Avenue, costeggiando il Chicago River, il fiume che avrebbe fatto loro compagnia sin presso le Sears Towers, dove si trovava il loro albergo. Raff non era mai stato a Chicago. Si voltò per ammirare la linea dell’orizzonte lucente per il sole del mattino che si alzava verso lo zenit. Il gesto riacutizzò il dolore al collo che lo aveva tenuto fermo due settimane dopo aver subito un piccolo incidente. A Roma, al rientro dall’ambasciata colombiana dove si era recato per ritirare il


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passaporto per il visto, la sua auto, ad una sbandata per il terreno viscido dalla pioggia, aveva virato di centottanta gradi, scaraventandosi contro un palo della luce. Nessuna conseguenza seria . Per lui, se non qualche contusione, il rischio di dover ritardare il viaggio a Chicago, dove Luigi Monser aveva concordato un’intervista al candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, il senatore Al Apricot, governatore dell’Illinois. «La tua agenzia aveva fissato da qualche tempo quest’incontro con il governatore o sei stato tu a deciderlo?» domandò Raff massaggiandosi il collo. «I repubblicani hanno deciso poche settimane fa di candidare il governatore. Ci sarà un sacco di gente al party, domani: uomini d’affari, portaborse e attricette, ma a me interessa lui, il senatore. È l’occasione per presentarti Liam Neik. Lui è affar tuo. Conclusa l’intervista al senatore, io me ne tornerò a casa, mentre tu, secondo quello che scaturirà dal colloquio con Neik deciderai cosa fare. Oggi mi metterò in contatto con la nostra corrispondente a Bogotà per organizzarti l’eventuale permanenza e darti una mano, se credi.» Il cellulare di Raff squillò. Era l’avvocato di Lugano che lo informava su alcuni punti in sospeso riguardo al mancato acquisto della villa di Toronto. Tutto previsto per Raff. Il proprietario della villa gli faceva sapere che pretendeva di essere risarcito, che non l’avrebbe passata liscia, altrimenti avrebbe adito le vie legali. Raff non ne rimase sconvolto, diede disposizione all’avvocato di resistere in giudizio, qualora il proprietario avesse messo in pratica le sue minacce. Voleva limitare i danni e non rimetterci molti soldi. «Come si chiama la tua corrispondente?» chiese Raff riponendo il cellulare nella tasca e ritornando all’argomento che gli interessava . «Mito

Amarante.

È

una

giovane

giornalista

portoghese

che


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normalmente vive in Brasile. Ha partecipato l’ann o scorso a un seminario organizzato dalla France Press a Roma, facendo un ottima impressione. Arrivarono al Megan Hotel, una liberazione per Mantega: quel dolore al collo lo infastidiva tanto che sentiva il bisogno di un sonno ristoratore.


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3

Un condominio abbandonato si affacciava sul Grande Raccordo Anulare. Al secondo piano, in una squallida stanza avvolta dal fumo, Rinaldo Ramirez, sprofondato in una poltrona di pelle, schiacciò la sua Camel in un posacenere ricolmo di cicche. Era corpulento e di media statura, il viso tondo da bambino. Vestiva distinto, gessato nero e mocassini in vernice, coppia di gemelli d’oro ai polsini della camicia. Tamburellò con le dita sul bracciolo. «Dimmi, come devo comportarmi con te… Com’è che ti chiami?» domandò rivolgendosi al giovane in piedi davanti a lui. «Mario, signore. Ma tutti qui mi conoscono come Er Pupo … Lei mi può chiamare Mario… se vuole.» Ramirez scoppiò a ridere mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi. «Er Pupo? È veramente così che ti fai chiamare?» Inarcò un sopracciglio. «Stronzo, dovrei chiamarti.» Batté un pugno sul tavolo. «Un fottutissimo stronzo!» Il tavolo traballò, Ramirez ruttò bile e saliva. Er Pupo deglutì con la sigaretta incollata alle labbra. Aveva un viso irregolare su cui era disegnata una paura fottuta, stivaletti a tacco alto, jeans e t-short con la scritta Cuba Josh Driip incomprensibile. «Signor Ramirez, glielo giuro…» disse con le ginocchia che facevano giacomo giacomo. «Mi


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hanno fatto solo qualche domanda. Gli sbirri fanno sempre così, quando succedono queste cose, ti vengono a pescare anche quando non c’entri.» Ramirez si alzò. «Tu, tu vuoi spiegare a me come si comportano gli sbirri? Le tue ragioni del cazzo, sei un gran coglione!» Picchiettò il dito sui giornali alla rinfusa sul tavolo. «La leggi la stampa, Pupooo? Sai leggere?» ripeté. «Hai creato un bel casino, un casino enorme vendendo schifezze a quella gran puttana, e adesso senti il fuoco al culo! Hai superato il segno, pupo. Io ti do merce di qualità, e tu cerchi di fregarmi. E togliti quella sigaretta di bocca quando ti parlo!» Pupo sobbalzò e si affrettò a spegnere la sigaretta. Non sapeva come giustificarsi, non aveva scuse, tremava come una donnetta nel silenzio che seguì. Ramirez si risedette. S’infilò un dito nelle orecchie, andò poi in profondità. «Faresti bene, tu e i tuoi compari, a scomparire.» Pupo frignò. «Ma io… ho bisogno di quella roba, signore… Non posso rimanere sen…» «Sono cazzi tuoi! Tu hai messo nella merda ME! Mi hai mandato a puttane il lavoro di mesi, IO rischio, IO faccio arrivare la merce dal mio paese. E ora cosa dico ai miei amici di Cali? Dico che ti sei comportato come un fottutissimo gattino che si è fatto beccare con il canarino in bocca? Non cercheranno TE, Pupo. Cercheranno ME! IO devo correre subito ai ripari, non TU.» Gli puntò il dito contro. «TU sei FUO-RI! Hai il vuoto attorno a te, non azzardarti a farti vedere dalle mie parti! VIA!» Pupo non disse ba. Si girò su se stesso, si diresse a testa bassa vers o l’uscita, afferrò la maniglia della porta, l’abbassò e aprì. Ramirez estrasse una 38 dalla tasca e sparò, facendogli esplodere le scapole. Poggiò il ferro sul tavolo, si accese un’altra Camel, prese il telefono e


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ordinò. «Venite a liberarmi dalla spazzatura che ho sulla porta.» Non ripose subito la cornetta, alzò lo sguardo verso il soffitto, quindi chiuse il telefono. Al cellulare compose un numero. «Salvador? Sì, la solita storia. Allora, Giovanna deve dormire sonni tranquilli, meglio non disturbarla. A Cali conoscerai i dettagli. Per ora non ci muoviamo, troppo chiasso attorno, troppi ficcanaso, stampa, tivù, G-man. Non so ancora, quando verrò, te lo farò sapere. Il nostro uomo minaccia vendetta. Mi sono fatto una gran risata. Ah sì, hai letto anche tu? Per ora aspetto di saperne di più, ma lo teniamo d’occhio. A proposito, ho dovuto togliermi un po’ di polvere da sotto le scarpe, anche se io e i miei amici non siamo stati disturbati, sai, con certi bifolchi… No, non dirmi niente, so come ci si comporta. D’accordo. Adios.» La Banda dello Sguincio non si era fatta vedere, come lui aveva ordinato. Ramirez mandò loro il messaggio di non fare altre cazzate, di stare in campana, li avrebbe cercati al suo ritorno. Il tempo si trascinò sino a pasqua, Ramirez fece passare le feste. Dopo due settimane, partì per Cali, terza città della Colombia. La città era torrida, vi gravava un’aria umida e marcia. Un fetore di cani randagi aleggiava nella zona di un vecchio hangar dal tetto in lamiera, deposito di vecchie carcasse di aerei leggeri, circondato da campi abbandonati e da case diroccate, soltanto una nuda e metallica rovina segnata dal tempo là oltre la cupa periferia . Ramirez si presentò davanti al gran capo, Salvador Duarte, un grassone dalla faccia indio, carnagione olivastra, uno e sessanta d’altezza, capelli stirati. «Dall’ambasciata ci dicono che Rizzo si è scatenato. Il tuo pivello l’ha combinata grossa. Spero che non ci siano più intoppi, lo spero per te, Rinaldo. Scegliti le persone giuste un’altra volta» gli disse appena lo vide.


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«Non succederà più. Il mio ragazzo si era sempre comportato bene, ma adesso non combinerà più guai…» rispose a fior di labbra. «Lo spero per te. Il fidanzato di quella troia ha montato su un casino. Dimmi che ci sono novità…» Ramirez tossicchiò. « Il nostro contatto in ambasciata ci ha riferito che quel Mantega ha chiesto il visto per la Colombia.» «Bisogna provvedere, fermalo.» «Qualcuno ha pensato alla sua auto.» Duarte si abbassò, aprì un mobiletto sotto la scrivania, tirò fuo ri una bottiglia di brandy. Si alzò, prese un bicchiere di carta da un armadio. «E non è successo niente, vero?» Si versò da bere. «E poi che altro ancora.» «Dopo la sua richiesta, alla nostra ambasciata a Roma ne è arrivata un’altra dagli Stati Uniti da parte del Chicago Tribune.» Duarte sorseggiò il brandy, prese un altro bicchie re e versò da bere a Ramirez. «E quindi?» «Secondo il nostro contatto, la richiesta del visto è partita dagli USA, perché sembra che Mantega lavorerà per il giornale. Secondo me, invece, sotto c’è dell’altro.» Ci fu una breve pausa. Ramirez era incerto se azzardare un’ipotesi, non sapeva come l’avrebbe presa, ma Duarte lo incoraggiò. «Avanti… avanti…» Ramirez buttò giù il brandy tutto di un fiato. «Uno dei più influenti giornalisti del Chicago Tribune, non so che posto occupi, uno dei pezzi grossi insomma, è Liam Neik. Liam Neik è un agente della CIA…» Duarte non ce la fece più, gli scappò da ridere. Il brandy gli andò di traverso. Tossì. «Bravo Rinaldo, vedo che sei diventato perspicace! Sentiamo, secondo te allora…»


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Ramirez si grattò il collo. «Neik è culo e camicia con il Presidente, e se si è scomodato uno come lui, per un visto, è perché Mantega è stato messo nel suo libro paga. In quello della CIA, intendo. Sotto copertura.» «Se le mie informazioni sono giuste, questo Mantega è un fotog rafo di moda o roba del genere» annotò Duarte. «Appunto. Arriva dalle nostre parti per fare cosa se non per romperci le palle. Non credo alle coincidenze.» Duarte corrugò la fronte, pensava al da farsi. «Bisogna fare di più, bisogna fare di più» ripeteva fissando negli occhi Ramirez. «È chiaro che vogliono colpire il cartello. Tienilo d’occhio questo Mantega, seguilo sino al cesso e non lasciartelo scappare. Quando arriverà, organizzeremo un bel comitato di benvenuto al señor Mantega. L’ambasciata ci servirà ancora, per conoscere i suoi spostamenti. Coinvolgeremo il nostro colonnello di Caguari. Abbiamo gli stessi interessi. Se non vuole avere delle rogne anche lui, sa rà costretto a darci una mano, ma abbiamo bisogno di un uomo che lo marchi stretto , senza dare nell’occhio, e lo consegni al colonnello. Abbiamo qualcuno che ci possa aiutare?» «Sì, un giornalista. Penserò io a sistemare la faccenda.» Duarte si grattò le palle. «È compito tuo. Risolvi questa cosa al più presto. Parla col colonnello, fai quello che ti pare, ma liberati di lui se vuoi continuare a fare affari con noi. Altrimenti, raccomandati a qualcun altro.»


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AL APRICOT FOR PRESIDENT! La scritta a grandi lettere sull’enorme striscione occupava l’intera parete della sala ricevimenti del Lincoln Park Hotel di Chicago piena all’inverosimile. In questo gran giorno, il giorno dei suoi festeggiamenti, il Governatore dell’Illinois, Al Apricot, sedeva in pompa magna accanto alla sua sposa, una matrona dai fianchi e dalla bocca larga, al centro di uno speciale enorme tavolo rialzato, circondato da un nutrito gruppo di amici con le rispettive consorti, tutte vestite come delle regine. Il Governatore, in rigoroso smoking fumé e farfallina scura, a dispetto di una pronunciata stempiatura, si portava bene i suoi sessantanni, aveva un fisico asciutto e un sorriso sempre stampato in bocca che voleva trasmettere ottimismo. Era avvocato, ma aveva sempre esercitato la sua professione unicamente a favore dei suoi affari, diventato poi un ricco banchiere grazie a certe spericolate operazioni di borsa che gli avevano permesso di acquisire la maggioranza del pacchetto azionario di altre piccole banche private. Elargiva denaro, controllava dieci, quindici consigli di amministrazione delle più importanti imprese del territorio, dal pellame al petrolio, dalle industrie d’armi sino alle fabbriche di giocattoli. In quell’ambiente era conosciuto col nomignolo di Squalo,


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appellativo di cui andava orgoglioso, ovviamente. Per il vero, era notoria la sua smodata ambizione, e dunque nessuno si era meravigliato che fosse riuscito nell’impresa di vincere le primarie per la Presidenza. Ma era conosciuto anche per la sua aggressività che univa alla spavalderia, alle quali si attribuiva il suo successo, in più era facilmente irritabile e, nella cerchia dei suoi collaboratori, si diceva che non tollerasse i lassismi e non perdonasse le ingenuità. Ora dispensava sorrisi e saluti con ampi cenni del braccio o con stre tte di mano agli ospiti di quella sala, anch’essi tutti suoi amici o fidati sostenitori, in ogni caso, tutte persone note nell’ambiente degli affari. Molti dovevano la loro fortuna al Governatore e in quest’occasione si sentivano liberi di contraccambiare finanziando la sua campagna elettorale. Altrettanto erano coloro che puntavano su di lui per accrescere le loro già cospicue fortune dimostrandosi generosi come solo gli uomini d’affari sanno fare. Vi erano circa cinquecento ospiti agghindati con abiti di gran gala e ordinatamente seduti ai loro tavoli dalle tovaglie raffinate e con alte pigne di cibi prelibati. Una fanfara suonava inni patriottici, le coccarde e i gadget con l’effigie del senatore abbondavano. Era una scena nel tradizionale stile stelle e strisce, che infondeva in quella folla di invitati la sensazione di appartenere ad una grande nazione. Di quando in quando, qualcuno saliva sul palchetto allestito in fondo alla sala, faceva il suo discorsetto, magnificava le doti del senatore che aveva resistito alle pressioni per limitare la circolazione delle armi, ne illustrava i meriti per aver incrementato gli affari dei commercianti di Chicago e riceveva la sua dose di entusiastici applausi, mentre mostrava orgoglioso il suo contributo, un assegno con tanti zeri. Tutti i presenti sembravano contenti e felici di sostenere la candidatura alle primarie

presidenziali

del

partito

repubblicano

del

senatore


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dell’Illinois. Ognuno di loro aveva sborsato almeno diecimila dollari a testa per sostenere il suo presidente e aveva il privilegio di un posto a tavola. L’organizzazione era efficiente. Con i loro bravi cartellini di riconoscimento appuntati sul bavero dello smoking preso in affitto, Raff Mantega e Luigi Monser, si erano fermati nella sala stampa attigua a quella del ricevimento. Facevano tappezzeria, osservavano il cerimoniale dai monitor tivù a circuito chiuso. Raff guardava distratto gli invitati, ricostruendone reputazioni e, mentre lo faceva, cercava, come sempre, di intuirne la provenienza. Nella sala un centinaio di giornalisti accreditati delle più svariate testate del mondo faceva ressa aspettando il discorso del senatore. Mantega e Monser erano più interessati a beccare Liam Neik che non era ancora arrivato, ma erano certi che si sarebbe fatto vivo presto o tardi. Da Roma, Monser, la cui intervista al senatore era già stata fissata, lo aveva avvertito del suo arrivo, accennandogli, fra le altre cose, che con lui ci sarebbe stato Raff Mantega, impaziente di fare la sua conoscenza per via di un progetto in Colombia che egli reputava interessante e che desiderava sottoporre al suo parere. Da uno dei video della sala stampa, Monser riconobbe Liam Neik che si faceva largo tra la folla quasi fosse di fretta. Fece un cenno a Mantega per seguirlo e in un lampo gli furono vicino appena prima che fosse inghiottito di nuovo dalla calca. «Neik!» gli urlò. Liam Neik si voltò. Un grosso sigaro spento, su cui, evidentemente, scaricava tutta la tensione del momento, penzolava tra due labbra carnose. Era un uomo di mezza età, brizzolato, un grande naso camuso e l’espressione un po’ imbronciata. Monser gli porse la mano,


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afferrandogli con l’altra il polso, con un gesto risoluto per costringerlo a farmarsi e ascoltarlo. «Luigi Monser della France Press, ricorda?» Neik aggrottò la fronte come per dire ehmbé? Il sigaro passò da un angolo all’altro della bocca, poi, però, parve fare mente locale e accennò un sorriso. L’aveva riconosciuto, stava per dire qualcosa, quando Monser, lesto, gli presentò Raff Mantega. «Ah, già! Lieto di conoscervi» disse Neik. Poi, come se ricordasse perfettamente perché i due erano lì, continuò. «Stavo giusto andando dal senatore. Seguitemi, prego.» Mantega e Monser gli andarono dietro e raggiunsero con lui il tavolo di Apricot. Mentre Raff rimaneva leggermente in disparte, Monser si accordò con il senatore sulle modalità dell’intervista che avrebbe avuto luogo a breve. Il senatore Apricot si consultò rapidamente con Neik e coi suoi collaboratori, parlottò con altri e assicurò infine Monser che sarebbe stato disponibile, tempo mezz’ora, appena prima della conferenza stampa ufficiale in una saletta più defilata, lontano dai clamori dell’happening. Monser si dichiarò soddisfatto e raggiunse Mantega, il quale poco prima, con sua sorpresa, era s tato preso a parte sottobraccio da Neik, che, con fare confidenziale e senza tanti preamboli, gli aveva detto. «So che hai da sottopormi una proposta di lavoro sulla Colombia, ragazzo. Facciamo così, ci vediamo nella hall alla fine della conferenza stampa. Tutti se ne saranno andati e noi potremo parlare più tranquillamente, ti va?» Raff non poteva che esserne contento. Ne dedusse che l’autorevole collega era veramente interessato. Alla fine i due amici si concessero volentieri un coctail per il buon inizio e presero a bighellonare qua e là, guardandosi bene dal farsi intrappolare da qualche conoscente . A un certo momento Luigi diede di gomito a Raff. «Guarda guarda


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guarda» Monser aveva notato una persona la cui presenza, data la notevol e altezza, non poteva sfuggire. Si sfregò il mento. «Chissà cosa ci sta a fare in mezzo a tutta questa bella gente un tipo come lui» disse. «Stona la sua presenza in questo posto. Ovviamente, fra tanta gente, è pure possibile che ci sia qualche imboscato.» L’imboscato era Louis Vanijenko, il quale non era una persona qualunque, a sentir Luigi. Raff lo guardò curiosamente. «Chi è, perché ti meravigli? Qui sembra rappresentato tutto il bel mondo di Chicago, pare ci sia la gente che conta.» Luigi intanto non abbandonava con gli occhi il gigante, e con le dita continuava a strofinarsi il mento. «È un franco-ucraino, un agente della Military Resourse, operativo in diverse missioni, in ogni parte del mondo, Sierra Leone, Afganistan, Sudan…» «Che cosa è questa Military Resourse?» domandò Raff mentre si portava il bicchiere in bocca. «La M.R. è una società di consulenza militare, una delle tante che ci sono negli Stati Uniti. Forniscono personale di sorveglianza, ex militari professionisti, che chiamano contractor. Danno appoggio logistico e militare a clienti, per lo più aziende che lavorano in paesi cosiddetti a rischio, o in zone di guerra, ma anche a Stati e governi.» «Governi?» domandò sorpreso Raff. «Proprio così, sono delle vere e proprie multinazionali della sicurezza, che offrono ogni genere di assistenza. Svolgono addestramento di forze militari, compiono valutazioni del rischio del paese nel quale un’azienda vuole investire, si occupano di sminamento, e cosi via. Vanijenko con la sua società è uno tra i più richiesti, e mi chiedo cosa ci stia facendo qui.»


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L’uomo che Monser gli aveva indicato era ad una quindicina di metri da loro e conversava amabilmente con altri ospiti. Era un marcantonio biondo, alto di certo più di un metro e novanta, una cravatta rossa non annodata gli cingeva il collo taurino, la mandibola sporgente e una massa di muscoli gli gonfiavano la giacca di un completo blu squisitamente tagliato. Luigi lo osservò mentre beveva un aperitivo eccezionalmente abbondante. «È la prima volta che lo vedo di persona. Di lui ho solo delle immagini che lo riprendono in tuta mimetica e anfibi. Fa un certo effetto vederlo vestito da damerino. Sembra fuori posto…» «Beh, sarà un uomo d’azione. Forse non è tagliato per questo genere di performance, ma chiedilo al senatore Apricot.» «Sì, questo genere di uomini non sono soltanto dei militari, ma anche degli accorti uomini d’affari che sanno far girare miliardi di dollari. Le loro prestazioni sono molto care, ti assicuro, e questo potrebbe spiegare la sua presenza qui.» Raff batté le mani. «Bene, si vede che è il mio giorno fortunato allora! È il mio terreno, vado a caccia di mercenari e me ne ritrovo uno proprio davanti. Non c’è che dire, il tuo Vanijenko, pieno di dollari, tutto muscoli e cervello rappresenta bene quello che per me è un mercenario.» «E bravo campione, comincia a fargli qualche primo piano allora!» lo sollecitò divertito Luigi. Sullo schermo, intanto, era apparsa la faccia del senatore Al Apricot in procinto di pronunciare il suo bel discorso rivolto ai munifici sostenitori della sua campagna elettorale.


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Finito il ricevimento, il circo aveva smontato le tende. Il senatore, concessa l’intervista a Monser, conclusa la conferenza stampa, era andato via. Gli importanti ospiti danarosi, che erano stati i veri protagonisti della serata, avevano lasciato la sala con il loro seguito. Quando Liam Neik entrò nell’immensa hall, ora deserta, Raff Mantega era ad aspettarlo da circa un’ora. Le sole maestranze, impegnate a sbaraccare gli allestimenti, gli avevano fatto compagnia. Venendogli incontro, parve a Raff che il capo redattore del Tribune fosse in preda a tensione. Rosso in viso, gli sembrò più corrucciato di quanto non lo fosse quattro ore prima, quando aveva fatto la sua conoscenza. Neik gli strinse la mano e si sedette con lui. Sfilò dal taschino della giacca il solito sigaro, ne scapocchiò la punta che sputò via, poi gli si rivolse andando subito al nocciolo. «Sono tutto orecchie Raff» disse accendendosi il sigaro. «Sono proprio curioso di conoscere che cosa hai di tanto importante da propormi sulla Colombia, di cui io non sia edotto. Per carità, ho sufficiente esperienza e conosco troppo bene quel Paese per non sapere che non è mai abbastanza quel che può saltar fuori all’improvviso.»


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Si strofinò il grosso naso e gli piantò le palle degli occhi addosso con aria sardonica, quasi sfidandolo. «Sbaglio o sono anni che le tue foto non circolano più sui tavoli delle redazioni? Oh, devo dire che di te ne sento sempre parlar bene , anche se non ti occupi più di giornalismo.» Mantega fu per dir qualcosa, ma Neik lo bloccò e si affrettò a proseguire: «No no… conosco le tue foto e i tuoi servizi, Raff, e quando la France Press mi ha chiamato per dirmi che volevi parlarmi, mi sono chiesto: perché io e non loro? No aspetta…» continuò, prima che il suo interlocutore lo interrompesse, «intendo che sono stato colpito proprio da questo. Mi ha fatto piacere e m’incuriosisce, poiché certamente hai avuto le tue buone ragioni per esserti rivolto a me. Forse non sai che il Tribune paga già un suo inviato in Colombia, e dei migliori, ti assicuro. È lì da due anni e copre egregiamente tutta l’informazione, quindi…» concluse con un gesto esplicito. «Ho ben capito, Mr. Neik.» Neik soffiò un anello di fumo del sigaro verso il soffitto. «Chiamami Liam, ti prego.» Mantega fu conciso. «Bene Liam, vedi, io ho pensato alla Colombia per due ragioni. Dopo l’undici settembre, l’attenzione di tutti si è rivolta ad altre parti del mondo, e questo è ovvio, zone però molto lontane dall’America, e della Colombia, con la sua guerra civile e i suoi morti ammazzati, considerata fino allora il cortile della casa America, si parla sempre meno, e mi è parsa, proprio per questo, un’ottima idea andare a vedere se è cambiato qualcosa. Ma ciò che ha attirato la mia attenzione è che nessuno, nessuna fonte giornalistica, nessuna inchiesta abbia mai parlato di truppe mercenarie in Colombia. Sembra che in quel paese ci sia proprio di tutto, è vero, ma di mercenari non si è mai fatto cenno.»


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Un palpito d’interesse sembrò ora passare nello sguardo di Neik. Mantega ne approfittò per cavare dalla tasca il dispaccio di agenzia che aveva portato con sé dall’Italia e, porgendoglielo, continuò. «Sei uno dei maggiori esperti di faccende colombiane e sarai al corrente di quest’agenzia. Insomma, mi sono detto, perché no? Perché non andare a fondo a questa

storia, perché non verificare cosa succede

effettivamente?» Mentre Raff parlava, Neik leggeva il dispaccio. Tra l’indice e il medio della mano destra, il sigaro emanava un sottile filo di fumo che s’innalzava oltre la sua testa. Era tanto concentrato nella lettura che questo gli si spense tra le dita. Lesse e rilesse più volte l’agenzia. Mantega proseguì. «Credo che valga la pena di andare in Colombia, costi quel che costi. Questa è una notizia ghiotta, Liam, che vale un’inchiesta. Io la vedo così. Andrò in Colombia, dunque, e resterò là il tempo necessario. Farò il mio lavoro e avrò i riscontri che cerco. Saprai che non lavoro per conto di alcuno e, quando avrò finito, dovrò guardarmi attorno, e scegliere a chi far vedere qualche foto. Qualcosa succederà, sono sicuro. Monser è solo un amico che ha voluto aiutarmi. La France Press non c’entra, non ha certo bisogno di me.» Neik si sporse in avanti inarcando le sopraciglia. «Bene, ascoltami Raff, non posso prometterti niente e tanto meno impedirti di dare la caccia a notizie stuzzicanti, è il mestiere. Posso solo dirti che non mi dispiacerà, alla conclusione, vedere il tuo lavoro. Ma lasciami il tempo di riflettere qualche giorno, solo pochi giorni. Non sono io che decido, ne parlerò con Karl, il direttore del Tribune e con la proprietà.» Si alzò pensoso e si avvicinò ai finestroni, rimanendo a guardare, con le mani dietro la schiena e il sigaro spento tra i denti, i grattacieli di cristallo di Hancok Center. Quindi prese a camminare avanti e indietro. «Se loro accettano,» soggiunse, «per me va bene. In tal caso vorremo


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l’esclusiva.» Si voltò verso Mantega. «Sappi che il lavoro ti sarà ricompensato a forfait, senza rimborso spese.» Anche Mantega si alzò. «Bene, il mio lavoro vale centocinquantamila e le foto saranno vostre» azzardò. Il volto di Neik si fece di brace. «Sei un gran figlio di cane. È troppo. Potranno arrivare forse a trenta, quarantamila. Non un dollaro di più.» «Duecentomila… E se cali, io rialzo di cinquanta in cinquanta, Liam.» «Sei un bastardo!» «Ci vediamo Liam!» Raff lo salutò voltandogli le spalle a sorpresa e incamminandosi deciso verso l’uscita. «Va bene, come vuoi tu, lurido bastardo. Ma non posso chiedere a Karl più di centomila dollari. Mi caccerebbe via dal giornale e prenderebbe te al mio posto…» Ma Neik non finì la frase che Mantega, fermatosi, lo interruppe. «Con il mio servizio, ne guadagnerete il doppio. Dillo al tuo capo, ne sarà contento. Dopo, vedrai, ti promuoverà vice direttore e tu verrai a ringraziarmi.» «D’accordo, vedo cosa posso fare. Ma se Karl non acc etterà, non prendertela con me.» Di certo Raff avrebbe voluto, in quel momento, fare un salto di gioia, ma si contenne, si limitò a tornare verso Neik per offrirgli la mano a sancire il patto. Il più era fatto, il colpo era andato a segno. Ma Mantega non era ancora pago. «Che cosa mi puoi dire riguardo al Plan Colombia, oltre a quello che si conosce ufficialmente?» domandò. «Il Plan è uno strumento importante con lo scopo di mettere fine al traffico della droga e alla guerriglia che lo alimenta. Il Congresso ha autorizzato il governo a spendere la bellezza di cinque miliardi e mezzo di dollari per raggiungere questo obiettivo. Uno sforzo enorme, ma i


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risultati cominciano a vedersi: la lotta ai narcotrafficanti va avanti, il cartello di Meddellin è stato sbaragliato, pacificate alcune zone del Paese, anche se resta ancora molto da fare. Ci sono troppe sacche di guerriglia.» «E che altro?» insisté Raff. «Questo è quanto. Se si farà l’accordo e partirai, avrai tutti i ragguagli che vuoi dal nostro inviato Greg Barlow, un ottimo collega.» «Bene Liam, mi aspetto buone notizie da te.» «Contaci, ma…» «Ma…?» «Oh, niente… Ti faccio i miei auguri, Raff, come ti ho detto, non posso prometterti niente, se non di mettere una buona parola con Karl. Certo, tu lo saprai meglio di me, ma, ugualmente, devo raccomandarti di essere prudente. So che sei esperto e non avresti bisogno di consigli, ma quando un collega va in certe zone mi sento in dovere di sembrare anche un po’ pedante… Perciò attenzione, buona fortuna!» Così dicendo, buttò via ciò che era rimasto del suo sigaro, e si avviò fuori. Sull’aereo di ritorno per Roma, dopo i quattro giorni trascorsi a Chicago, Monser raccontò a Mantega dell’intervista con il senatore. «Ti ho detto degli affari di Apricot prima che diventasse governatore dell’Illinois. Gli ho fatto una precisa domanda che mi è stata suggerita proprio dalla presenza di quel tale che ha destato con la sua presenza la mia curiosità, Louis Vanijenko, e la sua risposta è stata interessante. Ebbene, tra i numerosi incarichi, ne ha ricoperto uno nella Military Resource. Direi che è piuttosto curioso, caro Raff, non rimane altro che cercare per saperne di più su questa società.» La voce di Raff era seccata. «Ascoltami bene, Luigi, io non faccio il


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tuo mestiere. Ciò di cui ho intenzione di occuparmi è documentare la guerra civile in atto in Colombia, se per davvero ci sono truppe mercenarie e dimostrarlo, prove alla mano, con le mie foto.» «Certo, ma per poterlo fare al meglio, devi partire con più informazioni possibili» replicò Luigi. «Non è provato, per ora, che ci siano eserciti privati in Colombia, ma non puoi ignorare che sia stato lo stesso Apricot a dichiarare, durante la mia intervista, che conosce molto bene Vanijenko. Non puoi andare in quel Paese a occhi chiusi.» Raff scrollò il capo. «Mi sembra che non abbiamo niente che colleghi la M.R. e Vanijenko alla Colombia.» «Ancora no, è solo un’ipotesi, per questo è utile indagare.» Nei giorni seguenti, benché Neik non avesse ancora comunicato il via libera da parte del direttore del Tribune, Mantega e Monser ne discutevano come se il piano dovesse andare avanti, e non passava giorno che non s’incontrassero nella redazione della France Presse per analizzarne ogni aspetto, anche materialmente organizzativo. Luigi si adoprava per ottenere notizie aggiornate dalla corrispondente di Bogotà, Mito Amarante, legata sentimentalmente a quel Greg Barlow, inviato speciale del Tribune al quale Raff, gli era stato detto da Neik, si sarebbe potuto appoggiare durante la sua permanenza in terra di Colombia. Mito Amarante aveva informato Monser che subito dopo il sequestro dell’aereo americano da parte della guerriglia colombiana si era riscontrata a Bogotà la presenza di Vanijenko. La sua ipotesi, dunque, era stata confermata. La notizia era stata diramata dagli organi di stampa locali, notizia che la CIA aveva però prontamente smentito. Tuttavia, il caso aveva avuto vasta eco in Colombia. I giornali avevano scritto di diciassette tra imprese e società, tra cui la M.R. di Vanijenko, che si erano impegnate a dare il proprio contributo nella lotta contro la


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droga. Ma, cosa che rivestiva il massimo interesse, la M.R. era un segmento della System Martin Corporation Ltd., una potente holding finanziaria che stipulava regolari e vantaggiosi contratti di consulenza militare in qualsiasi parte del mondo. Tra i soci azionisti della società era stato fatto il nome del senatore Al Apricot. Erano le cinque del mattino. Al centocinquantaduesimo piano del Fargus Center era buio, c’era solo un uomo nei locali della redazione del Tribune. Dietro la sua scrivania, al chiarore della lampada da tavolo, Liam Neik parlava al telefono da cinque minuti. «Sai che non potevo impedirlo. Ho fatto smentire le notizie che sono circolate… Sì, è confermato… È codice rosso. Ho già parlato con l’ambasciata colombiana per il visto.» Fece una breve pausa, interrotto dall’interlocutore. «Ti rendi conto, Liam? Sei sicuro che i tuoi amici dei servizi non ti stiano giocando un brutto scherzo?» Liam Neik continuò. «Ma non so perché questo fotografo del cazzo sia venuto da me, e che cosa ci sia sotto. Stava filando tutto liscio, qui sembra tutto tranquillo.» L’altro lo interruppe ancora. «Insomma, puoi scoprire da dove è sbucato questo? Ci mancava solo lui, dannazione…» «È Monser della France Press che me l’ha presentato.» gli rispose Neik grattandosi la testa. «Lo conoscevo di fama, ma non era in circolazione da tempo…» «Bisogna assolutamente saperne di più…» disse l’uomo al telefono. «Far qualcosa per impedirgli di nuocere.» Neik fece ancora una breve pausa. «Sì sì, è per questo che bisogna tenerlo d’occhio… Ti farò avere un suo dossier…»


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«Voglio sapere tutto di lui» gli ordinò la voce. «Sì certo… foto, vita, morte e miracoli… Semplicemente, non deve far cazzate… Attenzione, però, abbiamo già abbastanza guai, non dobbiamo complicarci la vita. Tienimi costantemente informato. Ora ti lascio, a presto.» Neik chiuse il telefono, spense la lampada, uscì dalla stanza e dal palazzo, ingoiato dal buio della notte.


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Erano passate quattro settimane dal giorno in cui Mantega aveva parlato del suo progetto con Liam Neik a Chicago. Era il venti agosto, quando arrivò la risposta: Mantega poteva partire per la Colombia , il giornale aveva accettato le sue condizioni. Centomila dollari e diritti in esclusiva al Chicago Tribune. Monser, informato da Raff, telefonò alla corrispondente Mito Amarante, avvertendola che Raff Mantega sarebbe atterrato all’aeroporto di Bogotà il trenta di agosto. A sua volta, Amarante si affrettò a comunicarlo a Greg Barlow, l’inviato speciale in Colombia del Tribune e suo fidanzato. Mito Amarante e Greg Barlow si erano conosciuti da poco tempo, ma avevano preso subito fuoco. Si erano incontrati cinque mesi prima, a Medellin, durante una conferenza stampa convocata dal capo della polizia dopo la cattura di un’intera banda criminale implicata nel traffico di droga e del suo capo, un certo Martinez. Tra Mito e Greg era nato del tenero che si era trasformato presto in una solida relazione. Era quello che forse serviva a Barlow per ridare equilibrio e ordine alla sua vita, sempre vissuta sull’orlo di un precipizio. Aveva diciasette anni e più cervello di quanto ne avesse avuto chiunque della sua famiglia, quando se ne andò di casa. Era il più piccolo di quattro fratelli che vivevano tutti dentro una topaia in una cittadina al confine del


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Colorado col Nebraska. La madre era stata una pia donna che passava il tempo a pregare nella chiesa battista metodista più che ad allevare i figli. Il padre era un taglialegna, ubriacone e manesco, che si scolava l’intero sussidio della giornata al bar nei giorni in cui era senza lavoro, ed era la maggior parte delle volte, ma pretendeva, spesso a suon di botte, che i figli imparassero il suo stesso duro mestiere. Ma Greg si era stufato presto di quella vita di merda. Aveva rifiutato di seguire il padre per i boschi a tagliar legna e di essere impiegato in un’impresa di pompe funebri, ma, dopo gli studi superiori, si era sposato con una ragazza carina di nome Ester, sua compagna di scuola, per staccarsi ulteriormente dalla famiglia. Perciò aveva lasciato quell’angolo di terra dimenticato da Dio e si era stabilito con la moglie a Denver. Greg era d’indole forte, un ottimista, non gli mancava di certo la buona volontà e sapeva come cavarsela. Tutto il contrario della giovane consorte , lunatica e affetta da turbe nervose, non resse alla prova e, dopo qualche mese, dette di testa e, ricoverata in un manicomio, si ammazzò, buttandosi dal terzo piano dell’ospedale. Era stata una gran brutta mazzata per Greg, ma trovò la forza per rialzarsi. Aveva frequentato le scuole serali per diventare agente di commercio, lavorando durante il giorno come fattorino presso il Sun, uno dei giornali di quella città. Un giorno era venuto a mancare un vecchio cronista e il direttore, riconoscendo in lui un ragazzo intraprendente, gli affidò il suo posto come redattore sportivo, incaricato di seguire le vicende della locale squadra di baseball. A Greg Barlow sembrò di toccare il cielo con un dito. Egli credeva, come molti giovani, che, avendo lottato per completare l’istruzione e farsi una cultura professionale, le sue qualità sarebbero state automaticamente riconosciute, portandolo ad un decente livello di vita. Ma non andò proprio così. Dovettero passare diversi anni, anni di fame


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e di stenti, dovette sgomitare parecchio per farsi strada, prima di essere accettato come giornalista. Si era sposato nel frattempo con Cecil, una donna di origine irlandese e si era trasferito a Chicago dove sarebbe finalmente esploso il suo talento, per affermarsi come uno dei migliori inviati, sempre in giro per il mondo. Fu così che incontrò Mito, ma la cosa non si rivelò semplice, giacché il rapporto, come sarebbe ovvio pensare, fu tenacemente ostacolato da Cecil, cattolica praticante, che non voleva concedergli il divorzio, benché fossero separati da tre anni. Cecil, ora stabilmente residente in una sperduta cittadina del Colorado con il figlio Bud, oggi sedicenne, non si era abituata alla vita itinerante di Greg, e quella era stata la causa sostanziale della loro separazione. Eccellente giornalista, pessimo marito, lo accusava la moglie. Aveva ragione Cecil, anche lui doveva ammetterlo. A complicargli maledettamente le cose, c’era l'avvocato di sua moglie. Quando Barlow metteva piede sul territorio degli Stati Uniti, lo inseguiva per ogni dove minacciandolo di cause civili e penali, se non avesse consentito a ricomporre le controversie con la legittima moglie. Per lui era un periodaccio. Era entrato in rotta di collisione con Liam Neik, ma non ne voleva far parola a Mito, e ora che lei e il giornale avevano insistito tanto perché collaborasse ad una certa inchiesta che un famoso fotoreporter doveva seguire sulla vicenda di un aereo americano catturato dalla guerriglia colombiana, si sentiva sotto pressione. Alla fine, aveva promesso il suo appoggio, ma solo per fare un favore a lei e non a Neik. «Accetto perché a te non posso dire di no… e poi comincio a stufarmi del mio lavoro al Tribune» le aveva detto. Da parte sua Mito, semplice corrispondente di agenzia alle prime armi, aveva bisogno di Greg. Benché l’amico Monser la incoraggiasse,


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rassicurandola sulle capacità del fotoreporter, non voleva correre il rischio di trovarsi a fronteggiarlo da sola, senza il paracadute dell’insostituibile e preziosa esperienza di Greg. Mito non si spiegava il suo malcontento nei confronti del giornale cui era sempre stato così attaccato. Non le era mai capitato di sentirlo parlare così, in quel modo, lui che aveva sempre considerato prestigioso, per un inviato speciale, il lavoro al Tribune. Anche Mito, per il vero, non era del tutto soddisfatta del suo incarico. Dopo tanta gavetta, avrebbe desiderato impegnarsi in qualcosa di più importante. La infastidiva l’idea di essere considerata una specie di accompagnatrice turistica di un fotografo free lance, anche se bravo e famoso. Aveva parlato con Luigi Monser che le aveva chiesto informazioni sulla situazione in Colombia, e lei si era prestata di buon grado per la riconoscenza che gli doveva. Comunque sia, per fortuna, alla fine, Greg le aveva promesso il suo apporto, e questo era ciò che la rassicurava. Mito pensava a Greg, mentre ora si recava in aeroporto per ricevere Raff Mantega. Da qualche tempo lo aveva visto più inquieto e poco disponibile. «Colpa della situazione» lui diceva. E in effetti, Mito attribuiva la sua irrequietezza allo stato di eterna incertezza causato dal comportamento ossessivo di Cecil che toglieva serenità alla loro relazione. Non poteva spiegarsi altrimenti il significato delle sue par ole riguardanti il lavoro. Greg ne aveva visto di tutti i colori nel corso della sua carriera, non era certo tipo da impressionarsi e da tirarsi indietro davanti a eventuali ostacoli. Anzi, ci aveva sempre dato dentro come un dannato e il lavoro lo esaltava. L'incontro con Mantenga in aeroporto era stato formale. Il programma prevedeva una breve sosta all'albergo Buena Vista in cui gli aveva prenotato

una camera

e una visita

a

Barlow, nell’ufficio

di


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corrispondenza del Tribune. L’idea di quest’avventura eccitava Raff Mantega. La sua antica passione lo aveva già proiettato in una dimensione ben diversa, lontana dal vecchio e ovattato mondo che sentiva non appartenergli più. Dopo sei anni, riprendeva a fare la vita che gli era più congeniale. Malgrado l’esperienza, era la prima volta che andava a fare un reportage fotografico in completa autonomia. Un tempo, erano i comandi militari a prendere la decisione di dove e come doveva muoversi. Adesso avrebbe goduto di maggiore libertà d’azione, anche se i rischi sarebbero stati di gran lunga superiori. Ma era tutto calcolato. Non ci sarebbero stati così intralci e possibili ritardi per autorizzazioni sulle scelte da fare, ma avrebbe avuto la collaborazione di ottimi colleghi. L’aereo su cui viaggiava era atterrato all’aeroporto di Bogotà. Raff era sicuro di trovare ad attenderlo Mito Amarante, la corrispondente della France Press. Entrò nella sala passeggeri dell’aerostazione e scorse da lontano il cartello su cui spiccava a grandi lettere il suo nome: Señor MANTEGA. Un attimo dopo la vide. Aveva quel che si dice un personale pieno di sottintesi, il tipo di donna che ti fa rimpiangere di non essere rimasto un minuto di più sotto la doccia o con il rasoio in mano. Furono pensieri che gli attraversarono la mente alla velocità della luce . Indossava un tailleur di seta verde acceso squisitamente tagliato , con accessori che si accordavano perfettamente e, con un mezzo sorriso, Raff pensò che giù in strada doveva essere parcheggiata un’auto che si accompagnava al suo abbigliamento. Mentre attorno a loro la confusione di chi arriva e di chi parte non gli aveva ancora perm esso di raggiungerla, lo colpì la carnagione di uno squisito bruno vellutato e la folta massa di capelli scuri che incorniciavano due grandi occhi grigi,


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incastonati in un viso grazioso. Le labbra erano carnose senza essere volgari, dolci senza essere piccanti. Le anche si muovevano come quelle di una gazzella sotto un tailleur di seta attillato, con una sensualità gentile e incolpevole. Sono proprio curioso di vederti scalare la cordigliera senza sporcarti le tue belle scaripine verdi, gli venne da pensare. Certo, con quel fisico stupiva che non le avessero mai proposto di fare la mannequin, ma era una sua antica fissazione che evidentemente non aveva ancora perso, quella di guardare ogni bella donna con l’occhio professionale del fotografo di moda. I raggi del sole proiettavano sulla figura di lei l’ombra di un’insegna, e vista in chiaro-scuro, calcolò che dovesse avere non più di trent’anni, una tipica bellezza latina. Finalmente davanti a lei, constatò che non era di molte parole. Lo aveva salutato, si era presentata e adoperata per sbrigare

lei le pratiche burocratiche che

sembravano alquanto

complicate, ma non c’era niente nel suo modo di fare che gli facesse supporre un carattere estroverso e socievole. Sicché, l’incantesimo che lo aveva tanto abbacinato al primo sguardo fu presto rotto. Presero un taxi per recarsi in albergo scambiandosi poche parole. Raff si limitò a domandarle se fosse al corrente che Neik aveva telefonato a Barlow. «Sai» le disse «Liam mi ha assicurato che avrei potuto rivolgermi al suo inviato per avere collaborazione.» La risposta di Mito era stata laconica, confermandogli la prima impressione su di lei. Rivolse allora la sua attenzione alle vie che stavano percorrendo. Pregustava l’arrivo al Buena Vista, quando un’auto dietro di loro urtò il taxi sul quale viaggiavano. Paraurti contro paraurti. I due passeggeri che l’occupavano uscirono dal veicolo e ingaggiarono un’animata e interminabile discussione con il tassista che si disperava per i danni subiti. Comunque sia, arrivarono all’albergo e


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Raff riuscì a prendere possesso della sua camera. Sistemò i bagagli, si rinfrescò il viso, mentre Mito lo aspettava per andare con lo stesso taxi in redazione. La sua nuova collega non aveva cambiato espressione del viso, quando la ritrovò giù in strada ad attenderla. Cominciava ad essergli antipatica, ma fu lei a rompere il ghiaccio. «Come sta Luigi? Mi ha fatto molto piacere sentirlo» e, senza aspettar risposta, si lanciò in un lungo panegirico delle qualità professionali e umane di Monser, tanto che Raff si domandò se non volesse avvertirlo che sarebbe stato messo a confronto con il suo amico. Finita la sequela di lodi, si era zittita riprendendo a guardare fisso davanti a sé, impassibile, mentre si raccoglieva i neri capelli dietro la nuca con un leggero, impercettibile cenno che a Raff sembrò di sfida. Dopo dieci minuti di viaggio arrivarono a destinazione. L a sede della redazione del Tribune era all’interno di un palazzina, un comune edificio circondato da un malandato giardino. «Ma non c’è neanche una targa qui?» osservò sorpreso Raff. Mito non si scompose, allungò la mano verso una delle targhette del condominio con tanti cognomi spagnoli e premette il pulsante sul quale era incollato un cartellino con la scritta CHICAGO TRIBUNE – UFFICIO DI CORRISPONDENZA DI BOGOTÀ.


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Ramirez, alle dieci del mattino, puntuale, aveva preso posto su una panchina del Parco di Monserrate di Bogotà. Era una giornata soleggiata e mite, alcune coppiette passeggiavano e le mamme portavano a spasso il carrozzino. Dalle terrazze di siepi si vedeva il panorama mozzafiato della città. Segno di riconoscimento di Ramirez, un distintivo di Nostra Signora di Guadalupe all’occhiello del bavero della giacca. Aveva dovuto attenere qualche minuto prima di essere raggiunto da un altro uomo, che si sedette sul lato opposto della panchina. Aveva un giornale in mano, un cappello nero calato sulla fronte, portava indosso un loden grigio e un paio di occhiali scuri dalla montatura scadente. Questi aprì il giornale alla prima pagina, titolo a quattro colonne: patto di ferro tra Bush e Blair - in Iraq sino alla vittoria. Non si erano mai visti prima quei due. Presero a parlare cercando di non dare nell’occhio. Ramirez spiegò le ragioni per cui erano lì, gli parlò di Raff Mantega. «Lo conosco di fama, e ne ho letto. È proprio vero ciò che ho letto sui giornali…» disse il nuovo arrivato. «Parlami di lui.» «Bianco, alto uno e ottantacinque, ottantuno chili, trentacinque anni. Italiano, parla cinque lingue, una residenza in Svizzera e qualcun’altra in Italia. È un fotografo di moda, ma ha fatto anche il giornalista.» Continuarono a parlare senza guardarsi, entrarono nei dettagli, fecero


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un piano. «Chi è Garcès?» chiese ad un certo punto l’uomo. «Chiedine a Carçero, ti porterà da lui. È il comandante del quinto battaglione antiguerriglia. È un assiduo frequentatore del suo locale.» Una palla gialla arrivò ai loro piedi. Ramirez la raccolse. «Garcès conosce la questione, ma vorrà essere pagato, preparati un bel gruzzolo. Tu dovrai farli incontrare, lui e Mantega. Stabilirà Garcès quando intervenire. A te spettano i collegamenti, stare appresso a Mantega e dirmi tutto quello che fa, nient’altro.» L’uomo sfogliò il giornale, continuando nella commedia, seduto di tre quarti, spalle al suo interlocutore. Lesse un titolo: quindici sindacalisti arrestati dopo un’assemblea. L’occhiello riferiva il commento del sergente dell’esercito che aveva compiuto l’eroica operazione. Fissò il giornale con gli occhi sullo stesso titolo. «Non credo che mi sarà difficile con Mantega. Ne so abbastanza dei suoi trascorsi di giornalista.» Diede un’occhiata alle pagine interne, cronaca nera e varie amenità locali. Un bel marmocchio dalla pelle scura e due occhi, grandi come biglie , doveva avere cinque anni, arrivò a reclamare la sua palla gialla. Trafelato si piantò di fronte a Ramirez che la teneva in mano. Ramirez restituì la palla al bambino, poi si rivolse all’uomo col giornale: «Bene, Neik vuole usare Mantega per i suoi scopi. Ha accettato di fargli fare un servizio per il Tribune sulla situazione in Colombia. Insomma, lo ha arruolato, sfruttando anche il fatto che la sua donna è morta per una dose di droga che sa che le è arrivata da qui. Devi stare attento, Mantega è come una belva ferita. Quel cane di Neik lo avrà convinto a lavorare per lui. Ha colto al volo la sua voglia di vendicarsi. Dobbiamo fermarlo.»


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«In che modo?» Si sentiva lo starnazzare di anatre, il cinguettio di uccelli in volo e, a valle, fuori della loro visuale, un plotone di militari marciare e segnare il passo. «Non sono cose che ti riguardano. Meno sai, meglio è. Tu non mi conosci, io non ti conosco. Quando il tuo Mantega arriverà quaggiù, certamente prenderà contatti con qualcuno del Tribune. L’ambasciata ci ha fornito notizie sui suoi movimenti. Alloggerà in un albergo da strapazzo, il Buena Vista, e farà la spola tra Bogotà, Cali e San Antonio. Ci siamo informati, qui in città c’è una corrispondente della France Press, certa Mito Amarante. Chiamala. Dille che sei interessato al lavoro di Mantega, che vuoi lavorare con loro.» «Io

sono

VERAMENTE

un

ammiratore

di

Mantenga.

Mi

dispiacerebbe che gli sia fatto del male.» «Ascoltami bene! Non so chi cazzo tu sia. Io sto al gioco, vedi di starci anche tu, mi sono spiegato?» Una donna grassa con la sporta della spesa in mano si trascinava pesantemente verso la panchina su cui erano seduti. Trovando un posto vuoto in mezzo ai due uomini, si accomodò. Appoggiò la sporta in grembo, chiuse gli occhi e tirò un grosso sospiro. Rimase così pe r alcuni secondi. Ramirez distese le gambe e si guardò la punta delle scarpe. Erano schizzate di fanghiglia. La donna diede una sbirciatina alla sporta e ci frugò dentro. Marito strangola la moglie. L’uomo all’altra estremità continuava a fingere di leggere il giornale. Ci rimasero così per alcuni minuti, poi la donna serrò le labbra girandosi verso Ramirez. «Giornata veramente splendida.» Le rispose uno sguardo ingrugnito senza ribattere. «Le mie vene varicose non mi consentono lunghe passeggiate…»


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Ramirez fece un sorriso forzato. Sembrava che quella avesse intenzione di farla lunga. Lei si spolverò la gonna, trasse un nuovo sospiro, guardò di soppiatto l’uomo al suo fianco che leggeva e che non le aveva dato neppure lui corda, quindi sollevò il sedere dalla panchina. «Buona giornata» disse, afferrò la borsa e accennò con il capo ad un saluto rivolto a Ramirez, che contraccambiò. La donna grassa se ne andò per la sua strada, l’uomo con gli occhiali scuri cronometrò undici minuti. «Stammi bene a sentire, testa di cazzo, fai quello che devi fare e niente domande. Il tuo compito è di darci notizie sugli spostamenti di Mantega e su cosa combina. È la tua professione, no? Tu sei del posto, conosci un sacco di gente e conosci questo Paese, datti da fare. Poi riferisci a me! Mi metterò io in contatto con te.» L’uomo teneva il giornale sempre aperto, i suoi occhi scorrevano sulle notizie. Non guardava Ramirez. «Non hai dimenticato di dirmi altro?» domandò. «Non so quali accordi tu abbia preso con Duarte. Non mi riguarda. Sbrigatela con lui.» Ramirez si alzò e si stiracchiò guardando il panorama. «Altre domande?» L’altro aveva il giornale ancora aperto. I Lakers battono i Boston Celtic centodieci e centouno. Scosse la testa. Ramirez s’incamminò.


