Aurora

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Anno V n. 34 Settembre 2012

Periodico di informazione e cultura per gli italiani all'estero 足 Giornale per l'Unita' Comunista

S P E C I A L E E L E Z I O N I I N B E L GI O LA S I RI A , LA LI B I A . . . E T UT T I G L I A L T R I

L ' E M I GR A Z I O N E I T A L I A N A I N B E L GI O P ri m a P a rt e

DA I C OM I T E S A L P A R L A M E N T O : Q UA L I E L E Z I O N I P E R GL I I T A L I A N I A L L 'E S T E R O ?

L ' A C Q UA E ' UN D I R I T T O UM A N O

DI C K E N S 2 0 1 2 : W el f a re e l a v o ro c o a t t o n e l l 'I n g h i l t e r r a d e l X X I s ec o l o


Editoriale

SOMMARIO

S c o n f i gge r e l ' a n ti po l i ti c a ? D i n o C a l à : s o l i da r i e tà ge n e r a z i o n a l e e tr a l e c o m u n i tà A r i a n u o v a a T u r n o u th Ele zio n i a Ge n k D a i C o m i t e s a l Pa r l a m e n t o Dic k e n s 2 0 1 2 Ele zio n i in Gr e c ia 2 0 1 2 No n o s ta n te i l pe s o de l l e o m br e R e s ti a m o U m a n i I l go l pe c i l e n o de l 1 9 7 3 e l a c r e a z i o n e di u n m o de l l o e c o n o m i c o “ e s e m pl a r e ” C o s a s o n o 5 m i l i o n i di do l l a r i i n c o n f r o n to a l l ' a m o r e di 8 m i l i o n i di c u ba n i ? L a C i a , i l T i be t. . . e tu tti gl i a l tr i S i r i a e L i bi a , a n ti i m pe r i a l i s m o e " r o s s o br u n i " S gu a r do s u l l ' e m i gr a z i o n e i ta l i a n a i n B e l gi o L ' a c qu a è u n di r i tto u m a n o C a m pa gn a R e ddi to M i n i m o G a r a n ti to

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Sconfiggere l'antipolitica? di Pietro Lunetto

“La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.“ E. Berlinguer —————————

“Si vorrebbe che noi ci accontentassimo di limitare la nostra azione, introdurre qualche correzione marginale all’assetto esistente senza mai porre in discussione e prospettare un sistema profondamente diverso dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale.” E. Berlinguer —————————

“Parma sará la nostra piccola Stalingrado...” Beppe Grillo

E’ una dato di fatto ormai che un sentimento antipolitico, populista e “contro la casta dei privilegiati” si sia largamente diffuso all’interno della società italiana negli ultimi 30 anni. E’ anche piuttosto triste constatare, che questa affermazione sia vera pure tra molti militanti e simpatizzanti di sinistra. Ciclicamente all’interno della societá italiana, dal primo dopoguerra in poi, questi fenomeni sono riapparsi sulla scena con tutto il loro carico di populismo piccolo borghese fatto di concorrenza, mercato e legalitarismo (sia inteso: sempre nei confronti degli altri e mai per se stessi ovviamente). Uno dei fenomeni più famosi è stato il movimento dell’Uomo Qualunque guidato dal commediografo Giannini ­ ecco un altro uomo di spettacolo prestato alla politica – che lo costituì nel 1944. Fino alla fine degli anni 80 questi fenomeni, dopo un breve fuoco di paglia, scomparivano dalla scena. Una delle ragioni, se non la principale, era la presenza di una forza politica molto radicata sul territorio che aveva tra i suoi orizzonti “il cambiamento dello stato di cose presente” , che si faceva portatore di un modello di estrema moralitá nella vita pubblica. Questo non era altro che il Partito Comunista Italiano e, con esso, tutte le organizzazioni culturali e sociali che direttamente ed indirettamente vi si collegavano. Con la liquidazione del PCI e del suo portato di alteritá e moralità, la scena politica e sociale italiana ha perso quasi totalmente la capacità di tenere la barra “a dritta” sul concetto di moralità di chi

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detiene cariche pubbliche, piccole o grandi che siano. In altre parole all’occhio del cittadino medio tutti i partiti sembrano oggi uguali e quindi tutti allo stesso modo responsabili dello sfascio in cui si trova l’Italia. In questa situazione la magistratura ha cercato creare un argine, da “Mani Pulite” in poi, ma senza risultati apprezzabili. Ovviamente in una situazione dove “tutti i partiti sono uguali e colpevoli” si è aperta la strada da un lato all‘aumento dell’astensionismo elettorale e dall’altro a movimenti e pseudo­partiti spesso con connotazione “nè di destra, nè di sinistra’” che cavalcano, a torto o a ragione, la tigre del sentimento antipolitico. All’inizio fu Mario Segni e i suoi referendum sul maggioritario, poi i girotondi, poi l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, in parte la Lega Nord, e oggi il Movimento 5 Stelle del comico Beppe Grillo. Ovviamente le malefatte del clan berlusconiano ha certamente favorito e alimentato questa situazione. Dal canto suo il centro­sinistra, pur non arrivando ai livelli di indecenza del centro destra belurlusconiano, non ha certo tenuto una buona condotta; La vicenda dei soldi “distratti” ai conti della Margherita o la vicenda del presidente della provincia di Milano Penati sono le due vicende che spiccano su tutte le altre per la similitudine con le malefatte del clan berlusconiano. Noi crediamo che il sentimento antipolitico, così come declinato dai vari gruppi e groppuscoli, non sia la cura per scardinare la “casta”.


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Anzi, crediamo che la cura proposta possa solo aggravare le condizioni del “malato”. In­ nanzitutto perchè questi movimenti sono portatori, nei fatti e non con le parole, di un modello non dissimile da quello del resto della casta: un solo leader al “comando” che nessuno puó controllare o criticare, pena essere messi alla gogna mediatica, o peggio, espulsi. Sempre ovviamente in nome di una purezza dell’azione e del pensiero del leader ed in barba al concetto di pluralismo tanto criticato a casa degli altri. Li ricordate gli strali del comico genovese contro i partiti antidemocratici? Appena uno dei suoi lo ha criticato in Emilia Romagna lo ha espulso d’ufficio e senza appello. Alla faccia del “pre­ dicare bene e razzolare male”. Senza controllo democratico sulle strutture organizzative come si fa a resistere alle “sirene” del malcostume e della “malapolitica”? Quali sono i meccanismi di partecipazione per cui la presunta “nuova classe politica” non finirá come Bossi e suoi seguaci? Perchè una cosa è fare campagna elettorale contro tutti con delle belle proposte, magari infiocchettate da una brava societá di comunicazione, e una cosa è attuarle concretamente. Il caso del neosindaco di Parma mi sembra emblematico: ha impiegto ben 45 giorni per mettere insieme la sua giunta ­ a fronte del fatto che l’avesse giá pronta in teoria prima del secondo turno elettorale ­ e nel frattempo si sta ancora dimenando per capire come concludere l’”affaire” inceneritore che prima delle elezioni aveva detto di non voler costruire: il dilemma è “pagare un centinaio di milioni di euro di penale per la mancata realizzazione e aggravare il debito disastroso del comune” o “costruire un nuovo inceneritore”. Tertium not datur. (una terza possibilità non esiste). Grillo ha detto che Parma rappresenta la Stalingrado del Movimento 5 Stelle. Non si capisce ancora se nella parte dei russi vittoriosi o dei nazisti sconfitti. Ma quali risposte si possono dare da Sinistra? In primis bisogna tornare a fare più Politica. Vanno riscoperti gli istituti di democrazia diretta che vengono, ancora oggi, visti come fumo negli occhi dalla maggioranza dell’establishment politico italiano. Le organizzazioni politiche nel frattempo devono ri­cominciare o rafforzare il loro lavoro per soddisfare i bisogni primari dei cittadini, parlare meno dei massimi sistemi ­ anche se le discussioni teoriche sono necessarie per definire la strategia complessiva – e non far mancare la prassi politica che deve risolvere i bisogni individuati. Senza troppi tatticismi. Rispolverando necessariamente quelle pratiche di solidarietá tanto care al movimento operaio, sopratutto europeo, che hanno rappresentato la struttura portante dell’ascesa del movimento socialista e comunista. Altro punto importante è la ri­alfabetizzazione politica dei cittadini. Oggi molte delle buone proposte che facciamo come organizzazione

Editoriale

politica comunista e di sinistra non riescono spesso ad essere comprese dalla maggior parte dei cittadini. Manca quella conoscenza di base di certi meccanismi economici e politici , o magari esiste ma acquisita in maniera distorta dalla grande stampa. E se questi concetti non sono chiari a livello di massa come ci aspettiamo di elaborare un progetto per un “altro mondo possibile“ che non resti solo l’idea di poche elite? Va anche detto che una dose di coerenza va rimessa nel circolo della Politica: bisogna smetterla con il predicare bene e razzolare male da parte di eletti e dirigenti. Il risultato elettorale deve essere figlio del lavoro politico e non di scelte politiciste buone solo per la conservazione dei gruppi dirigenti. Dobbiamo dire basta ai comitati elettorali che sostengono solo il leader di turno e poi spariscono fino alla prossima elezione. Queste cose le dobbiamo lasciare a Berlusconi, al “Partito Democristiano” e a chi ha deciso da sinistra di diventarne organico. Tutti questi punti peró prevedono un fatto basilare: che i cittadini tornino ad occuparsi di quello che succede intorno a loro, senza dare deleghe in bianco al padroncino di turno. Bisogna ricominciare a “sporcarsi le mani”, come si sarebbe detto un tempo. Buoni esempi di questo sono i compagni che si stanno candidando alle elezioni amministrative del Belgio. Dalle loro interviste si capisce chiaramente la loro scelta di fondo di dedicare un pó delle loro energie per cercare di cambiare le cose a partire dal luogo in cui vivono in maniera fattiva. E che la loro candidatura è il frutto di un lavoro politico di lunga data e non una improvvisazione. Come forse avete giá notato in questo numero c’è stato un cambio nel format ed un cambio redazionale. Come in tutte le vicende umane, e una redazione non fa eccezione, purtroppo a volte le strade si dividono. A causa di eventi o di scelte personali più o meno esplicitate o condivise. Al contempo un mio personale grazie va a chi ha collaborato da esterno a questo numero. Elisa e Yasmina ci hanno dato la possibilitá di tornare su temi a noi molto cari: l’emigrazione italiana e la causa palestinese. Chiudo questo editoriale con il ricordo per due persone per noi molto importanti. Nel mese di Luglio ci ha lasciato la compagna Gabriella Pozzobon. Ci mancherá l’impegno e l’esempio che questa compagna ha profuso negli anni per causa comunista e per la comunita emigrante italiana in Europa ed in Belgio. Nel Luglio di 5 anni fa, invece, ci lasciava il Comandante Partigiano Giovanni Pesce. Il Comandante Visone ­ questo il suo famoso nome di battaglia ­ ci ha lasciato in ereditá un esempio straordinario di dedizione alla causa antifascista e di acutezza intellettuale. Noi faremo di tutto per essere all’altezza di onorare la memoria di entrambi.

