Natura e paesaggio nella Provincia di Salerno

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ANNO VII • N. 19 • 2005 • Ê 5,00

ITINERARI ALLA SCOPERTA DELLA REGIONE

CAMPANIA FELIX


La Provincia di Salerno persegue tra i propri obiettivi la realizzazione di un articolato programma di tutela e di valorizzazione dell’ambiente e dell’habitat naturale. In tale contesto è stata conferita particolare importanza all’iscrizione del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano nella lista Unesco del Patrimonio Mondiale dell’Umanità insieme con le emergenze archeologiche di Paestum e di Velia con la Certosa di Padula. Tale ambìto riconoscimento se da una parte rappresenta il frutto di una bella intuizione e di un meticoloso lavoro dei promotori, per altro verso impone una nuova responsabilità alla classe dirigente locale oggi impegnata a difendere il prestigioso risultato. È a mio avviso necessario individuare nel sistema delle Autonomie Locali i principali soggetti, attori delle strategie di promozione del territorio. Il ruolo della Provincia è di primaria importanza per il conseguimento di tali obiettivi. Le competenze in area vasta le consentono di rappresentare la naturale cerniera tra piccole e medie realtà amministrative e livelli istituzionali superiori: Regione, Governo Centrale, Unione Europea. L’azione di supporto, di assistenza e di accompagnamento che la Provincia di Salerno ha finora prodotto ha dato risultati di assoluto rilievo. Una diversa cultura dell’amministrazione pubblica, la sua trasformazione da soggetto “impositivo” in soggetto di servizio all’utenza civica diventano il momento centrale di un percorso di sviluppo che ha già trovato riscontri sul territorio. La presenza nel salernitano del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano concretizza di per sé un’opzione fondamentale. La coscienza dei valori ambientali, le piccole realtà rurali, il paesaggio, le tradizioni, i prodotti tipici, la filiera enogastronomia, rappresentano riferimenti imprescindibili. Per tali motivazioni la Provincia di Salerno profonde il massimo impegno al fine di rendere sempre più operative e funzionali opzioni di sviluppo sostenibile: l’ambiente resta un valore aggiunto che non è più possibile sottovalutare. Angelo Villani Presidente della Provincia di Salerno


Numero speciale Il Patrimonio Naturalistico della Provincia di Salerno Editore, direttore editoriale e artistico Mariano Grieco Coordinamento scientifico Teobaldo Fortunato Direttore responsabile Dario Coviello Relazioni esterne Ersilia Ambrosino Testi: Simona Mandato

SommariO Qui la natura è protetta

Il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano

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Foto: Alfio Giannotti

Vicini al cielo

I massicci e i monti

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Editing Mariachiara de Martino Progetto grafico Altrastampa Copertina Il Monte Bulgheria Foto: Alfio Giannotti

La linfa vitale della terra La salvaguardia del territorio Quando l’acqua si diverte

I SITI

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I fiumi

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Oasi, parchi e aree protette I fenomeni carsici

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Qui la Natura è protetta Il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti

Primule di Palinuro sulle rocce dell’omonimo Capo

Una roccia ardita che scende a picco da togliere il respiro; sullo sfondo il mare che a marzo comincia a colorarsi del blu vivo delle stagioni calde. Su quella rupe, inarrivabile, se non da quegli sportivi che si arrampicano sulle superfici più impervie, in lontananza si intravede un mucchietto giallo. Un binocolo per guardare più da vicino: è lei, la primula di Palinuro! Quando, nel dicembre 1991, fu istituito il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, i fondatori scelsero proprio la Primula palinuri come simbolo dell’istituzione, costituita con il non facile compito di vegliare sulle innumerevoli specie di flora e di fauna, endemiche e non, che ancora popolano questo poco antropizzato angolo di mondo. Se con i numeri fosse possibile descrivere un territorio, ecco alcune cifre che riguardano il Parco: 178.172 ettari di superficie; 1.898 metri d’altezza il suo monte più elevato e sei vette che superano i 1.700 metri; quattrocento grotte; abitato da più di settantacinquemila anni; milleottocento (almeno) specie di piante; otto fiumi in cui vive la lontra. Eppure tutto ciò non basta. La ricchezza di paesaggi, di specie arboree e floreali, che a loro volta danno riparo e cibo a numerosissimi animali, i corsi d’acqua, le splendide coste, le rocce, le grotte e gli inghiottitoi che modellano il territorio: questi aspetti non possono essere espressi in numeri e, probabilmente, neanche a parole. L’interno del Cilento è impervio, la fascia calcarea dei gruppi montuosi del Cervati e degli Alburni hanno da sempre costituito una barriera naturale verso la Puglia. Eppure, i loro crinali hanno visto via vai di genti fin dalla preistoria. Già l’uomo di Neandertal, che risiedeva nelle cavità rocciose della costa cilentana, si spostava verso gli Alburni alla ricerca di cacciagione. Nel primo Neolitico invece, se gli abitanti della riva tirrenica svolgevano i loro commerci con Lipari via mare, quelli del Tavoliere pugliese raggiungevano il Cilento lungo le strade della transumanza: i pascoli estivi montani costituirono, dunque, il motivo per cui diverse genti vennero in contatto tra loro, inaugurando scambi tra una parte e l’altra dell’Appennino. Questi percorsi di crinale furono abbandonati con l’avvento dei Romani, che costrui-

rono strade carrozzabili e ponti: la Regio-Capuam metteva in collegamento la via Appia, e dunque Roma, con tutto il sud tirrenico, fino a Reggio Calabria, passando per l’entroterra cilentano. Eppure, quando nel Medioevo divenne necessario ripararsi dai nemici, fu ripristinato l’arcaico sistema viario che correva lungo le dorsali appenniniche, e sulle montagne sorsero rocche, borghi e casali sparsi su tutto il territorio. Ma guardiamole da vicino queste vette. I gruppi montuosi più interni, gli Alburni e il Cervati, sono di origine calcarea-dolomitica: il candido colore della roccia ha fatto meritare ai monti Alburni l’appellativo di “Dolomiti del Mezzogiorno”. Il massiccio è una massa compatta, gli imponenti costoni rocciosi che ne dominano il versante est, tra Postiglione e Controne, si distinguono a occhio nudo da chilometri di distanza. Risalendone i pendii, si attraversano fitti boschi: castagni, aceri e roverelle rappresentano il primo approccio con una vegetazione ricca e accogliente; più su, il verde intenso dei lecci. Al di sopra dei 1.000 metri - l’Alburno raggiunge quota 1.742, mentre la vetta della Nuda si eleva fino a 1.704 metri dominano incontrastate le faggete. Un altro imponente massiccio è quello del Cervati, dove si trova la cima più alta del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano (1.898 metri), che dà il nome al gruppo montuoso. Il Cervati, che è anche riserva naturale, è una delle aree più incontaminate del Parco, famosa pure per le sue faggete, quasi impenetrabili, mentre le sue quote più basse sono tinte di lilla dalle praterie di lavanda. Questo splendido complesso naturale offre rifugio ad alcune specie animali ormai rare sulla dorsale appenninica, come il picchio nero, il gatto selvatico e il lupo. Ma a descrivere il paesaggio del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano non sono solo boschi e praterie d’alta quota. Nelle aree maggiormente abitate risulta evidente, nel bene e nel male, la mano dell’uomo. Sulle colline, sia quelle costiere che quelle più arretrate, è ampiamente diffusa la coltivazione dell’olivo. Molto pregiato è in particolare l’olivo pisciottano, un endemismo dalla chioma molto folta e dal tronco alto, robusto e meno tortuoso rispetto ad altri ulivi. Insieme ai muretti a secco

Un cespuglio arborescente di Euforbia

Il frutto del Corbezzolo

Fioritura di Mirto


Un campo di Papaveri nel Vallo di Diano

Asfodelo giallo tra le praterie di alta quota dell’appenino salernitano

Bacche di Biancospino tra la macchia delle colline cilentane

Ciclamini lungo i ruscelli

Crochi sulle pendici dei monti Alburni

Fioritura di Orchis Coriophora sui prati dei monti Alburni

che sostengono terrapieni e terrazzamenti, questi preziosi sempreverdi caratterizzano il paesaggio agrario del Cilento. Il loro eccellente succo contribuisce alla sana alimentazione degli abitanti del luogo, un’alimentazione riconosciuta a livello mondiale tra le più virtuose, con la definizione di “dieta mediterranea” inaugurata negli anni Cinquanta dal medico nutrizionista Ancel Keys. Sulle colline e lungo la costa crescono i carrubi, che spesso raggiungono dimensioni maestose. Digradando ancora verso il mare, troviamo invece le aree in cui l’uomo maggiormente ha infierito sulla natura, con disboscamenti e incendi, per far posto a insediamenti destinati ai turisti. Sulle pendici rimaste invece intatte, si è sviluppata la macchia mediterranea: gli arbusti di lentisco, corbezzolo, mirto, ginepro, poi lecci e cerri formano splendidi ambienti in simbiosi con le rupi che, con la bellezza di tutte le cose estreme, si gettano a strapiombo nel mare. A Punta Licosa la roccia scura e tagliente è sovrastata da una particolare specie di conifere, il pino d’Aleppo, che, a opera del forte vento, cresce radente al suolo in forme inaspettate e suggestive. Altri luoghi in cui la roccia e la vegetazione creano uno spettaco-

lo naturale sono Capo Palinuro e la costa degli Infreschi, che va da Marina di Camerota a Scario. A partire dal monte Bulgheria, infatti, il terreno è di natura calcarea, ma il fenomeno non è in continuità con quello dell’entroterra di cui si è già parlato. Tra quelli e questo, v’è un’ampia fascia costituita dal cosiddetto flysch, terreno scivoloso, come indica il termine derivato dal dialetto svizzero. Si tratta di un conglomerato di rocce di vario tipo e provenienza, tenuto insieme da un’arenaria: sedimenti formatisi sui fondali marini, che vennero in superficie a causa di movimenti tettonici. Il flysch del Cilento è molto diffuso in corrispondenza del fiume Alento, ma costituisce anche la struttura del monte della Stella, del monte Gelbison e del monte Centaurino. Lungo le coste alte appare con una fitta stratificazione di rocce, dalle forme insolite e i colori rossastri, come alle Ripe Rosse e a Punta Licosa. I dolci profili in flysch formano un ottimo terreno per gli arbusti della macchia mediterranea, che vi crescono rigogliosi. Alla variegata conformazione del territorio del Parco si aggiunge un ulteriore panorama nel Vallo di Diano: la vallata acquitrinosa bonificata dai Romani è oggi una fertile pianura coltivata. A far

L’Orchidea Apifera dal fiore simile agli Imenotteri

guardia dall’alto sono gli antichi borghi di Sala Consilina, Padula, Teggiano e Polla, nati in posizione elevata per sfuggire alle acque della palude che occupava la depressione. Eppure, non si pensi che la bellezza del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano sia solo nella sua meravigliosa natura. Il rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale ha prodotto la costruzione storica del paesaggio, rappresentata da un lato dall’aspetto agricolo di cui dicevamo, e dall’altro dalla sacralità di alcuni luoghi, con celebrazioni che risalgono ai tempi primitivi. Spesso queste sono state perpetuate nei secoli, come i riti di ascesa devozionale al monte Gelbison. In altri casi, le celebrazioni si sono tramandate addirittura attraverso differenti culture e religioni, come è stato per il monte della Stella. Il rilievo è situato su un promontorio, e in epoca greca separava le aree di influenza di Posidonia (Paestum) ed Elea (Velia). Alla sua vetta, 1.130 metri, si può accedere da numerosi crinali: la struttura orografica a forma radiale ha dato il nome al rilievo e, fin dalla preistoria, ha attratto gli insediamenti intorno al suo epicentro. Un sistema formato da tanti piccoli abitati tenuti insieme da quel fulcro ideale, su

cui il cattolicesimo si innestò, consolidandolo. Prova ne è ancora oggi il rito collettivo della “visita ai Sepolcri” del venerdì di Pasqua. Le confraternite dei comuni del monte Stella si recano in processione alle chiese dei vicini casali, per poi concludere nella propria: antichi canti ispirati alla Passione di Cristo accompagnano il loro percorso. Questo itinerario circolare ha la funzione di tenere legata una comunità, altrimenti dispersa nelle tante piccole frazioni che coronano le pendici del monte. Proprio questa simbiosi tra l’uomo e il suo ambiente è ciò che il Programma MAB (Man and Biosphere) dell’UNESCO intende conservare e preservare. Nel 1997 il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano è stato accolto nella prestigiosa rete di Riserve della Biosfera. Se ciò non fosse bastato, il Parco è inserito, insieme ai siti archeologici di Paestum e Velia, nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, nella particolare definizione di Bene Misto, sia naturale che culturale. Due importanti riconoscimenti al Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano per la sua natura viva e da proteggere, ma anche per il fondamentale ruolo sostenuto attraverso i secoli, di territorio-cerniera fra popoli e civiltà.

