Firenze dispari #05b

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Che sinistra?

Fabio Bertini, Claudio De Boni, Antonio Floridia e Matteo Pucciarelli #05, luglio 2014


Che sinistra dopo il voto del 25 maggio? Non è un inutile dubbio sofista o un passatempo per intellettuali impegnati. È “la” domanda che deve indirizzare le scelte del futuro, europeo e nazionale. Perché le ultime elezioni europee – come viene ben spiegato nei contributi che andrete a leggere – hanno delineato quale sarà la destra del prossimo decennio: un rassemblement variegato spinto ancora di più verso uno pseudo liberalismo (già economicamente fallito) e guidato da profondi sentimenti xenofobi, non solo verso “l’extraeuropeo” ma anche contro tutto quello che arriva da oltre frontiera.

Per questo la domanda “che sinistra?” diventa preliminare rispetto a qualsiasi prospettiva riformista e non è solo una questione riservata a minoranze partitiche o a cartelli da far sorgere a pochi mesi da un turno elettorale. Perché la sinistra nell’azione di un governo, o in quella di una amministrazione, non può essere risolta in una serie di interventi privi di chiara connessione tra di loro, quindi senza che sia evidente ed esplicito quale sia il disegno complessivo. In altre parole quale sia l’Italia e l’Europa che vogliamo realizzare, non a parole ma con precise azioni di Governo.

In questo numero di Firenze Dispari proponiamo perciò una serie di spunti utili a ragionare e riflettere su tutto questo. Quello che viviamo è un periodo di forte cambiamento e perciò profondamente incerto negli esiti. La posta in gioco è molto alta, e non riguarda solo il destino delle forze partitiche attualmente presenti o il futuro dei singoli leader. Oggi, più che in passato, si pongono le basi e si decide quale sia la direzione da intraprendere. I contributi di Fabio Bertini, Claudio De Boni, Antonio Floridia e Matteo Pucciarelli hanno il pregio di imporre una riflessione e di offrire stimoli in questo senso.

Indice [•]  Editoriale di Claudio Fantoni  |3| [•]  Tra il liberismo e i diritti del lavoro: il coraggio della cultura di Fabio Bertini  |4| [•]  L’avanzata delle destre in Europa: quali sfide per la sinistra? di Claudio De Boni  |9| [•]  Il voto del 25 maggio e la volatilità elettorale di Antonio Floridia  |14| [•]  Che sinistra dopo il 25 maggio? di Antonio Floridia  |19| [•]  La sinistra di Tsipras e quella del futuro di Matteo Pucciarelli  |24|


Editoriale   La situazione politica italiana è a dir poco anomala. Così è certamente da “mani pulite” in poi. Una lunga stagione caratterizzata da interessi sociali contrapposti ma scarsamente chiari nella rappresentanza, se non si guarda a quelli personali invece chiarissimi. Una costante domanda di credibilità e un rinnovarsi continuo di offerte che alla fine hanno e potrebbero continuare a tradire le aspettative. Comunque ricerca e investimenti su leader, pochi reali progetti, quantomeno non facilmente descrivibili per, in diversi casi, incapacità di comunicazione, assenza di trasparenza o banalmente per carenza di sostanza.   Se c’è qualcosa che non ci siamo fatti mancare invece sono stati gli scontri, feroci e virulenti. Talmente distanti dell’interesse comune da mettere ripetutamente in discussione la tenuta costituzionale, quasi risiedesse in questa il problema e non nel carrierismo dilagante e la corruzione diffusa. Il tutto contornato da una serie ininterrotta di rinnovati fenomeni di suggestione collettiva utili a distrarre l’attenzione dal merito delle questioni, dall’approfondimento necessario e dal dovere di spiegazione. Tanto che oggi basta dire che per fare buona politica, per fare ripartire il Paese occorre fare le riforme. Poco importa spiegare esaustivamente quali, con quali scopi, quali conseguenze e per la realizzazione di quale modello di società. La politica italiana sembra, sorprendentemente, avere fatto proprio uno dei motti fondanti del

