A million dollar banknote

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AMillionDollarBanknote


Progetto editoriale ideato e curato da Roberta D’orazio ispirato a A Million Dollar Banknote (video version, 2014) di Perfect Swimmer.


Indice Pg. 1: Prefazione. a cura di Roberta D’Orazio. Pg. 5: A Million Dollar Banknote.. Pg. 11: Nucleare di Roberta D’Orazio, foto di Maria Stefania Musmeci. Pg. 17: Perpetum Mobile di Angela Giorgi, foto di Riccardo Ruspi. Pg. 23: Samaya di Chiara Longo, foto di Valeria Pierini. Pg. 30: A Million Dollar Banknote. Pg. 34: Credits. Pg. 35: Bios. Pg. 39: Perfect Swimmer ringrazia.


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Prefazione Non ho mai creduto in Dio, se non per un periodo così breve della mia vita che a stento posso ricordare. Per compensare l'atavica mancanza di un punto di riferimento che vestisse fattezze ultraterrene, ho incessantemente cercato il fil rouge che sapesse unire l'incerto e tumultuoso vagare dell'essere umano alla stabilità vera o presunta della terra e dei paradossi per cui la mutazione è nel mondo attorno a noi incessante, ma spesso troppo lenta affinché possiamo coglierla. O troppo rapida e rovinosa. Ho letto milioni di libri e consultato esperti o filosofi dilettanti per capire dove si trovasse il sostituto della divinità imperiosa che le fascinose favole avevano posto nel regno dei cieli e che il mio appassionato raziocinio non sapeva collocare, la matrice che offrisse un senso alla connessione che pure sentivo ciò che abitava entro e ciò che abitava oltre i miei confini. Non le suggestioni di Talete sull'origine liquida del cosmo, ma il fresco contatto della mia pelle con le carezze di un fiume mi sussurrò all'orecchio che se mai ci fosse un Dio, sarebbe composto in grandi percentuali d'acqua, ovunque presente, nei nostri corpi, nel nutrimento, nella terra che abitiamo, nelle metafore identitarie e sociali di baumaniana memoria. “A Million Dollar Banknote”, è il titolo di un brano di Massimo Tortola aka Perfect Swimmer, compositore e producer italiano che ha trovato a Berlino la placenta in grado di accogliere le sue suggestioni sonore, così simili alle rifrazioni luminose in cui la luce del sole scompone la superficie increspata delle onde. E non mi stupisce la sensazione condivisa, che precede le sue stesse parole, quando mi racconta, riguardo alla genesi del pezzo: “Nel processo di composizione chiamai la parte introduttiva mare d’ inverno. Sentire quei due samples mi evocava visivamente la piccola risacca che si carica e si scarica all’ infinito, sotto un cielo pieno di nuvole e quindi di possibilita` .” A guidare le visioni che spontaneamente il pezzo genera, è il video del filmaker e montatore, Dario Alejandro Barletta, realizzato ben dieci anni fa durante il giro del mondo, perla della cui frenetica bellezza gli occhi non sono mai sazi. “A Million Dollar Banknote nasce come tutti gli altri brani: un bassista due anni fa inizia a mettere su il suo home-studio, poi lascia tutti i progetti in cui suona, si chiude in casa per mesi in modalità monastica e inizia a far girare la giostra dei suoni sull' Appennino Tosco-Emiliano, dove è stato scritto tutto il materiale. 1


