Camminiamo Insieme 8

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CAMMINIAMO INSIEME

Notiziario della parrocchia di S. Alessandro - PALADINA NUMERO 8 - DICEMBRE 2017


LA STORIA DI LUCIA E LA SUA FAMIGLIA

Il valore del tempo e della quotidianità.

Come il primo possa scorrere diversamente da come ce lo aspettiamo e come la seconda cambi in funzione di esso. Questo è quello che abbiamo imparato, oltre a molto altro, in questi mesi passati in Ospedali con Lucia. Il nostro incontro con la malattia risale a tre anni fa quando a Lucia e Gloria, due delle nostre tre figlie, hanno diagnosticato una patologia rarissima chiamata atassia teleangiectasia (AT). Fino a gennaio di quest’anno pensavamo che la patologia che ha colpito le nostre figlie fosse già il massimo che potevamo sopportare. Poi è arrivato il linfoma…e la AT è diventata lo sfondo, quasi non percepibile. Ecco che di nuovo tutto diventa relativo ed il mistero della vita si infittisce. All’inizio siamo stati centrifugati in un vortice di ansia, paura e disperazione poi la dimensione cambia. Tutto si riaggiusta, non ci si abitua mai, ma ci si adatta e si affronta la realtà. E cosi, bando alle lacrime, si procede su una nuova strada che non per forza è così terribile come la si vede da fuori. Si inizia probabilmente a vivere davvero, ogni attimo, e a vedere negli occhi dei bambini il mondo che altrimenti ci sfugge. Se non ritornerete come bambini…questo è il segreto più semplice e complicato, ed e’ nella loro sofferenza e nei loro sorrisi che si incontra Dio. Chi di voi vorrebbe essere nei nostri panni? Nessuno, come del resto neanche noi avremmo mai pensato di trovarci. Ma siamo sereni per quello che abbiamo, e nonostante le nostre

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giornate siano spesso in salita, condividendo le fatiche le diluiamo e cerchiamo di non perdere il sorriso, visto che Lucia e Gloria non lo perdono mai, disarmandoci spesso. Anche Viola, nonostante la sua fragile età, ha accolto la malattia e sempre sostenuto con amore le sorelline. La vita è ora, questo lo abbiamo capito. Non in un domani, non quando saremo in vacanza, o quando saremo più felici o più ricchi o quando i figli si saranno sistemati….ma ora cogliendone la bellezza in ogni attimo. Con questi valori i Micheletti di Sombreno desiderano ringraziare l’intera comunità per i pensieri, i gesti, le azioni e le molte preghiere che in questi mesi ci hanno sostenuti e fatti sentire parte di voi. Le porte della nostra casa sono sempre aperte, pronti ad accogliere chiunque voglia fermarsi per un saluto, un caffè, e perché no, per un buon pranzo. Con affetto, Gianluca, Elena,Viola, Lucia, Gloria Non solo a Natale si può fare di più, si può amare di più. Ogni giorno si può fare di più e si deve amare di più! Grazie per la vostra testimonianza di fede e di amore. Buon Natale nel volto di Gesù Bambino che ha il volto delle vostre figlie.

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VOCE DEL PARROCO

Predica del parroco nella solennità patronale di Sant’Alessandro.

Fratelli carissimi, il martirio è una grazia che il Signore ha concesso a Sant’Alessandro per sostenere la fede di tutti noi. Celebrare la festa del Patrono è, dunque, un dovere di gratitudine e, insieme, uno stimolo a testimoniare in modo coraggioso la nostra fede in Cristo che sulla Croce ha vinto per sempre il potere della violenza con l’onnipotenza dell’amore. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13): ogni testimone della fede vive questo amore “più grande”, accettando il sacrificio fino all’estremo. Il martirio cristiano si giustifica solo come supremo atto di amore in risposta all’immenso amore di Dio consumato sulla Croce. San Bernardo, nei Sermones super Cantica, afferma che il coraggio del martire deriva proprio dalle piaghe di Gesù, entro le quali l’uomo di fede dimora. La forza per affrontare il martirio nasce, dunque, dalla profonda e intima unione con Cristo, il quale immediatamente dopo il suo ingresso a Gerusalemme risponde alla richiesta di alcuni greci, che lo volevano vedere, annunciando la sua Passione: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Non c’è alternativa per i discepoli di Gesù all’infuori di questa: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25). Sant’Alessandro ci ha lasciato questa testimonianza di libertà e di fedeltà: la libertà di dare la propria vita per rimanere fedele al Vangelo. Il suo martirio ci ricorda che “la forma più intensa dell’esperienza della libertà è l’amore”. Il Martirologio Romano documenta – scriveva il card. Giacomo Biffi – che “il cristianesimo si è affermato e ha vinto non quando ha cercato di andar d’accordo con gli araldi della menzogna, i profeti del nulla, gli adoratori dei vari idoli del mondo, ma quando ha saputo essere se stesso fino a esigere il sacrificio della vita; non quando si è posto a civettare con negatori dei valori e delle certezze, ma quando ha saputo affidarsi senza titubanze alla forza della verità; non quando si è illuso che la vita cristiana possa essere una passeggiata sotto i mandorli in fiore, ma quando non ha dimenticato che il battesimo arruola e sostiene in una lotta contro il male, che nella storia non finisce mai”. Fratelli carissimi, il termine martirio non può essere equivocato. È una parola che indica una moltitudine immensa di cristiani che sono rimasti fedeli a Cristo anche quando il prezzo era, ed è, il più alto possibile: versare il proprio sangue. Per celebrare degnamente il martire Alessandro rendiamo

omaggio ai tanti cristiani che in varie parti del mondo sono perseguitati a causa della fede. Una parola chiara e coraggiosa occorre dirla sul termine martirio, assunto per indicare, accanto ai martiri della fede, i martiri della patria, della mafia, del lavoro, del totalitarismo: fedeli alle proprie idee, testimoni fino alla morte. Quando i kamikaze, che dicono di agire nel nome del Profeta, si definiscono “martiri” e affermano di essere disposti al “martirio”, anzi di cercarlo, occorre gridare con forza che non sono martiri: non lo sono nemmeno per larghissima parte dell’Islam! I kamikaze, infatti, non sono martiri ma “criminali con pulsione suicida”. Il martire è tutt’altra cosa: è sempre disarmato; ama, non odia; non si toglie la vita, ma la dona; è incapace di qualsiasi violenza; non cerca il martirio ma, se costretto, è disposto a subirlo. La sua testimonianza è mite e pacifica: estingue l’odio con il perdono.

STATUA DA RESTAURARE

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STATUA DURANTE I RESTAURI

Se vogliamo soccorrere e consolare questi nostri fratelli perseguitati ed oppressi occorre non solo che la comunità internazionale si decida a sostenerli in modo concreto e generoso, ma anche che ci disponiamo ad accompagnare, senza pregiudizi, il processo di integrazione degli immigrati, che è cosa ben diversa da una qualsiasi “sistemazione”. Integrazione è fare spazio allo straniero perché non diventi un “forestiero cronico”; integrazione significa non confondere l’accoglienza con la beneficenza: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto; integrazione vuol dire non essere prevenuti verso chi professa una fede diversa ma nemmeno sprovvisti di una chiara e fiera consapevolezza della propria identità culturale e religiosa. Fratelli carissimi, la nostra identità civile ed ecclesiale è fondata sul martirio di Sant’Alessandro; celebrare la festa del santo Patrono significa rileggere, con umile fierezza, la genesi della storia della nostra diocesi di Bergamo, della nostra città, del nostro paese Paladina e riscoprire le radici della nostra fede che egli ha confessato con “mite fortezza”. Fratelli carissimi, San Pietro Crisologo scrive che “i martiri nascono quando muoiono, cominciano a vivere con la fine, vivono quando sono uccisi, brillano nel cielo essi che sulla terra sono creduti estinti” (Sermo, 108).

Pertanto, le parole martire e martirio non possono essere corrotte nel senso voluto dai kamikaze, perché dimenticheremmo due millenni di storia, di umanità e di fede.“Occorre, dunque, difendere queste parole dall’aggressione dei violenti”.

STATUA RESTAURATA

Di recente il card. Roger Etchegaray è intervenuto su questo tema osservando che “i rapporti tra musulmani e cristiani sono molto complessi e nevralgici a causa del peso della storia ma soprattutto per via della natura stessa delle due religioni, che in fin dei conti sono molto più dissimili di quanto non si pensi abitualmente. Chiarire l’evoluzione dell’Islam, le sue diverse componenti e i fattori interni che le mettono in movimento, con le loro ricadute positive e negative, è una necessità dettata dalla realtà quotidiana. L’ora del dialogo tra cristiani e musulmani suona oggi con la forza di un campanone, poiché le derive islamiche e i diversi comportamenti terroristici che segnano i nostri giorni stanno sfigurando il volto dell’Islam e fanno dimenticare la qualità dei suoi valori religiosi. Dopo le primavere arabe, a cui sono seguiti i rigori di un inverno portato da correnti estremiste, la stessa libertà religiosa dei cristiani d’Oriente che vivono nei paesi islamici deve essere tutelata”. Fratelli carissimi, è doveroso ammettere che ci stiamo limitando a tutelare la libertà religiosa dei cristiani d’Oriente con alcune dichiarazioni di principio e qualche fugace intenzione di preghiera.

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mitezza alla prepotenza; dimentichiamo le umiliazioni subite (…). Un cuore vuoto di amore è come una chiesa sconsacrata, sottratta al servizio divino e destinata ad altro”. Fratelli carissimi, perdonare non significa chiudere gli occhi dinanzi al male: non si perdona perché si dimentica, si dimentica perché si perdona! Il perdono non sostituisce il giudizio ma lo supera, ricrea le condizioni per un nuovo inizio, attesta che la misericordia di Dio precede il pentimento dell’uomo, chiamato a perdonare i nemici (cf. Mt 6,14-15), a “rivestirsi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità” (cf. Col 3,1215). Sant’Alessandro ci aiuti a “rivestirci della carità”, venga in aiuto alla nostra debolezza: sciolga le nostre mani legate dal ricordo delle offese ricevute e ci conceda di sollevarle e di benedire.

Dopo la generazione degli Apostoli, i martiri occupano un posto di primo piano nella comunità cristiana; nei tempi di maggiore persecuzione il loro ricordo rinfranca il faticoso cammino dei fedeli e incoraggia chi è in cerca della verità a convertirsi al Signore. È questa la ragione per la quale dobbiamo con particolare esultanza, “come fosse giorno di Pasqua”, rendere omaggio al nostro Patrono. I martiri sono quelli che, pur di conservare l’indissolubilità del rapporto con Cristo, hanno accettato persino la morte. I martiri hanno giudicato preferibile l’ultima libertà che è data all’uomo, quella di morire per Cristo piuttosto che cedere all’ingiustizia di offendere la verità. La celebrazione della festa di Sant’Alessandro ricorda a tutti noi che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola di verità. La vita cristiana esige,per così dire,il“martirio”della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Lui a orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. La Passio Sancti Alexandri documenta la serenità con la quale il fondatore della nostra Chiesa particolare ha sopportato i tormenti del martirio. Sopportare dando ragione della propria fede, sopportare amando, sopportare tacendo: questa è la testimonianza che Sant’Alessandro ci ha lasciato in eredità; la sua lezione di vita ci insegna ad affrontare il martirio delle umiliazioni a cui può capitare a tutti di essere sottoposti. È utile richiamare, al riguardo, le parole pronunciate da Papa Francesco nell’omelia della Messa presieduta con i nuovi Cardinali da lui creati in occasione del suo primo Concistoro pubblico. “Amiamo coloro che ci sono ostili; benediciamo chi sparla di noi; salutiamo con un sorriso chi forse non lo merita; non aspiriamo a farci valere, ma opponiamo la

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Restauratore Franco Blumer

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ARCHITETTO CLAUDIO BREGA

Relazione fine Lavori

L’intervento di restauro del campanile si è reso necessario a seguito di distacchi di alcuni cocci di malta, anche di dimensioni consistenti, precipitati sul tetto della chiesa ed in strada, ed alla presenza di diverse fessure della cupola campanaria. Oltre a tutto, l’ accesso interno alla cella campanaria non era praticabile in sicurezza sia per la presenza di solai interni pericolanti sia per la mancanza di adeguati parapetti sulle scale. In data 21 maggio 2015 si sono eseguiti i primi sopraluoghi,

successivamente si sono ricercati i fondi necessari a copertura dei lavori e a fine maggio 2017 si sono iniziati i lavori. I lavori si sono conclusi a fine agosto rispettando completamente il budget nonostante alcune opere extra non previste come il rifacimento di una falda del tetto del locale caldaia della chiesa che presentava notevoli lesioni che hanno comportato la sostituzione della trave danneggiata e dei relativi travetti.

