
15 minute read
BEV SMITH LA LEONESSA
from PINK BASKET N.17
by Pink Basket
STORIE di Giulia Arturi
PROTAGONISTA DELLA GRANDE VICENZA DEGLI ANNI 80 E POI DI FERRARA, HA COMINCIATO PROPRIO DA NOI UNA CARRIERA DI SUCCESSO COME ALLENATRICE, PROSEGUITA NEL SUO CANADA. “L’ITALIA PER ME È STATA GIOIA, DIVERTIMENTO, LEZIONI DI VITA, GRATITUDINE. E L’HO SCOPERTA PER UN PIATTO DI SPAGHETTI AL SUGO IN BULGARIA...”
Advertisement
Il telefono di Beverly Smith suona alle 10 del mattino a Eugene, Oregon, costa Ovest degli Stati Uniti. Ho un appuntamento per intervistarla e mi presento nel modo classico: “Hello, I’m Giulia. Nice to meet you, it’s a pleasure”. Dall’altra parte una risposta in eccellente italiano: “Sì, certo, come stai?”. E tutto il dialogo procederà nella nostra lingua, che Bev parla e scrive ancora a meraviglia. Subito due parole sui momenti angosciosi che stiamo vivendo, da entrambe le parti dell’Atlantico: “Io ho ancora qualcosa da sbrigare in ufficio, ma ho già mandato a casa tutti i miei collaboratori”. Ti mette subito a proprio agio questa energica sessantenne, che negli anni 80 e 90 ha portato il suo sorriso e la sua grinta su tutti i campi italiani ed europei, con grandissimi risultati. Al di là delle risposte che mi dà, rimango impressionata dalle quantità di informazioni che ha sul nostro basket, anche della generazione precedente alla sua. L’Italia è dentro il suo cuore: ad ogni ricordo dolce, sembra restituire a noi che l’ascoltiamo qualche motivo in più per risvegliare l’orgoglio per il nostro Paese.
Anche per questo, parlarle è un onore e un’emozione.
Beverly Smith, classe 1960, è ricordata come una delle americane più forti ad aver giocato nel nostro campionato. Americana sì, ma del Canada. Cresce a Salmon Harm, una cittadina della British Columbia di neanche 18.000 abitanti. Come tanti ragazzini canadesi, il suo primo amore sportivo è l’hockey e i suoi idoli sportivi giocatori dei Montreal Canadiens. Suo papà era stato un giocatore, un arbitro, un allenatore. I figli Smith crescono sul ghiaccio. Ma quando poi i ragazzi si impegnano nei palazzetti, alle ragazze negli anni ’70 tocca trovarsi un altro sport. Così arriva la pallacanestro. Dal 1978 al 1982 Bev, come tutti la chiameranno presto, domina al college ad Oregon, chiudendo con oltre 2063 punti e più di 1300 rimbalzi. Dopo una carriera ventennale in Italia, da giocatrice prima, da allenatrice poi, si stabilisce a Eugene, dove dal 2001 al 2009 guida le Ducks, oltre che la Nazionale canadese. “Non puoi pretendere rispetto, devi guadagnartelo”: è il claim di questo personaggio.

BEV SMITH INIZIA LA SUA CARRIERA DA ALLENATRICE A VICENZA. IN ITALIA GUIDERÀ ANCHE SCHIO DAL ’98 AL ’00 PRIMA DI TORNARE IN OREGON DOVE SARÀ HEAD COACH DELLE DUCKS DAL 2001 AL 2009. DAL 1997 AL 2001 È ANCHE SULLA PANCHINA DELLA NAZIONALE CANADESE.
E infatti Bev non si risparmiava mai niente, e pretendeva lo stesso dagli altri. Non è facile raggiungere quella credibilità, bisogna esporsi in prima linea e mantenere uno standard elevatissimo. Una vera leonessa capobranco. “Un’ala piccola capace di giocare anche guardia - ricorda Roberto Galli che l’ha allenata a Vicenza – e soprattutto un’atleta che una volta in campo non potevi mai togliere perché era una giocatrice totale capace di segnare ma soprattutto di capire che cosa serviva di più in campo e di adeguarsi. Una leader silenziosa”. Dai suoi racconti, è lo spirito di squadra che ne esce vincitore: la sua missione oggi è dare la possibilità a migliaia di ragazze e ragazzi di crescere grazie allo sport, proprio com’è successo a lei.
Di cosa ti occupi attualmente?