Il titolo del brano e ` un omaggio alla sensibilita` , poco conosciuta, di Silvio D’ Arzo, che inizia un suo racconto con qualcosa di simile a [...] da bambino pensavo che un milione di lire fosse un’ unica e gigantesca banconota [...]. Il disco che lo ospiterà avrà 7-8 brani per una durata di circa un'ora; spero sarà un piacevole e disorientante viaggio per l' ascoltatore. È piuttosto denso, pieno di colori e sfumature. Beats e Glitch che si incrociano e si sovrappongono; senza mai dimenticare la parte armonica e melodica. Ci puoi ballare, ascoltarlo seduto sulla sedia del nonno fumando un lungo sigaro oppure mentre passeggi. Per quanto riguarda le mie fonti di ispirazione, il musicista a cui mi sento molto legato è Mick Karn; pur non avendo molto a che fare con l' elettronica, la sua profondità di intendere la musica attraverso l' uso del basso fretless è qualcosa che probabilmente non conoscerò più. Purtroppo è scomparso il 04.01.2011 e l' idea di non poter sentire un suo nuovo disco è a tratti intollerabile. Poi, più nello specifico, direi che ho ricevuto le prime scosse elettroniche con i dischi di Amon Tobin, penso a Bricolage, che quando misi su un impianto composto da 3 casse per basso e una testata, all' interno di una casa ovviamente, pensai sarei esploso da un momento all' altro. Se penso alla pittura, direi che il disco potrebbe richiamare, a volte, l' impressionismo di Prendergast e la mente con molte finestre di Chagall.” continua Massimo. “A Milion Dollar Banknote” è anche il nome di un progetto editoriale composto da un ep/preview del debut album di Perfect Swimmer – comprendente una traccia unica vivisezionata in piccole anteprime e un remix del brano “My story's not my destiny” dei Two Fates – e il qui presente ebook, in cui scrittori e fotografi hanno investito la propria capacità immaginifica con opere ispirate al brano omonimo, voluttuose e mutevoli come acqua che scorra, come quella presente nel video linkato tra le pagine del libro virtuale. La scrittura lineare e al tempo stesso onirica di Chiara Longo ci accompagna in un viaggio metaforico alla scoperta della propria identità, dell'alterità circostante e del tempo, tra disastri naturali veri o presunti che assumono connotati di assoluta normalità da ulteriori punti di vista.

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Accanto alle sue parole, la simbologia iconica di Valeria Pierini (mio infallibile braccio destro, editor di questo progetto e autrice della copertina) accompagna le tre fasi del racconto: dalla costrizione alla scoperta alla consapevolezza, con oggetti non attuali che sleghino la narrazione da un contesto spazio-temporale ben definito. Nella sintassi aulica e magnifica di Angela Giorgi si specchiano le istanze fondatrici della letteratura post-moderna, con una rispondenza continua tra l'emotività deviata della giovane migrante protagonista e una Berlino decaduta, in accordo con le parole del premio Nobel Orahn Pamuk: “Il destino di una città può diventare il carattere di una persona”. O viceversa. I sogni in bianco e nero di Riccardo Ruspi accolgono tali suggestioni, interpretando la vicenda attraverso la rappresentazione del corpo sospeso tra dramma e leggerezza nell'esplorazione ludica e inquietante delle macerie. Il mio è un contributo minuscolo, debitore all'immaginario cyberpunk, ad una certa attitudine alla denuncia sociale, all'interesse smodato per le modificazioni corporee che trasformano la macchina (im)perfetta del nostro corpo in un potenziale luna park che in nome dei differenti approcci può suscitare sgomento o meraviglia. Una sorta di elogio alle differenze, che passa attraverso le visioni atmosferiche di un'anima a me affine: quella di Maria Stefania Musumeci, che nel suo trio di fotografie scattate tra Sicilia, Francia e Inghilterra racconta contrasti atmosferici e atmosfere lunari. A coloro che decideranno di immergersi con noi nelle profondità luminose e austere di questo viaggio, non mi resta che augurare buona lettura, buona visione, e buon ascolto.

Roberta D'Orazio

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A Million Dollar Banknote

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A Million Dollar Banknote, frame da video. 7


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Nucleare di Roberta D’Orazio, foto di Maria Stefania Musumeci