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«Non è per spaventarti Raff, ma hai idea in quale posto sei arrivato?» Il vocione baritonale di Greg Barlow accolse Mantega all'ingresso della redazione, tre ampie stanze disadorne arredate con poco, a parte le pile di giornali di ogni tipo, una babele di carta e cavi elettrici sparsi in terra. Il suo modo di presentarsi rivelava la chiara volontà di mettere al bando qualsiasi formalismo con il fotoreporter. Ciò che colpì maggiormente Mantega fu la sua enorme mole. Alto di statura, grosso di spalle e di torace, rivelava una giovialità non comune, anche se, probabilmente, mostrava più della sua età, forse per via della pelata e delle poche, ma profonde rughe che solcavano il viso. A Raff risultò subito simpatico. Barlow non gli dette il tempo di proferir parola. Cortese e affabile, lo mise a proprio agio offrendogli una birra ghiacciata e una comoda poltrona. «Ti

conoscevo

di

fama»

esordì.

«So

dei

tuoi

trascorsi

di

fotogiornalista, ma non ti nascondo che sono rimasto sorpreso, quando ho avuto notizia che tu, il mondano Mantega, avresti ripreso il mestiere di una volta. Un’inchiesta proprio qui, in questa maledetta terra di Colombia. Non lo avrei mai immaginato.» Si versò uno scotch nel bicchiere e continuò: «I giornali hanno parlato della disgrazia capitata alla tua compagna. Mi dispiace. Ma dopo,


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appreso che il fotografo di moda aveva deciso di ritornare al suo primo grande amore con un’inchiesta tosta, beh devo ammettere, mi ha sorpreso non poco! E sono stato colto alla sprovvista, quando Neik mi ha comunicato che avrei dovuto darti una mano.» Fece una pausa e si accomodò su una sedia dall’altra parte della scrivania, a fianco di Mito che sembrava assistere assente. «Però ti devo avvertire, non sarà per niente facile!» Raff non fu meno sorpreso. «Si sapeva in giro che avrei fatto un’inchiesta in Colombia?» «Ma di che ti meravigli? Si vede che sei fuori dall’ambiente da molto tempo. Le notizie di un certo tipo circolano.» Greg bevve un sorso. «Che venissi in Colombia mi è stato detto solo da Neik. Le testate, di questi tempi, preferiscono andare dall’altra parte del pianeta, in Iraq, in Afganistan. Nessuno più parla della Colombia.» «Ma la notizia era nota a tanti» lo contraddisse Mito, evidentemente più interessata all'argomento di quanto non sembrasse. «Un cronista de El Espectador mi ha chiamato per farmi sapere che desiderava aggregarsi alla nostra compagnia.» «Manuel Rojo!» indovinò Greg. «Proprio lui» confermò Mito. Raff non sembrava avesse messo nel conto che il suo piano sarebbe diventato di dominio pubblico. Adesso non aveva molta voglia di riflettere sulla stranezza della cosa. Sprofondato nella poltrona, dopo il primo sorso di birra, aveva sentito riacutizzarsi il dolore al collo e avvertiva i primi sintomi di un certo rimbambimento. Ma Greg non sembrò accorgersi che continuava a chiacchierare. «Com’è strana la vita, a volte. Devi essere un matto per lasciare il bel mondo per venire in quest’inferno dove noi giornalisti stranieri siamo poco tollerati, per non dire di quelli locali che hanno la vita anc or più


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dura. La Colombia, purtroppo, detiene il record dei giornalisti ammazzati.» Raff si strinse nelle spalle. «Una bella prospettiva, non c'è che dire…» «Dopo l’undici settembre,» intervenne Mito, «la parola è tornata alle armi, tra governo e guerriglia si è rotta la fragile tregua da poco raggiunta.» Greg si sollevò dalla sedia, continuando a ripetere, quasi a bassa voce: «Com’è strano…» «Ti sembra tanto strano che un giornalista venga a caccia di notizie in Colombia?» gli chiese Mito seguendolo con lo sguardo, stupita dalle sue parole di cui non immaginava il senso. Greg non le rispose, corrugò la fronte come volesse trovare la cosa giusta da dire, ma tacque. Andò, con passi lenti, a posare il bicchiere vuoto su di un'altra scrivania nell’angolo opposto della stanza, rimanendo in silenzio. Mito notò il suo cambiamento d’umore, lo conosceva bene e ribadì: «Non capisco cosa vuoi dire, mi sembra normale che un professionista voglia…» Ma Greg la interruppe. «È sicuro, Raff può contare su di me, ma per quel che mi riguarda, ho deciso che, a conclusione dell’impresa, mi prenderò una specie di vacanza. Ho bisogno di fare il punto su parecchie cose.» Raff avrebbe voluto andarsene. Da quando era arrivato a Bogotà non si era fermato, il dolore al collo si faceva più fastidioso, senza contare il cambio di fuso orario. Sebbene gli fosse sempre più difficile seguire i discorsi che facevano i due colleghi, sentendo le parole di Greg non poté fare a meno di ripensare al periodo seguito alla morte di Dora, quando l’istinto lo avrebbe portato ad abbandonare tutto. Ma non si soffermò più di tanto su questo ricordo, era troppo stanco adesso, e


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desiderava solo riposare. Greg ritornò sui suoi passi e si avvicinò a Mito fissandola negli occhi. «Per un giornalista che arriva qui in Colombia, determinato a condurre un’inchiesta difficilissima, e dio solo sa quante probabilità ha di farcela un giornalista in questo maledetto posto.» Mito lo guardò curiosamente e ribatté. «Ma Greg! Mi sembra che tu stia esagerando, non credi?» «Lasciami finire, ti prego» la fermò

l’uomo con un cenno

inequivocabile di fastidio per l’interruzione, mentre Raff tentava di risvegliare i suoi sensi intorpiditi. «Dicevo, per un giornalista che arriva qui in Colombia, ce n’è uno che se ne vorrebbe andare.» «Cioè… Come sarebbe? Che cosa vuoi dire…?» balbettò Mito. «Sarebbe che ci sono un sacco di circostanze che cominciano a non andarmi giù. Sto ingoiando un rospo dietro l’altro. Da quando il giornale si è speso nella campagna a favore del Plan Colombia non facciamo altro che essere il megafono del governo colombiano. Da un anno a questa parte sono il passa-carte delle veline del presidente Velez. E da Chicago mi dicono di assecondarlo.» Barlow passeggiava nervosamente in tondo nella stanza, gesticolando e fissando il pavimento. «Cestinano i miei resoconti e passano quelli dei militari o dei mafiosi locali che ci telefonano e ci dicono che cosa dobbiamo scrivere. Sono diventato un impiegato al servizio di Velez, e comincio a non sopportarlo più.» Mito sorrise nel vederlo così amareggiato, gli si avvicinò e disse in tono affettuoso: «Ne avrai parlato con Liam, immagino.» «Per Liam dobbiamo essere tutti dei soldatini obbedienti.» Raff interloquì, d’accordo con Mito. «Forse dovresti davvero parlarne con lui, non ti pare?»


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«Non è il caso che ti metta in mezzo tu, adesso!» gli diede sulla voce la ragazza. Raff capì che l’aria era troppo elettrica per lui. «Ascoltate ragazzi,» disse alzandosi, «ho appena fatto un volo transoceanico, non so se è mattina o sera, e comincio a dondolarmi tra le braccia di Morfeo. Potete proseguire la conversazione anche senza di me. Chiamo un taxi e…» Barlow sentì il dovere di scusarsi con il collega per le parole che aveva usato sulle probabilità dei giornalisti di arrivare alla fine del loro lavoro, e lo interruppe subito: «Non volevo scoraggiarti» lo rassicurò. «Beh, insomma, volevo rendere l’idea, ma parlare dei pericoli cui si andrebbe incontro è realismo. È la prima volta che mi sfogo e non ne avevo parlato neanche con lei» disse indicando Mito. «Non offenderti. Ma hai ragione, ti abbiamo trattenuto troppo a lungo, e non è giusto.» «E cosa intendi fare?» insisté Mito non badando a Raff che era arrivato al limite della sopportazione. «Non penserai di fare a meno di Liam… Che cosa ti preoccupa tanto?» «Non me la sento di continuare così, costretto ad assistere ad omicidi e massacri indiscriminati. Militari e paramilitari che ammazzano sotto i nostri occhi la gente per strada, e poi magari mi dicono, vieni a vedere come impieghiamo bene i soldi americani. E si deve tacere sugli eccidi che compiono gli uni e gli altri. È tutto così assurdo … Comunque sia, non temere, ho già deciso. Tra una settimana o due andrò a parlare a Neik. Voglio chiarire le cose, una volta per tutte.» Raff non ce la faceva più. Sentiva la testa leggera e faceva fatica a coordinare i pensieri, ma rischiò tuttavia a dire : «Bravo Greg. Per come la vedo io, ti poni troppi problemi. All’opposto, non vedo proprio quale sia il problema.» E così detto, stimando di essersi procurato con quel commento la disapprovazione dei due colleghi, volle chiuderla lì. Era


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proprio cotto: «È meglio che vada adesso. Troverò un taxi. Un po' d’aria fresca mi farà bene.» Senza accorgersene, andandosene, non degnò neanche di uno sguardo , né di un saluto Mito Amarante. Né, ricordò in seguito, di esserlo stato. Scherzi del fuso orario, pensò massaggiandosi il collo. L’aria rarefatta che si respira a Bogotà, a duemilaottocento metri, gioca brutti scherzi. Non sapeva quante ore avesse dormito, certamente doveva aver avuto un incubo tremendo. Si svegliò sentendosi come se una mandria di bufali gli fosse passata sopra , era ancora spossato e aveva dolori in tutto il corpo, al collo soprattutto. Era stato svegliato dalla luce del sole che inondava la stanza e da un suono di campane che proveniva da chissà quale lontana chiesa. Che ora era? Non si era fatto vivo nessuno dei suoi colleghi. Mentre si faceva una doccia e metteva qualcosa sotto i denti gli venne in mente lo sfogo di Barlow. Ognuno era libero di pensarla come voleva, ma non aveva mai gradito trovarsi in situazioni in cui era in disaccordo con chi avrebbe dovuto lavorare. Per questo aveva scelto in passato di fare il free-lance. Ti evitavi un sacco di rogne con la direzione del giornale, perché, prima o poi, sarebbero nate divergenze. Raff sapeva che era così, e allora meglio rimanere alla larga da incomprensioni iniziali. Certo, l’avvio non era stato dei migliori, il rapporto fino allora freddo con Mito, i dubbi di Barlow, ma non gli interessava entrare nelle loro questioni, tanto meno accattivarsi per forza la simpatia della donna. Lui voleva fare un buon reportage sulla guerra civile in Colombia, il resto era secondario. Si vestì da turista, prese con sé la leggera e fedele fotocamera leica, e con un autobus strapieno, arrivò al belvedere di Monserrate . Si concesse alcuni momenti di tranquillità per ammirare la parte antica


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della città in stile coloniale e le ville dei ricchi sommerse nel verde a fronte degli estesi quartieri periferici, poveri e degradati. Attraversando la città, non gli era parsa per niente attanagliata dalla paura e nemmeno circondata da una dilagante miseria, come aveva sentito descrivere altri Paesi del Sud America. Si vedeva solo qualche mitraglietta o fucile di troppo sulle spalle dei vigilanti davanti ai supermarket, qualche posto di blocco, molti mendicanti, come però ormai è facile trovare in tutte le metropoli. Seduto ora su una panchina all’ombra di una maestosa quercia diede un’occhiata all’El Espectador. Quindici cadaveri in un garage sotterraneo alla periferia della città. Aveva appena iniziato a leggere, quando ricevette la telefonata da Lugano del suo avvocato. Gli annunciava che i giudici di Londra lo avevano condannato a risarcire Prada di diecimila sterline.


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Era il sette di settembre e faceva caldo. Trentacinque gradi all’ombra, aria viscosa, novanta per cento d’umidità, goccioline di sudore che ti colano dalla fronte, giacca e camicia fradice già alle dieci del mattino , ma per il fotoreporter Raff Mantega, al suo primo vero giorno di lavoro, il caldo umido era cosa da nulla. Di ottimo umore, riposato, si era già messo alle spalle la cattiva notizia che gli era pervenuta da Lugano. Al suo avvocato aveva ordinato di appellarsi, anche se non sarebbe potuto sfuggire all’ammenda penale questa volta, ma chi gli aveva

commissionato

il

lavoro

per

Prada

avrebbe

dovuto

ricompensarlo tuttavia per il servizio svolto. Chi non sembrava di buon umore era invece Mito, forse per via del quel caldo che faceva sciogliere anche le migliori intenzioni. Insieme a lei, su un taxi, Raff si stava recando alla redazione dello Espectador. Era per lui una grande giornata e non voleva che nessuno gliela guastasse, nemmeno Mito. Decise di non farle caso. L’importante era che lo avesse chiamato. «Vediamo che cosa vuole questo Manuel Rojo» gli aveva detto. L’auto percorreva ora il centro città. Il traffico avanzava a passo d’uomo, un fiume di gente, famiglie intere con i carretti stracarichi di masserizie tagliavano la strada alle auto incolonnate sulla Avenida Colon. Raff tirò fuori dalla giacca la sua piccola leica e cominciò a fotografare, come fa il cronista che appunta sul taccuino ciò che passa sotto i suoi occhi. Mito smise di fare la sfinge imbronciata. D alla borsa


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prese un ventaglio che agitò smuovendo un po’ d’aria calda e disse: «Sono i desaplazados, gli sfollati che vengono dalla campagna per tentare di sopravvivere.» Si sistemò al meglio sul sedile e aprì il finestrino. «Era giovane tua moglie?» gli domandò, mentre il taxi rallentava al passaggio di un folto gruppo di desaplazados. La domanda gli giunse inaspettata, ma Raff evitò di darlo a vedere. «Non eravamo sposati» precisò tergendosi la fronte dopo aver inquadrato un piccolo moccioso in braccio alla madre che erano passati sfiorando il taxi. «Avevamo pensato di andare a vivere a Toronto, dove avrebbe dovuto stabilirsi per lavoro. Era una studiosa di fisica nucleare, appena ventinove anni.» Si accorse che solo a evocarla gli aveva fatto ravvisare il suo volto disfatto dall’orribile morte, gli occhi rivolti all’insù, la bava, il corpo rattrappito. Strano come non ricordasse più i lineamenti gentili del viso. Per un attimo socchiuse gli occhi e proseguì: «Conduceva una vita appartata, lontana dalle mondanità. Era una donna riservata, indipendente, unica… Di recente aveva ricevuto una proposta di lavoro dal MIT.» Mito lo ascoltava attenta. Aveva smesso di sventolarsi. «Tu volevi che troncasse…» «Mi aveva assicurato che poteva smettere quando voleva. Ma lei rimandava, rimandava sempre, e ciò causava continue discussioni tra noi. Quando l’avevo conosciuta fumava erba. Appena un anno fa, mi aveva confidato che sniffava ogni tanto cocaina, come capita a tanti. Non ricordo se mi disse come aveva iniziato, ma non ha importanza. Quando me lo confidò, non ci avevo voluto credere. Ero certo che non si potesse considerare una tossicodipendente. » «Ma non è stato così…»


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«Avevo fiducia cieca in lei. Pensavo che ne sarebbe uscita. Sino a quando Dora era in vita ho pensato che fosse in grado di gestire da sola il problema, ma dopo la sua morte ho scoperto che aveva cominciato anche a bucarsi. L'ho scoperto solo dopo…» Mito inistette. «Tu non sospettavi dunque.» Il corteo di gente era stato superato e la macchina procedeva ora a veloce andatura. Raff sospirò. «È risultato dall’autopsia che la dose iniettata era mischiata a robaccia. Dopo che le indagini hanno rivelato in che giro era finita ho cercato di vederci chiaro. Sai che cosa ha scoperto la polizia, che già teneva d’occhio il suo fornitore? Che quella sera la dose che le avevano consegnato era tagliata con un’alta percentuale di polvere di marmo.» Mito gli stava rovinando la giornata. Non era quello il momento di parlare di Dora. Veramente, non era mai il momento, ma questa donna non ne azzeccava una. «Per mantenersi agli studi, Dora, da giovanissima, aveva fatto la modella. Quando abbiamo cominciato a frequentarci, ha posato anche per me. Ma solo per scherzo.» «Mi dispiace» disse Mito sincera. «Non sapevo com’era andata» soggiunse. «Greg mi ha raccontato, o meglio, mi ha detto quello che ha letto sui giornali.» A lui sfuggì un sorriso, gli occhi ancora assorti. Aveva voglia di cambiar argomento. La guardò e, con un cenno, la obbligò a rivolgere la sua attenzione al vano cruscotto della vettura dove aveva notato, seminascosto, il calcio di una pistola. Mai aveva visto armi portate con tanta disinvoltura. Mito gli si avvicinò per non farsi sentire dal tassista. «È normale qui» gli bisbigliò. «Se fai attenzione, anche il proprietario del Buena Vista


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ne porta una sotto il suo grembiule da lavoro.» Tempo mezz’ora, il taxi arrivò a Usme, propaggine urbana a sud di Bogotà, dove si trovava la redazione dello Espectador, e i due giornalisti poterono incontrare Manuel Rojo. Il giornale aveva sede in una palazzina anonima a tre piani, in uno dei quali lavoravano i cronisti. Due grandi ventilatori sul soffitto per fortuna giravano a mille dando la sensazione di una lieve frescura. Manuel Rojo si presentò raggiante in viso. Era sui venticinque anni, basso di statura, con occhi da civetta e capelli castani tagliati cortissimi. La sua era una famiglia benestante, una volta. Il padre possedeva una trentina di acri di terreno e una fattoria dove allevava una mandria di vacche. Alla fiorente impresa familiare partecipavano, oltre a Manuel, anche un fratello e una sorella alla quale era affezionato, forse per un istintivo senso di protezione, essendo stata colpita da una malformazione congenita, e perché all’età di trentasette anni ancora non aveva trovato marito. Gli affari erano andati sempre bene, le vacche producevano ogni ben di dio, lui e i fratelli non si risparmiavano nel lavoro e il padre era contento. Ma un giorno il governo decise che su quei terreni doveva passarci la ferrovia, e per la famiglia di Manuel fu l’inizio della fine. Il padre lottò con le unghie e con i denti, ma non ci fu nulla da fare. Come se non bastasse il governo gli dette un misero indennizzo, e gli avrebbe tolto pure la fattoria, se Manuel non avesse fatto uno scambio con i militari corrotti che dirigevano il Dipartimento degli Interni per le opere pubbliche. Un do ut des che avrebbe salvato la fattoria. Uno scambio equo, lo chiamavano. Manuel, grazie alla sua professione di cronista, avrebbe dovuto fare la spia per loro conto.

All’insaputa del suo giornale

doveva fare nomi di simpatizzanti terroristi, sindacalisti scomodi, rompiballe del regime, li avrebbe messi sulle loro tracce , così che non


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potessero più dar fastidio. Al momento opportuno, loro, i militari, si sarebbero dimostrati generosi, se lui lo fosse stato altrettanto. Manuel era dovuto stare al gioco. Nel giornale della capitale, Manuel era un semplice,

ma

volenteroso

cronista,

stimato

e

considerato

un

promettente. Poteva avere gioco facile, conosceva Raff Mantega per via della sua fama, era un suo fanatico ammiratore e ora, vedendoselo davanti in carne ed ossa che chiedeva notizie e informazioni, non gli parve vero di mettersi a disposizione. Cercò di manifestargli la sua stima, mostrandogli con orgoglio la raccolta fotografica delle sue inchieste, le foto e i ritagli degli articoli sulla sua vita privata che aveva gelosamente archiviato con cura maniacale dentro trasparenti buste di plastica. Soddisfatto dall’interesse che Raff dimostrava, gli fece vedere un pezzo che aveva scritto per il giornale qualche mese prima, un titolo in prima pagina su sei colonne: L’ESERCITO U.S.A. IN COLOMBIA «Duecentocinquanta istruttori americani operano qui» spiegò il cronista colombiano. «Ottanta di questi si dedicano a sei stazioni radar, gli altri all’addestramento di truppe antiterrorismo e antidroga.» Mito, più pratica, voleva notizie aggiornate sull’aereo americano catturato dalla guerriglia. «Sentito mai parlare della Military Resource?» Rojo fece un cenno di diniego. «No, che cos’è?» «Una grande compagnia multinazionale che fornisce sostegno militare a governi e imprese private. Sospettiamo che abbia a che fare con i l caso dell'aereo sequestrato.» «È possibile arrivare nelle zone più calde?» chiese a sua volta Raff. Rojo prese una cartina dal cassetto della scrivania, la distese sopra e vi


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puntò il dito. «In alcune regioni si combattono diverse guerre. L’esercito e i paramilitari contro la guerriglia e viceversa. I narcotrafficanti contro tutti, e i civili in mezzo a fare da bersaglio, senza scampo e senza speranza. I rischi sono ovunque. Impossibile entrare nelle zone controllate dai paramilitari e dai guerriglieri. Azzardarti a mettere il naso nelle vastissime aree coltivate a coca, papavero o marijuana, e potresti scoprire l’esistenza di laboratori della guerriglia, e questo non te lo perdonerebbero. Guai poi a imbatterti nei pàras che fiancheggiano i mafiosi, daresti l’addio a questo mondo.» Raff era pensieroso. «Dobbiamo essere prudenti, riuscire ad avere i contatti giusti per entrare in queste zone.» «Una cosa si potrebbe fare» interloquì Rojo. «Blasco, il capo delle Autodefensas Armadas de Colombia, le AUC, è arroccato a Paramillo a nord ovest di San Antonio, duecento chilometri da Bogotà. Blas co è un paramilitare ricercato per stragi e narcotraffico. L’unico in grado di farci ricevere da lui è il vescovo di San Antonio, monsignor Diego Lamar. Se egli accetta di fare da mediatore con Blasco, è fatta.» Mito disse in modo spicciativo: «Che cosa aspettiamo allora. Come si fa a parlare con questo monsignor…» «Monsignor Diego Lamar. Posso tentare di contattarlo al telefono, sempre che funzionino le linee telefoniche. Ho buoni rapporti con lui e non mi dovrebbe essere difficile convincerlo ad aiutarci, se volete. Non fraintendete, i suoi rapporti con Blasco sono da attribuire al suo impegno nei confronti dei contadini poveri della zona. Egli esercita una grande influenza su tutta la comunità ed è rispettato anche da una persona poco raccomandabile qual è Blasco.» «Non deve essere facile per voi lavorare in questo clima di terrore» commentò Raff. «Ho sentito che qualcuno di voi ogni tanto ci rimette


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la pelle.» Il giovane cronista si strinse nelle spalle. «Quando ho raggiunto l’età della ragione, ho lasciato la fattoria di mio padre che non ce la faceva più a vivere per le continue angherie del governo, e ho cercato fortuna in città. Quest’aria di violenza la respiro da quando sono nato e, ormai, ci sono abituato. Qui al giornale siamo tutti a rischio. Le autorità trovano spesso scuse per farcelo chiudere, mentre, qualche volta, siamo noi a scegliere di fare la serrata per evitare rappresaglie. Non c’è via d’uscita, temo che sarà così per sempre.» Raff disse: «A questo punto è difficile porti la prossima domanda» Manuel aggrottò la fronte, in attesa. «Come possiamo metterci in contatto con l’antiguerriglia dell’esercito regolare senza rischiare troppo?» Manuel scrollò il capo. «Scordati di entrare in una qualunque caserma dicendo,

scusate

siamo

giornalisti,

possiamo

intervistarvi

o

fotografarvi? Non è questo il modo.» Fece una pausa e continuò: «Si sa che il comandante dell’antiguerriglia è un abituale frequentatore di un locale notturno di San Antonio, lo Star Excelsior. Conosco il proprietario, un certo Carçero. Possiamo tentare questa strada.» Raff schioccò le dita. «Bene, sarebbe interessante fare quattro chiacchiere con questo comandante e tentare, dopo qualche giorno, un giro al campo paramilitare di Blasco, che ne dite?» Mito era già sulla porta, come se la proposta fosse già una decisione. «Come vedi Raff, basta suonare le trombe che le mura di Gerico crollano.»


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Mantega, Barlow, Mito Amarante e Rojo arrivarono il mattino del dieci settembre a San Antonio con una Mustang noleggiata a Bogotà per cinque dollari al giorno. Si stabilirono nella locanda El Paso e si misero subito all’opera. Manuel Rojo telefonò a monsignor Lamar, quindi prenotò un tavolo per tre allo Star Excelsior. Mito avrebbe aspettato il loro ritorno nella locanda. A tarda sera, i tre uomini giunsero nel locale, un night da quattro soldi al centro della città, una semplice scritta al neon e, all’ingresso, alcune lampadine colorate intermittenti per attirare l’attenzione. Dentro la sala, sax, batteria e luci soffuse. Lo spettacolo non era ancora iniziato. Alcune cameriere, grembiulino corto di pizzo bianco e stratosferiche calzamaglie di seta nere, camminavano dondolandosi sui tacchi a spillo tra un tavolino vuoto e l’altro, lo apparecchiavano di tequila e coca-cola e tornavano al banco per ricevere le ultime raccomandazioni del capo -sala. Una di queste, tutta curve e grembiulino, li accolse con sorrisi e moine, li fece accomodare in un angolo appartato della sala, chiese loro se gradivano qualche altro drink al posto della tequila e della coca-cola e, avendo ricevuto risposta negativa, si accomiatò ancheggiando i fianchi.. Raff aveva un’aria preoccupata, temeva che l’appuntamento con il vescovo non andasse in porto, si portò il bicchiere sulle labbra e si grattò la testa. «Devi aver pazienza» lo rassicurò sottovoce Manuel Rojo, intuendo l’ansia del collega. «Con monsignor Lamar non ci sarà alcun problema.


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È un uomo del popolo, ha sempre aiutato la povera gente. La Chiesa è rimasta l'unica istituzione in cui la popolazione crede.» Anche Greg disse la sua. «Detto sinceramente, non me ne importa niente, Manuel, di questa storia» esclamò scuro in volto, dopo aver sorseggiato il coctail. «Con Neik chiarirò le cose. Se fossi stato a conoscenza dei suoi intrallazzi qui, non ci avrei pens ato due volte a mollar tutto. Non fraintendermi, Raff. Non ti abbandono, sei un collega che stimo e che voglio aiutare, ma quanto prima porterai a termine il tuo servizio, tanto meglio sarà anche per me. Ti accompagnerò da questo comandante del cazzo, farai le tue belle foto e poi io chiuderò con questo Paese. Ho da pensare a sistemare le mie cose con Cecil in Colorado, poi mi ritirerò dalla scena per scrivere il mio romanzo su una terrazza di fronte all’oceano con una bottiglia di scotch accanto e sopra di me il cielo della Florida.» Raff sorrise. «E io che pensavo che volessi rientrare a Chicago…» «Chicago o Miami, poco importa» ribatté Greg che non aveva inteso l’ironia. «Ciò che m’interessa è non avere più a che fare con Liam Neik.» Con il bicchiere mezzo vuoto di tequila in mano, Manuel Rojo ora taceva, osservando i colleghi accalorati nella conversazione. Poteva capirli, l’attesa si faceva snervante. Una cameriera gli passò accanto e lui non resistette alla tentazione di seguirla con gli occhi. Mantega lo distrasse. «Hai i quattrini con te?» gli domandò. Ma era una domanda che tradiva il suo nervosismo, quei soldi erano i suoi. «Mille, e prega che ci bastino» rispose Rojo. C’erano ancora pochi clienti, l’aria era ancora respirabile, giacché l’ambiente era più angusto che intimo. Le note basse del sax arrivavano dal fondo della sala, dei ragazzi offrivano boccate di fumo alle entreneuses che avevano preso posto qua e là. Al banco, alcune


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persone centellinavano tequila o rum cubano. Ogni tanto, entrava una coppia attempata ed elegante che si sedeva ad un tavolino dove arrivava una cameriera per le ordinazioni. I giovani, se erano soli, si avvicinavano direttamente al banco guardandosi attorno, forse per scorgere conoscenti, o forse solo per adocchiare una ragazza alla quale accompagnarsi. La gente, a poco a poco, cominciò ad arrivare e il locale si animò. Non passò molto tempo, che un uomo, basso di statura e dall’aspetto serio, calvo con un paio di baffetti neri che lasciavano scoperte due labbra carnose, si avvicinò al loro tavolo. Chiandosi verso Manuel, gli bisbigliò all’orecchio qualcosa che Raff Mantega e Greg Barlow non potevano sentire, mosse gli occhi e le sopracciglie, fece cenni discreti con la testa, come chi vuole indicare qualcuno senza farsi notare. Manuel gli sganciò un biglietto da cinquanta e, quando l’uomo si era già portato fuori della sua visuale, avvicinò la sedia al tavolino, si protese in avanti e, con fare da carbonaro, disse sottovoce: «Bene, vedete quella meticcia seduta al banco, che ci dà le spalle? Carçero mi ha detto che lei conosce molto bene il nostro comandante . Adesso voi restate buoni qui, vedo quel che si può fare.» Manuel scolò il suo drink, si alzò, si sistemò il colletto della camicia e si avviò verso la meticcia. In un attimo, lo videro seduto al suo fianco che le sfiorava il braccio con il gomito quanto bastava perché la donna si voltasse verso di lui e l’agganciasse. «Sei di passaggio o ti trattieni?» domandò subito lei, abboccando l’amo. Manuel si girò per risponderle, indugiando volentieri con lo sguardo sullo splendido corpo di creola che aveva accanto. Aveva zigomi alti, occhi verdi lampeggianti e capelli corvini. Guardò le sue curve, annusò il suo profumo cercando di trattenerlo il più a lungo possibile. Le spalle


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nude e il decolté mettevano in mostra la pelle setosa. La gonna scarlatta le scivolò sull’anca, aveva delle cosce che facevano saltare i soldi dal portafoglio. La giarrettiera occhieggiò. Rojo sfoderò il sorriso più accattivante che possedeva. «Sono qui per incontrare una persona, e forse tu puoi aiutarmi…» La donna stava dando un ritocco col rossetto a due labbra di fuoco. «Certo, bello» disse, mentre richiudeva la borsetta blu dentro cui aveva riposto il rossetto. «Attento però che alzarmi da questa sedia ti costerà cinquanta dollari e, uscire dalla porta altri cento.» Manuel Rojo esitò, mentre la sua faccia cambiava espressione. Lei se ne accorse. «Che c’è, credi forse che con me potresti cavartela a buon mercato? Il motel qui di fronte ti costerà centocinquanta dollari e il resto… dipende dalle richieste.» Manuel scosse il capo. «No, no. Mi basta molto meno» si affrettò a dire. Sfilò dalla tasca un biglietto da cinquanta dollari che le fece vedere tenendolo a mezz’aria fra l’indice e il medio. «Voglio solo un’informazione.» «Sei un poliziotto…?» sospirò la creola delusa, accendendosi una sigaretta. Manuel non si curò di risponderle. Teneva sempre tra le dita, ben in vista, i cinquanta dollari. «Un uccellino mi ha detto che conosci molto bene il comandante della caserma di San Antonio. Lo vorrei conoscere anch’io.» «Non sarai mica un terrorista, per caso? O un bandito comunista che vuole accoppare un galantuomo come…» la frase rimase incompiuta con maliziosa furbizia. Soffiò dalle labbra una nuvola di fumo. Sapeva di mentolo. «Come…?»


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«Se credi di potermi prendere in giro, ti sbagli di grosso, bello!» continuò lei insolente. Sembrava che volesse andarsene, si stava innervosendo, e prima che Manuel, per paura che filasse via, potesse fare il gesto per trattenerla, lei, con una mossa rapida, gli strappò i cinquanta dollari dalla mano. Ma non se ne andò, tirò un’altra boccata di fumo, aprì la borsetta e ci ficcò i soldi. Manuel non ebbe neanche il tempo di sorprendersi che, fissandolo dritto negli occhi, gli disse: «Ascoltami bene, bello» i suoi splendidi occhi adesso brillavano nella luce soffusa del locale. «Io non sono quella che tu credi. Mi stai portando via un sacco di tempo, i clienti mi aspettano. Offrimi almeno da bere.» Manuel non se lo fece ripetere due volte. Schioccò le dita e la cameriera accorse. Ordinò due scotch, prese altri cinquanta dollari, li infilò direttamente dentro la borsetta che la creola aveva, certo di proposito, tenuto aperta e disse: «Ora cominci a costarmi troppo. Dimmi quel che sai del colonnello Garcès.» «Come posso fidarmi di te?» La donna insisteva nel suo atteggiamento diffidente. Sfrontata, si voltò di novanta gradi verso di lui, scrutandolo aggressiva. Arrivò lo scotch, lei prese il bicchiere e cominciò a sorseggiarlo, continuando a fissare Manuel. Il suo viso era teso. Manuel le restituì lo sguardo. «Devi fidarti, piccola, non hai scelta. Parlami di lui e dimmi innanzi tutto quale tavolo prenota… Suvvia, devo solo parlargli. Ho la faccia di un killer, io? Sono un giornalista che vuole fare un pezzo su di lui. Coraggio, non hai proprio niente da temere.» La donna indicò col mento. «Il tavolo è in fondo all’angolo. Non puoi sbagliare, è l’unico che sta sopra la balaustra che separa in due la sala. Lo vedi? È lui.»


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Raff e Greg avevano gli occhi puntati verso Manuel Rojo che sembrava più ammaliato dalla bellezza della donna con la quale conversava da diversi minuti, che impegnato in un’indagine. Per tutto il tempo, i due colleghi erano rimasti in silenzio, limitandosi ad osservare la scena. Videro Rojo salutare la donna e dirigersi verso un tale che stava entrando nel night, sui quaranta, leggermente calvo, con gli occhi sporgenti come nelle persone malate di nefrite. Doveva essere Garcès. La bocca era sormontata da due baffetti neri, il mento sfuggente. Indossava un elegante smoking bianco e un papillon di seta blu. Una cameriera gli andò incontro col solito ancheggiare e un sorriso smagliante, e lo accompagnò al tavolo. Riuscirono ancora a seguirlo con lo sguardo, mentre Manuel si presentava e poco dopo prendeva posto accanto a lui. Raff e Greg vedevano i due che discorrevano, ma sembrava che fosse soprattutto il loro collega a parlare. L’altro lo ascoltava impassibile, di quando in quando sorseggiava il suo liquore alte rnandolo ad una boccata di sigaro. Il locale si era nel frattempo riempito, taluni occupavano la pista da ballo, altri aspettavano che iniziasse lo spettacolo di spogliarello. Non sempre l’andare e il venire delle persone nella sala consentiva a Raff e Greg di seguire la scena che li interessava, ma riuscirono a intuirne i momenti salienti. Videro Manuel posare sul tavolino la busta con i mille dollari che l’uomo afferrò e intascò disinvolto. Poi, distogliendo lo sguardo da Manuel, si voltò verso di loro in fondo alla sala. Fu in quel preciso momento che Garcès prese a parlare a Manuel. Teneva ancora il sigaro tra le dita spesso puntandolo contro di lui. D’un tratto, le luci si abbassarono, l’orchestra diede fiato alle trombe.


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L’occhio di bue illuminò il centro del piccolo palcoscenico, il sipario si alzò e comparve, in un tripudio d’applausi, fischi e urli entusiasti, la spogliarellista. Rojo sembrò spuntare dal nulla. «È fatta!» Fece per riprendere il suo posto sulla sedia che aveva abbandonato mezz’ora prima, ma Greg lo fermò. «No. Andiamo via di qui!»


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Manuel Rojo non aveva mai visto il colonnello Garcès. Rinaldo Ramirez doveva averlo già informato, e questo certamente gli facilitava il compito. Rojo doveva solo combinare un appuntamento. Lui, in fondo, era niente più che un intermediario. Andò verso di lui. Una cameriera bionda aveva appena finito di ricevere un’ordinazione dal colonnello e, incrociando Rojo, si allontanò. Arrivato al tavolino, si presentò e gli strinse la mano. Garcès rimase seduto, sembrava accigliato, per niente contento di parlare con uno scocciatore che gli stava rovinando la serata. P rese il suo bicchiere di champagne, mentre tra le dita teneva stretto un grosso Habana. Manuel saltò i preamboli. «Ho avuto istruzione per farla incontrare con Mantega, ma anche Mantega desidera conoscerla. Non avrà certo bisogno di inventarsi qualche trucco dei suoi…» Garcès non lo degnò di una risposta. Lo fissò dritto negli occhi. «Ha portato la grana?» disse calmo e con voce profonda. Rojo tirò fuori di tasca la busta e la pose sul tavolino. Il colonnello, continuando a fissarlo, se l’avvicinò piano, come un giocatore servito di carte a poker. «Non li conta?» fece Rojo. La busta era rimasta lì. «Me lo dica lei quanti sono.» «Dieci pezzi da cento.» Anelli di

fumo

si

liberavano

nell’aria.

Garcès

sorseggiò

lo

champagne, posò il bicchiere, con l’unghia del mignolo aprì il lembo


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della busta. Continuava a fissare Rojo e, nello stesso tempo, armeggiava con l’indice per sfilare le banconote dalla busta quanto bastava a verificarne l’entità. Con l’altra mano le dispose a ventaglio. Una specie di gioco di abilità. Un decimo di secondo, un battito di ciglia e Garcès si assicurò che fossero esattamente mille dollari. «Ne voglio altrettanti domani, in caserma, per il disturbo» e la mano aveva già riposto nella tasca la preziosa busta. «Non crede di esagerare?» «Invidioso, non le basta quello che ne ricava lei?» «Fossi matto…» Rojo fece girare lo sguardo sulla sala che si stava riempiendo. Il sax aveva cessato di suonare. Altri orchestrali prendevano posto. Garcès aveva ripreso a fissarlo. Quegli occhi sporgenti sembravano due grosse biglie. «Quando si recherà Mantega da Blasco?» domandò questi. Rojo tamburellò le dita sul tavolino. «Tra qualche giorno, l’incontro non è stato ancora fissato.» Il colonnello lo interruppe. «Allora glielo dirò io: fra tre giorni, il giorno tredici, alla tenuta del Paramillo, ma sarà lo stesso Blasco a farglielo sapere.» Rojo rimase di sasso. Era possibile che costui brigasse con il nemico pubblico numero uno?, si chiese. Farfugliò. «Ma… ma io che cosa devo fare?» «Qual è il suo aggancio?» «Monsignor Diego Lamar.» «Bene, allora, quando monsignor Lamar contatterà Blasco, sarà già cosa fatta. È del tutto ovvio che lei non dovrà farne parola con i suoi colleghi, a meno che si trovi con le pezze al culo e debba giustificarsi di fronte a loro, ma non vedo come. Lei si limiterà a fare in modo che Mantega si rechi al Paramillo. Tutto qua.»


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A Rojo venne una strizza tale da sentirsi disorientato. Si schiarì la voce e congiunse le mani, sporgendosi in avanti perché potesse sentirlo meglio. «Mi ascolti bene, colonnello. Non ho idea quali siano i suoi piani e quelli di Ramirez o del cartello. È vero, non è affar mio, ma credo che questa volta Ramirez abbia preso un abbaglio sul conto di Mantega. Costui non ha per niente l’aria di uno a cui possano interessare i vostri traffici.» I baffetti di Garcès s’irrigidirono, le sopracciglia s’inarcarono. Rojo continuò imperterrito a parlare: «Conosco da poco tempo Mantega, ma le assicuro che quello che ho visto mi è bastato per capire che a tutto stia pensando meno che di occuparsi di voi. È vero che lavora per Neik, ma non come agente dell’intelligence, come credete voi. È interessato ad un lavoro per il Chicago Tribune su una presunta operazione militare del governo americano, quaggiù in Colombia. Siete fuori pista, altro che agente CIA, a me sembra che stia dall’altra parte, è così lampante! Mantega non usa alcuna precauzione, non fa niente per nascondere ciò che fa. Per uno che la vuol dare a bere è troppo imprudente, me ne accorgerei. E poi, non lavora da solo, ci sono altri due giornalisti e ci sono io, e di tutti si fida ciecamente. Anche di me. Torno a ripeterglielo, Mantega sta semplicemente lavorando ad un’inchiesta giornalistica. Adesso a lui interessa intervistare Blasco, così come ha chiesto un colloquio con lei, colonnello… Conoscerà monsignor Lamar… Incontrerà un sacco di altra gente, presumo… vuole rendersi conto della realtà di questo Paese. Insomma, colonnello, se lo volete intimorire per tenerlo lontano da voi, lo capisco. Ma, appunto, intimorirlo… Mi auguro che non mi vogliate rendere complice di una qualche sciocchezza che… sarebbe gratuita.» Garcès serrò le mascelle e digrignò i denti. Gli puntò contro il sigaro,


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ma era come se avesse in mano un bazooka. «Adesso, ascolti bene me, testa di cazzo. Di quello che pensa lei, non mi frega. Non si permetta più di dirmi ciò che devo o non devo fare. Impari a memoria questo, bamboccio. Chiunque osa venir qui, a frugare in casa nostra, finisce prima o poi col farsi male. E non me ne frega niente se quello stronzo è venuto perché mandato dalla CIA o dal Mossad o per i cazzi suoi, ma se comincia a ficcare il naso dappertutto, non va bene! Le do un consiglio, badi a non farsi venire scrupoli da scolaretto, nella merda c’è anche lei. Adesso, da bravo, lei torna al suo posto, dice al suo collega che, se vuol venire nella mia caserma, sarò lieto di fare la sua conoscenza. Domani mattina. Ma non sono disposto a rilasciare interviste. Può scattare qualche foto, se crede, purché io abbia la facoltà di sceglierle prima della pubblicazione, e dopo che mi sono stati consegnati i negativi o la memoria della fotocamera. Queste sono le condizioni, prendere o lasciare. E quando tornerà a casa, lei farà il bravo giornalista, non farà niente di diverso da quello che ha sempre fatto. Mi sono spiegato?» Rojo contrasse le mascelle, sentì una fitta alle gonadi. «Mantega farà storie…» balbettò. Il labbro inferiore di Garcès ebbe un tremito. «Lei ringrazi che siamo nel locale di un mio amico … Adesso vada via. Sparisca!»


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La locanda El Paso non era distante dallo Star Excelsior, ma il tempo sufficiente, durante il tragitto di ritorno in auto, perché Manuel mettesse al corrente i suoi amici del colloquio con Garcès. I suoi occhi da civetta brillavano orgogliosi per l’impresa compiuta secondo la richiesta di Raff Mantega. Si rivolgeva prevalentemente a lui, che guidava. «Si chiama Pablo Garcès e comanda il quinto battaglione, un reparto antiguerriglia dell’esercito di stanza a Caguari, a p ochi chilometri da San Antonio.» Manuel era concitato nel parlare, ma preciso nel riferire i particolari della conversazione. «L’ho dapprima rassicurato e ho cercato di convincerlo che sei un fotografo indipendente, che non ti manda alcun giornale nazionale o straniero e che io non c’entro niente. A scanso d’equivoci, gli ho detto che facevo solo da tramite. Lui sa che sono cronista dell’Espectador. Quando mi ha chiesto che interesse potevi avere a fare un servizio su un reparto dell’esercito, gli ho risposto che eri interessato a ogni aspetto delle istituzioni colombiane e che avresti fatto un grande servizio fotografico, avendo scelto, per quel che riguarda l’esercito, la caserma di San Antonio; mi ha domandato che vantaggi ne avrebbe avuto lui, io gli ho spiegato che le tue foto avrebbero fatto il giro del mondo e che per lui e per il suo battaglione ne sarebbe certo derivata una buona pubblicità. A questo solleticante argomento, lui ha replicato


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che avrebbe concesso solo il servizio fotografico, niente interviste, e che tutto si sarebbe dovuto svolgere sotto la sua supervisione, avrebbe scelto lui le foto e, inoltre, negativi e memoria li avrebbe voluti indietro…» A Greg per poco non scappò da ridere. «Ma sono condizioni inaccettabili!» Raff lo calmò. «No no… Lascialo finire.» «Dicevo… Sì, insomma, questo è un punto non mediabile per Garcès.» Greg scosse la testa. «Questo colonnello del cazzo è un gran figlio di puttana! Raff, per favore, dì qualcosa anche tu!» Il vocione di Greg rimbombava nell’auto. Raff serrò le mani sul volante. Manuel alzò le spalle. «Mi dispiace, ma è stato molto chiaro in proposito.» Greg imprecò ancora, mentre a Manuel svanì l’eccitazione del primo momento. «Ma non è tutto … Le condizioni che ha posto non sono finite qui…» Greg sorrise storto. «Già già… Ha preteso i soldi, ovviamente.» «Quando mi ha domandato come mai, per contattarlo, non siamo passati attraverso le vie ufficiali, ambasciata, prefettura, eccetera, e abbiamo preferito il contatto diretto con lui, io gli ho messo il regalino sotto il naso.» Erano arrivati alla locanda. Raff arrestò l’auto, si girò verso Manuel e gli domandò: «E allora, quali sarebbero queste altre condizioni?» Manuel si schiarì la gola. «Ha fissato l’incontro per domani in caserma, e poi… ha detto che il regalo che gli avete fatto non gli basta , ne vuole il doppio. Prendere o lasciare.» «Il doppio?!» esclamarono all’unisono Raff e Greg. «Proprio così, altri mille, cash, da consegnargli nel suo ufficio, in


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caserma.» Greg scosse la testa. Raff aprì leggermente i finestrini per cambiare l’aria

diventata

insopportabile,

limitandosi

a

dire:

«Vedremo

vedremo», ma era chiaro che alla fine avrebbe accettato. Sicchè, nelle ore che li separavano dalla partenza per Caguari, Manuel si occupò di contattare il vescovo, mentre Raff provvide ad allestire il corredo fotografico. Mito e Greg sembravano, al contrario degli altri due, poco coinvolti, presi a discutere animatamente sulla decisione di lui di andarsene via da Bogotà, decisione che a Mito sembrava assurda e che l’angustiava, oltremodo preoccupata per le conseguenze che avrebbe potuto avere sul loro futuro. Solo quell’idea la faceva sentire abbandonata. Greg la rassicurò, avrebbe finalmente parlato con Liam, e, cogliendo l'occasione, sarebbe andato da Cecil e l’avrebbe affrontata una volta per tutte. La moglie, questa volta, doveva stare a sentirlo, determinato com’era di chiudere il rapporto, anche a costo di pagare il migliore avvocato degli Stati Uniti. Non avrebbe certo rinunciato a lei per la cocciutaggine di una cattolica tradizionalista. Queste erano le sue intenzioni, ma Mito continuava martellante sull’argomento, nel tentativo di fargli cambiar parere. Soprattutto, sperava che lui riflettesse sulle possibili conseguenze di una sua separazione dal Tribune. L’aveva messo in guardia. «Se te ne vai sbattendo la porta, Liam ti taglierà le gambe. Non te lo perdonerà mai, e farà di tutto per ostacolarti ovunque tu sia.» Di fronte alla pertinacia di Mito, Greg, all’inizio, aveva adottato la tattica di rispondere evasivamente, ma un giorno, durante i preparativi per la partenza, a un’ennesima sollecitazione di Mito, egli sbottò: «Sono stato usato per i porci fini di Liam, mia cara, lo capisci questo? A cosa si è ridotto adesso il mio lavoro, me lo vuoi dire tu? Fare


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l’addetto stampa del governo colombiano non era proprio la mia aspirazione. Forse è meglio che ti spieghi cosa penso veramente di Liam Neik. Quando è partito il finanziamento del Plan Colombia, e l’amministrazione aveva dato il via libera alla lotta contro i trafficanti di droga, ho pensato, ecco una causa per cui vale la pena di battersi, finalmente si fanno le cose sul serio. Neik si era mos trato paladino di questo progetto e sul Tribune si è subito aperta una campagna di stampa a sostegno del Plan. Dunque, quando mi ha proposto la sede di Bogotà, ho accettato, soddisfatto per l’impegno cui ero destinato. Ho sempre fatto quello che lui mi ha chiesto e, condividendone gli obiettivi, mi sono attenuto, da bravo inviato, alle sue direttive. Adesso dico basta.» Greg prese fiato, il suo tono di voce si abbassò. «La mia insoddisfazione è rivolta verso me stesso. C’è qualcosa di quel che succede e a cui ho assistito che non mi convince e non sono ancora riuscito a parlare apertamente, come avrei voluto, delle mie perplessità a Liam. Me ne sono stato in silenzio, sopportando quel che accade, giorno dopo girono, ora non ce la faccio più.» Mito si avvicinò a Greg. «Non sapevo che le cose stessero così, ma continuo a non capire.» Barlow, ora seduto, si massaggiava la fronte, come per cercare nella sua testa le parole giuste da dire: «Sono entrato in possesso di alcuni documenti che inguaiano Liam Neik. Dimostrano come su ogni fornitura di materiale bellico che arriva dagli Stati Uniti, i paramilitari corrispondono una provvigione del tre per cento a una società, la System Martin Corporation registrata in Panama, per servizi cosiddetti di intermediazione. La chiamano la clausola del tre per cento. Capisci, è una provvigione illecita ad una società di consulenza, in cui Neik ha una quota di azioni. È sufficiente questo, secondo te, per chiedere


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spiegazioni e, se del caso, piantare tutto e andarsene? » Gli sguardi di Raff e di Mito s’incrociarono. «Vuoi dire,» domandò Raff, «che è la stessa System Martin Corporation di cui è azionista anche il senatore Apricot?» «Così pare, anche se non sono notizie di prima mano.» «Sia come sia,» intervenne Mito, «questo vorrebbe dire che Apricot e Neik sono soci in affari.» Ci fu una lunga pausa, un silenzio pesante. Barlow aveva sete, si alzò e si versò uno scotch. «Naturalmente, è inutile dire che tutto è fatto in sordina, forse nemmeno a Washington sanno. Fatto sta che Liam ha abbindolato me e chissà quanti altri. Sono sei mesi che ho queste informazioni, ho fatto tutte le verifiche del caso, ho avuto i riscontri che cercavo e sono sei mesi che le tengo nel cassetto. Non ne ho parlato nemmeno con te,» disse rivolgendosi a Mito, «perché volevo avere conferme certe. In queste ultime settimane sono stato nel dubbio se scrivere dei miei sospetti, ma poi mi sono detto, che cosa scrivo sul Tribune, che il mio redattore capo è un lestofante che ruba i s oldi dei contribuenti americani? Ma ora dovrei stare ancora zitto per coprire tutto questo lerciume? A che cosa è servito l’impegno del Tribune per combattere il cartello di Medellin e la diffusione della droga? A niente, solo parole scritte per sviare l’attenzione del pubblico, nascondere dove vanno a finire le vagonate di dollari stanziati. Ne chiederò conto a Liam il giorno che deciderò di non avere più niente a che fare con lui e con il Tribune, ci puoi giurare.» Mito gli prese la mano e lo abbracciò. Gli amici rimasero in silenzio, si guardarono l’un l’altro senza commentare. Di lì a poco, il telefono prese a squillare. Era il padrone della locanda. Annunciava, eccitato, che all’altro capo del filo c’era monsignor Diego Lamar, il vescovo di San Antonio.