Figura 1 lesione copertura tra campanile e chiesa Di seguito si riportano le varie fasi d’intervento eseguite con le relative immagini. MESSA IN SICUREZZA DELL’ACCESSO ALLA CELLA CAMPANARIA • Rimozione completa del corrimano esistente. • Posa di un nuovo parapetto completo di corrimano in acciaio di h 110 cm. Obiettivo di questa fase è ristabilire un’idonea percorrenza in sicurezza della scala.

Figura 2 parapetto prima dell’intervento

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Figura 3 parapetto post intervento

ACCESSO AL PRIMO SOLAIO • Rimozione della scala a pioli in legno. • Posa di un nuova scala alla marinara in acciaio completa di corrimano.

Figura 4 nuovo accesso

SOLAI LIGNEI Per il 4° solaio ligneo totale rimozione con formazione di nuovo solaio ligneo dotato di doppio assito Per il 3° solaio cementizio inserimento di una trave lignea all’intradosso Per il pianerottolo ligneo sostituzione dell’esistente INTERVENTO • Rimozione completa del solaio esistente. • Posa di una nuova orditura primaria ad un adeguato interasse sfruttando in parte le preesistenti tasche nella muratura. • Posa di un assito sp. 5 cm come piano di calpestio.

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Figura 5 solaio da sostituire

Figura 6 nuovo solaio

SUPERFICI ESTERNE DELLA TORRE CAMPANARIA • PULITURA E LAVAGGIO TORRE con aspor tazione di croste e salinità dovute alla reazione di sostanze chimiche inquinanti, sporco depositato particolarmente tenace ed adeso alla superficie dell’opera, muffe, licheni e agenti biologici e tutti i materiali e delle malte incongrue e cementizie. • CONSOLIDAMENTO DEI DISTACCHI E DELLE FESSURAZIONI DELLE PARTI IN GRANIGLIA, nelle zone completamente distaccate sono stati posizionati perni alloggiati nei varchi originali opportunamente ripuliti dai residui delle malte incoerenti e successivamente. • STUCCATURA delle lesioni e delle lacune della superficie in graniglia. • TRATTAMENTO DELLE SUPERFICI per rendere le superfici idrorepellenti.

Figura 7 torre campanaria prima della pulizia e dopo

CUPOLA PARTE ESTERNA Una volta posizionato il ponteggio si è reso possibile effettuare dei sondaggi dettagliati sulla cupola dove si è preso atto della pessima condizione del tamburo, alla base, che era completamente degradato, non visibile per via della superfetazione aggiunta negli anni ’50 (tettuccio) e del completo distacco della malta cementizia esterna della cipolla.

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Figura 8 cupola pre intervento

Figura 9 cupola post intervento

Le fasi d’intervento sono quindi state: • Rimozione della superfetazione • Rinforzo del tamburo con geomagma per creare cerchiatura di rinforzo (spesa non prevista) • Ricostruzione del tamburo ottagonale originario con geolite e rete di rinforzo per connessione all’anello di geomagma con aggiunta di rete in metallo Ø 0.5 connessa al tamburo sovrastante (spesa non prevista) • Infiltrazioni nell’intonaco hanno causato il distacco di diverse parti dell’intonaco (privo di armature e caricato anche 4-5 cm) • Ricostruzione dell’intonaco mancante con inserimento di rete in fibra di vetro • Anello alla base della statua completamente cavo, degradato e decoeso • Consolidato tramite il riempimento con Geomagma allo scopo sia di consolidarlo sia di impedire un punto di ingresso di acqua piovana (zona tra l’altro particolarmente soggetta alle intemperie e ai ristagni) • Torrino ottagonale alla base della cipolla decorato con facce di angeli presenta diverse parti decoese • Ricostruzione dell’intonaco mancante con inserimento di rete in fibra di vetro   PARTE INTERNA Obiettivo di questa fase è stato quello di consolidare l’intera cupola mediante: • Sostituzione delle catene interne in legno con nuove strutture in ferro • Riparazione dei pilastri in ferro compromesse dall’infiltrazione di umidità • Ricostruzione del copri ferro dell’armatura previa verifica dell’idoneo spessore di armatura, eventualmente da integrare

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Figura 10 catene in legno pre intervento, travi in ferro post intervento

CORNICIONE • Completa asportazione delle parti decoese con relativa ricostruzione delle parti mancanti • Formazione di nuovo piano acque per evitare la formazione di ristagni sulle parti orizzontali • Protezione con idoneo materiale impermeabilizzante compatibile con il supporto esistente

Figura 11 cornicione prima e dopo l’intervento

Figura 12 ricostruzione e protezione delle superfici

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OSSERVAZIONI PGT 2017 Il sottoscritto DON VITTORIO ROSSI, legalmente rappresentate come Parroco pro tempore della Parrocchia di S. ALESSANDRO MARTIRE del Comune di PALADINA proprietaria dell’immobile indicato in estratto mappa allegata, foglio 902 particella 542, con la presente è ad apporre la seguente osservazione: Il vincolo AT1 che coinvolge l’intera area dell’oratorio, è un vincolo che di fatto impedisce un intervento organico e di riqualifica sulla zona, in quanto subordinato ad una previsione di piano molto articolata ed ambiziosa. L’intervento proposto dall’amministrazione coinvolge diverse proprietà in un progetto di azione che subordina reciprocamente un intervento all’altro, non permettendo alle singole parti di poter agire separatamente pur restando coerente alle strategie delineate nel Documento di Piano, appunto perché il piano ambiziosamente proposto comporta che ogni parte in gioco sia concorde contemporaneamente sui tempi e sugli obbiettivi da raggiungere, visione alquanto utopica per le attuali dinamiche urbane e di mercato. Questa visione onirica dell’amministrazione così come è stata pensata comporterà come unico risultato un ulteriore arresto del centro storico che già perdura da più di 30 anni. Chiediamo quindi che il vincolo AT1 sull’area in oggetto venga modificato – ridimensionato – o meglio ancora limitato ad aree che non operano direttamente a fornire importanti servizi per la comunità, come l’oratorio. Riaffermiamo in questa sede la volontà dello scrivente di pianificare un intervento di riqualifica dell’area compatibile con gli obiettivi e le strategie tracciate nel Documento di Piano: • Convertendo l’edificio dell’ex cinema in una struttura polivalente a servizio, come già detto, dell’intera comunità e delle sue associazioni, struttura che l’attuale amministrazione ha dimostrato di voler consegnare alla cittadinanza ma in un’area non ben precisata e in tempi non ben definiti. • riqualificando l’area mitigando l’impatto che attualmente la volumetria dell’ex cinema ha sulla palazzina confinante. L’ intervento di ristrutturazione dell’ex - cinema - oratorio, grazie alla sua posizione facilmente accessibile e contigua a altri servizi pastorali e municipali e grazie alla sua morfologia architettonica, si presta di fatto ad una facile conversione in uno spazio polivalente, si inserisce nell’ottica generale del progetto di quest’amministrazione senza dover demolire la cubatura esistente (ex - cinema), realizzata con lo sforzo di tutta la comunità, e senza comportare un doppio onere per la collettività (sia in termini di costi attivi che passivi). Visto il contesto urbano in cui ci troviamo, ci sembra più concreta e realizzabile una serie di interventi a ridotta scala che in breve termini porti ad un tangibile e rapido cambiamento dei servizi alla comunità, senza sottovalutare l’effetto epidermico che possono avere tanti

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piccoli interventi in un’ottica di un progetto globale. Per concludere, il vincolo AT1 da voi proposto coinvolge un’ area eterogenea in termini di proprietà e di destinazioni; il progetto da voi proposto che ha l’idea di riqualificazione e di rigenerazione del centro storico ci pare alquanto ambizioso nella sua integrità e probabilmente difficilmente realizzabile a breve – medio termine. Ribadiamo quindi a gran forza la rimozione di tale vincolo imposto su punti così strategici e importanti per il territorio come l’oratorio e l’edificio dell’ex cinema o quanto meno la possibilità di agire con un intervento di riqualifica, che pur rispettando gli obiettivi del piano permetta di recuperare l’edificio esistente anziché demolirlo o peggio ancora mantenerlo in questa fase di stallo che coinvolge l’intero centro storico con un ulteriore e progressivo deperimento e svalutazione dell’intero tessuto urbano. Don Vittorio

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CASA PARROCCHIALE APERTA

ARTISTI DI STRADA SABATO 26-08-2017

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CHIESETTA S. BERNARDINO - LALLIO

ORAZIONE

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EMMAUS

PARABOLE DI UN CLOWN

Settembre 2017 S. Alessandro

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Musica MUSICA

Duo tenore e pianoforte Donato Giupponi e Luca Bodini

GIOVANI ESECUTORI

CORO VOCI DEL BREMBO

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SPAGNA

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GEORGIA

GRAZIE AL DUCATO DI PIAZZA PONTIDA E AL DUCA MARIO MOROTTI 18

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COREA

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Musica BENEDIZIONE CAMPANILE DOPO I RESTAURI

Omelia di Sua Ecc.za Mons. Antonio Suetta Vescovo di Ventimiglia - Sanremo Vigilia di S. Alessandro Memoria del Beato Don Alessandro Dordi

ficato la vita come testimone del Vangelo. Il Martirio è una realtà che appartiene costitutivamente alla Chiesa di Gesù. Ce lo ha detto Lui: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi e se hanno ascoltato me, ascolteranno anche voi”. Celebrare dunque la solennità di un martire mi pare ci consegni tre grandi doni di Dio: Innanzitutto una parola di SPERANZA.