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Mia madre non ebbe disgusto di me quando – ostetrica improvvisata del proprio unico parto – mi vide per la prima volta. Non pensò a me come il frutto dell'abominio, né di una natura per sempre compromessa, nonostante i chilometri di terra arsa e le distese di cemento e fantasmi che circondavano la sua perfetta solitudine. Nonostante il mio aspetto, distante dalle benedizioni degli dei. Ero, del resto, la sua bambina. Diversa, sì, ma non abbastanza da non somigliarle. Non abbastanza da non appartenerle almeno un po'. Così mia madre pensò, piuttosto, di dovermi liberare. Dai pilastri stregati che lei chiamava ancora casa, non era lunga la strada che conduceva alla palude. Se mia madre fosse stata una donna cattiva, l'isinto l'avrebbe guidata da quelle parti. Ma non era il luogo adatto ad una creatura neonata. Così, se io potessi ancora ricordare, vi racconterei di mia madre che, sfidando le ingiurie del vento, correva. Di certo, mi dimenavo tra le sue braccia affaticate dal peso del mio corpo variopinto e bizzarro. Eppure conservo nella memoria atavica il colore violaceo delle nuvole malate e meravigliose che insorgevano maledicendo il nostro cammino, il suono di passi che non avrei mai compiuto ma che pure detonavano più di quanto sapessero fare le perpetue e irregolari esplosioni del cuore cui lei mi stringeva forte, nel timore sensato che io potessi scivolare via. Nessuno mi ha mai parlato di Pryp'jat', fosse anche solo perché nessuno, durante questi anni, mi ha mai parlato. In condizioni totalmente diverse, ho ereditato dalla donna che mi ha messa al mondo una forma di isolamento che tuttavia non mi procura eccessivo dolore.

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Nessuno mi ha parlato di Pryp'jat', ma io so. Per qualche motivo che sono incapace di decifrare, la mia vita è il vaso di Pandora di ricordi che non mi appartengono e che pure io conservo entro i provvidenziali confini delle mie improbabili fattezze. Conosco l'esatto numero dei giorni che dalla mia città natale occorrono per arrivare a Skadovs'k, dove ho trovato una nuova casa che mi ha accolta come se in me non vi fosse irregolarità alcuna. Conosco le sfumature del terreno su cui la vegetazione ostinata reclama il proprio spazio smembrando con veemenza gli edifici fatiscenti che non contemplano la presenza di nuove anime, e resto ammaliata dalle modalità imperiose con cui la natura, così distante da tutto ciò che mi riguarda, impone la propria assurda volontà. Conosco i nomi degli sciacalli che si introducevano nelle abitazioni in pieno giorno, dopo il disastro, certi che nessuno li avrebbe mai disturbati. Trafugavano qualsiasi cosa, dalle mattonelle agli infissi, i mobili e gli indumenti, per venderli a poco prezzo al mercato nero ucraino. Signorina, quel vestitino le sta benissimo! gridava il commerciante alla giovane donna che desiderava un abito nuovo, arma infallibile per sedurre l'uomo dei suoi desideri. Non era necessario, pensava il commerciante, dirle che il quantitativo di radiazioni che la stoffa aveva trattenuto era di gran lunga superiore a quello che il corpo potesse sopportare. La ragazza avrebbe continuato a indossare gioiosa quella gonna troppo corta rispetto alle sue lunghissime gambe, e mai avrebbe ricondotto a quell'esercizio di vanità il livore austero che la sua pelle le avrebbe restituito da lì a poco. Né si doveva spiegare alla signora che aveva acquistato un vaso in ceramica il motivo per cui i suoi fiori sarebbero puntualmente appassiti, proprio come lei. E quando le onde non mi cullano abbastanza da farmi addormentare, so distinguere chiaramente tra le visioni le sagome dei numerosi animali ormai padroni delle molteplici stanze abbandonate: lupi, volpi, orsi camminano superbi, sognano nei nostri letti sfatti.

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Conosco il benessere che prosperava prima di quell'apocalisse stanca e viziata nella città simbolo della modernità, so benissimo del parco giochi e della ruota panoramica custodita da un pupazzo gigante accanto alla biglietteria ormai vuota, e di certo i miei genitori mi avrebbero portata a giocare lì, se il destino non l'avesse impedito con i propri artigli smaltati. Conosco i nomi degli uomini che compirono il grande errore che indusse ossigeno ed idrogeno a trasformarsi in armi mortali. Mio padre era uno di questi. Quando gli altoparlanti imposero l'imminente evaquazione, mia madre non obbedì. Mio padre non era ancora tornato dalla centrale di Chernobyl, dove lavorava, e mai sarebbe andata via senza di lui, nonostante l'annuncio dicesse chiaramente, in maniera del tutto bugiarda o forse ingenua, che gli abitanti sarebbero potuti tornare nel giro di pochi giorni, e tutti credettero a quanto veniva proferito, lasciando la propria casa come chi sia costretto ad uscire per pochi minuti, in vista di un rientro imminente. Tuttora mi commuove l'idea che a distanza di decenni, Pryp'jat' conservi nell'immobilità perfetti quadri di vita quotidiana. Attese immobile, fino alla mia nascita, fino a quando le sue braccia accolsero la sua unica figlia, con il corpo di bimba e una coda da sirena. Io, un piccolo bellissimo mostro. Ciò che molti considerano un'orrenda tragedia, diventa la radice della mia unicità, quando i fondali del Mar Nero ammiccano e le mie lacrime si perdono nella trincea scura in cui le acque si agitano e lo spirito si acquieta, mentre il cuore conserva, lontane da occhi indiscreti, le miserabili vergogne del mondo.