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Quando Manuel Rojo e Mito Amarante superarono il cancello aperto della sede del vescovado quel mattino, poco dopo le nove, dei colpi di martello provenienti da sopra un’impalcatura che incastellava un edificio in cui fervevano lavori di ristrutturazione, fecero nascere il dubbio di essere capitati nel momento forse meno adatto . Ma ormai erano lì e, anche a costo di attendere tutta la giornata, non sarebbero tornati indietro, perché, più di ogni cosa, volevano ascoltare una voce autorevole che poteva dare loro informazioni e consigli. Soprattutto, interessava

sapere

quante

possibilità

avessero

di

arrivare

nell’insediamento di Blasco e, cosa di non poco conto, dei potenziali rischi a cui avrebbero potuto andare incontro. La residenza del vescovo era circondata da un ampio e ombroso giardino, adiacente al quale c’era un’aia con animali di bassa corte e un’uccelliera con ogni specie di volatili. Era notorio che al suo interno vivesse una comunità ben organizzata che si era messa al servizio della gente più povera della regione, perciò Manuel e Mito ne dedussero che tutta l’animazione di cui erano testimoni in quel momento fosse data non solo dalle maestranze addette al restauro, ma anche da volontari e gente comune. Un giardiniere che lavorava ad un roseto sospese l’attività per rispondere ai due forestieri che chiedevano di incontrare il prelato. Monsignor Diego Lamar arrivò di lì a poco, proveniente dal giardino. Li accolse con un sorriso dolce, quasi infantile. Indossava calzoni di tela beige, camicia a scacchi rossi e verdi con le maniche arrotolate e aveva ai piedi un paio di sandali da lavoro. La faccia, per la calura e l’evidente affaticamento, era congestionata, e le mani, sporche di grasso, indicavano il suo prodigarsi. I due visitatori ebbero subito l’impressione di trovarsi di fronte ad un uomo pieno di vitalità, anche


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se non più giovane. Il suo sguardo, dietro un paio di lenti sottili, tradiva una timidezza insospettabile in una persona che, era risaputo, godeva di grande carisma. Non portava l’abito talare, e aveva l’aria di essere più il prete della parrocchia vicino casa che il dignitario ecclesiastico tra i più importanti del Paese. Egli andò incontro ai due giornalisti a braccia aperte. «Perdonate il mio ritardo. Sapevo del vostro arrivo, ma stiamo costruendo un ricovero più idoneo ai nostri animali, e, sapete com’è, a volte le cure di cui essi hanno bisogno sono, se non superiori, almeno pari a quelle dovute agli uomini. Ma grazie all’aiuto di tanti amici e con la volontà di Dio, facciamo del nostro meglio per assistere sia gli uni che gli altri. In questo periodo, inoltre, siamo alle prese con importanti lavori di ristrutturazione degli uffici, ecco perché sono costretto a ricevervi qui. Ma prego,» continuò indicando due sedie, «accomodatevi, nel frattempo vi faccio portare qualcosa per dissetarvi, sono giornate molto calde. » Mito dovette ammettere a se stessa di essere affascinata dalla gentilezza di quell’uomo. Ora si rendeva conto perché il popolo amasse tanto questo vescovo dal tratto semplice e dall’animo sensibile. La spontaneità nel parlare, unito alla moderazione del tono, conferivano alle sue parole una semplicità rassicurante e alla sua persona quella credibilità che raramente si riscontravano nelle autorità colombiane, per solito tendenti a presentarsi paludati di boria e di arroganza. Lamar era al corrente delle ragioni che li avevano portati fin lì. Non si sprecò in tanti convenevoli e domandò subito in quale modo avrebbe potuto essere loro d’aiuto. «Sappiamo che lei, eminenza, ha incontrato più volte il capo delle Autodefensas Armadas de Colombia durante le trattative di pace» rispose Rojo. «Io sono al corrente che lei è sempre prodigo di consigli


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con tutti, e saprà indicare anche a noi qual è la strada da seguire per ottenere… Ci perdonerà, se stiamo abusando della sua bontà… Ecco, la vorremmo pregare di intervenire presso Blasco, affinché ci permetta di entrare nella sua zona per un servizio.» «Sarò felice naturalmente di fare tutto ciò che è nelle mie possibilità per aiutarvi» rispose Lamar. «Immagino il vostro fine e so che, aiutando voi, aiuterò il popolo colombiano che vive in condizioni miserabili. Credo che la cosa più importante sia la testimonianza che voi potrete portare, influendo sull’opinione pubblica.» Manuel e Mito tennero informato del loro programma il religioso che, di quando in quando, poneva domande, sapendo che le loro risposte avrebbero potuto servirgli per meglio convincere Blasco. «Blasco non è sempre uomo di parola, ma ho ragione di credere che, nel caso

vi conceda

di entrare

nel suo

campo, vi ospiterà

convenientemente. È anche un uomo vanitoso e si adoprerà perchè la sua popolarità ne esca accresciuta.» Entrarono due ragazzini con un vassoio di bicchieri e bibite fresche, che offrirono agli ospiti, mentre monsignor Lamar si allontanava dalla saletta. «Se avete la pazienza di attendere ancora, vi potrò riferire anche subito della disponibilità di Blasco.» «Siete fortunati» disse al suo ritorno. «Questo è un momento favorevole. In altre occasioni quello che avete chiesto sarebbe stato difficile da ottenere. Blasco è una persona molto astuta e cerca di sfruttare a suo vantaggio questa circostanza. Inizialmente si è mostrato diffidente, ma poi si è detto lieto di ospitarvi. Il tredici, domenica prossima, gli andrebbe benissimo.» Mito ringraziò il vescovo e domandò se Blasco avesse chiesto garanzie. Questi congiunse le mani nel risponderle. «Vede signorina Amarante,


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sono io che ho chiesto al signor Blasco una copertura. Senza una protezione adeguata, voi correreste dei rischi. Vi accompagnerò io. » Quello stesso giorno Raff Mantega e Greg Barlow erano attesi dal comandante Pablo Garcès a Caguari. Per dire il vero, Raff non si attendeva grandi cose da quella visita. Non che fosse pentito della decisione presa, il piano era stato meticolosamente studiato, ma avevano dovuto affidarsi all’intervento di troppe persone per non nutrire qualche timore sulla sua riuscita. I duemila dollari che Raff aveva dovuto sganciare per ottenere l’okay del comandante gli sembravano francamente spropositati per un servizio all’interno della caserma che forse, in quel momento, non era per loro così importante. Fotografare la faccia del colonnello Garcès seduto dietro alla scrivania con il ritratto del presidente Velez alle sue spalle, i muri e il cortile della caserma, qualche esercitazione di soldati non era di certo particolarmente interessante. Del resto, l’esperienza gli aveva insegnato che può sempre accadere qualcosa d’inaspettato in un territorio segnato dalla contrapposizione spesso cruenta tra fazioni in lotta per il potere. E la Colombia poteva essere considerata zona di guerra, anche se, nel breve tragitto per raggiungere in auto la guarnigione, davanti ai loro occhi scorrevano frammenti di vita quotidiana, pacifica e tranquilla. Le donne per strada ricordavano a Raff, per l’aspetto, quelle del suo paese, Santa Maria Navarrese, che, con le brocche d’acqua sistemate sul capo in un sorprendente equilibrio, tornavano verso casa dalla fonte. Nugoli di bambini giocavano nei vicoli polverosi e, a quell’ora del mattino, i contadini si avviavano al lavoro nei campi, il ciuco al laccio in una mano e la zappa nell’altra. I posti di blocco in punti strategici erano la sola cosa che violava


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l’apparente tranquilla normalità. Sicché l’immagine dei soldati armati agli angoli delle strade diventava, paradossalmente, parte di quella normalità. La fila di gente e le code d’auto che attendevano di essere perquisite dai poliziotti riportò i due giornalisti alla realtà. Caguari era a breve distanza e presto vi arrivarono.


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Il quinto battaglione antiguerriglia era stanziato in una zona dove si trovava un agglomerato di caserme disposte a mezza luna, circondate da un alto muro perimetrale nei cui angoli erano sistemate le garitte delle sentinelle. L’accesso alla cittadella militare era chiusa da una pesante cancellata alta quanto la muraglia e sorvegliato da guardie armate. I due giornalisti furono fatti attendere sotto il sole cocente, finché il sergente di picchetto ebbe l’autorizzazione per farli passare, scortati da due militari su una jeep. Il vasto piazzale della caserma, dove furono condotti, era in quel momento vuoto di soldati. Due elicotteri sostavano al centro, e alcune postazioni di artiglieria leggera in fondo, ma niente di insolito. Entrati nel caseggiato, Barlow e Mantega dovettero attendere una buona mezzora, prima che il colonnello Garcès si facesse vedere. Con lo stesso sguardo accigliato che gli avevano visto la sera allo Star Excelsior, Garcès li condusse nel suo ufficio dove li invitò a sedersi, rimanendo egli in piedi, quasi a voler rimarcare la sua posizione di superiorità. Era impaziente. «Bene signori, avete a disposizione solo mezzora per fare il vostro lavoro.» Impettito nella divisa d'ordinanza, pronunciò quelle parole con sussiego, mento alto e mani incrociate dietro la schiena. Arricciò il naso e fissò i due giornalisti. «Vi sarete già resi conto, immagino, come non ci sia molto da fotografare qui. Un mio collaboratore vi farà da guida.» Raff, che si aspettava quest’accoglienza, prima di aprir bocca, tolse da


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una delle tante tasche del suo giubbino una busta da lettere che ebbe cura di appoggiare sulla scrivania del colonnello. «Questo è per il vostro disturbo» disse con una punta di sarcasmo. «Mi permetto di osservare che non ci basterà un’ora per fare un buon lavoro.» Garcès, senza scomporsi, si sedette alla scrivania davanti a loro, afferrò la busta, e ne trasse fuori i soldi. Mille bigliettoni. «Vi consiglio di iniziare subito, non perdete altro tempo» disse a questo punto, mentre riponeva il denaro nel cassetto destro della scrivania e ne tirava fuori una scatola di sigari ognuno dei quali era contornato da una fascetta gialla-oro con la scritta azzurra, Habana. Raff e Greg si guardarono, indecisi se insistere o lasciar stare. Garcès, con molta calma, scelse un sigaro, levò via la fascetta, ne scapocchiò l’estremità con un morso, e se lo accese, restando avvolto in una densa nuvola di fumo che ben presto riempì la stanza. Greg fu il primo a rompere l’indugio. «Possiamo farle alcune domande?» Il colonnello alzò una mano. «Niente domande, perdete solo del tempo prezioso.» Lo squillo del telefono ritardò una replica. Raff sbuffò. Greg si alzò già nervoso. «Che c’è!» urlò nel microfono Garcès, infastidito. Rimase parecchi minuti ad ascoltare senza dir niente, tormentandosi i baffi sottili, quindi, rivolto all’altro capo del telefono comandò: «Procediamo!» e appoggiò la cornetta al suo posto. «Spiacente signori, ma abbiamo un’emergenza» disse in tono perentorio. «Il nostro incontro finisce qui! Ora abbiamo altro da fare, se non vi dispiace… Vi faccio accompagnare.» Spense il sigaro appena acceso, si alzò e si tolse la giacca che cambiò


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con un giubbotto antiproiettile. I suoi movimenti erano rapidi e non prestava più attenzione ai due intrusi che ci misero poco per capire che stavano per essere liquidati, e che, non volendo rinunciare a quanto era stato loro promesso, presero a protestare con veemenza, mentre Garcès si spostava avanti e indietro nella stanza aprendo cassetti e armadietti, come fosse alla ricerca di qualcosa. «Ma non potete fare questo, c’è stato un patto tra noi!» protestarono Greg e Raff, senza che Garcès desse loro retta. «Basta, basta, per oggi è tutto!» non faceva che ripetere, irremovibile. I due cronisti tentarono di far leva sul suo orgoglio di militare. «Un comportamento assurdo per un ufficiale!» inveiva Greg. Arrivarono alle

intimidazioni.

«Ricordatevi

che

siamo

due

giornalisti!»

proclamava Raff. Quando sembrò che non ci fosse speranza di fermarlo, Mantega tentò il tutto per tutto. «Bene colonnello, allora veniamo con voi!» Il militare si bloccò, ma Greg azzardò ancora. «Lo esigiamo, siete in debito con noi! Altrimenti dovrete restituirci il denaro!» Garcès, che già aveva dovuto arrestarsi per l’intromissione fisica di Raff, senza perdere la calma, si voltò e disse. «A vostro rischio e pericolo… » ma non terminò la frase, perché giunse dai corrodoi della caserma un agitato vai e vieni e un concitato rincorrersi di comandi. Sentirono una voce su tutte, diretta proprio a Garcès, Pablo sbrigati. Non abbiamo molto tempo! Le squadre aspettano di partire! Di colpo, la porta dell’ufficio si spalancò e fece capolino un individuo in tenuta da guerra che si rivolse bruscamente a Garcès. «Siamo in ritardo, perdio, vuoi muoverti?» Non attendendo risposta, così com’era entrato, quel tale con la stessa irruenza se ne uscì, sbattendosi la porta alle spalle. A Raff quella persona parve di averla già vista. Cercò di mettere


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mentalmente a fuoco i suoi tratti somatici. Non sembrava esserci dubbio. Quella persona sembrava essere proprio Louis Vanijenko. Nello stesso istante Greg Barlow si chiedeva cosa stesse succedendo, e chi fosse quello che con tanta autorità si permetteva di dare ordini, e in quel modo poi, al colonnello Garcès, mentre questi, per la prima volta, si mostrava incerto e a disagio. Ma fu solo un attimo. Garcès raddrizzò le spalle e riprese il controllo della situazione. «Signori, è chiaro che oggi non potete fare niente qui. Come avete visto, tutta la guarnigione è mobilitata. Ci stiamo muovendo verso Bermeja dove è stato intercettato un carico di cocaina destinato alla guerriglia. Noi andiamo sul posto per sgominare il branco di banditi che la trasportava. Se proprio volete rischiare la pelle, siete liberi di farlo, la cosa non mi riguarda. Posso solo consigliarvi, per la vostra salute, di stare dietro la linea di fuoco. Per il resto… buona fortuna.» E, così dicendo, girò i tacchi e si avviò fuori di fretta alla scappa via. Raff e Greg corsero alla loro macchina. Raff espose sul parabrezza un grande cartello con la scritta PRENSA e Greg mise in moto. L’andirivieni di veicoli e di militari nel piazzale era febbrile e disordinato. Attesero qualche minuto, prima che i mezzi in uscita consentissero loro di accodarvisi. Uno dei due elicotteri si era già alzato in volo, si udiva l’eco ritmico delle pale rotanti, l’altro era pronto a decollare. Vi stavano prendendo posto in tutta fretta il colonnello Garcès e altri ufficiali. Raff si accorse che faceva parte della compagnia anche Louis Vanijenko. «Sì, certo che è lui» rispose senza esitazione Greg alla sua domanda di conferma. Erano a non più di un centinaio di metri. Raff ebbe tutto il tempo di predisporre la sua nikon dotata di un cannone zoom da quattrocento


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millimetri che teneva appesa al collo. Cominciò a scattare foto a raffica. Dal mirino controllava quanto efficaci e utili sarebbero risultate le immagini. Erano le prime sul campo di battaglia e pensava che al suo rientro nella locanda avrebbe potuto trasmetterle a Monser per avere la certezza assoluta dell’identità di mister X. Intanto Greg tentava invano di mettersi in collegamento telefonico con Mito per comunicarle il cambio di programma. Dopo circa un’ora, la colonna di veicoli, e loro con essa, procedeva lungo uno stretto sentiero sterrato. Si udiva sempre più nettamente il frastuono delle armi. È solo l’inizio, pensò Mantega, mentre Barlow, zitto, guidava sicuro. Raff disse: «Dobbiamo individuare la postazione di Garcès.» «Un dollaro che vorresti avvicinarti al tuo amico tanto da poterlo immortalare» scommise Greg con un mezzo sorriso. «Esatto. Può anche darsi che gli ufficiali e Garcès guidino le manovre dall’alto dell’elicottero, non so. Ma è facile che, se il terreno lo permette, atterrino in qualche radura da dove meglio potrebbero seguire

lo svolgimento

dell’operazione. Noi, per il momento,

limitiamoci a seguire la formazione. Quando si fermerà, lasciamo l’auto, gambe in spalla e via alla ricerca di un posto sicuro.» Si fermarono poco più avanti. Adesso gli spari erano forti e vicini. I soldati si spostavano secondo il comando dei loro capi. Raff e Greg individuarono un albero gigantesco che offrì loro un a buona protezione e un’ottima veduta d’insieme. Con non poca fatica riuscirono a salirvi sistemandosi alla bell’e meglio tra i rami fronzuti. Barlow ispezionò con il binocolo la zona, Mantega aveva il suo daffare per inquadrare e riprendere ciò che lo circondava. Davanti, a qualche centinaio di metri, si trovava un piccolo villaggio costituito per lo più da case cadenti e baracche di mattoni e lamiere.


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Appollaiati sull’albero vedevano gli uomini di Garcès che avevano attorniato il paese chiudendolo a tenaglia. Volavano proiettili da ogni dove. Gli elicotteri vomitavano raffiche di mitraglia che colpivano persone a grappoli che cercavano invano un riparo. Spari e fiammate dappertutto. Dal cielo piovevano proiettili d’artiglieria che, cadendo, sconquassavano la terra e dilaniavano uomini. Qua e là si vedevano braccia e gambe volare in aria. Spari, schegge e fumo. Il fracasso era assordante. Mantega inquadrava quelle scene con fredda lucidità, senza trascurare alcun particolare. Mirava e faceva partire il tiro verso il bersaglio come un abile cecchino, con la sola differenza che lui non uccideva. Mai cedere alla pietà e al sentimento, se vuoi continuare a fare questo mestiere, diceva a se stesso come in una giagulatoria, mentre assisteva a quel massacro. Se lo ripeteva, anche se con gli anni e con l’esperienza aveva cominciato a considerare guerre, massacri e sangue innocente così consueti da essere costretto a non farci più caso e a ritenerli orrendamente inevitabili. In zona di guerra, controllare le emozioni e mantenere i nervi saldi voleva dire portare a casa la pelle. «Ecco il tuo uomo, Raff!» esclamò all’improvviso Greg. Mantega l’aveva notato. A fianco di Garcès, in piedi, c’era Vanijenko, in un punto dove potevano controllare lo svolgimento della battaglia. «Dobbiamo avvicinarci!» disse Raff, già riponendo la fotocamera nella borsa e accingendosi a scendere dall’albero. Greg si girò di scatto. «Ehi, non ti sembra di essere già pericolosamente vicino?» provò a urlargli spaventato dall’intenzione dell’amico. «Che bisogno hai di metterti nei guai, ragazzo?» Raff parlò in tono divertito. «Niente paura, Greg. Da qui vedo solo alberi e roccia. Guarda quel costone, ci terrà al riparo per una cinquantina di metri. Coraggio, scendiamo.»


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Greg scosse il capo, ma cominciò a scansare i primi rami seguendo Raff che stava per saltar giù. «Non mi piace la tua idea, accidenti!» protestò. «Sono qui per farti da spalla e tra qualche giorno voglio essere a Miami a godermi le vacanze.» «Non avevi detto che saresti andato in Colorado o a scrivere un libro, Greg?» gli chiese Raff con un sorriso ironico, mentre si scapicollavano per terra giù dall’albero. L’altro gli fece un cenno, come a dire di lasciar correre, e fu subito a terra con lui. Il fuoco, nel frattempo, si era fatto più sostenuto ed alcune mitragliatrici pesanti avevano dato il via a quello che aveva tutta l’aria di essere l’attacco finale al villaggio. Dopo una breve, rapida corsa, come aveva previsto Raff, arrivarono, senza problemi, al riparo, ideale punto d’osservazione, abbastanza coperti da non rischiare di essere colpiti. Mantega aveva ripreso in mano la macchina fotografica, mentre Barlow, affannato, imprecava sottovoce. Adesso, nel mirino della sua digitale, Louis Vanijenko, il contractor dalla prominente mascella, era molto vicino. Mantega rimase qualche secondo ad osservarlo. Niente completo blu e cravatta rossa come lo aveva visto alla convention repubblicana, ma anfibi, tuta mimetica e ray-ban sul naso. Attraverso il mirino ciò che faceva la differenza con gli altri ufficiali colombiani erano la sua tenuta da combattimento e la statura. Gli uomini del villaggio, ormai devastato, muniti di bombe ed armi leggere tentavano ancora di tenere testa alle soverchianti forze che l’esercito aveva messo in campo. Sembrava che per loro fosse molto importante quella postazione, e la difendevano con coraggio. Quando ormai era chiaro che i soldati di Garcès avrebbero avuto il sopravvento, comparvero sul terreno di scontro, sbucati dal nulla, una ventina di uomini in tuta mimetica. Sembravano equipaggiati con armi più


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efficaci di quelle usate finora dai soldati, si muovevano come forza ben addestrata e veloce, e si comprese subito che il loro intervento avrebbe posto fine alla battaglia. Mantega non ne aveva la certezza matematica, ma si sarebbe giocata la

reputazione

che

non

potevano

essere

soldati

dell’esercito

colombiano. Non era consigliabile restare un minuto di più. «Leviamo le tende, Greg!» Barlow era d’accordo. «E di corsa! Se mister Mascella Quadrata si accorge di noi, preparati a un trapianto di culo, ragazzo» imprecò. Si sentivano ancora spari, ma gli ultimi intervenuti si stavano occupando ora di fare prigionieri, civili e ribelli, non tralasciando donne e vecchi. Con la coda dell’occhio, mentre correva via, Raff calcolò cinquanta, cento persone che uscivano, con le mani alzate, poco a poco, da nascondigli improvvisati, e si arrendavano alle truppe regolari di Garcès. Tutti furono portati, legati mani e piedi con gli occhi bendati e la testa coperta da un sacco, nello spiazzo al centro del villaggio. Probabilmente li avrebbero lasciati così per ore, se duti per terra, appoggiati di schiena l’uno contro l’altro, la testa china in avanti, sino a quando l’intera zona non fosse stata sgombrata. Forse, solo dopo molte ore, li avrebbero caricati su uno dei loro camion e trasportati nella caserma di Caguari per interrogarli. Forse. Ma questo Mantega e Barlow potevano solo immaginarlo. La loro preoccupazione adesso era quella di andar via di lì il più alla svelta possibile. Con un po’ di fortuna riuscirono a raggiungere la Mustang senza incontrare ostacoli, Greg girò la chiavetta del motore e volarono via verso San Antonio. Dopo qualche chilometro, ritennero di essere a l sicuro per rilassarsi. Erano ancora col fiatone e avevano i vestiti incollati alla pelle dal sudore che colava.


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Raff si massaggiò, dietro, la testa. «Tutto questo correre non ha fatto bene al mio collo» disse dando una breve spiegazione a Greg sulle ragioni di quell’antico fastidio che ogni tanto lo tormentava, mentre metteva al sicuro, in una delle sue tasche, le foto scattate. «Non vedo l’ora di trasmettere queste a Luigi, ne sarà contento. Aveva ragione l ui su Vanijenko.» Greg, che si accorse solo ora di avere un lembo della camicia strappato, disse: «È anche una dannata fortuna per te.» Raff pensava ad alta voce e si sventolava il viso con una mano. «Mi chiedo quale sia il vero ruolo della M.R. in questa faccenda. Se Vanijenko è qui, è perché c’è sotto qualche cosa di grosso.» «Droga, amico» rispose Greg con l’aria di chi la sapeva lunga. «È la droga che fa muovere ogni cosa da queste parti. Se poi l’esercito colombiano ha bisogno del suo aiuto…» Raff annuì. «D’accordo, questo è noto, ma con i soldi del Plan i contractors della M.R. dovrebbero limitarsi ad addestrare l’esercito. Un intervento militare diretto da parte loro non sarebbe autorizzato dal Congresso.» La Mustang sobbalzava sui solchi dello sterrato, lasciandosi dietro una folta e densa scia di polvere, erano a pochi chilometri dal centro di San Antonio. Mantega si terse il sudore. Era un pomeriggio caldo e il sole era ancora alto, quando la Mustang si arrestò davanti alla locanda El Paso.


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Raff, dopo aver ingoiato due cachet per lenire il fastidio al collo, inviò, senza perder tempo, le foto al suo amico Luigi Monser, poi si spaparanzò sul letto. Mito dettò un pezzo alla France Press, mentre Manuel dava spiegazioni convincenti alla redazione di Bogotà della sua improvvisa sparizione. Si era scusato, aveva rassicurato, tranquillizzato e promesso di tenerla al corrente dei suoi spostamenti. Non stava nella pelle. Aveva ottenuto il risultato di coinvolgere il vescovo di San Antonio, e teneva far sapere al suo giornale che lavorare a fianco di Mantega era il massimo. Sicché tutti trascorsero quel giorno e il giorno appresso con una discreta euforia per come stavano andando le c ose. Adesso si faceva sul serio. Il solo Greg era insolitamente taciturno e pensieroso, bighellonava per l’albergo come un’anima in pena. «Brindiamo al nostro successo!» propose a un certo punto Raff. La proposta fu accettata di buon grado, così si recarono a cena nell’osteria a due passi dalla locanda. Attorno a un tavolo imbandito erano allegri, mangiarono tortillas, brindarono con una bottiglia di rum cubano, finché Greg la buttò giù dura. «Domattina prendo il treno, e torno a Bogotà. Ho deciso di partire per gli Stati Uniti. Andrò a parlare a Liam Neik.» Era una mezza bugia. Mito lo guardò a bocca aperta. Manuel e Raff si guardarono bene dall’intromettersi nella questione. Raff soprattutto, che già aveva avuto occasione di dire la sua senza risultati. Mito, invece, non resistette. Increspò le labbra e spalancò, contrariata, gli


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occhi grigi. «Perché questa decisione improvvisa? Ancora adesso non arrivo a capire questa tua testardaggine, decidere di piantare tutto e andartene. Che ne sarà di noi due, Greg?» Lo sguardo di Greg si fece severo. Sapeva bene di avere spiegato solo metà delle sue ragioni. Aveva detto una mezza bugia o una mezza verità. Si passò la grossa mano sulla testa calva, voleva aggiungere qualcosa, ma non sapeva come dirla. Le rughe sul v iso gli si fecero più profonde. «C'è un'altra ragione che mi obbliga a partire…» «Sì?» «Ho ricevuto una chiamata da Liam. No, niente a che vedere con il lavoro.» Tutti e tre si fecero più vicini a lui. «Liam mi ha informato che mio figlio, Bud… ha avuto un serio incidente… Una moto gli ha tagliato la strada mentre percorreva in bicicletta il tratto che dalla fattoria del nonno porta a casa. È stato investito…» Mito si portò la mano sulla bocca. Il tono di Greg si era fatto più grave. «È stato trasportato all’ospedale di Denver. È in coma profondo… i medici non si fanno molte illusioni.» Raff gli mise una mano sulla spalla. «Mi dispiace Greg. Volerai subito a Denver, immagino.» Mito era impietrita. «Perché non me lo hai detto subito?» affermò. «Pensi che non avrei capito? È giusto che vada dal tuo ragazzo.» Greg prese la bottiglia di rum con cui avevano brindato, ne svuotò il fondo nel suo bicchiere e lo scolò di un fiato. Scrollò la testa. «Domani al Paramillo, da Blasco, farai a meno di me, mi dispiace R aff.» «Non devi certo scusarti» rispose questi. «Domani ti accompagnerò alla stazione, se credi. Al Paramillo ci andrò un altro giorno.» Rientrarono nella locanda con le facce tristi. Mito e Greg si appartarono.

Mito

abbracciò

Greg

per

fargli

sentire

la

sua


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comprensione, anche se, come un tormentone, continuava a ripetergli. «Che ne sarà di noi due, Greg?» Lui le si avvicinò, le cinse la vita attirandola a sé e le diede un bacio sulla fronte. «Devo pensare a mio figlio adesso, non sono stato un buon padre… Sempre via. Quando Buddy sarà fuori pericolo, vedrai, metterò tutto in chiaro con Cecil. Allora non mi potrà negare il divorzio.» «Magari invece, la condizione in cui si trova tuo figlio vi avvicinerà.» Greg sospirò. «È il solo legame che ci unisce, ma il passato è passato. Il mio futuro sei tu adesso. Starò vicino al mio ragazzo il tempo che occorrerà. Verrà il giorno, te lo prometto, in cui potremo fare un bel viaggio, soli, tu e io, lontano da tutti i Neik, i Monser e i Mantega della terra. Quindici giorni su un’isola sperduta, senza che nessuno ci disturbi. Ci godremo il nostro paradiso, penseremo al nostro futuro. Ti va l’idea?» Mito non sembrava convinta. «E con Liam?» Greg alzò le spalle. «Al diavolo Liam, chiarirò le cose anche con lui. Dobbiamo avere solo pazienza, mia cara. Quando finirai il tuo lavoro con Mantega…» Mito lo interruppe. «Lo sai che ho acconsentito di affiancarlo solo per fare un favore a Luigi. Non mi è simpatico quel fotoreporter presuntuoso, che guarda tutto e tutti dall’alto della sua dorata professione.» «È un eccellente professionista invece, e mi sembra anche una persona con qualità che dovresti apprezzare. Cerc a di essere meno aspra con lui.» «Promesso» rispose lei fissandolo negli occhi, ma non ancora convinta. Greg le fece un gran sorriso al quale non poté resistere e gli si strinse più forte.


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La

mattina

dopo,

Mantega, come

promesso,

si apprestò

ad

accompagnare Greg e Mito alla stazione. Era circa mezzogiorno e la città appariva al solito in un disordinato movimento, come tante città boliviane a quell’ora della giornata. Tanta gente in centro, bus e automobili che strombettavano, ambulanti con i carretti colmi di mercanzie, uomini d’affari e mendicanti, soldati agli angoli e ai posti di blocco. Imboccarono una lunga discesa che costeggiava la massicciata delimitante la strada ferrata, in prossimità della stazione. Greg era alla guida. Si rivolse a Raff, che stava al suo fianco. «Non ho avuto modo di vedere il tuo ultimo libro sulla Guerra del Golfo.» «Te ne spedirò uno con dedica appena arriverò a Roma.» «Però non mi sono perso la mostra al Guggenheim Museum di New York. Le tue foto mi sono piaciute veramente tanto. Tutte significative, alcune, intendo certi servizi per case d’alta moda o campagne pubblicitarie di grande impatto emotivo, devo dire la verità, le ho trovate fredde, con poca anima. Tuttavia, bada bene, sempre efficacissime. Per me rimani un grande fotografo.» Raff sorrise amaro. «Scusami, cosa intendi, quando dici che le mie foto ti sono sembrate senza anima?» Un posto di blocco li distolse dal continuare la conversazione, lasciando Raff senza risposta. Una pattuglia dell’esercito, formata da un autoblindo con quattro soldati, a trecento metri da loro, era appostata là dove la lunga discesa si restringeva a imbuto, costeggiando le antiche mura, prima di passare sotto un cavalcavia e di arrivare a una curva a gomito che immetteva nel viale della stazione. I militari fermavano le auto, controllando i documenti degli occupanti. La Mustang di Greg avanzava in fila indiana con lentezza. Due militari si accostavano alle automobili in coda. Uno dava un’attenta


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sbirciata all’interno, l’altro esaminava i documenti. I controlli erano minuziosi e le operazioni andavano per le lunghe. «Accidenti!» imprecò Barlow. «Perderò il treno.» Quando giunse il loro turno, furono costretti ad aspettare. Tre militari erano chini su un tavolino, vicino al blindato, occupati a scartabellare dei fogli. Il quarto, fucile in mano, si era estraniato e si guardava attorno. Per Barlow era veramente tardi. I minuti scorrevano e tutti e tre

cominciavano

a

spazientirsi.

Dopotutto,

erano

giornalisti,

pensavano, e avrebbero dovuto passare senza tanta perdita di tempo. Barlow lanciò un’imprecazione. «Ora scendo e vado a parlarci!» disse deciso aprendo la portiera dell’auto. «Lo sai che è inutile» lo trattenne Mito. «Quelli ti faranno attendere di più, per dispetto.» Ma Barlow era già fuori dell’auto. Anche Mantega lo esortava ad aver pazienza. «Dai Greg, torna indietro, tra un po’ toccherà a noi» gli aveva ripetuto più volte, anche quando era già lontano. «Niente paura, faccio vedere la mia tessera di giornalista!» rispose Greg. Raff spense il motore dell’auto. Rassegnato, prese la sua leica per ingannare l’attesa, inquadrò nel mirino la sagoma del compagno che si avviava verso il posto di guardia e scattò qualche fotogramma, senza alcuna

pretesa.

Mito

si

adattò

alla

situazione,

conosceva

la

cocciutaggine del suo uomo, e si lasciò sprofondare tranquilla sul sedile posteriore. Si accese una sigaretta nell’attesa di vedere come sarebbe andata a finire. Si sentiva solo il clic della macchina fotografica. Raff vedeva chiaramente nel mirino Greg che raggiungeva i militari e mostrava la sua tessera di giornalista. Quelli, vistoselo spuntare davanti, dovevano essere rimasti sorpresi, ma ai gesti di Greg, che certo faceva presente i


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motivi della sua premura, sembravano per nulla preoccupati. Per un po’ Raff e Mito ebbero la sensazione che tutto stesse procedendo normalmente. Greg sembrava rispondesse alle doman de dei soldati che poi si allontanarono. Solo uno di loro continuava a discutere con Greg, ma pareva una discussione tranquilla. Anzi, il fatto che gli altri tre soldati si fossero disinteressati a lui faceva pensare che presto avrebbero potuto riprendere la strada. Barlow continuava a parlare, faceva cenno ora verso la direzione da cui erano giunti, ora verso la via dove erano diretti. Il soldato con il fucile a tracolla continuava a tenerlo d’occhio a non più di tre metri. Ma qualcosa subito cambiò, la discussione si trasformò in diverbio, animandosi di colpo. Il soldato con il fucile a tracolla fece un passo avanti con aria minacciosa e puntò il dito contro Greg che indietreggiò. Buttava male. «Oh, Greg!» esclamò Mito, gettando la sigaretta fuori del finestrino. «Greg, vieni via!» gridò anche Raff, come se l’amico potesse sentirlo. Il militare manteneva il dito puntato su di lui sbraitandogli contro. «Greg, vattene da lì, cazzo!» berciò Raff. «Greg!» chiamò Mito «Greg!» ripeté ora urlando, mentre usciva dall’auto in preda ad un attacco di panico. Vedevano Barlow rinculare, finché si trovò con le spalle contro l’autoblindo. Mito non la smetteva di gridare con quanto fiato aveva in gola. «Greg, torna qui!» Ma lui non poteva sentirla. Con mossa abile e improvvisa, il soldato si sfilò l’arma dalla spalla, la rivolse contro Greg e lo freddò con due fucilate a bruciapelo, come fosse un animale, lasciandolo esanime sul selciato. Nessuno avrebbe più potuto far niente per salvare Greg. Il gruppetto dei tre militari che si era mostrato fino a quel momento


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indifferente rimanendosene in disparte, come se l’alterco con Greg non lo avesse riguardato, richiamato ora dal fragore dei colpi, si voltò istintivamente di scatto, ma nessuno a prima vista fece una piega. Uno solo di essi si avvicinò con fare quasi noncurante al corpo senza vita di Greg, girò attorno due volte con i pollici affondati nel cinturone, come un cow-boy che si prepara a un duello all’ok corrall, si fermò, estrasse con gesti lenti la pistola dalla fondina e gli scaricò rabbiosamente addosso l’intero caricatore, come se quel povero cadavere potesse azzardare ancora una temuta reazione. Le urla di Mito risuonarono nell’aria forti e acute. Ci fu quindi un tempo che sembrò incredibilmente lungo. Raff e Mito erano come inebetiti. Ambedue temevano, avvicinandosi, di fare la fine del loro sfortunato collega, ma non lo avrebbe ro voluto abbandonare alla mercé di quegli assassini. La pattuglia guardava nella loro direzione, uno dei militari era saltato su una camionetta e stava mettendo in moto. Ma Raff e Mito, benché avvertissero istintivamente il pericolo, non si accorsero che i militari stavano dirigendosi minacciosamente verso di loro. Raff cinse le spalle di Mito, in stato di shock. «Greg! Greg!» ripeteva in continuazione. Cercò di calmarla per quanto potesse riuscirci, dato che la stessa violenta emozione aveva investito pure lui. La spinse di forza all’interno della macchina. «Via, via da qui!» Le auto in coda, ai primi spari avevano fatto marcia indietro prendendo altre strade per non passare davanti al ceck-point. La Mustang si trovava a nemmeno cento metri e li stavano per raggiungere. Non c’era tempo da perdere. Raff mise in moto la macchina, le mani tremavano. Fece una vorticosa inversione di marcia e, prendendo velocità, riuscì a distanziare la camionetta dei militari. Il ritorno alla locanda fu il percorso più allucinante che mai Raff si


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fosse trovato a fare in tutta la sua vita. Mito, in preda ancora al terrore, non cessava di singhiozzare. Lui praticamente non si rendeva conto dove stesse andando, sudava, il piede pigiato sull’acceleratore, davanti agli occhi l’immagine di Greg colpito a morte. La locanda non arrivava mai. Le ore successive per Raff e Mito furono altrettanto tremende. Al forte dolore per la crudeltà con la quale era stata tolta la vita all’amico, si era aggiunta l’angoscia di non aver potuto recuperare il suo corpo. Quella notte e le successive Mito non dormì. Si coricava stanca nel corpo, senza riuscire a far prendere sonno alla me nte. Greg non c’era più, e questa era la cosa sconvolgente di fronte alla quale niente sembrava avere più senso.


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Mito si rintanò il giorno intero nella sua stanza ad ascoltare il proprio pianto tra pareti silenziose. Non accettava l’aiuto che i suoi compagni di lavoro le offrivano, pur avendone bisogno essi stessi. Di quando in quando,

Raff

si

affacciava

nella

sua

stanza,

discretamente,

sussurrandole una parola di conforto. Certo, avrebbe avuto bisogno di tempo per riprendersi dal brutto colpo. E ci fu più di un momento in cui Mito e Raff dovettero vincere il desiderio di mandare tutto all’aria. Ora, ambedue sentivano uno sgradevole senso di colpa e l’amara sensazione di aver subito una sconfitta. Raff aveva fatto la conta dei morti di tutti i massacri cui era stato testimone in Sudan come in Erzegoniva, in Sud Africa come a Gaza e in ogni angolo della terra. Testimone di fatti anche cruenti, mai, però, aveva visto uccidere un collega. Rammentò ora le parole che Greg aveva pronunciato poco prima del tragico agguato, quando gli aveva manifestato perplessità riguardo alle sue foto che aveva giudicato senz’anima. Improvvisamente a Raff sembrò chiaro ciò che Greg aveva voluto dirgli. Quelle foto pubblicitarie e i servizi di moda che aveva esposto al Guggenheim Museum al povero Greg erano sembrate fredde rispetto alle sue opere che documentavano il periodo trascorso sui diversi fronti caldi della guerra. La loro non era una professione qualunque, non si doveva praticare se non per vocazione, quasi fosse una missione. Non si pensa di rischiare la vita, non ci si cura di niente, importa solo esserci, informare, mostrare, attraverso immagini e parole, nuove realtà del


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mondo, belle o brutte che siano. Mito, pur ancora confusa e provata, dovette fare violenza su se stessa per riaffrontare il lavoro. Nonostante i suoi sforzi, ogni cosa la portava a ricordare la tragedia cui era stata presente. Aveva dovuto comunicare l’accaduto al giorna le di Barlow e parlare con Neik, il quale aveva voluto conoscere tutti i particolari, e ciò aveva accresciuto in Mito l’angoscia. Il giornale, ovviamente, aveva affermato Neik, avrebbe dato il massimo rilievo alla notizia e lei doveva essere certa che avrebbe speso tutta la sua influenza per denunciare l’atto di ferocia perpetrato contro un giornalista della stampa libera. Inoltre, avrebbe fatto di tutto perché il corpo di Greg Barlow fosse restituito ai suoi familiari. Nei giorni successivi la forza d’animo di Mito fu messa alla prova. Aveva preso contatto con la sua agenzia di New York ricevendone istruzioni per un articolo e, ovviamente, non aveva mancato di informare Luigi Monser sulla sciagura che l’aveva colpita così duramente. Monser conosceva i sentimenti che univano i due colleghi e non le aveva nascosto rabbia e grande preoccupazione per l’accaduto. Aveva avuto parole di affetto nei suoi confronti e le aveva promesso, anche lui come Liam Neik, che avrebbe fatto quanto era in suo potere per ché del fatto, diventato di dominio pubblico, se ne continuasse a parlare ancora. Mito assicurò l’amico, avrebbe ripreso il lavoro più determinata di prima. Ma dovette fare appello a tutta la sua capacità di reazione quando venne a sapere che le autorità colombiane non sembravano intenzionate a restituire il corpo di Greg. Il comando militare, pur sollecitato con forza dallo stesso monsignor Lamar, negava che l’uccisione del giornalista americano fosse avvenuta per mano loro. In seguito, avrebbe diramato una risibile versione ufficiale dei fatti,


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l’uomo ucciso ad un posto di blocco era stato identificato come un noto criminale che, privo di documenti, aveva rifiutato di fornire le proprie generalità. Nei giorni immediatamente successivi, Luigi Monser richiamò Mantega per diradare gli ultimi dubbi che potevano essere rimasti circa l’identità dell’uomo da lui fotografato a Bermeja . Quell’uomo era proprio Louis Vanijenko. La conferma della notizia riportò il gruppo alla realtà. Monser gli aveva inoltre riferito un’indiscrezione che era circolata in quei giorni negli ambienti giudiziari di Roma. L’Interpol, per intervento dell’amico Rizzo, avrebbe esteso le indagini sul traffico di droga al cartello di Cali. A questa notizia, Monser aveva contattato Rizzo che si era sbottonato dicendogli che stava per partire per la Colombia. «Tranquillo, se Rizzo mi domanda dove diavolo sei finito, mi terrò la bocca cucita» assicurò Luigi. Ma Raff era rimasto indifferente, in quel momento aveva ben altro per la testa, era poco incline a dare ascolto a tutte quelle voci che riportavano alla mente la morte di Dora e che ora risuonavano lontane. Sicché, lasciò cadere quanto gli aveva rivelato l’amico e cancellò ogni riferimento a quella morte dalla sua memoria. Più d’ogni cosa, Raff e Mito si preoccupavano in quel momento di tenere i piedi ben piantati a terra. A quel punto del loro percorso, era necessario non fermarsi, e chi più di monsignor Diego Lamar poteva infondere loro forza e fiducia? Dopo che era stata sospesa, lo stesso tragico giorno, la visita già concordata con Blasco, era stata un’ardua impresa convincerlo a riceverli. Lamar dette fondo a tutta la sua arte diplomatica riuscendo ad ottenere l’autorizzazione ad entrare in un territorio inaccessibile ai più. Rituffarsi nel lavoro interrotto poteva essere per Mito un antidoto per superare il dolore. Sicché, decisero che solo Manuel Rojo sarebbe


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rimasto a San Antonio, pronto a occuparsene nel caso fortunato in cui i militari avessero restituito la salma di Barlow. Raff e Mito non si sorpresero, quando monsignor Lamar si propose di far loro da autista durante il viaggio che li avrebbe condotti nel territorio controllato dalle milizie di Blasco. Lamar amava scherzare. «Dovete fidarvi di me e del mio pick-up Rover, ma soprattutto dell’aiuto di Dio.» Ma quello non era tempo in cui una battuta li potesse far sorridere. Cominciavano però ad abituarsi allo stile disinvolto del prelato, come alle stravaganze della Colombia, sicché erano preparati a non sorprendersi per come andavano le cose in quello strano Paese. Se era normale vedere un prete della cordigliera celebrare una messa tra i campi e in villaggi sperduti, e unirsi alle rivendicazioni dei contadini, non lo era altrettanto che un vescovo si comportasse come fosse uno di loro. Questo, non perché egli avesse deciso di guidare un vecchio e sgangherato fuoristrada al posto loro, ma perché quel presule dall’aria così semplice e dallo sguardo sagace, era scontato, avrebbe corso con loro grandi rischi. Sicché, i tre si misero in strada di buon mattino alla volta del villaggio di Arachua. «Da quanto tempo, monsignore, siete vescovo a San Antonio?» domandò Raff mentre cominciavano a scorrere dietro di loro i primi chilometri di strada sterrata. Lamar alzò il suo indice, scherzosamente imperativo. «Non c’è bisogno di chiamarmi monsignore. Per voi, come per il mio popolo, io sono padre Diego.» Raff sorrise. «Va bene padre Diego, se desiderate così…» disse, mentre controllava l’efficienza della sua nikon. Lamar si fece serio. «Perdonatemi Raff, non voglio peccare né di


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superbia, né di falsa modestia,» disse assestandosi gli occhiali che tendevano a scivolargli sul naso a causa del continuo sobbalzare del fuoristrada, «meno che mai con voi. Ma, sapete, nella mia diocesi tutti mi chiamano così da quando ero solo il parroco di Sarimano e poi il Signore mi ha chiamato ad un più alto incarico. Era naturale continuare nello stesso modo. Io non ho mai abbandonato il mio gregge e mi considero ancora un pastore e un umile servo di Dio. Sono diventato vescovo dopo che Monsignor Benito Guttierrez, il mio predecessore, tre anni fa, è stato ucciso mentre celebrava la messa nella chiesa della Madonna Beata Vergine.» «Ucciso? Il vescovo che c’era prima di voi è stato ucciso?» esclamò Raff smettendo di armeggiare con la fotocamera. « E da chi, si è poi saputo?» Lamar si strinse nelle spalle. «Il fatto, all’epoca, fece molto scalpore, potete immaginare. Monsignor Benito era ben voluto da tutto il popolo, perché nelle sue prediche e con le sue opere si era sempre prodigato per i più poveri e per i bambini, soprattutto da qua ndo era stato, appunto, nominato vescovo» Mantenga incalzò: «Gli assassini non sono mai stati scoperti e assicurati alla giustizia?» La guida della vecchia Rover sulla mulattiera, a tratti inghiaiata, non era

agevole

per il

fisico

non

più

giovane

del prelato, ma,

costringendolo ad una velocità ridotta, gli consentì di riflettere un po’ prima di rispondere, mentre Raff fotografava, senza che lui se ne accorgesse, la sua faccia rubiconda e schietta. Il fotoreporter aveva ora perso il filo del discorso, Mito, semi sdraiata sul sedile posteriore dell’auto, sonnecchiava senza ascoltare. Tutto lasciava pensare che il tempo sarebbe trascorso tranquillamente nel silenzio, sino al loro arrivo ad Arachua, quando il buon monsignore


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riprese a parlare per rispondere alla domanda di Raff. «Gli assassini non sono mai stati catturati, anche se, negli ultimi tempi, monsignor Benito aveva ricevuto parecchie minacce da parte degli squadroni della morte di Fernando Perreira . In molti hanno pensato che fossero loro i banditi. Non si è mai saputo chi fossero le persone che gli hanno scaricato addosso un centinaio di pallottole.» Mito sembrò svegliarsi in quel momento dal torpore in cui era sprofondata. «Cristo santo, un centinaio!» Accortasi dell’imprecazione prossima alla bestemmia che si era lasciata sfuggire, si scusò prontamente: «Mi perdoni padre Diego, ma che cosa aveva fatto di tanto intollerabile monsignor Benito?» «Non si può dire che fosse un uomo prudente e, a chi gli consigliava di stare in guardia, rispondeva che doveva comportarsi secondo giustizia. Per niente al mondo avrebbe rinunciato a lottare per strappare ai signori della droga e della guerra i bambini poveri di San Antonio . Benito Guttierrez era un uomo di principi, principi cristiani. Ma era anche un uomo molto pratico e portava avanti la sua opera pastorale concretamente. È stato uno dei cinque vescovi che hanno condotto i negoziati di pace tra i capi paramilitari e l’esercito, che hanno ottenuto, per qualche tempo almeno, un cessate il fuoco nella regione d i Cordoba. Nella sua diocesi aveva creato molti centri di aggregazione sociale che hanno avuto grande seguito tra i più giovani, ottenendo che venissero così sottratti alla vita di strada e alla criminalità. Il problema dei bambini rapiti e iniziati allo spaccio della droga o reclutati da criminali senza scrupoli per farne macchine di morte è ancora un cancro difficile da sradicare. Benito lottava perché i bambini potessero fare la vita che fanno tutti i bambini, andare a scuola, giocare, correre in un parco, e perché le loro giovani menti malleabili non fossero indottrinate e condizionate a tal punto da portarli a sparare contro


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uomini in carne ed ossa.» Raff continuava a fotografare. «Ne ho sempre sentito parlare, ma mai… Monsignor Guttierrez deve essere parso un ostacolo a quest’indegno sfruttamento.» «Sì, è certo andata così. Anche perché le sue prediche erano ascoltate da molta gente, e questo deve aver procurato a qualcuno un gran fastidio. Benito non era il tipo di prete che montava in bigoncia e celebrava messa. Le sue omelie erano vere denunce, soprattutto contro il mercato di bambini. La gente arrivava anche dai villaggi vicini per ascoltarlo.» La strada si era inerpicata sulla montagna, le curve si erano fatte più strette, ma il fuoristrada procedeva senza intoppi. Di lì a poco, i tre avrebbero oltrepassato la linea virtuale che li avrebbe introdotti nella zona occupata dalle AUC Il Rover percorreva la strada impervia che attraversava la montagna ricca di alberi d’alto fusto e di fitto sottobosco lussureggiante. Le nuvole in cielo, man mano che si avvicinava mezzodì, cominciarono a nascondere il sole caldo. L’aria si era fatta più pungente e secca, segno che

stavano

per

raggiungere

il

valico

di

Paramillo,

oltre

i

millecinquecento metri di altitudine. I tre se ne stavano in silenzio. Mito Amarante teneva in mano una cartina della zona, e voltandosi ora a destra ora a sinistra, cercava con lo sguardo qualcosa, un indizio, un segno che le dicesse, ecco ci siamo. Monsignor Lamar era troppo occupato con il cambio dell’auto per tirar su gli occhiali scivolatigli sulla punta del naso. Era come se tutti si aspettassero di essere prossimi alla meta, anche se, in effetti, non avendo avuto istruzioni dettagliate, non sapevano chi dovessero incontrare, dove e quando. L’emissario di Blasco era stato vago con monsignor Lamar. «Arriverete, quando arriverete, noi saremo


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là ad aspettarvi» aveva detto. Il silenzio dei suoi compagni permise a Raff di riflettere. Sino a quel giorno le cose per lui erano andate bene, a parte qualche piccolo inconveniente, ma, pensando a Greg, si pentì subito di essersene egoisticamente rallegrato. Non si era mai ritenuto un cinico , però… se in quel momento egli si fosse guardato allo specchio, avrebbe scoperto che dei tre, lui era l’unico a esibire un’espressione soddisfatta. Egli solo

sembrava

godere

dell’emozione

che

si

prova

nell’attesa

dell’avventura. Non vedeva l’ora di arrivare al campo militare di Paramillo. Non poteva fare a meno d’essere lusingato al pensiero che un vescovo avesse impegnato il suo nome e la sua posizione per fare un favore a lui, che una donna, sua collega, nonostante fosse spigolosa di carattere, si fosse tuttavia adoprata collaborando e continuasse a farlo, malgrado la condizione di sofferenza per la perdita trag ica del suo compagno che aveva sacrificato la propria vita compiendo il suo lavoro e, in ultima analisi, solo per fare un favore a lui. Tutte queste persone si erano messe a sua disposizione. E ancora, i colleghi Manuel Rojo e Luigi Monser. Generosità, altruismo. Cosa spingeva queste persone a mettere a repentaglio la vita, si chiedeva. Lui, a parti invertite, avrebbe fatto la stessa cosa per loro? Era duro ammetterlo, ma non era tanto sicuro che la risposta sarebbe stata affermativa. Era stato in tanti fronti di guerra e aveva sempre e solo cercato di salvare la propria pelle, non aveva mai rischiato la proria. «Eccoci arrivati finalmente. Tra poco saremo ad Arachua» disse Lamar. Aveva svoltato bruscamente dalla strada di pietrisco e fango giù per un viottolo che si apriva stretto dopo un crocicchio incassato tra due pareti erose che scendevano verso una piana di salici e di eucalipti.


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La strada, adesso fangosa, si fece piana, infilandosi sotto un arco di fogliame, fra pareti di una giungla di rovi e canne. Il pick-up sobbalzava tra un solco e l’altro, sbandava da una parte e dall’altra. Nuvoloni neri si erano intanto addensati minacciosi sopra la cordigliera montuosa che si stagliava all’orizzonte, e presto cominciò a piovere di una pioggerella sottile e fastidiosa, come se uno sciame d’insetti ti frustasse il viso. Il Rover superò un bivio dopo aver percorso un centinaio di metri alle pendici della collina di Paramillo. L’auto si addentrò per due chilometri procedendo sulla strada impervia. In lontananza, un autocarro si approssimava in senso contrario ad andatura lenta. Considerate le sue dimensioni e la stretta carreggiata, il Rover fu costretto ad accostare. Lamar si fermò e aspettò, incerto sul da farsi. Nel cassone dell’autocarro erano accalcate, tutte in piedi e senza alcun riparo, come una mandria che va al macello, una trentina di persone. Facce di contadini, indios dal viso smunto e bruciato dal sole. Fra loro persino qualche bambino e alcuni vecchi. Un tuono improvviso rimbombò, saette si rincorsero all’orizzonte. L’autocarro, a non più di cinque, dieci metri dal Rover, si arrestò. Padre Diego, incurante della pioggia, scese dall’auto per andare incontro all’autista del camion e concordare con lui il modo migliore per uscire dall’impasse. Così almeno credette Raff, che, nel dubbio, però, preferì raggiungerlo. Era avviato con tutta la sua attrezzatura, quando vide emergere tra i contadini ammassati sotto la pioggia, tre


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individui armati di kalashnikov e in divisa militare che, facendosi largo rudemente, balzarono con un salto dal cassone e si diressero a passo svelto e deciso verso di loro. Il primo che videro sembrava il più giovane, poteva avere forse diciotto anni e anche quello che voleva far capire che lui era il capo. Aveva un viso smunto e asimmetrico che mostrava un leggero tic nervoso all’angolo di due labbra secche e sottili. Calma e gesso, se sono uomini di Blasco, non possono avere cattive intenzioni, pensò Raff. Gli altri due non avevano certo più di venti anni e avevano un’espressione non meno allocca del primo, ma con un tratto di follia comune negli occhi. Indossavano tutti malconce tute mimetiche, anfibi ai piedi, l’arma in mano e alla cintola una poco tranquillizzante rivoltella. Lamar era giunto in prossimità del camion. Alla vista dei tre, si bloccò e Raff fece altrettanto, mentre la pioggia stava facendosi sempre più insistente. Il più giovane si diede un’aggiustatina alla visiera del berretto e urlò loro in spagnolo: «Fermi, fermi! Siete monsignor Diego Lamar?» Mantega si raggelò, abbassò la fotocamera con un gesto lento. Sarà stato per via di quel maledetto giorno, fatto era che si sentiva semiparalizzato come un animale da preda pronto a essere impallinato. Si lasciò guidare dall’istinto. Sperando di non destare l’attenzione, volse lo sguardo verso Mito che, al riparo dalla pioggia, dentro l’abitacolo del Rover, se ne stava apparentemente tranquilla, ma che immaginava assai spaventata come lui. Il vescovo intuì. Pàras di Blasco. La medesima intuizione ebbero Raff e Mito, lo dicevano i loro sguardi esitanti che, a qualche metro di distanza l’uno dall’altra, s’incrociarono. «Sì, sono monsignor Diego Lamar, vescovo di San Antonio» rispose il


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prelato annuendo, mentre si toglieva gli occhiali e asciugava le lenti bagnate con un fazzoletto. «Allora

dovete

venire

con

noi.