protestantesimo: “Ecclesia semper riformanda est”. Nel nostro caso: la politica non può essere che riformista. Tutti paiono essere d’accordo ma è proprio questa la ragione, nella misura in cui non si chiarisce quali siano gli obiettivi, per cui i conti non tornano.   Se Mario Monti sostiene, come ha fatto, di condividere totalmente le riforme proposte dal PD di Renzi, significa che Monti non ha capito cosa dice Renzi o che Monti è, a sua insaputa, un uomo di sinistra oppure che le riforme che propone questo PD vanno bene a tutti. E allora la domanda diventa: di che sinistra stiamo parlando? Perché il riformismo ecumenico universale forse si può raggiungere sulle riforme istituzionali e di legge elettorale (nel nostro caso sarebbe da aprire un capitolo a parte sulla questione) ma certamente non sulle politiche sul lavoro, l’economia, in generale un’idea di società. E se a Monti, emblematicamente, va tutto bene e il suo elettorato ha votato in massa questo PD, non siamo solo alla realizzazione del sogno a vocazione maggioritaria predicato da Veltroni, stiamo scivolando “lievemente” verso l’idea di partito unico. Un Partito capace di attrarre voti e questo è bene “ma anche” (sempre veltronianamente) di assorbile interi blocchi sociali che in natura hanno interessi legittimi ma contrapposti.   Ecco perché, a costo di sembrare ossessivi, occorre domandarsi: che sinistra? Claudio Fantoni


Tra il liberismo e i diritti del lavoro: il coraggio della cultura di Fabio Bertini Professore di Storia contemporanea dell’Università di Firenze

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Può Firenze contrapporre il suo potenziale e la sua storia ai processi del liberismo globale? Se è vero che la globalizzazione rende impossibile capire chi dirige i processi produttivi, Firenze è o no in quel processo? Affermativo. Lo è per il ruolo che occupa nella cultura mondiale, per le sue eccellenze produttive, per una cultura del lavoro che ha un pregresso storico impressionante. Dovremmo chiederci che quartiere rappresenta Firenze nella città globale, un quartiere bene, una periferia disordinata, una bidonville? La risposta dipende dall’equilibrio tra sviluppo e occupazione che si realizza, ma è certo che una città così particolare è in grado di guardare alle cose a partire dal suo background di cultura e di valore-lavoro. Per farlo deve saper coniugare con orgoglio risposte nuove. Essere in grado di produrre, commerciare, fare know how, è un requisito, l’altro è avere una vita economica e sociale solida e serena e questo riguarda la condizione dei lavoratori. Niente di male se si ingrossa l’economia del terziario, purché non si svuoti il beneficio patrimoniale degli occupati, che significa case, progetti, circolazione del denaro, capacità d’acquisto, solidità delle posizioni, in definitiva città ordinata e vivibile. Niente di male, se la capacità di produrre cultura si trasferisce in dignità dell’occupazione, e ciò richiede, prima di tutto, un


tasso elevato di solidarietà consapevole e perfino “egoista”, se chi ne ha la possibilità sa che offrire lavoro è un investimento. Ma questa cosa è compatibile con lo spirito del liberismo che, da sempre, si è definito con la metafora della mano invisibile? Ed è compatibile con la deregulation che ne è stata da sempre il braccio armato? La globalizzazione investe le città secondo codici suoi, che prevedono la destrutturazione delle attività produttive, la riduzione ai minimi termini dei diritti dei lavoratori, la precarietà del lavoro.   E qui sta il punto. Se c’è un problema che sovrasta gli altri, è la mancanza di memoria storica che ci rende schiavi di concetti altrui. E non è cosa da poco perché perdere il senso delle proprie radici significa per una città del lavoro rendersi corresponsabile del declino della democrazia. Come dimenticare che, fino dagli albori della rivoluzione industriale, tenere insieme i diritti, i doveri, i bisogni, la condivisione degli obbiettivi, l’importanza del “valore-lavoro”, è stato storicamente l’indispensabile strumento di progresso e di crescita della democrazia?   Fin dalle origini, il liberismo, in qualsiasi forma si sia proposto, ha criminalizzato la contrattazione e il sindacali-

Dovremmo chiederci che quartiere rappresenta Firenze nella città globale, un quartiere bene, una periferia disordinata, una bidonville?


Che cosa può fare dunque Firenze, quartiere pilota della città globale, a fronte di tutto questo? Può essere protagonista di un recupero della memoria e di un rilancio di cultura politica

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smo, tanto che, prendendo a base simbolica l’uscita del libro di Adam Smith sulla ricchezza delle nazioni, nel 1776, ci vollero diverse decine d’anni prima che l’associazione in Inghilterra non implicasse processi e tribunali, e ancor di più in Francia. Il liberismo è antico e a suo modo nobile, ma i frutti migliori sono venuti quando è stato fronteggiato da una cultura sindacale adeguata a contrattare strategie e condizioni, e comunque affrontato da un riformismo rispettoso dei diritti dei lavoratori.   La caduta di valori di quella che un tempo si chiamava classe operaia può anche essere ricondotta alla cosiddetta fine del sistema di fabbrica, ma si tratta di una visione miope perché la fabbrica ha mutato nei volumi e nello spazio. Oggi è la città stessa ad essere fabbrica e dunque luogo di contrattazione del processo produttivo, come città globale e come quartiere della città globale, dove le persone vere misurano l’esistenza. Il problema è tornato ad essere riconquistare l’associazione e i diritti a partire dalla città. Si tratta di sfuggire le parole d’ordine ingannevoli, e sperimentare all’interno delle città una robusta