“Sono executive director di Kidsport, una no-profit, a Eugene, nell’Oregon, che opera dal 1953. È un’organizzazione che si occupa di sport giovanile e dà la possibilità ai bambini di fare delle esperienze di sport di squadra, a seconda delle stagioni abbiamo diverse proposte: calcio, football (o flag football), pallavolo, pallacanestro, baseball e softball. Gli allenatori sono volontari, il motto è ‘All Kids play’, tutti possono giocare indipendentemente dal talento e da dove vieni. Inoltre, c’è un programma di borse di studio per chi è in difficoltà. Io lavoro più nella parte amministrativa, ma alleno qualche squadra di pallacanestro, mi piace stare a contatto con il campo e con le ragazze. Mi occupo poi della ricerca dei fondi e del rapporto con le famiglie”. Da giovane facevi diversi sport, come l’ha spuntata la pallacanestro? “Il mio primo amore è stato l’hockey su ghiaccio. Mio papà giocava, così come mio fratello. In inverno in Canada i laghi gelano, c’è ghiaccio dappertutto e uscivamo sempre a pattinare. Negli anni ’70 non esisteva l’hockey femminile, quindi fui costretta a scegliermi qualcosa d’altro. Mia sorella giocava a basket e così seguii le sue orme e mi appassionai subito. La squadra, il gruppo, lo stare insieme: tutto questo mi ha conquistato”.
Quali sono stati i tuoi primi contatti con l’Italia?
“Ero in Bulgaria con la Nazionale canadese per giocare le qualificazioni dei Mondiali. Eravamo nello stesso girone dell’Italia, avevo vent’anni. Era solo la terza o quarta trasferta in Europa. In albergo non ci davano gran che da mangiare. Un giorno, passando davanti alla cucina del ristorante, sentii del baccano. Allora mi affacciai e vidi quelle che poi scoprii essere Lidia Gorlin, Bianca Rossi e Antonietta Baistrocchi che cucinavano. Mi affacciai per chiedere cosa stesse succedendo e finì che mi offrirono un piatto di pasta. Fu una cosa favolosa, mi ricordo ancora il sugo, il parmigiano. Mi salvarono la vita. Due anni dopo, alla fine della mia esperienza al college, mi contattò Vicenza. Dopo una trasferta europea con la Nazionale, ancora in Bulgaria, mi fermai in Veneto per conoscere la squadra. Andammo fuori a cena, e riconobbi Lidia, Valentina Peruzzo, Wanda Sandon. Quando le vidi dissi: ‘Se mi tenete, io ci sono’”.

IN ITALIA HA GIOCATO A VICENZA E FERRARA. HA VINTO CON VICENZA TRE SCUDETTI (’83, ’84, ’85), DUE COPPE DEI CAMPIONI (’83, ’85) E UNA COPPA RONCHETTI (’92).
Quali sono i ricordi più vividi che hai dell’Italia?
“Sono tante sensazioni. La gioia, il divertimento, le lezioni di vita, la gratitudine per tutto quello che ho imparato abitando in Italia. Sono davvero riconoscente per tutto quello che ho vissuto. Qui ho un grande amico che ha un ristorante italiano, viene da Favignana. Vado sempre lì a parlare con lui. Le persone che fanno parte della mia vita sanno che l’Italia è stata la mia maestra, mi ha fatto conoscere il mondo. Ho imparato una lingua nuova e un diverso modo di vivere. Non necessariamente migliore o peggiore di quello a cui ero abituata, ma diverso. E questo mi ha arricchito”.
Com’è stato il tuo rapporto con la lingua italiana?
“Era tutto molto diverso all’epoca: niente cellulari, niente internet. Non potevi spaziare virtualmente, si stava lì con le italiane. Le trasferte in pullman duravano ore e ore, e io avevo sempre con me il mio walkman e dei libri. Ma dal fondo del pullman sentivo sempre le ragazze che parlavano e ridevano. Non mi bastava stare nel mio, volevo sapere cosa stesse succedendo, essere partecipe alla vita del gruppo e far parte attivamente dello spogliatoio, fondamentale nelle dinamiche di una squadra. Si imparano tantissime cose e non potevo fare a meno di capire quello che veniva detto”.
Quella squadra a Vicenza è una delle più forti in cui hai giocato o allenato?
“Sì, quella di Vicenza era davvero un altro tipo di scuola. Ci si trovava all’inizio dell’allenamento in spogliatoio, era un momento di condivisione importante, che fosse anche solo per ‘lamentarsi’ dell’atletica del martedì o parlare di situazioni di gioco. Da quei momenti poi si scendeva in campo unite. Stare attenti in spogliatoio è una grande lezione, soprattutto quando si hanno dei leader come poteva essere Lidia. Quando lei parlava, noi stavamo a sentire, c’era silenzio”.