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Dino Calà: solidarietà generazionale e tra le comunità Prima le persone, non il profitto

a cura di Roberto Galtieri

Quando Dino è arrivato in Bel­ gio, a 13 anni, con i genitori, il padre lavorava alla fonderia “la BOEL”. All'età di14 anni anche Dino va a lavorare in officina. Esperienza, questa, che gli permette di continuare a perfezionare la meccanica e farne la sua professione. In seguito, con altri compagni, creano una cooperativa. Nel lavoro ha maturato la coscienza politica che l'ha portato a simpatizzare per il PCI. Poi, quando Occhetto sciolse il Pci, dopo un certo periodo ha aderito al PdCI. Dino Calà è tra i fondatori operai del CASI­UO (Centro d'Azione Sociale Italiana­Uni­ versità Operaia). “Non ho mai smesso di occuparmi di for­ mazione: nell’officina prima, nella cooperativa poi; ora nel “centre de formation” dove ci sono sempre giovani di ogni nazionalità e provenienza cui insegna la meccanica ed altro per una inserzione nel mondo del lavoro”. Sono queste dunque le radici del tuo slogan sulla formazione? La conoscenza mi ha permesso di emanciparmi, perché il sapere ti emancipa nella testa e quando il cuore batte forte contro le ingiustizie e per

l'uguaglianza allora inizia la lotta politica. Senza formazione non si esprime con efficacia la propria cultura ed per i diseredati il sapere esprimere la propria cultura che viene negata e non basta l'alibi della scuola dell'obbligo. L'eman­ cipazione é il primo passo verso condizioni di vita migliori sia materiali che sociali e culturali, con nuove capacità di solidarizzarsi con tutti gli sf­ ruttati. Perché la scelta di can­ didarti e perché nel PTB (Parti du Travail Belge)? Per esprimere la mia passione civile per cercare di difendere i nostri diritti, per essere presente nei luoghi dove si prendono decisioni che deter­ minano il nostro presente e il nostro futuro. Ed anche per svegliare la comunità Italiana da un sonno politico retaggio del interdetto originale che un immigrato non può fare poli­ tica: la carenza allarmante delle iscrizioni sulle liste di elettori ne é la prova. Perché nel PTB? E’ chiaro che condivido l'ideale comunista e qui in Belgio il PTB é senz’altro il partito comunista meglio organizzato, sopra­ ttutto qui a Molenbeek.

Il simbolo della lista del PTB+ a Molembeek

Il candidato

Dino Cala' si trova alla posizione 5 della lista del PTB+ a Molembeek. Per contattare Dino: dino.cala@gmail.com

telefono 0476 507 800


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Speciale Elezioni

Durante la mia militanza ho incontrato dei militanti degni di ammirazione per il loro spirito combattivo, coerente, per la solidarietà espressa e per il loro internazionalismo. Poi perché è l'unico partito unitario in Belgio. Con loro la solidarietà é palpabile. Hai sempre parlato di solidarietà tra le comunità che a Molenbeek è questione particolarmente sentita; come riesci a mettere insieme questo obiettivo con la continua insicurezza dovuta alla microcriminalità che soffrono moltissimi cittadini di Molenbeek ? Non ci sono ricette o slogan che possano risolvere problemi così vasti. Certo è che con l’aggravarsi della crisi e la conseguente fortissimo aumento della disoccupazione qui a Molenbeek ha visto au­ mentare l’insicurezza in molti cittadini. Allora dobbiamo partire proprio da questo elemento e affermare che

solo il progresso sociale assicura rispetto reciproco e sicurezza. Concretamente da dove e come pensi di affrontare la situazione? Per esempio dal garantire che il CPAS di Molenbeek sia maggiormente finanziato e che vi sia al suo interno una redistribuzione solidale della risorse tra le comunità. Questo sia per quanto riguarda il problema casa, e cioè la gestione degli alloggi popolari, sia le indennità sociali, dalla disoccupazione. Philippe Moureaux, per esempio, ha voglia di dire che sotto la sua gestione tutto va bene. Intanto, essendo membro del gruppo dirigente di massimo livello del PS, è og­ gettivamente corresponsabile dei tagli alle spese sociali effettuati del governo Di Rupo. Poi la sua gestione non è tra le più trasparenti, anche se le responsabilità sono da ripartirsi tra i suoi échevin.

Dino durante una iniziativa elettorale a Molembeek


Speciale Elezioni

Aria nuova a Turnhout

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Alessandro Castro l’unico candidato italiano, il consigliere comunale della porta accanto.

a cura di Roberto Galtieri

“C'è bisogno di aria nuova, aprire le finestre e proporre e realizzare idee nuove. Sai, qui a Turnhout sembra che tutto funzioni bene ma poi ti accorgi, sulla tua pelle, che manca qualcosa di importante nella vita di tutti i giorni; e non soltanto perché anche qui, nel cuore del triangolo d’oro del Belgio, la crisi si fa sentire duramente”. Alessandro Castro fa queste affermazioni e sembra che veramente gli manchi l’aria per respirare. Lo sguardo è acuto e giovane, il sorriso, a volte, no. Ha quella freschezza e il disegno del disprezzo per le schifezze del mondo come solo un giovane possiede, ma anche quel poco di malizia che sa di vissuto e gli conferisce esperienza. Tutto ciò mostra Alessandro Castro quando mi racconta le ragioni della sua candidatura alle elezioni comunali di Turnhout. Di che aria c’è bisogno? Quali sono le finestre da aprire? Tutto sta cambiando in fretta e il Comune non è stato in grado di dare risposte sufficienti. Penso ai giovani come me. Qui, in quello che era definito il triangolo d’oro delle Fiandre, erano abbagliati dai soldi dal lavoro facile, ora iniziamo a sperimentare la crisi,

i licenziamenti (Philips, Basf, etc.) e la diminuzione delle coperture sociali. E forte è la mancanza di spazi di ritrovo per scambiarsi esperienze e supe­ rare la solitudine e l’isolamento. Ora a questo si aggiungono i problemi sociali e di dimi­ nuzione salariale e iniziano a farsi sentire, anche su problemi apparentemente minori. Per esempio? Guarda, è sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni. La vecchia giunta comunale ha imposto parcheggi a paga­ mento dovunque. Io sono stato sempre contrario perché a rimetterci sono sem­ pre i poveri diavoli. Il par­ cheggio a pagamento favorisce la mobilità “comoda” di chi ha i soldi. Come sempre i ricchi vanno comodamente, a bordo della loro auto, dove vogliono, tanto non gli costa pagare il par­ cheggio. Ad un operaio, anche qui a Turnhout, pesa molto il paga­ mento del parcheggio. Sai cosa sta succedendo su questo punto, per esempio? Cosa? Beh, chi ha imposto il parcheggio a pagamento do­ vunque in città ora si ricandida e per opportunismo elettorale fa campagna contro quanto ha proposto solo pochi mesi fa.

Il candidato

Alessandro Castro si trova alla posizione 11 della lis­ ta dello S.pa. Per contattare Alessandro:

santo_badalamessa@hotmail.com

telefono 0494 323 815

Tutte le notizie sulla lista dell' S.pa la

potete trovare sul

sito www.s­p­a.be/

Il simbolo della lista dell' sp.a a Turnouth


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Turnouth

Turnhout è una città situata nel nord del Belgio nella provincia di Anversa. È la città principale della regione Kempen. La città conta 39.863 abitanti ed è situata sulla strada europea E34 fra le due città portuali di Anversa e Duisburg. Ha una economia basata sull'industria de­ lla carta, imprese di grafica, industria elet­ trotecnica, generi ali­ mentari e trasporto merci.

Lo stemma cittadino

Speciale Elezioni

Perché ti sei candidato nelle liste del l’Sp.a? Quando mi è stata proposta la candidatura l’Sp.a era l’unica forza di sinistra in lizza. Di fronte alla sicura crescita di forze razziste come il Vlaams Belang e l’N­Va l’impegno a sinistra è d’obbligo ed ho accettato la candidatura. Inoltre i compagni mi hanno dato fiducia e ampia autonomia; ho trovato molto ascolto tra i maggiorenti del partito alle mie proposte. Del resto non a caso mi hanno offerto il posto numero 11 nella lista: un posto molto alto per un giovane alla sua prima esperienza. Hanno accettato le mie idee che per qui sono nuove, anche se in realtà alcune sono quelle di sempre, come fare l’interesse dei cittadini e della città. Come ti trovi come “straniero” in questa campagna elettorale? Io sono nato qui ma ho sempre mantenuto la nazionalità italia­ na, a differenza di molti con­ nazionali e di tutti i candidati di origine non belga, come i turchi, i marocchini, i polacchi etc. Per me è importante mantenere la mia identità culturale fa­

Alessandro durante una iniziativa

miliare. Anche perché sono sem­ pre più confrontato alla de­ molizione della mia identità: cittadini extracomunitari che vendono il kebab come prodotto italiano, o ristoranti e pizzerie sedicenti italiani che deturpano la nostra cultura. Il paradosso è che io sono l’unico candidato straniero, anche se molti altri candidati, e non solo nella lista con cui mi presento, sono di origine di altri paesi: turchi, polacchi. Voglio dare un’altra idea dell’Italia e dell’Italiano che è radicata qui, ma anche nel resto d’Europa. Siamo visti, ancora, come i mangiatori di spaghetti, i mafiosi e… Berlusconi, pupaz­ zetto tragico­comico che ci ha tanto ridicolizzato. L’emigrazione italiana ha nella sua stragrande maggioranza sempre lavorato sodo e bene. Siamo portatori di una cultura che non esclude le altre ma che le arricchisce e si arricchisce con esse. Questo vuol dire mantenimento della propria identità; altrimenti non ti integri mai, resti solo nel tuo angolo paesano.