Carissimi fratelli e sorelle, abbiamo la grazia di rivivere la gioia della Festa Patronale di S. Alessandro. Un po’ ci accomuna la celebrazione di S. Alessandro, Patrono di questa comunità parrocchiale, della Città e Diocesi di Bergamo e la festa di S. Secondo che domani celebreremo a Ventimiglia, essendo questo Santo Patrono della Diocesi di Ventimiglia-Sanremo. Ci accomuna perché, come ha ricordato don Vittorio, questi due soldati romani, S. Alessandro e S. Secondo, hanno fatto parte della Legione Tebea, che ha dato alla Chiesa e al Regno di Dio una schiera innumerevole di martiri. È molto bello pensare e ricordare la memoria di un Santo così lontano nel tempo, del IV° secolo. Noi accostiamo a questa liturgia di lode al Signore per i suoi doni, anche la memoria grata e devota per un sacerdote della vostra Chiesa particolare, don Alessandro Dordi, che proprio il giorno di S. Alessandro, giorno del suo onomastico, 26 anni fa ha sacri-

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Si dice, nella sapienza della tradizione della Chiesa, che: “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”. Questo è stato vero nel tempo. Noi possiamo leggere la storia in questa prospettiva e troviamo che è veramente così. Questo deve essere vero anche per noi. Anche noi dobbiamo impegnarci ad essere veri cristiani. Essere cristiani non è semplicemente una questione anagrafica, perché un giorno siamo stati battezzati e scritti su un registro. Il Battesimo non significa soltanto questo. Il Battesimo significa soprattutto che siamo ordinati alla vita nuova dei figli di Dio. Allora i cristiani veri portano frutti secondo il dono ricevuto. La speranza è che ogni sconfitta, anche quando dipende dalla persecuzione, per noi non è causa di crollo, non è causa di mancanza di frutti, ma, al contrario, ogni sconfitta dovuta al fatto che noi siamo di Cristo, testimoniamo Cristo… diventa la possibilità di essere veramente discepoli di Gesù e noi celebriamo per questo i martiri. Letteralmente la parola martire significa “testimone”. Noi chiamiamo così soltanto coloro che sono stati eroicamente testimoni perché al servizio del Vangelo e per Cristo hanno sacrificato la loro vita, ma sappiamo benissimo che testimoni dobbiamo esserlo anche noi. E dunque, ogni pericolo, ogni persecuzione, ogni sofferenza che noi possiamo trovarci a subire a motivo del Vangelo, non deve spaventarci. È davvero straordinaria la prospettiva che ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda lettura: “A voi è stata data la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per Lui”. E questo significa un messaggio di speranza per la nostra vita.

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Guardiamo alla nostra avventura di fede: ci troviamo per tante ragioni… (possiamo usare tranquillamente questo termine) “perseguitati”, ma la Parola di Dio ci dice “non devi avere paura”. Il martirio non è un incidente che ci può capitare, noi spesso lo interpretiamo così: faceva del bene, predicava il Vangelo e lo hanno ucciso e diciamo “è un incidente”. Dalla prospettiva umana è un incidente, è sicuramente un’ ingiustizia, è una cosa molto brutta, ma c’è un’altra prospettiva che oggi la Parola di Dio ci richiama: è una GRAZIA. Tanti martiri della storia della Chiesa, antichi e recenti, ci hanno proprio lasciato questa testimonianza: di non sentirsi degni di una grazia così grande da parte di Gesù. Il secondo dono che ci consegna questa festa è una parola di SAPIENZA. Noi ne abbiamo quanto mai bisogno! La scuola dei martiri per noi è una scuola di vita. Andiamo alle parole che Gesù ha detto a margine delle Beatitudini: “Beati quando tutti diranno male di voi per causa mia” e poi ha aggiunto un “Guai, quando tutti diranno bene di voi”. Questo non vuol dire “guai” quando facciamo il bene e gli altri riconoscono il bene. Noi dobbiamo fare il bene, mostrare la luce agli uomini perché glorifichino il Padre che è nei cieli. Gesù ci mette in guardia da un pericolo che oggi è quanto mai attuale e serio: il pericolo di omologarci alla mentalità del mondo. Oggi va di moda una parola che di per sé è molto importante e molto preziosa, ma che spesso può essere fraintesa: il dialogo. Noi dobbiamo dialogare perché dialogando entriamo in comunione con le persone, dialogando impariamo tante cose e dialogando mettiamo a confronto diverse prospettive e questo ci arricchisce. Ma oggi c’è un modo sbagliato di intendere e di propagandare il dialogo ed è quello

di pretendere che il dialogo livelli tutto, alla fine ci dobbiamo trovare sempre a metà strada. Questo non è il vero dialogo. Il vero dialogo è quello che ci permette di conoscerci reciprocamente anche nelle diversità e di rispettarci per non essere intolleranti, ma il vero dialogo non deve mai spegnere lo slancio della nostra intelligenza che giustamente si interroga circa la verità. Io posso dialogare per tantissimo tempo e cercare finché non ho trovato e finché non ho capito, ma la mia intelligenza non accetta di dire, tra tante cose diverse tra di loro, “tutte sono giuste”. Questo non è vero, non può essere e lo capiamo benissimo. Allora, oggi dobbiamo metterci alla scuola dei martiri per accogliere nella nostra vita questa luce di sapienza. Una luce di sapienza che ci insegni a cercare la verità, la verità della nostra vita, la verità delle cose, la verità del nostro destino così come Dio ce l’ ha rivelata. Infine un terzo dono che la festa di S. Alessandro ci consegna è una parola di CORAGGIO. Abbiamo bisogno di essere sostenuti nella nostra lotta per il bene. S. Paolo stesso chiama la vita di fede: “la buona battaglia”. Questa battaglia è su vari fronti. Il primo è il nostro egoismo, le nostre fragilità. Quante battaglie dobbiamo fare per essere fedeli a Gesù, superando il male che ci tenta dall’interno, ma dobbiamo essere anche molto obbiettivi: quando c’impegniamo davvero ad essere discepoli di Gesù immancabilmente ci troviamo non capiti, ci troviamo derisi, qualche volta ci troviamo emarginati e qualche volta addirittura perseguitati. La Parola di Dio vuole essere un sostegno di coraggio per noi. Le bellissime parole che abbiamo pregato nel Salmo corrispondono alla logica di Dio: “Chi semina nel pianto raccoglie nella gioia”.

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Qual è l’atto più importante che facciamo noi cristiani? Quello che stiamo facendo adesso: la celebrazione dell’Eucaristia. E che cosa facciamo nell’Eucaristia? Facciamo memoria di una morte, quindi umanamente di una sconfitta, di un dramma. Facciamo memoria di una morte dalla quale è venuta la vita: “il mistero pasquale di Gesù” e questa è la logica di Dio. È la logica della sua sapienza, è la logica della potenza che Egli rivela nella nostra debolezza. Abbiamo sentito nella prima lettura delle parole che sono antiche, risalgono a qualche secolo prima di Cristo, ma ascoltandole penso che molti di noi ci siamo detti che queste vanno bene anche oggi: “è il tempo della prepotenza, è il tempo dell’ingiustizia, è il tempo dell’ira rabbiosa”. Molto spesso noi attraversiamo questo tipo di esperienza. Non dobbiamo avere paura. Siamo nelle mani di Dio e il Signore ci sostiene con la sua grazia perché sempre possiamo rendergli buona testimonianza. Aiutiamoci vicendevolmente con la preghiera, con l’esempio ed anche con l’incoraggiamento ad essere buoni cristiani senza vergognarci mai davanti a nessuno di dire che siamo amici di Gesù e non dimenticando che è meglio essere cristiani senza dirlo piuttosto che dirlo senza esserlo.

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OMELIA DI SUA ECC. ZA MONS. MAURIZIO GERVASONI VESCOVO DI VIGEVANO RICORDO DEGLI ANNIVESARI DI ORDINAZIONE SACERDOTALE E PROFESSIONE RELIGIOSA

50° Anniversario Don Rino e Suor Pinadele - 25° fra Giorgio Bonati e Don Pinuccio Leidi

Il nostro Vescovo Francesco questa mattina in cattedrale ha tenuto un’ omelia sul tema della speranza e ha commentato la frase che abbiamo sentito nel Salmo responsoriale: “Chi semina nel pianto raccoglie nella gioia”. Il nostro tempo è un tempo di difficoltà ed è proprio per questo che bisogna faticare per raccogliere meglio più avanti. Il nostro Vescovo di Bergamo ha delineato alcune caratteristiche sulla speranza. Un primo aspetto: la speranza non chiude il comportamento dell’uomo nell’ideologia, in un sistema chiuso di valori, ma spinge l’uomo “oltre”, ad avere mete sempre più alte e a non confidare in se stesso. S. Alessandro, come martire annunciatore di speranza, ha evidenziato che la Chiesa trova in Cristo il suo elemento di speranza che è una Virtù Teologale, opera di Dio e non dell’uomo. Voglio parlare della speranza in modo provocatorio. Si dice che la speranza è la più piccola delle tre virtù teologali (Fede, Speranza, Carità). La speranza più che una virtù intesa come un atteggiamento che scaturisce da un esercizio personale, è uno stato, è una condizione, una dimensione dell’essere

cristiano e la provocatorietà di questa frase viene da un nostro detto bergamasco: “quello lì è un povero martire”, ritenendo una persona non cattiva, che ha sofferto, che ha bisogno di compassione… Ovviamente S. Alessandro non è un povero martire, ma un Martire diventato Patrono della vostra parrocchia. Il Patrono S. Alessandro è un grande Martire perché la comunità riconosce in lui un modo forte di vivere l’esperienza della fede. È un modello per tutti. Se noi non avessimo la fede, S. Alessandro sarebbe solo un povero martire. Infatti che fine ha fatto? Augureremmo a nostro figlio di fare una fine così? S. Alessandro è un grande Santo per noi che crediamo. Umanamente a lui è andata male, gli hanno tagliato la testa. Che qualità di vita presenta S. Alessandro per dire che è un esempio? Per chi non crede la figura del martire è colui che non ha avuto successo, a cui non è andata bene. Se fosse scampato… allora sì gli sarebbe andata bene! S. Alessandro è un grande Martire perché tutta la sua vita era caratterizzata dal fatto che la sua fede e la sua carità erano totalmente poste nella buona qualità della Parola e per questo sperava.

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La speranza è quella dimensione della vita cristiana per cui noi non crediamo che la nostra vita otterrà benessere, realizzazione, pienezza perché stiamo bene, ma perché viviamo bene e, vada come vada, non può andare male perché siamo in Dio. La speranza è una qualità della vita, è la vita nostra di fede perché insiste su quelle cose che valgono e anche se sembra che le cose vadano male, sono comunque importanti e sono destinate ad essere per sempre. La realizzazione della nostra vita non è mai costruita da noi, ma è donata da Dio e l’immagine più alta della speranza è Gesù sulla croce. Giovanni che guarda e contempla la croce dice a Gesù “Peggio di così non poteva andarti, ma è proprio lì il tuo amore”. Grida a Dio: “O ci sei o non vale proprio la pena di vivere!”. Il Dio della Risurrezione ti dice che questa è la vita vera. La gloria di Cristo sulla croce definisce la speranza. Non aspettatevi di vivere il cristianesimo stando bene, perché le cose ci vanno come noi desideriamo: quella non è speranza, è la ricerca del

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50° di professione religiosa (Suor Pinadele)

benessere. Ma se noi abbiamo la fede in Dio e viviamo di carità, la nostra vita è realizzata. La buona qualità della vita è dono di Dio e a noi è dato solo di credere e di testimoniare. La speranza non è sperare che in un futuro andrà meglio,