Tra il liberismo e i diritti del lavoro: il coraggio della cultura

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pelle riformista – restituendo però alla parola riforma tutta la sua sostanza progressiva e democratica, troppe volte usurpata – misurandosi pure con le nuove forme della comunicazione, ma tenendo insieme la gente per ricostruire la democrazia intorno a poche e chiare parole.   Che cosa può fare dunque Firenze, quartiere pilota della città globale, a fronte di tutto questo? Può essere protagonista di un recupero della memoria e di un rilancio di cultura politica. Dimostrare che, per vincere le crisi, il nodo più vero da affrontare, prima ancora di quello economico, è la sfida della cultura politica e cominciare a darsi un programma esemplare che coniughi “solidarietà egoista”, sicurezza del lavoro, capacità di far vedere che l’intervento pubblico è il primo e fondamentale contrasto alle sregolatezze della mano invisibile. Significa, insomma, essere esempio autorevole per storia e cultura di un fare non liberista, ma liberale con anima sociale e democratica.



L’avanzata delle destre in Europa: quali sfide per la sinistra? di Claudio De Boni Professore di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Firenze

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Uno dei dati più eclatanti delle ultime consultazioni europee, vale a dire l’avanzata elettorale delle destre in vari paesi (ma in particolare in stati “fondatori”, pur in modo diverso, dello spirito democratico come Francia e Inghilterra), mi sembra non valutato con la necessaria drammaticità dagli osservatori e dalle forze politiche di casa nostra. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che le aspettative di ascesa delle forze dichiaratamente neofasciste o neonaziste sono state ridimensionate da risultati elettorali al di sotto delle previsioni: per esempio in Grecia. E al fatto che la protesta antieuropeista non ha assunto in Italia forme che rimandino in modo aperto a una qualche continuità con la tradizione autoritaria novecentesca, essendo rimasta appannaggio di schieramenti politici dai contorni ideologici tutto sommato labili, come la Lega e i Cinquestelle (ma la corsa a Farage di Grillo a urne appena chiuse vorrà pur dire qualcosa…). Resta però, squillante, il campanello d’allarme, aggravato dall’enorme sacca di scontenti cui una protesta dalle aspirazioni irrazionali ma dal fondo reale potrebbe attingere in futuro: vale a dire quell’astensionismo che si è rivelato di gran lunga, in Europa, il primo “partito”. Va aggiunto che il problema non è di spiegare come mai una parte consistente dell’elettorato abbia scelto una linea apertamente an-


Il problema è di capire come mai, con l’eccezione della Grecia, lo spirito anticomunitario abbia assunto orientamenti e simbologie di destra

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tieuropeista: la crisi economica e sociale che il continente attraversa e la chiusura burocratica delle autorità comunitarie giustificano ampiamente il fenomeno. Il problema è di capire come mai, con l’eccezione della Grecia, in cui una leadership all’altezza ha saputo convogliare la protesta verso sinistra, lo spirito anticomunitario abbia assunto orientamenti e simbologie appunto di destra.   Fra gli altri, due sono gli atteggiamenti che a mio parere più alimentano l’ascesa della destra: la polemica contro i protagonisti della democrazia rappresentativa (parlamenti e partiti), incolpati di essere strumenti di disgregazione e di corruzione; e la chiusura nei confronti del “diverso”, sia essa di tipo razziale, culturale, religioso. Sui caratteri costitutivi del sentire di destra, le risposte della sinistra sono quasi sempre di principio: esaltazione delle libertà democratiche contro le pulsioni totalitarie, apertura al mondo contro i ripiegamenti nazionalistici, umanitarismo contro razzismo, uguaglianza contro gerarchia. Tutto giusto e opportuno. Ma il buon senso storico ci suggerisce che se le idee non si incrociano con l’esperienza quotidiana, non si trasformano almeno in parte in politica effettiva, diventano presto una vuota retorica.


L’avanzata delle destre in Europa: quali sfide per la sinistra?

