Jazz e non solo jazz a Perugia e dintorni (storia della Perugia BigBand)

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PREFAZIONE

Orchestra Bruttini - anno 1933

1 Cfr. la mia postfazione (intitolata La radio al tempo della guerra) al volume di Roberto Rizzi Onde…libere. Giornalisti, emittenti, trasmissioni nell'Italia liberata 1943-1945, Era Nuova, Perugia 2002. 2 Le varie ipotesi la associano a danza afro-americana, o ne riferiscono il significato sessuale. Sembra invece certo che storicamente il termine fu reso popolare nel 1917 ad opera della Dixieland Jazz Band, orchestra di musicisti bianchi trasferitisi dalla natia New Orleans a New York. 3 Le origini africane e la connessione con la sub-cultura degli schiavi negri sono innegabili. "Ma l'ascoltatore più attendo coglierà nel jazz l'eco di influenze più europee che africane; di canti popolari inglesi, scozzesi, irlandesi, francesi, tedeschi e persino balcanici, più che l'eco della musica della jungla e delle colonie costiere da cui provenivano le navi di schiavi". (Barry Ulanov, Manuale del jazz, Feltrinelli, Milano 1960, p. 9).

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Il tempo trascorso dalla conclusione della seconda guerra mondiale, e la recente rottura dei precari equilibri geopolitici che ne seguirono - con le conseguenti implicazioni di rancori ideologici e di chiusure settarie - ci hanno, se non fatto perdere, quanto meno annebbiato una sensazione che dovrebbe invece apparirci chiara alla mente. Per coloro che, come me, sono nati alla vigilia dell'immane conflitto, e sono cresciuti durante il periodo della difficile e dolorosa ricostruzione, c'è una sorta di colonna sonora che accompagna la stagione che porta dall'infanzia all'adolescenza. Due musiche, due ritmi, due balli ne segnano infatti i termini: da un lato il boogiewoogie, dall'altro il rock and roll. Furono la radio e il cinema ad aprire, ad una generazione già vestita con le divise di "figli della lupa" e di "piccole italiane", gli orizzonti inaspettati di quel mito americano poi rimeditato sulle pagine di Pavese e di Vittorini. Del mio rapporto con la radio ho scritto di recente 1. Le note di In the Mood suonate dall'orchestra di Glenn Miller io le sentii sprigionarsi da quella scatola magica, anche se visivamente le associo ad una jeep carica di soldati americani incontrata sul greto del fiume Vomano, che si cercava di guadare dopo che i nazisti in ritirata ne avevano fatto saltare il ponte. Ricordo le parole e i gesti di saluto, l'okay fatto con l'indice ed il pollice a cerchio, il sorriso che tramutava i temuti nemici in alleati con cui si sarebbe potuto costruire un futuro di libertà. E il pegno di questa speranza erano appunto quelle note che la radio ripeteva con scandalo dei benpensanti; rese tangibili e concrete da balli scatenati che mi limitavo a guardare con invidiosa ammirazione, così diverse dalle canzoni melodiche e dai balli compassati che continuavano a dominare approcci, sentimenti ed emozioni di un popolo ancora povero, illetterato, prevalentemente contadino. Ero ancora troppo piccolo per cogliere appieno ciò che stava avvenendo attorno a me. Non conoscevo neppure ciò che significasse la parola jazz 2 , quali contrasti razziali e sociali adombrasse la sua storia, come si fosse sviluppato attraverso i canti di lavoro e di preghiera che prendevano forma nelle piantagioni di cotone (i blues), nelle chiese congregazioniste (i gospel), o nei compiacenti ammiccamenti del piano di compagnia ai fugaci incontri delle case di tolleranza (il ragtime) 3. Solo molto più tardi avrei capito che la diffidenza di cui questo genere musicale veniva circondato era una tossica eredità del passato regime: e ancor oggi provo un senso di vergogna a rileggere le missive che studenti liceali o universitari (alcuni dei quali divenuti "da grandi" punte di diamante dello schieramento progressista) inviavano ai giornali deprecando il diffondersi della musica cacofonica ebraica e negra di contro alla tra-


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