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ma è la qualità buona ed eterna della vita nel Vangelo che è caratterizzata dal tempo. Abbiamo sentito la prima lettura dove Mattatia dice: “Vivete bene nella fede perché l’empio, che sembra viva bene, quando muore chi si ricorda di lui?” Pensiamo a quanti miliardi di uomini vissuti da ricchi e di cui noi non ricordiamo niente e nessuno… Quali sono gli uomini di cui ci ricordiamo? Sono quelli che hanno fatto grandi cose, anche se magari gli è andata male e hanno anche dovuto soffrire... Rimanete nella legge del Signore e vi sarà data la gloria. Non cercate di vivere nella legge del Signore perché così vi va bene, ma vivete nella legge del Signore perché così va bene. È un atto di fede, non è una conquista. In questo senso bisogna essere consapevoli che l’atteggiamento medio che la nostra cultura propone non è cristiano, perché non spera, vuol conquistare, vuol godere, vuole l’immediata realizzazione. Non si sacrifica per qualcosa di più grande, non aspetta con pazienza che l’altro cresca, maturi. non dà la sua vita perché l’altro viva bene, al contrario si sente titolare di diritti che l’altro deve rispettare. Questa è la nostra mentalità! Questa non è la speranza. La speranza teologale è quella che sa che il Signore c’è e se c’è lui va bene, altrimenti S. Alessandro è stato uno stupido, ci ha rimesso la testa, per che cosa? Perché Dio era il valore più grande. Perché la fede in Gesù è l’unica cosa per cui vale la pena di vivere. Questa è la qualità di speranza della vita. Noi non dobbiamo essere tristi perché le cose in qualche modo non corrispondono al nostro desiderio, quando non vanno come noi vogliamo, ma dobbiamo essere tristi perché noi pecchiamo, perché facciamo il male e non perché le cose vanno male. È diverso se uno cerca, si sforza di non peccare, si sforza di credere, di vivere la testimonianza dell’amore anche se è difficile vivere in povertà, magari ci sono delle disgrazie, magari subisce persecuzioni, che qualità di vita è quella di una persona così? La logica di questo mondo suggerisce: “Fai il furbo!”, ma se fai il furbo non vivi di speranza e quando morirai non resterà più niente di te e magari qualcuno imprecherà contro di te. Se invece accetti anche che le cose non vadano bene dal punto di vista del benessere, però sono buone… la tua vita è eterna, proprio come ci dice il Vangelo che abbiamo ascoltato. “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. Il cuore della vita cristiana è quello che il Padre ha detto a Gesù e Gesù ha detto ai suoi. L’amore di Dio è conosciuto, saputo, perciò vissuto. Questo è accettato dalla fede, ma noi non siamo sicuri: dobbiamo fare un atto di fede. Credere che l’amore di Dio è la nostra pienezza è un atto di fede. E questo lo vedi quando ci sono dei santi che vivono con profondità la fede e la carità. Che cosa succede? Succede che siamo invogliati ad imitarlo! Se noi abbiamo ricevuto tanto dall’amore dei santi, perché non posso farlo anche io? La logica della carità è una logica di speranza.Vi esorto a credere, ad amare e perciò a sperare. La speranza non è un esercizio ascetico, vi è anche questa componente, ma è soprattutto questa dimensione: è come stare nell’amore di Gesù, trasformato non solo a noi personalmente, ma a tutto il mondo: “Chi ama la madre, il padre, i figli, i campi più di me non è degno di me”. “Noi abbiamo lasciato tutto per seguirti cosa ci guadagniamo?”

La risposta di Gesù è: “Avrete cento volte tanto e la vita eterna”. Non cerchiamo il centuplo, cerchiamo il Signore e il centuplo arriva! Avere un Santo Patrono non è la testimonianza del centuplo? Ci sono migliaia di persone che fanno riferimento a S. Alessandro come a un modello di vita realizzata. Credete davvero che se noi ci amassimo come ci ama Gesù ci sarebbero ancora le guerre? Immaginate tutte le persone del mondo che si amano come Gesù ci ha amato, credete che ci sarebbero ancora guerre? Ma come facciamo ad amarci come Gesù ci ha amati? Con lo stesso amore con cui Lui ci ha amato. Accogliamo l’invito di Gesù: “Rimanete nel mio amore” affinché la nostra vita sia manifestazione di speranza. 25° di professione religiosa (Fra Giorgio Bonati)

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UNZIONE DEGLI INFERMI

Omelia di Sua Ecc. Mons. Natale Paganelli, Vescovo Makeny in Sierra Leone

Il mio pensiero va al carissimo confratello Padre Aldo Rottini, vostro compaesano, mio confratello nel sacerdozio dell’ Istituto religioso dei Saveriani, morto alcuni anni fa. Pensando a quello che voglio condividere con voi, mi è venuto in mente proprio lui, un grande missionario, che ha vissuto un lungo calvario di malattia. Quando venivo in Italia a Parma, vedevo la sua sofferenza, anche perché ormai la sua mente era partita completamente, però dall’altra parte mi impressionava la sua serenità. All’inizio, pur consapevole che la sua malattia era progressiva, l’aveva accettata serenamente. Nei primi anni mi diceva: “Io andavo a Grignano, al tuo paese a bere un bicchiere di acqua con la tua mamma” perché poi negli ultimi anni non riconosceva più. Questa è la grazia che dobbiamo chiedere per tutti noi al Signore: LA GRAZIA DI SAPERE INVECCHIARE BENE. Qui c’è qualcuno che ha un po’ di anni più di me, ma anche io ho 61 anni e il tempo passa inesorabile per tutti, ma è un dono di Dio poter invecchiare. Questo viene dalla certezza dell’incontro con il Signore. Vorrei sottolineare questo aspetto: purtroppo le nuove generazioni l’hanno perso. Proprio ieri sera stavo parlando con alcuni giovani del mio paese e la maggioranza di loro diceva che non c’è più niente dopo la morte. Io, sentendo queste cose, divento triste. Se noi pensiamo che la nostra vita finisce al cimitero, non c’è più nessuna speranza. A parte la fede ho chiesto loro: “Allora cosa fate, qual è la vostra meta, quali sono i vostri obiettivi?” Il fatto di credere nella risurrezione dei morti, che la nostra vita non finirà nella tomba, ma finirà nella casa del Padre, dà una visione più liberatrice della nostra vita. Ci aiuta a vivere in un modo più pieno questa vita terrena. Io penso che nella chiesa, e penso che le persone più anziane se lo ricorderanno, ci dicevano: “Bisogna sacrificarci qui perché poi andiamo in Paradiso”. C’erano persone che facevano grandi penitenze, come mettere il cilicio; sinceramente io non l’ho mai fatto. Non è così! La proposta di Gesù, del Vangelo è quella di essere felici qui, fin d’ora. Questo forse è il nostro sbaglio: che non siamo riusciti a trasmettere questo alle nuove generazioni. Il Vangelo non è un peso da sopportare, ma una proposta di vita. Siamo liberi di accoglierla oppure no, ma se la accettiamo e ci sforziamo di metterla in pratica, allora davvero saremo felici. Avremo buoni rapporti con tutti e ci prepareremo anche all’incontro con Dio. Il Vangelo non ci chiede di essere perfetti, di essere santi nel senso di perfetti, ma di essere buona gente, fare del bene, rispettare gli altri, aiutare gli altri quando possiamo

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e questo è alla portata di tutti. Certo, c’è chi, come don Sandro Dordi, missionario bergamasco (mi fa piacere vedere il suo quadro), ha accettato di morire. Questo tipo di martirio non viene a caso. Sicuramente lui sapeva che era minacciato per le sue posizioni. Vero martire sull’esempio di S. Alessandro, ha condiviso e sofferto con il suo popolo. Penso a un mio confratello spagnolo morto per l’Ebola qualche anno fa, non è scappato via e il rischio era grande. Abbiamo vissuto mesi di panico. Ha continuato a fare il suo lavoro. Purtroppo ha contratto il virus dell’Ebola ed è morto. Così pensiamo alla testimonianza delle Suore delle Poverelle. C’è qualcuno che vive in modo radicale la fede, però non a tutti è chiesto. A noi è chiesto di essere un poco coerenti nella nostra vita, perché, alla fine, l’incontro più importante

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della vita è l’incontro con Dio, quando alla fine della nostra vita, per noi che crediamo, avremo la possibilità di contemplare il suo volto. Non è facile. Mia mamma, che era una donna di fede, mi diceva: “So che devo morire, ma non ho voglia”. Capisco. Chi ha voglia di morire? Qualcuno che è in situazione estrema, triste e capisco per tutte quelle situazioni che ho incontrato nel mio ministero sacerdotale che desiderano morire in senso buono perché la sofferenza è troppo grande anche la sofferenza morale, ma normalmente nessuno desidera morire. Ecco la giustizia divina: nessuno può allungare la sua vita, nessuno può corrompere il Padre Eterno con il denaro per rimanere in questo mondo più a lungo possibile. Davanti a Dio siamo tutti uguali, ricchi o poveri. Come prepararci? “Avevo fame, mi avete dato da mangiare; avevo sete, mi avete dato da bere; ero nudo, mi avete vestito; ero malato, in carcere, mi avete visitato…”. In Sierra Leone (dove sono io) non c’è nessun povero che possa dire “io non posso fare la carità”, perché accanto a noi c’è sempre chi è ancora più povero. In questi giorni là è successo un disastro a causa di una grave alluvione. Io ho scritto alla mia Diocesi: “Facciamo una colletta subito” anche se non è secondo la loro mentalità. In Italia appena succede qualcosa ci si muove subito attraverso varie collette, attraverso la Caritas. Là non c’è nessuna forma di aiuti strutturati a livello nazionale, anche se c’è molta carità. La risposta è stata immediata. Certo, non si raccoglie quello che si raccoglie in altri Paesi, ma anche noi siamo chiamati ad aiutare. Chi è Gesù per noi? Pietro ha risposto: “Tu sei il Cristo, il figlio di Dio”, ma poi lo ha tradito. Chi è Cristo per noi? È il fratello che ci è accanto, è l’anziano che è solo e ha bisogno di compagnia, è quello a cui manca qualcosa che noi possiamo condividere... A chi è triste possiamo regalare un sorriso. Questa è la vita cristiana e non tante prediche, altrimenti dicono “ha predicato bene, ma razzolato male”! Facciamo questo sforzo. Io prego per voi e voi pregate per me. Tutti ne abbiamo bisogno e in modo particolare noi preghiamo per voi, ammalati che ricevete l’Unzione degli Infermi. Questo sacramento è una richiesta al Signore che vi dia le grazie di cui più avete bisogno in questo momento della vostra vita. Lui sa di cosa avete bisogno. Io prego per voi che vi dia salute, pace, pazienza.

Don Roberto Pennati e don Luigi Ciotti

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SOLENNITÀ DI S. ALESSANDRO CON PROCESSIONE

Omelia di Mons. Davide Pelucchi Vicario Generale della diocesi di Bergamo

In processione per le vie della vostra parrocchia porteremo la statua di Sant’Alessandro, che è il patrono. Quando si parla di Sant’Alessandro ci si riferisce ad un Santo che può essere definito con termini diversi: può essere definito un martire perché è stato ucciso, decapitato; può essere definito un testimone eroico della fede, può essere definito un discepolo esemplare. In questa riflessione che offro vorrei evidenziare un altro titolo che non è alternativo a quei tre che ho già dato, ma li illumina ulteriormente. Vorrei commentare il titolo di Alessandro “amico di Gesù” e quindi tratteggiare un elogio dell’amicizia. C’è una parte del Vangelo che è collocata dopo la Risurrezione di Gesù, quando Gesù incontra alcuni dei suoi discepoli, sulle rive del lago di Tiberiade. Dopo una notte di pesca, senza pescare pesci, infruttuosa, i discepoli vedono sulla riva Gesù. Egli si rivolge a Pietro che l’aveva rinnegato e avrebbe potuto porre domande diverse. Poteva dirgli: “Pietro, ti ricordi le parabole che io ho raccontato?” per verificare se tutto gli era scivolato dalla mente o se le ricordava. Gesù avrebbe potuto, dopo la Risurrezione, rivolgersi a Pietro chiedendogli: ”Pietro, ti ricordi i miracoli che ho fatto nei tre anni passati?”, oppure avrebbe potuto puntare il dito contro di lui per accusarlo: “Mi dici perché pochi giorni fa mi hai rinnegato davanti ad una serva?” Non gli ha fatto nessuna di queste domande, ma gli ha fatto delle domande bellissime sull’amicizia e sull’amore. Gesù non desiderava conoscere altre risposte della vita e della memoria di Pietro, ma desiderava sentire da lui delle risposte sul tema dell’amicizia. E qui permettete un affondo sul quale mi soffermo solo pochi istanti. Quando Gesù chiede a Pietro della sua amicizia, in italiano, nel Vangelo che noi ascoltiamo, sentiamo ripetere: “Pietro, mi ami tu?” poi la seconda volta “Pietro mi ami tu?” e poi la terza volta “Pietro mi ami tu?”. Però la traduzione italiana un po’ impoverisce il testo greco che invece contiene due verbi che hanno due significati diversi, che proverò in breve a spiegare. C’è un verbo “agapao” che fa riferimento all’amore, ad un livello di amore più alto e c’è il verbo “fileo” che fa riferimento ad un livello di amore più basso. Nella prima domanda Gesù si rivolge a Pietro e gli chiede usando il verbo greco agapao: “Pietro, mi vuoi tu bene, di un amore gratuito, fortissimo, radicale e grande?” e Pietro gli risponde col verbo “fileo”: “Gesù, ti voglio bene con un amore d’amicizia”. E Gesù pone la seconda domanda: “Pietro, mi ami tu?” usando ancora il verbo “agapao” e Pietro gli risponde ancora:

“Gesù, ti voglio bene con un amore d’amicizia”. E sapete com’è la terza domanda? Gesù abbassa la domanda, abbassa la richiesta, usa il verbo “fileo”, capisce che Pietro non è capace di un grande amore, ma di un amore più semplice, che è quello dell’amicizia e gli dice: “Pietro, sei capace di volermi bene come un amico vuol bene a un altro amico?”. E Pietro gli risponde: “Sì, Gesù, a questo livello io so esserti amico”. Sì, perché Gesù non ci chiede l’eroismo, ci chiede l’amicizia. L’amicizia, carissimi, è una delle esperienze più dolci, più preziose, più ricche di quanto abbiamo la fortuna di vivere. L’amicizia raddolcisce la nostra esistenza, tutti sentiamo grande bisogno di avere amici, di sentirci amici, di vivere la propria esperienza dell’amicizia. Il Vangelo che abbiamo ascoltato stasera ci aiuta a definire Sant’Alessandro “amico di Gesù”, infatti per tre volte è stata usata nel testo la parola amicizia.

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Gesù dice: ”Nessuno ha un amore più grande di questo”, poi continua: “Voi siete miei amici se fate quello che io vi comando”. Se c’è qui in chiesa qualcuno che ha fatto le scuole superiori e ha studiato un po’ di filosofia e gli autori classici, ricorderà alcune di queste definizioni che si incrociano in genere a scuola. Aristotele in una delle sua opere scrive “Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere” e Cicerone, un altro autore latino, dice : “Non so se al di fuori della sapienza ci sia qualcosa di così bello come l’amicizia”. E anche un autore storico, Epicuro, parlando dell’amicizia, dice: “Tra tutti i beni che la sapienza produce perché l’uomo sia felice, il più grande è l’amicizia”. Noi sentiamo un enorme bisogno dell’amicizia e se ci sono giorni in cui ci sentiamo tristi è perché non abbiamo amici o doppiamente diventiamo tristi se dopo aver avuto amici ci sentiamo traditi da loro o ci sentiamo da loro ignorati… Questo spiega perché la Bibbia elogia tantissimo l’amicizia, fino a quella pagina del Siracide, così nota che è diventa-

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ta addirittura un proverbio, che è presente nel libro del Qoèlet “Chi trova un amico trova un tesoro”. I tesori non si trovano facilmente! Quali sono i benefici che ci dà l’amicizia? Quali sono i benefici che ci derivano nella nostra vita per il fatto di avere amici? ● Primo beneficio: l’amicizia ci aiuta ad avere fiducia in noi stessi. Tutti siamo un po’ esposti al rischio di sottostimarci: “Io non sono capace… io valgo poco… io non ci riesco…”. Quando nella vita c’è un amico, l’amico ci aiuta ad aver fiducia in noi stessi. Lo dico in un’altra espressione simile “Gli amici ci aiutano ad amarci bene”, perché gli amici ci restituiscono l’immagine buona delle nostre virtù. Abbiamo anche dei difetti, delle incoerenze, ma gli amici sono preziosi perché ci permettono di ritrovare fiducia in noi stessi, di non volerci male.

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● Secondo beneficio: l’amicizia ci rende umili, ci fa capire cioè che se noi dovessimo dire (spero che queste parole non appaiano mai sulle labbra di nessuno!) “Io, per essere felice non ho bisogno di nessuno” sarebbe una frase di somma superbia. Se io dicessi ”Sto bene per conto mio, io mi arrangio nella vita senza bisogno di nessuno” sarei assolutamente un orgoglioso, un arrogante, un prepotente. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica una parola buona, che ci esprima un gesto di invito, un gesto di vicinanza. L’amicizia ci permette esattamente di rimanere umili. Ci sono delle persone (spero che non ce ne siano tra di noi) che dicono: “Se io voglio bene, presto o tardi dovrò soffrire, quindi cercherò di non voler bene a nessuno, così non soffrirò”. Immagino che qui in chiesa ci siano marito e moglie, coppie di sposi… Volersi bene è sempre esporsi al rischio di essere ferito, non c’è nessuno che voglia bene a una persona e per quella persona non debba soffrire, anche solo perché può ammalarsi… si può anche perdere la persona amata… Allora il pensiero arrogante: “Io non amo nessuno, così non soffro” crea l’ inferno sulla terra, la più profonda solitudine. L’amicizia è preziosa perché ci fa dire: “Io ho bisogno di amici per essere contento”. ● Terzo ed ultimo beneficio: per vivere bene l’amicizia, bisogna essere capaci anche di vivere bene da soli, ma nessuno dà la qualità e la profondità all’’amicizia se non sa dare la qualità e la profondità alla solitudine. Gesù ha sentito lui stesso che aveva bisogno di amici. Ha avuto come amici una famiglia formata da Lazzaro, Marta e Maria, ha avuto come amica la Maddale-

na, come amici gli apostoli “Voi siete miei amici” , “Non vi chiamo più servi, ma amici”. C’è una pagina del Vangelo in cui Gesù chiama amico persino Giuda…. Forse qualcuno ha sentito la riflessione che fece il giovedì santo del 1958 don Primo Mazzolari. Vi cito il passaggio dell’ omelia a cui don Mazzolari dà il titolo “Nostro fratello Giuda”. Dice: “Povero Giuda! Che cosa sia passato nell’anima di Giuda, io non lo so, è uno dei personaggi più misteriosi del Vangelo, non cercherò neanche di spiegarvelo, ma mi accontento di un po’ di umanità e di un po’ di pietà per il nostro fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza, io non mi vergogno perché io so quante volte ho tradito il Signore! Lasciate che io vi lasci, come grazia pasquale, che Gesù vi chiami amico”. Questa è la gioia: che Cristo ci ama e ci perdona e non vuole che ci disperiamo e anche quando non ci ricordiamo di Lui, anche quando bestemmieremo, anche quando ci affideremo al sacerdote nell’ultimo momento della nostra vita, ricordatevi che per Lui saremo sempre amici, sempre “gli amici”. Quando noi sacerdoti il mercoledì mattina leggiamo l’inno dell’Ufficio, troviamo questa stupenda espressione: “Cristo sapienza eterna donaci di gustare la tua dolce amicizia”. C’è un canto (non so se la vostra corale qualche volta lo propone) che in alcune circostanze viene cantato ai funerali ed è intitolato “Nella notte o Dio”. La prima strofa del canto finisce così “Quando lui verrà sarete pronti e vi chiamerà amici per sempre”. S. Alessandro ci aiuti a vivere la nostra vita dentro questa dolcissima amicizia.

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NUNZIO APOSTOLICO IN ISRAELE

Sua Ecc.za Mons. Leopoldo Girelli, Nunzio Apostolico in Israele

Dopo le esperienze nel Sud Est asiatico, Monsignor Leopoldo ha ricevuto un nuovo incarico assieme a quello di delegato apostolico in Gerusalemme e Palestina: “Un onore rappresentare il Santo Padre in Terra Santa” A partire dal 2006 è stato Nunzio apostolico in Indonesia, in Timor Orientale e delegato apostolico in Malaysia e in Brunei. Attualmente era Nunzio apostolico dal 2011 a Singapore e presso l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean), oltre che rappresentante pontificio non residente per il Vietnam. La sua nuova missione per la pace nel mondo, in un ruolo, quello di Nunzio apostolico in Israele, che è sempre di grande rilievo nella costruzione di possibili processi di pace. Mons. Leopoldo ci affida i suoi sentimenti per questa nomina: “E’ sicuramente un onore r appresentare il Santo Padre nella Terra Santa. Sono lieto di essere stato chiamato a compiere la missione di trasmettere la sua sollecitudine e il suo appello alla pacifica convivenza. La terra Santa e le comunità cristiane che vi risiedono hanno un posto speciale nel cuore di Papa Francesco. Sono grato a lui per questo incarico che mi porta nei luoghi che custodiscono le tracce della storia della salvezza. Nella festa dell’Esaltazione della Croce pongo la mia nuova missione sotto il segno della Croce”. La sua presenza in Israele su che cosa dovrà porre attenzione in modo particolare? “Tra i compiti assegnatimi vi è quello di rafforzare i rapporti tra la Santa Sede e Israele. La Santa Sede sostiene il diritto dello Stato d’Israele a vivere in pace e sicurezza entro i confini riconosciutigli dalla comunità internazionale. Al contempo auspica che il processo di pace israelo-pa-

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lestinese possa trovare uno sbocco positivo, ricercando un compromesso che tenga conto delle legittime aspirazioni dei due popoli”. E per quanto riguarda la missione presso il popolo palestinese? “Sarà mio dovere esprimere concretamente il premuroso interessamento di Papa Francesco per questo popolo. La Santa Sede riconosce lo Stato di Palestina, avendo firmato l’Accordo globale nel 2015. È convinzione condivisa che una pace duratura nel conflitto israelo-palestinese si potrà ottenere soltanto con il riconoscimento e la normalizzazione dei rapporti fra gli Stati arabi e Israele”. La sua nomina prevede anche la delegazione apostolica a Gerusalemme. Cosa rappresenta oggi questa città? “Ritengo un privilegio poter vedere ogni giorno le mura della Città Santa, meta di pellegrinaggio sin dai primi secoli della cristianità. Per quanto riguarda la sua dimensione religiosa la Santa Sede considera la Città Vecchia di Gerusalemme come unica e sacra per i fedeli ebrei, cristiani e musulmani del mondo intero”. In questo primo Natale in Terra Santa come Nunzio apostolico all’inizio del suo ministero il nostro augurio con le parole degli angeli alla nascita di Gesù: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Iniziare questa nuova missione significa salutare i paesi del Sud-Est asiatico. Quale cammino si è sviluppato in questi anni?

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“Provo ammirazione per Singapore, città-stato multietnica, multiculturale e multireligiosa, moderna e prosperosa, punto di arrivo e crocevia del turismo e di intensi scambi commerciali. Ho incontrato una comunità cattolica fedele e generosa. Ho visitato frequentemente le trentadue comunità ecclesiali che mi hanno mostrato una Chiesa dinamica e sensibile. Dell’Asean apprezzo l’intento unitario e pacifico, nonché l’efficacia della diplomazia multilaterale che ha consentito alla regione di progredire componendo pacificamente i propri conflitti. Al Vietnam ho riservato il mio più grande impegno. È un paese meraviglioso con un popolo affidabile e una comunità cattolica viva, gioiosa e fervida. La Chiesa là è tenacemente dedita a testimoniare la fede anche in contesti ostili. Il percorso per una piena libertà religiosa in Vietnam non è ancora breve, ma i progressi sono costanti. Nutro fiducia che gli sviluppi in atto, benché lenti, possano giungere a stabilire finalmente le relazioni diplomatiche tra il Vietnam e la Santa Sede. Lascio una regione dove sono venuto in contatto con il buddismo, l’induismo e l’islam, ora mi sposto in Medio Oriente, culla dell’ebraismo e della nostra fede cristiana. Sono sempre più persuaso che la pace nel mondo passa attraverso il sincero e costante dialogo interreligioso”.