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Perpetum Mobile di Angela Giorgi foto di Riccardo Ruspi

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La luce dell’alba a Berlino rimette l’ora esatta alle cinque del pomeriggio, quando scivola irriverente e pigra nel tramonto caliginoso. Alle mie latitudini pur sempre mediterranee il giorno bambino ha un altro colore, quando con una laurea in tasca trascino i pochi panni sul vagone, salutata solo dal barbone affabile e gaio che dal suo groviglio di barba e capelli mi sorride lanciando baci oltre il vetro bisunto del finestrino. Sulla banchina solo il barbone getta il suo sguardo attraverso la notte appena congedata lungo i binari, seguendo il mio viaggio come se ne conoscesse la destinazione. Ma l’affettuoso signore non può sapere che sono diretta nella terra natia di quella lingua esatta e tagliente, al cui cospetto sinora ho solo consumato la vista in interminabili letture di manoscritti fotocopiati e appunti vergati su grossi fogli con inebrianti pennarelli neri; lui vede solo il mio trench infantile e forse la sua mente si figura svaghi a venire, o forse senza mente semplicemente sorride e saluta. E anch’io dovrei apprendere da lui l’arte di girovagare tra le volute del cervello, abbandonando la cieca fiducia nel reticolo ineludibile del pensiero dialogico su cui l’Europa da secoli si erige; ma ancora non mi perdóno errori ed erramenti e ancora mi chiedo cosa potrebbe uscire dalla mia bocca se dovessi sfoggiare i pochi vocaboli appresi, immaginando un giovane berlinese in Italia parlare l’idioma desueto di Galilei o Giordano Bruno, suscitando ilarità mista a compassione. Ma la città è persino più dura della mia intransigenza, ostile sin dal mattino come le declinazioni della sua lingua e inesorabile quando cala la notte come un paragrafo della Scienza della Logica. Invasa dalla vegetazione, dai tentacoli degli alberi confusi con le ossa degli edifici e con la peluria artificiale di certi mostri giganti con cui qualche artista ha deciso di ripopolare le strade, nella trama dell’aria soddisfa totalmente l’intera gamma dei colori freddi; i tronchi crescono in stanze asettiche proiettando ombra debolissima alla feroce luce a neon, mentre il sole filtrato dall’etere di plexiglas inchioda le finestre e i varchi delle case come bulbi oculari di falene infilzate sotto vetro. Nella pensione la tenutaria tonda ma soda come la consorte di uno gnomo si accontenta di qualche parola claudicante in tedesco, sparsa tra il mio inglese che ottusamente rifiuta e il suo incomprensibile aspro linguaggio che richiama i confini orientali dell’ex impero. Cercherò presto di edulcorare il rigore bevendo limonata in bottiglie retrò accasciata nelle sdraio dei parchi intenzionalmente sciatti, e saprò adeguarmi alla nobile noncuranza degli abitanti quando uscirò in cerca di cibo da poco con le vecchie Converse sfondate e il mio pigiama da uomo. Negli Höfe gli anziani si siedono accerchiati dallo smalto lucente delle piastrelle Art Nouveau, mentre il peso degli anni passati diligentemente sui libri soverchia anche me di un’età che non mi appartiene, che contraddice la curiosità vorace dei miei occhi ancora affamati di mondo e così giovani da preferire l’annegamento nelle acque plumbee della Sprea che la contemplazione placida delle opere dell’umano ingegno custodite dalle sue sponde. E più che per l’intera Isola dei Musei, magnifico colombarium fuori dal tempo,