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Sul primo punto, quello della corruzione del sistema politico esistente, penso ci sia poco da dire. Che sia, almeno in Italia, la questione delle questioni, la cui soluzione fa da presupposto a qualsiasi altra politica, mi sembra pacifico. L’unica notazione in proposito è che l’obiettivo della riduzione dei costi “puliti” della politica, pure necessaria e oggi ancora su deboli inizi, è una parte riduttiva di un necessario progetto di controllo e prevenzione di quella enorme massa di denaro pubblico impiegato e sprecato per alimentare clientele, distorsioni, delinquenze varie.   Più complesso è parlare del secondo punto, che chiama in causa anzitutto gli intensi fenomeni migratori degli ultimi anni e che richiederebbe ben altra attenzione rispetto a quella che lo spazio qui impone. Anche in questo caso la risposta ideale è doverosa, ma si deve confrontare con la realtà di un evento come lo spostamento di masse considerevoli di popolazione di etnie e culture diverse, che è sempre stato, ed è inevitabilmente, fonte di tensioni. E lo è ancor più rispetto a società, come la nostra, già deboli di suo in quanto a coesione sociale, occupazione, legalità e così via. Non comprenderlo è il primo passo per lasciar sviluppare sentimenti pericolosi da una parte e dall’altra, di rigetto in chi è nel territorio e di frustrazione in chi arriva. Una politica di sinistra, che per me dovrebbe comunque essere una politica che aspira a governare i fenomeni, intanto non dovrebbe continuare a considerare di fatto l’immigrazione un fattore esogeno, sui cui flussi non si possa minimamente intervenire. Certo, occorrerebbe in proposito una politica internazionale autorevole, superiore giocoforza alle possibilità di intervento e di disciplina degli stati nazionali. Ma è troppo chiedere alla sinistra almeno di non continuare ad accodarsi ad una politica occidentale che da un trentennio, quasi solo per ragioni di imperialismo economico, destabilizza mezzo mondo senza curarsi


minimamente delle conseguenze? L’altra faccia del problema è invece di competenza anche delle forze politiche nazionali (e locali), ed è quello dell’accoglienza. Se accoglienza vuole essere (e deve essere, ovviamente), occorre che sia veramente tale, all’interno di un riconoscimento equo di diritti e di doveri attraverso il quale passi un’autentica integrazione. Il che vuol dire protezione sociale, servizi, lavoro, istruzione, revisione dei criteri di accesso alla cittadinanza, e in cambio promessa di legalità e rispetto dei criteri del buon vivere civile. Ci ho provato: ma ancora non riesco a far mia l’ipotesi che di fronte alle grandi e piccole disgrazie che si accompagnano, seppur in modo non esclusivo, all’immigrazione (dalla schiavitù del caporalato alla mendicità più o meno organizzata, dal bivacco permanente nelle piazze alla raccolta nei cassonetti della spazzatura) girare la testa sia una scelta di sinistra. È solo un regalo alla destra.

Se accoglienza vuole essere (e deve essere, ovviamente), occorre che sia veramente tale, all’interno di un riconoscimento equo di diritti e di doveri attraverso il quale passi un’autentica integrazione



Il voto del 25 maggio e la volatilità elettorale di Antonio Floridia Direttore dell’Osservatorio elettorale della Regione Toscana

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L’analisi del voto del 25 maggio, man mano che sono disponibili studi e ricerche più approfondite, si presenta piuttosto semplice: tutt’altro che semplice, invece, è la discussione sulle implicazioni politiche di questi risultati.   Dal punto di vista dell’analisi del voto europeo, si fa presto ad elencare i fattori e i fenomeni che spiegano il risultato: a)  la presenza di un “astensionismo asimmetrico”: ossia, il calo dei votanti non si è distribuito uniformemente tra le forze politiche, ma ha “colpito” alcune di esse più di altre. In particolare, sono stati ex-elettori del centrodestra e, in una certa misura del M5S, a far crescere la percentuale dei non-votanti; b)  l’elevatissimo livello di “fedeltà” degli elettori del PD; c)  tuttavia, in presenza di un elevato astensionismo, soltanto la “tenuta” degli elettori PD del 2013 non sarebbe stata sufficiente ad ottenere quella percentuale così elevata (40,8%) che è apparsa così sorprendente. Il PD acquisisce “in entrata” oltre due milioni e mezzo di voti “nuovi”, che provengono in particolare (e il dato è confermato da tutte le analisi dei “flussi” nelle varie aree del paese) dall’area centrista di “Scelta civica”, praticamente “prosciugata”, e solo in parte da ex-elettori del M5S (molti meno di quanti si è detto o sperato…); d)  infine, il quadro non sarebbe completo, se non si rilevasse un altro fenomeno, che peraltro suona come una conferma di