CON LA NAZIONALE CANADESE HA PARTECIPATO A DUE OLIMPIADI DA GIOCATRICE (1984 E 1996) E HA VINTO DUE BRONZI AI MONDIALI (’79. ’86). È STATA INSERITA NELLE HALL OF FAME NEL 2004 E NELLA PAC-12 HALL OF HONOR NEL 2019.
Qual è stata la chiave tecnica dei vostri successi in quegli anni? “Prima di tutto, prima ancora delle nostre qualità tecniche, c’era il presidente Concato. Aveva una visione unica per la pallacanestro: non solo aveva un occhio infallibile per il talento, ma anche per gli allenatori; sapeva scegliere i pezzi giusti perché si incastrassero bene insieme; sapeva legare la comunità locale alla squadra. È difficile che troveremo un’altra personalità come lui. È stato il personaggio che ha fatto girare tutto. Il suo obiettivo era costruire qualcosa che lasciasse il segno nella storia e c’è riuscito”.
Ci racconti il momento più felice della tua esperienza sportiva in Italia?
“Sono tanti, ma devo dire la vittoria della prima coppa dei Campioni, a Mestre contro Duesseldorf, nel 1983. Fu la rampa di lancio di Cata Pollini, che fece una partita favolosa. Mio fratello era in Italia con me e dopo la vittoria prendemmo il taxi per andare a festeggiare a Venezia con Mara Fullin e sua mamma Gina. Io e mio fratello pensavamo di essere in cima al mondo: cosa poteva esserci di meglio di vincere una coppa e festeggiarla a Venezia?”.
Ci hai parlato di Lidia Gorlin: un ricordo di Fullin e Pollini?
“Le ho conosciute al campo scuola, quando dovevamo iniziare la preparazione al campionato. Entrambe erano ragazze di classe, Mara aveva una grinta e una voglia di vincere imparagonabile. Era molto espressiva, una vera veneziana. Cata era un talento mai visto e se giocasse adesso con lo small ball di oggi farebbe ancora di più, pensate. Era introversa, lasciava parlare il campo per lei. Aveva tanta pressione su di lei, la chiamavano Catarina la Zarina, ma lei gestiva tutte queste aspettative con stile e umiltà. Anche Wanda Sandon era una che non parlava molto, ma ti faceva capire con il suo comportamento. Quando c’era un problema era sempre pronta ad ascoltare e non pensava di sapere sempre tutto. La sintonia che aveva in campo con Lidia era davvero incredibile. Il loro gioco a due era immarcabile, lo potevano giocare ad occhi chiusi. Altro che Stockton-to-Malone”.
Sei stata due anni a Ferrara, splendida città di provincia: come ti trovavi circondata da arte e storia?
“Ferrara è a poco più di 100 km da Vicenza, dunque non mi aspettavo che ci sarebbe stato un cambiamento così grande. La gente era un po’ più aperta, anche se ovviamente pure a Vicenza avevo incontrato gente generosa e di cuore: ma si sa, gli emiliani… Il castello, le mura, la cucina, le tigelle, i cappelletti. Mi tuffai in questa nuova realtà. Ci siamo sempre salvate, non abbiamo vinto, ma ci siamo divertite come non mai. Sia in campo che fuori. A Ferrara ebbi l’occasione di avere come compagna di squadra un’altra super, Bianca Rossi. Era una grande attaccante, aveva un palleggio arresto e tiro moderno. Era fortissima fisicamente e non mollava mai. Da av-versaria infatti era un incubo! Una persona fantastica anche fuori dal campo”.
Il tuo punto di forza invece qual era?
“La voglia di migliorare ogni volta che scendevo in campo. E la voglia di vincere. E non parlo solo di partite, anche in allenamento. Avevo uno standard personale molto elevato, mi allenavo sempre con grande intensità, e la richiedevo anche alle mie compagne purtroppo (risata). Forse ero una grande rompiscatole, non mollavo mai e volevo vincere a tutti i costi. C’erano certi allenamenti a Vicenza, l’anno in cui giocavo solo in coppa dei Campioni, che io e Janice Lawrence, l’altra straniera, non ci risparmiavamo niente. A Giovanni Lucchesi, l’allora vice di Aldo Corno, toccava l’improbo compito di arbitrare. Non sai quante gliene abbiamo dette (risate)”.
Tra compagne e avversarie qual è stata la giocatrice che ammiravi di più?