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la mia predilezione è per l’Isola dei Morti: per lunghi minuti immobili fisso la tela ritornando al cimitero degli inglesi di Firenze, che aggiravo a quindici anni iniziando il mio Grand Tour sepolcrale, o a San Michele a Venezia che emerge dall’acqua fetida come un iceberg fronzuto e suo malgrado vivente; ritorno alla stanza della famiglia altoborghese in cui risuonavano casi, modi, coniugazioni e regole sintattiche e in cui, precettore postmoderno, costringevo il loro pupillo a mandare a memoria la tavola dei giudizi kantiana al cospetto di quel falso Böcklin, involontaria reliquia fasulla del Reich. Le innumerabili produzioni dello spirito già mi sovrastano e mi prostrano, obnubilata dagli stimoli in serie e stordita dalla gravità dell’aria museale, resa densa come cenere bellica dal sudore secolare delle opere. Forse ne ho abbastanza, sospetto mentre mi sorprendo a rifugiarmi sotto le lampadine da due soldi dei bar sulle sponde del fiume, che illuminano le acque tetre come occhi vitrei di creature degli abissi. Mentre bevo la prima birra di questo viaggio incontro anche il primo essere umano: perché a Berlino le persone sono mute e impenetrabili come l’arte e come l’arte si lasciano contemplare senza rispondere; al contrario il ragazzo di strada che lavora al bar non esita a prendersi gioco della mia indecisione e non solo replica ma persino chiede, lui che arriva da ben al di qua del muro. Forse ha lasciato la Spagna per scrollarsi di dosso quella coltre di familiarità che pervade pure la mia, di penisola. Forse come me era convinto che i climi miti poco si addicessero allo spleen, specialmente a quello che contamina abbondante lo scorrere delle chitarre distorte. Ma la città fa uscire allo scoperto le illusioni innescate dalla favola della sottocultura e alimentate dalle sostanze psicotrope: non devo attraversare il Tiergarten e raggiungere lo Zoo per vedere esemplari di quei vecchi ragazzi, perché anche alla fermata di Schlesisches Tor i passanti sono sfiorati da figure invisibili, sacchi di ossa ricoperti di croste e sangue rappreso che dagli occhi lanciano bagliori freddi come stelle morenti. Il cuore nero d’Europa ingoia come un sacco i suoi figli reietti, esponendo nella normalità dell’alienazione quotidiana tanto i fori di proiettile sulle facciate degli edifici quanto i corpi chimici di questa popolazione silente di cittadini spauriti. Non so quanto valgano i tentativi di spavalda bellezza apocalittica che imbrattano i muri e invadono le strade, in uno spasmo tanto più efficace quanto più disperato, a redimere il vecchio continente dal peso dell’ipertrofia dello spirito e dallo strazio dell’orrore incarnato; per questo io temo Berlino, che somiglia alla mia malattia di una ragione preponderante ma difettosa e alla ferocia sopita del mio sentimento. Per questo mi fermo al centro del parco sterminato e invoco a salvarmi il potere ultraterreno della Siegessaüle: inclino la testa correndo con lo sguardo fino al corpo sfavillante che protegge la città con severa benevolenza;

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punto il mio naso dritto verso il suo ancor più dritto e poi oltre, nello stesso cielo abitato da Bruno Ganz e da Marion, di cui non avrò mai la leggerezza animale. Io finora non mi sono librata sul mondo, neppure con ali posticce, ma solo addentrata nel regno dell’immateriale abitando anch’io le schiere di scaffali delle biblioteche; alla notte lasciavo il compito di liberare la bestia, sebbene il tempo avesse già solcato l’epidermide pallida di Nick Cave e dei Bad Seeds tutti, rimpiazzando quelle fiere scheletriche dagli zigomi architettonici con fascinosi signori di mezza età, e gli anni Ottanta non fossero già solo una patina di nostalgia sulle foto dei miei genitori, con le loro acconciature bizzarre e qualche indumento che nell’adolescenza avrei loro sottratto. Sono stata un angelo muto tra le pagine sorde, tenendo a bada il ribollire lavico del mio istinto con le briglie dei sillogismi altrui; l’alienazione di questa città refrattaria, a cui mi sottopongo come a una terapia, innesca lenti movimenti tellurici a profondità inesplorate, che preparano scosse di magnitudo devastante per i mesi a venire. L’acciaio e il vetro sfavillano in Potsdamer Platz e io sono disposta a subire la distaccata sicurezza dei suoi edifici, pur di scovare la facciata neoclassica della Meistersaal: non c’è una coppia di amanti che si bacia accanto al muro, a dire il vero nemmeno il muro è più in piedi e le stanze degli Hansa Studios non risuonano della voce di David Bowie riverberata da un microfono all’altro; ma nel mio delirio fideistico immortalo devota il campanello all’entrata, segnato dal logo che campeggia su ogni copia della trilogia berlinese. Ben altro pellegrinaggio mi attende, quando sceglierò l’ultimo giorno per rendere omaggio alla tomba di Hegel. Il gatto nero che mi osserva dal tetto della cappella funebre lungo il viale, inondato da un sole in anticipo sul calendario berlinese, sembra non comprendere e forse giudicare con sdegno la visita a un estraneo che i secoli hanno sepolto così lontano; ma la vera distanza che io percepisco non è segnata dal suo impero prussiano o dalla lapide spoglia che mi replica silente: quello che Georg Wilhelm Friedrich mi insegna non è la struttura delle manifestazioni dello spirito né l’immane potenza del negativo ma, per malcelato contrasto, l’insopprimibile tensione che vivo e che né il rigore del pensiero né la tempra della città hanno redento.