Speciale Elezioni

Elezioni a Genk

a cura di Pietro Lunetto

Due compagni si sono candidati per il prossimo turno delle amministrative nella lista chiamata PVDA+ a Genk. Questa è la lista del Partito del Lavoro del Belgio allargata a degli indipendenti di sinistra ed associazioni. I candidati sono Letizia Puzzello e Gianmario Monachesi. La prima domanda è un piuttosto scontata ma necessaria: perché vi siete candidati alle elezioni e perché proprio nelle liste del PVDA+? Gianmario: io stavo prima nelle fila del PS delle Fiandre. Stufo della deriva liberista e centrista ne sono uscito insieme ad altri compagni che hanno poi formato il movimento “Rood!”. Una delle idee di fondo del movimento è quello di riunire tutta la sinistra in un fronte comune contro le politiche neoliberiste. Quando il PVDA mi ha proposto la can­ didatura, abbiamo discusso di questo aspetto e anche loro si sono trovati d’accordo su questa posizione. Tanto è vero che nelle liste del PDVA+ ci sono molti pezzi di sinistra esterni al PVDA. Letizia: da qualche anno mi sono avvicinata al PVDA perché in questo partito ho trovato molte delle risposte alle domande che mi sono posta per capire cosa succede intorno a me. Un partito che fa realmente delle cose che servono ai cittadini a partire dalla Maison Medicale. Uno dei “motti” che abbiamo tra i giovani del PVDA è che il mondo lo devi comin­ ciare a cambiare intorno a te. Quindi cominciare dal comune in cui vivo candidandomi alle ele­ zioni mi è sembrato coerente con questa visione e ho ac­

cettato. Quali sono i principali problemi di Genk oggi? Soffermiamoci su alcune delle tematiche più rilevanti: inquinamento e alloggi sociali. Oggi a Genk esiste un serio problema di inquinamento cau­ sato dalle acciaierie. Anche grazie agli interventi del PDVA, di recente sono state effettuate delle modifiche che hanno mi­ gliorato la situazione. Nel frat­ tempo gli inquinanti, tra cui i metalli pesanti, si sono dispersi sul tutto il territorio di Genk e non solo vicino all’ acciaieria. Da sempre una delle battaglie del PDVA è quella di effettuare una ricerca epidemiologica per capire quali danni questo in­ quinamento sta procurando e quali sono i soggetti più colpiti. Il consigliere comunale del PDVA uscente, che è un medico, dopo anni di battaglie è riuscito anche ad ottenere il sostegno dell’ordine dei medici a questa proposta. L’attuale sindaco, dopo anni di orecchie da mercante, dice di essere d’ac­ cordo ma la questione adesso è ferma sul tipo di analisi da effettuare. Il PDVA propone un metodo semplice, veloce e poco costoso in modo da ottenere velo­ cemente i risultati mentre l’attuale sindaco punta, stra­ namente, ad un metodo molto più costoso. E non si riesce a sboccare la situazione. Oggi l’offerta di alloggi sociali a Genk è bassa o inesistente, di scarsa qualità e la gestione non è per niente efficiente. L’esempio dell‘ultimo inverno, dove in alcune di queste case le temperature interne erano in­ feriori ai 10 gradi,

Il simbolo della lista del PVDA+ a Genk

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I candidati

Letizia Puzzello figlia di Quinto uno dei fondatori di Rifondazione Comunista in Belgio nel lontano 1998. Letizia si trova alla posizione 7 della lista del PVDA+. letizia.puzzello@hotmail.com

Gianmario Monachesi Questa lista vuole affrontare i problemi reali di Genk. Per cominciare quartieri più vivibili e a misura d'uomo. Gianmario si trova al numero 37 della lista PVDA+. gianmario.monachesi@skynet.be


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Genk

Genk è situata nella zona fiamminga del Belgio a circa 90Km ad est di Bruxelles. Conta circa 63000 abitanti di cui 1/3 stranieri e di questi circa 9000 sono di origine italiana. Genk è stato un grande centro mine­ rario fino alla metà degli anni ‘80 ed ha mantenuto parzial­ mente la sua voca­ zione industriale, suc­ cessivamente avendo sul suo territorio un impianto siderurgico ed una fabbrica Ford. A questo si deve aggiungere il notevole sviluppo avvenuto negli ultimi anni di una economia basata sul terziario commerciale.

Le teste di lista del PVDA+ a Genk

Speciale elezioni

ha convinto l’amministrazione ad abbatterne alcune ma il tutto sta avvenendo senza un programma complessivo di riqualificazione. Noi proponiamo di aumentare considerevolmente l’offerta di alloggi sociali di qualità in modo da renderle disponibili anche alle giovani generazioni che oggi ne sono escluse. In altre parole bisogna non solo realizzare più alloggi sociali e di buona qualità ma anche democratizzarne l’accesso e la gestione. Grazie alle ultime mobilitazioni pro­ mosse dal PVDA qualcosa si sta muovendo ma molto resta da fare. Dove avete intenzione di prendere le risorse? Per cominciare noi non avremmo speso 1.2 milioni di euro per realizzare una soap opera a scopo pubblicitario come ha fatto l’attuale amministrazione. La spesa sociale deve essere una priorità, eliminando le spese assurde come quelle appena menzionate. Ti faccio un altro esempio: Genk ha una rete di centri giovanili a servizio di minori a rischio molto estesa. Un centro per ogni quartiere. Fino a qualche anno fa funzio­ navano bene. Le attività erano molte e di qualità. Ad un certo punto, con la scusa di centralizzare i servizi per fare economie, il personale è dimi­ nuito ed hanno deciso di co­ struire un grande centro gio­ vanile in centro. Per carità molto bello e fun­ zionale, ma l’effetto è stato quello di diminuire i servizi periferici, dove servono di più. Noi pensiamo che questi centri vadano gestiti dal Comune in stretta collaborazione con i gruppi giovanili. Sarebbe un modo semplice, efficace e democratico di gestire questi spazi. In un contesto dove il tasso di scolarizzazione è il più basso delle Fiandre, anche la scuola deve essere gestita in

Genk

maniera diversa. Vanno coinvolti di più i genitori. Vanno abbattute le barriere culturali che provocano il loro scarso coinvolgimento soprattutto quelli delle comunità migranti. Adesso parliamo della situa­ zione della comunità italiana a Genk. La comunità italiana non è fortemente integrata, almeno nella sua totalità ed è molto divisa tra sinistra e cen­ tro­destra. Esistono conflitti particolari tra le comunità straniere? A parte uno strascico di razzismo da parte dei belgi nei confronti di tutti gli emigrati (anche se molto meno che in passato) esiste un razzismo di fondo tra le varie comunità emigranti. Non si riesce a far comprendere a molti che alcune problematiche sono comuni e che, mettendo da parte certi atteggiamenti, potremmo avere più potere contrattuale nei confronti delle istituzioni. E la situazione dei giovani? Pessima. La maggioranza dei giovani non ha interesse per la politica e per la realtà che li circonda. C’è molto individualismo. Esistono poche associazioni e non ci sono strutture per lo svago. Un disastro insomma. Voi come cercate di intervenire in questa situa­ zione? E’ molto difficile ma cerchiamo almeno di far partire il dibattito sulla scuola, che ci dovrebbe toccare tutti da vicino. La struttura della scuola qui è rimasta molto classista. Le scuole tecniche, che sono frequentate di solito da alunni provenienti da famiglie meno abbienti, danno una pre­ parazione peggiore delle altre. E questo deve essere cam­ biato. Perché è dalla scuola che bisogna partire per mi­ gliorare il nostro futuro.

Tutte le notizie sulla lista del PVDA+ di Genk e sulle loro iniziative li trovate su www.genk.pvdaplus.be


Dai Comites al Parlamento:

che elezioni per gli Italiani all'estero?

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dalla Federazione Comunista del Belgio e Lussemburgo È entrato in vigore il 1° giugno scorso il una campagna per il loro rilancio, cominciando Decreto Legge del Governo che rimanda dal far conoscere i Comites e le sue funzioni, e ancora una volta le elezioni per il rinnovo dei magari riflettendo sull'opportunità di dare un Comitati degli Italiani all'Estero (Comites) e ruolo più forte alle associazioni. Nel frattempo del Consiglio Generale degli Italiani all'Estero si potrebbe dare un primo segnale restituendo (Cgie) "al fine di razionalizzare la relativa i magri budget ricevuti al Ministero in segno di spesa in attesa del generale riordino della protesta. In questa campagna riteniamo che, materia". L'ennesimo rinvio: svolte le ultime oltre ai partiti e le associazioni, tra i primi nel marzo del 2004, queste elezioni furono protagonisti dovrebbero trovarsi i parlamentari rinviate una prima volta dal 2009 al 2010, poi eletti all'estero. Non possiamo che sottolineare al 2012, e ora… al 2014. Se la precedente che anche qui ci sono delle criticità: la "legislatura" Comites­Cgie durò dal 1997 al prossima chiamata elettorale per gli Italiani 2004, ora in questa si va già verso il decennio, all'estero sarà per le politiche del 2013, che si e chissà se ancora oltre. In tutto questo tempo svolgeranno, molto probabilmente, ancora con i Comites stanno, per la maggior parte, la legge elettorale della Circoscrizione Estero. letteralmente morendo d'inedia e di Nelle due precedenti occasioni, 2006 e 2008, il stanchezza, riducendo ulteriormente il credito meccanismo elettorale ha dato pessima prova che ancora potevano avere tra i cittadini di sé, con scarsissima partecipazione ed italiani all'estero. I Comites sono, o meglio, episodi di clientelismo. Ad una situazione dovrebbero essere, degli organi di simile non ha coinciso una presa di posizione rappresentanza consultiva degli Italiani residenti all'estero, incaricati di attività sociali, culturali, assistenziali e informazione. Come molti concittadini sanno per esperienza personale, in molte regioni non hanno funzionato bene e, spesso, si sono trasformati in strumenti funzionali a cordate o meccanismi clientelari poco trasparenti. Di fronte a certe retoriche governative sugli Italiani all'estero, il risultato concreto è il disinteresse verso di loro e gli organismi che dovrebbero rappresentarli. Ulteriore conferma che gli istituti democratici vengono considerati da alcuni soltanto un costo, che ovviamente per "lorsignori" non vale la pena di sostenere; anche se i membri dei Comites e Cgie non ricevono nessun compenso per la loro opera e negli ultimi 3 anni i budget si sono ristretti dell'80%. Queste problematiche sono state denunciate da anni dai Comunisti e dal mondo dell'asso­ ciazionismo. Oggi, di fronte a questo rinvio, di nuovo si sono levate voci di protesta, più o da parte degli organi preposti alla vigilanza. meno di circostanza, e c'è chi propone delle Questa insomma è la situazione per gli Italiani "dimissioni generali" dei membri dei Comites. all'estero di fronte ad elezioni, quelle dei Noi potremmo essere favorevoli a questa Comites alle calende greche, quelle politiche strategia solo se provocasse una reale all'estero una farsa. Ma tutto questo non decadenza dei Comites, quindi quando tutti i succede a caso: per questo Governo, come membri decidessero di dimettersi e quando per i suoi predecessori, gli Italiani all'estero non ci fossero liste di non eletti pronti a sono buoni solo per fare un po' di folklore. subentrare. Senza queste condizioni la Ma, se gli stessi Italiani all'estero volessero richiesta di dimissioni collettive rimane solo un fare Politica in prima persona, l'unica possibilità che rimane è nelle organizzazioni annuncio dal sapore propagandistico. politiche e sociali del paese di residenza. Cosa proponiamo? Noi riteniamo che la protesta contro il rinvio Tanto, all'Italia, queste cose non interessano, delle elezioni dei Comites debba coincidere con anzi, disturbano, e vanno "razionalizzate".