Cespuglio di Ginestra nella nella macchia macchia collinare collinare

Fioritura di orchidea Anacamptis Pyramidalis

Fioritura di Orchis Tridentata


Vicini al cielo I massicci e i monti

testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti

Indomite regine I monti Picentini

Veduta dai monti Picentini verso la valle omonima.

Prima che l’automobile consentisse di raggiungere ogni luogo collegato con una strada carrozzabile, era impensabile accedere alle montagne dei Picentini. Le notevoli altitudini, l’accidentalità del terreno e la scarsità di terreni coltivabili hanno a lungo impedito anche gli insediamenti nelle zone

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più interne del massiccio. Tutte queste ragioni furono chiare anche a Giustino Fortunato, che nella seconda metà dell’Ottocento ragionava nel suo Appennino Meridionale sui motivi dell’arretratezza di queste aree: “Sentii che la montagna è la regina della natura, regina indomita e superba, simbolo della sua forza e del suo mistero, della sua purezza incontaminata”, scriveva il celebre meridionalista a proposito di questi monti che ben conosceva, e di cui

frequentava da appassionato escursionista le pendici. Una montagna regina, che decide fin dove vuole concedersi all’uomo: ancora oggi, quest’ultimo non ha avuto ragione di lei. Non perché i mezzi a sua disposizione non glielo consentissero, ma perché le posizioni di alcuni, consapevoli del ruolo che la natura ha sulla qualità della vita dell’uomo e delle potenzialità economiche che offre, aiutano a porre un freno alle attività invasive.

E così, grazie alla buona volontà di qualche Pro Loco, negli anni Ottanta si è cominciato a lavorare in questo senso, creando dei sentieri e pubblicando delle guide per escursionisti. Fino alla costituzione, alla metà degli anni Novanta, della Comunità Montana dei Monti Picentini e di un Parco Naturale Regionale e, nel 1999, di un Sistema Turistico Locale. Il massiccio ha un impianto orografico ben definito, delimitato da armoniose colline che ne addolci-

In alto: il monte Accellica visto da Acerno. In basso: il borgo di Prepezzano di Giffoni Sei Casali con alle spalle il massiccio dell’Accellica.

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scono i confini. La parte più meridionale del gruppo montuoso è di natura dolomitica, con le massime vette del monte Accellica (1.660 metri) e dei monti Mai (1.607 metri), mentre più a nord prevalgono le rocce calcaree, che, nella provincia salernitana, si innalzano fino ai 1.790 metri del monte Polveracchio. Quest’ultimo è contornato da alcuni piani d’alta quota, come il piano del Gaudo e quello di Acerno, dove sono possibili rilassanti passeggiate. Per il fatto stesso che queste montagne fossero impervie e inaccessibili, la vegetazione ci è pervenuta nel suo aspetto quasi originario, certamente spettacolare. Diversi itinerari permettono di ascendere al monte Accellica - il più selvaggio dei Picentini - da Acerno o dalle Croci di Acerno. Risalendo questi sentieri, si riconoscono faggi, aceri montani e betulle; splendidi castagneti abitano questi pendii fino ai 1.000 metri, e l’umido sottobosco ospita distese di felci. Poi il faggio diventa incontrastato dominatore, soprattutto sul versante nord, dove il clima è più umido e fresco. I fianchi ovest e sud sono invece abitati da cerri, carpini neri, lecci, olmi e tigli, e tra i 1.000 e i 1.500 metri si incrocia un ontaneto puro.

Partendo da Acerno, Senerchia o Campagna si possono invece effettuare belle passeggiate sul monte Polveracchio. Altri percorsi interessanti sono quelli nel territorio di Giffoni Sei Casali, che, attraverso castagneti, congiungono i casali Sieti, Capitignano e Pre-pezzano. In quel caso vale la pena anche soffermarsi, alla partenza o all’arrivo, nel borgo medievale recuperato di Sieti. Una delle ricchezze del Parco Naturale dei Monti Picentini sta nel fatto che qui è raccolto il più grande bacino idrografico del Sud Italia. Da questi monti hanno ori-

gine alcuni fiumi che percorrono poi i territori di altre province, i due corsi d’acqua che determinano i confini naturali del massiccio, l’Irno e il Sele, infine il Tusciano e il Picentino. Sorgenti e corsi d’acqua caratterizzano ogni itinerario che si decida di percorrere. E non mancano le cavità naturali, create dall’azione erosiva delle acque che s’infiltrano nel terreno, per poi congiungersi alle sorgenti. Tra queste è interessante la grotta dello Scalandrone sul lato meridionale dell’Accellica, formata dalle acque che alimentano la sorgente del fiume Picentino. La grotta dedicata al culto di San Michele a Olevano sul Tusciano è notevole non solo come fenomeno carsico, ricco di stalattiti e stalagmiti, ma anche per le sette chiese che furono costruite nell’Alto Medioevo al suo interno. Eppure, un tempo, queste montagne hanno fornito rifugio sicuro ai briganti: spesso furono mitizzati per le loro azioni sovversive nei confronti dei re, i vecchi, i Borbone e i nuovi, i Savoia, ma qualsiasi motivazione politica è lungi dal giustificare i numerosi delitti che essi perpetrarono. Celebre fu il primo rapimento a scopo estorsivo alla fine dell’Ottocento, ai danni dell’imprenditore svizzero Wenner.

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Pagina precedente. Paesaggio su Salerno e sulla Valle del Picentino dal monte Tobenna. In questa pagina. In alto: formazioni di muschio sul monte Accellica nei pressi della grotta dello Scalandrone. Sotto: fioritura di Orchis Purpurea ai margini della faggeta.


Bianchi guardiani I monti Alburni

In alto: le pareti calcaree verso ponente. In basso: il pianoro di Santa Maria con una fioritura di ginestre.

Albus in latino significa bianco: è il candore delle rocce dolomitiche dei monti Alburni ad aver fatto meritare il nome al massiccio. In origine era una fittissima colonia di coralli formatasi in fondo al mare, che i sommovimenti della crosta terrestre del Miocene sospinsero in alto. Oggi queste montagne hanno una conformazione compatta a costoni rocciosi, facilmente individuabili anche a distanza: in quel loro fiero ergersi somigliano a un esercito di guardiani, salvo poi romanticamente arrossire e assumere i tenui colori riflessi del sole che sorge o tramonta. In linea d’aria non siamo lontani da Paestum: il vento porta fin qui la calda brezza marina di primavera, linfa vitale per i fiori che a marzo cominciano a punteggiare i prati e i boschi degli Alburni. Ginestre, rose canine e biancospini sono allietati dai variopinti volteggi delle tante specie di farfalle. La fascia più bassa della montagna è quella su cui è evidente l’opera di

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addomesticamento dell’uomo, che si è circondato di oliveti e frutteti. Laddove mancano i campi coltivati, è la macchia mediterranea a caratterizzare il paesaggio, con i suoi lecci e gli arbusti sempreverdi. Una delle tante meraviglie che queste montagne riservano a chi ha deciso di esplorarne le pendici, sono le cavità, gli anfratti e gli inghiottitoi frutto del carsismo: in milioni di anni, l’acqua in abbondanza ha perforato e segnato la roccia calcarea. I più noti fenomeni carsici degli Alburni sono le monumentali grotte di Castelcivita e i laghi ipogei di Pertosa, ma vi sono altre cavità meno famose nei pressi di Polla o a Sant’Angelo a Fasanella, e poi le grave del Serrone, quella dei Gatti e numerose altre. La maggior parte è stata per millenni ricovero delle popolazioni preistoriche che salivano su questi monti per cacciare e, più tardi, per condurre le loro greggi in transumanza. L’uomo ha però saputo sfruttare con intelligenza l’abbondanza d’acqua che c’è da queste parti: nella zona di Corleto Monforte e di Castelcivita si scorgono, a volte ancora riconoscibili, altre profon-

damente trasformati, i mulini ad acqua. Nei pressi di ruscelli e torrenti si costruivano delle torri in cui l’acqua, attraverso canali di pietra, veniva convogliata per alimentare poi il mulino. Se ne può vedere un imponente rudere in

località Preta Tonna, ma anche nei pressi di Postiglione, nelle frazioni di Moliniello e Aquara, dove le arcate delle condotte e i torrini sono in ottimo stato. Riprendiamo il nostro cammino verso la sommità del massiccio

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In alto: la torre calcarea del monte Figliolo. Sotto: fioritura di melo selvatico sul pianoro dell’Aresta.


In alto: pozza d’acqua sul pianoro di Campo Farina. In basso: pozzo in pietra in località Pozzi di Santa Maria.

alburnino. A mano a mano che si sale, pare che la montagna riprenda il suo scettro, mentre l’uomo è solo suddito. Vassalli e valvassori sono gli abitanti autoctoni di queste pendici: imponenti castagni con un sottobosco di felci, roverelle, carpini, aceri e lecci, e poi i fiori gialli dei cornioli. Sul versante nord-orientale della montagna che va verso Sicignano degli Alburni, il fitto della macchia si apre a piccole radure: in questi spazi assolati trovano le condizioni giuste per fiorire in primavera le orchidee selvatiche, sempre sorprendenti per gli innumerevoli e incantevoli colori e forme. Anche tra Castelcivita e Ottati si aprono dei pianori, molto più ampi dei precedenti, e pieni di assoluto

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fascino: sono i pianori di Santa Maria e Campo Farina. Più a sud è invece il panorama mistico di Costa Palomba: tra le rocce dolomitiche che spuntano in

sculture naturali, una è stata scolpita invece da una remota mano, probabilmente in epoca lucana (V secolo a.C.), nella forma del guerriero Antece. È la perfetta simbiosi

tra natura ed espressione artistica dell’uomo. Quando l’altitudine fa sentire il fresco, incontreremo i dominatori assoluti della montagna al di sopra

dei 1.000 metri: i faggi in immensi boschi puri, fitti, talvolta impenetrabili, fin sulle vette. La più alta è quella del Panormo o monte Alburno con i suoi 1.748 metri, ma

la Nuda è di poco meno alta (1.704 metri); più a sud si staglia come un monolite la splendida roccia del Figliolo. Nel sottobosco delle faggete vivono le beccacce, da sempre vittima dei cacciatori, i picchi verdi, i rossi maggiori e alcuni picchi neri. Qualche coturnice è sopravvissuta ai ludi venatori dell’uomo, mentre sulle rupi più elevate nidificano e sorvegliano, in tutta la loro composta imponenza, i falchi pellegrini, i gheppi, le poiane, i nibbi bruni e reali. In questo contesto di natura incontaminata vive ancora qualche esemplare di lupo. Ridiscendiamo e passiamo su un tratto della via che fu costruita dai Romani, la Capuam-Reghion, che oggi si chiama, in maniera molto più asettica, Statale 19, e scopriamo che il versante orientale dei monti Alburni, a differenza dell’altro, è scosceso. Concludiamo il nostro giro a Petina, la città che deve il suo nome agli imponenti boschi di abeti bianchi risalenti alle glaciazioni del Quaternario, oggi solo un ricordo, testimoniato dagli scritti di Plinio.