“Janice Lawrence per me è stata la migliore giocatrice al mondo. Era poi un bel personaggio: non amava allenarsi, mi faceva venire un fegato così (risata)! Arrivava sempre un minuto prima dell’inizio dell’allenamento: se era fissato per le 18 lei si presentava alla 17.59! Ma poi quando era in campo dava tutto. Aveva due mani incredibili, sapeva sempre dove far arrivare esattamente la palla: faceva sembrare che eri tu quella brava, ma invece tutto partiva da lei. Aveva un cambio di direzione impressionante. Il suo taglio backdoor, servito alla perfezione da Lidia, era immarcabile. Poi in difesa era una iena e se la sua avversaria le stava antipatica, non la faceva giocare proprio. Quando abbiamo vinto la coppa battendo Riga, la sua prestazione contro Semionova (due metri e 15 centimetri, ndr) è stata esemplare. Tanto che la giocatrice lettone dopo la partita ha detto: ‘Avevo questa mosca fastidiosa sempre davanti a me…’. Ci teneva moltissimo a vincere, magari in allenamento si tirava un po’ indietro, ma in partita era micidiale”.
Hai giocato due Olimpiadi. Emozioni?
“Un’immensa gioia e un sogno che si realizzava. Poi entrare nello stadio olimpico nella cerimonia inaugurale insieme a tutte le altre delegazioni è stato un grandissimo onore, per il Canada che rappresentavo ma anche per la mia famiglia e per tutti quanti mi avevano aiutato ad arrivare là. A Los Angeles nel 1984 siamo arrivate quarte, abbiamo perso contro la Cina l’opportunità di vincere il bronzo, una sconfitta pesante. Poi nel 1996 ad Atlanta solo undicesime”.
Quella sconfitta con la Cina è stato il momento più difficile della tua carriera o ne hai dovuto affrontare altri?
“Quel risultato è stato veramente difficile da digerire. Avevamo battuto la Cina nel torneo preolimpico e ci credevamo. Poi, vista la difficoltà per arrivare a giocare un’Olimpiade, non essere riuscite a tagliare un traguardo così prestigioso ha rappresentato una grande delusione. Ma ci è anche servito perché due anni dopo, ai mondiali dell’86, siamo arrivate terze e finalmente abbiamo vinto una medaglia importante”.
Torniamo all’Italia. C’è qualche episodio divertente che ricordi con particolare piacere?
“Vicenza, stagione 1991/92 con la squadra di un tempo che si era ormai un po’ dispersa. Cata a Cesena, Mara a Como con Corno, e siamo rimaste le vecchie, io, Janice, Valentina Peruzzo e le giovani. Credo che nessuno ci desse più come vincenti. Però lo stesso con quella squadra siamo riuscite, battendo a sorpresa Cesena, a giocare la finale della coppa Ronchetti. Ci siamo trovate di fronte Priolo, dove abbiamo giocato l’andata e in quella partita il nostro play, Barbara Fanocchi, ha fatto una partita spaziale (17 punti, ndr), segnava sempre da tre. Io e Janice eravamo un po’ scaramantiche, e allora quando Barbara ha cominciato a segnare Janice mi dice: ‘Non toccare la sua mano, altrimenti le portiamo sfortuna’. Lei pensava la stessimo evitando! Dopo la partita le abbiamo spiegato il motivo: Janice ed io restiamo convinte che quella mossa fu decisiva per farci vincere la coppa (risata)!”.

BEV SMITH È ANCORA LEGATISSIMA ALL’ITALIA: “RIESCO A RACCONTARE LA MIA VITA LÌ MEGLIO IN ITALIANO, LE COSE SUONANO MEGLIO. E MANGIO ANCORA SEMPRE ITALIANO. LA DIETA MEDITERRANEA HA CAMBIATO LA MIA VITA”.
Mentre giocavi pensavi già che una volta smesso avresti fatto l’allenatrice?
“Devo dire di sì. Quando giocavo sia a Vicenza che a Ferrara allenavo anche una squadra giovanile e avevo capito che avrebbe potuto essere la mia strada. Mi piaceva la pallacanestro, l’ambiente, la sfida per cercare di vincere con il gruppo che avevo costruito. Sì, era già un’idea, anche se non potevo ancora sapere se e come si sarebbe realizzata”.
Come è stato tornare in Italia da allenatrice?