Lei,

insieme

ai

due

che

l’accompagnano» disse il più giovane in tono autoritario, e quando un tipo così aveva in mano un mitra non c’era molto da replicare, tanto che anche Mito fu costretta a balzare fuori del Rover. I pàras confabularono qualche minuto tra loro. Poi, a gesti e brusche istruzioni, guidarono l’autista del camion nella complicata operazione per consentire al mezzo di passare. Intanto, dal fondo della strada era sbucata a tutta velocità una jeep Toyota, che si arrestò, con stridio di freni, a non più di un metro dal camion. La conduceva un uomo in divisa come gli altri tre, ma più anziano. Saltò giù dalla Toyota, zuppo di pioggia. «Che cosa fate ancora qui!» urlò arrabbiato. «Salite tutti. Via, via!» Seguì un’animata discussione in una lingua che Raff e Mito non riuscirono a capire. La pioggia sferzava le loro facce tese, gli sguardi impauriti degli indios pigiati sul cassone del camion erano tutti per loro, non osavano fiatare, con un’aria di rassegnata disperazione come fossero stati deportati. Alla fine, maledicendo e imprecando, i pàras fecero partire l’autocarro con il suo carico umano. L’autista , come tutti, non aveva azzardato una parola, avviò il motore e partì per la sua strada, rallegrandosi, forse, di essersela cavata, almeno per quel giorno. Al vescovo e ai due giornalisti fu fatto capire in modo rude che dovevano salire sulla Toyota, senza tante discussioni. Raff avrebbe voluto dir qualcosa, ma non era il momento di imprudenze. In altre circostanze avrebbe chiesto spiegazioni o almeno si sarebbe limitato a dire che con tutta quella pioggia sarebbe stato meglio usare una macchina coperta. Ma capì che nessuno di loro poteva provare a contraddirli senza rischiare di trovarsi in un mare di guai. Certo, la presenza di monsignor


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Lamar era una garanzia, l’aveva detto lui, ma, ciononostante Raff preferì tacere. Per tutto il tempo in cui i pàras avevano impartito ordini, loro erano stati zitti. «Ehi tu, via quella macchina fotografica o te la spacco!» gridò il pàras più anziano a Raff, avendo così conferma dei timori che lo avevano assalito, e tutti, a questo punto, salirono a bordo della Toyota. Dopo dieci minuti, scortati dai quattro uomini armati, entrarono nel territorio di Blasco. Pioggia, tuoni e lampi. Un diluvio torrenziale li investì. Il filo spinato, che delimitava il comprensorio dei pàras, si perdeva a vista d'occhio. Fu loro dato un telone di plastica per ripararsi. Trascorsero altri dieci minuti di un viaggio tormentato prima che, attraverso la fitta pioggia scrosciante, intravedessero una garitta. Era il posto di guardia della guarnigione, ma, intorno, non vi era ombra d’accampamento o di casermette. Ad attenderli, a fianco di uno scalcagnato cancello di legno, un uomo di guardia. Scesero tutti dalla Toyota, superarono la garitta e il loro viaggio proseguì a piedi. Il più anziano dei loro accompagnatori, oltrepassata la recinzione, fece strada, finché, dopo un centinaio di metri, scorsero un villaggio di cui si intravedevano in lontananza appena i tetti. «Arachua!» fu tutto quello che uscì dalla sua bocca. Ancora

pioggia, sentieri scoscesi, cime

perdute

nella bruma.

Affrontarono una ripida mulattiera sempre più stretta man mano che salivano. Il terreno attorno era di un verde dai riflessi azzurrognoli che a Raff ricordò i boschi della Barbagia. La catena dei monti era una linea nera ammantata di nuvole basse. Il gruppo, scortato dai pàras con mitra in spalla, si addentrò sul fianco della collina. In molti punti affondavano in pozzanghere d’acqua, lungo il percorso paludoso. Dapprima, avevano prestato attenzione, cercando


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di scegliere dove mettere i piedi, ma poi, giacché serviva a poco o nulla, tirarono dritti senza più farci caso. Si respirava male nell’aria rarefatta dei duemila metri, il sentiero si era fatto ancora più ripido. Dopo aver camminato per quasi un’ora, Raff, Mito e padre Diego pensavano di non farcela più, quando arrivarono a un altro cancello, questa volta più basso, con un’altra guardia armata di tutto punto. Era l’ingresso del Sancta Sanctorum di Blasco. L’area sembrava deserta, solo uno scheletrico cane caracollava avanti e indietro, probabilmente alla ricerca di cibo in una zona che doveva essere quella delle cucine, l’unica che faceva pensare fosse occupata per la presenza di alcuni fumaioli in attività. In fondo ad un grande spiazzo, sostavano un paio di automezzi militari. Altro non si vedeva, probabilmente gli uomini erano dentro le baracche, al riparo dalla pioggia o impegnati da qualche parte in esercitazioni. Il gruppetto arrivò sino all’ultima fila di casermette che delimitava una vasta zona, poligoni di tiro, sagome tipo spaventapasseri e ceppi d’albero crivellati di colpi d’arma, a dimostrazione che l’area era attrezzata per l’addestramento militare. Su due baracche la scritta DANGER! rivelava che erano adibite a depositi di munizioni. Entrarono in un casotto adiacente alle cucine dove furono avvolti da vapori densi e profumati, effluvi che tentarono il loro stomaco vuoto. Erano in viaggio dal primo mattino e ora stanchi e privi di energie. Il vento e la pioggia non avevano dato tregua. Avevano desiderato più di ogni altra cosa un riparo. Erano tutti fradici, i vestiti incollati alla pelle, le scarpe zuppe d’acqua. Il pàras si girò verso il gruppo che guidava e, andando dritto verso padre Diego, gli intimò. «Voi! Con me dal comandante!» Mantega e Amarante avrebbero dovuto aspettare lì. A padre Diego non venne meno, neanche in quell’occasione , il suo


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inconfondibile sorriso sereno. «Non preoccupatevi per me. Andrà tutto bene, con l’aiuto di Dio.» I

due

giornalisti

ricambiarono

il

sorriso.

Avrebbero

atteso,

pazientemente, il suo ritorno. Uno squallido stambugio con poca luce, una lampada a petrolio appesa al muro scrostato. Un posto da cani riscaldato da un vecchio braciere e provvisto solo di due piccoli sgabelli a tre gambe, una mensola per il desinare e uno stretto tavolaccio. Le pareti erano sporche, grasso, sputo e graffiti, macchie indecifrabili sul pavimento di cemento. Tutto ciò che Raff e Mito riuscirono a ottenere dai loro accompagnatori fu del tè per scaldarsi le ossa. Mito chiamò con il satellitare Manuel Rojo che rispose dopo diversi tentativi andati a vuoto. Quando Mito finalmente riuscì a prendere la linea, Manuel le riferì che della morte di Barlow ne avevano parlato le tivù straniere, il sindacato dei giornalisti dell’Illinois , che aveva fatto sentire la sua voce di protesta, mentre ancora tacevano le autorità e la stampa colombiana. Solo l’Espectador aveva dato risalto alla notizia con un articolo firmato da lui. «Tieniti forte, ora» disse alla fine. «C’è stato un raid teppistico nelle vostre stanze della locanda. Un raid in piena regola. Hanno rotto i tubi dell’acqua e messo a soqquadro tutto, armadi, scaffali, cassetti, divani squarciati, un caos incredibile. Naturalmente, nessuno aveva idea chi fosse stato. I proprietari della locanda, insospettiti dall’acqua che usciva dalle porte, avevano chiamato la polizia. Insomma, un nuovo guaio. E pare che gli albergatori avessero ricevuto delle minacce al telefono. Minacce che intimavano loro di cacciarvi, se non volevano correre il rischio di peggiori rappresaglie.» Mito chiuse la comunicazione con Rojo, raccomandandogli di essere


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prudente. Avrebbero deciso il da farsi al loro rientro, troppe cose inspiegabili stavano succedendo. Adesso, a lei e a Raff, non rimaneva che adattarsi a passare la notte in quel buco freddo, in attesa del ritorno di padre Diego. Spostarono contro il muro il tavolaccio per guadagnare più spazio, rassegnandosi a lasciarvi sopra una specie di materasso non proprio pulito. Dentro un armadio trovarono delle vecchie coperte, che si buttarono addosso per potersi togliere gli indumenti ancora inzuppati. Si spogliarono senza alcun imbarazzo e senza badare a quel riserbo che avrebbero usato in altre circostanze. Quindi, dopo aver sistemato gli abiti accanto al debole fuoco del braciere si sedettero infreddoliti davanti alla finestra, nella speranza di veder comparire padre Diego. Rimasero così per un bel po’, uno di fianco all’altro, finché Raff attaccò a parlare. «Ti sembrerà strano, Mito, ma da quando siamo in viaggio ho pensato quasi in continuazione a Greg. Era una persona straordinaria e la sua morte mi ha colpito immensamente. Devi essere orgogliosa di lui.» Non sapeva perché avesse tirato fuori questo argomemto, ma forse era da tempo che voleva parlarne, e tutte le volte che ci aveva provato non era mai stato il momento opportuno. Affrontare quel discorso doloroso gli era stato difficile e le parole gli erano sempre rimaste in gola. Mito guardava ora oltre i vetri della finestra striati dalle gocce di pioggia ancora battente. Tra le mani stringeva la gavetta con il tè caldo. Ne bevette un sorso, starnutì e respirò profondamente, prima di rispondere. «Anche i miei genitori gli volevano un gran bene. Greg andò un giorno a trovarli in uno dei rari periodi di vacanza che si concedeva. In realtà, venne per stare tre giorni con me, ospite di un mio cugino. Mio padre, che di giorno si dedicava alla sua bella vigna sorretta dai gels i,


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la sera andavamo a trovarlo, e lui portava un fiasco di vino. Abbiamo solo Mito, gli aveva detto, io sono contento di te, giacché piaci a mia figlia e mi sembri un americano onesto. Ma adesso basta con i ricordi, ciò che ora mi importa è avere indietro la salma del mio Greg.» La luce della lampada a petrolio investiva la loro faccia che ne era rischiarata. «No, non credere che io abbia intenzione di abbandonare il piano che avevamo messo in piedi. Sono qui per fare il mio lavoro, che amo, come lo amava Greg.» Nella penombra i suoi grandi occhi grigi emanavano un debole luccichio, come quelli di un gatto . Si arrestò per vincere il nodo alla gola, poi continuò. «Collaborerò con te, se lo desideri ancora. Lo faccio soprattutto per lui. Non posso rassegnarmi all’idea che sia stato ucciso solo perché a uno di quei bastardi si è spappolato all’improvviso il cervello. È la rabbia ora che mi sorregge e che mi farà andare avanti. La rabbia per averlo io perso in quel modo, e il figlio, che conosceva poco, non abbia potuto rivederlo. Solo adesso capisco il suo stato d’animo degli ultimi tempi, cosa lo indignava tanto. Sì, è così.» La voce si spezzò, mentre i suoi occhi incrociavano quelli di Raff. «È proprio così, io non mi arrendo.» Raff avrebbe voluto accarezzarle i capelli, sentiva i lunghi respiri a cui lei si abbandonava di quando in quando, come dovesse prendere aria per non soffocare. Ma non osò. Le ore scorrevano lente senza che arrivasse alcuna notizia di monsignor Lamar. Solo a sera inoltrata, due soldati entrarono nella baracca con un po’ di vivande, robalo fritto e agua de panela con limone, le posarono sulla mensola e se ne andarono in silenzio. Raff e Mito mangiarono qualcosa, poi lei si accese una sigaretta e Raff provò a distendersi sul tavolaccio. Il maledettissimo dolore al collo tornava a farsi sentire insieme a un generale stordimento. Ormai incominciavano a temere che quella sera non avrebbero rivisto


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padre Diego. Erano certi che i pàras non avrebbero osato torcergli un capello, non erano così stupidi, ma certo l’attesa era snervante. «Sarebbe consigliabile mettere al sicuro tutta l’attrezzatura» disse a un certo punto Mito. «Perché?» «Non si sa mai. È una precauzione. Non mi fido di questa gente, e mi spiacerebbe se ti privassero dei tuoi attrezzi di lavoro.» «Sì, ma…» convenne Raff «dove?» «Nascondila, legala… Mettitela addosso, non so, ma datti da fare, non lasciarla in giro. Che ne sappiamo cosa passa per la testa di questi pazzi.» Raff seguì il suo consiglio e, più tranquilli, si distesero, accingendosi a prendere sonno parlando di Blasco e di ciò che li attendeva, ma poi, esausti, caddero in un sonno ristoratore. La mattina presto fu Mantega a svegliarsi per primo. Mito dormiva ancora sulla sponda opposta del tavolaccio, i piedi di lei quasi contro il suo naso. Si erano dovuti adattare sullo stesso pagliericcio, ma il suo sonno non ne aveva risentito. L’acciacco sembrava si fosse attenuato. Ora lui si sentiva perfettamente riposato e pieno di nuove energie, quanto a Mito, non sembrava disturbata per l’incomoda posizione, e, vedendola con il viso disteso e tranquillo, Raff non osò svegliarla. Fuori ancora pioveva. Avrebbe voluto rinfrescarsi, ma non c’era acqua. Si slegò la cintura che teneva avvinta al suo corpo la piccola valigia di attrezzi e di macchine fotografiche ancora perfettamente integra, poi si tirò su, badando a non disturbare la sua compagna, e si versò da bere due tazze di agua aromatica che la sera prima i vivandieri avevano portato con il resto della cena. Quindi si distese nuovamente, ripiombando nel sonno.


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A destarlo fu, questa volta, Mito. La luce, che filtrava tra gli scuri sconnessi, lo accecò. Sentiva le mani della donna scuoterlo. «Raff… Raff… svegliati! È ora di andare… Dobbiamo recarci da Blasco… Svegliati Raff…!» Dalla bocca ancora impastata gli uscì appena un filo di voce. «Ma che ore sono…?» Mito era impaziente. «Datti una mossa, Raff. Sono le due del pomeriggio… Sono venuti a prenderci per portarci da Blasco. Sbrigati.» Raff sollevò di poco testa. Si sentiva confuso, come chi, avendo dormito troppo, fa fatica a tornare alla realtà. Ma appena i contorni delle cose attorno gli si fecero più nitidi e il significato delle parole di Mito divenne chiaro, si scosse e scattò in piedi, sorpreso. La solita frustata gli fece dolere il collo. Qualcosa doveva essergli accaduto. «Le due del pomeriggio!» esclamò. «Vi siete divertiti abbastanza questa notte señores? Preparatevi, presto! Non dovete far aspettare il comandante Blasco, por favor!» Due tipi in divisa, alti, rubusti e con barba incolta, erano sull’uscio. Soliti anfibi ai piedi e berrettino stile militare sul capo. Mito scattò verso quei due, furiosa. «Non vi permetto di usare questo tono!» protestò. «Adesso, por favor, uscite e aspettateci fuori. Fuori…!» urlò. Quelli la fissarono, ma misero la coda tra le gambe. «D’accordo, ma niente scherzi e sbrigatevi… staremo qua fuori ad aspettarvi» replicò torvo uno dei due, mentre uscivano chiudendosi la porta alle spalle. Mito si passò le mani sul volto, quasi per cancellare le tracce della scomoda nottata, anche lei era stata aggredita dalla stanchezza certo dovuta alla tensione dei giorni precedenti. Fece scorrere le dita tra i capelli ancora scarmigliati nel tentativo di dare al suo aspetto una


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parvenza di normalità. Alla luce del mattino, quel postaccio faceva ancora più schifo. Lei aveva la grossa coperta ancora avvolta attorno al corpo. Vinse un’ondata di nausea che l’aveva assalita e prese a rovistare nella sua borsa. Raff, mezzo addormentato, era rimasto bloccato dal dolore al collo. Si guardò in giro, come se si chiedesse cosa ci facessero in quel luogo. Avvertiva una sensazione strana alla testa, le palpebre erano di piombo. «Il mio taccuino, non trovo il mio taccuino!» Mito vagava con lo sguardo per la baracca e nello stesso tempo svuotava, agitata, la borsa. Poi, scalza com’era, si mise a girare per il casotto rivoltando ogni angolo. Ma del suo taccuino nessuna traccia. «Non posso averli persi, accidenti!» imprecava. «Vi annoto tutto: indirizzi, interviste, incontri. Devo recuperarlo questo maledetto taccuino! Non ricordo di averlo tolto dalla borsa … » Raff si strofinò gli occhi. Un pensiero prese corpo. «L’attrezzatura fotografica!» urlò. Si era dimenticato dei dolori sparsi in tutto il corpo. Guardò a destra e a manca, come si trovasse perso in una foresta oscura. Gli tornò in mente quando, al mattino, ridestatosi, aveva slegato la cintura che gli teneva avvinghiata la valigetta. Guardò sotto il tavolaccio, ma tirò un profondo respiro, per fortuna, nulla era stato toccato. Ispezionò poi l’intero locale, facendo un rapido inventario, tutto sembrava al suo posto. Al centro della stanza, Mito continuava a lamentarsi, mani sui fianchi, passando in rassegna ogni angolo. «Nulla, nulla, spariti…» mentre Raff si tranquillizzava e, con fatica, iniziava a prepararsi. «Sembri veramente strano Raff, che ti è successo stanotte?» gli disse senza interrompere la ricerca del suo taccuino. Raff alzò le spalle. «Ho solo dormito troppo e ho un po’ di mal di


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testa…» «Il taccuino e l’agendina erano nella mia borsa al momento di addormentarmi» riprese a dire Mito, senza badargli troppo. «È evidente, qualcuno li ha rubati. E non hanno preso nient’altro, né il cellulare, né le carte di credito che sono nel portafogli…» Mito sembrava rassegnata.


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Solo le pozzanghere e il terreno fangoso ricordavano , in quel pomeriggio soleggiato, il temporale del giorno prima. Raff e Mito si avviarono alla sede di Blasco, scortati dai due pàras. Fecero a piedi, tra gli alberi, un breve tratto in discesa, fino all’ingresso della baracca

del comandante, poco più che una

catapecchia di legno e lamiera. Di lì a poco, ne uscì un uomo brizzolato dalla folta barba bianca, non alto, massicciamente costruito, un ventre prominente nascosto dalla larga giacca grigiastra di foggia militare, un paio di pantaloni mimetici tenuti da un cinturone con l’immancabile fondina. Era il comandante Blasco. Mantega conosceva la sua storia. La notte, prima di prendere sonno, Mito lo aveva informato sulle notizie che circolavano sul suo conto. A dieci anni i guerriglieri gli avevano sterminato la famiglia, padre, madre e sorella maggiore. Rimasto solo, era fuggito da Santa Rosa, il villaggio dove abitava, nascosto dentro un carro a buoi che trasportava balle di fieno e raggiunse in autostop Medellin dove uno zio materno gli avrebbe procurato un pezzo di pane, un giaciglio per dormire e un tetto sotto cui ripararsi. A sedici anni si era arruolato nell’esercito e dopo solo due anni era entrato a far parte di un gruppo scelto che aveva il compito di sorvegliare i civili sospettati di aiutare la guerriglia. Il gruppo scelto era diventato in breve un corpo speciale dell’esercito addestrato a stanare i guerriglieri sovversivi e i suoi fiancheggiatori.


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Furono incarcerati migliaia e migliaia di oppositori, e per Blasco era stata la svolta fondamentale della sua vita. Quest’esperienza gli sarebbe tornata utile più tardi, quando la situazione politica in Colombia si sarebbe fatta più confusa. Gli alti comandi militari, infatti, avevano cominciato a favorire la crescita di strutture paramilitari parallele a quelle dell’esercito regolare utilizzando capo clan mafiosi, caporioni del partito liberale e conservatore, gregari di boss di proprietari terrieri per contrastare con la violenza il malcontento delle masse contadine, povere e senza terra, e la contemporanea crescita di formazioni guerrigliere di ispirazione sandinista. A venticinque anni aveva lasciato l’esercito e fondato le prime squadre della morte che avrebbero avu to una rapida diffusione su tutto il territorio nazionale. A trentanni, già famoso, Ramon Ramirez Aguat Blasco aveva costituito il suo quartier generale in una vasta tenuta a sud est del Paese, chiamata del Paramillo, a capo di un combattivo esercito irregolare forte di undici mila unità paramilitari che controllava zone strategiche per il commercio della droga e del petrolio. A quarantaquattro anni era diventato il più potente e il più temuto capo paramilitare della Colombia. Dotato di una ferocia e di un sadismo senza pari, gli erano stati attributi una decina di efferati omicidi, amava giustiziare da sé le sue vittime e partecipare in prima persona agli interrogatori dei prigionieri che si concludevano, di regola, con la loro morte. La crudeltà di Blasco era arrivata a un punto tale che la stessa polizia aveva messo una taglia sulla sua testa e alcuni settori dell’esercito gli davano

la caccia, sebbene

molti sostenessero che

il governo

accreditasse questa manfrina per salvare le apparenze e la forma di fronte al potente alleato americano che foraggiava con i suoi miliardi di dollari l’economia della Colombia. Ora a cinquanta anni il lupo si voleva trasformare in agnello e cercava


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a suo modo di farsi una credibilità, dopo che alcuni vescovi importanti della Chiesa lo avevano convocato per i negoziati di pace tra esercito, guerriglia e paramilitari perché si addivenisse a una tregua nella regione insanguinata da lotte cruente. Gonfio di superbia, si vantava di parlare un buon inglese, ma si esprimeva con fastidiosa volgarità. Quando gli era morta la prima moglie dopo un conflitto a fuoco con le FARC, aveva sposato un’attricetta di cabaret, ma con le donne era rimasto un cavernicolo che violentava povere e indifese contadine, durante i frequenti saccheggi di villaggi per opera dei suoi corpi armati. Era questo l’uomo che adesso avevano di fronte. Con sollievo, videro al suo fianco, monsignor Diego Lamar che, con il suo ineffabile sorriso, protendeva le braccia verso di loro, quasi volesse rassicurarli. Blasco agitò la mano. «Bienvenidos, bienvenidos!» Il comandante li accolse con un calore perfino eccessivo. Si scansò, cedendo il passo per farli entrare, sprecando i prego! e stringendo loro le mani. Li condusse dentro, dove ordinò del caffè per tutti. «Siamo

contenti di

riabbracciarla, padre

Diego»

disse

Mito.

Effettivamente, erano più tranquilli, anche se il mistero dei taccuini scomparsi

lasciava

ancora

in

loro

una

legittima,

non

lieve,

preoccupazione. Due giovanotti portarono un caffè nero bollente dentro una grande pentola annerita, che tutti bevvero volentieri. Il comandante persisteva nel suo atteggiamento esuberante, tutto gentilezze e convenevoli. Con Lamar ostentava un formale rispetto, ma quando il discorso si portava sui motivi del loro incontro, Blasco si voltava, chissà perché, verso Mantenga, e in pochi minuti era entrato con lui in tale confidenza da rivolgerglisi perfino col tu, benché Raff non vi avesse dato appiglio alcuno, e avesse preferito continuare a trattarlo con il lei. Tale


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comportamento familiare fu presto indirizzato anche nei confronti della donna, tanto da far pensare che volesse ingraziarsela. Mantenga, vedendo il capo paramilitare che mostrava compiacimento, come se quell’incontro fosse stato voluto da lui, non riusciva a intuire che intenzioni avesse. Blasco andava su e giù, prodigandosi galantemente verso la señorita. Andava e veniva dal tavolo dove erano ammucchiate cartine militari e ogni tipo di scartoffie, sovente si rivolgeva al suo attendente o consigliere che fosse, che lo seguiva come un’ombra, e al quale bisbigliava di quando in quando qualche parola all’orecchio. Poi ancora un sorriso a Mito, come per dirle che non dimenticava il piacere della sua presenza. Un tipo davvero strano questo Blasco, nevrotico forse, sicuramente bizzarro, pensò Mantega. Lo scrutava, studiava il suo modo di fare, sarebbe stato importante conoscere i suoi tic, cogliere da un gesto innocente un lato oscuro del suo carattere, scoprire dalla contrazione di un muscolo il pensiero più recondito, sorprenderlo nelle sue debolezze, attendeva il momento in cui gli avrebbe proposto di fotografarlo. Era, per così dire, il prezzo che avrebbe dovuto pagare per avere il permesso di girovagare nel campo, con una certa libertà di movimento, a caccia d’immagini. Doveva solleticare la sua vanità, lusingarlo forse, anche se non era tanto sicuro che ciò sarebbe bastato per potersi muovere in piena autonomia. Lamar si era affrettato a rassicurare i suoi compagni, si sentiva bene, aveva parlato a lungo con Blasco, era stato trattato con il dovuto riguardo. «Purtroppo,» aveva soggiunto guardando Blasco che annuiva, «un contrattempo e il temporale avevano complicato tutto, e ormai si era fatto molto tardi. Ma il comandante è stato gentile, mi ha offerto ospitalità e mi ha garantito che anche voi avevate avuto pari


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trattamento, è così?» Mito trasudava rabbia. Tratteneva a stento il nervosismo di fronte a questo balletto di complimenti. I suoi grandi occhi grigi la tradivano, mentre Blasco, mani dietro la schiena, continuava ad annuire soddisfatto. Precisò che quel contrattempo era una faccenda della massima importanza. «Ho ricevuto una delegazione della Guardia Indigena. Ho trattato con l’Alcalde Mayor 1 in persona e non ho potuto occuparmi della vostra sistemazione, come avrei voluto. Ma non perdiamo altro tempo, prezioso per me quanto per voi. Ora che siete qui, approfittatene.» Scoppiò in una sonora risata alla quale si associarono, adulatori, i militari presenti. Mito, Raff e padre Lamar si guardarono. Si capiva che non era il caso di fare lamentazioni e proteste, non ne avrebbero ricavato niente, se non probabili, ulteriori guai. Mito si dominò, e controllando lo sfogo che stava per prorompere, si rivolse a Blasco. «Comandante, io e i miei compagni siamo vostri ospiti e noi vi ringraziamo per questo. Ci avete servito un ottimo caffè, ne sentivamo veramente il bisogno. Ma siamo qui come amici di monsignor Lamar e non certo come turisti. Siamo dei giornalisti, e il nostro mestiere consiste nel raccontare i fatti così come accadono, e, quando possibile, documentandoli. Ma, vede, se a me tolgono la penna e il quaderno su cui scrivo, come faccio a riportare quello che ho visto e sentito? Se a voi tolgono le armi come fate a difendervi se siete attaccati?» Blasco inarcò le bianche sopracciglia. «Dove vuoi arrivare, chica?» «Oh no, da nessuna parte comandante» rispose senza lasciarsi intimidire Mito. «Stanotte qualcuno è entrato nella nostra baracca e mi

1 Nei villaggi rurali colombiani è, in genere, un saggio, Capo della Guardia Indigena, gruppo disarmato preposto e addestrato per mantenere l’ordine nel proprio territorio.


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ha portato via taccuini con appunti e indirizzi. Perché? Le domando, perché! Qualcuno pensava forse di trovarvi il nome di qualche guerrigliero che non conosce? O che altro? Certamente li avrete già controllati, e avrete visto che non sono per voi rilevanti, ma per me sono molto importanti. Allora comandante, posso riavere indietro i miei taccuini?» Ma prima ancora che Mito avesse finito di parlare, Blasco aveva assunto un’aria rilassata, quasi divertita. Infine, esplose, ancora una volta, in una rumorosa risata. «Non ti preoccupare, ragazza! I tuoi taccuini sono al sicuro» la rassicurò, poi si fece improvvisamente serio. «L’hai detto tu. Siete miei ospiti. Ospiti in questo territorio,» disse rivolgendosi esclusivamente a Mito, «e siete ospiti particolari, perché giornalisti, e dunque a me molto graditi e, ancor di più, perché siete amici di monsignor Lamar. Io credo che voi, come tali, di buon grado acceterete le regole che vigono in questo posto e che sono state comunicate a monsignor Lamar e con lui concordate. Sì alle visite dei due giornalisti, no a loro interviste, sì alle foto, purché riguardino me e non il mio campo, è chiaro? Di me non avresti molto da raccontare, ragazza, se non quello che sai già, e quindi non hai così bisogno di block notes e quaderni che ti saranno restituiti al momento della tua partenza da qui.» Mito protestò ancora. «Ma è illogico tutto questo! Che cosa pensavate che avrei potuto scrivere durante queste interviste ? Io credo che voi voleste conoscere il contenuto dei miei appunti, per questo me li avete presi. Si tratta di annotazioni di cui niente potres te ricavare.» Blasco cominciava ad agitarsi. Aveva ripreso ad andare avanto e indietro, come aveva fatto sino a qualche minuto prima. Stava per rispondere spazientito, quando Raff ritenne opportuno intervenire. «Bene, bene! Sicché posso mettermi subito al lavoro? Comandante, le


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farò un servizio con i fiocchi! Mi dica quando posso iniziare. Dobbiamo rimanere qui o andiamo da un’altra parte? È necessario, però, sbrigarci, questa bella luce non l’avremo per molto ancora e dopo, per quanto sia gradevole la sua ospitalità, toglieremo le tende. Non abbiamo previsto di passare un’altra notte nel suo campo.» Raff aveva parlato tutto di un fiato, ma Blasco non aveva ancora sbollito la rabbia. «Se dobbiamo sbrigarci o no lo stabilisco io, ragazzo.» L’arrivo di un graduato chiuse una conversazione che aveva messo a disagio gli ospiti, in special modo Raff, allergico alle imposizioni. Blasco si appartò con il militare e il fotografo ne approfittò per preparare l’attrezzatura. Il prelato se ne stava silenzioso, braccia conserte, Mito sembrava rassegnata. Blasco parlava ora concitato al cellulare e ogni tanto, durante la conversazione, metà in spagnolo, metà in dialetto indio, guardava torvo il nuovo arrivato, sempre al suo fianco. Sembrava arrabbiato con tutti e quando ebbe finito gli impartì un ordine così perentorio che quello, senza fiatare, si affrettò ad uscire a tutta velocità. «Bene ragazzo!» decretò. «Adesso possiamo iniziare. Venite con me, ci spostiamo in un posto più tranquillo di questo.» Fuori della baracca percorsero poche decine di metri e arrivarono a ridosso di una collinetta sovrastante la vallata da dove erano arrivati. Nel breve tragitto, si era formato un codazzo di giovani in divisa mimetica, pistole e coltelli alla cintola, che seguivano il capo e via via diventavano più numerosi. Su sua richiesta, uno di questi diede a Blasco un paio di anfibi. Lui si fermò, si appoggiò alla roccia del costone, si tolse gli stivali di gomma che calzava e li sostituì con quelli. Un altro gli portò un giubbino e un kalashnikov, e, in un battibaleno, egli acquisì l’aspetto del vero


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comandante paramilitare. Durante il cambio di indumenti, continuò a parlare senza sosta e senza punto preoccuparsi di chi gli fosse vicino . Sembrava ora che il suo malumore stesse scomparen do, tanto che, rivolgendosi infine a Mito «Vedi, ragazza,» disse grattandosi la barba bianca, «noi siamo in guerra e non possiamo permetterci imprudenze. La guerra a volte ci impone, purtroppo, di negare alcune libertà che in tempo di pace si concedono. Voi siete due giornalisti stranieri e qui c’è la lotta armata. Io ho il dovere di prendere alcune precauzioni anche nei vostri confronti. Mi dispiace, ma sono le regole. Mi risulta che tu sia una brava giornalista, e allora saprai ricordare quello che vedi, anche senza i tuoi libricini. Hai occhi e testa. Usali.» Mito questa volta non reagì. Avvampò di rabbia e subì in silenzio le parole di Blasco.


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Lamar continuava a tenere lo sguardo basso, pensieroso, fissava il terreno ai suoi piedi, e non diceva nulla. Raff montava un medio teleobiettivo nel corpo della nikon. La luce era ideale per fotografare. Blasco fece segno ai suoi uomini di allontanarsi, era venuto il momento di far immortalare la sua persona in una posa marziale e non voleva alcuno vicino, se non, di fronte, il suo fotografo. Brandì il fucile e si sedette su una panca di bambù all’ombra di un banano, gli alberi della selva come sfondo. Non lontano, si udiva il rumore delle cascate del fiume Santader e i tonfi delle pale degli elicotteri. Saliva il suono rotto e cadenzato del frinire delle cicale. Raff Mantega gli scattò un primo piano, poi un altro e un altro ancora. Quelle foto avrebbero fatto il giro del mondo, nessuno aveva mai fotografato Blasco nel suo campo paramilitare. Blasco chiacchierava, anzi sproloquiava. «Sai, hombre, qual è la differenza tra noi e i banditi marxisti? Che loro sono un esercito di pezzenti che si finanzia grazie al commercio della droga, lo sapevi ? È gente che s’impone con la violenza alla popolazione delle campagne, che noi invece badiamo a difenderla. Siamo addestrati per scovare le loro bande nei villaggi e smascherare i loro agenti nelle città. Voi, periodistas occidentali, lo sapete che la droga che circola nelle vostre ricche città, in America e in Europa, viene proprio da qui? Per questo combattiamo contro un governo mollaccione che lascia fare ai cabrones comunisti, e difendiamo i cittadini dai soprusi di qualche


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sergente imbecille dell’esercito. Non faccio per vantarmi, ma io sono stato decorato come il Mayor Jeneral del Terzo Battaglione che sbaragliò una delle bande marxiste di Pastrano nel 1994. Da allora la situazione è cambiata. Anche se la polizia continua a cercarmi, ho dalla mia parte il popolo, il popolo colombiano, e mi muovo co me un pesce nell’acqua.» Raff era troppo concentrato perché si perdesse in una discussione per la quale Blasco pareva non voler confronto, e si limitava a pronunciare qualche monosillaba, solo per stimolare il comandante, pensando che il risultato visivo sarebbe stato di sicuro più efficace. Ci fu un momento solo in cui Mantega si distrasse dal proprio lavoro e prestò attenzione alle parole scandite da Blasco. «Sai perché ti consento di fotografarmi? Perché sono l’unico in questo territorio che l’esercito e la polizia conosce bene.» Non si trattenne oltre, gli scappò da ridere fragorosamente, guardando dall’alto in basso il fotografo. Cercò di scoprire se un sorriso non vagasse pure sulle sue labbra, ma Raff non mosse un pelo e tornò serio. «Non mi preoccupano le tue foto, perché ormai io sono bruciato, la polizia conosce la mia faccia, e quindi… La cosa che m’importa è che, con queste foto, tutto il mondo veda Ramon Ramirez Aguat Blasco. Ma, attenzione! I miei soldati… la polizia non li conosce. Quindi, tu starai attento, non dovrai riprenderli. Sarebbe, per loro, pericoloso …» «È lei il capo qui, no?» assentì Raff, mentre la sua nikon scattava ancora. Blasco gli dava l’estro. Poi la buttò lì. «I vostri uomini sembrano ben addestrati, sono forse tutti ex appa rtenenti all’esercito, o provengono dall’estero?» Raff vide bene attraverso il mirino della sua macchina come l’espressione di Blasco mutasse di colpo. «Nessuno viene a darci lezione qui!» tuonò. «Non siamo come quei cabrones guerriglieri che


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hanno gli istruttori cubani. I miei uomini sono militari colombiani, in tutto e per tutto addestrati sul campo di battaglia, che è la nostra accademia, e hanno imparato la disciplina militare da ufficiali specializzati.» «Sì,

ho

capito,

ma

se

qualcuno,

non

so,

diciamo

qualche

organizzazione, di quelle che oggi girano per il mondo , dando assistenza militare agli eserciti e ai governi, le conosce vero?, tutti le conoscono, ne è pieno il mondo, beh, se qualcuna di queste, non so, vi proponesse, in cambio di soldi, ciò che potrebbe esservi utile, dagli armamenti alle strategie, pensando loro a tutto, voi che fareste, direste di no?» La fotocamera scattava. Blasco strabuzzò gli occhi, paonazzo in volto, balzò dalla panca, le mani verso cielo. «Ma cosa dici? Non sono il Governo della Colombia, io! Queste cose le faranno gli altri, non certo noi! Non compriamo nessuno, e se lo fa il Governo… la cosa non mi interessa!» Raff sembrava concentrato sulla ghiera del suo obiettivo fotografico, più che sulla domanda che si apprestava a fare. «Perché? A lei risulta che l’esercito sia supportato da questo genere di organizzazioni?» Blasco non cadde nella provocazione, riprese rapidamente la piena padronanza di sé, si strinse nelle spalle, ritrovando la calma. «Non ne so proprio niente. Sono sempre ben informato sui movimenti di pattuglie dell’esercito qui attorno, ma di quella gente non ne ho mai vista in giro. L’avrei scoperto…» concluse ammiccando, come per far intendere con questo che, se le cose fossero state effettivamente come Mantega supponeva, lui ne sarebbe venuto a conoscenza. Gli elicotteri in volo sembravano ora lontani. Erano i clic della macchina fotografica e lo scrosciare delle cascate, gli unici rumori che, chiari, si percepivano.


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Blasco incominciava a dar segni d’impazienza. Pensava di aver sopportato la presenza dei giornalisti nel suo campo per troppo tempo. Non aveva mai amato i giornalisti impiccioni e soprattutto guardava con diffidenza quelli stranieri che considerava spie potenziali. E lui temeva le spie. Aveva accettato quella visita perché glielo aveva chiesto monsignor Diego Lamar proponendosi come garante. Ed era bastato il suo nome e la sua parola a fargli dare il consenso. Ma erano pur sempre dei cronisti quelli che aveva ospitato , e se si fosse venuto a sapere in giro, si sarebbe creato un precedente, ne sarebbero potuti arrivare in seguito altri, attirati come le api al miele. Sarebbe stato difficile poi dire di no, senza che ciò non sollevasse domande e rimostranze. E questo era ciò che Blasco voleva evitare. In questo caso, la presenza di un fotografo gli aveva fatto accettare la visita, convinto che avrebbe potuto volgerla a proprio vantaggio. Però adesso questi ficcanasi cominciavano a fare troppe domande. Era il momento di dire basta. Nemmeno fosse stato morso da un ragno velenoso, cominciò ad agitarsi, non poteva più tollerare la loro invadenza,

e

manifestava

l’insofferenza

sopraggiunta

con

un’irrequietezza di tutto il corpo. Sbraitò che doveva incontrare gente e che il tempo per loro era finito. Si allontanò dalla panca vociando ordini perentori. «Pedro! Dov’è Pedro! Lo voglio qui. Subito! Ci sono i contadini di San Felipe che mi aspettano.» E Pedro, il fidato consigliere, uomo ombra di Blasco, si precipitò affannato al suo cospetto , sull’attenti con un colpo di tacco, e ricevette da lui ordini nella solita incomprensibile lingua metà spagnola, metà india, quindi fece dietrofront e sfrecciò via, dopo il saluto militare. Aveva fretta Blasco. S’incamminò deciso verso il suo quartier generale, seguito dalle guardie del corpo e dal nutrito nugolo di


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militari, senza più badare ai suoi ospiti. Il motore dei velivoli in aria era ritornato a farsi ora sentire forte e chiaro. Gli elicotteri sembravano nelle vicinanze. Alcuni uomini di Blasco ispezionavano l’orizzonte a occhio nudo, benché l’alta vegetazione nascondesse parte del cielo, mentre in altra parte del campo si vedevano movimenti frenetici. Raff ripose l’attrezzatura nella valigetta, ma tenne la nikon al collo. Era preoccupato per Mito, non la perdeva d’occhio nella speranza di vederla rasserenarsi. Le circostanze convulse di quelle giornate non gli avevano consentito di starle più vicino per farle sentire quanto teneva a lei. Fece un cenno ai suoi due amici, come per dire e adesso che facciamo? Anche se era chiaro a tutti e tre che la loro visita doveva considerarsi terminata. Mito e il monsignore si limitarono ad alzare le spalle. Fu lo stesso Blasco tuttavia a sciogliere ogni incertezza, nel momento in cui fece dietrofront dirigendosi verso di loro. Incrociò Mito, che era la prima del gruppetto. Lei era ancora scura in volto, d’altronde non aveva mostrato un umore diverso dal momento della sottrazione dei taccuini. A Blasco non sfuggì il suo stato d’animo. Secondo il solito, quasi fosse un tic, si grattò la barba bianca sotto il mento e la fissò dritto negli occhi. «Suvvia, señorita Amarante, hai avuto il privilegio di essere accolta nel mio campo con grande benevolenza e sai che dove si trovano tanti uomini che da parecchio non vedono una bella fanciulla… Ora salutiamoci come due amici. Ringraziami, perché nessun periodista ha mai visto di persona Ramon Blasco!» Seguì a quelle parole un accenno d’abbraccio, che Mito scansò rifugiandosi accanto a monsignor Lamar che le cinse affettuosamente le spalle. Blasco non batté ciglio, distratto dal rumore degli elicotteri sopra di loro che andavano e venivano, anche se non sembrava per


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niente preoccupato. Fece per andar via, ma si fermò di scatto, ritornò sui suoi passi, come si fosse dimenticato di qualcosa, e si rivolse sbrigativamente a tutti e tre. «Monsignor Diego Lamar, spero che la vostra opera a favore del popolo colombiano prosegua illuminata. Señor Mantega, aspetto di vedere le tue foto sui giornali di tutto il mondo. Quanto a te señorita Amarante… Addio!» Sul loro viso si dipinse la sorpresa per essere stati piantati in asso, ancora una volta, senza spiegazioni di sorta. Passò qualche secondo, prima che il monsignore decidesse di andargli dietro chiamandolo ad alta voce. «Comandante, aspettate un momento! Aspettate!» Blasco si voltò. «Che c’è ancora!» Diego Lamar gli si avvicinò, lo prese da parte e gli indicò una delle panche di bambù. «Ecco, vedete, vorrei parlarvi di una questione… possiamo sederci un attimo qui?» Blasco esitò, prima di acconsentire, facendo capire di non aver tempo da perdere, ma Lamar finse di non essersene accorto e affrontò l’argomento che gli interessava alla lontana. Accennò alle condizioni della Colombia e alla sua situazione ancora grave facendo però seguire subito grandi lodi per la diplomazia da lui dimostrata in occasione delle trattative di pace alla presenza degli altri vescovi e riferì che persino le delegazioni a loro opposte se ne erano stupite. Blasco si era fatto attento. La testa inclinata di lato, ascoltava il prelato che gli spiegò che era a seguito di tale clima di collaborazione che potevano sperare di veder germogliare i frutti della pace e della concordia a beneficio del popolo colombiano. La loro visita al campo aveva avuto l’intendimento, e certo lui ne era consapevole avendola


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consentita, di far conoscere, come nella realtà precaria della Colombia, il comandante Blasco si fosse adoprato per la causa della pace. Per questo, per la personale stima che nutriva per lui, l’avrebbe tenuto in gran conto e avrebbe parlato, in occasione dei prossimi incontri con vescovi e diplomatici, della buona volontà da lui dichiarata nel voler continuare, impegnandosi in prima persona, nell’opera di pacificazione del Paese. «Il signor Mantenga,» soggiunse Lamar «ha potuto fare il suo lavoro e manterrà gli impegni presi con lei. Le sue foto saranno un ottimo messaggio, anche se, purtroppo, muto. Ben di più conterebbero se avessero potuto essere accompagnate da un articolo della signorina Amarante. La sua indignazione è pari all'umiliazione, e non le si può dar torto se considera il furto subito una violenza alla sua professione , professione che lei ha sempre valorosamente esercitato con l’intento nobile di essere cronista seria e affidabile. Spero però che le incomprensioni nate con la signorina Amarante non pregiudichino i nostri buoni rapporti. Le sarei grato pertanto se, alla nostra partenza, lei volesse dimostrare la sua gentilezza, riconsegnando alla nostra amica i taccuini, suoi strumenti di lavoro.» Lamar non voleva scalfire la suscettibilità di Blasco. Questi lo aveva ascoltato senza interromperlo, sul suo volto non si era potuta leggere reazione alcuna. Venendo meno alla sua indole stravagante e al comportamento sino allora tenuto, il comandante Blasco sembrava ora impegnato a riflettere sulle parole udite, senza che il suo viso lasciasse trasparire l’effetto da esse prodotto. «Bene,» disse calmo, «tutto sarà fatto, ma ora lasciatemi andare.» «Ancora un’altra cosa, se non le dispiace» continuò Lamar. «Non le nascondo la mia preoccupazione… Ecco, mi chiedevo se non fosse imprudente da parte nostra metterci in marcia proprio adesso. Sa, con


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questo traffico d’elicotteri… Insomma, finché girano sopra le nostre teste non credo sia opportuno muoverci di qui…» «So cosa devo fare» troncò Blasco. E andò via.


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Manuel Rojo era molto spaventato. I suoi timori, tuttavia, non si manifestarono subito. Nelle ore precedenti il colloquio telefonico con Mito, Manuel aveva scoperto di essere stato pedinato durante i suoi spostamenti in città, e aveva collegato questo fatto con il suo essersi dato da fare per il recupero del corpo del povero Barlow. Neanche allora si era agitato, aveva messo nel conto che il suo continuo ravanare avrebbe potuto infastidire qualcuno. Manuel, infatti, dopo la partenza del vescovo dei due colleghi, non aveva

perso

tempo,

attivandosi

subito,

benché

sapesse

che

difficilmente avrebbe ottenuto le risposte che cercava , ma, per ciò stesso, non aveva voluto lasciare nulla al caso. Aveva verificato in municipio se qualcuno avesse denunciato la morte di un cittadino americano, ritenendo che la scomparsa di un giornalista, che al momento del tragico fatto aveva con sé il tesserino di riconoscimento, non poteva essere passata inosservata. Era stato al pronto soccorso, facendo la spola tra Caguari e San Antonio, distanti tra loro una manciata di chilometri per controllare la lista dei medici che esercitavano nei villaggi e nelle città vicine. Aveva bussato tante porte, fatto mille domande e mille telefonate, aveva chiesto in giro, persino nelle redazioni dei giornali, compreso il suo, nella speranza di una notizia utile, che il cadavere di Barlow fosse stato consegnato a qualche struttura, oppure rinvenuto e recuperato da qualche parte. Ma niente.


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La scomparsa di Barlow aveva interessato il suo giornale. Mettere su un articolo l’aveva reputata una bella trovata, quasi un colpo di genio. Si complimentò con se stesso, dopotutto Garcès gli aveva pressoché intimato di continuare a fare il suo lavoro, come sempre, affinchè non si insinuassero sospetti in qualche sbirro troppo impiccione. Aveva dettato il pezzo alla sua redazione di Bogotà, denunciando l’assassinio dell’inviato speciale del Tribune e del quale non si sapeva dove fosse finito il corpo, aveva sollecitato le autorità locali a far luce sulle responsabilità dell’omicidio e per la restituzione della salma. Un giornalista straniero era stato ucciso da un soldato colombiano, e questo non era accettabile. Il giornale, il mattino dopo, ne aveva dato ampio risalto nelle pagine interne su quattro colonne. La paura gli cominciò a montare il giorno che la polizia lo aveva convocato in caserma. Erano cominciati allora i guai. La polizia, la Sicurezza Pubblica, non era l’esercito. Lui era indifeso, senza copertura e Garcès non poteva aiutarlo. Quelli non erano dei fottuti boy scout, erano corrotti ancor più del quinto battaglione e di tutti i giornalisti messi insieme, erano dei grandi figli di puttana e lui, messo alle strette , si era quasi fatto addosso. «Fanculo se sei un giornalista. Chi è questa persona che è morta, e perché lo cerchi? Che ci faceva quell’americano in Colombia?» Erano saltati su tutte le furie, quando Manuel poi aveva osato dire che il morto, l’inviato speciale del Chicago Tribune, era stato ucciso da una pattuglia dell’esercito. «Una pattuglia dell’esercito? Che cazzo dici, ci vuoi prendere per il culo? Per chi lavori, cabron?» e così via minacciando. Manuel aveva lasciato il commissariato di polizia che tremava come un fuscello in mezzo alla tempesta. Alla locanda El Paso, nei giorni seguenti, aveva ricevuto strane telefonate. Persino di notte e, nei giorni seguenti, la sua stanza e quella


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dei suoi amici era stata devastata, non si capiva se in cerca di qualcosa, o come minaccioso avvertimento. Il vero panico lo assalì nei giorni in cui fu certo che quel raid, le minacce e gli avvertimenti non potevano arrivare dal cartello di Cali. Ramirez e i suoi sarebbero andati più per le spiccie, senza perder tempo in avvertimenti. Alla fine si convinse che lui era spiato, qualcuno voleva fargli capire che non scherzava. Al telefono Manuel aveva detto a Mito solo ciò che gli era sembrato potesse metterla sull’avviso, senza allarmarla oltre il necessario. Anche il proprietario della locanda era atterrito per se stesso e per la sua famiglia, erano stati minacciati e chiaramente tutto ciò era riconducibile alla presenza dei giornalisti nell’albergo. Era no per di più furenti per i danni alle stanze. «Dovete andarvene via tutti subito» aveva tuonato il locandiere. Per come stavano le cose, Manuel non poteva far altro che cambiare aria, togliersi dalla circolazione almeno per un pò. La comunità rifugiata nel vescovado di monsignor Lamar l’avrebbe potuto aiutare. Quelle persone avrebbero capito, e lui avrebbe avuto un tetto sotto cui ripararsi e stare al sicuro, almeno sino al ritorno degli amici. Oltre al conto per la permanenza nell’albergo, il proprietario pretese cinquecento dollari americani come risarcimento, e non si era fidato nemmeno delle garanzie che il nome e la reputazione di monsignor Lamar avrebbero potuto offrirgli. Aveva insistito tanto che Manuel era stato obbligato a impegnare la Mustang, finché non fosse stato congruamente risarcito. Manuel si era recato al vescovado dove era stato accolto e lo stesso giorno sistemato. Sul tardi, poi, si era rifugiato al Vega, un affollato locale del centro, frequentato la mattina da impeccabili uomini d’affari, anello al dito e valigetta ventiquattrore in mano, e la notte animato da


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persone di tutt’altra specie, e dove gente di passaggio si mescolava a perdigiorno, prostitute e drag-queens. Le

ombre

calanti

del

pomeriggio

inoltrato

annunciavano

il

sopraggiungere della sera. Manuel, seduto ad un tavolino, sorseggiava l’ennesimo bicchiere di scotch. Stava defilato, in un cantuccio del locale, con aria malinconica e blasé, il viso in penombra appena rischiarato da un lume. Era andato in quel locale nella speranza che la confusione, che normalmente la sera vi regnava, potesse distrarlo. Voleva togliersi di dosso la paura che, però, nemmeno con l’aiuto dello scotch si attenuava. Mentre si trastullava con un ciondolo portachiavi, si domandava quando sarebbe finita quella maledettissima storia. Con i soldi che gli avevano promesso avrebbe sistemato la fattoria del padre, qualcosa sarebbe avanzato anche per la sorella e lui sarebbe diventato famoso come Raff Mantega. Fantasie. Oggi aveva solo guai e ansie. Immerso in tali pensieri, non venendo a capo di niente, Manuel accarezzava ormai l’idea di fare rientro al vescovado, quando si sentì tirare per la giacca. Si voltò e con sua sorpresa si trovò davanti un ragazzetto di colore, poco più che bambino, vestito di povere vesti, non più alto del tavolino che aveva a fianco. «Questo è per voi, signore» gli bisbigliò in spagnolo, mentre gli porgeva un biglietto piegato in due. Manuel corrugò la fronte, prese il biglietto e domandò: «Chi te l’ha dato…?», ma non fece in tempo a terminare la frase, che il ragazzino si era già dileguato tra la gente. Aprì il biglietto e lesse: TROVERAI QUELLO CHE CERCHI AL CIMITERO DI SANTA CRUZ.


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Il vecchio fuoristrada guidato da monsignor Lamar percorreva la stessa pessima strada dell’andata che portava a San Antonio. Raff rimuginava pensieri. Mito Amarante fumava nervosamente. «Blasco non ha fatto altro che prenderci in giro per tutto il tempo! Mi sento avvilita. È un essere viscido, un gangster che pensa di essere chi sa chi solo perché ha un kalashnikov in mano. Prima ci ha umiliato e poi si è preso gioco di noi…» L’astio di Mito era comprensibile. Fra tutti, era quella che più aveva subito la prepotenza di Blasco. Le erano stati restituiti i taccuini infine, e lui, il comandante, aveva abbozzato alcune parole di scuse che Mito, tra sé e sé, aveva giudicato ipocrite e per lei ormai di nessuna utilità. Lamar assentì alle parole di Mito. «Capisco la sua indignazione, ma io la inviterei a vedere l’aspetto positivo del vostro incontro con Blasco. Lui non è un qualsiasi signore della guerra tra i tanti che imperversano in questo martoriato paese. È un uomo violento, e so, perché ne sono testimone quotidiano, della sofferenza che patisce il nostro popolo ad opera anche delle sue bande. È un criminale, un pluri ricercato accusato di narco traffico, guida la più importante formazione paramilitare che si è macchiata di un sacco di omicidi. Noi la chiamiamo limpieza social. Ma voi, cosa rara, lo avete potuto vedere e ascoltare, siete andati nel suo territorio dove mai alcun altro giornalista è riuscito a entrare. Senza che lui se ne rendesse conto, siete stati testimoni del suo potere. Ad esempio, sapendo che per


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rientrare saremmo stati scortati da una pattuglia di Blasco, gli ho chiesto di ritardare la partenza per timore che gli elicotteri dell'esercito potessero crearci guai lungo la strada del ritorno. E lui che ha fatto? Ha preso il cellulare e dopo cinque minuti gli elicotteri erano spariti. Non vi dice niente questo?» Raff azzardò. «Blasco avrebbe parlato con qualcuno dell’esercito e richiesto di allontanarli…» Mito alzò le spalle. «Blasco fa quello che vuole, evidentemente» osservò. «Sì, per essere un ricercato,» concluse Lamar, «è un individuo che gode di molta libertà. Tutti, in realtà, sanno dove si trova, ma nessuno si sogna di catturarlo e non solo, come potete prendere atto.» Intanto, da alcuni minuti, Mito si adoperava invano per mettersi in comunicazione con Rojo, ma desistette, visto che mancava poco meno di un’ora all’arrivo a San Antonio. Mito aveva finito la sua sigaretta. «Sì, lei ci invita a vedere il bicchiere mezzo pieno, ma non mi sembra che abbiamo fatto molti passi avanti. Di contractors, in questo territorio, neanche l’ombra. Non immagino nemmeno a che cosa possano servire le foto che hai fa tto alla bella faccia di Blasco» ironizzò rivolta a Raff. Questi non fece caso alle sue parole, disse: «Un abile commediante… i taccuini sottratti… Ancora non mi spiego come siano riusciti a rubarteli sotto il naso.» «Voleva farvi capire che eravate sotto controllo,» commentò Lamar, «e dimostrarvi che tutto gli è possibile, solo lo voglia. » Il viaggio proseguiva tranquillo, nonostante i sobbalzi causati dallo sterrato accidentato. Il crepuscolo era già tardo, quando arrivarono in prossimità della città. Le prime ombre della sera allontanavano la luce del giorno che se ne andava. Qua e là si vedevano illumninarsi le


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finestre delle prime case nella campagna, lungo l’ultimo tratto di mulattiera che il vecchio scassato fuoristrada stava percorrendo, prima di immettersi sulla statale che portava finalmente a San Antonio. La strada sterrata procedeva fiancheggiando la statale asfaltata, separate da cespugliame e rachitici alberelli. Parallelo alle due arterie scorreva un piccolo corso d’acqua, semi nascosto lungo tutto quel tratto da pattume e materiale di riporto che effondeva per l’aria un puzzo irresistibile.