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un dato “storico”: sono pochissimi gli elettori di centrodestra che “passano” direttamente al voto per il centrosinistra; e)  solo un clamoroso errore politico di Grillo (avere alzato le aspettative e usato toni aggressivi) ha permesso di leggere come una “sconfitta” il risultato del M5S: che, in realtà, ottiene un risultato tutt’altro che scontato e irrilevante. Soprattutto, emerge un dato: “la cultura”, la visione delle cose, che trasmette Grillo continua ad avere una forte presa in vasti strati dell’elettorato e non sembra destinata a dissolversi tanto facilmente.   Il voto amministrativo, poi, presenta alcune peculiarità: nel complesso, il centrosinistra guadagna il controllo di molti nuovi Comuni, ma il dato più evidente è l’elevatissimo numero di “ribaltamenti”, specie in occasione dei ballottaggi. Non sono ancora disponibili dati completi, ma vi è poi un altro fenomeno da segnalare: la drastica riduzione del voto “personale” ed “esclusivo” ai candidati sindaci. A spiegare questo dato, vi è una ragione “tecnica” (la nuova struttura della scheda, che non facilitava l’espressione di un voto al solo candidato), ma anche un dato politico: è cresciuta la frammentazione dell’offerta (il numero delle liste in gara) e conseguentemente ha pesato molto di più la competizione tra i candidati alla carica di consigliere.   In generale, e anche per il PD, vi è una notevole disparità tra il voto “politico” e il voto amministrativo: anche qui una conferma di un dato oramai strutturale del comportamento elettorale, ossia la progressiva estinzione di una tipologia di voto tradizionalmente definito di “appartenenza”, ossia un voto motivato essenzialmente da un’affermazione di un’identità politico-culturale, quale che fosse l’“arena” elettorale, nazionale o locale. Se un voto “ideologico” permane, si potrebbe dire anzi che va cercato a destra: nella fedeltà indiscussa che una fetta consistente di elettori, nonostante tutto, continua a dimostrare nei confronti di Berlusconi.


Il voto del 25 maggio e la volatilità elettorale

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In questo quadro, anche la progressiva caduta della partecipazione elettorale va vista in modo “disincantato”: non sempre e non necessariamente, come un allontanamento dalla “politica”, ma come un rifiuto specifico dell’“offerta” presente in quel momento. Accanto ad un astensionismo “strutturale” (elettori, cioè, che non vanno più a votare), c’è una quota crescente (stimabile intorno al 20% dell’elettorato) di astensionismo “intermittente” (elettori, cioè, che decidono di volta in volta se andare a votare). Si tende poi a giudicare l’astensionismo come un distacco “dai partiti”, o una protesta “contro i partiti”: in realtà vale anche l’opposto, ossia la sempre più debole presenza organizzativa dei partiti impedisce che la politica giunga a coinvolgere anche gli elettori “marginali”, quelli meno motivati, quelli che non seguono i talk-show televisivi…   Ma il dato saliente di questa tornata elettorale va visto nella crescente “volatilità” dell’elettorato: lo scorso anno si stima che circa il 40% degli elettori abbia cambiato voto e quest’anno sembra che ci si avvicini ancora a questo dato. Non solo, ma sembra che una fetta consistente degli elettori decida se e come votare negli ultimi giorni, o addirittura nel momento di entrare in cabina.   Ci sono due diverse scuole di pensiero, su questo punto: ci sono i cantori della politica “post-ideologica”, secondo cui questo elettore “volatile” sarebbe un prototipo di cittadino oramai svincolato da logiche ideologiche, che vota sulla base delle idee e delle proposte che trova “sul mercato”, che si muove libero da ogni pastoia….Ci sono, invece, coloro (e io mi considero tra questi) che non giudicano questa volatilità come un dato rassicurante per la nostra democrazia. La spiegazione della “volatilità” elettorale ci sembra un’altra: siamo di fronte ad un’opinione pubblica senza oramai stabili riferimenti, dis-orientata, esposta alle più svariate e improvvise suggestioni…   La chiave per comprendere l’esito del voto, insomma, si può racchiudere in una sorta di equazione: partiti dalla debo-


Partiti dalla debole identità politica e culturale, sommati ad elettori senza più appartenenze stabili, producono una miscela esplosiva di volubilità e aleatorietà