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FOTO MARE - PINARELLA

NOTRE DAME DE PARIS MUSICAL

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FESTA DELLA COMUNITÀ E PALIO 2017

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CRE 2017

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CARDINALE GIANFRANCO RAVASI

LECTIO MAGISTRALIS S. Em. Cardinale GIANFRANCO RAVASI

DIRITTO, RELIGIONE, SOCIETÀ REGGIO CALABRIA - 7 SETTEMBRE 2017 UNIVERSITÀ MEDITERRANEA AULA MAGNA “ANTONIO QUISTELLI”

«Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». L’affermazione del filosofo francese Paul Ricoeur fissa in un’istantanea simbolica una crisi che attraversa la società contemporanea: all’efflorescenza straordinaria degli strumenti tecnici, finanziari, mediatici, gestionali si accompagna spesso una vera e propria anoressia dei valori che reggono e orientano la scienza, l’economia, la comunicazione, l’etica e la stessa religione, quando queste realtà sono autentiche. La riflessione che proponiamo ambirebbe a considerare nell’orizzonte del diritto - che è una componente fondamentale della società - questo connubio tra norma e fine, tra prassi e progetto, tra codice e filosofia morale, tra procedura e ideale, tra giurisprudenza e ágraphos nómos,

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quella legge non scritta esaltata dall’Antigone di Sofocle (v. 453), in un passo divenuto così celebre da avere infinite riprese già nella classicità (Senofonte, Platone, Demostene, Tucidide, Filone etc.).

LA NATURA UMANA L’orizzonte tematico che ci proponiamo è evidentemente complesso e vasto, passibile di molteplici declinazioni e analisi. Seguiremo solo alcune traiettorie di una mappa molto semplificata, basandoci su categorie antropologiche e sociali capitali, consapevoli che su di esse esistono prospettive interpretative diverse; anzi, in qualche caso, nelle loro fondamenta è transitato un terremoto culturale.

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Basti solo pensare al “politeismo dei valori” registrato già da Weber e ora assunto a statuto della cultura globale; oppure si può rimandare al soggettivismo applicato alla nozione di “verità” o alle sabbie mobili del relativismo etico. In questa incessante mobilità socio-culturale una categoria primaria e radicale da rimettere in circuito è quella di natura umana, ossia ciò che caratterizza l’identità della persona in senso “metafisico”, oltre la mera struttura fisica. La domanda è sostanzialmente questa: è possibile nel pluralismo appena evocato recuperare un concetto condiviso di “natura” antropologica che impedisca di scivolare (o di accontentarsi) nella pura e semplice proceduralità sociale? Per rispondere – sia pure solo in modo “impressionistico” – a una questione così imponente, potremo risalire nel pensiero occidentale lungo due grandi fiumi ermeneutici, dotati di tante anse, affluenti e ramificazioni ma ben identificabili nel loro percorso. Il primo ha come sorgente ideale il pensiero aristotelico che per formulare il concetto di natura umana ha attinto alla matrice metafisica dell’essere. La base è, perciò, oggettiva, iscritta nella realtà stessa della persona, e funge da stella polare necessaria per l’etica. Questa concezione dominante per secoli nella filosofia e nella teologia è icasticamente incisa nel motto della Scolastica medievale Agere sequitur esse, il dover essere nasce dall’essere, l’ontologia precede la deontologia. Questa impostazione piuttosto granitica e fondata su un basamento solido ha subìto in epoca moderna una serie di picconate, soprattutto quando – a partire da Cartesio e dal riconoscimento del rilievo della soggettività (cogito, ergo sum) – si è posta al centro la libertà personale. Si è diramato, così, un secondo fiume che ha come sorgente il pensiero kantiano: la matrice ora è la ragione pratica del soggetto col suo imperativo categorico, il “tu devi”. Al monito della “ragione”, della legge morale incisa nella coscienza, si unisce la “pratica”, cioè la determinazione concreta dei contenuti etici, guidata da alcune norme generali, come la “regola d’oro” ebraica e cristiana («non fare all’altro ciò che non vuoi sia fatto a te» e «fa’ all’altro ciò che vuoi ti si faccia») o come il principio “laico” del non trattare ogni persona mai come mezzo bensì come fine. Frantumata da tempo la metafisica aristotelica, si è però assistito nella contemporaneità anche alla dissoluzione della ragione universale kantiana che pure aveva una sua “solidità”. Ci si è trovati, così, su un terreno molle, ove ogni fondamento si è sgretolato, ove il “disincanto” ha fatto svanire ogni discorso sui valori, ove la secolarizzazione ha avviato le scelte morali solo sul consenso sociale e sull’utile per sé o per molti, ove il multiculturalismo ha prodotto non solo un politeismo religioso ma anche un pluralismo etico. Al dover essere che era stampato nell’essere o nel soggetto si è, così, sostituita solo una normativa procedurale o un’adesione ai mores dominanti, cioè ai modelli comuni esistenziali e comportamentali di loro natura mobili. È possibile reagire a questa deriva che conduce all’attuale delta ramificato dell’etica così da ricomporre un nuovo fenotipo di “natura” che conservi un po’ delle acque dei due fiumi sopra evocati senza le rigidità delle loro mappe ideologiche? Molti ritengono che sia possibile creare un nuovo modello

centrato su un altro assoluto, la dignità della persona, còlta nella sua qualità relazionale. Si unirebbero, così, le due componenti dell’oggettività (la dignità) e della soggettività (la persona) legandole tra loro attraverso la relazione all’altro, essendo la natura umana non monadica ma dialogica, non cellulare ma organica, non solipsistica ma comunionale. È questo il progetto della filosofia personalistica (pensiamo ai contributi di Lévinas, Mounier, Ricoeur, Buber). È quello che sta alla base della stessa antropologia biblica. Se, infatti, assumiamo la prima celebre pagina della Genesi, noi scopriamo che il parallelo esplicativo dell’«immagine» divina nella creatura umana è il suo essere «maschio e femmina»: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Genesi 1, 27). La trascendenza presente nell’umanità è, quindi, da individuare non tanto nell’anima (come dirà la successiva tradizione soprattutto cristiana) quanto nella relazione che unisce uomo e donna, nella loro capacità di amare e generare, riflesso del Dio creatore. Si configura, così, in un ambito più ampio interpersonale il concetto morale, esistenziale e religioso di amore e quello di solidarietà, coniugati in un equilibrio delicato con l’esigenza della giustizia. La natura umana così concepita recupera una serie di categorie etiche classiche che potrebbero dare sostanza al suo realizzarsi. Proviamo a elencarne alcune. Innanzitutto la virtù della giustizia che è strutturalmente ad alterum e che il diritto romano aveva codificato nel principio “Suum cuique tribuere” (o Unicuique suum) sul quale ritorneremo: a ogni persona dev’essere riconosciuta una dignità che affermi l’unicità ma anche l’universalità per la sua appartenenza all’umanità. Nella stessa linea procede la cultura ebraico-cristiana col Decalogo che evoca i diritti fondamentali della persona alla libertà religiosa, alla vita, all’amore, all’onore, alla libertà, alla proprietà. Nella stessa prospettiva si colloca la citata “regola d’oro”.

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In sintesi, l’imperativo morale fondamentale si dovrebbe ricostruire partendo da un’ontologia personale relazionale, dalla figura universale e cristiana del “prossimo” e dalla logica dell’amore nella sua reciprocità ma anche nella sua gratuità ed eccedenza. Per spiegarci in termini biblici a tutti noti: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (reciprocità), ma anche «non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (donazione). Inoltre, in senso più completo, nel dialogo “iotu” è coinvolto – come suggeriva il citato Ricoeur – anche il “terzo”, cioè l’umanità intera, anche chi non incontro e non conosco ma che appartiene alla comune realtà umana. Da qui si giustifica anche la funzione della politica dedicata a costruire strutture giuste per l’intera società. La riflessione attorno a questi temi è naturalmente più ampia e complessa e dovrebbe essere declinata secondo molteplici applicazioni, ma potrebbe essere fondata su un dato semplice, ossia sulla nostra più radicale, universale e atemporale identità personale dialogica. Nello spirito del dialogo interculturale e interreligioso proprio di questa nostra considerazione, vorremmo concluderla con una parabola desunta dal mondo tibetano buddhista. In essa si immagina una persona che, camminando nel deserto, scorge in lontananza qualcosa di confuso. Per questo comincia ad avere paura, dato che nella solitudine assoluta della steppa una realtà oscura e misteriosa – forse un animale, una belva pericolosa – non può non inquietare. Avanzando, il viandante scopre, però, che non si tratta di una bestia, bensì di un uomo. Ma la paura non passa, anzi aumenta al pensiero che quella persona possa essere un predone. Tuttavia, si è costretti a procedere fino a quando si è in presenza dell’altro. Allora il viandante alza gli occhi e, a sorpresa, esclama:

«È mio fratello che non vedevo da tanti anni!».

SOCIETÀ E RELIGIONE Un altro percorso tematico di particolare rilievo, anch’esso

strutturale ai fini della riflessione che stiamo ora conducendo, è quello del rapporto tra fede e società dalle molteplici applicazioni, soprattutto nell’ambito della relazione tra religione e politica, tra la comunità ecclesiale e quella civile. Questa interazione – che può essere concepita in modo dialettico, antitetico e conflittivo ma anche secondo un contrappunto armonico – è in un certo senso un corollario della visione antropologica generale appena descritta. Un giorno Cristo viene provocato dai suoi avversari a intervenire sulla questione fiscale, ossia sul tributo imperiale da versare da parte dei cittadini dei territori occupati da Roma, un tema sul quale interverrà anche san Paolo in un passo veramente sorprendente della Lettera ai Romani (13,1-7) sul quale ritorneremo. La replica di Cristo ai suoi interlocutori è lapidaria: Tá Káisaros apódote Káisari kai ta Theoú Theó, «rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (si può leggere l’episodio sia nel Vangelo di Matteo 22,15-22, sia in quello di Marco 12,13-17 o di Luca 20,20-26). Risposta tagliente e a prima vista netta nel trac-

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ciare una linea di demarcazione che dovrebbe esorcizzare ogni teocrazia (la shari‘a musulmana, per la quale il codice di diritto canonico diventa il codice civile, non è evangelica) e ogni cesaropapismo. Tuttavia, il discorso è più sofisticato e complesso se si tiene conto della parabola in azione che Gesù sviluppa attorno a quella frase. Egli, infatti, argomenta tenendo tra le mani simbolicamente una moneta con l’“immagine”, l’icona (eikôn in greco) dell’imperatore, simbolo evidente della politica e dell’economia, alla quale viene riconosciuta una sua autonomia, un campo di esercizio proprio, una sua capacità e indipendenza normativa. Ma ai lettori di oggi sfugge l’ammiccamento testuale ulteriore che Gesù introduce per il suo uditorio ebraico. Infatti - e l’abbiamo già fatto notare - nella Genesi (1,27) si ha la definizione dell’essere umano come “immagine” (nella versione greca eikôn, icona) di Dio. Si delinea, in tal modo, un profilo specifico dell’area “di Dio” distinta da quella “di Cesare”. Si tratta della tutela della dignità superiore e inalienabile della persona e della sua natura intrinseca: la libertà, le relazioni, l’amore (come si è appena visto per il passo della Genesi), i grandi valori etici assoluti della solidarietà, della giustizia, della vita non possono essere meramente funzionalizzati all’interesse politico-finanziario e piegati esclusivamente alle esigenze delle strategie del sistema o del mercato. La missione dei profeti biblici e dello stesso Cristo è stata appunto quella di essere una sentinella sulla frontiera tra Cesare e Dio, proprio nella difesa di questi valori. Memorabile è il «Non ti è lecito!» che Giovanni Battista grida all’arroganza del potere del re Erode Antipa. Martin Luther King nel suo scritto Forza di amare, affermava: «La Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, ma è la sua coscienza». È, però, indiscutibile che la questione si aggrovigli quando si procede nella declinazione storica di questa visione di principio, proprio perché entrambi gli attori, Cesare e Dio, ossia lo Stato e la Chiesa o il laico e il credente, si interessano di un soggetto comune, la società fatta di uomini e donne, e quindi i contrappunti e i conflitti di giudizio sono sempre in agguato. Ci si è, così, lasciati spesso tentare dalle scorciatoie. Da un lato, si è configurato il progetto teocratico, talora