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Dickens 2012

Welfare e lavoro coatto nell'Inghilterra del XXI secolo

di Simone Rossi

LONDRA ­ Nel Regno Unito al modello di un welfare universale si affianca una concezione della povertà dal sapore vittoriano, che stigmatizza le persone socialmente più deboli per la propria condizione. È un approccio che contiene i germi della guerra tra i poveri e quelli che lo sono meno, tipico dei conservatori ma che ha fatto presa tra i laburisti dopo l'avvento di Blair. Di fatto è avvenuta la secolarizzazione della visione protestante della ricchezza come premio divino e della povertà come un castigo; nella chiacchiera promossa dalle testate conservatrici coloro che ricorrono alle forme di sussidio e di sostegno al reddito offerte dallo Stato non si sforzerebbero sufficientemente per essere indipendenti finanziariamente e costituiscono un peso per coloro che lavorano; raramente questo tipo di giornalismo fornisce approfondimenti sulle cause strutturali dell'indigenza e dell'emar­ ginazione. I programmi definiti di workfare sono un esempio di come questo approccio si traduca nelle politiche sociali dello Stato britannico; essi sono stati introdotti dal governo laburista con l'intento di fornire a coloro che per­ cepiscono un sussidio la possibilità di re­ inserimento presso enti ed aziende con­ venzionati, in modo da rimanere attivi oltre ad eventualmente imparare nuove mansioni ed ottenere nuove qualifiche che permettano loro di trovare impiego. A beneficiare di questi programmi non sono solamente organismi pubblici ed enti non a fine di lucro che impiegano disoccupati per attività di finalità sociale, ma anche aziende private del terziario, che ricorrono a manodopera gratuita, pagata loro dal contribuente, anziché assumere nuovo personale; senza obbligo di assunzione al termine del programma. Il fatto che questa manodopera sia stata utilizzata a vantaggio di alcuni operatori della grande distribuzione che ogni anno vantano incrementi nei profitti e distribuiscono dividendi a soci ed azionisti. Il caso che ha suscitato più scandalo nell'opinione pubblica è quello che ha coinvolto la compagnia G4S, appaltatrice di alcuni servizi carcerari e per la sicurezza, durante le celebrazioni del giubileo della sovrana Elisabetta II in giugno. Incaricata dei servizi di vigilanza e sicurezza pubblica nelle strade della capitale, l'azienda è ricorsa ad alcune decine di disoccupati per coprire la propria carenza di organico; è emerso che a queste persone, provenienti da località parecchio distanti da Londra, non sono state forniti adeguati vitto ed

alloggio, tanto che alcuni di loro si sono accampati con delle tende sulle rive del Tamigi per due notti ed hanno ricevuto un magro pranzo al sacco per un'intera giornata di lavoro. Dopo aver ricevuto un'esposizione mediatica negativa, alcune grandi aziende hanno deciso di ritirarsi dai programmi di workfare, in particolare quelle i cui marchi sono associati alla responsabilità sociale ed alla sostenibilità; tuttavia né la maggioranza liberal­conservatrice né l'opposizione laburista si sono sentite in dovere di mettere in discussione il vigente modello di workfare, almeno perché le aziende aderenti ai pro­ grammi contribuiscano attivamente oltre a raccogliere profitti. Infatti questi programmi non producono tangibili ricadute positive sulle casse pubbliche, dal momento che il loro costo ricade sulla collettività; secondo stime effet­ tuate dai promotori della campagna anti­ workfare, il solo The Work Programme, uno dei cinque attualmente attivi, avrà avuto un costo di cinquanta miliardi di sterline al termine della legislatura.

Cartelli contro il "workfare" durante una ma­ nifestazione di protesta


Sulla reale efficacia dei pro­ grammi di workfare, inoltre, ci sono parecchi dubbi, tanto per la loro utilità nella riduzione della disoccupazione, che supe­ ra i due milioni e mezzo di unità, quanto per la qualità della formazione professionale che i partecipanti possano ricevere dall'impiego in mansioni poco qualificanti e ripetitive. Varie testimonianze raccolte da testate progressiste come The Morning Star e The Guardian riguardano giovani neolaureati inviati in supermercati ed in grandi magazzini a svolgere attività che non potrebbero fare e prevedono che i partecipanti lavorino a titolo gratuito per un massimo di trenta ore settimanali durante periodi che variano dalle quattro settimane ai sei mesi. Molti di questi giovani accettano di partecipare al workfare perché temono in caso contrario di perdere il sussidio. Sebbene l'obbligatorietà sia pre­ vista solo per alcuni programmi, questa informazione non è passata correttamente dai centri per l'impiego e dalle orga­ nizzazioni senza fine di lucro

che forniscono assistenza a coloro che richiedono i sussidi. Anche per quanto riguarda i programmi con obbligo di adesione, ad inizio agosto la Corte di Giustizia di Londra si è espressa su appello di due giovani contro la decisione di interrompere il pagamento del sussidio nel momento in cui gli appellanti hanno deciso di non prender ulteriormente parte al programma cui erano stati assegnati, imponendo il versa­ mento delle mensilità non corrisposte. Sebbene sia positivo che il giudice abbia sancito che il diritto ai sussidi non possa esser vincolato ai programmi di workfare, la sentenza non stra­ volge il principio di workfare stesso, né pone le basi per una sua modifica. Anzi, nella lettura della sentenza il magistrato ha dichiarato che definire detti programmi come forme di schiavitù o di lavoro coatto non sia in linea con la mentalità contemporanea. Probabilmente si riferiva alla mentalità dell'ėlite che domina il Paese, quella di cui fa parte.

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WORKFARE

Il workfare è un modello alterna­ tivo al classico welfare state che consiste piuttosto in politiche di wel­ fare attivo fina­ lizzate ad evitare gli effetti disin­ centivanti sull'of­ ferta di lavoro che il welfare classico ha di solito pro­ dotto, collegando il trattamento pre­ videnziale allo s­ volgimento di un'attività di lavoro. Il termine de­ riva dall'unione di work e welfare.


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di Andrea Albertazzi

Elezioni in Grecia 2012 Quali insegnamenti trarre?

Gli occhi di tutta Europa (e non solo) erano puntati sulla Grecia in occasione delle elezioni parlamentari svoltesi il 6 maggio e il 17 giugno 2012. Le seconde elezioni hanno avuto luogo vista l'impossibilità di avere una maggioranza in seno al parlamento per dare la fiducia ad un governo al primo turno. La seconda tornata elettorale ha dato vita ad un governo sostenuto da Nuova Democrazia, PASOK e Sinistra Democratica. Entrambe le consultazioni elettorali si sono svolte in un clima molto pesante e atipico, contraddistinto da forti ingerenze straniere nella campagna elettorale – come le dichiarazioni di esponenti del governo tedesco, cancelliere Merkel compresa, in favore delle forze che non avrebbero mai messo in discussione quanto stabilito in precedenza – e da accuse reciproche tra le forze politiche che hanno certamente influenzato i cittadini greci nel compiere la loro scelta. Non si vuole qui fare una cronaca delle elezioni, ma vale la pena ricordare alcuni elementi importanti. Il PASOK (partito socialdemocratico, al governo negli ultimi anni e sostenitore del governo Papademos con la destra) è arrivato alle elezioni in uno stato impresentabile: considerato come una forza incapace di difendere gli interessi greci, con una credibilità totalmente compromessa vista il continuo piegarsi di fronte ai diktat europei, il PASOK è crollato in termini elettorali. Il partito di destra Nuova Democrazia, per anni considerato il responsabile dei “conti truccati” dagli stessi greci, ha tratto beneficio dalla situazione, pur essendo nei fatti come in tanti (tutti?) gli altri paesi europei l'altra faccia, insieme alla socialdemocrazia, con la quale i poteri forti si presentano e illudono i cittadini. I voti all'estrema destra sono aumentati e sono passati dal partito LAOS, nazionalista e tradizionalista ad Alba Dorata, di esplicita ispirazione neonazista. A sinistra c'erano molte aspettative, specialmente rispetto alla prima consultazione elettorale di maggio. Nei mesi dei governi Papandreou e Papademos anche noi che in Grecia non abitiamo, abbiamo potuto osservare, pur con i filtri imposti dai media borghesi, un grande movimento popolare di opposizione alle politiche di tagli ai salari, alle condizioni di lavoro e alle misure di stato sociale dei lavoratori greci. Questo movimento è stato sicuramente, pur con alti e bassi, un movi­ mento di massa, con una serie impressionante di scioperi generali che hanno bloccato il paese,

coinvolgendo tutte le categorie. I sindacati greci più grandi, GSEE (settore privato) e ADEDY (settore pubblico), legati comunque nella loro parte maggioritaria ai partiti PASOK e Nuova Democrazia, sono stati forzati da altre forze attive come il PAME (Fronte unico dei lavoratori, legato al Partito Comunista KKE) ad indire scioperi e manifestazioni.

Bandiere del PAME ad uno sciopero Questo movimento di massa che ha preceduto le elezioni ha fatto sì che molti pensassero che si potesse tradurre in modo quasi automatico in un consenso maggioritario alle forze di sinistra greche. Ciò non si è avverato. In primo luogo, Nuova Democrazia ha giocato tutta la sua campagna – specialmente quella delle elezioni di giugno – mettendo gli elettori di fronte alla scelta euro/dracma ponendosi come l’unica forza in grado di mantenere la Grecia nell’euro: questa tattica elettorale ha certamente avuto un peso nel risultato elettorale. In secondo luogo parte degli elettori ha deciso di votare e di fare entrare in Parlamento una forza di destra fascista, cercando una risposta reazionaria alla crisi economica. In terzo luogo, moltissimi non si sono recati a votare facendo aumentare notevolmente il tasso di asten­ sionismo. Infine, le divisioni esistenti tra le forze di sinistra non hanno certamente aiutato a tradurre in termini elettorali i grandi movimenti di massa del 2011 e del 2012. Ovviamente sono soprattutto le scelte della sinistra greca ad interrogare e ad interpellare tutti i comunisti europei, che hanno seguito da vicino la situazione della Grecia e soprattutto il declino reale delle condizioni di vita dei lavoratori greci, immolati per primi sull’altare del capitalismo nella sua espressione finanziaria.