La

conversazione

tra

i viaggiatori

languiva,

tutti

desideravano solo un pasto caldo e un letto accogliente. Uno scoppio improvviso e le orecchie schioccarono. Il forte rumore fece loro pensare all’esplosione di un copertone della vettura. Seguì, però, un crepitio di colpi intermittenti più simili ai fragori dei fuochi artificiali nelle sagre paesane. «Padre Diego, si fermi, la prego!» implorò Mito. Altri scoppi, più nitidi, rimossero ogni dubbio. Erano raffiche di mitragliette e di fucili. Il prelato rallentò e accostò la vettura al ciglio della strada. Seguì un breve silenzio. Poi ancora altri spari, provenienti però da più lontano. Come guidati dal medesimo impulso, un senso d’innata curiosità mista a incoscienza, vista la situazione, Raff e Mito, senza consultarsi, uscirono dalla macchina a testa bassa, avanzando guardinghi per cercare di individuare la natura e la provenienza degli spari. Monsignor Lamar li imitò, abbandonò il posto di guida e raggiunse gli amici che stavano scendendo lungo la scarpata. Gli spari provenivano dalla statale. I tre si spinsero per una decina di metri in direzione del ruscello in mezzo ad un tanfo insopportabile. Scansarono un cespuglio di rovi, passando tra un groviglio di rami e una carcassa d’auto dove giacevano topi morti. Strisciando carponi e vincendo il fetore, raggiunsero un


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secondo cespuglio alto fino alla spalla, quanto bastava per non essere avvistati. Il poco chiarore fu sufficiente per fare loro intravedere sette uomino che, inferociti come bestie, stavano facendo il tiro al bersaglio contro un autobus di linea color pistacchio della compagnia Transmilenio che collegava San Antonio a Cali. Nell’aria sentivano solo l’odore pungente dello zolfo e delle carogne d’animali, davanti il fumo e nelle orecchie le schioppettate. Gli uomini bestia erano sette. Quattro di essi indossavano una sgualcita divisa della Sicurezza Pubblica e tre portavano anfibi infangati e delle mimetiche bisunte che poco dicevano. Stavano avanzando imbestialiti con le armi puntate verso l’autobus fermo di traverso in mezzo alla carreggiata. Sparavano a più non posso, come furie scatenate, colpendo rami e rocce intorno alla corriera ridotta a colabrodo, con i copertoni squarciati e i finestrini sfondati. I bossoli schizzavano dalle armi automatiche, tintinnavano nel cadere a terra a decine e decine. Il loro fuoco non incontrava alcuna reazione, ma le bestie continuavano a scaricare interi caricatori come se si trovassero di fronte le armate del generale Patton . L’automezzo, ormai crivellato di fori, pendeva da una parte, valige sforacchiate e scatoloni sfondati, fagotti sfasciati e mille e mille frammenti di vetro sparsi sul selciato. Galline svolazzavano sperdendosi tra piume e polvere. Il commando dei sette uomini avanzava urlando. «Cabrones, uscite fuori!» ma non avendo risposta, continuavano a sparare e a gridare. «Cazzo, cazzo! Scendete, scendete tutti! Fuori!» Arrivarono all’autobus, lo circondarono e la tempesta di spari cessò. Uno di loro si avvicinò allo sportello anteriore, lo aprì e constatò che l’autista, riverso sul volante, sbavava sangue, colpito a morte. Un altro salì a bordo col fucile puntato.


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Mito tremava, gli occhi sbarrati. «Guardate!…» disse sottovoce. Raff e il vescovo si voltarono verso dove la donna indicava con un cenno della testa. Al gruppo degli assalitori si era ora unito un bambino che imbracciava un kalashnikov più grande di lui. Un indio di non più di dieci anni dai capelli a spazzola, il viso ancora segnato dalla dolcezza dell’infanzia. Il poliziotto salito a bordo stava facendo scendere, scaraventandole fuori a pedate, tre persone che sembravano comuni contadini, indosso un paio di sbrindellati pantaloni di tela, una lisa blusa bianca e niente scarpe. Questi, sospinti a terra così violentemente, caddero e uno di essi, nel risollevarsi, non trovò di meglio che tentare una disperata fuga. Non ebbe scampo. Il ragazzino dai capelli a spazzola lo falciò con una raffica del suo kalashnikov. L’uomo si afflosciò sulle gambe come fosse di pezza, e rotolò giù per lo stesso sottobosco verso il quale aveva tentato di salvarsi. Sulle labbra del ragazzino si stagliò un sorriso, mentre si avvicinava agli altri due passeggeri che si erano inginocchiati implorando pietà. Non ci pensò due volte, tirò fuori la pistola e li freddò con un colpo alla testa. I loro corpi furono proiettati all’indietro, caddero come sacchi di patate. Il ragazzino sorrise. La faccia di Mito era rosso sincope. A Raff scappò un sordo lamento che faticò a ricacciare in gola. Il monsignore si fece il segno della croce, conscio che altro non avrebbe potuto fare. Tutti e tre, sudati e quasi senza respiro, stavano con il volto chino, incapaci di guardarsi. La sparatoria cessò. Mito continuava a tremare, anche se non singhiozzava più, rannicchiata contro il petto di Raff che l’aveva presa


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tra le braccia e le accarezzava i capelli. Egli la tenne stretta a sé, avvertendone i brividi e i battiti del cuore, finché padre Diego non si avvicinò per porgerle una borraccia d’acqua, scovata chissà dove. Raff, affidata Mito a padre Diego, contro ogni prudenza, corse al vicino ruscello e bevette ingordo, in ginocchio, la faccia nell’acqua, come a voler lavar via dagli occhi lo spettacolo a cui aveva assistito. L’acqua sgorgava da una roccia senza rumore, in una polla che sembrava formare un rivolo che si perdeva giù fra i cespugli di rovi. S’era fatto buio, in cielo era comparsa una luna piena, che faceva apparire le stelle pallide e lontane. Il commando era sparito. Qualche gallina vagava tranquilla sulla strada, ora che la tempesta di fuoco era cessata. Restava il pungente odore della polvere da sparo e il silenzio della morte.


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«Quelle persone hanno bisogno di noi» disse calmo Lamar. Tutto, intorno a loro, era immobile. Il mondo intero sembrava essersi fermato, come sospeso tra il cielo e quella terra crudele. Si avvicinarono lentamente, sotto il taglio di luce che illuminava a malapena i due cadaveri che giacevano sul terreno. Raff non sapeva quale forza lo guidò verso l’autobus. Vi salì a bordo e vide lo scempio. Degluttì e vomitò le budella. Quindici, venti cadaveri in un mare di sangue, i sedili sventrati, le lamiere sforacchiate e un cane sventrato e quattro o cinque galline stecchite e cervella spiaccicate sulle lamiere. Dovevano essere contadini, per lo più giovani, qualche donna, due, tre vecchi, anch’essi senza vita. Un silenzio spettrale rotto dal volo di grossi mosconi verdi che ronzavano ubriachi da tale convito. Raff, terreo in volto, scese dalla corriera proprio nel momento in cui monsignor Lamar, finito di benedire i due campesiños sul ciglio della strada, si accingeva a salirvi per vedere se poteva essere d’aiuto. Non gli era rimasto che benedire anche quei poveri corpi. Poi chiese in prestito a Mito il suo cellulare e telefonò in vescovado per mettere al corrente

i suoi sacerdoti dell’accaduto. Parlò con

Calixto,

il

responsabile della comunità, perché si adoperasse a far arrivare volontari che avrebbero pensato a dar degna sepoltura ai morti. Si lasciò quindi andare seduto per terra, si pulì gli occhiali e chiese una sigaretta a Mito che esitò un attimo, ma subito gli porse il pacchetto.


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Lamar ne prese una, confessando: «Mi concedo questo vizio rare volte.» La donna avvicinò la fiamma tremolante dell’accendino alla sigaretta. Lamar, quasi vorace ne inspirò una boccata, poi ancora e ancora. Anelli di fumo si liberarono nell'aria. «Calixto mi ha informato che Manuel Rojo ha lasciato la locanda El Paso. Ha portato con sé le vostre cose, e si è stabilito presso la comunità. Calixto lo ha visto preoccupato, e c’è da capirlo, povero figliolo. Gli è sembrato anche assai nervoso. In comunità, però, non è rimasto per molto. Oggi se n’è andato via, lasciando detto che si sarebbe recato al cimitero di Santa Cruz per verificare una notizia. Altro Calixto non sa. Rojo potrebbe essere venuto a conoscenza di qualcosa che riguardi il povero Barlow, che dite?» Mito si ravvivò. «È inutile cercarlo là. Speriamo che quando arriveremo noi abbia già fatto rientro in vescovado, e allora ne sapremo di più.» Raff fu d’accordo. «Mi domando perché abbia chiesto ospitalità da voi e non sia andato in un altro albergo» aggiunse. Mito fissava davanti a sé il niente, lo sguardo dei suoi grandi occhi era lontano dall’autocorriera. Ma era attenta. «Ha subito minacce, non scordarlo. Potrebbe averlo fatto per essere al sicuro. In ogni caso, ce lo spiegherà lui.» Volevano parlar d’altro, come un riflesso condizionato, per non voler patire la vista di ciò che avevano davanti e che l’odore della morte sbatteva loro in faccia, come uno schiaffo inesorabile. Lamar tossì. «Calixto mi ha pure riferito di una telefonata di Monser per lei» disse rivolto a Mito. «Avrebbe voluto parlarle, voleva sue notizie. Gli ha detto che aveva cercato varie volte di chiamarla sul satellitare e che aveva inviato numerosi messaggi. Dovrebbe mettersi


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in contatto con lui.» Mito assentì col capo. Era proprio vero. Da quando era morto Barlow, non aveva più parlato con Luigi, né si era messa in contatto con l’agenzia, un po’ per lo sconquasso in cui si erano ritrovati, ma soprattutto perché niente le era più parso importante . Ora, però, si ripromise di scrivere una nota sui fatti tragici di cui erano stati testimoni. In redazione l’avrebbero apprezzato, sarebbe stata di nuovo tra loro, nonostante tutto. Lamar e Mantega, ancora seduti per terra accanto a lei, stavano in silenzio. Nelle orecchie si coglieva il gracchiare delle cornacchie e il ronzio dei mosconi. Non vi era nulla da fare se non attendere i volontari della comunità che, certo, sarebbero arrivati di lì a poco con le autorità militari che monsignor Lamar aveva detto di avvertire. La procedura in quei casi voleva che gli inquirenti e la polizia locale, cioè la stessa Sicurezza Pubblica coinvolta nell’eccidio, fossero immediatamente informati. Monsignor Lamar rifletteva sulla stranezza dell’accaduto e avrebbe voluto parlarne ai suoi compagni. Spense il mozzicone di sigaretta e si alzò, fece qualche passo, meditabondo, le mani in tasca e la testa china, poi, con voce afona, disse: «Verrà la Sicurezza Pubblica… Ci chiederà, farà domande. Chiedo a voi e a me stesso: è il caso di dire la verità o sarebbe meglio mentire?» A tutta prima, Raff e Mito non capirono, lo guardarono come si guarda un persona estranea. Il prelato proseguì: «Adesso vi espongo l’idea che mi sono fatto di questa atroce strage.» Lamar si rimise seduto sull’asfalto in una posizione raccolta , con le braccia che serravano le ginocchia. Guardò verso l’alto del cielo ora illuminato dalla luna piena, come per cercare in esso conforto per ciò che stava per suggerire. «Ecco, noi siamo stati testimoni di un fatto orrendo. I nostri occhi


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hanno visto con quanta efferatezza una pattuglia della Sicurezza Pubblica, cioè dei poliziotti pagati dal governo, ha aggredito e ucciso barbaramente, insieme a un gruppo di paramilitari, degli innocenti, i viaggiatori di una corriera di linea. Un fatto del genere in Colombia non è mai accaduto. Ossia, che dei poliziotti si alleassero con i pàras per attaccare civili inermi e facessero una tale azione. Qualcosa non mi torna. L’assalto agli autobus di linea lungo le strade nazionali, insieme al commercio della droga, è sempre stato affare della guerriglia per procacciarsi denaro. Non a caso queste azioni le chiamano pesche miracolose: i guerriglieri fermano i pullman con la minaccia delle armi, fanno scendere la gente e la derubano. Qualche volta sequestrano i viaggiatori più ricchi, che sono rilasciati dopo che ottengono un riscatto dalla famiglia. Solitamente, però, si tratta di contadini, che, potete immaginare, non posseggono che pochi spiccioli.» «Ma come fate ad essere così sicuro che quelli che abbiamo visto fossero dei pàras e non dei banditi comuni?» domandò Mito. «Lo deduco. Innanzi tutto, le cosiddette pesche miracolose sono state compiute sempre di giorno, mai di sera. In secondo luogo, non ho mai visto una banda di delinquenti–cani sciolti che lavori, diciamo così, con la polizia. A meno che non siano prezzolati, ma, in tal caso, la Sicurezza Pubblica non li usa insieme a loro. In terzo luogo, c’era purtroppo, tra gli assalitori, un bambino. Non che le organizzazioni ribelli si comportino molto meglio, ma i guerriglieri non usano i ragazzetti nelle pesche per il semplice motivo che potrebbero combinare qualche sciocchezza. Quanti anni poteva avere quel bambino che ammazzava con tanta ferocia? Dieci, undici? La guerriglia vuole correre meno pericoli possibili, il loro scopo è ottenere il denaro. Il sequestro è l’unico loro azzardo.» Mito voleva capire. «Quale sarebbe la ragione di questa ferocia?»


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insistè. «Perché la polizia avrebbe agito insieme ai paramilitari? Potrebbero essere le milizie di Blasco?» «Non lo so, alcuni indizi lo farebbero credere… Vedete, in questa regione c’è una situazione complicata che proverò a spiega rvi. L’anno scorso Blasco decise di imporre agli abitanti del comune di Agua Blanca una tassa per il lavoro della terra e per l’utilizzo dell’elettricità. Circa duecento famiglie, però, non accettarono quest’ulteriore balzello, e si rifiutarono di pagarlo. Le sue milizie, le Autodefensas Armadas de Colombia, le obbligarono a colpi di fucile a lasciare la loro terra. Scapparono e si rifugiarono nella cittadina di Nuova Merida, a cinquantadue chilometri da Agua Blanca. I pàras di Blasco li scovarono e li perseguitarono anche lì, dove si erano insediati e trovato lavoro. I campesiños, tuttavia, riuscirono ancora una volta a sfuggire loro, chi nei dintorni della città, chi sulle montagne vicine. Fu allora che le Autodefensas Armadas, le AUC, si unirono ai poliziotti della Sicurezza Pubblica per cacciarli definitivamente. I contadini, in quell’occasione, con la forza della disperazione, non scapparono più, ma si stanziarono in una baraccopoli costruita attorno con l’aiuto della chiesa di San Felipe, che si trova nei pressi di Nuova Merida. Per questo, l’insediamento fu chiamato l’anexo San Felipe. Quando Manuel Rojo è venuto da me per chiedermi di organizzare per vostro conto una visita nella tenuta di Paramillo , il parroco di San Felipe aveva appena perorato un mio intervento perché facessi qualcosa a favore di quella povera gente angariata. Ho pensato che quella sarebbe stata una buona occasione per andare dal capo delle AUC e trattare con lui. Ritenevo che la vostra presenza , conoscendo la sua vanità e la sua prosopopea, mi avrebbe dato una carta in più da giocare.» Mitò corrugò la fronte. «E cosa pensavate di ottenere?»


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«Qui, gran parte della stampa locale è serva del governo. Sono pochi i giornalisti che non si fanno manipolare e non sono corruttibili. La vita per loro è molto difficile e non essere liberi di scrivere le verità del nostro paese può aveve un prezzo molto alto. Non tutti se la sentono di schierarsi contro il potere costituito. Blasco conosce molto bene i giornalisti e la sua lista nera. Suppongo che sia stato per questo motivo che

Manuel

Rojo,

quando

l’ho

incontrato

per

concordare

l'appuntamento al campo, mi abbia detto esplicitamente che la sua presenza non sarebbe stata per niente opportuna. Quando ho trattato con Blasco per ottenere il consenso alla vostra visita, l'ho avvertito che avrebbe avuto tutto da perdere se avesse insistito a usare la forza contro i contadini dell’anexo di San Felipe. È qui che ho detto una piccola bugia… Ecco, gli ho detto che la notizia della sua persecuzione nei loro confronti aveva superato i confini nazionali, tanto che alcuni reporter di un giornale americano avrebbero voluto intervistarlo… Insomma, per farla breve, gli ho messo una pulce nell’orecchio. Se non si fosse opposto a un’intervista, ma anzi vi avesse accolto con disponibilità, avrebbe potuto evitare che la sua immagine, non certo edificante, continuasse a circolare sulla stampa internazionale e su quella americana in particolare. Diversamente c’era il rischio che i giornali statunitensi scavassero ulteriormente sulle sue imprese con evidenti

conseguenze

anche

per

il

Plan

Columbia,

cioè

sui

finanziamenti di Washington… Dunque lui, Blasco, non avrebbe avuto alcun interesse ad apparire quello che metteva i bastoni tra le ruote al suo governo.» Anche Raff voleva capire. «Ma i contadini di San Felipe adesso dove sono? Blasco li lascia in pace?» domandò. «Blasco non lascia in pace nessuno. Purtroppo non ci sono solo le sue milizie in questa brutta faccenda, e quando la confusione è grande, è


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difficile che salti fuori il colpevole. La situazione non è mutata granché. Quella gente ha gravi problemi di salute, vivono in capanne con il tetto di plastica, l’igiene è scarsa, scarso il cibo e l’acqua.» Lamar fece un pausa. «Quando al nostro arrivo a Paramillo ci hanno separato,» proseguì, «sono stato condotto in disparte da Blasco che voleva parlarmi. Aveva riflettuto ed era intenzionato a mandare all’aria la vostra intervista, voleva addirittura che ve ne andaste. Teme va che ci fosse sotto un trucco, per lui eravate delle spie. Non si fidava. Sono stato colto alla sprovvista da questo voltafaccia, anche se consono al personaggio. Stando così le cose, potevo solo tentare di venire a patti per non far saltare la visita. Ho detto, d’accordo niente interviste, ma i giornalisti devono visitare il campo. In cuor mio, ho pensato che, una volta ottenuto il consenso, sarebbe stato possibile trovare il modo di fare domande, di osservare, rendersi conto di persona e sarebbe stato sempre meglio che niente… Poi ho puntato sulla vanità dell’uomo… Ho aggiunto che se non ci fosse stata l’intervista, i giornalisti avrebbero dovuto almeno avere l’autorizzazione per un servizio fotografico. Ho comunque tentato di strappargli l’impegno che lui, Blasco, non avrebbe ostacolato il ritorno della gente a San Felipe per riprendere il lavoro nei campi. Blasco ha accettato, ma ha escluso foto nel villaggio militare, consentendo unicamente quelle alla sua persona.» Mito, ancora scossa, cercò una sigaretta, ma il pacchetto era vuoto e lo gettò. «Ma se Blasco si era impegnato a lasciare in pace i contadini, ammesso che i poveretti che viaggiavano in corriera fossero di San Felipe, perché la strage? È criminale.» «Già, purtroppo. È molto probabile che questi siano i campesiños di San Felipe che facevano ritorno all’anexo. Blasco sa che adesso non può esporsi in azioni che riconducano a lui, ha paura delle


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conseguenze, ma, nello stesso tempo, non vuol perdere il controllo della situazione. Il suo piano mi sembra semplice. Suppongo che voglia mantenere il potere su quella povera gente, cercando, dato lo stato di confusione presente nel territorio, di far ricadere la colpa degli atti terroristici sulla guerriglia.» «Sì, potrebbe darsi…» convenne Mito. «Se le cose stanno così,» proseguì Lamar, «torniamo al dubbio iniziale. Raccontiamo ciò che abbiamo visto? Se sì, allora i casi sono due. Non ci credono e dicono che ci siamo sbagliati, oppure fanno finta di non crederci e ci tacciano di calunnia e oltraggio. In tutti e due casi , ci considererebbero dei pericolosi testimoni e chissà dopo cosa potrebbe accadere…» Raff disse: «Nell’ipotesi in cui invece decidessimo di starne fuori, dovremmo dichiarare che stavamo tornando in città e che, avendo udito colpi d’arma da fuoco provenienti dalla strada nazionale, abbiamo cercato di non venirne coinvolti. Ci siamo fermati, e solo dopo una mezzora da che erano cessati gli spari, abbiamo osato riprendere la strada e, giunti sul posto, abbiamo visto il massacro avvenuto. Convincente, no?» Lamar e Mito annuirono. Raff disse: «Io credo che dobbiamo essere realisti, padre Diego. Secondo me, la domanda giusta è: come potremo aiutare questa povera gente, far sì che i morti possano avere almeno giustizia?» Erano passati venti munuti quando un gruppo di volontari guidati da l giovane medico Calixto e una nutrita pattuglia di agenti della Sicurezza Pubblica arrivarono, al seguito di un’autoambulanza, nel luogo della strage. La procedura d’indagine e i rilievi sulle salme furono talmente


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sbrigativi che i sospetti adombrati da Lamar riguardo alla complicità tra polizia e paramilitari nella carneficina confermarono la loro ipotesi accrescendo le preoccupazioni. Sicché si concretizzò il convincimento che, per non correre inutili pericoli, fosse opportuno fornire alla polizia una testimonianza dei fatti diversa da quella reale. Come avevano previsto, i poliziotti si limitarono a porre le domande che si fanno in quei casi, presero nota delle risposte e non osarono mettere in dubbio la parola del vescovo e fu tutto. Le formalità erano così state assolte in men che non si dica. I volontari avevano portato a termine la loro opera. I corpi dei contadini erano stati composti pietosamente in mo deste casse di legno che,

caricate

sull’autoambulanza,

furono

trasportate

all’obitorio

comunale, così che i familiari potessero procedere al riconoscimento. Le operazioni erano guidate da Calixto, in qualità di responsabile medico. Questi era un giovane sui venticinque anni, il suo viso era una macchia scura contro la lucentezza del camice bianco da lavoro che indossava. In definitiva, un uomo robusto, di carnagione scura, che poteva essere scambiato, per i suoi tratti somatici, a un vero levantino. Si capiva che era tipo da non risparmiar energie, quando era chiamato a risolvere situazioni come quelle. Era stato lui ad avvertire il monsignore dell’arrivo in comunità di Rojo, e a lui Lamar domandò ora se il giornalista fosse rientrato dal cimitero di Santa Cruz. «No, Padre Diego. Quando tutti noi siamo partiti, il signor Rojo non si era ancora visto.» «Oltre a lei, qualcun altro ha avuto modo di parlare con lui?» «Ch’io sappia, no. Come le ho già detto al telefono, si è fermato in comunità solo il tempo necessario a sistemare i bagagli e a occupare la stanza che gli abbiamo messo a disposizione. Non ha incontrato nessun estraneo in vescovado. Il giorno successivo al suo arrivo, n el


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pomeriggio, è venuto da me dicendomi che sarebbe andato al cimitero per verificare un’informazione ricevuta. Questo è quanto.» «Non ti ha detto di cosa si trattava?» «No. L’ho visto alquanto eccitato, quando è uscito. Ma altro non sono in grado di dire.» Non rimaneva dunque che tornare in vescovado e attendere. Quando vi arrivarono, Mito e Raff si ritirarono nelle stanze a loro destinate. Mito, fatti ripetuti tentativi di telefonare a Manuel senza risultato, si sdraiò sul letto sfinita. Voleva rimanere sola per riordinare le idee e poi, quando se la fosse sentita, scrivere alla sua agenzia alcune note che sarebbero servite per un breve articolo. Raff invece, incapace di staccare la spina, per sicurezza, spedì a un server personale di Roma le foto scattate a Blasco. In seguito, le avrebbe trasmesse al Tribune. Sintonizzò la radio che trasmetteva notizie preoccupanti. Attentati, sangue e violenza nelle regioni del Chocò e di Antioquia. D ecine di morti in scontri tra gruppi armati irregolari, civili e forze governative. Le ore successive portarono notizie altrettanto allarmanti dall’anexo di San Felipe. I rifugiati, dopo quanto era accaduto, non si azzardavano a ritornare nelle loro terre senza una scorta che li aiutasse a riprendere possesso delle case. Le notizie dall’anexo erano di tensioni a causa delle continuate presenze minacciose dei paramilitari. L’appello di aiuto dei contadini trasmesso da Lamar portò a fissare un incontro con numerose personalità politiche e religiose della regione nella sede vescovile

per

discutere

delle

possibili

soluzioni.

L’autorevole

intervento del vescovo era richiesto con forza anche dai cittadini, sicuri che il suo senso di giustizia e la sua chiarezza di giudizio avrebbero potuto ridurre il pericolo di ulteriori violenze. Lamar si rendeva tuttavia conto che, per quanto lui facesse, i problemi erano tanti. Da più parti erano sollecitati aiuti di viveri e medicinali


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ormai scarseggianti. In accordo con i notabili consultati, decise che bisognava mobilitare l’opinione pubblica e che l’unica possibilità per riportare nelle loro terre i contadini sarebbe stato accompagnarveli con una

grande

mobilitazione

di

popolo.

Una

tale

partecipata

manifestazione forse avrebbe costretto al ritiro dall’anexo i gruppi paramilitari e consentito il ritorno dei campesiños alla vita dei campi. Raff e Mito decisero che la cosa migliore che loro potessero fare fosse quella di mettersi per prima cosa alla ricerca di Rojo, dopo di che avrebbero collaborato con padre Diego al fianco della gente di San Felipe per ripagarlo della sua generosa protezione. La sera della partenza sulle tracce di Rojo, Raff e Mito non andarono a dormire. Si riposarono in poltrona, programmando le cose che avrebbero dovuto fare il mattino dopo.


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Albeggiava appena, quando Raff e Mito lasciarono in auto il vescovado. Arrivarono al cimitero di Santa Cruz che i lampioni della città erano ancora accesi. Fecero un giro attorno alla cinta del cimitero, senza notare niente di anormale. Spensero l’auto e scesero. Un vento leggero muoveva le chiome degli alberi e aleggiava nell’aria profumo dei cipressi. Trovarono il cancello d’ingresso ancora chiuso con una grossa catena. A pochi passi dal cancello c’era una piccola casa, forse l’abitazione del custode. Mito e Raff, raggiunta la porta, bussarono più volte. «Cazzo di grillo!» si sentì urlare con veemenza dall’altra parte. Dopo una pausa la stessa voce continuò: «Chi è? Cosa volete? Anche i cristiani vivi hanno diritto di dormire!» Poi la porta si aprì e comparve loro davanti un grassone meticcio di mezza età con un’abbondante pappagorgia e due folte sopracciglia, dei baffoni neri neri spioventi e la fronte solcata da una ruga d’irritazione. Raff si scusò, salutò, si presentò, ma quello era una furia. «Andate via, o chiamo la polizia!» Mito tirò fuori la tessera di giornalista, ma il grassone non la guardò nemmeno, continuava a urlare, senza che potessero dire qualcosa. «Via, via!» e avrebbe chiuso loro la porta in faccia, se Raff non glielo avesse impedito, frapponendo il piede fra lo stipite e la porta. «Vogliamo solo sapere da lei se ha visto qualcosa d’insolito nel cimitero in questi giorni o è stato qui qualcuno che le ha chiesto informazioni… che l’ha insospettito, che so… se potessimo dare


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un’occhiata dentro…» disse indicando il cimitero. Mito insistette. «La preghiamo, ci apra il cancello…» L’uomo sbollì la rabbia che aveva in corpo e, così com’era, in camicia da notte, si sistemò sulle spalle un mantello scuro che lo copriva sino ai piedi. «Sangue di dio! Ma voi siete pazzi…» Raff prese dalla tasca un verdone da dieci dollari e glielo mise sotto il naso. «Ascolti, vogliamo solo dare un’occhiata, si tratta di una cosa importante…» Il custose cedette, grugnì frasi incomprensibili, intascò il verdone, uscì e si avviò con una torcia in mano per aprire il cancello del cimitero. Sebbene fossero arrivati all’unica traccia che possedevano, Raff e Mito non sapevano, in effetti, cosa cercare e cosa avesse portato Rojo in quel luogo. Il grassone dalle folte sopracciglia scrollava il capo , i due reporter si guardarono, ad ambedue era passata per la mente l’inquietante idea che qualcosa di grave potesse essere accaduto a Manuel. Il camposanto non era esteso. Un certo numero di tombe erano disposte a stella con al centro un laghetto artificiale e quattro fontane che rappresentavano le stagioni. Camminavano in silenzio, in fila indiana, nei vialetti di sabbia e ghiaia. Il cono di luce della torcia illuminava i tratti ancora oscuri per le fronde degli alberi. L’uomo borbottava parole che si capivano a stento. «Ma dove vogliono andare adesso?», «ma cosa cercano?» Le scarpe affondavano nella ghiaia. Ispezionarono ogni angolo, controllarono dietro i monumenti funebri disposti a lato di un vialetto di cipressi che portava verso l’uscita secondaria. I deboli raggi della torcia proiettavano sulle pareti masse scure informi. Un normalissimo cimitero, come ce ne sono tanti . Nessuna traccia che riconducesse a Manuel. Il custode non aveva smesso d’imprecare sottovoce. Seguiva infastidito le indicazioni che gli


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davano Raff e Mito, «giri qua a sinistra…», «si fermi avanti…» La visita sembrava non servisse a niente. Il vento trascinava le foglie sul terreno di sabbia e ghiaia, componendosi a mulinello con un fruscio che ogni tanto li faceva voltare nella speranza di scoprire il sopraggiungere di Manuel Rojo. Ma, delusi, dovettero rassegnarsi al fatto che, oltre loro, non c’era anima viva. Preceduti dal grassone, si stavano avviando verso l’uscita, quando, ripercorrendo un tratto lungo il laghetto con le quattro fontane, la torcia impugnata dalla mano nervosa del custode diresse casualmente il fascio di luce ve rso la superficie dell’acqua. «E quello laggiù, cos'è?» esclamò questi. Affiorava sullo specchio d’acqua qualcosa simile a un sacco. Il silenzio di quel luogo desolato restituiva alle loro orecchie lo scorrere dell’acqua delle fontane. Il custode aveva smesso di brontolare, e, di corsa, seguito da Raff e Mito, raggiunse il bordo della vasca più vicino. Si chinarono verso la massa galleggiante. La torcia illuminò lo specchio d’acqua ispezionandola fetta per fetta, finché inquadrò l’area dove si trovava ciò che aveva destato la loro attenzione . Il grassone rinculò. «Ma questo è un uomo…» esclamò.


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Non dovevano desistere. Non potevano fermarsi ora. Due di loro avevano pagato il prezzo più alto possibile perché Raff e Mito abbandonassero il campo e alzassero bandiera bianca. Avevano appena capito quanto poco valore avesse la vita umana da quelle parti. Anche il loro collega Manuel Rojo era stato fatto fuori. Perché? Non c'era risposta. A Greg ugualmente avevano fatto la pelle senza uno straccio di ragione. Raff e Mito, il significato di quel che stava succedendo, andarono a cercarlo il giorno dopo all’anexo di San Felipe, baraccopoli, propaggine urbana di Nuova Merida, regione di Cali, Colombia. Ragionandoci su, si erano convinti che la loro intrusione aveva scoperchiato un vermicaio. Si trovarono dopo un giorno sopra un side-car moto Guzzi del 1958 guidato da Calixto, direzione, Nuova Merida. A ogni curva il side-car sbandava paurosamente sulla strada stretta , ma Calixto riusciva a rimetterla in carreggiata nella polvere che li sommergeva. Guidano come pazzi scatenati questi colombiani, pensò Mito. Lei si era assunta il compito di verificare le necessità prioritarie della popolazione. Quel viaggio, San Antonio-Nuova Merida andata e ritorno, aveva lo scopo per Mito, oltre che di attivarsi per aiuti alla città ormai allo stremo, di mobilitare la gente perché partecipasse in massa alla programmata carovana della pace. La strada pareva non finire mai, il tachimetro segnava sessantacinque


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chilometri all’ora, tra buche, tronchi d’albero e vortici di polvere. Anche questa è proprio una stradaccia, pensò Raff, preoccupato per l’ennesima fatica cui era sottoposta l’amica . Lui si sarebbe fermato a Nuova Merida. Avrebbe voluto domandarle come si sentiva, cercare di farle sapere quanto i suoi pensieri erano rivolti a lei, ma il fracasso del motore era così assordante che, per farsi sentire, avrebbe dovuto urlare, e non era il caso. Si rivolse, invece, al suo guidatore. «Ehi, Calixto, perché andiamo così in fretta?» chiese Raff con involontaria ironia. «Non c’è una strada migliore? È terribile questa polvere!» «Un po’ di pazienza, accidenti!» esplose l’altro scontroso. «Ho dovuto fare questa deviazione per evitare i controlli ai posti di blocco. Non vi basta quanto è successo al vostro amico… Volete che capiti anche a voi?» soggiunse. «Prima arriviamo a Nuova Merida, meglio è. Non possiamo far aspettare troppo Faustino. È pericoloso . In zona ci sono squadre della morte, senza contare l’esercito… Vive semi nascosto, Faustino… Questa bestia di motocicletta non è poi tanto veloce» disse infine cambiando discorso. «Se potessi la farei volare, ma è un vecchio catorcio che fa solo rumore!» Mito se ne stava in silenzio, raggomitolata dentro l’abitacolo del side come un insetto che finge di esser morto. Aveva sentito solo l’ultima parte della risposta di Calixto. «Che cosa sono queste squadre della morte?» domandò alzando la voce. La polvere e il rumore indiavolato del motore coprirono le sue parole, ma Calixto aveva capito. «Qui chiamano così le bande delle AUC che operano all’ombra dell’esercito…» Alle porte di Nuova Merida Calixto rallentò, e riprese a parlare. «La città avrà sì e no diecimila anime dedite all’agricoltura e alla pesca nel fiume che la taglia in due.»


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Mito si abbassò gli occhialoni che le avevano riparato gli occhi, presto imitata da Raff. «C'è una strana calma, qui» disse guardandosi finalmente attorno. Il side scoppiettava. In effetti, c’era qualcosa di strano. Calixto voltò lo sguardo a destra e a sinistra. «Questo è un territorio strategico per i guerriglieri del Fronte Armato Rivoluzionario della Colombia. È un’enclave, una base importante per la guerriglia perché siamo nella regione controllata dalle AUC di Blasco.» Entrarono in città. C’era effettivamente qualcosa di strano a Nuova Merida, troppo silenzio, quasi un’aria di morte. Calixto rallentò la moto fino a procedere a passo d’uomo. Il side crepitava. Si vedevano ora case distrutte, muri crollati, mattoni e pali abbattuti. Uno scenario apocalittico. La gente si aggirava tra le macerie, con la faccia avvilita, chi piangeva, chi non si rassegnava. Un uomo scavava a mani nude tra i ruderi. Mai visto niente di simile. «Cose è successo?» gli si rivolse Raff. L’uomo, vestito di stracci, allargò le braccia. «È da dieci giorni che siamo in questo stato… Hanno bombardato dalle colline. Guardi, guardi… Non si sa perché.» Intervenne un altro uomo, più giovane del primo, di colore. «Lo sai il perché. Parla, scemo…!» gli gridò, e poi rivolto a Raff: «Dicono che cercavano

guerriglieri…

Quelli

dell’esercito

pensano

che

noi

riforniamo la droga alle FARC!» «E non è vero?» chiese Mito. Il giovane si asciugò la fronte con il polso, sbuffando. «Si guardi attorno. Vedrà fagioli, granturco e papavero. Più avanti scorre il fiume. Questo è ciò che abbiamo.» La moto, che si era fermata per qualche secondo, riprese il suo lento andare, rincorsa da tre, quattro mocciosi scalzi e in mutande.


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Un refolo d’aria portava puzzo di cadaveri. Man mano che procedevano incontravano persone di ogni età, molte armate, che si aggiravano come disorientate per le vie. Calixto guardava innanzi, dietro gli occhialoni che non si era levato. «Questa è la Colombia…» mormorò. Svoltò inoltrandosi in un dedalo di viuzze. Attorno a loro si apriva un altro scenario simile al primo. Ancora auto incendiate ai bordi della strada, alcune donne cercavano di salvare qualche oggetto da quelle che una volta dovevano essere state la loro case. Calixto accelerò, addentrandosi all’estrema periferia sud verso l’anexo. «Faustino si è preso la briga di coordinare il lavoro per mettere insieme i partecipanti alla marcia e unirsi a quelli di San Antonio. È un po’ matto, ma è un buon giovane. La sua casa è nell’anexo. È da lui che stiamo andando.» Le case, qui, erano più distanziate, poche quelle rimaste in piedi. La gente che scavava, senza darsi per vinta, era numerosa. Non lontano stava un piccolo cimitero certo ora più affollato per i corpi estratti senza vita dalle macerie. Era il crepuscolo, e lì le persone continuavano nel triste compito alla luce delle torce. Negli occhi di Raff quelle immagini diventarono fotografie in bianco e nero, testimonianza della follia degli uomini, ma non se la sentì di tirar fuori, davanti a quella gente, la macchina fotografica . A contrastare quella visione di morte, l’assurda scena di due contadine che, sollevate le sottane, immerse nel fiume fino alle anche, tiravano a sé con due bastoni una rete da pesca sbrindellata in cui erano impigliati tre pesci e dove brillava un’anguilla prigioniera. La vita continuava. Anexo di San Felipe, un abitato di baracche di legno circondato da campi di mais. La gente per la strada si voltava a guardare la vecchia moto crepitante. La loro venuta era stata preannunciata. Li aspettava un gruppo d’indigeni, famiglie indios cui si erano aggiunti curiosi che


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fecero ala al loro passaggio. Fra tutti, emergeva la figura di un vecchio dall’aria saggia, che sembrava

a

capo

di questa

delegazione

improvvisata. Panciuto, un bel paio di folti baffi bruni, era un uomo grosso dallo sguardo buono. Indossava, al pari di molti che lo affiancavano, una tunica bianca polverosa e ai piedi dei mocassini scalcagnati. La sua mano sinistra impugnava un bastone ornato di nastri multicolori. «È don Raul, l’Alcade Mayor, un’autorità, il capo della Guardia Indigena, una specie di tutore dell’ordine e insieme il sindaco di questa piccola comunità» spiegò Calixto, e arrestò il moto Guzzi proprio davanti a lui. Don Raul alzò la mano in segno di saluto: «Buenas dias!» Dalla piccola folla, intanto, si era fatto avanti un giovane mulatto, magro come un chiodo, alto più di un metro e ottanta, il viso scarno, olivastro, vestito di una larga tunica che , abbondante, gli avvolgeva il corpo. «Io sono Faustino. Siete quelli arrivati da San Antonio?» domandò in spagnolo. Calixto dismise, con sorpresa di Raff e Mito, gli abiti dell’uomo scontroso e si rivolse all’Alcade con tono affabile e, al tempo stesso, formale. «È per conto di monsignor Lamar che siamo qui. Questi sono i due giornalisti stranieri che saranno al nostro fianco per tutto il tempo necessario. Con i loro articoli daranno voce alle nostre proteste.» Continuò poi il suo discorso in difesa della causa della gente di San Felipe pronunciando parole di elogio per la loro determinazione alla lotta. L’Alcade Mayor, che aveva accolto con piacere quelle parole, si profuse in tali ringraziamenti, tanto che Calixto ne sembrò confuso. I convenevoli quindi proseguirono con Faustino, mentre intorno a loro la gente si era fatta più numerosa, a testimonianza della grande


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importanza che aveva assunto l'incontro avallato dalla presenza dell'Alcade Mayor. Calixto, Raff e Mito, impolverati e stanchi, lasciarono la moto che fu presa d'assalto da piccoli mocciosi scalzi e vocianti che le giravano attorno da quando si erano fermati. L’Alcade Mayor prese da parte Raff e gli disse in tono affabile e suasivo: «L’esercito è la causa di questa distruzione. Adesso ci aspettiamo, da un momento all’altro, nuove provocazioni dalle squadre della morte. Dobbiamo far qualcosa, ma voi ci dovete aiutare » lo implorò. «Nessuno ci dà ascolto. La Colombia sta morendo… I figli migliori del nostro popolo cadono lottando per la causa della libetà.» Calixto, Faustino e Mito si erano nel frattempo avviati verso la casa della famiglia di Faustino, una casa di legno, come tutte là attorno. Raff li raggiunse, scortato dalla folla che li accompagnò fin davanti alla porta. La casa di Faustino era piccola e accogliente. Nonostante fosse pieno giorno, la luce della stanza nella quale furono ricevuti era accesa. Era l’usanza, seppe poi Raff. Dal paralume, un piatto in ferro smaltato di colore bianco, la luce si spandeva a mezz’aria sulle pareti pulite lasciando in ombra la parte alta dei muri e le canne annerite del tetto. Dal camino veniva calore. Un’atmosfera a Raff molto familiare. Rimasero con i due reporter l’Alcade don Raul, Faustino e Calixto, e furono fatti accomodare con mille riguardi da Maria, la madre di Faustino. La giovinezza l’aveva abbandonata da un pezzo, ma lei non si era arresa. Aveva le unghie dipinte di rosso e i capelli lunghi , raccolti dietro la testa, legati da un nastrino anch’esso rosso, rosso come le labbra e le guance. E quel colore acceso, invece di conferirle allegria, la faceva apparire triste, come una bambola vecchia che qualcuno aveva tentato di abbellire in fretta. Nella stanza, per l’occasione, aveva sistemato le sedie attorno al tavolo, così che tutti potessero sedere e


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parlare fra loro. Lei fu la prima a parlare, come se non aspettasse altro che quell’occasione per dare libero sfogo ad un antico lamento. «Molte persone sono ferite, e non sappiamo come curarle senza le medicine che mancano. La nostra gente ha fame. I bambini hanno fame, abbiamo bisogno di ogni cosa…» Aveva una vocetta arrochita che articolava velocissima le parole, senza pause. Fu necessario che di quando in quando Faustino la interrompesse per far comprendere quel che aveva detto, eppure il senso era ugualmente chiaro. Evidentemente, quella gente era arrivata al limite della sopportazione, e se non si fosse fatto subito qualcosa, tutto sarebbe stato perso. Le baracche dell’anexo sarebbero state distrutte e, quel che era peggio, se avessero tentato di opporsi alle sopraffazioni dei paramilitari, gli abitanti sarebbero stati decimati. Nuova Merida, già in parte distrutta dai mortai dell’esercito, avrebbe potuto, ad un ulteriore attacco dei pàras, passare sotto il loro totale controllo, anche se sulle montagne che dominano l’anexo, i guerriglieri avrebbero fatto di tutto per ostacolare la loro occupazione. Per la sopravvivenza della gente così vessata erano necessari viveri e medicinali. La carovana che da San Antonio avrebbe raggiunto Nuova Merida doveva servire ad aiutarli e a risolvere la situazione. Maria aveva preparato una cena frugale per Raff e Mito, pasta e fagioli condita con spezie piccanti, quindi fece vedere ai due giornalisti le stanze dove avrebbero passato la notte. Fermandosi davanti ad una porta finestra che dava accesso alla corte e al piccolo porticato di legno, disse: «Domani dovrò alzarmi molto presto per mungere il latte della capretta che alleviamo qui, nel cortile di casa, e portarlo ad una famiglia che si trova dall’altra parte dell’anexo. In cambio avrò un po’


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di fagioli e di patate. Noi siamo povera gente, io sono rimasta vedova che avevo trendadue anni e Faustino dieci, mio marito me lo hanno ucciso le squadre della morte perché un giorno si era rifutato di pagare un quarto del suo raccolto di mais. Ora mi è rimasta questa capretta, così va il mondo.» Poi si congedò augurando la buona notte. Il cortile sul retro ospitava, nelle notti stellate di questa stagione, un segmento di luna incorniciato dalla porta finestra. Di là del pendio tutto alberelli e sottobosco si vedeva un fienile sfondato sul retro e covoni ammucchiati. A sinistra della porta, l’ala di una casa senza intonaco, tranquilla in quell’oscura desolazione. Raff e Mito si attardarono fuori nel cortile a godersi il poco fresco che offriva la sera, in compagnia della capretta di Maria. Mito si accese una sigaretta, si era sciolta i capelli e appariva distesa, Raff ingoiò il solito cachet contro il male al collo che si portava ancora dietro. Si accasciò su una delle due sedie a dondolo in bambù al centro del cortile, mentre Mito andava avanti e indietro, facendo qualche passo tra i vasi di petunie e il recinto di siepe dov’era rinchiusa la capretta. «Sono sei mesi in Colombia,» esordì lei, «e da più un anno manco dal mio paese. Ho nostalgia del Brasile, dove io ho vissuto prima di incontrare Greg, e del Portogallo dove vive mia madre. Ma ora desidereo rimanere con te e m’interessa portare a termine questo lavoro. Ho parlato con l’agenzia l’altro giorno. Luigi mi ha incoraggiata e si è complimentato per la forza dimostrata . Mi ha anche detto di tenere duro e che Greg sarebbe stato fiero di me. Quando l’ho sentito, mi è venuto da piangere.» Raff, le mani intrecciate dietro la nuca, le sorrise. «Tutti sono contenti del tuo lavoro» disse. Mito inspirò una boccata dalla sigaretta e si avvicinò al recinto. Il movimento fece frusciare la vaporosa gonna rosso fragola che


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indossava e che s’intonava ad una camiciola nera con le maniche rimboccate. Raff la guardò, pensando quanto fosse desiderabile, nonostante la fatica della giornata. Lei accennò appena un sorriso. «Gli ho detto di salutare tutti i colleghi e l’ho ringraziato per il suo apprezzamento assicurando che resterò qui con te.» La capretta si era avvicinata a Mito che, soprapensiero, le accarezzò il pizzetto. Mentre l’ascoltava, Raff si domandò che cosa la facesse apparire quella sera tanto luminosa, diversa rispetto ad altri giorni. Forse era quella gonna o il fazzoletto rosso che, avvolgendole il collo tornito, le adornava il viso. «Ne sono felice» commentò Raff senza aggiungere altro, malgrado quello che aveva nel cuore. «E dire che, quando Luigi mi ha parlato di questa collaborazione, l’ho presa un po’ male» aggiunse Mito e sospirò, allontanando con la mano i capelli che le sfioravano la guancia. Forse, si disse lui, erano i capelli, che aveva visto sempre raccolti con un nastrino, certo perché più pratico tenerli così d urante il lavoro, e che ora erano sciolti ad accarezzarle il viso. O forse, il rossetto sulle labbra. Lei sorrise ancora. «Pensavo che avrei finito col fare la tua segretaria, che stupida, o la tua assistente, pensa un po’ e ne ero molto irritata. Invece, adesso, ti devo dire grazie.» Raff le sorrise di rimando. «Non sei giusta con te stessa. Devi essere più obiettiva,» scherzò, «sono io che devo ringraziare te.» Lei, sbattendo le palpebre, lo scrutò quasi stupita da quelle parole. «Nei primi tempi, prima di conoscere Luigi, che è stato il mio maestro, ero desiderosa di buttarmi in avventura, di scoprire le forme estreme del vivere. Volevo conoscere come vive una parte dell’umanità, in un mondo tanto diverso da quello fatto di vuoto benessere che trascina noi occidentali. Non ultima in me c’era l’ambizione personale di uscire da


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una

condizione

femminile

ancora

discriminante,

facendo

una

professione che per tradizione è affidata agli uomini. Volevo dimostrare che potevo farcela anch’io.» Mito spense la sigaretta dentro un catino d’acqua piovana e, ponendo fine al suo andirivieni, si sedette accanto a Raff, deliziato di godere del suo profumo che sapeva di bucato fresco e di sapone alle mandorle . «A mano a mano che passano gli anni,» proseguì Mito, inconsapevole dell’effetto che provocava su Raff la sua vicinanza, «ti accorgi che la passione rimane intatta, ma s’impara a instradarla meglio. Mi rendo conto ora, guardando questa gente, e pensando a ciò che è stato fatto a Greg e a Manuel, che noi non possiamo rimanere spettatori con una presenza passiva. Le immagini fotografano la realtà, si dice, me lo insegni tu, ma a me sembra che esse inquadrano solo una parte della realtà. Noi dobbiamo fare, in certe situazioni, sempre e in ogni caso, una scelta. Anche chi dice, credendoci, d’essere imparziale in ciò che scrive o che documenta, in realtà mette in gioco, anche senza volerlo , la sua visione dei fatti cui ha assistito, se non i suoi sentimenti o la sua coscienza. Weltanschauung, dicono i tedeschi: la propria visione del mondo. È inevitabile essere portati a fare delle scelte, a stare da una parte o dall’altra.» Raff distese le gambe e guardò il cielo stellato. Mito, irrequieta, si rialzò e riprese a camminare tra i vasi di petunie, poi continuò: «Io comincio a star bene qui, intendo con questa gente. Sono sicura che videndo in questo paese riuscirei a dare un significato alla mia vita. Malgrado la nostalgia per il mio paese e per la mia famiglia, mi accorgo che quel modo di vivere non mi appartiene più. Lo so, ci vuole coraggio per rimanere. Le donne, più degli uomini, hanno legami a cui non possono rinunciare, io stessa sono sicura che non potrei lasciare la mia casa, il mio paese, se avessi là un figlio che


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mi aspetta. Da quando sono qui in Colombia quante volte ho rischiato la vita? La domanda rimase senza risposta. I capelli le coprivano parte del viso delicato e forse per quella libera e sincera manifestazione dei suoi sentimenti, ora, seduta sull’altra sedia a dondolo rimasta vuota, appariva distesa.


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Cosa poteva esserci nel cimitero di Santa Cruz, se non il corpo di Greg Barlow? Manuel era scattato in piedi a quel pensiero e uscì di corsa, sbattendosi la porta del Vega alle spalle. Ma appena fuori, si fermò, i battiti del cuore erano a cento. Ansimava come una vaporiera. Rilesse, con le mani tremanti, il biglietto che il ragazzino gli aveva consegnato. Troverai quello che cerchi al cimitero di Santa Cruz . Chi glielo aveva mandato? Era buio e tirava un vento che piegava i rami acerbi dei pochi platani sulla via. Si guardò attorno. Nessuno. Dietro di lui, lo fece sobbalzare la porta del locale che si era spalancata. Qualcuno aveva scaraventato fuori, sul marciapiede, una puttana di colore, gli occhi pesantemente truccati, un vistoso rossetto marrone che coloriva due labbra tumide, tacchi a spillo di vernice rossa e una minigonna all’inguine. Un tacco le si era infilato nella fessura di un tombino, la donna vacillò, cadde a terra e bestemmiò. Stessa sorte, qualche secondo dopo, toccò all’uomo che le stava dietro e che aveva l’aria di essere il suo pappone bianco, un bianco di mezza età dalla faccia tonda a palla, la camicia sbrindellata fuori dei pantaloni e aperta sul petto villoso . Erano ambedue ubriachi fradici e malfermi sulle ginocchia. Per poco non avevano travolto Manuel, a cui non fecero caso, poi attraversarono la via, inciampando e imprecando. L’uomo si reggeva alla spalla di lei che lo investiva di frasi indecifrabili, probabilmente volgari, finché le sagome e le loro grida si persero nel buio. Manuel era rimasto immobile col fiato che gli si era mozzato in gola.