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Samaya di Chiara Longo foto di Valeria Pierini

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Mi chiamo Nea, e queste sono le mie memorie, spero che qualcuno creda alle rivelazioni incredibili che sto per fare. Sono nata in una famiglia numerosissima, dieci tra fratelli e sorelle e innumerevoli cugini. Vivevamo in una baraccopoli, poche tegole, strade sterrate, condividevamo i frutti che la terra ci forniva ed eravamo felici. I nostri unici averi erano le nostre case, case robuste, impenetrabili per chi non ne conoscesse i segreti. Un luogo tutto sommato tranquillo, tranne che per gli Squitti, ma quando arrivavano ci chiudevamo nelle nostre case, e ci stringevamo l'un l'altro, e solo saltuariamente uno di loro riusciva a forzare un ingresso. Purtroppo quando ci riuscivano, non c'era scampo. Qualche tempo fa sono stata rapita. Giocavo con mio fratello dietro una baracca, e si è alzato un vento fortissimo, un'ombra ha oscurato il sole, un'ombra altissima e spaventosa che mi ha strappata da terra con violenza. Ho urlato ma mio fratello non è riuscito ad afferrarmi. Ho chiuso gli occhi, e il vento si è fatto più forte, mentre il mio rapitore mi stringeva per i fianchi e stranamente leggiadro per la sua mole, mi portava via. Pochi istanti dopo sono stata scaraventata in un'altra baraccopoli, ma molto più strana di quella in cui vivevo. Innanzitutto era tutta recintata da un muro enorme, altissimo, e sopra il muro c'era una rete metallica. C'erano moltissimi altri abitanti, ma sembravano aver paura. Si allontanavano in fretta quando cercavo di avvicinarli. E non parlavano la mia lingua. Mi sono limitata ad osservarli: trasportavano cibo nei loro rifugi, camminando incolonnati e ordinati, a passi regolari e sincronizzati. Ho capito che non potevo essere lontana da casa, il trasporto era durato un attimo. Così, ho iniziato la perlustrazione del recinto alla ricerca di una falla per scappare. Ogni giorno percorrevo tutto il perimetro, ma ogni mattina al mio risveglio trovavo degli ostacoli che il giorno prima non c'erano: apparivano piante altissime mai viste prima, foglie così immense da non poter essere immaginate, montagne marroni e bianche, cumuli di neve o di cenere, e il recinto sembrava cambiar forma continuamente. Alcuni giorni era quadrato, altri rettangolare, altre volte pieno di angoli, altre ancora sembrava circolare. Il clima era imprevedibile. Spesso mi addormentavo col freddo e la pioggia, e mi risvegliavo con un caldo atroce.