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esplicito oppure solo sognato: «Questo tempio è il mio paese, non ne riconosco altri», proclamava il sommo sacerdote ebreo nel dramma Atalia (1691) di Jean Racine. E proprio perché a gestire questo disegno era il clero, prevalente rispetto ai laici, cioè i semplici fedeli, il termine “clericale” ha acquisito una connotazione sospetta o essenzialmente negativa. D’altro lato, però, prendeva contemporaneamente corpo la spinta opposta, caratterizzata da un atteggiamento di protesta contro il distendersi del manto sacrale, ma anche dallo stizzito desiderio di ridurre alle corde la casta religiosa, espellendola radicalmente dalla polis per relegarla nel ristretto spazio templare, tra le volute degli incensi e i melismi dei canti liturgici. È in questa linea che il termine “laico” acquistava l’accezione ora dominante, spoglia di qualsiasi radice religiosa originaria (ove indicava il laós, cioè il popolo cristiano, rispetto ai pastori della Chiesa), e si trasformava nell’orgogliosa affermazione dell’assoluta indipendenza e del primato della politica sulla religione. Ad essere più rigorosi, dobbiamo distinguere tra “laicità” («rendete a Cesare ciò che è di Cesare») e “laicismo” (che elide o reprime il «rendete a Dio ciò che è di Dio»), vocaboli che quindi non sono sinonimi. L’antitesi è quella che corre tra “laicità” e “sacralismo teocratico” o “fondamentalismo” e non tra “laicità” e religione. La laicità è, allora, strutturalmente necessaria anche per una corretta dottrina teologica; il suo mancato rispetto attraverso intromissioni “clericali” esplicite o surrettizie genera disordine e crea tensioni che si riverberano in altri campi sociali. Dopo tutto, Gesù Cristo – come si legge nella Lettera agli Ebrei (7,14; 8,4) – non apparteneva alla casta sacerdotale ebraica di Levi, essendo membro della tribù “laica” di Giuda. Detto questo e proprio sulla base dell’impostazione ora descritta, è necessario riconoscere in modo parallelo la libertà di parola e di azione all’area dell’«immagine di Dio» (per usare la distinzione di Cristo), cioè della religione contro ogni tentazione “laicista”. Questo implica non solo l’esercizio libero del culto e l’elaborazione del pensiero teologico in senso stretto, bensì anche la funzione di essere coscienza critica nei confronti dei valori personali e sociali della giustizia, del bene comune, della vita, della verità, nella consapevolezza che l’uomo e la donna trascendono il pur legittimo ordinamento economicopolitico, dotato di sue norme proprie. Per concludere, il nodo delicato è precisamente in questa interazione indispensabile tra i due ambiti, capace di impedire che lo Stato diventi un Moloch e l’economia un Leviatan dominatore e che la Chiesa debordi dal suo orizzonte assumendo forme di integralismo teocratico.

tro ogni tentazione integralistica, la netta distinzione tra i due ambiti, distinzione complessa nel suo esercizio anche perché essa non significa né opposizione né separatezza assoluta, essendo comune l’oggetto, ossia la persona umana e la società. Infatti, sempre più si è consapevoli dell’insufficienza di almeno due approcci giuridici. Il primo è quello legato alla concezione del diritto come mero sistema normativo-procedurale asettico e formale senza implicazioni antropologiche e umanistiche (qualcosa di analogo può essere reiterato per l’economia). In questa luce si potrebbero legittimare senza batter ciglio esiti come il diritto nazista. Il secondo modello è quello esclusivamente sociologico per cui il diritto sarebbe semplicemente una codificazione di una prassi comportamentale prevalente. In realtà, essendo il sistema giuridico uno strumento per accedere al bene comune, esso deve avere al suo interno finalità sociali costanti che eccedono una pura e semplice contingenza. È in questa prospettiva che si può esercitare un dialogo tra diritto ed etica. Vorremmo, al riguardo, proporre una esemplificazione significativa. Ci riferiamo al particolare equilibrio che deve intercorrere tra giustizia ed equità che non sono totalmente sinonimi, come già affermava Aristotele nell’Etica Nicomachea: «Il giusto e l’equo non sono la stessa cosa e, pur essendo entrambi eccellenti, l’equo è il migliore... L’equo è giusto ma non secondo la legge, al contrario è una correzione del giusto legale... La natura dell’equità è di essere correzione della legge nella misura in cui essa viene meno a causa della sua formulazione universale» (1137b). È nota, al riguardo, la riflessione di John Rawls nel suo saggio Giustizia come equità. Una riformulazione (Feltrinelli, Milano 2002). Aveva già intuito questa aporia la classicità romana col celebre adagio Summum ius summa iniuria, citato da Cicerone nel suo De officiis (I, 10, 33) e declinato poi in mille forme diverse, introducendo anche categorie ulteriori come la pietà (Dostoevskij), la carità (Mauriac), la clemenza, le attenuanti e così via, nella consapevolezza che un diritto troppo rigido e frigido può trasformarsi in ingiustizia. Folgorante è un asser to di don Lorenzo Milani: «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le par ti uguali tra diseguali».

DIRITTO E RELIGIONE Restringendo l’orizzonte della nostra analisi, affrontiamo ora un binomio più specifico, quello del rapporto tra il diritto e la religione e, quindi, tra la norma giuridica e il precetto morale. Proprio per le considerazioni precedentemente svolte, anche in questo caso è da affermare, con-

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È, questa, una più circoscritta applicazione di un altro motto del diritto romano, il citato Suum cuique tribuere, attribuito a Ulpiano nel suo Digesto (I, 10, 1) e ribadito da Giustiniano nelle sue Institutiones (I, 1, 3), sintetizzato nella formula Unicuique suum, nota per la sua presenza in capo all’“Osservatore Romano” e nella versione italiana A ciascuno il suo, titolo di un romanzo di Leonardo Sciascia (1966). In alcuni casi una certa “parzialità” diventa paradossalmente il massimo dell’imparzialità. È questo il senso anche del sorprendente appello del biblico Qohelet a «non essere troppo giusti» (7,16). A questo punto vorremmo, invece, invertire i ruoli e mostrare come la religione possa essere uno stimolo fecondo per il diritto e non solo quando ribadisce il valore della giustizia, ma anche quando diventa una spina nel fianco con la sua provocazione. È il caso di quella Magna Charta del cristianesimo che è il “Discorso della montagna” di Gesù (Matteo 5-7). Esso, a prima vista, sembra il sovvertimento e persino la negazione del diritto coi suoi precetti radicali: «non giudicare», «porgere l’altra guancia», “perdono del nemico e così via...” A questo riguardo il pensatore Jean Charbonnier osservava: «Il diritto è certamente giustizia e attribuisce a ciascuno il suo dovuto, ma è anche grazia, ricerca della pace, ripristino della concordia e dell’amore. Lì potrebbe essere la sostanza del diritto evangelico», presente in quelle pagine matteane. La funzione di essere coscienza critica può espletarsi da parte della religione in vari modi, a partire dagli imperativi del Decalogo e dalla voce dei profeti che, ad esempio, con Isaia denunciano la giustizia ingiusta: «Guai a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente... Guai a coloro che emettono decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per

frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per defraudare gli orfani» (5,23; 10,1-2). Oppure è la stessa legislazione biblica che, pur essendo “incarnata” in coordinate storiche contingenti, può trasformarsi in monito morale attuale anche per una questione rovente dei nostri giorni: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo straniero che soggiorna in mezzo a voi... Quando uno straniero risiederà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Lo straniero residente fra voi lo tratterete come colui che è nato tra voi. Anzi, lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri in terra d’Egitto» (Esodo 12,49; Levitico 19,33-34). Siamo, così, su un terreno nel quale l’appello etico può penetrare anche nelle aule processuali e nell’esercizio del potere giudiziario, oltre che nel palazzo della politica. In questa luce è facile evocare molti ammonimenti sottesi agli aforismi della tradizione classica e cristiana, a partire dalla certezza del diritto messa in crisi dalla proliferazione elefantiaca delle leggi: Corruptissima republica plurimae leges, affermava già Tacito (Annales III, 27, 3), ripreso anche dall’ Esprit des lois di Montesquieu. Parallela è anche l’esortazione alla perspicuità lineare della legislazione per una sua comprensione aperta a tutti, come sosteneva nelle sue Epistolae ad Lucilium Seneca: Legem brevem esse oportet quo facilius ab imperitis teneatur. La morale sapienziale, poi, ha coniato, pare fin da Solone, il detto purtroppo sempre valido che compara le leggi a «una ragnatela: se vi cade qualcosa di leggero, essa lo trattiene, mentre ciò che è pesante la rompe e fugge via». Un motto che due scrittori come Carlo Porta e Honoré de Balzac hanno reso con una metafora molto vivace. Eccola nella versione di Balzac: «Le leggi sono ragnatele che le mosche grosse o i calabroni sfondano, mentre le piccole vi restano impigliate» (in Maison Nucingen del 1838). Anche a questo livello più semplice e popolare, diritto e morale possono procedere insieme.

LEGALITÀ E RELIGIONE Intendiamo col termine “legalità” l’osservanza delle leggi, un capitolo estremamente vario nelle sue applicazioni perché deve calibrare l’incontro tra l’oggettività della norma e la soggettività della coscienza e dell’adesione del singolo. Si tratta di un incrocio spesso arduo nella sua concretezza, come insegna il tema dell’obiezione di coscienza che non è possibile affrontare ora nelle sue molteplici sfumature e implicazioni. Noi ci accontentiamo, invece, di sviluppare la questione con una premessa di indole generale e con una successiva applicazione particolarmente grave e rilevante che attiene al sistema criminale alternativo alla legalità. La premessa punta al legame tra etica e legalità, considerato dal punto di vista della morale. Mentre è evidente che alcune norme giuridiche sono cogenti anche in sede etica, possono esserci di primo acchito imposizioni legali prive di impatto morale. Tuttavia, anche in questo settore si possono registrare esempi significativi che ripro-