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In alto: la scultura rupestre Antece su Costa Palomba. Sotto: bosco di faggio tra Ottati e Castelcivita.


Selvaggi declivi Il massiccio del Cervati e il monte Gelbison

Praterie d’alta quota sulla vetta del Cervati.

Il monte Cervati era il “monte dei cervi”, dai mammiferi che l’hanno abitato fino a meno di cinquant’anni fa, prima che i fucili li facessero estinguere definitivamente, così come è accaduto anche ai caprioli. La cima che dà nome al massiccio è la più alta del Cilento e della Campania: pochi metri prima della vetta, una grotta ospita la Madonna della Neve, motivo, da secoli, di devoto pellegrinaggio di migliaia di persone che ogni estate, salgono a piedi dai centri a valle; alcuni portano su, per peni-

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tenza, anche un sasso, che depositano poi sul “monte di gioia”, un cumulo di pietre formato nei secoli dai devoti. Partendo da Piaggine - magari in auto per alleggerire la salita - si attraversa dapprima un bosco di querce, poi ampi pianori incolti. Una strada sterrata costeggia ora i contrafforti rocciosi del Cervati a destra, e le valli solcate dal fiume Calore a sinistra, di cui un’ampia fascia di lecci copre il letto alla vista dall’alto. Si giunge a una splendida prateria che in primavera è un tappeto lilla di lavanda. Superatala, comincia il bosco fitto di ontani napoletani, che presto lascerà il posto alla faggeta pura: vera regina di queste pendici è la foresta dei Tamponi, migliaia di ettari di faggi ad alto fusto, uno

spettacolo mozzafiato, un incontro con la natura primordiale. Una vegetazione così imponente e selvaggia è l’habitat ideale per una folta fauna: martore e volpi sgattaiolano nel sottobosco, mentre tamburellano i picchi muraioli che scavano col becco i loro nidi nelle rupi. Ma soprattutto vivono qui alcune specie ormai rare sulla dorsale appenninica, come i picchi neri, i gatti selvatici e i lupi appenninici: in inverno, la neve abbondante ne rivela talvolta il silenzioso, temuto passaggio. Nelle radure, invece, vivono le lepri appenniniche, un endemismo individuato di recente. Il cielo è sorvolato dall’aquila reale, a caccia, tra le altre prede, di coturnici; lo squillante verso dei gracchi corallini, presenti qui con una pic-

cola colonia, ravviva il naturale silenzio del pianoro. Contraddistingue in modo particolare questi crinali il carsismo, la millenaria erosione delle rocce carbonatiche a opera delle acque. Ne sono una testimonianza le numerose grotte, le doline e tutti quei fenomeni, divenuti nei toponimi locali “raia” o “raio”, a descrizione di strapiombi e corsi d’acqua che fluiscono in gole profonde e incassate, tra cui lo stesso fiume Calore. Gli speleologi hanno individuato più di centotrenta grotte, in molte delle quali hanno scoperto pozzi interni con depositi di ghiaccio fossile o fiumi ipogei. La fatica di salire fin quassù, non importa se ispirata dalla fede o dall’amore per la natura, è sicura-

mente ripagata. Dalle creste rocciose a 1.898 metri d’altitudine si ha una vista emozionante: guardando verso nord, si vedono inseguirsi la vetta del monte Motola e quelle degli Alburni; volgendo lo sguardo un po’ più a est, si sorveglia sull’intero Vallo di Diano. Sul monte Motola, nella propaggine più settentrionale del massiccio, alcuni abeti bianchi residui testimoniano di ben più estese abetine, eredità delle glaciazioni del Quaternario. Anche se viene sempre associato al Cervati, con la sua struttura geologica formata da flysch - una massa di rocce di diversa derivazione, tenute insieme da pietra arenaria -, il monte Gelbison è un’inattesa interruzione tra i banchi calcarei del Cervati e del

monte Bulgheria. Data la differente qualità del terreno, le acque di cui è ricco non si inabissano in cavità carsiche, al contrario fluiscono in superficie, rendendo particolarmente lussureggianti questi declivi. Il clima, gli aspetti geologici e naturalistici hanno fornito da sempre a questa montagna un aspetto sacrale, che si è tramandato attraverso i secoli. Su questa vetta, chiamata anche monte Sacro, nel X secolo alcuni padri basiliani fondarono un santuario; ancora oggi continua la tradizione delle ascese devozionali, fatte a piedi scalzi, intonando litanie e sorreggendo sulla testa alcuni doni, fra cui la “centa”, una specie di culla formata da candele, che rappresentano il Bambino Gesù.

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In alto: il massiccio del Cervati. sotto: sentiero processionale sul monte Gelbison.


Le rupi dai mille colori Il monte Bulgheria

Le pareti dolomitiche del monte Bulgheria.

Dopo l’interruzione geologica del flysch presente nel monte Gelbison e più a nord nel monte della Stella, riprende, in ideale continuità con gli Alburni e il Cervati, la roccia calcarea nel promontorio sul quale si erge il monte Bulgheria. Dalla sua finestra privilegiata sul golfo di Policastro, questa vetta vide il passaggio della nave del grande Ulisse, e assistette all’insolito esperimento del re di Itaca di farsi legare all’albero della

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sua nave per poter ascoltare, e resistere, all’ammaliante richiamo delle sirene. In lontananza poté anche vedere la fine di Palinuro, timoniere della nave di Enea, addormentato dal dio del sonno Morfeo, cadere in mare e perire ucciso dagli abitanti della costa, che lo scambiarono per un mostro marino. Paradisiaco. Una sola parola, perché anche mille non basterebbero per descrivere i paesaggi che si godono da quassù, con il blu del Tirreno a 180 gradi davanti, e per il resto le valli del Mingardo a nord e del Bussento a sud, le rispettive vegetazioni, le rocce che strapiombano nell’acqua. Sul versante

nord di queste aspre pendici, dopo una folta lecceta, si incontra un altopiano, terra di conquista di una tipica vegetazione rupestre: l’arida gariga mediterranea, che in primavera viene però inondata dal profumo della lavanda, e maculata da orchidee selvatiche di diverse specie. Alle quote più alte incontriamo il bosco. Ma diversamente da quanto avviene per la maggior parte dei monti del Cilento, qui non si sono formate faggete: per la vicinanza del mare, mancano la forte umidità e la temperatura fresca di cui necessita questa latifoglia, e il bosco assume la forma dell’ontaneto. Il versante meridionale, maggior-

mente esposto alle temperature calde e alla presenza dell’uomo, ha un aspetto completamente differente: a parte qualche residuo di quercete, il panorama è caratterizzato dalle piantagioni a ulivo. Non per questo però, il declivio risulta meno bello, anche gli uliveti argentati fanno ormai parte del paesaggio della costa cilentana e del tratto sovrastato dal monte Bulgheria. La posizione isolata del monte e la presenza dell’uomo hanno fatto sì che gli animali abbandonassero queste pendici. Tra la Baia degli Infreschi e Scario invece, in una profonda incisione di origine tettonica, il Vallone del Marcellino, si

è sviluppato un microclima tale da consentire non solo alla macchia mediterranea, ma anche a lecci e castagni, di crescere e di ospitare tassi, volpi e i loro predatori, il falco pellegrino e la poiana. Non si può non riconoscere, tuttavia, alle rocce lo scettro di questo angolo di golfo, la cui ricchezza di colori dipende in gran parte anche dal loro contributo. Il nero delle dolomie triassiche si alterna al bianco dei calcari, al giallo della marna e al rossiccio dei residui di flysch, in un tripudio di stratificazioni e riflessi cromatici. Rocce che la natura ha voluto folte di cavità, in cui l’uomo, o meglio, i suoi antenati hanno potuto trova-

re riparo, integrandosi con questa natura e facendo di questo il loro habitat. La grotta della Serratura, quella della Cala, il Riparo del Molare di Scario sono solo alcuni dei numerosi antri in cui sono stati rinvenuti reperti che raccontano l’evoluzione del genere umano dal Paleolitico inferiore (cinquecentomila anni fa) in poi, i cambiamenti delle specie e lo sviluppo delle differenti tecniche: visitandole si può capire l’importanza di certi passaggi per l’avanzamento culturale dell’uomo. Ma più in alto di tutti, un po’ eremita, un po’ principessa inarrivabile, splende al sole la Primula di Palinuro.

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La linfa vitale della terra I fiumi

testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti

Chiare e pescose acque Il Sele, il Tanagro e il Calore

In alto: J.P. Hackert, Traghetto sul Sele. In basso: un tratto del Sele nei pressi dell’Oasi di Persano.

I più grandi viaggiatori del passato, da Plinio a Strabone, passando per Virgilio e Silio Italico, raccontarono nei loro scritti del fiume Siler, quello che i Greci prima di loro chiamavano Silaros, ed era considerato alla stregua di una divinità. Questo si spiega con il fatto che le sue acque erano linfa per un lungo tratto di territorio, dai monti Picentini fino alla sua foce nei pressi di Paestum. E proprio qui, al suo sfociare in mare, i Greci avevano costruito uno dei santuari più frequentati: nel suo punto terminale, dove l’acqua si ricongiunge all’acqua, continuando così nel suo ruolo di

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prodigo nutritore, dalle valli interne al bacino idrico del pescoso mare di Paestum, fu innalzato un altare a Hera Argiva, la dea che proteggeva il parto e i figli, ma anche i giardini e i raccolti. La veneratissima dea reggeva in mano una melagrana, simbolo dell’amore e della fertilità. Oggi il contributo di questo fiume non riguarda solo le comunità distribuite intorno al suo bacino idrografico e la costa cilentana, ma anche la Puglia, alimentata da un acquedotto che capta le sue acque poco dopo la sorgente, nei pressi di Caposele, e le trasporta nella vicina regione. Così che il livello del Sele ne risulta notevolmente ridotto, fino alla confluenza con il Tanagro. Una confluenza che non era naturale, ma che è stata voluta e realizzata dall’uomo, più precisamente da un ingegnoso, e ottimo ingegnere idrauli-

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In alto: il bosco igrofilo lungo il Sele.


In alto, a sinistra: i resti di un antico mulino nei pressi delle Grotte dell’Angelo a Pertosa. In alto, a destra: scorcio del Tanagro con le spiaggette di ciottoli. Sotto: il bosco ripariale sul Tanagro.

co, dell’epoca latina. A lungo il Vallo di Diano aveva costituito una barriera insormontabile, anche il toponimo lo ricorda, poiché il nome latino da cui deriva vallo significa “trincea”, nel senso di limite invalicabile. Il fiume Tanagro, che l’attraversava, trovava lungo il suo percorso la valle sbarrata all’altezza di Polla, e riusciva a trovare sfogo solo in alcuni inghiottitoi, per poi ricomparire in diversi punti del massiccio degli Alburni: la sua risorgiva più conosciuta è quella ipogea di Pertosa. Spesso, però, quelle vie sotterranee si ostruivano, e il fiume invadeva la valle, trasformandola in un acquitrino inaccessibile e paludoso. Nell’ambito della costruzione della

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via che da Capua portava fino a Reggio Calabria - una strada che doveva consentire il controllo militare e la penetrazione economica nell’Italia meridionale - i Romani intrapresero un’impegnativa opera di bonifica del vallo. A nord tagliarono le rocce per dare al Tanagro un nuovo e più comodo letto, che ne faceva confluire le acque nel Sele. Da allora, il Vallo di Diano (Diano era il nome antico di Teggiano) fu trasformato in una florida valle coltivata, quale è rimasta fino a oggi. E sono proprio i canali d’irrigazione dei campi il motivo per cui, oggi, molte specie di uccelli migratori si fermano in sosta, poiché in questi acquitrini trovano cibo in abbondanza (insetti, larve,

anfibi). Negli ultimi anni, inoltre, su queste sponde sono tornate le cicogne, assenti ormai da alcune centinaia di anni da tutto il sud Italia, e tra Teggiano e Sala Consilina nidificano, tra lo stupore e l’ammirazione di tutti. Poco distante dalla Certosa di San Lorenzo, sulla sponda orientale del fiume, una sorgente divenne luogo di culto fin dall’epoca greca, quando vi si celebrava la nereide Leucothea, la mitica nutrice di Dioniso. Questo luogo sacro divenne nei secoli un importante punto di riferimento, intorno al quale si sviluppò un mercato che attirava Greci e genti italiche. In epoca cristiana il mercato si incrementò, mentre al culto pagano fu sovrapposto il rituale del battesi-

In alto: prati allagati lungo il Tanagro. In basso: salice bianco lungo le rive del Tanagro.