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E la cosa più inspiegabile erano i terremoti: c'erano anche trenta scosse al giorno, e io chiudevo gli occhi e mi stringevo a me stessa. Duravano il tempo di accorgersene e dopo ogni scossa tutto intorno era pieno di cibo, come se la terra, muovendosi, lo buttasse fuori. Insalata, frutti deliziosi, alle volte delle noci. All'inizio ero diffidente. Poi ho capito che avrei dovuto almeno provare, e che la morte non poteva essere la cosa peggiore. Era tutto buono, e ho imparato a fidarmi di quella terra ostile. Ogni tanto facevo il bagno in una vasca che qualcuno, forse il mio rapitore, si curava di riempire. Alla fine mi sono rassegnata: non era chiaro perché mi avessero portata lì e fossi così sola, ma tutto sommato c'era cibo in abbondanza e nessuno mi faceva del male. Sono rimasta lì un po', poi un giorno, dopo un terremoto terribile, si è fatto tutto buio, e qualcuno mi ha afferrata ancora per i fianchi e mi ha rinchiusa in una stanza. Ho pensato che fosse la fine. Invece mi sono trovata in una baraccopoli ancora più grande di quella in cui ero nata. All'orizzonte si ergeva il masso più enorme che avessi mai visto in vita mia, con dei buchi a distanza regolare da cui provenivano suoni e ombre. E adesso sono qui. La sistemazione è simile alla precedente: terribili terremoti da cui scaturisce del cibo, la vasca e tanti altri abitanti intorno a me, sempre molto spaventati, pronti a rifugiarsi nei loro alloggi pieni di cibo. Anche qui il clima è stravolto da un giorno all'altro, alle volte dalla mattina alla sera. Il masso non esiste più, mi sono svegliata una mattina ed era scomparso. Al suo posto c'era un grattacielo di ferro dalla cui cima penzolava una catena con una palla. Poco dopo, in seguito a moltissimi terremoti, è scomparso anche il grattacielo e ora c'è un masso molto strano, dalla forma squadrata, e da cui provengono dei suoni assordanti e delle luci accecanti. Il cielo è attraversato da strane corde tese tra un palo e l'altro.

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Ieri è arrivata una bambina, ha detto di chiamarsi Maat. Parla la mia lingua. Mi chiamo Nea, e ho scoperto di essere una tartaruga. Secondo Maat ho circa 95 anni e dal colore del carapace si capisce che sono nata in allevamento. Io stento a crederci, ma che scelta ho? Mi sento piccola, non credevo si potesse vivere per anni. Non ho ben capito cosa siano gli anni, in realtà. Mi ha detto che gli abitanti sono formiche, e gli Squitti sono topi. E che non sono uguali a me. Lei invece lo è. Mi ha detto che gli uomini ci allevano e ci nutrono, siamo degli animali da compagnia e il tempo passa in fretta perché dormiamo molto, cioè andiamo in letargo. Gli uomini camminano sulla terra e provocano i terremoti. Mi chiamo Nea, e oggi ho scoperto il mondo e il tempo.

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A Million Dollar Banknote, frame da video. 30


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Credits Progetto editoriale a cura di Roberta D’Orazio Foto di copertina ed editing a cura di Valeria Pierini.

A Million Dollar Banknote

di Perfect Swimmer

video a cura di Dario Alejandro Barletta https://www.youtube.com/watch?v=Nhut_qkamkg.

Perfect Swimmer facebook.com/PerfectSwimmer

Redazione roberta@molamola.it

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Bios Perfect Swimmer Perfect Swimmer è lo stage name di Massimo Tortola, musicista e produttore italiano trasferitosi a Berlino; in poco tempo ha avuto modo di immergersi nella scena elettronica della città , condividendo per esempio il noto palco del Club Gretchen con artisti quali Prefuse 73 (Warp Records) e Kyson (Friends of Friends Records). Le sue sonorità sono una sofisticata miscela di IDM, Glitch e musica che suggerisce all' ascoltatore continui disegni e tracciati visivi, facendo uso di notevole gusto, ricerca sonora e grazie anche all' impiego di coinvolgenti incastri ritmici. Originariamente un musicista acustico, ha conseguito il Bachelor of Music presso la University of West London, specializzandosi in Basso Elettrico.