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Si alzò il bavero e si abbottonò la giacca, ancora tremante. Se non parlava di Greg quel biglietto, di chi parlava? E se fosse una trappola? cominciava ad assalirlo la sindrome delle Gambe Inquiete. Una voce in lui diceva, non ti fidare, vai per la tua strada, ma la sua coscienza gli tirava la giacca, se parla di Greg, non te lo perdonerò. Batteva i denti, non sapeva se per il freddo o per altro. Il cimitero distava appena un chilometro dalla città. Non è lontano, si disse. Ma era buio, erano le nove e c’era un vento gelido. I battiti del cuore erano a trecento. La Taunus celeste che gli avevano prestato al vescovado era dall’altra parte della strada. La raggiunse di corsa, deciso a recarsi al cimitero. Si catapultò dentro e, dopo due tentativi andati a vuoto, infilò la chiavetta nell’avviamento. Finalmente, l’auto si mise in moto. Innestò la marcia, ma la marcia grattò, l’ennesimo tentativo e le ruote girarono e la Taunus partì sgommando. I fanali delle auto che incrociava erano strisce di luce. Percorse la strada dritta a sessanta chilometri all’ora, poi girò a destra e fu subito periferia. Due abbaglianti, dietro, nello specchietto retrovisore, lo accecarono, seguendo a distanza di due auto. Il cuore gli andava a mille. Manuel sentì vacillare la risolutezza di poco prima, ci ripensò, ma ormai era quasi arrivato. L’auto che aveva dietro era scomparsa. Si rincuorò, risalì la strada, ora aveva di fronte il muro di cinta del cimitero. Rallentò e parcheggiò. Spense i fari e si abbandonò un attimo sul sedile, tentando di portare il respiro alla normalità. Accese la radio, rock radiofonico, trovò le Black Sisters, cinque voci a cappella. Le cinque voci, suadenti, lo calmarono. Spense il motore e, nel buio fitto che lo circondava, scorse solo la luce accesa in una casupola all’ingresso del cimitero. Doveva essere, quella, la casa del custode. Il cancello era serrato con catena e lucchetto.


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Scese dalla Taunus e, camminando fuori dal fascio di luce della casa, la superò, il custode non lo avrebbe potuto notare col buio che c’era. Manuel, rasente al muro, raggiunse il retro del camposanto, dove vide un vecchio portone con i battenti appena accostati. Un gradino a scendere gli diede accesso al cimitero. Manuel non sapeva perché fosse attirato da quel posto, ma ne era al contempo impaurito. Il vento disperdeva un groviglio di sterpi, i cipressi ondeggiavano come fossero fuscelli. Proseguì ugualmente sul vialetto di ghiaia, in fondo al quale si trovava un laghetto circondato da quattro statue. Il suo polso era impazzito. Lo scricchiolio dei suoi stessi passi sulla ghiaia e lo scroscio della fontana gli fecero per un momento temere che ci fosse qualcuno dietro di lui. Ma era solo tra tombe e croci, vento e buio. Le foglie percorrevano il vialetto a volo radente. Non accadeva nulla. Non vedeva niente di anomalo. Perlustrò i brevi spazi tra una cappella e l’altra, ma nessuno vi era nascosto. Non sapeva quanto tempo fosse passato. Quasi sollevato, meditava di tornare indietro a mani vuote, quando un’ombra lungo il muro di cinta si mosse. D’istinto, gli venne voglia di fuggire, qualcosa gli diceva che doveva filar via di lì il più in fretta possibile. Si strinse nel cappotto, quasi questo potesse nasconderlo. «Manuel! Dai, sappiamo che sei lì, non giochiamo a nascondino.» Una voce roca alla sua destra gli si rivolse. Il respiro gli si bloccò in gola. Rojo capì che si trovava nei guai. Ebbe un vuoto allo stomaco. Un’altra, alla sua sinistra, disse qualcosa: «Non ti preoccupare, Manuel, vogliamo sapere solo a che gioco stai giocando. Esci Manuel, parliamo.» Rojo non aveva scampo, uscì allo scoperto. Erano in tre, tre ombre di cui distingueva solo le sagome, due alti e uno bassotto, non riusciva a vederli in faccia.


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«Bravo, Manuel» udì ancora, poi si sentì afferrare. Una mano lo spintonò, la mano di un altro lo perquisì, gli tastò l’inguine, gli tirò fuori dei pantaloni la camicia. Puzzavano, il loro alito odorava di popcorn e gin. Un pugno lo colpì. Rojo cadde a terra, si raggomitolò su se stesso e trasse un respiro, poi alzò la testa. Le voci e le sagome, nel buio profondo, non gli suggerivano niente. Il bassotto non aveva ancora parlato. Gli parve che quello che lo aveva perquisito avesse la barba. Vide le sue mani prendere una colt e togliere cinque proiettili lasciandone uno in canna. Questi chiuse il tamburo, puntò la pistola contro la sua testa e premette il grilletto. Il cane scattò a vuoto. Rojo singhiozzò e trasse un respiro. «No!» implorò. L’uomo che non aveva mai parlato lo afferrò per la cravatta e lo trascinò. Ricadde a terra. L’altro parlò: «Perché cerchi Barlow? Barlow non c’è.» Rojo inghiottì a vuoto. «No… Perché lo avete fatto fuori?» «Diciamo… un incidente. Ma la colpa è tua, Manuel. Tu sei il responsabile di quello che è successo. Se non ci avessi sviato… Manuel Manuel…» Rojo tossì. «Non sono stato io a depistarvi… Barlow ha cambiato programma all’ultimo momento … Insomma io non c’entro niente. Mi dovete credere…!» «Ma noi ti crediamo, Manuel. Davvero. Solo che noi ti avevamo detto che volevamo Mantega, e tu ci hai dato Barlow, eravamo stati chiari. Come lo spieghi lo scambio di persona? Sei ancora con noi o contro di noi?» Manuel frignava: «Ma non ha senso, vi assicuro che Mantega non c’entrava niente, avete preso un granchio…» «Sì, abbiamo capito. Tu non c’entri, Mantega non c’entra , nessuno c’entra. Manuel, tu dovevi solo attenerti a quello che ti era stato


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ordinato. Ti rendi conto che sono i tuoi pretesti a non avere senso? E dire che avresti potuto fare una vita da nababbo per il resto dei tuoi giorni.» Manuel scosse il capo. L’uomo con la barba ag itò davanti a lui la colt facendone ruotare il tamburo. Prese di mira sua testa e premette il grilletto. L’arma scattò a vuoto. Manuel salmodiava: «No per pietà, farò tutto quello che volete…!» Il più basso dei tre lo prese per il collo tenendolo stretto. Adesso Manuel vedeva bene l’altro a non più di due metri. Aveva due cicatrici a mezzaluna sulla guancia sinistra. «Avevi preso il mondo per le palle, potevi sistemare la fattoria di tuo padre e dare un futuro a tua sorella. Peccato Manuel, peccato veramente» continuò quello che aveva fatto il giochetto con la colt. Manuel tentò

di svincolarsi,

quelle

parole

lo

avevano

fatto

imbestialire. L’uomo con le cicatrici gli mollò un manrovescio. Gli parve che la testa andasse in mille pezzi, vide tante stelline colorate. «Adesso è troppo tardi Manuel» aggiunse alle parole del compagno e sfilò dalla giacca un’Uzi-Imi con silenziatore scaricadogli un colpo sulla coscia. Manuel lanciò un urlo, imprecò e si accasciò a terra tenendosi a due mani la gamba ferita. «Potevi fare un sacco di soldi e sistemarti con la fattoria. Poteva diventare, quella, un modello di fattoria.» «Le daremo fuoco.» «Hai inquadrato la situazione?» Manuel produsse un gemito muto dietro il fiato che gli mancava. Il primo che aveva parlato concluse in modo spicciativo: «Animo, i tuoi problemi stanno per finire Manuel… Recita un kirie eleison.» «No, no» disse Manuel con il viso contratto da una smorfia supplice.


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L’uomo che non aveva mai aperto bocca, il bassotto, si sfilò un coltello da dietro e avanzò contro di lui, afferrandolo per i capelli. «No» disse ancora Manuel. Salmodiò tanti no, no, no e tutto poi finì.


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Mito in quei giorni lavorava senza sosta. Aveva ascoltato persone e conosciuto famiglie. Donne e uomini le avevano raccontato la loro storia. Erano storie di gente che era sempre vissuta con poche cose, gente che parlava di una guerra il cui inizio si perdeva nella notte dei tempi, attraversata da devastazioni e tragedie individuali per la perdita di un marito, di un figlio o di una madre. Mito aveva incontrato giovani nei cui occhi si leggeva la rabbia per i soprusi subiti e la forte volontà di resistere. Aveva parlato con madri che piangevano i figli perduti in guerra, con altre in ansia per chi non è mai al sicuro pur reclutato nell’esercito colombiano, la vita giocata in equilibrio sulla punta di uno spillo. Donne che si disperavano per il timore di non rivedere familiari arruolati con la guerriglia, lassù, sulla cordigliera. Aveva intervistato molta gente dell’anexo e svolgeva il suo lavoro di cronista alternandolo a quello in supporto all’organizzazione della carovana alla quale si dedicavano anche lì tante persone con grande impegno. Raff sarebbe rimasto in città, ospite di Faustino e di sua madre, mentre Mito aveva deciso: sarebbe tornata a San Antonio con Calixto, attesi da monsignor Lamar e dalla comunità impegnata anch’essa per la marcia della pace. Al loro arrivo, appresero con compiacimento che attorno all’iniziativa c’era grande fermento. L’eco del progetto si era diffuso ormai in larga parte del Paese e aveva coinvolto anche molte organizzazioni umanitarie. Si era riacceso l’interesse dei media. Radio, televisioni e giornali avevano iniziato a darne conto. Nello stesso tempo, si era ricominciato a parlare dell’uccisione dell’inviato speciale americano


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Greg Barlow da parte dell’esercito, e dell’omicidio, ancora misterioso, del giornalista colombiano Manuel Rojo. Liam Neik si era fatto vivo. Il congresso americano, aveva detto, stava trattando nuovamente la sporca faccenda dell’assassinio di Barlow, così era considerato. L’impegno finanziario del Plan era stato messo in discussione, sebbene di quell’omicidio l’amministrazione americana ne fosse stata informata da tempo. Di tutto ciò Neik aveva parlato a Mito Amarante. Glielo aveva promesso, l’America non avrebbe dimenticato i suoi figli e, per quanto lo riguardava, lui era stato di parola. Si era dato da fare, accidenti se si era dato da fare! Aveva smosso mare e monti e non avrebbe permesso che su quell’episodio calasse il silenzio. Inoltre, aveva preso contatti con le agenzie di stampa più importanti, aveva parlato con responsabili delle più influenti reti di comunicazione e il risalto mediatico che era stato riservato a quell’episodio, certo, avrebbe dato il risultato desiderato. Non c’era giornale o notiziario in ogni angolo del globo che non ne parlasse

ancora.

Le

news

americane

soprattutto

insistevano

sull’indegna fine del loro connazionale e sullo scandaloso uso che l’esercito colombiano faceva delle armi, mentre i servizi di Raff Mantega e di Mito Amarante cominciavano a circolare sui quotidiani e sui magazines. Il congresso si era spinto a minacciare il congelamento dei finanziamenti del Plan e il presidente della Colombia, Alvaro Velez, aveva cercato di minimizzare, prendendo tempo con evidente imbarazzo. Neik riferì che le autorità colombiane non sapevano cosa rispondere, che si erano spaventate alla minaccia, temendo di sospendere i fondi stanziati. Ma, malgrado ciò, le indagini non andavano avanti, buio completo. Pareva che nessuno sapesse quale fine avesse fatto il corpo


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di Barlow. Neik riferì che era al corrente della tragica fine del cronista colombiano e sapeva del fatto che i due giornalisti stessero aiutando il vescovo di San Antonio nell’organizzazione della marcia della pace. Era anche venuto a conoscenza dei problemi che Blasco aveva creato a Raff per il servizio fotografico. Le poche fotografie fatte e inviategli da Mantega, aveva assicurato Neik, erano già state pubblicate su vari giornali. La megalomania del comandante pàras pluriricercato poteva ritenersi per un po’ acquietata e Raff non avrebbe dovuto temere fastidi. D’altra parte, quelle foto erano del tutto innocue, non procuravano alcun fastidio al governo. «Hai fatto un lavoro eccellente» aveva detto Liam. «Raff vai avanti così, ma ricordati che questo è un momento molto delicato. Vedete tutti e due di non fare sciocchezze e pensate solo al lavoro, lasciate che siano le autorità locali a scovare gli assassini di Rojo.» Raff e Mito si erano resi conto che in Colombia si leggeva e si vedeva solo ciò che il governo colombiano, a dispetto di ogni apparenza, voleva far leggere e far vedere. Avevano però verificato che l’efficienza di Liam Neik e l’appoggio del Chicago Tribune avevano prodotto qualche risultato, arrivando anche fuori degli Stati Uniti e risvegliando l’animo patriottico americano. Intanto

a

San

mobilitazione.

In

Antonio pochi

si

viveva

giorni,

le

l’atmosfera

della

organizzazioni

grande

umanitarie,

provenienti da tutto il mondo, in una gara di solidarietà straordinaria, avevano raccolto viveri di prima necessità e medicinali, era arrivato persino un ospedale da campo perfettamente funzionante. In meno di un mese era stata raccolta roba sufficiente a riempire cinque tir e tre vagoni ferroviari. In un Paese dominato dai signori della guerra e della


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droga, una volta tanto, l’intervento diretto della popolazione sembrava aver ragione sulle armi e sulla violenza. Le abituali prepotenze di quei signori sembravano fossero state messe a dormire.


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Sdraiata sul sedile dell’auto guidata da Calixto, Mito espresse soddisfazione. «Sembra una festa di popolo.» Era proprio così, tutta la città di San Antonio era in festa. I balconi e le fin estre erano addobbati con drappi colorati. Ogni genere di mezzi di locomozione, automobili, camion, biciclette, carrette era pronto alla partenza, e una fiumana di gente, che avrebbe seguito a piedi, invadeva la via principale. La carovana partì tra uno sventolio di bandiere colombiane e fazzoletti colorati. Gli alberi erano adornati con stoffe dai colori sgargianti. La gente arrivava da ogni parte agitando al vento la bandiera nazionale. Cantava, ballava e discuteva, nessuno gridava slogan, niente troupe televisive che seguivano il corteo, si udiva di quando in quando lo strombazzare di qualche auto e lo scampanellio delle biciclette al seguito. Al transito del corteo, le persone assiepate applaudivano, agitando qualsiasi cencio colorato avessero in mano. Tetti cenerini di modeste case, simili queste, a vecchie cataste di legno, erano coperti in segno di pace da rami d’ulivo, mentre dalle finestre pendevano grandi teli rossi ricamati. L’auto di Calixto aveva lasciato la città da almeno un’ora. Per l’andatura lenta della carovana sarebbero arrivati a Nuova Merida nel primo pomeriggio. Erano a circa un paio di chilometri dal centro, quando un posto di blocco impedì al convoglio di proseguire. «Sono guerriglieri» disse Calixto.


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Ci furono momenti di incertezza, ma nessun segno di nervosismo, né di allarme si diffuse tra la gente che ne approfittò per riposarsi e dissetarsi. Alcuni continuarono a cantare. I capigruppo raggiunsero i guerriglieri che si mostravano tranquilli con le canne dei kalashnikov rivolte all’ingiù. La suoneria del satellitare di Mito squillò. Era Raff che chiamava. «Tutto bene lì?» chiese subito Mito. Raff rispose con una domanda. «A che distanza siete dalla città?» La sua voce giungeva limpida e chiara. «Ci siamo, finalmente. Appena superato un check-point delle FARC arriveremo a San Felipe.» «È rischioso proseguire…» Mito sentì giungere nitida e forte, dall’altro capo dell’apparecchio, l’eco di una potente esplosione. Il suo orecchio ne rimbombò. Spaventata, chiamò Raff più volte invano. Calixto si voltò verso di lei preoccupato. «Che cosa succede?» Mito non lo sapeva. Tutti i tentativi di riprendere il collegamento con Raff andarono a vuoto. Trascorsero altri quaranta interminabili minuti di attesa snervante, il blocco al check-point durava a lungo, finché il cellulare le restituì la sua voce. «Mito mi senti?…» Lei si rassicurò. Raff parlava tranquillo. «Abbiamo problemi qui, i paramilitari delle AUC hanno attaccato la città. L’anexo di San Felipe è stato messo sotto assedio, ma è presidiato all’interno dalla guerriglia che protegge gli abitanti. Nel resto della città ci sono combattimenti tra pàras e FARC. Ci sono posti di blocco dappertutto. Girare per le strade è rischioso. L’esplosione che certamente hai sentito è stata causata dal lancio di una granata.» «Stai lontano dai guai, Raff, sono in pena per te. Questo, proprio non ci voleva» disse quasi a se stessa. «Che cosa succederà ora alla


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carovana? I capigruppo sono ora al check-point. Certo, se in città sparano, tutta questa gente correrà dei grossi pericoli, ma gli aiuti devono arrivare all’anexo.» «Sì, qui è una vera e propria guerra. Questi non scherzano, te lo assicuro. Ho un mucchio di lavoro da fare adesso. Ti lascio, ma teniamoci in contatto, per quanto possibile. E non preoccuparti per me, saprò cavarmela.» Mito riferì a Calixto quanto le aveva detto Raff. L’attesa al checkpoint perdurava, i minuti passavano e la situazione non si sbloccava. Scesero dall’auto e si diressero al posto di blocco. Lì vennero a sapere che i guerriglieri avrebbero consentito il passaggio solo ai tir. «Tutti gli altri devono tornare indietro, gli autotreni saranno scortati da noi» stava dicendo un giovane di colore dal fisico mingherlino, che sembrava quello che impartiva gli ordini. I guerriglieri, una decina circa, non avevano divisa, vestivano con logori, sporchi pantaloni di tela e con t-short colorate che pubblicizzavano qualche marca dell’impero consumistico americano, erano armati fino ai denti di kalashnikov, cartucciera a tracolla e rivoltelle. Altri indossavano speciali giubbe con le tasche piene di caricatori e di bombe a mano. Alla fine, dopo una lunga trattativa, fu accordato loro che una parte della colonna seguisse gli autocarri fino a destinazione per la consegna dei viveri e dei medicinali. Fu allora che Mito si avvicinò al capo. Spiegò che era l’unica giornalista straniera accreditata, aveva uno speciale lasciapassare del vescovo di San Antonio. Doveva entrare con la carovana perché la sua presenza sarebbe stata necessaria per documentare quel che stava succedendo a Nuova Merida. L’uomo la squadrò con piglio severo e diffidente. Non disse niente, non sembrava convinto. Chiamò due suoi compagni con cui si allontanò sotto una piccola tettoia distante qualche passo. Fecero


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capannello, discussero, prima tranquillamente, poi il confronto si accese e le voci si alzarono. A Mito, quegli istanti parvero un’eternità. La disputa durò poco, per fortuna. Il mingherlino di colore prese in mano la situazione. Si fece portare un telefono cellulare, compose un numero e parlottò con qualcuno comunicando, infine, a Mito la decisione. «Okay, puoi andare anche tu.» Mito tirò un sospiro di sollievo. Tuttavia, il divieto di proseguire tutti aveva compromesso la buona riuscita della marcia. La maggior parte delle persone dovettero fare dietro front con gran malcontento di molti. Ci furono resistenze e proteste di chi, per una volta nella vita, aveva puntato su quel programma per fare sentire le proprie idee e ragioni, solidale con i cittadini di Nuova Merida. Alla fine, però, prevalse il buon senso, giacché ognuno si rese conto che, se avesse insistito per proseguire, avrebbe potuto mettere a repentaglio la vita. Furono alzate le sbarre e spostati i veicoli che intralciavano il passaggio ai tir. Due auto con i rappresentanti della carovana passarono, precedute dalle jeep dei guerriglieri, seguiti dal convoglio. Attraverso stradine di campagna e imbattendosi in parecchi controlli di giovani in armi, raggiunsero il centro della città, senza poter proseguire. Mito e Calixto decisero di andare avanti, a proprio rischio e pericolo, sino a San Felipe. Avrebbero potuto esserci cecchini, imbattersi in una pattuglia di pàras o di guerriglieri non informati del loro passaggio. Mito espose sul parabrezza dell’auto un grande cartello con la scritta PRENSA e si addentrarono nella città vuota, trovando il consueto scenario di distruzione e di morte. Fumo e odore di polvere da sparo impregnavano l’aria, macerie ovunque, qua e là focolai ancora accesi. Furono fermati da una pattuglia di guerriglieri per l’ennesimo


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controllo. Calixto iniziò a innervosirsi. «Saremmo dovuti rimanere con le FARC e aspettare che cessasse l’assedio.» «E se l’assedio andasse per le lunghe e Blasco occupasse la città?» replicò Mito. «No, dobbiamo raggiungere l’anexo e io devo trovare Raff. Se non eri tanto convinto, perché sei venuto con me?» Non aspettò la risposta di Calixto e tentò di nuovo di mettersi in contatto con Raff, senza alcu risultato. Si rimisero presto in marcia e volarono via per altri quattro, cinque chilometri in direzione dell’anexo, l’auto mordeva la strada, quando un gruppo di uomini armati apparve loro davanti all’improvviso. Il contachilometri segnava ottantacinque. «Aaaaaalt!!» Calixto, pregando la vergine maria, pigiò con forza il freno, pronto al peggio. Mito ancorò le mani alla plancia, strizzò gli occhi e sentì il cuore uscirle dal petto. L’auto sbandò con un testa -coda, mentre le ruote bloccate sollevarono una grande nuvola di polvere rossiccia che invase l’area circostante. I loro corpi ondeggiarono prima a destra e poi a sinistra. L’auto infine si piantò al suolo e loro trassero un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, la polvere cominciò a disperdersi, ma oltre la polvere c’erano ancora guerriglieri. A Calixto scappò un’imprecazione. Il check-point era nascosto dietro una montagnola di grandi massi a far da barriera in modo da costringere qualunque veicolo a rallentare. Calixto si era accorto dell’ostacolo solo all’urlo dell’uomo che ora, fermo a gambe larghe davanti all’auto, puntava un kalashnikov contro di lui. Un brivido gli attraversò la schiena e gli parve che tutti i suoi brutti presentimenti stessero per avverarsi. «Cabron! Perché non ti fermi?» gridò uno sui vent’anni, un


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mezzosangue dai capelli neri e lunghi e il viso butterato, mentre gli faceva ballare la bocca della canna del mitra a un palmo dal naso. «Ringrazia che qualche fesso laggiù ha esitato perché ha visto il cartello PRENSA. Io ti avrei sparato!» Schiumava rabbia. «Questi hanno l’ordine di s parare» urlò ancora indicando la decina di suoi compagni che erano dietro i massi in assetto di guerra. Calixto tremava che le ossa gli si facevano d’acqua, e non aprì bocca. Tutto si era svolto così velocemente che Mito, in quei trenta secondi non ebbe nemmeno il tempo di rendersi bene conto del grave pericolo corso. Determinata a non cedere, si preparò ad affrontare quei guerriglieri incazzati. Aveva capito che le loro intenzioni non erano violente e intervenne per far breccia nella tolleranza del giovane . Ripeté il tema che era diventato il suo strumento per convincere: avrebbe scritto e diffuso, quale testimone, della lotta contro le sopraffazioni che il loro popolo stava sostenendo. Sarebbe stato dunque assai utile il loro aiuto, ed eventualmente una sc orta per arrivare dove erano in atto i combattimenti. Là avrebbe trovato, certo, un collega fotoreporter

con

cui

lei

lavorava,

che

doveva

assolutamente

raggiungere. Quelli le credettero. Il giovane mezzosangue, vedendola così risoluta, acconsentì. Le disse di attendere e, dopo qualche istante, lui stesso salì sull’auto con loro. Tre minuti e arrivarono in una piazza vastissima e alberata, circondata da panchine in ferro battuto. Era in corso un furioso scontro tra le FARC e i pàras asserragliati in una palazzina, sede della prefettura. Mito riprovò invano a telefonare a Raff, il cellulare non dava alcun segnale. Il loro accompagnatore scese dall’auto.


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«Io sono arrivato» disse. «Per l’anexo dovete superare la piazza, prendere la Via Grande e proseguire dritti. Hasta luego…» salutò e si aggregò a un gruppo di guerriglieri intenti a controllare l’avanzare di due camion provenienti da una strada laterale. Fu comandato lo stop per identificarlo al primo degli automezzi che procedeva verso di loro. Sotto gli occhi di Mito e di Calixto, tutto si svolse in dieci secondi. L’uomo accanto all’autista del camion aveva estratto una pistola e fatto fuoco contro il giovane mezzosangue dai capelli lunghi e neri che cadde

fulminato.

Confusione,

urla,

strepiti.

Il

camion

ripa rtì

accelerando violentemente, s’infilò nel portone della prefettura, che fu subito sprangato, e scomparve dentro. Mito ne dedusse che i pàras erano barricati nell’edificio. Resistevano ai ribelli che, ora più che mai, erano decisi a vendere cara la pelle. Si alzò un fuoco rabbioso contro la palazzina. Dagli altri quartieri, richiamati dall’intensificarsi del crepitio delle armi, accorsero altri guerriglieri cui si erano uniti civili che si appostavano agli angoli delle vie che immettevano nella piazza, ora occupata da un gran numero di uomini della FARC. Da ogni direzione arrivavano spari, da dietro gli alberi, dai tetti e dalle finestre delle case circostanti. In poco tempo la piazza fu attraversata da migliaia e migliaia di pallottole che fischiavano nelle orecchie, scheggiando il terreno e la corteccia delle piante, rimbalzando sul ferro delle panchine, spezzando rami. La facciata della prefettura fu ridotta a gruviera. In mezzo alla polvere e al fumo, Mito intravide Raff Mantega che correva, piegato in due. Attraversava la piazza con le sue macchine fotografiche che gli ballonzolavano sul ventre. Arrivò incolume al riparo della prefettura, caricò la fotocamera e prese a fotografare. Mito si chiese se, in quel momento, fosse prudente lasciarlo fare, ma rimase incerta solo un istante. Incurante di Calixto che, sorpreso, non fece in


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tempo a trattenerla, si mise il taccuino in tasca, si buttò fuori della macchina e, di corsa, attraversò la piazza. Le venne da sorridere tra sé e sé. In alcuni momenti aveva giudicato Raff un cinico, interessato solo al successo, ma si sbagliava. Adesso erano loro gli unici giornalisti stranieri che rischiavano la vita in quel fottuto posto. Aveva pensato male di Raff, era stata ingiusta, anche se, malgrado ciò, ne era stata attratta, come la luna al suo pianeta. Aveva ragione Greg, quando le aveva detto che era un ottimo professionista, anzi no, era qualcosa di più, era un uomo sensibile, cui avrebbe affidato la sua vita, se fosse stato necessario. Raff ora le era distante a non più di trenta, quaranta metri, ma non poteva vederla. A ridosso del muro della palazzina, dietro a un albero, continuava a scattare foto. Mito lo vide spostarsi correndo alla volta del gruppo di guerriglieri riparati dove erano più fitti gli alberi. Egli si muoveva

in

continuazione per riprendere

lo scontro da ogni

angolazione. Poi ad un tratto, Mito lo perdette di vista. Guardò l’orologio. Era da circa tre ore in città e non si era resa conto di quanto tempo fosse passato. I mitra latravano senza interruzione, mentre i guerriglieri tentavano di raggiungere il portone dell’edificio prefettizio a colpi di bombe a mano. Arrivarono altri tre camion, un pick-up con un mortaio sul cassone e una jeep che con una manovra spericolata irruppero nella piazza, creando panico tra le persone che, in parte, si dispersero nelle vie adiacenti. Dal mortaio partirono due, tre colpi ad alzo zero verso la facciata della prefettura. Mito si chiese che fine avesse fatto Raff, era passata un’altra ora e non sapeva più nulla di lu i. Nascosta tra un albero e una panchina assisteva a quelle scene di guerriglia quasi senza rendersi conto del rischio. Poi, con un buon grado d’incoscienza, tentò di avvicinarsi all’edificio prefettizio dove un gruppo di giovani erano pronti all’assalto. Fece loro domande,


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s’informò, chiese se avevano veduto un fotoreporter, lo descrisse. Nessuno le dava retta, finché uno le riferì di un uomo ferito e portato via in ambulanza. Le passò un brivido lungo la schiena. Spaventata, riattraversò di corsa il tratto di piazza scoperto, le ginocchia le tremavano, doveva raggiungere la macchina di Calixto, che trovò acconigliato sul sedile. Questi, appena la vide apparire, la apostrofò: «Ma sei impazzita! Non devi avere il cervello a posto, tu! Ti rendi conto del pericolo che hai corso?» Mito non gli rispose, le premeva scoprire cosa fosse accaduto a Raff. Aveva sperato che, vedendo la macchina con il cartello PRENSA, egli vi avesse potuto trovar rifugio, ma Raff non c’era e Calixto non l’aveva visto. La battaglia a tratti scemava d’intensità per riprendere poco dopo più furiosa. Dai vari angoli, da dietro gli alberi, dai tetti, da ogni possibile riparo, i guerriglieri si muovevano per l’attacco al portone della prefettura. Erano ragazzi, quasi tutti giovanissimi, scagliavano bombe a mano a ciclo continuo, ma molte non esplodevano. Finalmente il portone saltò. I più audaci si gettarono dentro, seguiti dagli altri, mentre la folla, che sembrava impazzita, invadeva la piazza dalle vie laterali. Poco dopo uscirono dalle case, sanguinanti e barcollanti, quattro, sei, dodici, forse venti paramilitari circondati stretti dai guerriglieri che, per quanto eccitati loro stessi, tentarono di sottrarli alla furia della popolazione. Fu allora che Mito rivide spuntare Raff in mezzo alla calca urlante. Sporco e malconcio, al collo la sua nikon, non smetteva di scattare fotografie a raffica. Mito agitò le braccia, chiamandolo più volte a gran voce, finché egli si voltò. Gli vide gli occhi azzurro mare illuminarsi come il sole dopo una notte burrascosa. «C’è l’ho fatta!» le gridò Raff di lontano. Lei gli si precipitò incontro


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dopo tanta paura e, poco dopo, si ritrovarono abbracciati, mentre lui, baciandola, le diceva: ÂŤSei indenne, tutto bene?Âť


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Raff, nell’attesa della carovana proveniente da San Antonio, aveva deciso di scoprire chi fossero quei ragazzini dall’apparente età di undici, dodici anni, che aveva visto aggirarsi armati per le strade di Nuova Merida. L’immagine dei bambini-soldati gli era ritornata davanti agli occhi una sera a tavola, durante una conversazione con Faustino, mentre la madre Maria era intenta a servire la cena. «Noi contadini,» sosteneva con vigore Faustino, «ci guadagniamo quattro, cinque volte di più, vendendo coca anziché ba nane, ananas o, peggio, caffè. Ci spacchiamo la schiena comunque, ma con la coca almeno ci campiamo.» «Tu la coltivi la coca?» domandò Raff. Il giovane scrollò il capo. «Non lo faccio, perché non ho la terra. Tutti i contadini che hanno un po’ di terreno la coltivano. Io sono un bracciante. Mio cugino, che è proprietario di terra a quindici chilometri dal villaggio, la lavora. Tutti i contadini di questa zona vendono la coca alle FARC, che poi la smistano in città e in tutta la regione. Io aiuto mio cugino nelle consegne.» «Quindi le FARC forniscono la coca in ogni zona?» «Proprio così. Raffinarla e rivenderla è compito delle FARC. Dalle autorità questo è considerato un reato ed è perciò anche più rischioso.» «E la polizia che fa? Non c’è pericolo che v’imba ttiate in qualche posto di blocco?» «Certo, il rischio è tanto, ma per aggirarlo, ci sono le staffette. È per questo che le FARC ingaggiano i ragazzini. Vengono da noi ogni due o


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tre giorni, ritirano il carico e vanno via perché passano più inosservati. Finora ha funzionato, anche perché, essendo agili e resistenti alla fatica, per arrivare al campo prendono scorciatoie e strade impervie poco frequentate.» «Ho visto parecchi bambini in città, tutti con le armi. Da dove arrivano?» Maria era entrata nella piccola stanza da pranzo con le scodelle di zuppa calda a base di fagioli e si apprestò a servire i due uomini. Aveva udito quel che avevano detto, pose la zuppiera sulla tavola e disse la sua. «Quelli che vengono dalle montagne qua attorno fanno parte della guerriglia.» Parlava con il suo personalissimo timbro di voce rauco, agitando l'indice. «Ogni tanto scendono in città per fare rifornimento di viveri, oppure per prepararsi a qualche azione. Poco tempo fa ho ospitato un ragazzo e suo fratello di undici anni che era stato ferito dopo uno scontro con i pàras di Blasco. Povera creatura! Tremava tutto, aveva la gamba maciullata… Era ubriaco, stracotto, e mi supplicava di dargli le foglie di coca. Tutti noi mangiamo foglie di coca , soprattutto quando la fame si fa sentire.» Era la seconda volta che Raff sentiva parlare di persone ferite a cui la donna aveva prestato aiuto. Maria doveva essere una specie di guaritrice alla quale lui avrebbe affidato la sua Dora, gli venne da pensare. Strani pensieri. Dora, il fornitore colombiano, la cocaina… La droga era sempre al centro di tutto. Questa gente campava grazie alla coca e, a causa di essa, in un’altra parte del mondo, altri crepavano. Raff scosse il capo. Ripeté ad alta voce il concetto: «Mi chiedo come potete sperare di portare avanti la vostra lotta di liberazione, se non tentate di debellare questa maledetta piaga della droga. Giurerei che


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anche quei bambini che ho visto per strada sono strafatti, forse per provare a campare, per sopravvivere o, come i guerriglieri o i pàras o i soldati, per trovare il coraggio di ammazzare altri esseri umani.» «Stronzate. I soldati, tutti, sono macchine che uccidono» ribatté Faustino con foga. «E i ragazzini vi si trovano costretti in mezzo. La lotta contro la droga… Tutte stronzate.» Raff sentiva a disagio. Si passò la mano sui capelli. Di quando in quando Maria abbandonava i due uomini per tornare in cucina e prendere il pane, l’acqua o un piatto di frittata di verdure a base di carne di capra, che offriva all’ospite. Pose la padella con la frittata sulla tavola perché i due uomini potessero servirsi da soli, poi, in silenzio, si sedette senza condividerne il pasto. Maria era vedova di un contadino ucciso dai paramilitari l’anno della rivolta per la riforma agraria. Era ancora una donna che si dava da fare, ma l’età non le permetteva il lavoro nei campi, a differenza di tante sue amiche più giovani, che si sostituivano agli uomini di casa partiti per la guerra o morti. L’anziana donna sospirò. Le sue labbra si piegarono in un sorriso sardonico. «Oh, la guerra alla droga, sì, quella, te la raccomando, proprio quella che fa il nostro governo. O il governo gringo.» Appoggiò il gomito sulla tavola, la guancia sul palmo della mano e continuò: «Stupidaggini! La guerra alla droga è una scusa dei gringos e del governo colombiano per sottomettere il popolo e reprimere la guerriglia. Con il sangue del popolo, il governo non otterrà alcun risultato! Lo sanno tutti che la povera gente la coltiva da sempre la coca. La coltivavano i nonni dei miei nonni, mio padre e i miei parenti. Ero ancora bambina, quando mia madre per addormentarmi mi cantava una canzone e mi faceva masticare quelle foglie. E così fanno qui tutti i


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genitori con i loro figli, dalla notte dei tempi. E ora la guerriglia ci aiuta a commerciarla per difenderci dalla prepotenza dell’esercito e dei pàras!» Quel torrente di parole stuzzicarono Raff che domandò: «Ma tu, Faustino, saresti in grado di portarmi in uno di questi posti in montagna dove sono asserragliati i guerriglieri?» Faustino ci pensò un po’ su. «Credo di sì. Io conosco ogni palmo di queste montagne e di questi campi. L’importante è non incontrare la polizia, i soldati o i pàras. I contadini da noi stanno tutti con la guerriglia. Sì, credo che lo potrò fare, amico.»


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Un posto sperduto in mezzo a una landa rocciosa, a un’ora di macchina dalla città. Faustino voleva condurre Raff nella regione del Cauca dove agivano le FARC con le quali era in affari. Ci arrivarono percorrendo una pista che si addentrava per chilometri in una vallata bruciata dal sole. Trovarono un posto di blocco controllato dai ribelli e una vecchia sbarra di ferro a impedire l’accesso. Oltre la barriera, vedevano piccole colline desertiche costellate da alte muraglie mimetizza te sullo sfondo di un paesaggio ferrigno, erano casermette e catapecchie d’argilla difese da vecchi carri armati. I guerriglieri salutarono, sorrisero e lasciarono che il Ford Transit passasse. Faustino guidava su mulattiere tortuose. Due chilometri avanti , si fermò nei pressi di una cavità ricavata sul fianco di una montagnola. Da lontano sembrava un tunnel, per il vero era una grotta naturale zeppa di vecchi pezzi di artiglieria e proiettili di granata. Oltre, due container di metallo e una casupola dal tetto di lamiera che doveva servire come posto di guardia. Il Transit percorse un altro mezzo chilometro, arrestandosi infine alla periferia di un paese sperduto, quattro catapecchie in malta di fango e paglia con il tetto di legno nero. Erano a duemila me tri d’altezza tra le montagne del Cauca, territorio degli indigeni Paez. L’aria era limpidissima, due rapaci volavano alti nel cielo blu cobalto. I due uomini si stiracchiarono, scesero dall’auto e proseguirono a piedi. «Sembra che non ci sia anima viva» rilevò Raff. «Questa è terra di nessuno» rispose Faustino. «Chi arriva per primo


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detta legge. Non comandano nemmeno le FARC.» «Ma allora perché siamo venuti qua?» domandò Raff. «Perché in mezzora di macchina arriviamo al campo dei miei amici. Altrimenti, avrei dovuto fare il giro della montagna» rispose Faustino. Raff allargò le braccia. «Beh, che non comandi nessuno, non mi meraviglia. È così desolato questo posto! Ma perché ci siamo fermati?» «Il paese sembra disabitato, in realtà ci vivono gli indios Paez e prima di proseguire è meglio avere il loro okay. Non si sa mai. » «Di questi indios non ne vedo nemmeno l’ombra» considerò Raff guardandosi attorno. «Non capisco, non comanda nessuno, ma mi dici che è meglio averne il benestare…» Faustino lo guardò divertito. «La prudenza non è mai troppa, non l’hai ancora imparato?» Strizzò gli occhi. «Questo sentiero ci porta al centro. Eccolo.» Erano arrivati al centro di uno spiazzo polveroso, di fronte una semplice chiesetta in decadenza, stile spagnolesco, che ricordava certe romite chiese campestri in Sardegna. Era l’unica costruzione di una certa gradevolezza. Il villaggio s’inerpicava poi su per una brulla collinetta,

si

potevano

distinguere

un

piccolo

emporio,

dove

probabilmente si vendeva di tutto, dalle corde di canapa ai fagioli in scatola, una locanda, persino un barbiere. Qualche gatto oziava sui tetti. Due, tre cani ossuti si riparavano all’ombra delle gronde, e nulla più. Faustino aveva voglia di parlare. Parlava e camminava con la sua andatura dinoccolata: «Questo territorio era stato occupato da predoni, banditi che si facevano passare per guerriglieri, ma che non hanno niente a che fare con le FARC o con altre formazioni ribelli. Quelle bande si erano insediate durante una terribile notte a colpi di kalashnikov e di pipas, i terrificanti e rudimentali lanciarazzi che


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sparano bombole di gas riempite di dinamite e pezzi di ferro. Ecco perché è necessario che parliamo con i Paez.» Raff continuava a non capire. Le sue perplessità aumentarono, quando, lasciatasi alle spalle la chiesetta, in prossimità di una pompa di benzina senza padrone, si trovarono la strada sbarrata da due giovani armati di kalashnikov. Uno di loro era poco più che un bambino, poteva avere tredici o quattordici anni. L’altro, forse ventenne, chiese a Raff: «Da dove venite, che cosa ci fate qui?» Raff tentennò prima di rispondere, poi guardò Faustino e infine sbuffò, alzando gli occhi al cielo: «Sono un fotoreporter italiano. Mi piacerebbe parlare con qualcuno che mi indicasse come raggiu ngere il campo della guerriglia e incontrare chi comanda questo territorio… Questo con me si chiama Faustino. Veniamo da Nuova Merida.» «Ah, Nuova Merida! Allora avete incontrato i pàras!» Raff e Faustino si guardarono. «I paramilitari a Nuova Merida?» si stupì Faustino «No, perché? Non ci risulta che in città ci siano paramilitari…» «Gli uomini di Blasco stanno arrivando dappertutto. Quel figlio di puttana ha deciso di conquistare anche San Felipe. Ma nell’anexo ci sono i nostri… Finiremo di scannarlo quel bastardo di Blasco!» inveì il ragazzino. Raff afferrò il braccio di Faustino, strattonandolo. «Allora dobbiamo tornare indietro. È inutile fermarci qui…» ma fu subito interrotto dal più grande dei due giovani. «Lui può aspettarti qui» disse indicando Faustino. «Tu invece vieni con noi al campo per accertamenti.» «Come sarebbe…» protestò Faustino. Il più piccolo si avvicinò a Raff. «Niente paura, prenderà un buon caffè con il comandante Briosh e


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tornerà subito» disse con una vocina che tradiva la verde età. Perché no? pensò Raff, è una fortuna, andiamo a prendere un caffè con il comandante Briosh, un paio di foto, qualche domanda e poi torniamo a Nuova Merida. Ma Faustino si era fatto sospettoso. Lui sapeva chi erano quelli. Non erano le FARC, ma un gruppuscolo, quattro gatti male armati e pericolosi. Vivevano di taglieggi sulla coca e di rapimenti. Aveva sentito parlare di questo comandante Briosh. Un pazzo scatenato peggio di Blasco, guerrigliero fallito che comandava una banda di ragazzini esaltati che uccidevano senza pensarci due volte. Probabilmente, il capo li aveva visti arrivare e aveva ordinato di portargli lo straniero. Faustino, con fare accomodante, cercò di far cambiare idea ai due giovanissimi ribelli. «Perché volete solo lui? È con me, mio ospite. Cercate di comprendere, non posso lasciarlo venir via con voi. » «Con noi sarà al sicuro» rispose il ragazzino. «È solo una visita. Non voleva forse vedere un campo dei guerriglieri? È così che ha detto. Niente paura, prima di sera te lo rimandiamo giù. Promesso.» Sbatté le palpebre e serrò le labbra sottili. Si capiva che tutto era molto improvvisato. Faustino giocò il tutto per tutto. «D’accordo, se proprio volete, fate pure. Però, vengo anch’io con voi.» «No, tu stai qui.» Faustino ridacchiò con i nervi a fior di pelle. «Ragazzi non posso. Questo signore è mio ospite e io sono responsabile della sua sicurezza. Massima fiducia in voi e nel comandante Briosh, ma non posso lasciare solo un ospite, non vi pare?»


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Raff non aveva captato nelle parole di Faustino i segnali di pericolo, perciò intervenne in quel tira e molla: «Per me non c’è nessun problema… vado e torno.» L'amico, alle sue parole, gli lanciò un’occhiataccia che diceva: meno parli meglio è, coglione. Raff deglutì. Discussero, parlamentarono ancora e alla fine i due piccoli guerriglieri accettarono che anche Faustino andasse con loro. Il più giovane camminava davanti, il fucile più grande di lui. Seguivano loro due, e, in coda, il secondo, che aveva l’aria di un servo pastore simile a quelli che Raff conosceva molto bene per averli spesso incontrati nelle campagne della sua terra d’origine, l’Ogliastra. Attraversarono il paese e arrivarono al limitare dei pascoli, quando videro un gruppo di indigeni. Erano gli indios Paez e, in mezzo a loro, Raff riconobbe don Raul, l’Alcade Mayor, che lo aveva accolto a Nuova Merida insieme alla sua gente, e si tranquillizzò. Tra le mani teneva sempre il suo chontas, lo strano bastone multicolore. Nel vederlo, don Raul alzò il bastone in segno di saluto, come aveva già fatto la prima volta che lo aveva incontrato. I giovani guerriglieri esitarono e la piccola colonna si fermò. L’Alcade si avvicinò attorniato dalla solita corte di indios straccioni e di monelli mocciosi. I suoi occhi marrone erano occhi atten ti, che scrutavano dentro, e si sarebbero di certo accorti di un qualche segno di fastidio da parte di Raff o di Faustino se costoro l’avessero appena accennato. Il suo sguardo emanava serenità. Don Raul si lisciò i grossi baffi neri. «Hermanos, buenas dias! Todo bien?» disse in tono tranquillo, rivolto ai giovani guerriglieri i quali risposero con un gesto timido della mano. «Siamo al servizio del comandante Miguel Briosh…» disse il più


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grande dei due, ma fu interrotto dall’Alcade con un sorriso solare, quasi divertito. «Lo so chi siete, lo so» disse, poi continuò educato, ma fermo nella solita parlata a Raff incomprensibile. «Vedete, noi non abbiamo nulla contro la vostra lotta e rispettiamo le vostre idee, ma voi, per favore, rispettate le nostre. Questa è terra Paez da cinquemila anni e noi l’abbiamo sempre difesa. Voi siete persone ben accette, ma capite che dovete essere gentili con gli ospiti, e questi ospiti sono sotto la nostra protezione.» A volte, è più semplice affrontare le pallottole che le parole. I ragazzi, cercando

di

fare

i

duri,

balbettarono

qualcosa,

farfugliarono,

spianarono i mitra, ma niente potevano contro la forza tranquilla di don Raul e delle persone che erano con lui. Non avevano argomenti per rispondere e continuavano a ripetere: «Sono ordini, dobbiamo portare lo straniero al nostro campo.» Don Raul suggerì: «Voi siete soldati, obbedite agli ordini, e questo è giusto. Ma adesso vi si è presentata una nuova situazione. Il comandante non poteva sapere che lo straniero sarebbe stato nostro ospite e che noi garantiamo per lui. Allora, perché non andate a dirglielo e non gli chiedete cosa dovete fare? Lui ha esperienza, saprà decidere per il meglio, che ne dite?» Il più grande alla fine cedette: «Va bene vado io, ma Julio rimane qui con loro.» Julio era il più giovane, un ragazzino dai capelli a spazzola. Nel suo sguardo

si

potevano

ancora

intravedere

le

tracce

dell’incanto

dell’infanzia appena lasciata. Era un indio di quella regione e sentiva forte l’autorità dell’Alcade Mayor. Si sedette in terra a fianco di Raff, mentre il resto della piccola folla e della Guardia Indigena, insieme a Faustino, si era radunato in gruppo a breve distanza.


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Il tempo passava lento. «Come si chiama il tuo amico?» domandò Raff. «Cisco.» «Tu e Cisco state sempre insieme?» «Non sempre. A volte sì, a volte no.» Il soldatino, oltre ad essere nervoso e confuso, era grondante di sudore. Raff mangiò la foglia: «Ascolta, io ho sete. Vado a comprare una pepsi, ne vuoi una anche tu?» Prima che il suo carceriere potesse dire qualcosa, Raff si era già diretto verso la modesta locanda non distante. Tornò poco dopo con due Pepsi. Si sedettero di nuovo sull’erba, all’ombra, mentre la gente li scrutava in silenzio e don Raul chiacchierava con Faustino. I minuti passavano. Raff guardò Julio, la sua mimetica e le bombe a mano nelle tasche sdrucite. Il suo kalashnikov usato era un probabile residuato bellico dell’Angola, fornito dai cubani. Il ragazzo, abbandonata la spavalderia, accortosi dello sguardo indagatore di Raff, ricambiò l’occhiata, come un bambino curioso. «Lo sai che a casa ho un fucile uguale al tuo?» mentì Raff. «Dammelo, che ti faccio vedere una cosa.» Tranquillizzato dal suo tono, Julio gli passò il fucile. Raff lo prese, guardò la canna e il calce di bachelite, controllò la sicura e accennò un sorriso. «Quando facevo il servizio militare, tanti anni fa, mi dettero una settimana di cella di rigore, lo chiamavamo c.p.r., perché mi ero lasciato portar via il fucile dal mio comandante durante l’ispezione al turno di guardia. Me lo aveva chiesto per mettermi alla prova. Tieni, riprenditelo, ma non consegnarlo mai a nessuno. È la tua difesa e il tuo migliore amico. » Julio lo guardò perplesso.


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«Sei stato militare?» chiese. «Sì, ufficiale carrista» rispose Raff, mentendo per la seconda volta. In effetti, era stato solo un semplice furiere di fanteria, per giunta imboscato. Ma la candida ingenuità del suo interlocutore lo autorizzava a raccontargli qualche frottola. L’argomento militare aveva messo a proprio agio il soldatino. «Fai vedere la baionetta.» Julio estrasse la baionetta e, maldestro, gliela allungò dalla parte della punta. Era conciata veramente male, arrugginita e con il filo mal ridotto. «Quanti anni hai?» chiese ancora Raff restituendo la baionetta dalla parte del manico. «Quasi quindici» rispose il giovane che si era accorto del gesto del giornalista nel porgergliela. «E da quanto sei nella guerriglia?» «Da due anni.» «Perché ci sei entrato?» «Sono fuggito da mio padre che mi picchiava tutti i giorni.» «Per questo soltanto…?» Julio abbassò gli occhi. Si vedeva che non aveva più voglia di parlare, forse non c’era abituato. «Mi picchiava con il cordero, anche in testa, mi faceva molto male. Tutte le sere tornava a casa, ubriaco. Picchiava me e mia madre, e anche gli altri tre fratelli, e anche mia sorella…» «Capisco. Ma non ti viene qualche volta la nostalgia di tornare a casa da tua madre e dai tuoi fratelli?» Julio esitò prima di aprire bocca. «Da mia madre, sì. Ma sto bene qui. E poi, qualcuno ci ha pro vato a tornare a casa, perché si era stufato. Ma gli uomini di Briosh l’hanno


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ritrovato subito, e lo hanno fucilato proprio davanti a casa sua. » A Raff vennero in mente le parole di Maria il giorno in cui era stato accolto, e quello che aveva detto don Raul. Rifletté ancora una volta su quella fottuta guerra, in cui si sentiva ormai completamente coinvolto. Pensava non solo alla morte cui tanto frequentemente andava incontro quella gente, ma anche alla devastazione morale e psicologica che la guerra provocava nei ragazzi come lui. Fanculo la guerra. Julio faceva tenerezza e chissà quanti altri vivevano nelle stesse condizioni. Adesso aveva voglia di abbracciare quell’orsacchiotto indio con la zazzera da gringo, le bombe a mano e il kalashnikov con il calcio di bachelite. Avrebbe voluto poterlo portare con sé in Italia, fargli visitare Venezia o Alghero, fargli sentire la musica di Manu Chao, leggergli racconti di avventura e di viaggi, come dovrebbe avvenire per tutti i bambini del mondo. Fanculo la guerra. «Ti disturba se faccio qualche fotografia?» «No, no, non me ne importa niente.» Passarono

così un

paio d’ore, lui che cercava

di distrarlo,

mostrandogli la nikon digitale e la sua immagine nel mirino, e l’altro, il ragazzino soldato con l’aria annoiata, che sembrava non divertirsi a essere fotografato. Alla fine Cisco arrivò. La piccola folla lo circondò, silenziosa. Voleva sentire cosa gli aveva ordinato il capo. «Il comandante Briosh dice che se l’Alcade si prende la responsabilità dello straniero, per lui va bene, che ha la massima fiducia nel giudizio dell’Alcade.» Gli uomini della Guardia Indigena sorrisero, uno di loro diede una pacca sulla spalla a Cisco, mentre Raff stringeva la mano a Julio.