In alto, a sinistra: un tratto del fiume Calore nei pressi delle omonime gole. In alto, a destra: il bosco ripariale lungo il Calore.

mo: al IV secolo risale il suggestivo Battistero di San Giovanni in Fonte, la cui particolarità è di essere circondato dall’acqua, che fluisce al suo interno tramite delle aperture andando ad alimentare la piscina quadrata. Quando il Tanagro e il Sele si incontrano, quest’ultimo ha già ricevuto le acque di Contursi, le cui sorgenti sulfuree e calcaree producono un particolarissimo fenomeno di sedimentazione minerale. L’empirico Aristotele descrisse le particolari proprietà dell’acqua del Sele in quel punto, senza riuscire a darvi una spiegazione razionale: qualsiasi oggetto che cadesse nelle sue acque, prima galleggiava e poi si induriva come pietra. Solo la scienza moderna ha potuto spiegare che i sali di zolfo e i vari calcari si depositano, originando l’insolito fenomeno. Per la limpidezza delle sue acque e per la fauna che, in conseguenza, ne popola le rive o l’alveo stesso, il bacino del Sele è considerato un ecosistema complesso e di elevato valore naturalistico, ed ha avuto importanti riconoscimenti che mirano alla sua salvaguardia: l’alta valle e la foce del fiume Sele sono stati inseriti nella lista italiana dei Siti di Importanza

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Comunitaria (SIC), in attuazione di quanto previsto dal programma europeo Natura 2000, mentre la Regione Campania ha ritenuto opportuno tutelare l’area istituendovi, nel 1993, la Riserva Naturale Foce Sele Tanagro. La purezza di queste acque è talmente rinomata, che in pittura una particolare tonalità è definita “verde Sele”, con riferimento al colore smeraldino del loro fondale. La porzione di fiume più interessante dal punto di vista naturalistico è certamente quella sita in corrispondenza di Persano, antica riserva di caccia dei Borbone, oggi trasformata in un parco naturale gestito dal WWF. L’antica natura paludosa dell’area ne aveva da sempre determinato la naturale destinazione a luogo di accoglienza per migliaia di uccelli durante la loro migrazione. Oggi la zona è bonificata, ma una barriera crea un lago artificiale, e queste anse continuano a svolgere quell’importante ruolo di stazione di sosta dell’avifauna proveniente da tutta Europa. I detriti di natura ghiaiosa e sabbiosa trasportati dall’acqua si depositano a ridosso della diga, formando strisce di terre emerse: su queste si forma una vegetazione, fatta dapprima di giunchi e canneti, che a loro volta determi-

nano un ulteriore compattamento dei detriti, preparando il terreno al bosco igrofilo, fatto di salici, ontani e pioppi. Quale ricchezza di insetti, anfibi e rettili ne possa derivare lo dimostrano le tante specie ornitologiche che, in taluni casi, hanno eletto queste sponde a loro sede stanziale. Poco dopo essere uscito dal territorio dell’Oasi di Persano, il Sele incontra il suo secondo grande affluente: il Calore. Per secoli offuscato dal fratello maggiore Sele - maggiore, in realtà, solo per fama, ma non per abbondanza di acqua, vegetazione e fauna - è stato per secoli ignorato dalle cronache di storici e dagli studi di botanici. Per contro, la sua particolare natura lo rende uno dei più interessanti sia da un punto di vista geomorfologico che naturalistico. Il fatto di essere rimasto sempre ai margini, consente, però, a noi oggi di conoscerlo nel suo aspetto inalterato, un percorso in un paesaggio e in una natura di selvaggia e sorprendente bellezza, a differenza del “maggiore”, che ha visto insediamenti industriali nella sua parte più alta (ma i reflui scorrono in un condotto, salvando così l’intero percorso del Sele dai loro malefici flussi). Il Calore - definito impropriamen-

te Lucano per distinguerlo da quello Irpino - è rimasto avvantaggiato dall’essere stato a lungo figlio di un dio minore, e oggi, in quanto “fiume naturale”, offre un bene impagabile, che potrebbe essere sapientemente trasformato in fonte economica. A patto che lo si faccia nel pieno rispetto del suo ecosistema. Le sue acque vengono captate da un acquedotto appena dopo la sua sorgente dal monte Cervati, per essere poi distribuite in gran parte del Cilento. Così la portata d’acqua è chiaramente limitata quando il fiume attraversa una prima gola nei pressi di Piaggine. Ciononostante, le pareti calcaree che, alte, ne accolgono l’alveo, creano un effetto mozzafiato, mentre sullo sfondo si staglia imponente il Cervati. Ma questo è appena un saggio. Dopo essersi arricchito delle acque di alcune sorgenti, percorre un’altra gola nei pressi di Laurino: qui è un tripudio di salici e ontani neri lungo il suo letto di roccia, che cedono il posto a fasce di carpini e, infine, al verde cupo della lecceta. Poco dopo, il Calore tange il bosco di Campora, una primordiale foresta di latifoglie che non ha conosciuto l’uomo: querce dalle dimensioni gigantesche contano qualche

secolo di vita. Ai piedi di Magliano Nuovo è il passo della “Preta perciata”, dove un tempo si era sottoposti al pagamento di un pedaggio per accedere alla valle del Calore. Poco dopo, un ponte medievale, detto “a sella d’asino” per la forma del suo fornice, permette un salto indietro nel passato: si è conservato praticamente intatto, e, vedendolo combinato alla natura spontanea d’intorno, il visitatore ha l’impressione di camminare tra le irte vie del Medioevo. Poi una stretta gola, una cascata e il ponte naturale detto “Preta tetta”. Sono le gole di Felitto, le più conosciu-

te, anche se è difficile decretare una bellezza ancora superiore alle precedenti; certamente è al loro pari. Nei pressi di Ponte Barizzo il Calore si immette nel corso del Sele, per percorrere insieme pochi, ultimi chilometri. Attraversano i campi coltivati della piana bonificata del Sele, passano accanto ai resti del tempio della bella Hera (i cui reperti più preziosi sono conservati al Museo Archeologico di Paestum), tra i quali, lente, pascolano le bufale. Con un estuario termina il percorso del Sele, 64 chilometri di anse, cinguettii e frusciar di rami.

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Al centro: un tratto del fiume Calore.


Una rete d’acqua I fiumi minori Se i corsi del Sele e dei suoi principali affluenti destano l’ammirazione di escursionisti e naturalisti, anche altri fiumi del territorio che circonda Salerno, sebbene minori per portata e lunghezza, possono competere con tali meraviglie. Partendo da sud, in un itinerario non certamente percorribile in una giornata, ma, che piuttosto segue un percorso geografico ideale che descrive i beni naturalistici “minori” del territorio, partiamo dalla costa nei pressi di Marina di Camerota: andiamo in direzione di Capo Palinuro, gli occhi fedelmen-

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te rivolti a sinistra, ad ammirare queste splendide rocce calcaree che digradano dal monte Bulgheria. Prima ancora che si formi la penisola, ci imbattiamo nella foce del fiume Mingardo, separata da quella del Lambro dal piccolo promontorio della Molpa. Qui, tra gli intensi profumi di lentisco, si individuano ancora i ruderi di un castello che sorvegliava un antico insediamento, distrutto ripetutamente da Saraceni e pirati. La parte orientale della foce del Mingardo è ricoperta da splendidi boschi di pini d’aleppo, una conifera tipica del Mediterraneo, che si accontenta di poco per vivere, di rupi inospitali e terreni calcarei, in

cambio, come in questo caso, di un posto privilegiato in prima fila davanti a uno splendido mare. Dalla strettissima gola del Diavolo, fra alte e ripide pareti calcaree in cui l’acqua comincia a scendere veloce verso il mare, si accede alla valle interna del fiume. Passiamo attraverso un tunnel scavato nella pietra, e subito scorgiamo, lungo il profilo di uno sperone roccioso, altri ruderi, un castello e un piccolo centro, completamente costruito in pietra e evidentemente abbandonato. Un tempo, San Severino di Centola controllava la gola del Mingardo, facile via di penetrazione dalla costa, affinché la sua popolazione potesse difendersi dalle incursioni saracene e, al

Pagina precedente. In alto, a sinistra: pino d’Aleppo nei pressi della foce dell’Alento. Al centro: un tratto del Mingardo nei pressi di San Severino di Centola. In basso: il ponte medievale sul rio Casaletto. In questa pagina. In alto: alcuni olivi lungo l’invaso dell’Alento. In basso: le forre del fiume Melandro nei pressi di Caggiano.


Uno scorcio sull’invaso dell’Alento con le colline cilentane.

tempo stesso garantirsi il controllo dello sbocco a mare. Dopo un lungo periodo di declino, alla metà del secolo passato, il paese fu abbandonato dai suoi ultimi abitanti. Inerpicandosi sull’insellatura che ospita San Severino, si può scoprire il fascino di un villaggio medievale che ha conservato molto della sua originaria costruzione. Risaliamo ancora la costa, passando per il borgo medievale di Pisciotta e poi Velia: gli scavi archeologici dell’antica Elea greca testimoniano di un luogo e una civiltà che hanno dato un forte apporto allo sviluppo della cultura occidentale, soprattutto al pensiero filosofico e scientifico. Ai piedi del monte della Stella troviamo un’altra foce, quella dell’Alento, il cui nome ha probabilmente originato il toponimo di questo enorme territorio: Cis Alentum, al di là dell’Alento, il Cilento. L’estuario cade proprio in prossimità di Elea, l’antica città dai due porti. Risalendone il corso si aggira il monte della Stella sul versante orientale. Dagli anni Novanta, una barriera artificiale costruita per il riforni-

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mento d’acqua del Cilento, ha creato un invaso tra i paesi Cicerale e Perito: dalla trasformazione del paesaggio si sono originati insoliti ma piacevoli scorci di ulivi affacciati sul letto del fiume. Questo nuovo lago attira già alcune specie di uccelli, cormorani in inverno, svassi maggiori in primavera e aironi cenerini durante la migrazione; ma, certo, negli anni prossimi il bacino è candidato a trasformarsi in un attrattore per numerose altre specie ornitologiche, così come è stato per l’invaso di Persano. Superiamo a pie’ pari la valle del Sele, di cui abbiamo già parlato altrove, fermandoci al suo confine settentrionale: nei pressi di Pontecagnano, laddove sbocca il Picentino. Il nome di questo fiume minore, uno dei tanti anche ben più grossi che si originano sul massiccio omonimo, deriva dall’antica Picentia, una città e una popolazione di origine adriatica che viveva su questo litorale, in forte contrasto con i Romani: all’arrivo di Annibale, essi si schierarono decisamente dalla sua parte. Questo costò la distruzione della loro capitale e la dispersione

sul territorio di quei monti che presero da loro il nome. Dal laghetto della grotta dello Scalandrone, nel comune di Giffoni Valle Piana, si forma la sorgente principale del Picentino. Nel suo tratto più alto, alcuni dislivelli creano precipitosi salti d’acqua, accompagnati da una vegetazione spontanea di faggi, ontani, carpini, frassini e aceri. Le sue acque, un tempo ricche di anguille, oggi sono conosciute per l’abbondante presenza di trote fario: ciò è possibile grazie al fatto che nella zona non sono presenti industrie che, altrimenti, comprometterebbero l’equilibrio biologico del fiume. L’economia di questo territorio è, infatti, soprattutto agricola: noccioli - la “tonda” di Giffoni è il fiore all’occhiello di questa zona noci e castagni a monte, frutta e verdura nei fertili campi a valle, determinano un paesaggio naturale di tipo agreste. Concludiamo il nostro giro tra le acque di questa provincia, che ci ha fatto scoprire angoli di natura incontaminata e selvaggia. Arriviamo nell’Agro NocerinoSarnese, terra fertile e generosa, di cui sono famosi in tutto il mondo i

pomodori San Marzano (che hanno ricevuto il prestigioso riconoscimento DOP), i carciofi di Pagani, il vino della sepolta Pompei. Il fiume Sarno era venerato dagli antichi abitanti di Nuceria per la sua generosità incondizionata. In molte case messe in luce dagli scavi archeologici, sono emersi affreschi che divinizzavano il

Sarno: Svetonio ha tramandato la leggenda del giovane Epidio Nuncionio, che si tuffò in queste acque e ne venne fuori con le nodose corna sul capo, attributo delle divinità fluviali: da allora fu venerato come dio protettore di tutta la valle del Sarno e di Nuceria stessa, colui che ne determinava floridezza e abbondanza. L’Autorità di Bacino del Sarno, isti-

tuita nel 1989, ha eseguito tutti gli studi necessari per poter affrontare i difficili lavori di depurazione e ripristino, e da qualche tempo ha avviato i lavori veri e propri. Noi restiamo nell’attesa e nella speranza che presto queste rive e queste acque possano tornare al loro antico splendore. Che il dio Sarno vegli su di loro.