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Roberta D’Orazio Roberta D'Orazio parla spesso a sproposito ma è facilmente placabile mediante cospicue donazioni di dolci. Bambina prodigio, si accorge immediatamente dell’incredibile somiglianza formale tra dischi e ciambelle glassate e, allo scopo di decodificare questo mistero, inizia ad appassionarsi di musica. Ha collaborato con La città, inserto per il teramano de Il Resto del Carlino, scrive per Rockit, chiacchiera su Radio Delta 1 e coordina i lavori in Mola Mola webzine. Ha curato l’ufficio stampa di svariati eventi bellissimi, come il concerto di Sakamoto e Alva Noto a Chieti o l'IndieRocket a Pescara, e di numerose e graziosissime band emergenti.

Maria Stefania Musumeci Nata a Catania, cresciuta in un paese alle pendici dell'Etna, poco lontano dal mare. Papà stampava foto, nonno e zio fotografi di professione, mamma appassionata di fotografia, in una casa sempre zeppa di foto. Fa foto per diletto ma non ha mai sviluppato un interesse primario, interessandosi anche di cucito. Ha studiato all'università di Catania e ha cominciato a spostarsi costantemente dal 2010, due volte non consecutive in Francia, per studio prima e per lavoro poi, ed è emigrata infine a Londra nell'ottobre 2013. www.flickr.com

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Angela Giorgi Dalla Brick Lane sul Tevere con un istinto di fuga inespresso, inseguo le tracce di inchiostro che la musica e l’amore lasciano nella mia vita. L’arte è per gli altri, la mia creazione è solo al quadrato: quando scelgo i vinili per colonne sonore notturne, o quando riverso nelle pagine parole indotte dalla musica altrui, cerco di non svelare ciò che la mia critica cela, ovvero l’autentica e insopprimibile opera di autobiografia e confessione.

Riccardo Ruspi Fotografo freelance, realizza report fotografici per rocklab e collabora con Gubbstock Rock Festival, con la rete di festival Indiepolitana, con Noborders Italian Jazz festival 2008 e 2010, Rockin' Umbria 2011 e 2012 e diversi altri eventi. Ha realizzato nel tempo dei promo shots per Fast Animals and Slow Kids, Altro, Progetto Panico, Il Rondine, Michele Maraglino, Peppe Marazzita, Thegeneration, The Skaouts e altri. Vanta inoltre numerose collaborazioni soprattutto nel campo musicale (Urban Club, Musical Box Eventi, Rocklab.it, DLSO), e tutte le più grandi band del panorama “indie” italiano nel proprio portfolio. Molti progetti fotografici in cantiere, da quelli musicali agli eventi con Flare Fotografi. www.riccardoruspi.it

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Chiara Longo Chiara Longo, cuore e sangue pugliese ma residente a Milano, dove si sta specializzando in musicologia dopo una laurea con lode e tesi sulle musiche dei Pearl Jam, e lavora come web editor per il portale di musica italiana Rockit. Ama: la sua gatta Janis, cucinare, le serie tv, i graphic novel, la città di Seattle. Odia: spolverare, i portafogli vuoti (soprattutto il suo), le scarpe brutte, i carciofi. Ha un piccolo cactus di nome Hector Salamanca. Non è mai andata in discoteca. Il suo piano B è andare a vivere in campagna come il protagonista di “Due di due”, il suo libro preferito.

Valeria Pierini “Valeria Pierini e ` una giovane fotografa (non ha ancora superato i trentanni) che riesuma quell’atmosfera un po’ snob, disperata, sospesa, arrabbiata, sicura e al tempo stesso folle e curiosa dell’epoca beat. Dall’unione del media fotografico con la sua formazione umanistica nascono i suoi lavori spesso sospesi tra la realta` e il sogno”. (Vanessa Rusci, Rivista 2.0) Laureata In Comunicazione di Massa. Espone in Italia e all’estero. Tiene workshop, collabora con magazine web e cartacei ed ha all’attivo svariate pubblicazioni (e-book, libri d’artista e cataloghi). www.valeriapierini.it

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Perfect Swimmer ringrazia: Roberta, Maria Stefania, Angela, Riccardo, Chiara e Valeria per aver contribuito con la propria creativita` alla realizzazione di questo e-book.

Dario Alejandro Barletta per le riprese ed il montaggio del video. I Two Fates che hanno deciso di includere il mio remix nel loro mini album d’esordio /tree. Un ringraziamento particolare a Roberta D’ Orazio per aver ideato il progetto e a Valeria Pierini per le foto di copertina e l’editing. Grazie infine a Nicola “Lord Violent” per il logo.

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