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Sulla strada del ritorno a Nuova Merida, tra Raff e F austino scese il silenzio. Desideravano soltanto arrivare in città il più velocemente possibile. Le parole dei due giovani guerriglieri avevano messo loro addosso un’ansia da cui era difficile venir fuori. Volevano rendersi conto di ciò che stava succedendo, preoccupati per la sorte della carovana, di Mito e, in più, Faustino, per la madre che sperava fosse ancora al sicuro. In prossimità della meta, il Transit incrociò un gran numero di veicoli che, superato l’ultimo posto di blocco, incolonnati, si dirigevano verso la campagna. I guerriglieri si erano ormai radunati alla periferia di Nuova Merida, mentre si sentivano i colpi sparati dai paramilitari di Blasco. Arrivati in città, Nuova Merida apparve loro deserta. Molti erano rimasti chiusi nelle case, ma in tanti l'avevano abbandonata. Scesero dal Transit per guardarsi attorno. Raff si tranquillizzò quando sentì la voce di Mito al cellulare che gli diceva che la carovana era bloccata alle porte della città e che coloro che la guidavano, e che avevano avuto il permesso di passare, non erano ancora al corrente della nuova situazione. Ma mentre Raff stava rispondendo mettendola sull’avviso sui pericoli cui sarebbero potuti andare incontro, la potente esplosione di una granata lacerò l’aria. Raff e Faustino furono scaraventati violentemente a terra dall’onda d’urto, investiti da pietrisco, terriccio e polvere. La bomba era caduta ad una ventina di metri da loro. Seguirono lanci di lacrimogeni i cui fumi irritanti e puzzolenti presto si diffusero nell’aria. Si risollevarono impolverati con gli occhi che bruciavano, i timpani delle orecchie che pulsavano. Per fortuna, non erano feriti. Si coprirono subito il viso con un


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fazzoletto per proteggersi dai gas e corsero a nascondersi in un portone. Davanti a loro, in una nuvola di polvere, avanzava una colonna di militari. «Il binocolo, presto!» urlò Raff. «Come?…» esitò Faustino. «Il binocolo, dannazione! Dammi il binocolo!» Il giovane infilò la mano nella sacca di juta che portava a tracolla, tirò fuori un vecchio binocolo di fabbricazione russa e lo porse all’amico che, per la fretta di non perdere la scena, glielo strappò di mano. Mimetiche, divise militari di professionisti della guerra. Con manovra fulminea, i contractors della M.R. stavano facendo irruzione nella casermetta antistante il posto di blocco da dove si sentirono spari di risposta. Raff abbandonò il binocolo e afferrò il cannone da 400 millimetri della sua nikon, che inserì nel corpo della camera usandola come una cinepresa con sequenze a raffica da dieci fotogrammi al secondo. «Tombola!» sbottò infine. Mister Mascella Quadrata, alias Louis Vanijenko, al naso gli immancabili ray-ban, era alla guida del commando. Un gruppo di dieci, dodici contractors usciva ora dall’edificio in fiamme con le armi spianate spingendo davanti a sé una cinquantina di indios a mani alzate, i volti pesti. Nel frattempo, un autocarro era sbucato da una strada laterale e, con una manovra spericolata, si era fermato dietro la casermetta, col motore acceso. Dalla porta, resi in distinguibili dalla polvere e dal fumo dei lacrimogeni, uscì un numero imprecisato di uomini che, a testa bassa e di corsa, saltò sul cassone. Alcuni di questi rimasero sul posto in attesa che, con perfetta scelta di tempo, arrivasse a tutto gas un grosso autoblindo militare che si arrestò davanti al piccolo edificio. Lo sportello posteriore fu aperto e vi furono caricati a


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spintoni e calci gli indios. L’operazione si consumò in pochi minuti e i due mezzi scomparvero. Il blitz era perfettamente riuscito. Il vento sollevava la polvere e mandava un odore di nafta. Dopo tanto frastuono, attorno ora c’era un silezio quasi irreale, rotto dallo stridulo gracchiare di una cornacchia. Faustino lanciava occhiate a destra e a sinistra, come se temesse di essere visto, Raff non aveva smesso di fotografare, puntando l’obbiettivo della sua nikon contro le rovine. La polvere si dileguò. La cornacchia spiccò il volo. Raff e Faustino, ormai sicuri, uscirono dal portone dell’edificio che aveva fatto loro da riparo e si avvicinarono circospetti alla casermetta semi distrutta. Come sempre, quando lavorava, Raff si comportava in modo tranquillo ma sempre vigile, poiché sapeva, per esperienza, che l’imprevedibile poteva regalargli in ogni istante una sorpresa. Pensò a Mito e decise di richiamarla subito. Doveva essere in ansia, dopo la conversazione bruscamente interrotta a causa dell’esplosione. Si mise in contatto con lei e la informò del grave rischio che incombeva sull’anexo e dei combattimenti che si preannunciavano tra il FARC e i paramilitari. Stava parlando, quando Faustino con ampi gesti, tentò di attirare la sua attenzione, indicandogli con la mano qualcosa o qualcuno, quasi ci fosse un pericolo cui si dovesse immantinente far fronte. «Guarda!» gli disse Faustino appena Raff, chiusa la comunicazione, gli si avvicinò. Un camion carico di gente che agitava, minacciosa, fucili verso il cielo, veniva nella loro direzione. Le luci del camion lampeggiarono. Man mano che si avvicinava si udivano distintamente urla e fischi d’entusiasmo, in piedi erano


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ammassati sul camion una trentina di guerriglieri. Faustino, come li sentì cantare una marcetta a lui nota, alzò le mani al cielo, festante. «All’anexo! All’anexo!» gridavano, «Viva Nuova Merida! A morte Blasco!» Con sua sorpresa, Faustino riconobbe subito due amici e compagni in affari, Bernardo e Xavier e il suo volto si rallegrò. Quelli, a loro volta, lo notarono e fecero cenno all’autista di fermarsi. Si salutarono, gli chiesero che cosa ci stesse a fare lì, lui e il suo a mico con le macchine fotografiche al collo. Faustino riferì dell’assalto alla casermetta. «Quelli non erano i paramilitari di Blasco. Avevano armi moderne di precisione e non avevano la divisa paramilitare. Li avete mai visti?» domandò. «Quien sabe?» disse uno di loro, ma nessuno sembrava turbato dalla notizia. Continuavano a saltare e a esultare. «Dove andate?» domandarono. «Verso il centro della città.» «Seguite noi!» esclamarono i guerriglieri senza pensarci, e presto, dietro di loro, si unirono altre auto strombazzanti che si dirigevano all’anexo di San Felipe, come se andassero ad una sagra paesana in onore del santo patrono.


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Il corteo di automezzi entrò in città. I clacson, le grida di esultanza e i canti cessarono. I fucili erano tenuti in mano, ben saldi. Al primo posto di blocco i mezzi furono abbandonati. Una piccola folla si unì ai guerriglieri diretti verso la piazza. «Alla prefettura!» gridava qualcuno. «Alla prefettura!» rispondevano tutti. Centinaia di persone, provenienti da vari quartieri, confluirono nella piazza della prefettura. L’atmosfera era tesa. L’eccitazione che serpeggiava, palpabile, era rabbia e frustrazione antica. Raff prevedeva quello che stava per succedere. Decise di seguire la marea di gente con Faustino che lo precedeva di pochi metri, mentre costeggiava i muri delle case. Questi, chissà come, si era procurato un vecchio fucile. Raff lo seguiva per non perderlo di vista. Il suo ardore, il mio distacco, pensò Raff. Si sentiva invisibile, mentre accarezzava le macchine fotografiche pronte e vedeva procedere Faustino, guardingo e prudente, che trovava un riparo dietro uno dei grossi alberi che fiancheggiavano il marciapiede. Erano pressoché in piazza, quando inciamparono nel corpo di un giovane guerrigliero riverso sul selciato. La mimetica, di una misura più grande della sua taglia, era inzuppata dal sangue che dalla testa colava lungo il corpo. Aveva capelli lunghi e neri, il viso da meticcio, la pelle simile alla crosta lunare. Poteva essere il fratello di Julio… Raff ne colse solo un’inquadratura sfuggente, ma aveva ben chiare davanti agli occhi la violenza, la povertà, la guerra e la morte. Le morti, come quelle dei suoi compagni


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Greg e Manuel, erano per lui immagini, frammenti di fotogrammi. Nascosto dietro la macchina fotografica, fissava quelle morti. La loro passione, la mia freddezza -pensieri fugaci. Fu urtato, risucchiato dalla folla che lo aveva protetto fino allora, mentre si dava avvio a una battaglia furibonda. Sentiva le pallottole fischiarg li sopra il cranio, ma decise che a qualunque costo doveva riuscire a entrare nel palazzo della prefettura insieme ai guerriglieri che si apprestavano a sfondare la linea di sbarramento dei paramilitari là asserragliati. Per farlo, però, avrebbe dovuto raggiungere il centro della piazza a prezzo di un rischio che valeva la pena di correre. Rimase ancora fermo. Gli scatti della nikon ripresero a susseguirsi uno dietro l’altro come una mitraglietta, la spalla destra appoggiata a un muro per offrire maggiore stabilità alla macchina. Inquadrava e scattava. Scorse un ragazzetto alla finestra di un terzo piano che, preso dalla frenesia del fuoco, sparava all’impazzata contro la prefettura distante almeno quattrocento metri. Dietro un albero, una ragazza giovaniss ima, poteva avere sedici anni, i capelli castani legati a coda di cavallo, addentava, tra una scarica e l’altra della sua carabina, una pagnotta che tirava fuori della tasca, dove la rimetteva ogni volta che lasciava partire un colpo. Raff continuava a cogliere ogni scena, inquadrava e scattava. Bombe a mano volavano colpendo il bersaglio o l’ostacolo trovato nel percorso come palle di bowling contro birilli. Raff raggiunse alcuni guerriglieri riparandosi come meglio poteva. Seguì uno che avanzava a balzi da una panchina a una siepe dove disparve; poi, a distanza di una ventina di metri, vide Faustino che, per nascondersi, si stava infilando dentro una bocchetta stradale. Infine, tre giovani del gruppo cui si era aggregato, con mossa improvvisa, riuscirono ad arrivare al portone della palazzina della prefettura. Una forte esplosione lo squarciò e, come una fiumana che rompe gli argini, quindici, venti guerriglieri vi si


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catapultarono dentro. Di corsa, Raff li seguì, li raggiunse e fu in mezzo a loro. Scavalcando i detriti causati dallo scoppio, fu investito da una gragnola di colpi. Il gruppo si disperse, miracolosamente nessuno era rimasto a terra. Dal varco aperto dai primi, entrarono altri gruppi di persone armate e, in breve, il cortile fu occupato da una folla rabbiosa che stanò dal nascondiglio l’intero gruppo di pàras impauriti che aveva tenuto in scacco il FARC da varie ore. Intervenne una squadra di guerriglieri che, evitando il peggio, li presero in consegna, li disarmarono e li portarono fuori dell’edificio. Raff era riuscito a riprendere l’intera scena. Nel bel mezzo del concitato scambio di spari, spintonato dalla gente ormai senza freni, sentiva il suo cuore andare a mille. Eccitato per essere riuscito nell’intento, si liberò dalla calca, uscì sulla piazza facendo un rapido calcolo delle foto scattate, ma la sua calcolatrice cerebrale si arrestò di colpo. Una voce lontana, poi via via più chiara, urlava il suo nome e, a una cinquantina di metri, vide Mito che si sbracciava per farsi notare in mezzo a tanta confusione. Vederla fu come una ventata d’aria fresca. Si fece largo a fatica tra la folla. «Ce l’ho fatta!» le urlò per sovrastare il rumore della folla. Le corse incontro e, mentre l’abbracciava, la baciò tutta, raggiante. «Sei indenne, tutto bene?» le chiese. «Ma tu sei ferito!» esclamò Mito sciogliendosi dall’abbraccio. Raff non se ne era accorto, si guardò il lembo della camicia che mostrava uno strappo. «Ho sentito un gran colpo, ma è solo un graffio.» Mito, tranquillizzata, gli sorrise. Raff era sporco e sudato, aveva pantaloni e camicia qua e là macchiati di sangue.


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«Andiamocene via da questo posto» lo pregò lei. «Raggiungiamo l’auto di Calixto che ci aspetta e torniamo a San Antonio.» «Ma dobbiamo trovare Faustino…» Mito insisté. «Per prima cosa andiamo da Calixto.» «Va bene.» Lasciarono la piazza piena di folla tumultuante che aveva invaso anche le vie adiacenti. C’erano tappeti di bombe a mano inesplose nelle strade e dovettero scansarle con piccoli slalom, attenti a non inciamparvi. Accelerarono il passo addentrandosi nella Via Grande, dove si trovava l’auto di Calixto, a non più di trenta metri. Lui vi era ancora acquattato, ma appena li scorse uscì allo scoperto andando loro incontro. «Finalmente, ero in pensiero. Ma com’è ridotto?» disse appena vide Mantega. «Perché è in questo stato?» Raff gli consegnò l’attrezzatura che ora sentiva pesargli e lo rassicurò. «Tutto è andato per il meglio.» Poi si rivolse a Mito. «Prendi le foto e fila con Calixto a San Antonio. Io vado a cercare Fau stino. Non preoccuparti per me, ti prometto che tornerò con lui.» Fece l’atto di andarsene, ma Mito si oppose energicamente. «Ma tu sei matto se pensi che ti lasci di nuovo solo!» Calixto si aggiunse. «Sono rimasto qui ad aspettare per tutto questo tempo, mentre succedeva l’ira d’iddio. Questa volta, dovunque andiate, verrò con voi!» Raff gli indicò la nikon. «Calixto, ascoltami bene, ho qui centinaia di fotografie che devono essere messe al sicuro. Sono documenti importanti che non devono finire in mani sbagliate, documentazione e prove della presenza di truppe private della M.R. di Vanijenko. Capisci?» Calixto sbatté le palpebre, non aveva capito. Raff lo guardò fisso negli


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occhi, lo prese per il braccio e con l’altra mano gli mostrò ancora una volta la nikon. «Ascoltami Calixto. Senza perder tempo, tu prendi in consegna tutto questo materiale. Ne avrai cura come se avessi con te un bambino. Nascondi nelle mutande il disco della memoria, metti nel bagagliaio la borsa e tutta l’attrezzatura, quindi corri a San Antonio, cercando di non incappare in blocchi e di evitare qualsiasi rischio. Quando arriverai, conserva nel luogo più sicuro del vescovado tutto quello che ti ho affidato sino al mio arrivo, attento a non far parola con alcuno di ciò che ti ho appena detto. Solo padre Diego deve sapere, non altri. È un incarico assai delicato. Noi due andiamo a cercare Faustino» proseguì ora

con più calma allontanandosi da lui e guardando

Mito.

«Torneremo, ma non prima di averlo trovato. D’accordo?» ripeté. «Sì… Va bene.» Mito guardò Raff. Forse avrebbe voluto ancora opporsi alla sua decisione, ma non poteva biasimarlo, desiderava rimanere al suo fianco. Aveva rischiato la pelle e forse aveva trovato qualcosa di importante, qualcosa che Greg non aveva fatto in tempo a procurarsi. «L’ho acchiappato finalmente!» le disse. Mito avrebbe voluto fargli un sacco di domande, ma preferì rinviare, avevano perso già troppo tempo. Calixto sarebbe arrivato a San Antonio e avrebbe eseguito quanto raccomandatogli. A passo veloce, mano nella mano, fecero il percorso a ritroso in una città ancora in rivolta. Nell’aria puzzolente di polvere da sparo, civili e ribelli non si distinguevano. Tutti correvano come impazziti, jeep militari sbucavano da ogni angolo, lasciando scie di ossid o di carbonio. Loro due stavano percorrendo velocemente Via Grande, quando, in prossimità dell’ultimo incrocio furono bloccati da una jeep coperta che procedeva ad andatura sostenuta.


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Cazzo, ci viene addosso! La jeep, ormai a pochi passi, frenò di colpo, le gomme slittarono e una nuvola di polvere li avvolse. Mito era impietrita dallo spavento, immobile come una statua di sale. È finita… pensò a un pelo dalla jeep. Dal mezzo balzarono tre uomini in divisa verde malachite, rivoltelle in mano. Le FARC! Raff si stava riprendendo, ma era incazzato. Gli era d’improvviso tornato il tremendo dolore al collo e la ferita gli bruciava. Fanculo le FARC… stava immobile. I tre lo spintonarono e si trovarono sulla jeep. Poteva essere trascorso un minuto, quando Raff sentì due grosse mani acchiapparlo per le braccia. Un dolore cane. Quelli non parlavano, non dicevano niente, non imprecavano. Gliele serrarono dietro la schiena, mentre altre mani gli stringevano il collo tanto da costringerlo a piegarsi in due. Cazzo, cazzo, cazzo! Un dolore cane lo travolse, tanto che non ebbe modo di accorgersi che la sua compagna stava subendo lo stesso trattamento. Poi, passato qualche minuto, percepì trambusto di persone e spari attorno alla jeep. Intravide Mito che, tenuta stretta da un uomo armato, era bloccata come lui. Tentava di divincolarsi, ma dalla sua bocca non uscivano lamenti. Raff sentì la rabbia montare, ma il sangue non fece in tempo a salirgli alla testa che uno di quelli lo afferrò da dietro e gli strinse il naso. Svenne e precipitò immediatamente in un sonno comatoso. Si risvegliò, dopo quanto tempo, non lo sapeva. La testa annebbiata in un’enorme grande stanza buia con pareti concave, si sentì volare nell’aria, portandosi dietro la botta paralizzante sulla spalla e la visione confusa di Mito che giaceva a terra come lui. Erano in una cisterna larga e umida con un odore polveroso di


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granaglie. Sbatté le palpebre, mentre il sudore stillava sugli occhi stanchi e il naso gli bruciava, così le cosce, umide di piscio. Add osso aveva una gran nausea, con la voglia di vomitare. Deglutì più volte. Sentì tossire Mito con una tosse cavallina. Riverso sul pavimento, la cercò ancora con gli occhi semichiusi, tentando di voltarsi e quando ci riuscì la sorprese che lo guardava, la bocca aperta in uno stupore innocente. Una lama di luce che filtrava dalla sommità della parete lo accecò per un attimo, un cigolio improvviso, lo fece sussultare, come di una porta che si apriva. Si guardò, per quel che poteva, attorno, ma non ne vide. Mentre ancora il sangue ispessito nelle vene gli intorpidiva i muscoli, cercava di capire in che situazione fossero piombati, un cono di luce lo centrò, come se qualcuno avesse acceso un potente riflettore e glielo avesse puntato contro. Uno di quegli spot che lui stesso aveva usato mille volte durante il suo lavoro. È strano… e gli venne quasi da sorridere, ma c’era poco da sorridere. Sveglia Raff! si disse. Quella luce non proveniva da un inesistente riflettore, non si trovava in una sala di posa fotografica dove da un momento all’altro poteva comparire la bella Sue, la sua fantastica top model. Era ancora la luce del sole che entrava con prepotenza in quell’enorme cisterna in cui erano sepolti, malconci ma vivi. Lui e Mito. Alzò lo sguardo. Solo allora si avvide di una scala in legno che portava dritta dritta a un portello in alto, ora spalancato. In controluce, apparve la sagoma di un uomo che scendeva. I contorni di un fisico atletico si facevano sempre più definiti, finché, raggiunta terra, lo poté vedere distintamente in tutta la sua notevole stazza. Era Mister Mascella Quadrata, Louis Vanijenko.


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A Mito parve di risvegliarsi da un lungo sonno. Il sangue le fluiva nel corpo, raggiungeva le estremità e prendeva a battere nelle punta delle dita. Aprì gli occhi, da uno non vedeva, l’altro, quello buono, riusciva appena appena a mettere a fuoco un puntino informe che si muoveva qua e là. Le passeggiava vicino, cinque centimetri davanti ai suoi occhi, poi pian piano cominciò a prendere forma. Un insetto ballerino le dette il buongiorno. O è sera? si domandò. Tossì. Cercò di spalancare tutti e due gli occhi, ma un velo di nebbia le offuscava la visuale. Il naso le bruciava, la guancia destra poggiava, gelida, sul pavimento di cemento. Lumini le si accendevano e le si spegnevano, forse solo nella sua testa. Tossì ancora, provando a sollevare il capo, ma lasciò correre. Era troppo debole. La forfecchia ballerina se n’era andata e anche la nebbia davanti a lei si stava dissolvendo. Non ricordava o non si rendeva conto di dove si trovasse. Sollevò a fatica lo sguardo. Due grossi anfibi a dieci centimetri dal suo viso, giganteschi, piantati sul pavimento. Tossì ancora e ancora. Le era difficile muoversi. Le sembrò che mani e dita, gambe e piedi non le rispondessero. Girò appena il capo, almeno quello poteva farlo, e vide che Raff la stava guardando. Le sorrise con gli occhi. Anche lui era a terra e sembrava conciato male, ma si rasserenò, erano ancora insieme.


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Mise a fuoco il verde slavato di una mimetica, finché il suo sguardo incrociò quello del militare che la sovrastava. È l'uomo della M.R., Vanijenko si disse Mito. La pressione sanguigna le schizzò a duecento. Provò a capire, da quel che la circondava, dove fossero. Qualche sedia, un tavolo, armadietti metallici, ma non si diede risposta. Un forte impatto al suolo di scarpe chiodate spezzarono il silenzio irreale. Due sconosciuti in tuta da combattimento si erano manifestati in quel luogo sinistro, saltando, due alla volta, i pioli di una scala che non aveva notato. Facendosi forza, Mito si tirò su a sedere, sorreggendosi a fatica con le mani sul pavimento. Raff, dal canto suo, stava per alzarsi in posizione eretta, cercando a tentoni un appoggio. Un nero dal fisico colossale e dall’aspetto minaccioso avanzò verso di lui, facendo schioccare le nocche. Poteva essere alto un metro ottantacinque o su di lì e indossava una camicia verde a maniche corte, che mostravano due bicipiti grossi come un melone e sui quali erano tatuati un gladio e una pin-up. Prese Raff per il bavero del giubbino e lo sollevò di peso con violenza, alitandogli sul naso. Puzzava d’aglio e marmellata. «Frocio di merda, lo sai cosa vogliamo» gli urlò in faccia. «Le tue fotografie del cazzo! Quando ce le avrai consegnate, potrai taglia re la corda. La tua vacanza in Colombia finisce qui!» Raff scansò la faccia, sentiva che stava per vomitare. Rispose con voce incerta e cercò di farsi forza con un po’ di umorismo, tentando di controllare il dolore della ferita che tornava a farlo soffrire. «Hai visto fotografie con me, Andalù?» Il metro-e-ottantacinque nero non sopportava essere preso in giro. Come un treno lanciato a forte velocità, lo schiaffo arrivò violento e duro in piena guancia. La faccia si girò dall’altra parte. Il colosso mollò


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la presa e lui cadde, come un fantoccio, pesantemente a terra, mentre gli arrivava, Tentò di rialzarsi, le ginocchia non gli reggevano, ma riuscì, traballante, a rimettersi in piedi. «Mezzasega, attento a quel che dici. Tu canterai, eccome!» e gli sferrò un’altra manata che lo rimise fuori combattimento, e di nuovo si accosciò contro la parete e cadde sul gelido pavimento di cemento. Era strano, pensava, stava male, ma quelle minacce non lo spaventavano. Vide, a dieci metri da lui, Mito che provava, anche l ei, a rialzarsi. «Adesso alzati, mezzasega!» disse il nero. Raff, ancora a terra, tentò di temporeggiare. «Cancellami dalla lista, non so di quali fotografie parli.» «Fai lo spiritoso, eh? Lo sai, lo sai benissimo quali foto vogliamo, cazzone. » «Ne ho a migliaia di foto, è il mio mestiere» disse tirandosi su con gran fatica. «Mi prendi per il culo? Sai di che parlo. Ci porterai dritto dritto nel posto dove le hai nascoste, frocetto!» «Ma che cosa volete da noi? Chi siete!» «Ti faccio vedere io chi siamo…» inveì quello e lo prese con una mano per il fondo dei pantaloni e con l’altra per la collottola, scaraventandolo contro la parete. La faccia di Raff sbatté contro il muro. Era immobilizzato, mentre mani lo perquisivano per tutto il corpo. Quindi, lo rigirarono di centottanta gradi e gli strapparono di dosso il giubbino. Ora li aveva tutti di fronte, i suoi aguzzini. L’altro compare, un bianco snello e più giovane, era vestito allo stesso modo, camicia verde a maniche corte. Aveva una faccia insignificant e, da impiegato del catasto.


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C’è da scommetterlo, una volta rientrati a casa torneranno a essere dei buoni padri di famiglia, Raff giocava con le illazioni per far girare il cervello alla ricerca di come uscire dalla trappola in cui erano caduti. Sputò sangue sul pavimento. Il colosso nero gli sferrò un altro cazzotto in testa, lo girò e lo rigirò più volte. Sgherro prezzolato, non si sarebbe fermato di fronte a niente. Gli tirò giù i pantaloni. «Adesso via le mutande!» urlò. Mito era in piedi, mani lungo i fianchi. Ansimava come un mantice. Impotente assisteva alle umilianti violenze cui era sottoposto Raff, ma sino a quando quelle attenzioni erano per lui, lei era salva. Ed ora era completamente nudo come un verme. Vanijenko assisteva, muto, alla drammatica pantomima, a debita distanza, con le braccia conserte. Non si muoveva, non si era distratto un momento. Quei maledetti ray-ban sul naso non facevano trasparire un cazzo di niente. Raff contrasse i muscoli del collo, spostando per un attimo lo sguardo, sul suo corpo vide i segni delle botte, aveva il viso segnato e il labbro spaccato. Mister Mascella Quadrata era ancora lì. Impenetrabile, non aveva detto ancora una sola parola, né aveva fatto alcun segno ai suoi gorilla. Il più giovane di questi, dopo essersi infilato un paio di guanti di lattice, si diresse verso Raff, lo afferrò con forza per le braccia e lo rivoltò faccia alla parete. Poi, spietato, gli ispezionò l’orifizio anale. Il dolore lancinante gli tolse il fiato, ma subito subentrò lo sgome nto al pensiero che lo stesso trattamento potesse essere riservato a Mito. Un colpo ai fianchi gli tolse il respiro. Arrivò a terra piegato in due, tenendosi la pancia. Tossì. Sputò.


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«Vediamo adesso quanto sarai spiritoso. Ce l’hai lo stomaco forte, bastardo?» e il suo seviziatore voltò la testa verso il socio indicandogli con gli occhi Mito. Il battito cardiaco di Raff salì a trecento. Lanciò un ringhio, da terra si scagliò contro il bruto che si muoveva verso la donna, riuscendo ad abbatterlo, ma il colosso nero non stette a guardare e gli piantò l’impronta dell’anfibio destro sul mento, facendolo volare di mezzo metro. La pelle e la carne si erano spaccate, non si accorse che il sangue gli colava dalla testa. Non avranno paura di fermarsi di fronte a una donna, pensava e tentò di artigliare le gambe di uno dei due, ma presto se li trovò ambedue addosso. Fece appena in tempo a guadagnarsi un pugno allo stomaco, quando sentì la bocca della canna della pistola accarezzargli il cranio. Sentì il clic. «Adesso basta, coglione, o ti faccio saltare le cervella.» I due energumeni lo mollarono. «Rivestiti che mi fai schifo!» Vanijenko torreggiava sopra di lui alle sue spalle. Si alzò. A stento, con le ossa rotte, rotto in ogni parte del corpo, ma si alzò. Si rivestì, si girò su se stesso e, alla fine, lo vide in faccia. Vanijenko fece un passo, sempre più impassibile e glaciale. Era altissimo, almeno un metro e novanta. Non se n’era mai reso conto come ora che la sua mascella sporgente arrivava a sfiorargli i capelli imbrattati di sangue. Gli mise il ferro della Beretta sotto le narici. Era freddissimo, il ferro. «So che hai qualcosa che m’interessa e io la troverò. Dovessi scuoiarti vivo. Mi condurrai dove l’hai nascosta…» Raff non fiatò, il respiro era affannoso. Si fissarono negli occhi. Poi, senza distogliere lo sguardo da Raff, Vanijenko ordinò: «Akim,


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Mirko via di qui adesso! Questa notte si fa visita a Diego Lamar! Voi due,» urlò con l’indice puntato contro Raff e Mito, «pensate a cosa vi aspetta.» Le due canaglie erano già in cima alla scala. Vanijenko li seguì. Dall’alto, si voltò, e Raff gli vide cadere la mascella in una stupida espressione divertita e poi salutare, con un sorriso beffardo: « Adios!» e il portello si richiuse dietro di lui. Raff si abbandonò lungo la parete lasciandosi cadere a terra supino, lentamente. Mito accorse accanto a lui, si chinò e gli pre se la testa in grembo. Aveva le labbra tumefatte e abrasioni su tutto il volto, le orecchie

gonfie.

Gli

accarezzò

la

fronte.

«Grazie»

gli

disse

semplicemente. Le palpebre di Raff erano di piombo. «Non c’è di che» sussurrò. «Come stai» chiese lei. «Ho la testa a tremila giri e il mio solito torcicollo da colpo d’aria» rispose riuscendo ancora a fare dell’ironia. «E tu come stai?» Lei gli fece cenno che tutto andava bene. Continuò ad accarezzarlo, come fosse il suo bambino da consolare e calmare con il contatto del corpo. Non c’era medicina migliore per lui. Tutte e due stettero in silenzio. Mito con le sue mani affusolate gli sfiorò il viso, la fronte, i capelli, controllò la sua ferita. Gli scostò il lembo della camicia constatando che non doveva essersi aggravata, mentre il resto del torace rivelava sofferenza. Abrasioni, lividi, sfumature di viola sul bruno. Lo fissò nel profondo degli occhi. «Avresti bisogno di cure.» Raff ricambiò lo sguardo. «Basti tu» rispose posandole la mano sulla sua. Mito sbatté le palpebre, le labbra si sfiorarono, e un tenue rossore le


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colorì le gote. «Devi tenere duro ancora» disse liberandosi dalla sua mano e tornando ad accarezzargli i capelli. «Il tuo uomo, questa volta, si è arrabbiato.» Raff sospirò. «Già. Penso che con la morte di Greg e di Manuel, lui ci abbia a che fare. E anche noi adesso corriamo lo stesso rischio.» «Pensi che c’entri con la loro scomparsa?» «Non lo so, ma ho ragione di credere che per lui, in questo momento, noi due siamo l’ultimo ostacolo.» «Vuole le tue foto, sono un documento troppo importante che non può lasciar circolare. Evidentemente, conosce le ragioni della tua presenza qui in Colombia.» «Già, teme che si possa mettere in relazione la faccenda dell’aereo catturato con le varie guerre che ci sono qui. E sa che, se si facesse due più due, si scoprirebbe un verminaio che metterebbe in discussione il Plan.» Mito era d’accordo. «Se diventasse pubblico che l’aereo catturato trasportava

forze

mercenarie

vorrebbe

dire addio

Plan, addio

finanziamenti, addio affari per la Martin Corporation. A parte il fatto che per lo scandalo che nascerebbe qualche pezzo da novanta a Washington ci perderebbe la faccia. È così?» «Più o meno, sì» confermò Raff. «Quando è che hai fatto le foto che gli interessano tanto?» «Ero con Faustino, stavamo rientrando a Nuova Merida. Avevamo saputo che Blasco aveva attaccato la città per riprendersi l’ anexo, e, lungo la strada, alla periferia della città, abbiamo incocciato un reparto di Vanijenko che stava facendo saltare una caserma delle FARC. Ci siamo nascosti per tutto il tempo dell’attacco e ho ripreso la scena. C’era anche lui, e temo ora che mi abbia visto.» «Chi ci ha trascinato sin qui erano loro, dunque, travestiti da


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guerriglieri delle FARC.» «Non c’è dubbio.» «E adesso che facciamo?» chiese Mito. «Vanijenko ha mangiato la foglia e vuole costringerci, con le buone o con le cattive, a consegnargli quelle fotografie.» Raff tentò di rialzarsi, facendo una smorfia di dolore. «Non lo so» rispose toccandosi l’addome. «Quello che è certo, è che dobbiamo cercare di uscire al più presto da qui.» Mito si guardò attorno nella speranza che le apparisse una qualche via di fuga fin allora non considerata. «Sant’iddio, dobbiamo inventarci qualcosa… Andranno da monsignor Lamar questa notte… Da qui è impossibile…» Raff era ancora dolorante. «Aiutami ad alzarmi…» la esortò. «Andrò su in cima alla scala e darò un’occhiata al portello…» Salì e si mise al lavoro. Il portello sembrava più che stabile, era munito di chiavistello e ben sbarrato. Raff ci armeggiò un po’ inutilmente, non era pratico del settore scasso. Con tutta la forza di cui era in possesso sferrò un calcio al portello, lo spinse, vi si gettò contro con tutto il suo peso. Zero peso, nessun risultato, troppo debole. Desistette. Dopo di lui salì Mito per osservare lo stato dell’unica possibile loro via di fuga. I cardini, in effetti, erano fissati saldamente, la serratura arrugginita ma efficiente. Il legno era, invece, in cattivo stato con diverse fenditure. Una di queste era tanto larga da consentire di intravedere parte del campo militare. Erano rinchiusi dentro una grossa cisterna che pareva trovarsi in mezzo ad un ampio spiazzo. Lo spiraglio consentiva di vedere una baracca di legno e muratura, accanto una jeep e alcuni cavalli legati alla staccionata. Il cielo era scuro, forse preannunciava pioggia, un vento impetuoso sollevava polvere e foglie. Sentirono lo scroscio della pioggia abbattersi sul campo e un fragore,


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che dapprima credettero un tuono, ma che subito riconobbero come un colpo di cannone, li persuase che un conflitto a fuoco era in atto dalla parte opposta a quella che potevano vedere. L’inferno in terra. Mito e Raff si guardarono, seduti sul pavimento l’uno a fianco all’altra. «Il campo è stato attaccato» asserì Raff. «Difficile pensare all’esercito…» commentò Mito. Uno spezzone doveva essere caduto nei pressi della cisterna. Poi ancora altri colpi di mortaio e mitraglie. Parve loro di udire veicoli in movimento, scalpiccio di cavalli, urla. Mito si strinse a Raff. «Dobbiamo andar via di qui, o faremo la fine dei topi.» Raff la strinse a sé. Fuori, una tempesta di fuoco, e loro, dentro, in quella strana prigione con la sensazione di una totale impotenza. La battaglia durò circa un’ora, poi, improvvisamente, cessò. Risalirono uno per volta a sbirciare dalla fenditura. Sembrava lo spettacolo che avevano visto altre volte. Sotto la fitta pioggia, intravidero passare militari a cavallo, mitragliatrice in spalla. A terra, un tappeto di cadaveri e di feriti agonizzanti. Dovevano essere passate diverse ore, non sentivano più fischiare il vento, nessuno veniva a cercarli. Avevano la gola secca e lo stomaco vuoto. Nel campo era silenzio. Che si siano dimenticati di noi? si domandarono, finché il portello si aprì e si fece vivo il colosso nero dalle belle maniere. Gettò ai loro piedi due cosce di pollo e una borraccia con della brodaglia. «Preparatevi, si va a San Antonio!» Forse passò più di un giorno, un tempo interminabile, quando il portello della prigione si riaprì. Era buio pesto in una notte illune. Raff


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e Mito furono legati con grosse corde di canapa, le mani dietro la schiena. Non si resero conto di quanti fossero i militari che li avrebbero scortati. Si avviarono a cavallo di muli, oltre la loro testa non vedevano altro che la notte. Sentirono lo stridio di una malaugurante civetta. La colonna militare si addentrò in una fustaia procedendo a passo lento su sentieri impraticabili. Era passata mezzora, quando, prima che gli uomini di Vanijenko se ne potessero render conto, una massa di uomini armati fu sopra di loro. L’azione era stata fulminea. Furono spari e urla. Un colpo di mortaio creò scompiglio nella colonna. Le pallottole centravano il bersaglio, un uomo cadde colpito al collo, un gruppo di quattro mercenari fu investito da una pioggia di proiettili, procurando trafitture e squarci dalle ginocchia al petto. «Restate in fila!» sbraitò Vanijenko. Alcuni muli, imbizzarriti, disarcionarono chi li montava, aumentando il caos. «Al riparo, sulle rocce!» gridò qualcuno. Un uomo rotolò in terra sparando alla cieca contro il baluginare del fuoco nemico. Raff, ancora sopra il suo mulo spaventato che s’impennava ad ogni colpo, si ritrovò in precario equilibrio. «Resisti Mito!» le urlava. Lei resisteva con le forze che le restavano, era aggrappata al collo del suo animale che piroettava su se stesso e dava calci a vuoto. Stavano per esserne sbalzati. Le pallo ttole fischiavano sopra le loro teste. Cazzo, Faustino! Raff non credeva ai suoi occhi. Era proprio lui che con quattro, cinque persone li circondarono e li tirarono a forza giù dai muli, spingendoli letteralmente dentro una camionetta dove ritrovarono due vecchie conoscenze, Bernardo e Xavier. Il primo sparava come un ossesso, il secondo cercava di far ripartire la camionetta che si era


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ingolfata e si rifiutava di riavviarsi. Sussultava, singhiozzava, si spegneva, si riaccendeva, tornava a sussultare. Faustino vi irruppe dentro con un balzo, impugnando una carabina. «Raff… al volo!» gli urlò. La M16 volteggiò in aria e Raff l’acchiappò. Faustino gli fece segno. «Bene! Adesso spara anche tu!» Xavier, ancora sulla mano la chiave d’accensione, imprecava fras i incomprensibili in dialetto indio. Bernardo sventagliava proiettili invitando Raff a fare altrettanto. «Dacci dentro, amigo! È venuto il momento di sparare!» La camionetta ballava, non ne voleva sapere di ripartire. Raff vide che Mito sembrava avere ormai dimestichezza con simili frangenti e tentava solo di ripararsi dal fuoco, la testa giù, il corpo in posizione fetale. Erano nella merda più profonda. Raff non aveva mai puntato un’arma contro qualcuno. Il corpo in tensione, le mascelle dolenti da quanto le serrava. Contrasse i muscoli e ruppe gli indugi. Aprì bene gli occhi e sparò. In ginocchio, riparato dal bordo della jeep, sparava. Ricaricava e sparava, ricaricava e sparava a tutto quello che vedeva venire contro, nemico, finché non aveva più sentito le mani. Il mondo intorno era diventato di ovatta, e gli schizzi di sangue e fango che volavano, zampilli colorati.


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Dicono che quando stai per morire può capitarti di rivedere come in un film tutta la tua vita. A Raff ritornò davanti ag li occhi l’unica volta in cui aveva imbracciato un fucile. Aveva dieci anni. Lo zio lo aveva portato con sé, un giorno di marzo, ad una battuta di caccia al cinghiale, dalle sue parti, nell’Ogliastra. Durante la sosta per il pranzo consumato tra muretti a secco e ginepri, lo zio gli aveva messo nelle mani una pesante doppietta. Lo aveva sfidato, s ei grande adesso, è venuto il momento che tu provi a sparare. Lo zio aveva collocato un barattolo in cima a una roccia. Prova a centrarlo, se ne sei capace. Non se la sentiva di premere il grilletto, ma chiusi gli occhi, aveva ubbidito. La spalla gli si era spostata. Il botto, a momenti, gli spaccava un timpano. Dopo quell’episodio, aveva fatto una promessa a se stesso, mai più avrebbe sparato. La zia, venuta a conoscenza dell’imprudenza del marito, si era molto arrabbiata, e l’estate dopo, per rimediare, aveva ospitato il piccolo Raffaele a Santa Maria Navarrese, nella bella casa coi balconi fioriti di gerani rossi. Chissà

come, quell’immagine dell’infanzia, ormai

dimenticata,

riemerse sbiadita e confusa nella mente di Raff. Forse si ritrovava con un fucile in mano, un attimo prima di morire. Non sentiva niente, ricaricava e sparava. Era come avere in mano la sua vecchia nikon. Sparava e sparava. Un colpo simile ad un pugno lo centrò in pieno viso. Vide un paio di


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orecchie pelose, enormi e schifose, un muso giallo dagli occhi a mandorla giacere sopra di lui, gli si era rovesciato addosso a corpo morto e ciò lo aveva riportato alla realtà. La camionetta fece una brusca impennata. Raff si liberò dell’uomo, privo di vita, che fu proiettato fuori del veicolo come un pupazzo di stoffa, mentre la jeep prendeva velocità slittando sul fango. Fece un giro su stessa, testa-coda, poi riprese la strada sfrecciando via per portarsi fuori dal tiro nemico, travolgendo corpi e sollevando fango, brandelli di stoffa e di pelle. Una botta gli colpì le parti basse. Raff si riscosse. Aveva creduto di morire. La camionetta imboccò un sentiero tra gli alberi, dietro di loro gli ultimi bagliori delle armi. Si udivano, ora, appena distinte, urla di giubilo. La pattuglia mercenaria era stata sbaragliata, l’inferno era alle spalle. Raff fissò le sue mani tremanti, si toccò la faccia, sporca e sudata, aveva una ferita sulla fronte, si palpò le cosce indurite e le braccia gonfie, la camicia strappata. Faustino agitava il kalashnikov in aria in segno di vittoria. La camionetta ondeggiò. Sul terreno accidentato, sassi, cespugli e fango. Le loro teste oscillavano, Bernardo e Xavier ridevano. Raff f ece l’inventario delle sue ferite, quella al braccio quasi non si distingueva, ma la fronte sanguinava. Guardò Mito che aveva smesso di tremare e le sorrise. Tranquillizzato, due dita sulle labbra, accennò un bacio, avrebbe voluto abbracciarla. Lei gli si avvicinò e gli mise la testa sulla spalla. Raff, per dire il vero, in quel momento, avrebbe voluto abbracciare tutti. Gli pareva di essere uscito da un incubo che non gli apparteneva. Era tornato a essere un uomo qualsiasi, un fotografo in un paese straniero, anche se gli sembrava di essere nudo e indifeso, senza la sua nikon.


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Apricot, Neik, Vanijenko una combriccola di delinquenti da far vomitare. Quanto comprendeva ora i sentimenti che aveva provato Greg! I compagni sulla jeep ridevano e si davano pacche sulle spalle. Raff pensò agli abitanti dell’anexo, che ne era stato di loro? Cominciava a non sopportare più la vista di tutti quei morti, di tante stragi, voleva tornare a essere un semplice cronista, un testimone che denuncia, ma non partecipa agli eccidi. Fanculo la guerra, imprecò. Voleva ritornare al suo lavoro, guardare le cose solo attraverso il mirino di una fotocamera. «Come avete fatto a trovarci?» domandò Mito ai compagni che li avevano liberati. Faustino, additando Raff, rispose: «Io cercavo lui, quando ho visto quella macchina che sopraggiungeva a rotta di collo. Ho assistito a tutta la scena. Da quando vi hanno bloccato in mezzo alla strada, sino a quando vi hanno preso di forza e caricato… Non abbiamo fatto in tempo a raggiungervi, io e i miei amici. Senza perdere un minuto, però, abbiamo seguito l’auto di quei pezzi di merda, quando abbiamo avuto la certezza del posto nel quale vi avrebbero tenuti, siamo tornati indietro e abbiamo chiesto l’appoggio di Bernardo e di Xavier, che erano con me nell’assalto alla prefettura. » Erano arrivati al campo, sull’altipiano di Nuova Merida. Un campo che sembrava ben organizzato. Era l’alba placida di martedì sei ottobre. I feriti furono portati in infermeria, curati, lavati e rivestiti. Raff era ancora dolorante in tutto il corpo, il medico gli diede una compressa calmante, gli fasciò la testa con garza e bandana, quindi lo licenziò. Faustino e Mito furono visitati, ma erano solo stanchi. Si riposarono su una panca di legno, sonnecchiando. Poi, sentendosi rimessi a nuovo, si


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ritrovarono tutti davanti a una tazza di caffè caldo e a un filone di pane azzimo. Si respirava un’aria di tranquilla attesa, come se dovesse ancora succedere qualcosa, ma niente di preoccupante. Raff si scolò una pinta di birra. Nel vedere passare un giovane gli domandò: «Qué pasa ahora?» Quello gli rispose che dopo un’azione si usava adunarsi. Il loro capo li avrebbe riuniti alle cinque della sera per fare il punto della giornata di combattimenti. «Esto es un dìa especial» concluse salutandolo. Raff, Mito e Faustino, pur soddisfatti dopo tanto tumulto, si sentivano come abbandonati, senza che alcuno dicesse loro cosa dovevano aspettarsi. Mentre stavano ancora rifocillandosi, arrivarono al campo altre unità. Quattro autoblindo entrarono strombazzando, circondati subito dai guerriglieri festanti, tanto che il campo si rianimò. Faustino cercò di informarsi chiedendo in giro il motivo di tanta euforia. Tornò con la notizia che durante lo scontro con i contractors, le FARC avevano catturato un ufficiale. Venuto il momento della ritirata per la notte, gli autoblindo scomparvero e i combattenti si riversarono nelle baracche. Così, perlomeno, ritenevano Raff e i suoi compagni. «Non credo che l’ufficiale possa essere Vanijenko» disse Raff. «Non è uno stupido.» Mito, più concreta, avrebbe voluto conoscere per il momento che cosa li aspettava e ribadì: «A me basta sapere che non si scordino di noi. Con tutta questa confusione…» Nel frattempo erano trascorse altre due ore, e l’adunata generale , se c’era stata, avrebbe dovuto ormai essere conclusa. Raff e Mito cominciavano a essere impazienti, Faustino era più irrequieto di loro. Mito, schiacciando una mosca che si era posata sul tavolo della mensa,


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disse a Faustino: «Sei amico di Bernardo e Xavier. Perché non vai alla loro ricerca? Informati, muoviti, per favore. Comincio a sentirmi più prigioniera di prima, in questo posto!» Faustino scattò in piedi. «Dici davvero! Posso allontanarmi?» «Ma sei impazzito?» replicò Mito. «Cosa aspetti, i nostri ordini? Sei un uomo libero Faustino…!» Questi non se lo fece ripetere una seconda volta, e schizzò il volo scomparendo.


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Faustino tardava a tornare. Le ore passavano e di lui non si vedeva nemmeno l’ombra, finché Raff e Mito persero la speranza di rivederlo. Per la notte erano stati alloggiati in una tenda poco distante dall’infermeria. Il resto della truppa doveva essere tutta nei propri alloggiamenti. Mito e Raff non sapevano come interpretare la prolungata assenza dell’amico e il silenzio dei guerriglieri nei loro confronti. Forse non si fidavano di loro? Trascorse la prima notte, poi passò il mattino e il mezzodì del giorno successivo. Arrivò l’ora del rancio, una sbobba di carne e fagioli, che condivisero con il resto di quei soldati cenciosi. Trascorse il pomeriggio e arrivò la sera, senza che nulla fosse cambiato. Raff continuava a portarsi dietro i suoi dolori. Se ne stava disteso sulla branda con Mito che lo accudiva. Lei prese a massaggiargli il collo frizionandogli i muscoli delle braccia e della schiena. Gli passava su e giù le mani lungo tutto il corpo, nell’impresa di rilassarlo. Poi le mani la tradirono e furono dolci carezze che il corpo dell’uomo apprezzò sensibilmente. Assalita da improvvisa consapevolezza dell’involontario reciproco piacere, smise di colpo di toccarlo. «Scusa» gli disse arrossendo. Frugò nella borsa alla ricerca di una sigaretta, nervosa. Se la accese. «Scusa» ripeté. Raff si rigirò e alzò gli occhi. «Perché mi chiedi scusa?» le chiese calmo. La prima risposta fu un leggero battito di palpebre di lei. Fumava boccate brevi, voleva resistere al suo sguardo. «Perché perché. No n so


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perché» rispose. Lui le sorrise senza replicare. Le scivolò accanto, le tolse dolcemente la sigaretta dalle dita, la spense dentro un portacenere di latta e le accarezzò i capelli. L’odore della sua pelle lo prendeva. «Da quando ti conosco, non sono la stessa persona.» Le narici si allargarono. «Anch’io, non mi riconosco più.» Mito si passò la mano tra i capelli, evitando ancora il suo sguardo. Raff interpretò quel gesto come un segnale. Come guidati da una forza superiore, non si dissero più niente, investiti da una violenta vampata al calor bianco. Mito si lasciò scivolare su di lui senza opporre resistenza. La sua vita in quel momento le parve avesse lo splendore del mattino. Lui cercò la sua bocca, le labbra si schiusero. Quelle di lei avevano il sapore del miele amaro, e il profumo della pelle, quella dei fiori di campo. Mito sentì la bocca di Raff sulla sua e una ma no salire sotto il vestito, udì lo schiocco di un tessuto che cedeva e le dita accarezzarle la carne. Si avvinghiarono, il portacenere cadde a terra, lei gli mise le braccia attorno al collo e rimase lì appesa, mentre lui si liberava di tutto il resto. Rotolarono, lui l’assaporò, lei lo assaporò. Erano senza scampo, come due pesci impigliati nella rete. Raff le diede una spinta selvaggia e Mito sentì qualcosa di ardente passarle fra le cosce. Il colpo la fece rimanere senza fiato, in trance portò le gambe q uasi intorno al collo di lui e, arcuando il bacino sempre più in alto, si dispose per ricevere i colpi benefici, martorianti e innumerevoli. Come due porci allo spiedo, si annientarono nel gioco delle anche, finché uno scatto nel loro corpo e fu l’orgasmo struggente. Lei perse i sensi per un attimo e sentì la durezza ammorbidirsi e il caldo flusso colare sulle cosce. Lentamente le gambe si staccarono, rilassate, e scivolarono, ambedue ansimanti, l’uno sull’altro.


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Le ore, i giorni, le morti per lei non esistevano più. Raff, da quando Dora non c’era più, non aveva pensato ad un’altra, ma il mattino dopo si ritrovò Mito accanto. Il suo viso reclino sotto i capelli disfatti dal sonno lasciava trasparire la placidità dell’appagamento. La passione acquietata ha la sua innocenza. Non aveva mai perscrutato con altrettanto rapimento il pallore dell’alba. Il terzo giorno, ambedue ancora preda dell’aura incantata in cui si trovavano da quella notte, durante il pasto, sentirono alzarsi grida di esultanza: «Evviva le FARC! Evviva il comandante Bernardo!» a cui si unirono voci da ogni dove e anche nella baracca sorse un tripudio generale. Lui, il comandante, non indossava i logori panni che gli avevano visto addosso la prima volta che Raff e Mito lo avevano incontrato. Portava una lunga giacca verde di strana foggia, attillata in vita e larga in fondo, una camicia militare grigio verde aperta sul collo e pantaloni dello stesso colore, ma era sempre lo stesso uomo, non alto, dal viso solare. Combinato in quel modo, si stentava a credere che fosse il comandante di un esercito vittorioso. Ma era amato e stimato. Al seguito aveva due giovani armati e dietro un’altra decina tra uomini e donne, tutti senz’armi. Bernardo andò incontro a Mito e a Raff sfoderando uno splendido sorriso. Voleva dimostrar loro che non li aveva dimenticati. «Buenas dias!» disse tendendo la mano, poi presentò la ragazza che aveva al suo fianco, sorridendo. «Teresa, la mia sposa.» Le persone che erano lì per il pasto e che avevano assistito incuriosite all’incontro, si dileguarono ad un cenno di uno dei guardaspalle. Mito e Raff si scambiarono un’occhiata. Erano rimaste solo poche persone, tra le quali alcune ragazze in divisa e Teresa che vestiva normalmente. Aveva i capelli lunghi e ordinati, due vispi occhi azzurri,


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una maglietta rossa con l’effigie di Che Guevara, stivali in cuoio, fazzoletto nero al collo e pantaloni da cavallerizza. Dal viso si sarebbe detto una brava casalinga. Quando tutti si sedettero, lei si accoccolò a fianco del suo uomo cingendogli le spalle, in un gesto che rivelava un’intimità tranquilla, persino un po’ protettiva. Bernardo, per risposta, le prese la mano, quindi si rivolse ai due ospiti stranieri: «Mi dispiace amici, se vi ho fatto attendere. Spero che siate stati bene qui, anche se non siamo abituati ad avere estranei.» Mito e Raff a quelle parole non sapevano se protestare o mostrarsi comprensivi. Uno dei due doveva pur dir qualcosa e Mito fu la prima. «Infatti, non abbiamo capito perché ci avete trattenuto così a lungo, senza darci notizie. Abbiamo persino pensato di essere considerati prigionieri…» «No, no… se avete pensato questo… perdonateci ancora,» balbettò Bernardo, «ma il fatto è che un imprevisto ha modificato il nostro programma e ciò non mi ha consentito… senza che fosse nelle mie intenzioni… ma capirete subito perché solo adesso ho potuto incontrarvi…» Le sue guance erano diventate improvvisamente rosse. I due giornalisti avrebbero voluto credergli. «Che ne è stato di Faustino? Dov’è? Non l’abbiamo più visto qui al campo.» Bernardo

sospirò

profondamente.

Sembrava

alleggerito

dalla

domanda. «Ah, ecco, appunto, Faustino. Quasi dimenticavo. Anche Faustino vi fa le sue scuse. Si è precipitato a Nuova Merida per sbrigare alcune urgentissime questioni su nostro incarico. Vedete, è tornato alla sua casa, come tutti i contadini dell’anexo.» Questa volta il sospiro di sollievo fu di Raff e Mito e il loro volto si liberò da ogni dubbio. Bernardo si sciolse dall’abbraccio di Teresa e si alzò.


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«Il governo ha tolto la tassa sul raccolto. Blasco è da qualche parte che si lecca le ferite e se ne starà buono per un po’, sicché i contadini non saranno più tiranneggiati dalle sue pretese. Almeno per qualche tempo, gli abitanti dell’anexo saranno in pace.» Anche Raff e Mito sembravano adesso tranquilli e distesi. «Blasco non è uno che si arrende facilmente, e quando le acque si saranno calmate, potrebbe riprovarci.» Ci fu una breve pausa di silenzio. Sembrava che il comandante aspettasse che l’altro dicesse qualcosa. Raff controllò l’orologio da polso. «Bene, ora che tutto si è risolto nel migliore dei modi, che dire… possiamo levare le tende» disse con l’aria di chi comunica la conclusione della loro permanenza al campo. «Calma, calma. C’è tempo per ogni cosa.» Bernardo si era riseduto e il suo tono si era fatto serio. «Un

intoppo,

contesto

che

ben

conosciamo»

sussurrò

Raff

all’orecchio di Mito che sorrise. Teresa invece aveva ascoltato attenta il marito come lo sorvegliasse nel caso avesse avuto bisogno del suo sostegno. Il comandante drizzò la schiena e intrecciò le dita. «Conosco l’impegno che avete dimostrato mettendovi a fianco del nostro popolo. Lavorate per giornali tra i più importanti del mondo. Conoscete la situazione della nostra patria, della guerra civile che imperversa qui da troppo tempo. Avete corso rischi, vi hanno rapito perché vi avevano giudicato un pericolo e quando Faustino mi ha riferito di voi, ho pensato fosse mio dovere intervenire per chi coraggiosamente si era schierato in aiuto di Nuova Merida. Ho visto come ci avete anche difeso nella piazza, in mezzo ai combattimenti, durante l’attacco alla prefettura. Sì, avete avuto fegato e vi ringraziamo di tutto cuore.