“Nel 1995/96 facevo l’assistente a Vicenza. Avendo problemi al ginocchio, volevo solo allenarmi per preparare l’Olimpiade senza giocare per non rischiare infortuni. Però si era fatta male la straniera di Vicenza e allora sono tornata in campo. Purtroppo, retrocedemmo. Dopo le Olimpiadi Concato mi chiese se avessi voglia di tornare a Vicenza ad allenare la squadra in A2, e ho accettato. Per fortuna siamo riuscite a tornare in A1, con Zimerle e un bel gruppo di giovani. È stata una bella esperienza”.
Vista la tua lunga carriera da coach a Oregon, preferisci allenare le giovani o le professioniste?
“Sono due cose molto diverse. Entrambe le situazioni danno grandi soddisfazioni. Ma allenare un college richiede un grande impegno anche fuori dal campo: la programmazione, lo scout delle ragazze, l’aggiornamento. Per questo preferisco il lavoro con le professioniste, che ti consente di fare il tuo mestiere: stare sul campo e pensare solo a gestire le situazioni dal punto di vista tecnico”.
Da allenatrice, che qualità apprezzi di più in una giocatrice?
“La voglia di imparare e di migliorare. Qualità che ho molto apprezzato, per esempio, in Mara Fullin e Cata Pollini quando erano giovani: avevano l’umiltà di ascoltare e di seguire sia le compagne più esperte in campo sia l’allenatore. Sapersi migliorare e migliorare la squadra sono grandi qualità, più importanti anche del talento”.
Quando sei passata dal campo alla panchina come ti sei approcciata con le giocatrici?
“È una transizione molto difficile. È tutta un’altra prospettiva: devi preparare, immaginare, pensare le partite. Ci metti più tempo. Come giocatrice vai in campo, dai tutta te stessa e dopo vai a casa e ti prepari mentalmente e fisicamente per l’allenamento successivo. Come allenatore devi invece pensare a molte altre cose. L’impatto all’inizio è stato impegnativo: ho dovuto capire come dovevo comportarmi con la squadra e a livello individuale. Credo che la cosa fondamentale sia conoscere bene le giocatrici anche come persone”.
Ora che il tuo ruolo è diverso, il campo ti manca? Segui l’Nba, la Wnba e magari guardi cosa succede in Italia?
“Un po’ meno, ogni tanto do un’occhiata al campionato italiano, e seguo ancora la squadra del college di Oregon, sono molto forti. Purtroppo, non ci sarà la March Madness, finire una stagione così è davvero dura. Ho fatto la cronista in radio per le loro partite, le ho potute seguire da vicino anche durante gli allenamenti”.
Sabrina Ionescu, probabile numero 1 al prossimo draft, esce proprio da Oregon. Cosa ne pensi tu che l’hai vista da vicino?
“È una giocatrice strana: non è veloce, non salta, non si vede molto, ma è veramente una killer silenziosa. Ha una capacità di tirare sotto pressione incredibile, sa fare tutto, ha una grande intelligenza di gioco: sa quando tirare, quando passare e prende tantissimi rimbalzi perché sa sempre dove va la palla. Vede il gioco prima degli altri. Sono molto curiosa di vederla nella Wnba. È una giocatrice talmente intelligente che penso avrà successo”.
Giovanni Lucchesi, oggi responsabile dell’attività giovanile della federazione, era assistente di Aldo Corno al tempo della grande Vicenza e ha allenato Bev Smith, e spesso anche arbitro delle famose partitelle: “Sì, le partite infrasettimanali ‘tra di noi’ che Aldo Corno, il nostro capo-allenatore, a ragione, riteneva più allenanti del 95% delle partite di campionato, erano guerre, perché in quel gruppo si viveva una situazione straordinaria: non proprio tutte amiche fuori dal campo, ma un vero corpo dei marines sul parquet. In allenamento l’avversario era la compagna ed era spettacolo. Bev non mollava un millimetro, Janice lo stesso; ma ugualmente Passaro, Pollini, Peruzzo, Fullin, Gorlin. Alla fine, Corno mi salvò lasciando me e Renato Nani a guidare ciascuno una squadra e lui ad arbitrare al posto nostro. Fu un sollievo e tutto diventò divertimento e non ansia. Il suo abbraccio a Lawrence dopo la finale dell’85 con il Daugawa Riga di Semionova fu la fotografia della grandezza di Bev, di una Persona e di una Giocatrice che insieme fondendosi davano vita ad una fuoriclasse forgiata nell’acciaio. Bev è a mio giudizio immortale nella memoria di chi l’ha conosciuta e vissuta come atleta e come essere umano capace sempre di compiere il primo passo verso gli altri ancor prima che verso sé stessa, e mai negando le sue debolezze”.