SYRIZA (coalizione della sinistra radicale), guidata dall’intraprendente Alexis Tsipras, si è posta come l’unica forza in grado di raccogliere i consensi dei “delusi” dal PASOK e ci è riuscita in larga misura raggiungendo il 16,8% nelle elezioni di maggio e il 26,9% in quelle di giugno. Percentuali molto alte, superate in entrambi i casi da pochi punti da quelle di Nuova Democrazia. SYRIZA che, è bene ricordarlo, soltanto pochi anni fa ha rischiato di scomparire dal parlamento greco, è una coalizione di diversi ed eterogenei partiti di sinistra; ha saputo conquistare i voti di molti elettori greci proponendo un programma elettorale che rifiutava il memorandum d’intesa di tagli e di austerity tra Unione Europea e governo greco, pur non prevedendo l’uscita dall’euro e dall’UE in un quadro generale di compatibilità con il sistema capitalistico. L’altro partito che merita la nostra attenzione è il Partito Comunista Greco (KKE) che ha raggiunto la percentuale dell’8,5% nelle elezioni di maggio e il 4,5% a giugno. La linea del KKE è sempre stata molto chiara ed è una linea politica che ha fatto sì che, per ovvi motivi, i media borghesi gli abbiano sempre favorito una forza come SYRIZA. Nonostante ciò, il KKE ha sempre dimostrato un forte radicamento e il protagonismo avuto (sia direttamente, sia attraverso il PAME) negli scioperi del 2011 e del 2012 lo hanno ulteriormente provato. Legittimamente una parte dei comunisti europei amici del KKE si aspettavano quindi un risultato migliore nelle elezioni di maggio, anche se un certo pragmatismo era emerso nelle settimane precedenti alle elezioni. Ciò che più ha fatto discutere, però, non è stato il risultato elettorale in sé, quanto l’atteggiamento tenuto dal KKE nelle settimane che hanno separato le prime elezioni dalle seconde. Intelligentemente, Alexis Tsipras ha contattato gli altri partiti per valutare la loro disponibilità

Atene 8 Luglio 2011

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ad un governo di coalizione. Se Sinistra Democratica, partito di fuoriusciti dal PASOK, ha accettato per poi dimostrare tutto il loro opportunismo partecipando, oggi, al governo del leader di Nuova Democrazia Saramas, il KKE non ha nemmeno voluto incontrare il leader di SYRIZA. Il KKE non si è mai stancato di denunciare l’opportunismo di SYRIZA che si spaccia per forza anticapitalista quando non è che una forza socialdemocratica, che non mette mai in discussione il sistema capitalista. Il KKE ha sempre applicato la sua linea e coerentemente rifiutato ogni accordo con SYRIZA. Detto questo però frasi del tipo “il KKE non baratterà la propria linea per qualche ministro” ha fatto emergere un "settarismo" che non ha premiato i comunisti, dimez­ zandone i consensi nel giro di un mese. È giusto chiedersi in quale misura una partecipazione di ministri KKE ad un governo con SYRIZA avesse potuto influenzare in positivo la politica greca e la condizione dei lavoratori. Tutti i poteri forti avrebbero fatto l’impossibile per “anestetizzare” l’attività di eventuali ministri comunisti e sul lungo termine, il KKE avrebbe pagato molto più di altre forze un errore del genere. Detto ciò, è assolutamente necessario comunicare in modo efficace questa linea ai propri sostenitori e sono convinto che scelte come quella di non voler nemmeno incontrare SYRIZA dopo le elezioni non siano state lungimiranti. La coalizione guidata da Tsipras ha si­ curamente strumentalizzato la situazione ma è innegabile che una buona parte dei voti persi dal KKE siano finiti a SYRIZA. Ora, non si vuole crocifiggere qui un Partito comunista come il KKE: il diritto di valutare, analizzare e anche criticare come si fa tra compagni, le strategie dei partiti comunisti negli altri paesi è legittimo. Quando lo si fa nei confronti del KKE, che ha dimostrato nei fatti di essere un Partito comunista che sta dentro le lotte e che non vive soltanto di percentuali elettorali, bisogna farlo con una buona dose di umiltà, soprattutto se si pensa alla situazione dei partiti comunisti italiani. Trattandosi inoltre di un altro paese con storia e contraddizioni specifiche si impone una doverosa cautela. Il modo in cui Rifondazione Comunista ha cercato di ricostruirsi una credibilità basandosi sui successi di SYRIZA e attaccando il KKE non è stato un bello spettacolo. C’è davvero da augurarsi che il calo subito dal KKE sia solo temporaneo e che i compagni greci riescano a rilanciare un Partito che, come detto, non si deve fermare per un risultato deludente, ma deve continuare ad essere attivamente presente nelle lotte e nelle contraddizioni. C’è e ci sarà bisogno dei comunisti in Grecia e in Europa, oggi e domani.


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Nonostante il peso delle ombre, restiamo umani di Yasmina Khamal

È difficile riuscire ad immaginare quello che rappresenta per un popolo intero pensare all’indipendenza della propria terra come ad una meta costantemente confinata ad un lontano orizzonte, segnata da più di 60 anni di lotta. Eppure di fronte all’ingiustizia protrattasi sulla Palestina, quell'orizzonte è stato condiviso da persone che pur non ap­ partenenti al suo popolo hanno cominciato a conoscerne le sofferenze e a fare propria la sua resistenza. A credere in quello che negli anni si è delineato come un sogno dai contorni spesso irraggiungibili e a cercare di conservare quanto possibile intatta la propria umana sensibilità. Tra queste persone un ragazzo di ventisette anni ha dato un senso assoluto alla speranza di vedere l’utopia realizzata. Dalle colline della Brianza, un percorso di volontariato con diverse organizzazioni non governative ha portato Vittorio Arrigoni in Europa orientale, Perù e Africa, poi nel cuore della realtà palestinese dei campi profughi in Libano e in Cis­ giordania. Nel 2003, a Nablus, Vittorio incontra per la prima volta i volontari dell’ Inte­ rnational Solidarity Movement (ISM), movimento fondato nel 2001 per sostenere con metodi non violenti la resistenza civile palestinese. Diventato membro dell’ISM, Vittorio vive accanto al popolo palestinese e ne documenta i soprusi ripetuti dalle forze armate israeliane. Nel 2005 viene fermato al confine con la Giordania e brutalmente e­ spulso. Diventa persona non gradita allo stato di Israele, con il divieto di entrare nei territori palestinesi. Ma nell’agosto 2008, raggiunge la Striscia di Gaza a bordo di una delle fragili imbarcazioni del

Freedom Gaza Movement, coalizione inter­ nazionale nata con l’obiettivo di rompere l’assedio israeliano su Gaza e di portarvi aiuti uma­ nitari. Il giorno in cui Vittorio cammina per la prima volta nel porto di Gaza è uno dei più felici della sua vita e decide di rimanervi come attivista per i diritti umani. Nel dicembre 2008, Israele lancia l'offensiva Piombo Fuso bombardando Gaza per 22 giorni, facendo uso di armi vietate dalla Convenzione di Ginevra, mietendo più di 1400 vittime, di cui 400 bambini. Vittorio rifiuta di essere evacuato. I suoi occhi seguiranno quelle giornate di terrore al fianco dei paramedici palestinesi, cercando di soccorrere la popolazione, facendo da scudo umano sulle ambulanze che l’esercito israeliano prende subito di mira così come gli ospedali, le scuole, i depositi delle Nazioni Unite. Lo strazio che gli occhi di Vittorio assorbono in quei giorni di “incubi a occhi aperti” si fa testimonianza nei suoi resoconti quotidiani per Il Manifesto e pubblicati sul suo blog Guerrilla Radio. Questi reportages, uniche cronache dirette dell’inferno vissuto dalla popolazione di Gaza saranno riuniti in un volume Gaza. Restiamo umani, pubblicato con Manifestolibri nel 2009, poi tradotto in francese, inglese, tedesco e spagnolo. Parole di denuncia intrise di dolore e rabbia, racconti scanditi dall’esortazione che darà il suo titolo al libro e con la quale Vittorio firma tutti i suoi testi, “restiamo umani”, il suo “invito a ricordarsi della natura dell’uomo". L’unica speranza rimane infatti quella di riuscire a scuotere l’indifferenza del “mondo civile”, muto testimone dell’orrore di quei 22 giorni, di tentare di risvegliarne l’umanità assopita:

Vittorio Arrigoni

Nasce a Besana in Brianza il 4 febbraio 1975 e viene ucciso a Gaza il 15 aprile 2011. I nonni erano antifascisti. Dopo il diploma di ragioneria, lavora nell'azienda di famiglia, nel mentre si dedica all'aiuto umani­ tario. Era soprannominato Vik. La presentazione del Reading Movie e i video delle letture registrate si trovano sul sito del progetto www.restiamoumani.com


Solo sfogliare questo libro potrebbe risultare Piombo Fuso pericoloso, sono infatti pagine nocive, imbrattate di sangue, impregnate di fosforo bianco, taglienti di schegge d'esplosivo. Se letto nella quiete delle vostre camere da letto rimbomberanno i muri delle nostre urla di terrore, e mi preoccupo per le pareti dei vostri cuori che conosco come non ancora inso­ norizzate dal dolore. Mettete quel volume al sicuro,

"vicino alla portata dei bambini, di modo che possano sapere sin da subito di un mondo a loro poco distante, dove l'indifferenza e il razzismo fanno a pezzi loro coetanei come fossero bambole di pezza. In modo tale che possano vaccinarsi già in età precoce contro questa epidemia di violenza verso il diverso e ignavia dinnanzi all'ingiustizia. Per un domani poter restare umani."