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Ora, vi chiediamo un altro piccolo favore e sono certo che non rifiuterete. Vi chiediamo di fare in modo che a ciò che è successo a Nuova Merida sia dato il massimo risalto. Informate l’opinione pubblica dell’assedio di San Felipe, del grido di dolore dei suoi abitanti, della loro ribellione e dei giorni del riscatto. Date voce ai deboli che voce non hanno mai avuto e denunciate le responsabilità dei signori Blasco e Velez. Raccontate che abbiamo catturato un contractor, ufficiale della M.R.…» Raff si accese di curiosità e non lo lasciò finire: «Avete detto un ufficiale della M.R.?» «Esattamente. Lo abbiamo catturato, tradotto al campo e interrogato. Ecco spiegato il motivo della mia imperdonabile latitanza nei vostri confronti. Un prigioniero tanto importante meritava tutta la mia attenzione.» Raff e Mito balzarono in piedi. «Ma è fantastico, complimenti!» esclamò Raff Mito batté le mani. «Ha detto che si chiama…?» «Calma signori lasciatemi dire, vi prego.» I due tornarono a sedersi, pendevano dalle sue labbra. A loro quell’ometto sembrava ora un gigante. «Dunque,» riprese Bernardo, «abbiamo costretto l’ufficiale, il cui nome dai documenti in suo possesso risulta essere Akim Rajani, a raccontarci molte cose e, soprattutto, a spiegarci che cosa ci fa nel nostro Paese un gruppo armato straniero. Ma è meglio andare con ordine. Vedete, qualche mese fa, le nostre milizie hanno intercettato e sequestrato un aereo che portava i contrassegni dell’esercito degli Stati Uniti

d’America,

perché

penetrato

nel

nostro

territorio.

I

sessantaquattro uomini che il velivolo trasportava non appartenevano però all’esercito degli Stati Uniti. Strano vero? Ovviamente sono stati


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fatti prigionieri. Voi che avreste pensato? Noi abbiamo pensato male. Le nostre indagini, in seguito, hanno appurato che gli uomini facevano parte di un gruppo armato di sicurezza internazionale, repa rti della M.R. specializzati in azioni di guerra e antiguerriglia, dotati dagli Stati Uniti di equipaggiamento militare. La loro era un’azione clandestina, mirata ad appoggiare l’esercito colombiano o i reparti dei macellai paramilitari, secondo i casi. Un lavoro sporco. Purtroppo, qualche giorno fa altri reparti della M.R. hanno attaccato e liberato i sessantaquattro fatti da noi prigionieri…» A Raff tornò alla mente quel giorno. «È stato quando Faustino e io siamo stati testimoni dell’attacco ad una vostra caserma, alla periferia di Nuova Merida…» Bernardo annuì. «Già.» «Vanijenko si è accorto della presenza di noi giornalisti…» «Vi hanno scovato e rapito, approfittando della confusione che regnava in città. Per puro caso Faustino vi ha visto mentre l’azio ne era in corso, e ha dato subito l’allarme. Quando mi ha informato dell’accaduto, non ho esitato e ho disposto di tenerli d’occhio. Siamo stati fortunati. Quando abbiamo capito che eravate nelle loro mani, vivi, ci siamo preparati ad attaccarli. Il nostro obiettivo era di liberarvi e di riappropriarci dei prigionieri.» «Ma adesso avete in mano solo uno di loro, non è così?» domandò Raff. Bernardo si strinse nelle spalle. «Sì, purtroppo, sarebbe stata un’altra musica. Avremmo potuto scambiarli con i nostri che marciscono nelle galere di Velez. Abbiamo quel signore che ormai ci ha detto parecchie cose sul ruolo della M.R. in Colombia. » Mito si alzò, imitata da Raff. «Dobbiamo scusarci con lei. Non avevamo compreso che dobbiamo la


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nostra liberazione e, forse, la vita a lei e ai suoi uomini.» Anche Bernardo si alzò. Il volto del capo guerrigliero s’illuminò di un sorriso che divenne ancor più radioso, quando si girò verso la sua compagna che, per tutto quel tempo, non aveva fiatato. Lei, gli occhi brillanti c ome due gemme azzurre, ricambiò il sorriso. «Adesso hai finito qui?»


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Raff non lo voleva ammettere, ma c’era una cosa che non aveva ancora risolto e che lo rodeva: la morte di Dora. La sua vita, negli ultimi due anni, era stata costellata da troppe morti incomprensibili e impunite. Era stato dietro alle indagini che Rizzo conduceva, senza venirne a capo. Al suo ritorno dall’America Latina, Raff aveva ripreso a mettergli pressione con continue domande, come aveva fatto all’inizio di quelle dannate indagini, e bazzicava la questura più di quanto frequentasse casa propria. Dapprima, il commissario, paziente, lo assecondava, gli dava spago, sperando che la finisse prima o poi, e rimaneva sempre sul generico. Siamo sulla buona strada , gli diceva. Le indagini in Colombia, secondo lui, avevano dato buoni risultati, ma Raff non li vedeva e non sapeva che farsene delle raccomandazioni che gli faceva il commissario. Rizzo, da parte sua, se prima aveva tollerato la sua invadenza, adesso non lo sopportava più. Glielo aveva detto con le buone, doveva avere fiducia, l’inchiesta era arrivata ad un punto delicato, ma il suo comportamento poteva essere d’intralcio. Poi, considerato che Raff persisteva, lo aveva minacciato, non c’era da scherzare, anche lui doveva stare attento, quella era gente senza scrupoli, lo aveva diffidato di stargli alla larga o avrebbe fatto intervenire la procura e i carabinieri. Raff, dopo quegli avvertimenti, si era calmato e da quel giorno era stato lontano dal commissa rio Rizzo. Mantega aveva ricominciato a condurre un’esistenza meno frenetica. Nonostante la ferita ancora aperta che la morte di Dora aveva lasciato,


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il suo animo sembrava finalmente aver ritrovato un suo equilibrio interiore. Dopo la Colombia, il suo prestigio di fotogiornalista era aumentato, la sua firma richiesta in ogni parte del mondo, più di prima, poteva permettersi di scegliere il meglio e lavorare quando gli andava. Gli orrori che aveva conosciuto direttamente e quelle morti che lo avevano colpito al cuore, gli avevano insegnato a rifuggire dalla mondanità e dalle frivolezze di un tempo, uno stile di vita basato sul denaro, sul sesso e sul potere fine a se stesso erano ben poca cosa. Riprendersi la vita, questo era il suo motto, il suo vero obiettivo. E poi c’era Mito che non riusciva a levarsi dalla testa. No, non poteva essere tutto finito quel giorno in una tenda dell’accampamento delle FARC. Il pensiero di ricongiungersi a lei non l’aveva abbandonato, e l’occasione si sarebbe presentata presto. A Roma, nella villa sulla Cassia ormai Raff ci abitava stabilmente, ma dovendosi recare ogni tanto a New York per ragioni di lavoro aveva preso alloggio, per comodità, in un residence di Soho, un quartiere bohemienne attraversato dalla West Broadway a sud di West Houston Street. Aveva abbandonato i sogni di grandezza di possedere più case. Insistere nella controversia con il proprietario della villa di Toronto gli era costato caro. Per dire il vero, non era stato il solo errore, e in altri tempi forse si sarebbe disperato, perché non era solito perdere soldi. Le case di Londra e di Ginevra sarebbero state un ricordo, per questo avrebbe liquidato commercialisti e avvocati non più necessari, ma quando arrivava a New York si trovava bene nel suo appartamenti no, modesto ma intimo e riposante. Soho era un intricato groviglio di vicoli, su cui si affacciavano vecchie costruzioni in mattoni, un tempo fabbriche di manufatti che adesso erano importati dalla Corea e dalla Cina. I proprietari di questi edifici cadenti preferivano l’affitto sporadico degli artisti che fanno la fame, piuttosto che niente, inquilini


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che badavano poco al riscaldamento, alle condizioni delle tubature e a tutto il resto. E lì, a nord ovest di Chinatown, Raff aveva trovato ciò che faceva il suo caso, un bivano ammobiliato senza pretese. Seppur lontano da Roma, anche quel giorno, uscendo di casa da Hampton Street, aveva il suo chiodo fisso in testa. Un soffio di vento smuoveva la calda sera estiva. E dire che aveva di che essere soddisfatto per com’era andata la giornata. Qualche ora prima, al numero mille della Fifth Avenue, al Metropolitan Museum, aveva ritirato un premio prestigioso, istituito alla memoria del fotoreporter Robert Capa, consistente in una bella targa d’oro e in un assegno d i diecimila dollari. Un riconoscimento per la sua inchiesta fotografica in Colombia, pubblicata con risalto dal Chicago Tribune. Il giornale era uscito per due settimane con un inserto fotografico di trenta pagine. Un reportage sulla situazione colombiana che il caporedattore esteri Liam Neik, nel sommario del servizio aveva presentato così: Il fotoreporter Raff Mantega ha fissato nell’obbiettivo della sua camera le immagini di queste pagine. Sono fotografie scattate in Colombia a rischio della vita. Un prezzo che ha dovuto pagare purtroppo il nostro valoroso inviato Greg Barlow alla cui memoria è dedicata quest’inchiesta. Anche

Mito

Amarante

aveva

avuto

le

sue soddisfazioni. La

drammatica cronaca dei giorni là trascorsi era diventata un best -seller mondiale che le era valso il premio Pulizer. Mito si era conquistata l’apprezzamento dei lettori con il racconto del suo lavoro svolto che aveva messo a nudo intrighi, traffico d’armi e affari sporchi col tacito oneroso della Casa Bianca.


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Raff aveva deciso di fare un breve tratto a piedi quella sera sulla Cinquantaduesima, prima di prendere un taxi che lo avrebbe portato al Ritz-Carlton Hotel in Central Park. Luigi Monser, intervenuto alla sua premiazione, gli aveva dato là appuntamento assieme a Mito, affinché non dovesse continuare a districarsi dai complimenti, pacche sulle spalle e strette di mano. Non sarebbero stati soli al Ritz. Liam Neik, presente pure lui alla premiazione, aveva poi telefonato a Monser per proporgli di organizzare un incontro con i due

reporter per un colloquio

chiarificatore. A Raff e a Mito non era sembrato importante, ormai qualsiasi cosa si volesse ancora dire o chiarire, tuttavia, alla fine, avevano accettato l’incontro. Raff svoltò per la Sixth Avenue, e proseguì passando davanti , senza vederli, ai tanti negozi eleganti. Si stava facendo tardi, era il momento di prendere il taxi per il Ritz. Durante il tragitto, continuava a pensare a Greg e a Manuel. A distanza di sei mesi, niente era cambiato. Della povera fine che aveva fatto il corpo di Greg, mai restituito, se n’era perduto persino il ricordo, anche i giornali non ne facevano più cenno, per non parlare dell’assassinio di Manuel. Tutto si era dissolto come fumo al vento. Il taxi lo depositò sotto la rossa pensilina d’ingresso dell’hotel. Due dollari al tassista e scese dall’auto gialla. Stava per domandare al grasso portiere d’albergo, berretto nero e guanti bianchi, paludato in una lunga ed elegante uniforme grigia borchiata d’oro, se fosse già arrivato Mr. Monser della France Press, quando lo vide comparire, accompagnato da Mito. Non li incontrava dal giorno in cui aveva lasciato la Colombia. Si erano sentiti poco da allora. Monser, che pure stava a Roma, come Raff, era stato molto impegnato. Mito, occupata a lavorare al suo libro


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e a vagliare le offerte di lavoro piovutele, era pressoché scomparsa. Ma ora anche lei era lì. Impeccabile come sempre, Mito indugiò con lo sguardo su di lui, puntandogli addosso i suoi due fanali grigi. Le labbra rosse accennarono un sorriso luminoso. Lui le restituì il sorriso e lo sguardo, i suoi occhi la tradivano. Era sempre come la ricordava, profumava di bucato fresco e di sapone alle mandorle. Rivedendola, si pentì per l’ennesima volta di non averla chiamata, di aver fatto passare tanto tempo. Oltretutto, avevano corso il rischio di non incontrarsi neanche questa volta. L’aereo che l’aveva portata dal Brasile aveva dovuto fare una sosta forzata in Venezuela, e lei non era giunta in tempo per assistere

alla

premiazione

di

Raff.

Se

n’era

profond amente

rammaricata, e ora, quando lo vide, arrossì, sentendo ritornare dentro di sé il desiderio del suo corpo che la lontananza non aveva spento. Si sciolsero dall’abbraccio del caloroso saluto senza bisogno di parole. Le parole sarebbero servite per affrontare, di lì a poco, Liam Neik che li attendeva nella hall dell’albergo. Non ci furono convenevoli, quando salutarono Liam Neik. Presero posto ad un tavolo, Mito tra Luigi e Raff, Liam Neik di fronte. Raff era impaziente. «Sono proprio curioso di sapere che cosa hai da dirci, Liam. Io ho fatto un lavoro per il tuo giornale, mi hai pagato, lo hai pubblicato, hai rispettato il contratto. Bene, io sono contento di quanto ho guadagnato e tu di quanto hai venduto. Il capitolo è chiuso. Quindi che c’è ancora?» «Signor Neik, io non ho alcun obbligo nei suoi confronti» si associò Mito. «Non capisco perché Luigi abbia insistito tanto perché venissi anch’io.» Neik si grattò il naso, un gesto che Raff si ricordò di avergli visto fare altre volte, quindi prese a parlare: «Mi è dispiaciuto molto, moltissimo,


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quando sono venuto a conoscenza di Greg e della morte del collega colombiano che ha lavorato con voi. Greg è stato uno dei più esperti cronisti che abbia avuto, il migliore tra gli inviati speciali e la sua tragica fine mi ha colpito nel profondo del cuore. Non ci volevo credere. Ve lo giuro, ho mosso mari e monti… perché almeno il suo corpo…» si fermò al sopraggiungere del cameriere con quattro martini che pose sul tavolo. Mito era avvampata, ma quando parlò tentò di dominarsi. «Forse è stato un rigurgito di buoni sentimenti, signor Neik. Ho già ricevuto le sue condoglianze, e faccio fatica a credere che abbia fatto tanta strada solo per rinnovarmele…» Neik capì. «Sì, infatti… Non è per questo che ho chiesto di parlare con voi… Ecco… Adesso che molte cose si sono chiarite…» «Non tutte, Liam,» lo interruppe Raff, «non tutte.» «Sì… ma vorrei che fosse chiara una volta per tutte almeno la mia posizione…» «Ti assicuro Liam che non c’è stato alcun fraintendimento.» Neik si grattò il naso. « Quello che voglio dire è che… Insomma, appoggiare Apricot non è stato un crimine, io credo. Era a tutti nota la posizione del Tribune. È un giornale conservatore e ha sempre appoggiato candidature repubblicane. Non potete certo incol parmi di questo…» «Certo che no, non è questo che ti rimproveriamo.» «Né di essere stato un socio della System Martin Corporation, insieme ad Al» lo anticipò Neik. «Se poi volete alludere a Vanijenko e ai suoi rapporti con Apricot, io cosa c’entro? Saprete che l’Autority aveva aperto una procedura di blind trust per bloccare un eventuale conflitto d’interessi, che poi si è dimostrato inesistente. E allora, dov’è il problema? Dovete credermi. Ho sempre ritenuto che la posizione di Al


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Apricot fosse conforme all’etica corrente, per quanto

mi riguarda,

reputo di aver agito sempre correttamente…» Neik afferrò il bicchiere di martini e lo trangugiò di un fiato. Raff disse seccamente: «Dacci un taglio, Liam, veniamo al sodo. Il Congresso non ha mai autorizzato il Dipartimento di Stato ad intervenire direttamente in Colombia. Il Plan contempla solo l’invio di armi e di consiglieri al governo colombiano…» «No… Non è esatto, il Plan consente anche alla M.R. e ad altre agenzie private di fornire supporto logistico e militare alle forze armate.» «Alle nostre, Liam, alle nostre forze armate… Ma non è questo il punto. La verità è che i paramilitari ricevevano armamenti sottobanco, ossia senza alcuna autorizzazione del Congresso americano. E tutto ciò con lucrosi vantaggi per la corporation che hai citato e per l’agenzia di Vanijenko. Sono cose che sai già, i documenti di Greg ti coinvolgono senza ombra di dubbio, puntano il dito contro di te.» Neik aveva ascoltato molto attentamente. «Allora voglio dirti una cosa, Raff,» replicò, «e non dirmi che non fosse di dominio pubblico, perché tutto il mondo ne era a conoscenza. Quando Al si è candidato, il suo programma prevedeva, insieme al rifinanziamento del Plan, una sua estensione, compresa un’apertura di credito alle formazioni paramiliari. Al pensava di coinvolgerle, perché ha sempre ritenuto utile il loro impiego nella lotta contro la droga, dove hanno ottenuto indubbi successi. Non sono mai state nascoste queste scelte. Sono agli atti del Congresso, e all’epoca ne parlarono anche i giornali. Ti dirò di più,» soggiunse

facendosi avanti sulla sedia, «durante la campagna

elettorale, Al promosse in senato la costituzione di una Commissione per sostenere una Colombia libera. La Commissione, a causa dell’incertezza politica che regnava in quel Paese, impegnò il


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Dipartimento di Stato a nominare un Coordinatore per l’applicazione del Plan Colombia. Il senatore aveva già suggerito il mio nome…» Raff lo canzonò. «Questo particolare mi era completamente sfuggito, Liam. Ero distratto da altre cose…» Neik era sulla difensiva: «Ne parlai anche con Karl, il direttore del Tribune e con la proprietà. E pure loro erano d’accordo. Ovviamente, in quel caso, se avessi ricevuto l’incarico, avrei lasciato il giornale, sarei stato io a rischiare le chiappe, non scherziamo, mi credete uno stupido?» «Questa conversazione sta cominciando ad imbarazzarmi, Liam. Greg aveva scoperto che le armi erano destinate anche ai paramilitari. E i paramilitari, in cambio, pagavano una provvigione del tre per cento a lla System Martin Corporation in cui anche tu, con Apricot, avevi una quota di partecipazione. La storia puzzava alla grande di bustarelle. Greg ne fu talmente disgustato che non voleva avere più niente a che fare con te e con il Tribune…» Mito ascoltava, rigida sulla sedia. Mise la mano nella borsetta, poi con calma deliberata, scelse una sigaretta dal suo astuccio, gesto in cui Luigi riconobbe l’eccitazione repressa. Neik tentava ancora di giustificarsi. «Lo so, lo so, non c’è bisogno che me lo ricordi… L’ultima volta mi aveva chiamato per dirmelo, lo so. Poi, il caso ha voluto che fossi io a portargli una cattiva notizia. Cecil, la moglie, mi aveva pregato di comunicargli che il figlio era in coma. Non sapeva che fine avesse fatto il marito, una brutta faccenda. Greg non era tipo che tenesse contatti regolari con la famiglia. Anzi, oserei dire che non è stato neanche un buon padre per Buddy. E se Cecil non gli ha mai voluto concedere il divorzio, è perché sperava in un ricongiungimento della famiglia, con il figlio in particolare. Comunque sia… quel ragazzo non l’ha visto crescere. Al telefono ho sentito Greg


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sconvolto. Sarebbe corso… se avesse potuto farlo… » «Ma non ha fatto in tempo… » sussurrò Mito. Neik piagnucolava. «Non pretendo che la pensiate come me, ma almeno che riconosciate la mia buona fede. Per questo ho chiesto di incontrarvi…» Mito riconobbe l’impazienza dietro l’apparente neutralità di Luigi e lo guardò con aria d’attesa, finché anche lui s’intromise. «Vedi Liam, credo che continui a non capire. Le tue scelte non ci riguardano. Quello che Mito e Raff ti rimproverano è che tu abbia manovrato Greg Barlow per i tuoi fini fossero o no leciti. A sua insaputa, lo hai utilizzato per i tuoi scopi personali. Qui entra in ballo la tua coscienza, Liam .» Neik si alzò di colpo. «Ma, insomma, come vi permettete! Cosa vi dà il diritto di accusarmi?» «Siediti Liam,» lo calmò Raff, «se rifletti, non è che ti sia comportato da collega leale…» Mito schiacciò la sigaretta sul posacenere, si portò sulle labbra il suo bicchiere di martini e ne bevette un sorso. «E Vanijenko?» buttò lì, gelida, posando il bicchiere sul tavolino. «Che ruolo avrebbe avuto questo Vanijenko? Un giglio in un campo di margherite, immagino…» Neik si risedette passandosi una mano sui capelli. «Quello che mi sto sforzando di dirvi è che le cose sono più complicate di quello che sembrano» inspirò profondamente, serrò le labbra. «Porca miseria! Le cose si sono maledettamente imbrogliate, quando una missione della M.R. è stata intercettata dalla guerriglia.» «I sessantaquattro mercenari catturati in Colombia dalle FARC» precisò Raff. Mito rincarò la dose. «Ho capito bene? Ma non era stato escluso che si trattasse di un’operazione militare clandestina?»


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Neik si strinse nelle spalle. «Sì, almeno ufficialmente. Questo è il punto» rispose non facendo caso al tono provocatorio. «Il governo aveva detto, nessuna missione clandestina, nessuna copertura a forniture illegali d’armi. La M.R. tuttavia faceva questo genere di operazioni ogni tanto e per l’invio dei sessantaquattro uomini, Vanijenko aveva chiesto la copertura di Apricot, e Apricot gliela aveva data. Una sorta di garanzia personale. Al contava sulla sua elezione a Presidente. Tutto sarebbe filato liscio, sennonché l’aereo fu intercettato e poi sequestrato dalle FARC.» Raff esplose: «Il governo non ne sapeva niente, e Apricot si è sentito in diritto di avallare un’operazione addirittura non autorizzata, illecita, in combutta con i suoi amici della M.R., e confidando sulla buona sorte per la sua elezione a presidente, che non è avvenuta? Un vero giocatore d’azzardo, un gran pezzo di merda, non c’è che dire. Quasi stento a crederci.» Per un attimo tutti ammutolirono. Mito per prima ruppe il silenzio. «Già. Tutto stava andando secondo i piani di Apricot, finché non è arrivato Raff che ha voluto indagare sull’aereo sequestrato in Colombia. E qui è entrato in gioco lei, signor Neik» disse guardandolo negli occhi. «È così, non è vero?» «Solo per un puro, maledettissimo caso. La cosa poteva anche fi nire lì. La notizia era arrivata alle agenzie, ma nessuno, proprio nessuno, aveva dato peso alla cosa. Quando poi ho ricevuto la telefonata di Monser che mi accennava ad un fotoreporter che voleva vederci chiaro, allora mi sono detto, ecco ci siamo. Sono riuscito a far sì che la CIA smentisse tutto, sperando che tu, Raff, desistessi dal tuo proposito. Ma poi, visto che Monser insisteva perché ti conoscessi, ho pensato che fosse meglio così: avendo contatti diretti con te, avrei potuto tenere sotto controllo la situazione. Se ti fossi rivolto ad un altro giornale,


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sarebbe stato un guaio. Ho fatto sì che avessimo l’esclusiva del tuo reportage e io ti avrei tenuto d’occhio.» Raff non poté trattenere un moto di rabbia. «Mi hai fatto seguire, mentre ero in Colombia?» «Era Vanijenko che doveva occuparsi di te, tenendoti a distanza.» Raff scosse la testa. «Non trasformarmi in un tuo nemico, Liam, ci sei molto vicino.» Neik

non

gli

rispose.

Pensieroso,

si

limitò

a

proseguire:

«Naturalmente, quando sono stati catturati i sessantaquattro, il Dipartimento di Stato americano si è allarmato pensando che sarebbe potuto scoppiare uno scandalo

internazionale e ha tentato

di

coinvolgere la CIA…» Luigi inarcò le sopracciglia. «…esperta in despistaggi…» «Ma questa ha nicchiato» proseguì Neik. «Non sono uomini nostri, ha detto, che se la sbroglino quelli della M.R. e così è stato. Se n’è occupato Vanijenko. Quando me ne ha parlato l’ho avvertito di non fare sciocchezze. Vanijenko è un professionista che sa fare il suo lavoro, non è solo un buon militare, ma anche uomo freddo, accorto e prudente. Mi fidavo di lui. Per lo meno, sino ad allora.» «Ma continuo a non capire una cosa» disse Mito che non aveva smesso di guardarlo ostile. «Perché Greg. Per quale straccio di motivo qualcuno ha fatto fuori Greg? Se lo è chiesto, signor Neik?» Neik questa volta ricambiò lo sguardo della donna. «La verità è che non lo so, non lo so proprio. Cosa crede? Ero all’oscuro, prima

ho

pensato a un

incidente,»

esclamò

quasi

inalberandosi, « e ho chiesto un po’ dappertutto, domandando spiegazioni a tutti quelli che avrebbero potuto sapere. Anche a Vanijenko. Lui ha sempre negato di aver avuto a che fare sia con l’omicidio di Greg che con quello del colombiano… come si


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chiamava…» «Manuel Rojo» lo aiutò Mito. «Sì, lui. In ogni caso, Vanijenko non ammetterebbe mai che si sia trattato di omicidi, lui li considererebbe azioni di guerra. Non so veramente…» fece infine quasi sconsolato. «Credo che nel caso di Greg… in quell’occasione la situazione gli sia sfuggita di mano… Non so… È successo qualcosa che non so spiegarmi… Forse un errore di comunicazione…» Neik si bloccò, Mito lo metteva a disagio, era come se trovasse difficoltà a continuare. Lanciò un’occhiata ai due martini che non erano stati toccati, fissandoli come un bambino davanti a una caramella. Luigi capì che Neik era in difficoltà e glieli avvicinò facendoli scivolare sul tavolo. Neik ringraziò, ne afferrò uno e poi l’altro e bevve avidamente. «Quando è stato ucciso…,» proseguì, «in quel modo poi… Ho cominciato a preoccuparmi…» «È stato dopo la morte di Greg,» osservò Mito, «che le cose si sono complicate.» «Vi torno a dire, con quella morte io non c’entro. Non c’entro per niente, nel modo più assoluto! Né io, né Vanijenko…!» Raff ebbe come una folgorazione. «Un momento.» Tutti gli occhi si puntarono su di lui. «Io ho subito due incidenti d’auto… A Roma, prima di partire e al mio arrivo, a Bogotà. Ero con te, ricordi Mito?» Mito non sembrava convinta. «E allora? Cosa ti fa pensare ad un collegamento…?» Raff disse in modo spicciativo: «Tu, Neik, ovviamente, non ne sai niente…» Neik era al limite della sopportazione.


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«Ma non so di che parli, Raff! Non mi aspetto che capiate le mie scelte, ma nemmeno che arriviate a pensare che io abbia potuto rendermi complice di un atto così abominevole… e nemmeno quando ne sono venuto a conoscenza ho potuto accettare, accidenti, l’idea che un mio collaboratore fosse stato eliminato… Ma a quel punto l’unica cosa che potevo fare era quella di battermi per avere indietro il suo corpo, anche se non ci sono riuscito… è stato tutto inutile… Mi dispiace… mi dispiace molto…» A quelle parole Mito si alzò allontanandosi. I due uomini, invece, non si mossero. «Rimorso tardivo» tagliò corto Raff. «Colpa ne hai anche tu, Liam. Non direttamente, forse. Ma insomma… Sarai pure sincero, ma, secondo me, i tuoi rapporti con quella gente non sono giustificabili. E forse non sei in tempo a salvare la faccia, ma almeno prova a compiere un atto di dignità, che so, dimettiti dalla System Martin Corporation, ad esempio. Dico veramente. Oppure rinuncia a quell’incarico… come … come si chiama?…» fece finta di chiedere a Luigi. «Coordinatore per l’applicazione del Plan.» «Già, coordinatore per l’applicazione del Plan» ripeté Raff. Mito era nel frattempo ritornata, ma sembrava visibilmente provata. Luigi cercò di sollevarla e Raff l’abbracciò. A Liam Neik non rimase altro da fare che andarsene. Si allontanò a passo veloce senza dir niente, e uscì dall’hotel.


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Si chiamava Vincente Pantayo, detto El Cortador, il Tagliatore, trentun anni, un metro e sessantasei per settanta chili di peso, picchiatore e sicario di medio calibro del cartello di Cali, Colombia. Di lui si conosceva l’abilità nel maneggiare il coltello che usava per sgozzare come maiali, le sue vittime. La sua presenza a Roma aveva destato sospetti, perché quando un killer colombiano arriva in città e si fa vedere in giro con quelli della Banda dello Sguincio senti puzza di bruciato. L’Interpol lo aveva segnalato al commissario Gennaro Rizzo, poco convinto ancora che fosse proprio lui, Vincente Pantayo, chiamato El Cortador, il Tagliatore. Non esistevano foto segnaletiche, si sapeva tutto sul suo conto, ma nessuna foto e niente impronte digitali. Sicché, Rizzo lo fece pedinare dall’agente Esposito per avere conferme. Vincente Pantayo, alias El Cortador, il Tagliatore, si era stabilito in una vecchia casetta di legno sotto il viadotto della Magliana, a pochi passi dall’autostrada per Fiumicino. Esposito sapeva che era in casa, aveva accostato la sua auto a debita distanza e aveva parcheggiato. Rizzo gli aveva detto che voleva conoscere i suoi spostamenti, cosa faceva e chi incontrava, se non sapeva una parola d’italiano, ma soprattutto, voleva scoprire che cosa ci veniva a fare uno come lui da quelle parti, col pedigree che portava. Il poliziotto ascoltò la radio a bassa frequenza, diede le coordinate alla sala operativa, sentì le notizie, controllò l’armamentario del suo travestimento e attese, paziente.


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Era mezzogiorno di sabato, quando il Tagliatore uscì di casa. Non usava l’auto, andava a piedi, saltellava, camminava in modo strano, zoppicava, pencolando sulla destra. Sarebbe stato facile seguirlo tra la folla. Mentre guizzava via come un grillo, fumava, poi faceva qualche metro, si fermava e consultava un giornalino tipo la settimana enigmistica. Colpì di striscio un albero e andò quasi a sbattere contro una siepe, prima di interrompere la sua scarpinata alla fermata di un autobus. Due ragazzacci che gli passavano accanto, aven dolo notato, lo schernirono, guardandolo di traverso: «A Punto e Virgola, sei proprio matto!» commentarono. L’agente Esposito annotò: fermata del bus 135. Il Tagliatore aveva un aspetto strano, indossava un vestito sformato, aveva una testa di radi capelli arruffati e crudeli occhi neri. Il poliziotto mise in moto l’auto e seguì il bus. Scoprì che era un incallito fanatico delle corse di cani levrieri. Lo vide scendere dall’autobus alla fermata del cinodromo. Lo sciancato, il Tagliatore, si guardò attorno, sfilò dalla tasca della giacca il giornalino tipo settimana enigmistica e si accese una sigaretta, fermandosi nei pressi dell’ingresso, immerso nella lettura. Esposito non lo perdeva d’occhio, inforcò un paio d’occhiali da sole scurissimi, prese il bastone bianco e scese dall’auto. Il Tagliatore si decise, fece schizzar la sigaretta tra le erbacce ed entrò con quella strana andatura claudicante nella sala delle scommesse. Esposito lo pedinò facendosi precedere dal bastone bianco. Malgrado il difetto fisico , il Tagliatore camminava veloce e il poliziotto faceva fatica a stargli dietro, doveva sembrare pressoché cieco dopotutto. La folla che si assiepava ai cancelletti lo lasciava passare, sicché, pur non essendo distante dallo sciancato e col fiatone, fece in tempo a vederlo che comprava un biglietto e che sgomitava a scatti in mezzo alla gente, la quale, scansandosi, lo guardava con ribrezzo e diceva : «Ma guarda questo


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pazzo!» Il Tagliatore si fermò, di nuovo tirò fuori il giornalino, che a quel punto l’agente intuì dovesse essere il programma delle corse e delle scommesse, sfilò una matita dal taschino, studiò il foglio e lo scarabocchiò, meditò e riprese a camminare svelto in direzione del settore degli scommettitori. Estrasse un rotolo di banconote, si pre sentò alla finestrella delle puntate da cinque euro. Puntò dieci corse sugli sfavoriti, cinque euro ciascuno. Parlava in modo strano, rapido, quasi incomprensibile, ma il cassiere lo scambiò per uno zotico meridionale, perché domandò al collega alla sua sinistra se capiva ciò che diceva. L’altro rispose: «Lascia perdere e prendi i soldi.» Il cassiere lasciò perdere, ritirò i soldi e gli consegnò le ricevute. Il Tagliatore si allontanò ed Esposito lo seguì. Camminava claudicante e veloce, da un’altra tasca della giacca cavò fuori una bottiglia, forse gin o rum o tequila, ogni tre passi beveva un sorso e riprendeva a guizzare rapido e claudicante, faceva tre passi ancora e trincava di nuovo. Esposito contò i passi e si fece una risata. Arrivarono alla gradinata, il Tagliatore raggiunse un posto a sedere, appollaiandosi accanto a un gruppo di belle ragazze, alcune bionde, dalla bellezza patinata come quella delle dive, ma loro come se lo videro a fianco, brutto, strano e disfatto, arricciarono il nasino e fecer o smorfiette schizzinose. Anche Esposito si sedette due fila più in alto, godendosi la vista del recinto, della pista e dei levrieri alla sbarra di partenza. La campanella suonò, i levrieri si scatenarono e il Tagliatore cominciò a perdere la testa, gridando a squarciagola: «Vai, vai, vai!» La coda della camicia si alzò ed Esposito adocchiò, legata a una cinta di cuoio, una fondina, anch’essa di cuoio, di foggia strana, forse lavorata a mano, che non gli era mai capitato di vedere e dalla quale spuntava un


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manico di coltello intarsiato d’avorio. Il Tagliatore trangugiò gin, forse rum o tequila, urlò in spagnolo, si percosse il petto e, nel gridare, proiettava sputi in aria. Le bellezze si spostarono, i levrieri tagliarono il traguardo e lo sciancato strappò la ricevuta delle scommesse. Era furente, imbronciato, faceva avanti e indietro sugli spalti, prese a calci bicchieri di carta e trincava a più non posso. Il Tagliatore riprese in mano il programma delle corse e se lo studiò, prese la matita, fece due sgorbi e si grattò il cranio con la punta. Meditava e si grattava, meditava e se la passava tra le narici. Tre marinai in divisa blu, si sedettero e lo sciancato, meditabondo, scivolò accanto a loro. Si accorse dei marinai e cominciò a dire qualche battuta in spagnolo. I marinai risero e lo sciancato continuò a sparare stronzate, finché offrì loro la bottiglia. I marinai la tracannarono a turno, mentre lo sciancato continuava a sparare stronzate e quelli cominciarono prima a ridacchiare, poi a ridere sgangheratamente fino a prenderlo in giro. Lo sciancato s’incazzò e fece per riprendersi la bottiglia, ma quelli se la lanciarono sopra la sua testa. Il giochino funzionava, i tre ci presero gusto, perché lo sciancato non riusciva ad acchiapparla. Sicché, si alzarono, tesero le mani e si lanciarono la bottiglia, costringendolo, lui basso, i marinai alti, a saltare. Lo sciancato guizzava e la bottiglia viaggiava di mano in mano, finché questa cadde e si ruppe. I tre marinai scoppiarono a ridere, lo sciancato sgranò le pupille e quelli risero più sguaiati. Lo sciancato s’incazzò per la seconda volta, il suo viso si sformò in un ghigno ferino, si toccò dietro, all’altezza del lombo destro, dove c’era la fondina, impugnò, senza essere visto dai tre, il manico intarsiato d’avorio. Esposito aveva seguito la scena, non gli era sfuggito alcun particolare. I marinai, sbronzi, non avevano smesso di ridere. L’agente s’irrigidì, si mise in allarme, pronto a scattare per impedire il fattaccio. Ma lo sciancato scoppiò a ridere pure lui,


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lasciando perdere la fondina. I tre marinai ridevano e ridevano. Anche Esposito rise. I marinai erano ancora piegati in due dal gran ridere, erano barcollanti, anche lo sciancato rideva. Disse: «Hasta luego, amigos!» e li lasciò lì, forse perché aveva altro da fare. Infatti, s’incamminò veloce in direzione del bar. Esposito lo tallonò, il Tagliatore si sedette al banco, ordinò un curacao e sgranocchiò una merendina del mulino bianco. Guardava di quando in quando l’orologio in alto sulla parete, aveva fretta, doveva spicciarsi, sbafò un’altra merendina, ingurgitò d’un fiato il curacao, s’ingozzò ancora di merendine del mulino bianco, passò di sgabello in sgabello, finché scappò giù per le scale, saltando e zompando veloce alla sala scommesse. Lo sciancato raggiunse il recinto, assistette alle corse, s’ingollò merendine del mulino bianco, si stuzzicò i denti, fece altre scommesse perdendole tutte, s’imbronciò, importunò biondine, si grattò la testa, attaccò discorso con gli addetti alle corse facendoseli amici. «Sono stato un fantino da ragazzo» gli sentì ripetere Esposito più volte in uno sgangherato italiano misto a spagnolo e inglese. Ma i suoi nuovi amici non lo volevano prendere sul serio. «Smettila, non dire stronzate» dicevano. «Davvero» insisteva lo sciancato. «Ero un uomo di scuderia». Gli altri lo canzonavano «Tu sei matto!» gli dicevano ridendo. Lo sciancato si era stancato di questi che lavavano il culo ai levrieri e che non gli davano retta, perciò li piantò in asso e disparve in direzione delle latrine. Ci rimase un bel po’ dentro, tanto che l’agente Esposito si chiese che fine avesse fatto e temeva che gli fosse sfuggito, ma ecco che lo vide comparire all’improvviso. Aveva i capelli radi ancora più arruffati e i pantaloni bagnati di piscio. Correva alla sua maniera, rapido e scomposto, come uno sciancato, e cercava una cabina telefonica. Esposito si allarmò, chi chiamava, uno che non conosceva nessuno? L’agente guardò l’orologio. Dopo cinque minuti


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esatti, il Tagliatore agganciò la cornetta, spalancò la porta della cabina e corse a rotta di collo fuori del cinodromo. Esposito lo inseguì, prese il cellulare e informò Rizzo. Pantayo, Vincente Pantayo, altrimenti detto El Cortador, ossia il Tagliatore. Era tarchiato, tracagnotto, una testa di radi capelli arruffati e crudeli occhi neri. Non si contavano più gli omicidi cui era accusato. Era un uomo di scuderia, caduto da cavallo, aveva sbattuto più volte la testa. Beveva troppo, giocava troppo e importunava le biondine. La sua passione era la corsa dei greyhounds, i levrieri inglesi. Dove c’era un cinodromo, c’era anche lui. Non aveva la patente, non guidava la macchina, andava a piedi e prendeva l’autobus. Il commissario Rizzo disse: «Sembra lui. Non fartelo scappare. Occhio.» L’agente Esposito disse: «Ecco, adesso esce, prende al volo il 73! La lascio, capo. La richiamo.» Esposito gli fu subito alle calcagna. Lui in auto, lo sciancato in autobus. Era stanco di brutto, Esposito. Una giornata di pedinamenti, col bastone, a quarantanove anni d’età l’aveva distrutto. Era sfinito, sbuffava a più non posso, quando si accorse che il bus 73 si era fermato a Tor di Quinto. «Porca puttana!» gli scappò. Afferrò la radio e chiamò la sala operativa: «Capo, è a Tor di Quinto, lo vedo scendere dal bus. Siamo in via Del Cenacolo. Ora entra in un’auto che di certo era ad attenderlo di fronte alla fermata… Ecco, partono. Ma che faccio, ci vado dietro?» «Certo, scemo» gli urlò Rizzo. «Sei a poca distanza dalla villa di Mantega. È là che si dirigono! Tienimi informato, arrivo con una pattuglia.»


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Dopo aver fatto una doccia salutare, Raff si stava pettinando allo specchio della sua stanza da letto. I capelli neri ondulati erano acconciati con estrema cura come quelli di un divo, il volto aveva un bel colore acceso con una perfetta rasatura e le mani ben curate. Si sentiva un uomo totalmente diverso da quello che era partito per la Colombia un anno e mezzo fa. Mise indosso un doppio petto grigio squisitamente tagliato su misura e si fece il nodo alla cravatta. Era quello un giorno speciale, doveva recarsi da Luigi in agenzia, si prospettava una collaborazione e si sentiva in gran forma. Luigi, non ne aveva dubitato, si era confermato un vero amico. Mito, grazie ai buoni auspici di Luigi e al prestigio che si era conquistata sul campo, avrebbe lavorato per la redazione di Roma e presto sarebbe stata al suo fianco. Raff aveva telefonato alla zia Nicoletta. Mito, prima di prendere possesso della sua scrivania, aveva accettato di passare un periodo di vacanze a Santa Maria Navarrese con lui, e lui non voleva tradire le attese. Si acconciò il nodo alla cravatta e si preparò ad uscire. Era in uno stato di esaltazione grazie a Mito, incominciava una nuova vita e aveva tanti progetti da condividere con lei. Mito gli dava un o scopo, lo stimolava. Si era disfatto della proprietà di Lugano, aveva detto basta a tutte le false residenze: la villa sulla Cassia e la casa a Santa Maria Navarrese, dove si sarebbe recato più spesso, erano più che sufficienti e vedeva con più favore il far visita alla zia Nicoletta di quando in


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quando. Sarebbe stata contenta di far la conoscenza di Mito. La zia era una donna all’antica, le avrebbe fatto piacere vedere il nipote prediletto che si avviava verso una nuova vita. Scese le scale per avviarsi verso il garage. Aveva venduto il suo parco macchine, Porsche compresa e una Punto Fiat gli andava più che bene. Se l’affare di Toronto era andato in fumo, la causa con Prada l’aveva strapersa. Contrariamente a quanto sarebbe capitato nella vita precedente, non se ne era dato pena. Era stata una ragione di più per non avere a che fare con il vecchio mondo. Una soddisfazione, però, se l’era presa. Luigi, che tanto aveva fatto all’inizio perchè desistesse dall’idea di abbandonare il campo della moda e della pubblicità, si era al fine ricreduto. Era entrato nel garage, stava per montare in auto, quando sentì chiamare alle spalle. «Señor Mantega?» Fu questione d’istanti. Istintivamente Raff si voltò in direzione di quella voce, nel momento in cui da un punto imprecisato un’altra gli gridava: «Buttati a terra Raff!» Ebbe solo il tempo di udire il sibilo. Qualcosa lo punse, un ago o uno spillo. Il sangue schizzò sui vetri dell’auto. Non ebbe subito contezza della cosa, non sentì male, ma si sentì mancare all’improvviso, come se gli

fosse

arrivata

addosso

una

mano

gigantesca

che

volesse

schiacciarlo. La vista gli si annebbiò, le forze gli mancarono del tutto e si afflosciò. Poi, più nulla. «Non le devo raccontare storie.» Le parole gli arrivarono fredde, metalliche, non riconobbe la voce femminile, rauca e stentorea, che le pronunciò. Un brusio fitto, come quello delle foglie agitate dal vento, mescolava tra loro le parole. Un


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ronzio ossessivo in mezzo al quale sembrò di cogliere una voce straniera, ma di certo non lo era, pensò Raff. Si sentiva sfinito, ma una parte della mente era lucida. Sì, forse una voce spagnola, francese, o portoghese… non anglofona. Quanta gente di ogni parte del mondo aveva sentito parlare, lui sapeva riconoscere uno straniero che parlava italiano.

Di che storie parla?

Quel chiacchiericcio sommesso

proveniva da qualche parte, non sapeva dove, di certo era in una stanza, pensò, una stanza pregna di odore di alcol metilico che gli dava nausea. Sentiva le vene pulsare come tanti tamburi che picchiano forte in ogni parte del corpo, la testa gli parve un braciere ardente. Vedeva solo delle ombre, figure vaghe e lontane dai contorni indistinti. Un muro invisibile, una lastra di ghiaccio o di vetro ghiacciato, tutto era così confuso, lo separava da quelle figure che gli stavano ora vicine ora lontane. Un volto scuro, che baluginava come un fascio smorto di luce in uno sfondo grigio, era chino su di lui. Da un’altra parte di quello spazio imprecisato in cui si trovava, ecco giungere, a sorpresa, un’altra voce, per lui ben ravvisabile, quella di Mito. Gli era accanto e lo chiamava: «Muove le palpebre, vede? Raff!» Sì era lei. Raff avrebbe voluto muoversi, andare incontro a quella voce soave, ma non poteva. Mi dici perché non riesco a muovermi? Era bloccato, si sentiva il viso, il collo, le braccia, tutto il corpo avvolto da non sapeva bene cosa, incapace di attivare una qualsiasi cellula del suo organismo. Una massa fluida schifosa con un odore nauseabondo di alcol gli colava dalla cima dei capelli in giù e contrastava la sua volontà di movimento, lo sommergeva e gli faceva mancare il respiro tanto era schifosa, gli impediva di urlare. Lo spazio attorno ronzava e le orecchie fischiavano. Era un lenzuolo che lo copriva e il respiro tornava a farsi ansimante. Boccheggiava, rantolava,


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soffocava. Era la glassa che vomitava e lo ricopriva e lo ingessava, era la merda che aveva prodotto in quella sua vita di merda che lo aveva sommerso e dalla quale non si era ancora liberato. Riflessi metal di proiettili che lo colpivano, una fitta allo stomaco. Allucinazioni, nient’altro che allucinazioni, si diceva. Sarò lucido, non mi faccio fregare questa volta. Ma l’odore di alcol non lo sopportava. Conati di vomito lo assalivano, frequenti, e tutto gli girava attorno, prigioniero. Era un prigioniero schiacciato da una catena d’acciaio, non era vero che aveva superato la prova, qualcosa lo teneva avvinto al suo passato, era un salame legato da stretti lacci, un rocchetto avvolto da un unico invisibile filo che non si svolge mai, una mummia con le sue repellenti bende che lo conservavano dentro un repellente sarcofago per i secoli e nei secoli, una crisalide racchiusa nel suo bozzolo che non sarebbe mai diventata farfalla, condannata a rimanere sempre una ripugnante larva. Tutto era schifoso in quello stato. Qualsiasi fottutissima cosa lo tenesse immobile doveva liberarsi. La mummia si sarebbe disfatta delle sue repellenti bende, la crisalide avrebbe compiuto la sua metamorfosi. Mito, per l’amor del cielo, mi dici perché non riesco a muovermi? «Stato neuro vegetativo. Non credo che lui la possa sentire, né vedere.»

Il timbro

rauco di quella voce

femminile seminava

pessimismo. Non dare retta a ciò che ti dicono i medici. Io posso sentirti. Ma dimmi, che ci faccio qui? C’erano altre ombre con Mito, una moltitudine, si confondevano tra loro e tutte bisbigliavano. «Mi dispiace Luigi. Era da tempo che l’avevo messo in guardia. Sapevamo che era nel mirino di gente che gli dava la caccia dal giorno in cui è ritornato dalla Colombia.»


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Anche quella voce l’aveva già sentita. «Ma è assurdo, com’è che non me ne ha mai parlato, non sapevo niente di questa storia…» era adesso la voce di Mito che parlava concitata. Ti spiegherò tutto dopo, perdonami, ma volevo lasciarti fuori dal mio passato. Adesso, fai il favore, portami via di qui… «Luigi, tu sai quanto fosse assillante Raff con le sue continue domande, non si è mai arreso, né all’inizio delle indagini, né quando eravamo giunti a un passo dai quei criminali. Fin da subito avevo seguito una pista, ne ero convinto, avevamo indizi concreti, una pista che ci portava dritto dritto in Colombia. La droga che ha ucciso Dora De Francisci proveniva da laggiù, dal cartello di Cali. Ci sono andato per questa ragione.» Una fitta penetrò nel suo cuore come una lama nel burro. Ma non poteva muoversi o reagire, la testa pulsava. Tutto pulsava. Bruciava. Raff sentiva Mito gemere. Ma no, tu piangi. Perché piangere? «Ma perché si sono accaniti contro di lui? È assurdo… è assurdo…» ripeteva Mito. «Nessuno passa inosservato in Colombia. Soprattutto se straniero, giornalista e ficcanaso com’era Raff. Abbiamo motivo di credere che il cartello abbia cominciato a braccarlo dal momento in cui vi ha messo piede. Senza saperlo, Raff deve aver dato fastidio. Al suo rientro, con la copertura logistica della Banda dello Sguincio, è stato preso in consegna da due colombiani, che facevano da basisti per il lavoro sporco del killer. Era lui che noi seguivamo, quello più pericoloso… Purtroppo, non tutto è filato per il verso giusto… lo stavamo per prendere, ma...» «Vuoi dire l’uomo che hai ucciso…è quello che ha colpito Raff…»


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«Sì. Si chiamava Vincente Pantayo, meglio conosciuto come El Cortador, il Tagliatore, e capisci il perché…uno che sgozza le sue vittime… Di questo signore nessuna polizia al mondo ha mai posseduto una foto segnaletica. Ce n’è voluto per capire che era lui l’uomo scelto per far fuori Raff… Comunque sia, almeno uno dei colombiani, lo abbiamo preso vivo. In mano aveva la stessa arma le cui pallottole a punta morbida, difficili da identificare, erano le stesse che avevano bucato la gamba di Rojo, che poi il Tagliatore ha finito, scannandolo. Sappiamo che si chiama Juan, il Loco, due cicatrici profonde gli sfregiavano la faccia. I colombiani si servivano di piccole organizzazioni criminali di spacciatori nei quartieri suburbani delle città per i loro sporchi traffici di coca ed eroina in Italia , come la Banda dello Sguincio, per l’appunto. Un pusher dei loro, noto come Er Pupo, riforniva regolarmente Dora De Francisci. Qualche tempo fa, ricordi?, te ne parlai, lo abbiamo trovato ammazzato in una discarica, si era beccato cinque pallottole alla schiena. Ora sappiamo molte cose e, devo dire grazie al sacrificio di Raff, siamo in grado di stroncare, almeno qui in Italia, questo flusso di droga.» «Un sacrificio tanto eroico, quanto non voluto, né ancor meno cercato… Lui mirava ad altro…» disse, con voce rotta e sconsolata, Luigi. «Oh sant’iddio… Ma com’è…» non si capacitava Mito. Le ombre si muovevano. Bisbigli fitti fitti. «Mio dio, non mi porteranno via anche lui…» non si dava pace Mito. Le ombre andavano e venivano. Cristo santo, muovetevi, non mi lascerete marcire in questo posto! Sentiva il cuore battergli forte, le orecchie gli vibravano come due saracinesche sbattute violentemente per terra. «È chiaro adesso quale sia stato il loro piano» disse il primo che


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aveva parlato. Raff continuava a sentire un forte rumore alle orecchie, come il suono incessante di una sirena. «Un basista faceva la posta sotto casa di Mantega, un altro è andato a prelevare il killer, hanno aspettato il momento giusto, l’idea non era male, il killer sarebbe poi scomparso nel nulla senza lasciare tracce. Ma non hanno fatto i conti con noi, credevano di essere soli nel garage. Li abbiamo colti di sorpresa, un complice l’abbiamo beccato fuori della villa e lo abbiamo subito neutralizzato, l’altro era con il Tagliatore e ha fatto fuoco contro, prima che potessi intervenire … Disgraziatamente, quando ho sparato, il coltello si era già conficcato nella gola di Mantega… Non ce l’ho fatta ad anticiparlo, mi dispiace…» Gli pareva di udire scrosci di pioggia battere contro i vetri o forse erano le sue tempie che pulsavano senza requie. «Mantega si teneva informato sulle indagini che stavamo conducendo sulla morte di Dora De Francisci. Ovviamente, gli dicevamo quello che potevamo dirgli, ma non gli abbiamo mai nascosto i rischi che correva. Le indagini erano a un punto delicato. Eravamo pronti a chiudere. Era il momento del maggior pericolo e per questo motivo avrei voluto che accettasse una scorta che lui ha rifiutato, purtroppo. Se mi avesse dato retta…» Adesso basta coi discorsi, ragazzi. Tiratemi fuori di qui. È tutto a posto. So come ci si sente in questi casi, l’ho provato una volta. Ti ricordi Mito la prima volta che ho sparato a Nuova Merida? A momenti ci rimanevo secco. Ho tanto freddo... «Questo Tagliatore ce lo siamo trovati all’improvviso in mezzo ai piedi. Maledetto! Sapevamo che il cartello se ne serviva solo per certi lavori sporchi, come lo ha usato per far fuori Manuel Rojo… Anche lui aveva le mani in pasta, se la faceva con il cartello. Mi dispiace, ma non sapevate di avere un serpente in casa.»


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Adoro le sorprese, vatti a fidare degli amici… Adesso copritemi per favore, sto gelando. Passi frettolosi. Qualcuno corre. «Raff…» L’ombra di Mito è accanto a lui, è sempre più grande. La sente vicina, è profumo di bucato fresco e di sapone alle mandorle, inconfondibile. Si avvicina ancor di più, non riesce a vederla, è un’ombra incerta e confusa, percepisce l’odore della sua pelle, il soffio del suo respiro. Poi, d’improvviso, disparve nel nulla quel telo peloso e ripugnante che ricopriva la sua pelle sofferente, l’odore ributtante di alcol metilico che opprimeva le narici scassate, il luccichio intermittente che allucinava la sua mente di giochi colorati, lo strepito assordante di voci ronzanti come mosche fastidiose. Tutto era passato come una raffica furiosa di un vento nero, lasciando una calma vuota, nella quale si muoveva il silenzio. In silenzio, vede se stesso allontanarsi. Dicono che quando stai per morire vedi scorrere la tua vita all’indietro. È proprio così. Nel breve istante di benessere che lo avvolge, vede, solo per un istante, Mito , di là del muro invisibile prima che scompaia nella nera oscurità. Sicché vuole trattenerla, per tutte le volte che è scappato da lei. Perdonami, le dice, la vita mi ha incalzato e non sono stato in grado di guardarla. Ha ancora mille cosa da dirle, parole ancora da barattare con altre parole, segreti che non ha mai osato svelarle. Avrebbe danzato nei suoi capelli, nuotato nei suoi grandi occhi grigi, sarebbe sgusciato sulla sua bocca per diventare con lei unico corpo. Sente che è troppo tardi, ormai. Si sono incontrati un tempo in una terra lontana, si allontanano ora in direzioni opposte. Sente il suo cuore addormentarsi, il rumore dei propri passi perdersi nel cortile dello zio Sam.


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