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In alto: un tratto del fiume Sarno con pioppeti e cannucce di palude. In basso: Filippo Palizzi, Lavandaie sul Sarno.


La salvaguardia del territorio Oasi, parchi e aree protette

testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti

L’acqua che non arrugginisce il ferro La Valle delle Ferriere Al confluire a valle delle pendici di cinque monti, incassato tra verticali pareti di roccia c’è il vallone Grevone: qui insiste una selva originaria, una vegetazione da foresta pluviale. Non siamo né nei pressi del Rio delle Amazzoni, né nelle isole della Malesia descritte da Emilio Salgari. Siamo tra i monti Lattari, poco distante da Amalfi, di cui tutti conoscono la splendida costa, i vicoli stretti e bianchi, ma pochi si sono insinuati fra le rocce, oltre la fine del suo centro abitato, fino ad arrivare alla Valle delle Ferriere. I più non sanno che oltre quelle candide casette esiste un mondo a parte. Risalendo il corso del torrente Canneto (che, nascosto sotto la strada, scorre attraverso la stessa Amalfi), tra le violente rupi del monte Cervigliano e i vivi colori dei limoni e degli aranci, si percorrono irte scalinate e antichi sentieri. Già qui la natura è assoluta signora, sebbene in molti angoli la caparbietà dell’uomo si mostri nei pezzetti di terra strappati alla pietra e dati a coltivazione. La presenza del torrente diventa sempre più forte: passando nella Valle dei Mulini, tra i rami abbondanti si scorgono i ruderi di antiche cartiere; l’uomo profittò a lungo della forza motrice dell’acqua che scorre ripida, per aiutarsi nella produzione della pregiata carta di Amalfi. Continuando la risalita, si giunge alla gola che ospita la giungla idrofila di cui parlavamo. Questi aspri monti, circa 700 metri di strapiombo sulla valle, sono ricchi di ferro che in passato veniva lavorato nelle ferriere, appositamente costruite nelle immediate vicinanze dei luoghi di estrazione; quelle fabbriche del ferro hanno ispirato il toponimo della conca. Le pareti della montagna riparano dai venti, a ogni angolo sgorgano ruscelli e rivoli, si chiamano sempre “Acqua” qualcosa, Acqua

Vracciara, Acqua Fredda, del Pertuso, del Ceraso, e percorrono quelle ripide pareti calcaree. La più grossa e imponente chiude su un lato questo profondo solco inciso fra i monti, e determina il ristagno dell’umidità; vi si è creato un microclima, che ha prodotto una natura assolutamente insolita: con un’inversione vegetazionale, nella valle si è formato un bosco misto, mentre sui versanti si sviluppa la macchia mediterranea. Inoltre, l’elevato tasso di umidità crea il giusto ambiente per le specie idrofile. La lingua cervina è una felce dalle foglie lunghe e lisce, che ricordano la lingua di un cervo; maggior meraviglia desta la Woodwardia Radicans, una felce che si sviluppò nell’Italia meridionale alla fine del Terziario, e che oggi sopravvive in pochi angoli con rari esemplari. E questa culla, laminata di ferro e tappezzata di muschi e felci, è il luogo ideale per gli anfibi, come la salamandra pezzata, il rospo e la rana appenninica, ma anche la salamandrina dagli occhiali, un endemismo italiano, così chiamata per la striscia di colore chiaro che ha sugli occhi, e che la rende particolarmente simpatica. Tra i rami degli alberi, folti e dal colore brillante, nidificano numerose specie della famiglia dei pas-

seri, tra cui il merlo, la ghiandaia e il picchio rosso maggiore; le rupi calcaree sono invece il regno dei rapaci: gli sparvieri e i nobili falchi pellegrini, che dei primi vanno a caccia e si nutrono. Altri accessi alla Valle delle Ferriere sono dall’abitato di Pontone, frazione di Scala, o da Pogerola. Per chi volesse, per qualche ora, abbandonare il mondo ed entrare in una dimensione lontana nel tempo e nello spazio, per andare alla scoperta di questi scorci surreali, suggeriamo di farlo in mesi non troppo caldi, poiché l’elevata umidità renderebbe insostenibile la passeggiata. È inoltre necessario munirsi dell’autorizzazione del Corpo Forestale, cui fa capo la riserva Valle delle Ferriere: l’accesso è ammesso solo per fini educativi, escursionistici e di studio. Una fruizione da pic-nic di famiglia, spesso purtroppo invasivi per le aree coinvolte - e questa ne è una particolarmente delicata non è invece consentita. E noi siamo d’accordo a che questo giardino pensile, questa foresta primordiale venga tutelata, e aperta solo a coloro che meritano di godersi una giornata immersa nella natura, perché sinceramente ne comprendono e rispettano il valore.

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Pagina precedente. La cascata nella Valle delle Ferriere. In questa pagina. La rara felce Woodwardia Radicans.


Sentieri tranquilli L’Oasi WWF del Parco Naturale Diecimare

In alto: veduta di Cava de’ Tirreni dal Sentiero del Falco. In basso: un tratto del Sentiero del Falco.

Una strada stretta sale sul crinale del monte Caruso, e conduce all’ingresso del Parco di Diecimare. Siamo nei pressi di Cava de’ Tirreni, ma l’Oasi naturalistica del WWF che andiamo a visitare interessa anche i territori dei comuni di Baronissi e di Mercato San Severino. Un rifugio in legno ospita il centro visite e un piccolo museo, dove esemplari di insetti e di serpenti incuriosiscono soprattutto i più piccoli. Nel Parco sono stati predisposti quattro sentieri: il Percorso Natura, dedicato ai ragazzi, il Sentiero del Bosco, completamente all’ombra, il Sentiero dei Due Golfi, dal quale si dominano sia il golfo di Napoli che quello di Salerno. Ci incamminiamo sul quarto, il Sentiero del Falco, un nome che evoca la possibilità di avvistamento di questo splendido rapace, nel volo di perlustrazione che prelude alla caccia. Il paesaggio naturale è caratterizzato dai sempreverdi pini e lecci, ma anche da roverelle, cespugli di mirto, cisto ed erica. Le tracce di animali sono tante qui a Diecimare: gli escrementi di

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donnole e faine, le impronte inconfondibili dei cinghiali, i fori nella terra di qualche talpa, e, in un tronco morto, quelli di un picchio alla ricerca di larve. Il monte Caruso su cui ci troviamo è caratterizzato da una cima brulla. Da una sua fiancata si ha una splendida vista su Cava de’ Tirreni, si riesce a scorgere il castello di Nocera Inferiore, poi a spaziare sulla piana nocerina e ancora oltre, fino al Vesuvio. Allo sguardo che si riavvicina, si impone, per sorprenderlo, il giallo luccicante di una ginestra. L’attività dell’Oasi naturalistica è molto incisiva. A conclusione di questa prima escursione può essere, infatti, interessante dare un’occhiata anche al Percorso Natura. Si tratta di un itinerario didattico pensato per bambini e ragazzi: attraverso una serie di pannelli disposti nel Parco, se ne descrivono gli animali e la vegeta-

zione. Da una vera e propria aula all’aria aperta, con tanto di banchi, cattedra e lavagna, tutto rigorosamente in legno affinché sia in armonia con l’ambiente, si possono svolgere le lezioni naturalistiche, prima della verifica “sul terreno”. Per i ragazzi ci sono anche le aree faunistiche, quella del capriolo - con degli esemplari ospitati in un’ampia area recintata - e quella del bombo. Quest’ultimo è un insetto simile all’ape, ma privo del pungiglione, che svolge un ruolo importantissimo per l’agricoltura, poiché è un infaticabile impollinatore. Le cassette di legno poste su alcuni alberi per favorire la nidificazione, testimoniano delle numerose specie di uccelli che volteggiano in questi 444 ettari su cui si estende il Parco Naturale Diecimare: il picchio verde e quello rosso, la cinciarella, e poi numerosi rapaci, il falco pellegrino, il gufo comune, il

barbagianni, l’allocco e la civetta, per citarne solo alcuni. Un aviario che ospita circa settecentomila api è stato installato all’interno del Parco, e il miele biologico che se ne ricava è uno dei prodotti tipici dell’Oasi, assieme al formaggio caprino, all’olio extravergine di oliva e al vino. Oltre che sul monte Caruso, il Parco Naturale si estende anche sulla Forcella della Cava, il Montagnone, parte del poggio Cuculo: questi rilievi appartennero a lungo al Monastero della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, finché la secolarizzazione non si impose sui luoghi di clausura dei benedettini. Nel 1980 l’area è stata costituita in Parco Naturale. Per chi desidera trascorrervi una piacevole mattinata, basta prendere l’uscita Cava de’ Tirreni della A3 e continuare per la Statale 18, seguendo le indicazioni per l’Oasi.

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In alto: una femmina di Capriolo nell’area faunistica. A sinistra: un esemplare di farfalla Macaone, simbolo dell’Oasi. A destra: l’aula nel bosco.


Qui cacciano rapaci e lupi L’Oasi WWF del Parco Intercomunale del Monte Polveracchio

In alto: un giovane esemplare di falco pellegrino. In basso: i boschi sul versante del monte Polveracchio.