Vittorio non ha lasciato Gaza dopo i bombardamenti, è rimasto accanto ai sopravvissuti e ha documentato con i suoi racconti ed i suoi video il dramma della popolazione di Gaza, accompagnando i con­ tadini e i pescatori costantemente presi di mira dai cecchini israeliani. Fino a quel terribile aprile di un anno fa in cui Vittorio viene rapito ed ucciso da un presunto gruppo di militanti salafiti in circostanze tuttora oscure. Da allora, il dolore di parenti e amici non si è mai alleviato, ma è diventato una spinta ulteriore verso la difesa della causa che animava Vittorio. Un gruppo di ragazzi organizza in poche settimane un viaggio a Gaza: il Convoglio Restiamo Umani attraversa il confine di Rafah a maggio 2011 e ripercorre il sentiero tracciato da Vittorio lungo la Striscia. L'associazione Azione Spe­ rimentale decide di dar vita a un progetto al quale Vittorio avrebbe dovuto partecipare: l'organizzazione di letture pub­ bliche di "Gaza. Restiamo umani". Ne amplia la portata invitando 19 personalità come Stéphane Hessel, Ilan Pappé, Moni Ovadia, Norman Finkelstein, Mairead Maguire, Huwaida Arraf, a leggere ognuna un capitolo del libroNasce così il Reading Movie Restiamo Umani, realizzato da Fulvio A. T. Renzi, Luca Incorvaia, Giorgio Scola e Tommaso Melideo, patrocinato da diverse associazioni inter­ nazionali e coprodotto dal pubblico. Il progetto non è soltanto un omaggio a Vittorio ma si pone come principale obiettivo di riunire in un’unica voce tutte le realtà associative internazionali che operano una soluzione al conflitto israelo­palestinese, una testimonianza che “serve a trasformare chi la ascolti in ulteriori testimoni e noi ora abbiamo il dovere

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di diffonderla; stiamo agendo per la conoscenza, per l’annullamento di ogni individualismo e per unirci attorno a un’unica meta: la diffusione della verità”. Il Reading Movie è stato presentato in Italia e in diverse città europee, fra cui Bruxelles nel marzo 2012. Da novembre 2011, seguendo anche lei le orme di Vittorio, l'attivista italiana Rosa Schiano si è stabilita a Gaza dove accompagna i contadini e i pescatori sempre minacciati dai soldati israeliani, documentando sul suo blog le violazioni continue subite dalla popolazione gazawi. Le iniziative si susseguono in tutta Italia e in Palestina, soprattutto per far sì che il suo impegno rimanga un modello da seguire, “un’utopia” a cui continuare a dare un senso, “con la sua presenza viva che ingigantisce di ora in ora, come un vento che da Gaza, soffiando impetuoso ci consegni le sue speranze e il suo amore per i senza voce, per i deboli, per gli oppressi, passandoci il tes­ timone”. “Resisto, fino alla fine. E anche dopo”, sono le parole scritte da Vittorio in uno dei nostri ultimi scambi. Riecheggiano da allora nella mia mente, non è stato semplice riceverlo ma il loro significato si è chiarito con la brutale realtà degli eventi. Cerco di convincermi da quel maledetto aprile che nessuno di noi avrebbe potuto impedire quello che è successo. E che questo tuo resistere oltre la fine si sta attuando nell’impegno delle tante anime che continuano a seguire la tua forza, la tua determinazione, la tua generosità, a volte in modo inevitabilmente tentennante e tristemente disunito. Non ci sei più a guidare i nostri passi, ad allontanarci dalle troppe tentazioni individualistiche, a tenere vigili le nostre coscienze. Ma anche se la speranza si è fatta più fragile, la memoria che ci hai consegnato ci aiuta a mantenerla accesa. E nonostante il peso soffocante delle ombre, vogliamo restare umani, sempre.


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Guida pratica alle liberalizzazioni

Il golpe cileno del 1973 e la creazione di un modello economico “esemplare”

di Simone Rossi

LONDRA ­ In questi tempi in cui i colpi di stato sono tornati in particolare auge in varie aree del pianeta, orientati dagli interessi della Finanza nordamericana ed europea, il ricordo degli eventi dell’11 settembre 1973 e dei loro effetti di lungo termine è quanto mai doveroso e utile. Il golpe in quel settembre di trentanove anni fa fu inedito non solo perché venne attuato in un paese sino ad allora sfuggito all’instabilità degli stati confinanti ma anche perché diede l'avvio ad un esperimento di economia che avrebbe lasciato il segno in Cile ed in molti altri Paesi. L'America Latina, il cortile di casa degli USA secondo la Dottrina Monroe ancora in voga, ha conosciuto fin dall'indipendenza da spagnoli e portoghesi frequenti colpi di stato, solitamente con la finalità di impedire uno stravolgimento in senso democratico degli assetti di potere interno e di garantire il mantenimento degli interessi statunitensi e britannici nell'area; una saldatura di interessi che ha consentito alle élite locali di rimanere in sella per quasi due secoli ed alcune multinazionali fare affari sulle spalle di milioni di esseri umani. Il golpe del 1973, invece, unì alla tradizionale lotta al nemico rosso, incarnato nel presidente legittimamente eletto Allende e nella sua coalizione di Sinistra, la volontà di mettere in pratica l'ideologia neoliberista che aveva nella cosiddetta Scuola di Chicago il proprio epicentro e nell'economista Milton Friedman il proprio guru. Il sequestro di oppositori politici del regime, il ricorso alla tortura, all'omicidio ed all'occultamento dei cadaveri furono non solo mezzi di repressione del dissenso ma anche strumenti coercitivi per modellare la società nella direzione voluta. Una volta annichilito il dissenso con la violenza, la dittatura ha potuto procedere alla svendita delle risorse minerarie del Cile, la distruzione delle riforme sociali introdotte dal governo di Unità Popolare a favore delle fasce più deboli ed alla privatizzazione dei beni comuni, inclusi quelli a garanzia di diritti come istruzione e salute. Questo modello, che piacque a “statisti” tra i quali Reagan e Thatcher, è sopravvissuto al passaggio dalla dittatura al parlamentarismo ed è stato tenuto in piedi per un ventennio dai governi della Concertazione, il centrosinistra cileno, nel rispetto dell’accordo non scritto che ha barattato un simulacro di democrazia con il mantenimento di privilegi e dello status quo. A differenza di molti altri Paesi dell'area, sottoposti a simile cura liberalizzante negli anni '70­'90 ma spostatisi verso Sinistra nell'ultimo

decennio, il Cile è il figliol prodigo delle élite transnazionali che formatesi con la globalizzazione hanno un giocattolo da mostrare a chi critica il neoliberismo. Il tutto coronato dall’elezione, per la prima volta dalla fine della dittatura, di un esponente della Destra alla Presidenza della Repubblica, nel 2010. Lo stato di grazia si è infranto sul muro di un crescente malessere degli strati popolari ed a quello della classe media, che ha mantenuto il proprio relativo benessere sotto il peso crescente dei debiti contratti a causa di un modello ingiusto e iniquo. Da oltre un anno decine di migliaia di persone scendono regolarmente in piazza per chiedere riforme strutturali, che riducano l’iniquità del modello cileno. Una mobilitazione che per durata e per grandezza non ha precedenti nella storia del Cile post­dittatura e che ha visto negli studenti il soggetto trainante; dopo due decenni in cui le giovani generazioni erano apparse lontane dalla politica ed apatiche di fronte alle questioni sociali, nel corso del 2011 il movimento studentesco rimesso in discussione il modello cileno, a partire dalla privatizzazione dell’istruzione e dell’università, che riduce la mobilità, crea esclusione sociale e costringe le famiglie delle classi medie e basse ad indebitarsi per consentire ai propri figli di emanciparsi. Le mobilitazioni studentesche hanno funto da catalizzatore per altre rivendicazioni, come quella per la difesa del territorio da alcune “grandi opere”, e ottennero l’appoggio della centrale sindacale, i cui aderenti marciarono a fianco degli studenti all’acme della protesta, nell’agosto e nel settembre del 2011.


«Cosa sono 5 milioni di dollari in confronto all'amore di 8 milioni di cubani?»

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È morto il grande pugile cubano che preferì restare dilettante a Cuba che diventare ricco professionista negli Stati Uniti. di Roberto Galtieri

Teòfilo Stevenson è stato il più grande boxeur di sempre a livello amatoriale, vincitore di 3 olimpiadi tra il 1972 ed il 1980. Ed avrebbe potuto vincere una quarta olimpiade se Cuba non fosse stata coinvolta nel boicottaggio dei giochi di Los Angeles del 1984 in ritorsione al boicottaggio statunitense quattro anni prima a Mosca. Il suo palmares è infatti eccezionale: categoria pesi massimi; ottiene l’oro alle olimpiadi di Monaco di Baviera nel ’72, Montrèal nel ’76 e Mosca nell’80. Ottiene l’oro anche ai mondiali di boxe, sempre per la categoria dei pesi massimi a La Habana nel ’74, a Belgrado nel ’78 e a Reno (Nevada, Usa) nel 1986. Sempre il massimo titolo ai giochi panamericani del ’76. L’unica sconfitta (dopo 11 anni consecutivi di vittorie) la soffre in occasione dei mondiali dilettanti del 1976 ad opera di Francesco Damiani. Di lui afferma Damiani: "Tra i dilettanti era spanne sopra gli altri, per tecnica, tattica e potenza tra i professionisti sarebbe diventato tra i più grandi di sempre". Insomma Teòfilo Ste­ venson è stato il più grande pugile dilettante di tutti i tempi. La sua forza fu tale che nel 1976 gli venne proposto di passare al professionismo e gli vennero offerti 5 milioni di dollari per un incontro con Cassus Clay­ Mohammad Ali, il che lo avrebbe reso il se­

condo pugile a passare direttamente dalle olimpiadi al debutto da professionista con in palio la corona mondiale dei pesi massimi dopo Pete Rademacher. Ma Steveson rifiutò con la motivazione « Cosa sono cinque milioni di dollari in confronto all'amore di otto milioni di cubani? ». Motivazione questa, che racchiude in sé il vero spirito olimpico che purtroppo abbiamo visto calpestare troppe volte in occasione delle recenti olimpiadi di Londra. Nessuno saprà mai se avrebbe vinto contro Mohammad Ali, certo, quando gli offrirono il favoloso ingaggio milionario era ad armi pari con il grande pugile afroamericano e in molti lo davano per favorito. Tuttavia Stevenson preferì restare fedele agli ideali della rivoluzione cubana e continuare a boxare nella sfera del dilettantismo, fare sport per amore e non per soldi. La famosa frase sopra citata sul preferire l’amore dei cubani ai soldi è entrata nel mito, ma non per chi lo conosceva.A fine carriera, Stevenson era diventato allenatore del programma di pugilato dilettantistico di Cuba e vice presidente della Federazione cubana di boxe. Ci ha lasciato l’11 giugno scorso all’età di 60 anni a causa di un infarto.