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le identità politica e culturale, sommati ad elettori senza più appartenenze stabili, producono una miscela esplosiva di volubilità e aleatorietà. Si può esaltare questo fatto e pensare di essere oramai entrati trionfalmente nell’era “post-moderna”, e che in futuro avremo a che fare solo con elettori dalla soggettività contingente e mutevole; si può pensare invece che tutto ciò non sia affatto rassicurante per la nostra democrazia; e che ci si debba porre il problema di ricostruire dei partiti: rinnovati quanto si vuole, ma degni di questo nome.   Ma, quale che sia la lettura che si dà di questa volatilità, un dato è certo: il voto del 25 maggio è un voto “infido”, un voto ben difficile da “stabilizzare”. E Renzi, a differenza di altri, mi sembra lo abbia ben capito, mostrando una certa prudenza. È inevitabile, tuttavia, chiedersi come il PD possa pensare di consolidare questa “onda anomala” di cui ha beneficiato. La risposta più comune, a cui anche Renzi indulge, è quella di dire: “non bisogna deludere le speranze suscitate”…e quindi non resta altro da fare che “accelerare”… “fare le riforme” (ma quali, e come?). Ora, senza dubbio, una parte della scommessa (ed è una scommessa al alto rischio) il PD di Renzi la può giocare e sperare di vincere sul terreno dell’azione di governo e dei risultati che riesce a “portare a casa”… E non sarà facile, come sappiamo.



Che sinistra dopo il 25 maggio? di Antonio Floridia Direttore dell’Osservatorio elettorale della Regione Toscana

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La politica italiana vive, oramai da due decenni, sulla speranza salvifica che viene affidata ad un leader: ora sono Renzi e il PD a beneficiare di questa propensione (che per molti italiani è anche un alibi) a “delegare” ad un leader la soluzione dei problemi.   Anche il successo di Renzi si può leggere all’interno di quello che è stata una “narrazione dominante” nella politica italiana. Occorre quindi chiederso: quale è stato il “discorso pubblico” dominante? Ossia: quali sono state le idee, gli schemi interpretativi, il “senso comune”, con cui si leggono le vicende politiche e sociali del nostro paese?   Si potrebbe dire che lo schema di gran lunga prevalente è quello tipico del “populismo”, ma occorre chiarire il senso di questa categoria. Possiamo fissare alcuni punti fermi. Il populismo è, innanzi tutto, una sorta di “racconto”, una narrazione con cui si propone una visione della politica. Questo racconto ha alcuni passaggi-chiave. Il primo è quello che contrappone “noi” e “loro”: “noi” cittadini comuni (un corpo indistinto, senza interne differenze di idee ed interessi) e “loro”, le élite e le “caste” (non sono quelle politiche, ma anche quelle intellettuali). Il secondo punto è un’idea dei problemi che la politica deve affrontare come di una questione “semplice”: per risolverli,


Che sinistra dopo il 25 maggio?

basta la buona volontà, uno spirito decisionista, “tirar dritto”, poche chiacchiere e discorsi, fare le cose e non stare a lì a discutere e a riflettere più di tanto. Le due cose sono collegate: se le cose sono, in fondo, semplici, allora non occorrono partiti, sindacati, associazioni, rappresentanze, “filtri”, regole. Basta “uno di noi” per risolvere i problemi.   Il “discorso pubblico”, in Italia, continua ad essere segnato da questa vera e propria ideologia, e da una cultura politica (mai veramente sconfitta, nella storia del nostro paese) che lega insieme particolarismo e scarso senso civico, nella società civile, e “miopia” politica, nel governo delle istituzioni (ossia, letteralmente, una politica che non sa guardare lontano e non si pone nemmeno il problema). Tutto ciò è oggi aggravato dalla progressiva scomparsa di anticorpi, o di “corpi intermedi”, in grado di introdurre nella sfera pubblica qualche elemento di razionalità e lungimiranza. L’opinione pubblica italiana è “invertebrata”, esposta alle più svariate ondate, volatile e fragile, piena di sospetti e di risentimenti. E, quel che è più grave, la politica insegue questo magma, cerca di adeguarvisi o di sfruttarlo, ben raramente cerca di contrastarlo. Ed è facile quindi innestare un tipico “ciclo” di

Credo che il solo terreno su cui il Pd possa sperare di consolidare questa massa magmatica di consensi sia quello di lavorare seriamente a ri-costruire un “partito”


Nel PD, in realtà, si discute poco e si decide male: non basta affidarsi al mero ruolo di ratifica di organi dirigenti che sono stati eletti come diretta dependance del leader

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entusiasmo e delusioni, di attese e disillusioni. Su questo, il PD di Renzi rischia moltissimo.   Per questo, credo che il solo terreno su cui il PD possa sperare di consolidare questa massa magmatica di consensi sia quello di lavorare seriamente a ri-costruire un “partito”, e un partito degno di questo nome. Ma, proprio su questo terreno, mi sembra che non solo ci sia molto lavoro da fare, ma anche che le idee che sembrano prevalere all’interno del PD non siano affatto consapevoli di quali possano essere le risposte giuste. Non solo: sotto l’ombrello di un “leader vincente”, si vive spesso alla giornata, non si riflette su cosa possa e debba essere questo PD (che giustamente Ilvo Diamanti, chiama “PDR”, il “partito di Renzi”), su quale sia la sua identità politica e culturale, quale “immagine dell’Italia” e della democrazia ne ispira l’azione…   E, soprattutto, quale sia il modo di intendere la “democrazia interna”, il modo di lavorare e di decidere, di questo partito: prevale una interpretazione plebiscitaria della democrazia. Ma davvero, gli elettori delle primarie, e gli elettori del 25 maggio, hanno dato una “delega in bianco” per quel-


Che sinistra dopo il 25 maggio?