Foglie tinte di verde, chiaro in primavera e più scuro in estate, che si trasformano poi in oro e in rame nei mesi più freddi: sono quelle delle faggete pure, i boschi più diffusi sul monte Polveracchio, e ne caratterizzano le pendici. Con una cresta lunga più di dieci chilometri, questa è la montagna più estesa dei Picentini, con un nome derivato dal calcare friabile che in prevalenza lo compone, e una vetta a 1.790 metri sul livello del mare. Su questa cima c’è l’omonima Oasi del WWF, a protezione delle splendide faggete e delle praterie d’alta quota, oltre che della fauna che dimora e si nutre su queste pendici incontaminate. Siamo nel comprensorio di Campagna, il comune che nel 1988 decise di affidare questi 200 ettari di territorio alla cura e salvaguardia del celebre

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Fondo Internazionale. Per raggiungerla, dall’uscita di Campagna della Salerno-Reggio Calabria, si seguono le indicazioni per l’Oasi. A dimostrazione del valore ambientale di quest’area sta il simbolo prescelto per l’Oasi: il lupo, che d’inverno lascia chiare tracce del suo passaggio sulla neve fresca. Dopo una mattanza durata decenni, a opera soprattutto dei pastori che non volevano veder compromesso il loro bestiame, pochi esemplari ripopolano questo tratto di Appennino, in particolare le aree con la vegetazione più intatta. Una prova, dunque, del rilievo che rivestono, in termini di ecosistema, questo massiccio e quest’Oasi. Ma il lupo non ne è l’unica attestazione. Anche il picchio nero e l’aquila reale sono animali che di rado si vedono in Italia, e che hanno trovato su queste pendici un luogo ideale per vivere. I sentieri natura creati dall’Oasi si infiltrano nel fitto bosco formato dapprima da faggi e da aceri montani, con un sottobosco di agrifogli: sollevando lo sguardo, si sco-

prirà che le foglie di questi ultimi sono dotate di punte soltanto in basso, ossia fin dove sono raggiungibili dai musi degli animali; a mano a mano che l’arbusto si sviluppa in alto, le sue foglie perdono questa caratteristica. In alcune zone più impervie, si incontrano anche alcuni tassi secolari, esemplari di tre-quattrocento anni, che raggiungono dimensioni notevoli. Altrettanto rare sono le betulle pendule, scampate ai tagli indiscriminati operati dall’uomo. Gli abitanti di questi boschi sono il picchio verde, dall’insolito verso che somiglia a una risata e che si nutre di formiche, mentre i suoi parenti più tipici picchiettano nei vecchi tronchi di alberi alla ricerca di larve e insetti. Tra i mammiferi ritroviamo la volpe, il tasso e la martora, che vanno a caccia dopo il crepuscolo. Le notti di queste pendici sono popolate anche da alcuni rapaci notturni, come il gufo reale, l’allocco e il barbagianni, dei quali al buio non possono percepire il volo silenzioso gli ignari topolini e altri roditori,

come i ghiri o i moscardini. Di giorno bisogna invece temere le poiane, gli astori e gli sparvieri che cacciano nel fitto della faggeta. Vale la pena una sosta alla sorgente “Acqua Menecale” e all’“Acqua Bianca”. I ruscelli di cui è ricca l’Oasi sono abitati, tra gli altri, da alcuni anfibi. Nei pressi del centro visite sono state allestite due piccole pozze, per permettere ai visitatori di osservare la salamandra pezzata, con la sua caratteristica pelle nera maculata di giallo, e l’ululone dal ventre giallo. Salendo fino in cima al monte Polveracchio, si ha una splendida vista sulla prateria d’alta quota che percorre tutta la cresta della montagna. Ed è qui che il lupo trova le sue prede preferite: cinghiali e lepri. A conclusione del nostro giro, torniamo all’origine del percorso, e approfittiamo dell’area sosta creata dagli operatori del WWF. I percorsi didattici ci hanno fornito interessanti informazioni, e ancora una volta apprezziamo il lavoro di questa organizzazione.

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In alto, a sinistra: una civetta. A destra: una volpe. Sotto, a sinistra: un tritone crestato. A destra: un’aquila reale.


La Real Palude L’Oasi WWF di Persano

In alto: J.P. Hackert, Caccia di Ferdinando IV a Persano. In basso: le rive del fiume Sele nei pressi della diga.

Un tempo questo era territorio del re: oggi è gestito dal WWF. All’epoca, l’area era adibita alla caccia: oggi all’osservazione degli uccelli. Fino all’Ottocento vi avevano accesso solo gli invitati della famiglia reale: oggi sono i benvenuti tutti quelli che apprezzano la natura e l’opera di protezione che vi si attua. La tenuta era quella di Persano, il re era Carlo III, poi Ferdinando IV, di casa Borbone. Entrambi erano appassionati di caccia, e quest’area acquitrinosa aveva da sempre attratto animali acquatici, soprattutto nel periodo migratorio, in sosta di viaggio verso mete più meridionali. Ma già molto in antico la valle era stata adibita all’attività venatoria: il nome Persano rivela il significato di “bosco di Persea”, ovvero Diana, dea della caccia, e pare che qui sorgesse un tempio dedicato alla divinità con l’arco. Finita l’epoca borbonica, e anche quella savoia, l’area fu ridestinata. Nel 1954, dei 3.500 ettari della tenuta, un terzo circa fu assegnato al Ministero della Difesa: la piccola reggia, costruita per ospitare il monarca durante le sue battute di caccia, divenne sede militare. Buona parte del territorio andò ai contadini della zona, che la disboscarono e la diedero a coltivazione. Trecento ettari furono dati in concessione al Consorzio di Bonifica Destra del Sele per sanare la palude e distribuire l’acqua nella piana sottostante a scopi

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irrigui. Già agli inizi di quel secolo era stata avviata, infatti, un’opera di bonifica del fiume. Nel 1932 su una sua ansa era stata inoltre costruita una diga, che modificò il corso del fiume e il paesaggio tutto intorno. Da allora, si è for-

mato un invaso artificiale, riparo ideale per gli uccelli acquatici di passaggio, ma anche per quelli che, nel frattempo, sono divenuti stanziali. Una grande novità fu introdotta nei 4.500 ettari circostanti con il

divieto di caccia del 1977, un divieto che è stato fatto rispettare a suon di controlli e multe salate. Nel 1980 il Consorzio di Bonifica affidò una parte cospicua dei “suoi” 300 ettari alla gestione del WWF. Certo, le campagne intorno costituiscono oggi un paesaggio differente rispetto alle foreste ripariali di un tempo, una folta vegetazione di salici, pioppi bianchi e neri. A caratterizzare l’area oggi sono perlopiù i canneti, laddove le acque sono basse, e qualche sprazzo di bosco igrofilo superstite. Eppure, anche quel poco, unito alla limpidezza dell’acqua e alla sua pescosità, basta ad attirare un gran numero di animali. In primavera vale la pena trascorrere una giornata nell’Oasi di Persano magari con la propria famiglia (dalla Salerno-Reggio Calabria si esce a Campagna e si prosegue verso Serre, seguendo le indicazioni per l’Oasi): il centro visite ha un piccolo museo, dove è esposta anche una lontra imbalsamata, trovata moribonda in un affluente del Sele, e che non fu possibile salvare. Questo è forse l’unico animale che, sebbene viva nell’Oasi, sarà difficile avvistare, poiché non ama mostrarsi. Ma, con l’aiuto di una guida del centro e un pizzico di fortuna, se ne potranno individuare le impronte nel fango o gli escrementi profumati di muschio. Queste tracce sono sicuramente un punto d’orgoglio per l’Oasi che ha scelto la lontra come suo simbolo: qui sopravvive infatti la più folta popolazione d’Italia di questo mammifero, a lungo cacciato per la sua pelliccia o perché faceva concorrenza ai pescatori, e rappre-

senta al tempo stesso una prova della purezza delle acque del Sele. Ci saranno però molte probabilità di avvistare altri animali. Dai capanni per il birdwatching costruiti dagli operatori del WWF, e dotati di un binocolo, si potranno avvistare le gallinelle d’acqua e le folaghe nei pressi dei canneti. Laddove l’acqua raggiunge i due metri, si vedranno, invece, il tuffetto e lo svasso maggiore, di cui in primavera si potrà ammirare la danza di corteggiamento sull’acqua, con piroettanti inseguimenti e immersioni. Vedremo le diverse specie di anatre entrare in panico quando sul canneto volerà il falco di palude, un grosso rapace che cattura le sue prede annegandole nell’acqua. La ricchezza di barbi e rane nelle acque di Persano motiva la presenza, nel bosco igrofilo, degli aironi cenerini e degli aironi rossi, che si distinguono tra di loro per il colore del piumaggio. Un altro esemplare che approfitta della fauna ittica dell’invaso è il coloratissimo martin pescatore, che pesca immergendosi completamente in acqua. E nidi sono anche quella specie di sacchetti lanuginosi che si vedono pendere dai rami bassi dei salici: il pendolino costruisce in questo modo il suo nido per renderlo poco accessibile ai predatori. Tornando lungo i sentieri in legno dell’Oasi, negli spazi acquitrinosi si vedranno rane saltellare, libellule azzurre volteggiare, e con un po’ di fortuna, anche qualche tartaruga palustre nascondersi. Un paradiso per i bambini, ma anche per i più grandi; sullo sfondo si stagliano sempre i bastioni rocciosi degli Alburni.

In alto, a sinistra: un tratto del fiume Sele nell’Oasi. A destra: il sentiero didattico nella palude. Sotto: la lontra. Al centro, a sinistra: un cavaliere d’Italia. A destra: una garzetta. In basso: il martin pescatore.

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Un tunnel nella macchia L’Oasi WWF del Bosco Camerine

In alto: un sentiero nella macchia di corbezzolo. In basso: la pozza dei Tritoni nei pressi dell’Oasi.

Per sfuggire al caldo asfissiante dell’estate e alla spiaggia affollata, solo la vegetazione può offrire degno riparo, e se la base della vacanza è nella piana del Sele, suggeriamo di prendere Bosco Camerine come meta, ad appena venti minuti da Paestum. Altrimenti, dalla A3 si esce a Battipaglia e, percorrendo la Statale 18, si arriva a Ponte Barizzo: da qui, la provinciale 11 porterà fino ad Albanella. Il centro visite si trova facilmente presso il comune, poi le guide conducono i visitatori all’Oasi del WWF. Salendo, si individua visivamente la cima boscosa del colle di Camerine: 110 ettari in cui uccelli e altri animali trovano riparo dai cacciatori, ma anche nutrimento. All’entrata, ondate profumatissime, mosse da un venticello, impregnano le narici. Un odore che è un insieme di odori, di quel miscuglio di vegetazione che compone la macchia mediterranea. Arbusti e alberi sempreverdi

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come la fillirea, il mirto, il lentisco, il corbezzolo, il biancospino costituiscono una vegetazione spontanea che cresce, a queste condizioni climatiche, laddove un bosco è andato distrutto, rinnovando la flora. Qui la selva è scomparsa perché a lungo si sono utilizzati i cerri ad alto fusto che la componevano per farne carbone: solo qualche quercia secolare è sopravvissuta. Entrando dal Sentiero di Santa Sofia, ci accoglie il letto di un torrente invernale: intorno, in un’area esposta al sole, i fiori di sulla creano un tappeto violetto, mentre il margine del bosco è affiancato dal bianco dei cisti. Ma la caratteristica del bosco sono le gallerie. I sentieri creati dall’uomo per addentrarsi nella folta vegetazione sono dei veri e propri tunnel, arbusti e alberi crescono incrociandosi fittamente al di sopra delle teste dei visitatori. Qui abbondano i corbezzoli: l’arbusto è stato infatti preso a simbolo dell’Oasi di Camerine, ed è in autunno che se ne gode il momento più bello, quando le sue inflorescenze punteggiano di bianco tutta l’Oasi. In primavera, invece, si vedono volteggiare molti esemplari di ninfalide del corbezzolo, una farfalla che, da bruco, vive sui

rami di questo albero. Il bosco è costituito da lecci, roverelle e cerri, specie appartenenti alla famiglia delle querce. Con una vegetazione fitta che lascia poco spazio al sole, non può essere ricco il sottobosco. Eppure, qui crescono più di quattrocento specie di fiori. Nelle aree non troppo fittamente ricoperte, spuntano gruppi di ciclamini che colorano di macchie fucsia il bosco; ma lo spettacolo più bello lo riservano le orchidee selvatiche che, in quantità, spuntano in primavera dopo le piogge. Si concentrano soprattutto nel “prato delle orchidee”, in prossimità delle basi di Santa Sofia. Nel VII secolo, i frati basiliani in fuga da Costantinopoli, arrivarono nell’Italia del sud: alcuni di essi, probabilmente sbarcati a Paestum, ripararono in questo fitto bosco. Tra la vegetazione insediarono una chiesa dedicata a Santa Sofia di Costantinopoli, ancora oggi patrona di Albanella. Da questo spazio aperto avvistiamo una coppia di gheppi, nel cui volo si individua un corteggiamento. Anche altri rapaci sorvolano il bosco, come nibbi e poiane. Riprendiamo la galleria; dei pannelli esplicativi rivelano la storia dell’area adibita a carbonaia, raccontano il bosco e i suoi abitanti.