Stevenson con Fidel al ritorno dalle olimpiadi di Mosca nel 1980


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di Italo Belga

La CIA, il tibet... e tutti gli altri

Certi fatti sono così evidenti che, a volte, fanno capolino anche sui media sedicenti "liberi e democratici" così solerti nel servire i loro padroni e che, spesso, hanno buon gioco a travestirsi da "progressisti" se non addirittura da "alternativi". In uno di questi è apparso un articolo che scopre l'acqua calda: la CIA manovra da sempre i movimenti anticinesi nel Tibet, finanziando il signor Tensin Gyatzo (il "Dalai Lama") in ap­ poggio ai tentativi di contro­ rivoluzione per riportare il Tibet ai tempi feudali così agognati dal clero buddista e dagli ingenui che credono a certe favolette sulla "non­violenza" contro i terribili comunisti cinesi mangia­ bambini. L'articolo riporta il lavoro di un giornale tedesco con dettagli interessanti sulle modalità dell'ennesima ope­ razione "segreta" degli USA ma anche sulla ferocia di certi "combattenti della resistenza tibetana", per i quali tutto è buono pur di uccidere i cinesi, tipo le stragi di cittadini di etnia Han da parte di "pacifici monaci" nei disordini anticinesi a Lhasa nel 2008, nonché le campagne di propaganda in chiave anticinese, con la parallela santificazione del Dalai Lama, dalla "medaglia del Congresso USA" al Premio Nobel per la Pace. Eppure ci sono, le fonti dove trovare un altro tipo di informazione, o quanto meno un'altra campana, fuori da quella del "pensiero unico" dove ci sono sempre e solo i "buoni" – che sarebbe la "società occidentale" che si autodenomina "comunità internazionale", capeggiata dagli Stati Uniti d'America con il loro immenso apparato militare ed economico, la NATO e il resto dei paesi satelliti: dall'Unione Europea fino alle petromonarchie assolute del Golfo Persico – e dall'altra, i "cattivi" (concetto questo abbastanza adattabile alle circostanze) tra cui troviamo quelli in servizio permanente effettivo, i "comunisti" –

URSS/Russia, Cina, Cuba, Corea…–, e altri che lo diventano se assumono atteggiamenti ostili o "sgraditi" a chi pretende di dominare il mondo, magari dopo www.domenicolosurdo.blogspot.be essere stati invece considerati "amici" per un certo tempo. Le www.rt.com fonti ci sono, basterebbe fare www.telesurtv.net uno sforzo neanche tanto grande www.italian.irib.ir per cercarle, leggerle e capirle, www.almayadeen.net andando al di là dei soliti beveroni dei "grandi media" della www.news.cn tv, della stampa e di internet: www.rifondazione.it/esteri per esempio, sul Tibet e Dalai www.oltreconfine.it Lama si potrebbe leggere la www.marx21.it parte che vi ha dedicato uno dei maggiori studiosi marxisti www.contropiano.org viventi, il compagno Domenico www.comunistiuniti.it Losurdo, nel suo libro "La non www.resistenze.org violenza. Una storia fuori dal mito", così come tanti altri articoli disponibili in rete; o i vari servizi di informazione degli altri punti di vista del mondo, da Russia Today a TeleSur dell'America Latina, da Al­ Mayadeen del mondo arabo ai servizi internazionali dall'Iran o dalla Cina … e anche quello che fanno i comunisti in Italia, come le sezioni internazionali dei Partiti (PRC Esteri , PdCI Oltre­ confine), siti web come Marx 21, Contropiano, Comunisti Uniti e, perché no, anche questo nostro AURORA. Insomma, non si dovrebbe aspettare che qualcuno scopra l'acqua calda dei legami tra la CIA e i vari "dissidenti" e "combattenti della libertà" in Cina, Russia, Libia, Siria, Corea, Cuba, Venezuela etc. Fare uno sforzo per essere informati e per diffondere informazioni corrette, "fuori dal coro" del pensiero unico dominante, è il minimo che possiamo e dobbiamo fare, se vogliamo contribuire in qualche modo fattivamente alla lotta planetaria per una società più Il Dalai Lama giusta, libera e democratica, nel vero e pieno senso di questi termini, e non in quello ormai logoro e strumentalizzato che siamo ormai da troppo tempo abituati a sentire.


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Siria e Libia, anti­imperialismo e "rossobruni"

di Italo Belga

A Bruxelles abbiamo riportato (www.rifon­ dazione.be/la­lotta­della­siria­che­resiste­e­ anche­la­nostra­lotta­qui­e­ora) un recente episodio di intolleranza di teppisti antisiriani e pro­NATO contro chi difende la Siria oggetto di aggressione interna ed esterna da mesi. L'episodio dà spunto per riflettere sull'influenza di ciò che accade in certi "paesi lontani" anche sulla nostra vita, come comunisti inter­ nazionalisti, contro ogni ingerenza imperialista esterna e contro certi fenomeni di fascismo pseudoreligioso. In un quadro generale sempre più difficile per chi lotta contro le ideologie dominanti, nel fronte anti­imperialista i più seri e consapevoli sono i comunisti che sanno analizzare e applicare i principi marxisti­leninisti alla fase e ai fatti per distinguere "la contraddizione principale" tra l'imperialismo e quei paesi "recalcitranti" all'imposizione di un ordine mondiale centrato sugli USA e i loro vassalli della falsa democrazia. Ma ci si ritrova sempre più spesso anche con rappresentanti di una nuova­vecchia destra, che manifesta un anti­imperialismo che è in realtà un contro­imperialismo, di una "Eurasia" che vedrebbe l'unione armata di Russia, Cina ed Europa contro gli USA e i vari giudeo­ massoni che vogliono dominare il mondo. Sono posizioni che mescolano di tutto, Ezra Pound e Che Guevara, indipendenza e so­ vranità nazionale, anticapitalismo e anti­ sionismo, ma tendendo a sfociare nel na­ zionalismo, nel ritorno a una presunta "età dell'oro" antitecnologica, e nell'antisemitismo. Pur con qualche trucco, questa è roba molto pericolosa, perché si mescolano elementi oggettivi di denuncia dell'imperialismo, con quelle aberrazioni alla base dei crimini del nazifascismo, del razzismo, del nazionalismo e del colonialismo. È un problema trovarsi dalla stessa parte, i comunisti internazionalisti e i fascistoidi euroasiatici, in circostanze come l'opposizione alle guerre imperialiste in Siria e in Libia, un po' come ai tempi si ritrovavano PCI e MSI a votare contro la DC; e il rischio di confondersi c'è sempre. Dobbiamo quindi fare uno sforzo supplementare per spiegare le nostre ragioni e distinguerci da chi pesca nel torbido. Ma ci troviamo anche un altro fenomeno: le accuse di "rossobrunismo", cioè di essere come quelli che uniscono i colori della sinistra e del fascismo in un assurdo connubio tipo "Nazibolscevichi" e similari. Queste accuse vengono in genere da elementi che si dicono di sinistra che sgomita per trovare posticini centrosinistrici e va in brodo

di giuggiole per Obama e Hollande, o di ex­ sinistra che si ergono a campioni della "libertà e democrazia". In questo modo bollano tutto ciò che si posiziona contro l'imperialismo come, "rossobruni": comunisti che, mescolati ai fascist,i sono antiamericani a prescindere capaci di sostenere le peggiori dittature, gente inaffidabile da condannare in blocco e, magari, da stigmatizzare in "liste nere". Vedere messi insieme nello stesso calderone dei nomi così diversi fa capire qual è il livello di chi lancia certe accuse, un livello davvero molto basso e che non pretende altro che criminalizzare il dissenso. Anche a noi succede di essere rimproverati per appoggiare manifestazioni dove vanno anche dei "fascisti"; di essere accusati di difendere dei regimi terribili che devono essere assolutamente abbattuti anche con gli "interventi umanitari"; di sentirci dire che la tale pubblicazione che consultiamo in cerca di notizie non allineate è "fascista" o "complottista"… Noi denunciamo senz'altro con forza le manovre dei fascisti vecchi e nuovi nelle sacrosante cause contro l'imperialismo, e ci distinguiamo da loro, ma respingiamo anche le semplificazioni e le proscrizioni di chi, dall'alto di chissà quale pulpito, taccia di "rossobruni" indiscriminatamente chiunque non si allinei alla vulgata dei poteri dominanti che vede il "bene" sempre solo da una parte, ragionando sempre a senso unico, due pesi e due misure. Noi non ci stiamo a farci ridurre a sostenitori di (presunte) dittature e di (ambigui) sogni nazional­eurasiatici, ma rivendichiamo il diritto e il dovere di essere comunisti, anti­ imperialisti, seri e conseguenti, analizzando i fatti e la fase dalle fonti che consideriamo più opportune, ragionando su di esse e tirandone le conseguenze, mantenendo la barra dritta.

Raduno di ribelli siriani


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Sguardo sull’emigrazione Italiana in Belgio

di Elisa Ganci

(Prima Parte)

Raccontare la storia degli Italiani in Belgio non è facile. È una storia densa, carica di emozioni, è una storia che non si è conclusa poiché di Italiani in Belgio ne vivono ancora tanti, ognuno con una storia di sofferenza, di crescita. Alcuni con una storia dal lieto fine, di successo, di integrazione. Altri rimpatriati, per motivi politici o personali. Altri, tanti, troppi che la loro storia non la possono più raccontare perché sono morti sul lavoro o a causa di un lavoro che li ha strappati al culmine delle loro forze da una terra, l’Italia, che non riusciva o non voleva dar loro una vita dignitosa. La storia degli Italiani in Belgio appassiona chiunque si avvicini loro e ne ascolti almeno una volta i racconti di vita vissuta: la paura, l’angoscia, il dolore ma anche la gioia e la soddisfazione per sé e per i propri figli a cui la loro fatica ha dato un futuro. Per più di un secolo gli Italiani (e non solo) sono emigrati nel “liberale” Belgio per motivi politici. Non è un’emigrazione massiccia, si tratta di partenze individuali che aumentano in momenti specifici: negli anni ’40 dell’Ottocento a causa dei moti rivoluzionari italiani, alla fine del XIX secolo per sfuggire alle repressioni anti­socialiste e nel 1900 soprattutto durante il ventennio fascista. L’emigrazione politica è affiancata e infine superata da quella economica. In questo senso una significativa svolta avviene alla fine del XIX secolo quando gradualmente i Belgi abbandonano la professione di minatore, e i padroni delle miniere di carbone cominciano a reclutare operai al di fuori del loro paese. Dopo la prima guerra mondiale l’impiego di stranieri per il lavoro nelle miniere di carbone cresce: nel 1923 il 10% dei minatori sono stranieri e soprattutto Italiani, Polacchi, Iugoslavi, Ungheresi, Algerini e Marocchini. Se inizialmente si tratta di un’immigrazione individuale, progressivamente viene rego­ lamentata da accordi internazionali: i primi sono quelli del 1922 tra il Belgio l'Italia e la Germania. In seguito il governo belga crea delle commissioni incaricate di recarsi all’estero, soprattutto nei paesi dell’Europa dell’est per cercare mano d’opera. Durante questo periodo inoltre il Belgio decide di legiferare sull’impiego dei lavoratori stra­ nieri, introducendo nel 1936 il permesso di lavoro. Tuttavia questa immigrazione è altalenante durante gli anni Trenta: il governo belga la incoraggia quando è necessaria nuova manodopera per le industrie e non esita ad

interromperla in caso di recessione economica, nel 1938 infatti l’immigrazione viene completamente arrestata fino alla fine della seconda guerra mondiale. Dopo il secondo conflitto mondiale l’immigrazione economica in Belgio arriva al culmine, rispondendo al bisogno di manodopera per il rilancio economico. Dal punto di vista dell’immigrazione organizzata, si è soliti dividere il periodo tra il 1946 e il 1974 in tre grandi fasi: 1946­1961, è il cosiddetto periodo italiano, 1955­1964 greco­ spagnolo, 1964­1974 turco­maghrebino. La comunità italiana in Belgio è senza dubbio la più numerosa tra le comunità straniere, nel 1970 è arrivata a superare le trecentomila unità, su un paese di meno di dieci milioni di abitanti. Naturalmente ai cittadini di nazionalità italiana bisogna ancora aggiungere quelli divenuti Belgi per naturalizzazione, matrimonio o in seguito alle leggi che hanno consentito di modificare la propria nazionalità. Alla fine della guerra la carenza di manodopera si traduce in una mancanza di combustibile: per la ricostruzione nazionale il Belgio ha bisogno di aumentare la produzione carbo­ nifera, per questo il primo ministro belga, Achille Van Acker, lancia quella che verrà chiamata la “battaglia del carbone”, nella quale il reclutamento di minatori è una fase es­ senziale. Le politiche d’incremento di mano­ dopera belga nelle miniere vanno dalle ammende pecuniarie alla coercizione fisica, alla concessione di vantaggi economici e politici. Ma i Belgi, che ben conoscono il lavoro in miniera, continuano a preferire altri settori.