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la specifica riforma del Senato? È semplicemente aberrante interpretare in questo modo il rapporto tra il leader e la “folla”… Nel PD, in realtà, si discute poco e si decide male: non basta affidarsi al mero ruolo di ratifica di organi dirigenti che, in realtà, sono stati eletti come diretta dependance del leader, e poi appellarsi alla disciplina di maggioranza. Nessuno mette in dubbio il fatto che, ad un certo punto, una discussione debba sfociare in una decisione: ma chi, e come, ha potuto veramente discutere quella scelta? si è costruito un processo di dialogo veramente inclusivo, che permetta a tutti – anche a chi non si riconoscerà nella scelta finale – di poter dire: “sì, non sono d’accordo, ma ho contribuito alla discussione, e di quel che ho detto si è tenuto conto”?   Se il PD non affronta questi nodi, non riuscirà ad essere veramente una “casa comune”, in cui tutti possano veramente riconoscersi: e sarà ben difficile costruire un legame un po’ più solido con la società italiana, con le diverse tradizioni di cultura politica che la compongono. Se non si farà questo, si potrà sperare solo sulla “tenuta” del traino personale del leader: ma in presenza di questa volatilità”, questi tipi di leadership sono estremamente vulnerabili, e possono improvvisamente rivelarsi molto deboli. È vero che viviamo in un’epoca di personalizzazione della leadership, ma “personale” non vuol dire “solitaria”…



La sinistra di Tsipras e quella del futuro di Matteo Pucciarelli Giornalista de “La Repubblica” e collaboratore di “Micromega”, autore del libro Tsipras chi?, con Giacomo Russo Spena

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Il voto dello scorso 25 maggio visto da sinistra – da tutto ciò che con grande difficoltà vive a sinistra del Pd – ha del miracoloso. Viste le premesse e visto il contesto. Le premesse erano queste: un cartello elettorale, la solita accozzaglia di sigle, di ego spropositati e di grande generosità della base, messo insieme a pochi mesi dal voto, con un nuovo nome, un nuovo simbolo e un riferimento ad un leader sconosciuto ai più. Una unità forzata e forzosa, con una campagna elettorale svolta in molti casi per compartimenti stagni: Sel in funzione dei candidati di Sel, il Prc in funzione dei candidati del Prc, i movimenti con i movimenti. Il contesto, poi: mediaticamente nulli o poco più, oscurati dalla sfida a tre, cioè Matteo Renzi contro Beppe Grillo contro Silvio Berlusconi. Spazio per altre idee, zero. Superare il quorum del 4 per cento era un compito difficilissimo, quindi. Lo si è superato di pochissimo, e dal punto di vista psicologico – abituati ormai a esperienze fallimentari in tema elettoralistico, di consenso – il successo (occorre ribadirlo) è stato enorme. A maggior ragione se il campo larghissimo della sinistra-centrosinistra aveva a fianco dell’Altra Europa con Tsipras un Pd schiacciasassi al 40 e oltre per cento. Il Pd di Walter Veltroni prosciugò l’elettorato della sinistra radicale con molto meno, con il 33 per cento. Lo spazio quindi c’è.