Dopo un bivio si raggiunge il pozzo di Santa Sofia, cui attingono gli uccelli di macchia. Tra il profumo di mirto e lentisco, scorgiamo tracce lasciate da qualche donnola o faina, ma numerosi sono anche i tassi. Percorrendo il Sentiero del Brigante che discende, incontriamo un maestoso cerro di quaranta-cinquanta anni, che ricorda i vecchi fasti del bosco. Alla fine del non troppo faticoso percorso, troviamo con sollievo una fontanina e, all’ombra di lecci, lentischi e corbezzoli, tavoli e panche da pic-nic. Non possiamo mancare di fare un’ultima sosta alla pozza del tritone italico, lungo la strada asfaltata che delimita il parco, adibita dagli operatori dell’Oasi ai minuscoli e simpatici anfibi di colore scuro.

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In alto: un sentiero didattico nel bosco. Sotto: un esemplare di tritone italico.


Acqua che risorge L’Oasi WWF delle Grotte del Bussento Nel Cilento più meridionale, arretrato rispetto alla costa c’è un posto magico, non solo un luogo dalla natura florida e rigogliosa, ma anche il punto in cui l’acqua, con forza travolgente, viene fuori dalla terra che pare sputarla fuori dal profondo di una gola di roccia. Non si tratta di una sorgente, ma di una risorgiva, quella del fiume Bussento che, inabissatosi nei pressi del paesino Caselle in Pittari, riemerge alcuni chilometri dopo, ancora più vitale e irruento di prima. Siamo vicino Morigerati, un paesino inerpicato sulle montagne, che da secoli osserva quotidianamente il gettarsi del Rivo di Casaletto nel Bussento. Il luogo in cui questo fiume rispunta in superficie è da alcuni anni Oasi protetta del WWF; per accedervi si parte dal paese e si prende un sentiero che scende fino a valle. Strada facendo si incontra una fonte che disseta i passanti con un’acqua sempre fresca, la presenza di una particolare fauna nel

fiume da cui è captata, ne testimonia la purezza. Prima di raggiungere la nostra meta, passiamo davanti ad un bellissimo mulino ad acqua in pietra: ne ammiriamo quel particolare fascino che hanno le costruzioni antiche, testimoni dell’ingegnosità dell’uomo ma anche, come in questo caso, del suo duro lavoro. Dopo circa mezz’ora di cammino arriviamo alla grotta, profonda e suggestiva: un’enorme apertura nella parete rocciosa a strapiombo restituisce alla vista di animali e uomini l’abbondanza della natura, che da se stessa si origina e si rinnova. L’Oasi di Morigerati si estende per più di 200 ettari, in un percorso contorto che, in parte, segue l’andamento del Bussento, in una gola in cui l’umidità crea meraviglie botaniche tipiche delle aree ripariali: muschi e felci crescono abbondanti all’ombra delle fronde cadenti dei salici e di quelle allungate degli ontani. Lungo il ramo del parco che si allontana dal corso del fiume per occupare le pendici della valle, si estende una folta lecceta, in cui vivono gli ormai rari istrici e qualche esemplare di gatto selvatico e di lupo. Poco distante, i lecci si intrecciano alle roverelle, ai carpini e ai frassi-

ni. Sorvolano queste chiome i gheppi, i nibbi, i rari astori e i corvi imperiali. Negli angoli altrimenti esposti ritroviamo la familiare macchia mediterranea e l’ampelodesma, una resistentissima pianta dalle foglie lunghe, per secoli impiegate per intrecciare cesti e cime. In queste acque nuotano e proliferano trote, gamberi e granchi di fiume; sulle rive si ritrovano periodicamente escrementi di mammifero dall’aroma di muschio o qualche lisca di pesce, il pasto dello stesso mammifero: sono i segni inconfondibili del passaggio di una lontra! Quale indice più chiaro della limpidezza dell’acqua? L’Oasi mette a disposizione dei visitatori un percorso natura e un’area attrezzata, oltre alla guida, indispensabile per addentrarsi nelle grotte; suggeriamo di portare un maglioncino in più, perché l’escursione termica al suo interno è notevole. Come arrivare in questo paradiso? Usciti a Padula-Buonabitacolo dalla Salerno-Reggio Calabria, si prende la direzione Sanza e si prosegue per Morigerati. Chi viene dalla costa cilentana, può scegliere due percorsi, uno per la Statale 517 e l’altro per Vibonati.

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Pagina precedente. L’ingresso alla grotta del Bussento. In questa pagina. In alto, a sinistra: l’interno della grotta. A destra e sotto: i resti dell’antico mulino lungo il fiume.


Quando l’acqua si diverte I fenomeni carsici

testo: Simona Mandato foto: Alfio Giannotti

Infinite meraviglie della roccia Gole, grave e grotte Un’acqua cristallina scorre nell’alveo dal fondo chiaro di pietra levigata, tutt’intorno alte e candide rocce arrotondate da millenni di acqua che scivola sulla loro superficie, e poi il verde dei salici, degli ontani neri, dei carpini e dei lecci a creare un colpo d’occhio davvero sublime. Sono le gole del Calore Lucano, che si estendono tra Felitto e Magliano Nuovo, nel cuore del Cilento. Partiamo da un’area attrezzata della località Remolino, poco distante dall’abitato di Felitto. Dapprima, delle vasche bianche di pietra accolgono gli escursionisti, offrendo anche la possibilità di un - gelido - bagno: le vasche sono

create da una vecchia chiusa, con il suo antico ferro pienamente integrato in questa magica scenografia. Prendiamo il sentiero che costeggia la riva destra del fiume Calore. Nel nostro percorso ammiriamo la natura selvaggia, eppure addolcita delle rocce levigate, la vegetazione folta, alimentata da quest’acqua che scorre senza tempo, e tutti gli animali che dall’una e dall’altra traggono nutrimento e riparo. Sulle rupi che, alte, sovrastano le gole, nidificano i rapaci: l’acuto falco pellegrino, ghiotto di merli e colombi, e il maestoso nibbio reale, alla ricerca di carogne, piccoli rettili e mammiferi; durante le ore notturne volpi, faine e tassi perlustrano il terreno ai piedi degli alberi. L’ambiente fortemente umido consente a diverse specie di felci di crescervi abbondanti, contribuendo a creare un’atmosfera


davvero speciale. Di queste acque cristalline non poteva non approfittare la lontra, come si è detto uno dei mammiferi più rari in tutta Italia a causa della scarsità di acque pure, che va a pesca di trote, anguille, carpe e quanto di meglio offra il fiume. Il sentiero termina in corrispondenza di un antichissimo ponte in pietra “a sella d’asino” sotto il centro di Magliano Nuovo. Grotte, doline, forre, grave, gole e inghiottitoi sono disseminati ovunque nello splendido complesso naturale del territorio alle spalle e a sud di Salerno. Sono tutti il risultato di un fenomeno chimico, il carsismo, che si verifica in presenza di rocce di natura carbonatica. Dai Picentini agli Alburni, dal massiccio del Cervati al monte Bulgheria, le rocce sono costituite da dolomie o calcari: in entrambi i casi, si tratta di rocce ricche di carbonato di calcio, l’abbondanza di acqua ha fatto il resto: il prolungato scorrere dell’acqua fa dissolvere il carbonato di calcio, producendo l’erosione delle rocce. Un esempio di tale erosione sono proprio le gole del Calore descritte sopra, ma lo stesso fiume ha scavato anche altre gole, più a monte del suo percorso. Un altro interessantissimo fenomeno carsico è la grava di Vesalo, un inghiottitoio in cui sprofondano le acque del torrente Milenzio, per poi ricomparire, dopo circa ventiquattrore di percorrenza ipogea, nella gola sotto Laurino e immettersi nel Calore. Lungo l’antico tratturo che collega Laurino alla Valle Sottana, in una piccola depressione del terreno circondata da faggi, improvvisamente si vede aprirsi una voragine circolare di alcuni metri di diametro, ricoperta da felci, tra cui

la lingua cervina e il Polipodium Interjectum. Un arco naturale divide l’inghiottitoio da un grande pozzo e sovrasta il punto in cui l’acqua scompare nella terra. Nelle faggete d’intorno, allo sciogliersi delle prime nevi, crochi e bucaneve annunciano la primavera. I rami dei faggi sono allietati dalle allegre piroette di cinciallegre, cinciarelle e cince bige, e dai loro piumaggi variopinti. Ci spostiamo, solo di poco ancora una volta - questa è una zona fortemente carsica -, e arriviamo a Sacco; superato un caseggiato, una stradina asfaltata scende, tra oliveti e campi coltivati, giù nella valle percorsa dal Sammaro. Da qui parte un sentiero che cammina lungo l’alveo del torrente per circa due chilometri. Rapide si alternano a pozze d’acqua, e intorno una fauna vive in simbiosi con il ruscello. Le innumerevoli piccole cascate attirano il merlo acquaiolo, negli spazi più aperti si vede sfrecciare il martin pescatore, mentre sulle pareti rocciose nidificano il passero solitario, con il suo tipico piumaggio grigio-azzurro, e il corvo imperiale. In estate spicca nell’acqua la fluttuante chioma rossiccia della coda di cavallo acquatica, una rara pianta che cresce attaccata alle rocce sommerse. Attraversiamo con il Sammaro campi abbandonati, tra fichi d’india e melograni, finché comincia la vegetazione fitta e selvaggia: la gola diventa un tunnel di roccia che si chiude sopra le nostre teste, lassù in alto. A questo punto si può proseguire solo saltellando sulle rocce; in fondo - ma per arrivarci è necessaria un’attrezzatura anfibia - si nasconde la polla della sorgente del Sammaro, purissima linfa di madre terra.

Poco distante è il paesino di Roscigno Vecchio, un antico borgo che fu abbandonato agli inizi del Novecento, a causa delle continue frane che dissestavano il terreno. Tra queste case, in parte ancora intere, pare che il tempo si sia fermato da un bel po’. Quelli descritti sono solo alcuni degli innumerevoli fenomeni carsici distribuiti sui monti del Salernitano, in particolar modo degli Alburni. Un altro accidente carsico nel cuore di questo massiccio sono le sorgenti dell’Auso: si trovano a valle di Ottati, ma sono più facilmente raggiungibili in macchina da Sant’Angelo a Fasanella. Dapprima un sentiero permette di risalire il torrente fino ai resti di un’antica centrale idroelettrica, di cui restano le strutture in ferro e le vasche create dall’uomo per raccogliere l’acqua. Sui resti dell’antica centrale e i ruderi di un mulino, al crepuscolo va a caccia la civetta; anche il gheppio trova fra queste irte pareti il luogo ideale per costruire il suo nido. Da qui in poi, il sentiero finisce e per risalire il letto del torrente ci si deve inerpicare tra la vegetazione selvaggia e i massi, rocce candide e levigate. Con un po’ di esercizio e scarpe adatte ce la si può fare. Il percorso termina con una pozza dal colore smeraldino, contenuta tra alte pareti dolomitiche, splendidi ontani fanno da corona a questo angolo di paradiso. Cambiamo zona, e ci addentriamo nel Cilento più antico e vero, sul monte Cervati incontriamo il Bussento, che sorge tra le faggete; dopo aver percorso i boschi di ontani napoletani e di lecci, nei pressi di Caselle in Pittari, il fiume si inabissa in una cavità carsica:

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A pagina 42: le gole del Calore. A pagina 43, in alto: alcuni salti d’acqua del torrente Milenzio. In basso: l’inghiottitoio della Grava di Vesalo. A pagina 44: le sorgenti del fiume Sammaro nei pressi di Sacco. In questa pagina: l’ingresso alle gole del Sammaro.