Le bare dei caduti di Marcinelle


Fallite le politiche di reclutamento interne al paese, si apre la fase dell’emigrazione economica di massa degli Italiani in Belgio. Tra il 1946 e il 1955 la Direzione generale dell’emigrazione presso ilMinistero degli Esteri stipula accordi con quasi tutti i paesi europei occidentali e con molti paesi transoceanici (Argentina, Brasile, Uruguay, Australia e Canada). Tuttavia l’Italia non riesce ad imporre le proprie condizioni in materia di tutela degli emigranti perché nelle negoziazioni è un interlocutore debole sia a causa dell’impellenza di trovare uno sbocco per i disoccupati, sia perché la sua posizione internazionale è stata fortemente indebolita dalla seconda guerra mondiale. Talvolta negli accordi bilaterali veniva previsto lo scambio di migranti contro materie prime. È il caso dell’accordo italo­belga del giugno 1946. Il Belgio aveva bisogno di manodopera per la ripresa a pieno regime dell’attività di estrazione carbonifera, mentre l’Italia si assicurava il rifornimento di carbone. In effetti i primi accordi bilaterali fra Italia e Belgio risalgono al periodo fascista: sebbene la maggior parte dei lavoratori italiani in Belgio vi arrivi individualmente, erano già in atto le prime forme di reclutamento collettivo. L’Istituto italiano per il lavoro all’estero e la Federazione Carbonifera Belga (Fédéchar) stabiliscono con l’accordo del novembre 1922 che il reclutamento di emigrati italiani da destinare alle miniere carbonifere belghe sarebbe stato organizzato dalle autorità locali. Nel 1935 a Roma viene stipulato un ulteriore trattato con il quale l’Italia assicura al Belgio l’acquisto di un milione di tonnellate di carbone l’anno e in cambio i 4700 minatori impiegati in Belgio mantengono il loro posto di lavoro. I termini di questo accordo sono la base di quelli che formeranno gli accordi del 1946. Al di fuori delle miniere la possibilità per uno straniero di trovare lavoro in Belgio diviene molto flebile. Alla fine della seconda guerra mondiale, dopo un anno di negoziati Italia e Belgio giungono all’accordo del 20 giugno 1946 nel quale vengono precisate le disposizioni relative al reclutamento e all’impiego della manodopera italiana. A firmare l’accordo sono il capo della delegazione italiana Secco Scardo e l’incaricato degli affari per il Belgio D’Aspre­ mont­Lynden. Questo trattato è oggi oggetto di molte polemiche, poiché prevede l’invio di 50 mila minatori in cambio del diritto dell’Italia di acquistare tra 2 e 3 milioni di tonnellate di carbone l’anno dal Belgio, tanto che è frequente sentir dire, specie ai minatori più anziani, “Ils nous ont vendus pour quelques kilos de charbon”. I lavoratori inviati, secondo gli accordi, devono essere 2 mila per settimana e devono essere scelti tra i giovani tra i 18 e i 35 anni (art. XI) .

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Il governo belga intende assicurarsi che la selezione fatta dagli uffici di collocamento italiani non sia troppo superficiale, poiché i tassi dei rimpatri sono alti. Per aggirare il problema Fédéchar decide di stabilire degli uffici di reclutamento a Milano, per esaminare i giovani prima di partire. Un altro modo per reclutare gli aspiranti minatori è costituito dalle cosiddette “affiche rose” , ossia da grandi manifesti di colore rosa con l’intestazione della Fédéchar che vengono affissi in tutta Italia con le indicazioni della proposta di lavoro in Belgio. Tuttavia le indicazioni offerte dai reclutatori e dalle stesse affiches solo sommariamente rispondono a quanto richiesto dall’articolo 35 del protocollo, il quale precisa che dev’essere ben spiegato il tipo di lavoro di cui si tratta. In genere gli emigranti sanno appena che si tratta di un lavoro sotterraneo, sconoscono le condizioni reali di lavoro e di vita che li attende in Belgio. Cinquanta mila lavoratori italiani più le loro famiglie vengono alloggiati a titolo provvisorio in campi di baracche di cartone catramato costruiti dai tedeschi per i prigionieri sovietici durante la guerra. Oppure in costruzioni in cartone ondulato che erano servite agli statunitensi per deposito di munizioni. I campi venivano costruiti ovunque: fabbriche abbandonate, alla base dei terril, in terreni vuoti tra due snodi ferroviari, e persino in terreni paludosi ricoperti frettolosamente di terra e sabbia. Questi campi divengono dei ghetti in cui vivono stranieri di ogni dove, senza che sia previsto nulla per l’igiene e la manutenzione delle baracche, senza piatti e bicchieri in quantità sufficiente. Molti campi hanno un solo wc per oltre sessanta persone e una sala da bagno per seicento persone, in genere i campi sono senza riscaldamento. (continua)


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di Andrea Albertazzi

L’acqua è un diritto umano

La vittoria al referendum del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua in Italia era tutt’altro che scontata. È stata possibile grazie ad un considerevole sforzo congiunto di movimenti, partiti politici (con un protagonismo “militante” di Rifondazione Comunista e del PdCI) e semplici cittadini che hanno capito che si trattava di una battaglia fondamentale per rilanciare il dibattito generale sui beni comuni. Nonostante ciò che è avvenuto dopo ­ i tentativi degli altri partiti politici (PD incluso) di depotenziare, la portata della vittoria del referendum ­ i promotori sono ancora molto attivi dato che la campagna per la raccolta firme è stata una grande campagna di informazione che ha riportato un po’ di sano dibattito politico sui contenuti. Ciò che è accaduto in Italia è osservato con molto interesse da tanti altri cittadini europei che, come noi, hanno a cuore la salvaguardia dell’acqua e di altri beni comuni. La campagna per il referendum contro la privatizzazione dell’acqua in Italia è infatti presa ad esempio, insieme ad altre esperienze, dalla raccolta firme lanciata a livello europeo “L’acqua è un diritto umano”. Questa raccolta è stata lanciata nel quadro della “iniziativa cittadina europea”: la possibilità per i cittadini europei, prevista dal Trattato di Lisbona, di raccogliere un milione di firme in tutta l’Unione Europea per sottoporre alla Commissione Europea una proposta a tutela dell’acqua e dei servizi sanitari in quanto servizi pubblici essenziali. La campagna è in qualche modo pioneristica in ambito europeo perché le procedure amministrative per questo tipo di raccolta firme sono ancora da rodare. Ecco perché esistono diversi moduli a seconda della nazionalità del cittadino che decide di firmare per sostenere la campagna, in quanto esistono requisiti diversi per la certificazione della firma a seconda del paese. Le firme possono essere raccolte on­ line ma è possibile firmare anche su un tradizionale formulario, completandolo dovutamente con i dati richiesti. La campagna è sostenuta da diverse organizzazioni, tra le quali la Confederazione Europea dei Sindacati (CES) e quella dei Servizi Pubblici (EPSU), il network anti­ povertà, la Social Platform europea che riunisce organizzazioni non governative europee e Aqua Publica Europea (APE). Ovviamente tutti gli attori, partiti e movimenti politici compresi, che hanno a cuore il tema si impegneranno per il

successo di questa campagna. Occorre non farsi illusioni: questa raccolta firme non è certamente la soluzione ai problemi che abbiamo di fronte e non saranno certo un milione di firme a forzare i poteri forti a cambiare linea politica. Questa iniziativa deve essere concepita come uno strumento per coinvolgere le persone ed alimentare il dibattito: in altre parole per “fare politica”. Riguardo al contenuto specifico, si chiede alla Commissione Europea di formulare una proposta che stabilisca che i servizi idrici e igienico­sanitari siano garantiti per tutti nell’Unione europea, vietando la liberalizzazione dei detti servizi e che impegni l’Unione Europea a battersi, nello scenario globale partendo dal proprio territorio, per consentire l'accesso universale all’acqua sull’intero pianeta. Sono tutti temi che hanno una forte attualità e che travalicano il tema stesso dell’acqua e dei servizi idrici. Si tratta qui di un pezzo di una battaglia che più volte abbiamo trattato anche qui su Aurora: una battaglia per una riappropriazione, da parte del pubblico, di beni che per la loro stessa natura nella vita dell’uomo, non possono essere lasciati alla logica del profitto. È una battaglia che può essere il motore di un nuovo protagonismo di quei militanti che, per una ragione o per un’altra, si sono allontanati dalla politica attiva. Per sottoscrivere la campagna è sufficiente andare sul sito www.right2water.eu/it e cliccare su “sign now!”, ben visibile sulla destra, oppure contattare il circolo di Bruxelles del PRC all’indirizzo eberlinguerprc@hotmail.com per firmare sul modulo. Se si è interessati a raccogliere firme anche nella propria realtà territoriale, qualunque essa sia in Europa, lo si può fare scaricando gli appositi moduli dal sito. Se le persone che intendono firmare sono di diverse nazionalità basta scaricarsi i moduli dei rispettivi paesi. Per ogni dubbio contattare comunque il circolo di Bruxelles del PRC.

Il logo della campagna


Periodico di informazione e cultura per gli italiani all'estero Giornale per l'Unita' Comunista

Questo numero e' stato chiuso in redazione il 28 Settembre 2012

Disponibile in rete su www.aurorainrete.org Commentabile sul blog www.aurorainrete.org/wp


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