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La possibilità di occupare stabilmente un’area politica esiste, a patto che quel 4 per cento sia considerato un buon punto di partenza e non il punto di arrivo. Il quorum non per eleggere qualche europarlamentare, ma per dare forza e fiducia a un progetto di aggregazione di sinistra. La questione di fondo, il nodo politico mai chiarito e che adesso però dovrà sbrogliato una volta per tutte, è questo: quale sinistra? Con quali idee? E quali obiettivi? Quali ambizioni? Per onore della cronaca, bisogna aggiungere che il momento di piccola soddisfazione post elettorale, è durato un battito di ali. Il sadomasochismo della sinistra ha prevalso su ogni logica, come ormai pessima tradizione. La virata di Barbara Spinelli (candidata di bandiera ma che subito dopo il voto ha cambiato idea e ha deciso di andare a Bruxelles a scapito del candidato di Sel, Marco Furfaro) ha messo e sta mettendo a forte rischio la già labilissima intesa di massima tra forze diversissime tra loro. Ma è inutile aggiungere veleno e rabbia al dibattito. Piuttosto si può imparare una lezione, che poi è quella di sempre e che la sinistra ignora ogni volta: i processi di aggregazione a 3-4 mesi dal voto non funzionano mai né potranno funzionare in futuro. Perché davanti alla prova elettorale si deroga sulle regole, sui metodi, si sorvola davanti ai nodi di fondo e non si fanno i conti con la propria coscienza (politica). Come la sbornia per dimenticare, finito l’effetto i problemi restano tutti lì. E invece di risolverli hai perso altro tempo.   La sinistra non è un accrocchio di sigle né un simbolo sul quale mettere una croce, né il salvatore della patria di turno che deve spiegarti come si fa a superare un quorum. Allora, per una volta, smaltita la delusione: la speranza è che soprattutto la nuova generazione, che ha tempo ed energie davanti a sé, abbia la forza e il coraggio di concepire e mettere al mondo la sinistra che ha in mente - ambiziosa e coerente, nelle pratiche e nelle idee. L’essersi ispirati ad Alexis Tsipras e alla greca


Syriza è un ottimo punto di partenza per immaginare un percorso possibile. Come ha fatto un partito (anzi, una coalizione, la “Coalizione della sinistra radicale”) del 4 per cento a diventare il primo partito della Grecia? Tanti fattori diversi tra loro, insieme ovviamente alla gravità degli effetti della crisi che hanno colpito il Paese, piegato dalle misure di austerità imposte dalla cosiddetta Troika. Ma sul piano strettamente politico, Syriza si è mossa su un piano di aperta e netta ostilità rispetto ad un centrosinistra (incarnato dal Pasok, il partito socialista) che da almeno quindici anni aveva abbracciato le teorie neoliberiste in chiave blariana in campo economico, con in più l’aggravante dell’occupazione sistematica del potere con sistema clientelari e corruzione. Unità della sinistra, poi: sigle politiche lontane tra loro (dai socialisti di sinistra ai trozkisti, dagli ecologisti ai comunisti) riunite dentro una coalizione. Apertura ai movimenti, anche quelli più radicali, alle lotte territo-

L’ambizione di imporre idee e contenuti di sinistra, offrirli con radicalità ma con linguaggi e pratiche nuove al popolo che la sinistra in questi anni ha perso: nei quartieri popolari, nei posti di lavoro, tra i disoccupati e gli studenti


La sinistra di Tsipras e quella del futuro

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riali, aiuti diretti alla popolazione con apertura di ambulatori sociali e l’organizzazione di mercati popolari. Rinnovamento non solo generazionale ma anche nel linguaggio: Tsipras è l’alfiere di una nuova sinistra che pesca soprattutto tra l’elettorato giovanile, che si fa carico della salvaguardia non solo dei “garantiti” ma pure dei nuovi poveri, cioè una generazione senza lavoro né futuro. Non all’insegna di un “riformismo al ribasso” (togliere ai padri per dare ai figli) ma di un capovolgimento del discorso politico e culturale: l’impegno per la costruzione di un altro sistema di valori, di etica, di redistribuzione delle risorse. Occorre tempo e impegno per creare un soggetto della sinistra che possa crescere e mettere davvero radici nella società. Ma il tempo non può non essere è questo. E servono determinazione, coerenza, umiltà e soprattutto ambizione. L’ambizione di non essere relegati al minoritarismo né alla testimonianza. L’ambizione di imporre idee e contenuti di sinistra, offrirli con radicalità ma con linguaggi e pratiche nuove al popolo che la sinistra in questi anni ha perso: nei quartieri popolari, nei posti di lavoro, tra i disoccupati e gli studenti. Una sinistra autonoma al 10-15 per cento non è utopia, ma un obiettivo alla portata: basta vedere le percentuali raggiunte dalla lista nelle grandi città e in quei soli tre mesi di campagna elettorale. C’è un grande mondo fuori dal piccolo recinto delle mille e litigiose sigle della sinistra, ognuna gelosa del proprio orticello. Un mondo che parla e impone lo stesso linguaggio in politica: flessibilità, competizione, prodotto interno lordo, rigore, responsabilità, crescita, privatizzazione, valorizzazione. Chi pensa che contino “prima le persone”, che l’economia sia al servizio della politica e non il contrario, chi non tratta i problemi con i numeri ma guarda alla vita, alle singole vite di ognuno, può e anzi deve trovare uno spazio di confronto comune. Dove le differenze e le biografie non siano un macigno al collo ma una ricchezza condivisa.


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