Uno scorcio delle Grotte di Castelcivita.

un’enorme apertura creata dall’acqua, tra pareti di roccia a strapiombo. Più di mezzo chilometro della grotta è percorribile, suggestive concrezioni ne decorano le pareti e il soffitto. Poi si arriva ad un laghetto che crea un sifone, per cui non è più possibile avanzare. Ci si può però spostare, e andare a cercare quella stessa acqua nel punto in cui riemerge alla luce del sole, a monte di Morigerati. Una fenditura entra nel cuore della grotta, e un passaggio creato per le persone, con un ponte sul fiume e degli scalini scavati nella pietra, consentono di arrivare nella cavità, dove lo scrosciare dell’acqua è amplificato dalla roccia tutto intorno, e i minerali hanno creato forme dai colori più vari. Una suggestiva cascata accoglie il riemergere dell’acqua dalle viscere: una visione che dà il senso dell’appartenenza dell’uomo al tutt’uno della natura. Ma questa terra ci riserva ancora altre sorprese, le grotte, meravigliosi antri della mente. La candida roccia che si erge possente a sfondo della piana del Sele, ospita una vegetazione opulenta e generosa, e nasconde nelle sue viscere un mondo inaspettato di anfratti, grotte, fessure. Per milioni di anni l’acqua ha scavato,

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eroso, levigato, modellato i massi dei monti Alburni, la cui struttura in carbonato di calcio si disponeva a essere plasmata. Infinite cavità e fenditure si insinuano nel blocco dolomitico del massiccio: la grava del Serrone, quella del Fumo, del Serrauto, la grotta del Gavio, quelle di San Michele a Sant’Angelo a Fasanella e di Sant’Elia a Postiglione. Eppure, qualcosa di più imponente, di più sorprendente si nasconde tra le rocce alburnine. A valle dell’abitato di Castelcivita, tra piantagioni di ulivo e arbusti di macchia mediterranea, si apre un varco. L’immensa grotta di Castelcivita accoglie i visitatori in un percorso di spazi ipogei, talvolta di notevoli dimensioni, che un misterioso architetto sembra aver arredato con colonne e mille rappresentazioni in scultura. Pareti, soffitti e pavimenti sembrano usciti da una mente artistica, il cui solo scopo era quello di sorprendere gli ospiti. Poco dopo l’entrata si apre il primo spazio, denominato “grotta del Guano” per il muro creato da una massa di escrementi di pipistrello: i primi esploratori non poterono, infatti, continuare le loro ricerche. In questo secolo i depositi di guano sono stati estratti e utiliz-

zati come fertilizzante, ma alla fine dell’Ottocento avevano giocato un brutto scherzo ai giovani Ferrara, due fratelli di Controne che per primi, incuriositi, si erano addentrati nella cavità con una lampada a olio. Le esalazioni di acido carbonico li avevano costretti al buio, e la lunga permanenza nell’antro, prima di essere ritrovati, fu fatale per Francesco, e turbò per sempre la mente di Giovanni. Negli anni Venti alcuni esploratori di Castelcivita ripresero le ricognizioni della grotta: il farmacista della cittadina, Nicola Zonzi, assieme a Luigi Perrotta e Davide Giardini riuscirono a spingersi fino a un laghetto. Le sensazionali scoperte che essi fecero di spazi ipogei di notevole interesse scientifico, attirarono i noti speleologi Anelli e Boegan. Oggi circa 900 metri sono illuminati e dunque visitabili, e un camminamento è stato costruito su un percorso lungo quasi il doppio. Chi si addentra nelle grotte di Castelcivita scopre un mondo sotterraneo fatto di stalattiti e stalagmiti, frutto di un lavorío dell’acqua lungo milioni di anni. Inevitabilmente, la nostra ragione cerca dei collegamenti tra forme nate senza una regia e quelle del

mondo umano, quasi a cercare dei punti di riferimento anche qui sotto, laddove in realtà, non ve ne sono, in un gioco di proiezioni e creativa attribuzione di significati. Così, gli spazi diventano “sale”, mentre le formazioni calcaree si trasformano in oggetti e personaggi del nostro quotidiano. Come quelle splendide concrezioni che hanno preso la forma di una tenda, veli irregolari che pendono dall’alto, di cui si immaginano finanche i movimenti ondulanti al soffiare del vento. Dopo la grotta del Guano, una “sala” ospita un “castello”, in cui le stalagmiti sono diventate torri di guardia e masti. Proseguendo, una suggestiva concrezione che ricorda le fattezze di un grosso rettile ha dato il nome alla “sala del coccodrillo”; a questa e alle altre formazioni calcaree, i differenti minerali filtrati con l’acqua hanno attribuito le colorazioni più varie. Più avanti una “Madonnina” si eleva in un limoneto, bianche stalattiti che invitano a raccogliere i loro frutti; una “bottiglia con la cannuccia” è sottolineata dalle luci sapientemente disposte; il gioco di chiaroscuri e controluce sottolinea fogge ed evidenzia sagome anche nella prossima “sala”, un’ampia stanza in cui pic-

cole e grandi stalattiti sembrano prestarsi a rappresentare un presepe, contribuendo finanche a mantenere le proporzioni tra i “pastori” vicini al sentiero e quelli in lontananza. Ma l’ambiente più imponente è la caverna Bertarelli, 40 metri d’altezza che ospitano enormi colonne, confluenze di stalattiti con stalagmiti, cresciute in qualche milione di anni di percolamento dell’acqua attraverso le fessure della roccia. Tra i boschi di tronchi calcarei e le mille altre forme che si individuano in questo ampio spazio, una si impone più di tutte per grandezza e posizione, ma anche per la foggia assunta: la “pagoda”, maestosa stalagmite che somiglia a una costruzione orientale, un tetto conico fortemente proteso verso l’alto. Le stalattiti della volta successiva riportano invece alla mente scenografie vicine al mondo del Cilento, come quegli ambienti dedicati alla stagionatura dei “salami”. In occasione della visita di Umberto II di Savoia, allora pretendente alla corona d’Italia, i cittadini di Castelcivita gli intitolarono le grotte; queste furono in seguito rinominate - per ovvi motivi -, ma al principe di Piemonte è rimasta dedicata una sala. Da questo antro si intravede, a un livello superiore, la “caverna Boegan”, con le sue “cariatidi” e un’irta “guglia”. Poco dopo, si interrompe il percorso per i visitatori ma la cavità si sviluppa ancora per circa 4 chilometri: un inabissamento della grotta costituisce il confine naturale tra lo spazio accessibile a tutti, e quello in cui solo esperti speleologi possono inoltrarsi. A loro è concessa in esclusiva la bellezza delle formazioni calcaree della parte meno praticata, e dunque più incontaminata, con una grande cascata e altre meraviglie modellate dall’acqua e dal calcare: un “tempio” formato da una splendida pietra bianca, un “battistero” con tanto di altare e organo, il “ratto delle Sabine”, e poi affascinanti concrezioni madreperlate, fino al “lago terminale”. Un altro meraviglioso viaggio nelle viscere della terra è possibile non lontano da qui. Un percorso sotterraneo, non meno suggestivo del primo, che si sviluppa tra il comune di Pertosa, nel quale si apre l’ingresso, e quello di Auletta, le grotte dell’Angelo. Un sistema di gallerie sotterranee che si sviluppa per 2.270 metri: siamo sul pendio

opposto degli Alburni, quelli che guardano a Oriente e al Vallo di Diano. Un varco, alto circa 20 metri e largo una quindicina, dà accesso a uno spazio sotterraneo insolito: immediatamente si incontra un lago ipogeo, le cui acque trasparenti si tingono, attraverso giochi di luce, di un verde smeraldino. La guida - un Caronte che ricongiunge gli uomini con la madre terra - conduce con una barca all’altra sponda, e l’itinerario continua tra suggestioni sotterranee: una cascata formata dalle acque del fiume che un tempo si chiamava Negro, nei secoli trasformatosi in Tanagro, “tana oscura”, dà imponente spettacolo di sé. Qui, nel Braccio della Sorgente, siamo solo agli inizi del percorso, che è nel contempo un cammino attraverso le gallerie delle nostre sensazioni, i labirinti della nostra anima, i tunnel della nostra mente. Anche qui come a Castelcivita, siamo noi ad attribuire significato alle forme, in quel continuo tentativo di dare una risposta a ogni cosa, anche a quelle che non ne hanno, né probabilmente ne vorrebbero. Per trentacinque milioni di anni l’acqua è penetrata in questi immensi antri attraverso le fessure della montagna, trasportando con sé il calcare raccolto strada facendo: depositandolo, ha creato meravigliose opere scultoree. Trentacinque milioni di anni in cui le rocce hanno trasudato acqua, instancabile, questa, nel suo filtrare, stillare, plasmare. Un percorso senza sosta che nei millenni ha lasciato tracce di sé, segni forti e aspri. Una misura della tenacia con cui la natura ha dovuto lavorare, la si può avere se si considera che sono necessari dai quaranta ai cento anni affinché una stalattite cresca di un solo centimetro. Al lago e alla cascata succede un paesaggio lunare, con pareti e volte costellate di “fiori” e “spugne”, qui non vegetali ma calcaree. Il sentiero sotterraneo delle grotte di Pertosa conduce attraverso selve di stalattiti dalle più varie colorazioni, anche qui dovute ai diversi minerali che filtrano dalla terra. Ancora a sorprendere sono delle formazioni orizzontali, cresciute sfidando le leggi di gravità perché così hanno voluto forti correnti d’aria sotterranee. La fantasia degli uomini ha trovato ampio sfogo nell’attribuire somiglianze alle concrezioni: dall’occidente cristiano emergono “Gesù crocifisso”, la “Madonna”,

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La sala delle spugne nelle Grotte dell’Angelo.

“San Gennaro”, mentre dal mondo orientale riprendono forma un “elefante” e una “sfinge”; e ancora una “cascata dei diamanti”, una “prua sgocciolante della nave” e, nella loro possenza, le “colonne d’Ercole”, che furono limite invalicabile per le imbarcazioni e il pensiero umano. Spettacolare è l’ambiente in cui, piccole vasche formate dal calcare, ospitano degli specchi d’acqua, quasi terrazzamenti asiatici per la coltura del riso, da cui il nome “sala dei laghetti”. E ancora, segue quella delle “spugne”, un insolito e quanto mai surreale paesaggio, in cui spugne di pietra definiscono un pavimento formato da piccole fosse irregolari. A conclusione, la “sala delle meraviglie”, un nome mutuato dal candore della roccia che ne impre-

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ziosisce le pareti. Le cavità di Pertosa sono conosciute come grotte dell’Angelo: un culto antichissimo vede, in molte caverne, gli accessi agli Inferi. All’arcangelo Michele, che con la sua spada trafisse e uccise il demonio trasfigurato in drago, è attribuito per sempre il compito di difendere gli antri. Da secoli, il lunedì di Pasquetta numerosi pellegrini, provenienti da tutti i paesi della zona, si recano a Pertosa: vanno a visitare il tabernacolo di San Michele e a rendere omaggio all’arcangelo, rappresentato in una scultura posta all’interno delle grotte. Già molto tempo prima dell’era cristiana questo antro era conosciuto e praticato: i resti di una palafitta testimoniano di frequentazioni delle epoche neolitica ed

eneolitica; in strati superiori, gli archeologi hanno rinvenuto terrecotte, bronzi e monete, tracce inconfondibili di gente che qui soggiornò in epoca classica. E poi, seguendo lo svolgimento degli eventi storici, i primi cristiani trovarono rifugio in questa cavità, una rientranza della roccia fu oscura abside in cui essi diedero vita al loro culto proibito. Il particolare interesse suscitato dalle grotte di Pertosa è, dunque, non solo geologico per il suo insolito lago ipogeo e le formazioni calcaree, ma anche paleontologico, perché la sua storia partecipa di quella dell’intero territorio degli Alburni e del Cilento. Ulteriore riprova della profonda simbiosi tra natura e uomo, che per millenni ha abitato queste incantevoli terre.


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