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pongono quel vincolo. Facciamo un paio di esempi. Pensiamo innanzitutto al codice della strada che, a una prima impressione, può apparire solo come un regolamento legale asettico, apparentemente estraneo al dominio morale. Ma come non vedervi in azione anche una delle virtù cardinali, la prudenza? Una sua violazione grave, che conduce al cosiddetto “omicidio stradale”, rivela chiaramente che l’osservanza di quelle regole ha un rilievo non solo penale ma anche morale. Ancor più emblematico è il secondo esempio che suggeriamo, quello riguardante il sistema fiscale. Esso può sembrare solo una struttura politicogestionale della cosa pubblica. Si tratta, invece, di una realtà che è finalizzata al bene comune e, come tale, ha implicazioni etiche. Non era, perciò, corretta una prassi spesso in passato sostenuta anche in ambito teologico secondo la quale l’evasione o l’elusione fiscale era considerata merepoenalis, cioè un’imposizione che ricadeva soltanto sotto il regime della punizione legale e non aveva ridondanza morale. Si è, così, creato indirettamente anche quello scarso senso dello Stato, tipico di alcuni paesi a matrice cattolica. Certo da un lato, la corruzione politica cade già evidentemente sotto il marchio non solo della penalità ma anche della moralità. D’altro lato, però, essa non può costituire un alibi per l’evasione fiscale. L’osservanza delle norme tributarie è da san Paolo esaltata in modo netto e in chiave morale-religiosa nel paragrafo già citato della Lettera ai Romani (13,1-7), tanto che egli giunge al punto di affermare: «Pagate le tasse: quelli che sono incaricati dell’esazione sono al servizio di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, versate le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto» (13,6-7). Non si dimentichi che allora a capo dell’impero romano c’era Nerone. Affermato il legame dell’etica col diritto attraverso i due esempi appena indicati, ora possiamo allargare la nostra considerazione su una grave questione spinosa, la coesistenza serena e persino codificata tra sacro e criminalità, una contiguità che trasforma la religione in un sostegno paradossale per giustificare l’illegalità e il delitto. In questo ambito svetta la realtà mafiosa, studiata secondo tale prospettiva da vari saggi, tra i quali spiccano quelli di Alessandra Dino. La mafia devota. La Chiesa, la religiosità, Cosa Nostra (Laterza, Roma-Bari 2008) e di Salvo Palazzolo e Michele Prestipino, Il codice Provenzano (Laterza 2007). Siamo in presenza di un fenomeno registrato già dai profeti biblici che lo condannavano con veemenza. Lapidaria è, al riguardo, una frase che Isaia mette in bocca a Dio: «Non posso sopportare delitto e solennità» (1,13). E il discorso divino proclamato dal profeta è molto articolato, giungendo al punto di denunciare come farsa sgradevole la ritualità del criminale, la sua preghiera ipocrita, le sue false devozioni, perché ben altro è il culto che Dio si attende: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia» (1,16-17). La religiosità dei mafiosi ignora questo che è il cuore della vera fede e, senza imbarazzo – come ricorda il citato magistrato Prestipino, che del tema è un grande esperto (potremmo dire in corpore vili) –si giunge al paradosso per cui «un killer di Cosa nostra, ogni volta che gli ordinavano di commettere un omicidio, prima si recava in Chiesa e pregava s. Rosalia perché lo proteggesse e perché l’azione andasse a buon fine e, dopo

averla commessa, tornava dalla santa per ringraziarla del buon esito dell’azione». Queste degenerazioni blasfeme e idolatriche si sono trasformate in un vero e proprio culto perverso tra i “narcos” del Messico con la venerazione della “Santa Muerte”, modellato sulla popolare Vergine di Guadalupe. Da noi le esemplificazioni sono più immediate, come attestano i “pizzini” religiosi (sic!) di Bernardo Provenzano che citavano ininterrottamente Dio, Gesù Cristo e la divina Provvidenza o come si scopre attraverso gli altarini, i vari santini, persino le Bibbie e i testi spirituali, i libri di preghiere ritrovati nei covi o nei bunker dei mafiosi. In realtà si tratta di una deformazione religiosa in cui la Chiesa deve ora porsi – e lo fa anche sotto lo stimolo delle staffilate di Giovanni Paolo II o di papa Francesco e delle testimonianze di figure come il beato don Pino Puglisi – in antitesi assoluta a questa che è in realtà irreligiosità e ipocrisia blasfema, divenendo una costante spina nel fianco di ogni forma mafiosa. Questa scelta può essere anche una catarsi per certe connivenze del passato quando alcuni pastori in anni di guida di una diocesi o parrocchia non osavano pronunciare mai la parola “mafia” o “’ndrangheta” o “camorra”, oppure quando parroci, come ricordava Alessandra Dino nel suo saggio, ai funerali di un capo-mafia non esitavano ad appellare alla «giustizia divina, la sola che non sbaglia e alla quale nessuno può sottrarsi e raccontare il falso, mentre quella terrena può commettere grandi errori». Come ha sottolineato il noto magistrato Giuseppe Pignatone, la religiosità mafiosa sfrutta «il legame esistente tra la Chiesa e larghi strati delle popolazioni dell’Italia meridionale» adottandolo come «sovrastruttura permanente attraverso cui camuffare la reale essenza dell’organizzazione » basata sulla violenza, l’ingiustizia, l’illegalità, ossia sull’esatto opposto dell’autentica fede. Meritano, perciò, di essere segnalati gli inequivocabili appelli e giudizi che il magistero ecclesiale più alto ha moltiplicato in questi ultimi decenni, a partire dalle ormai famose parole di san Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 ad Agrigento: «La nostra fede esige una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità della persona e della convivenza civile».

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Nel 2010 erano, invece, i vescovi italiani a «condannare con forza una delle piaghe più profonde e durature del Mezzogiorno, un vero e proprio cancro, una tessitura malefica... Le mafie sono la configurazione più drammatica del “male” e del “peccato”». Nello stesso anno, il 3 ottobre 2010, a Palermo era Benedetto XVI a sollecitare i giovani a «non cedere alle suggestioni della mafia che è una strada di morte, incompatibile col Vangelo». Un monito che papa Francesco ha ribadito con sdegno a Napoli, nel quartiere emblematico di Scampia il 21 marzo 2015, ricorrendo a quell’inedito termine secondo il quale «la corruzione spuzza», evocando quindi non solo il fetore del sangue versato ma anche il tanfo morale che avvolge quella struttura perversa. Ed è dei nostri giorni l’impegno comune di Chiesa e Stato con tutti i loro organi istituzionali – soprattutto nella regione calabrese – per erigere una barriera contro la violenza mafiosa, togliendole gli alibi religiosi delle processioni e dei santuari (Polsi ne è un’attestazione esplicita).

LA VOCE DI CESARE BECCARIA L’esercizio della giustizia è un atto talmente alto e delicato che deve sempre imporre al giudice «timore e tremore», per usare un’espressione paolina (1Corinzi 2,3). Anche se si è adottato comunemente a livello di lessico il lemma “potere giudiziario”, bisogna sempre ricordare che si tratta, più che di un dominio, di un servizio alla comunità da espletare con competenza giuridica, con rigore documentario, con umiltà morale. Il magistrato dovrebbe, perciò, rivolgere a se stesso l’interrogativo di Dante (anche se nell’originale destinato a un diverso oggetto): «Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?» (Paradiso XIX, 79-81). È la consapevolezza del proprio limite creaturale perché, come scriveva Jorge Luis Borges nella poesia Calma spavalda, «La mia umanità sta nel sentire che siamo voci / di una comune indigenza». È questa consapevolezza che rende più capace il giudice di unire giustizia ed equità, come abbiamo sopra indicato. Concludo la riflessione, ampia ma sempre incompleta, finora condotta con una testimonianza personale. Dal 1989 al 2007 come Prefetto della Biblioteca - Pinacoteca Ambrosiana ho custodito, oltre al Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, opere d’arte e migliaia di codici manoscritti letterari, storici, teologici, artistici, giuridici. Alle mie spalle, nella cosiddetta “Sala del Prefetto”, cioè nello studio ufficiale, si levava la libreria di Cesare Beccaria che, oltre a vari volumi, conservava molti vari suoi testi autografi. Tra questi campeggiava il manoscritto originale, tormentato a livello di stesura, dell’opera che lo ha reso celebre, Dei delitti e delle pene (1764). Vorrei, perciò, lasciare a lui la parola per tre note finali rispettivamente sulla certezza delle pene, sulla pena di morte e sulla prevenzione. «Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle

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pene, ma l’infallibilità di esse... La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggior impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell’impunità» (c. XXVII, “Dolcezza delle pene”). «Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (c. XXVIII, “Della pena di morte”). «È meglio prevenire i delitti che punirli» (c. XLI, “Come si prevengono i delitti).

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COMUNIONI - 7 MAGGIO 2017

Cari bambini volete essere felici? La sorgente della felicità che tutti cerchiamo è Gesù Cristo: “Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla”. Fra il pastore e le sue pecore si instaura un rapporto affettivo.

 Il pastore chiama ogni pecora per nome e questa ne riconosce la voce, porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri e raduna le pecore perdute.Va alla ricerca della pecora perduta.  Gesù afferma: “IO SONO IL BUON PASTORE”.  Cari bambini, siamo chiamati a seguire Gesù il Buon

Pastore. Perché? Perché il Buon Pastore offre la vita per le pecore a prezzo della propria vita. Gesù oggi non vi regala qualcosa ma vi dona se stesso. DONO TOTALE DI SÉ nel pane che diventa il suo corpo, nel vino che diventa il suo sangue.

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Gesù il Buon Pastore va alla ricerca della pecora bene ad un agnellino? Come si può non voler bene perduta, anche quando noi ci allontaniamo da lui a questi bambini? Coccolateli ora che sono ancora ci vuole bene e ci perdona perché noi non siamo piccoli, dedicate loro tempo. i nostri errori. Nella Messa noi diciamo a Gesù: Tu  Ognuno di noi, chiunque ha un compito educativo: che sei l’Agnello di Dio che togli i peccati del mondo genitori, sacerdoti, insegnanti, allenatori, catechisti, abbi pietà di noi… beati voi bambini invitati oggi alla suore, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociamensa del Signore, ecco fra poco in una frazione di li… deve avere un cuore da vero pastore che porta pane e in un sorso di vino l’Agnello di Dio che toglie sul petto o meglio nel cuore le pecore con maggior i peccati del mondo. Noi risponderemo piccoli e attenzione agli agnellini piccoli e indifesi nella comgrandi: “Non sono degno di partecipare alla tua menplessità dei nostri giorni. Maggior attenzione alle pesa ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”. core anziane e malate e chiunque è in situazione di  Cari Genitori, seguire Cristo Buon Pastore significa pericolo o di sofferenza per indicare la retta via e a nostra volta DIVENIRE BUONI PASTORI. La ridare la gioia della vita. similitudine del Buon Pastore non è rivolta solo ai Cari genitori, questi bambini sono nativi digitali. Siate sacerdoti, al don, ma in modo particolare a voi gebuoni pastori e se oggi a questi bambini fate dei nitori primi educatori, mi auguro padri e madri nella regali tecnologici non è un semplice telefonino che fede non solo nell’accompagnare i vostri bambini in gli regalate e neppure uno strumento, ma un monchiesa, alla messa la domenica, ma nel continuare do che entra nella loro giovane vita ancora indifesa. il vostro cammino di ricerca e di approfondimenImparate anche voi ad usare saggiamente internet to della fede. Voi avete accompagnato i vostri figli e i social network altrimenti non darete l’esempio e loro vi hanno accompagnato in chiesa. Guardate e il piccolo imita il grande e non riusciamo a metbene al vostro bambino, alla vostra bambina pecoterli al riparo dai pericoli e a renderli consapevoli rella del Signore. Oggi vi chiedono non dei regali rispetto ai pericoli. So che non è facile e che siamo materiali ma il dono del vostro amore…mamma e lenti. Abituare i figli all’uso per obiettivo dei mezzi papà mi vuoi bene? Vi chiedono nelle gioie e nelle informatici e negoziare con loro i tempi.Trascorrete fatiche di ogni giorno di volervi bene perché dove tempo online con i figli. Mantenere i figli a contatto c’è carità e amore lì c’è Dio. con la realtà, a non dialogare solo col mondo vir Cari genitori ed educatori vi auguro con le parole tuale e incapaci di un dialogo vero con chi gli vive di Papa Francesco di essere buoni pastori che poraccanto: famigliari, compagni. Educateli ad un dialogo tano l’odore delle pecore. Chi segue Gesù segue col mondo reale, al rispetto del creato, all’amore agli un’unica legge: l’AMORE che non conosce confini, animali, fateli uscire e incentivateli a fare uno sport e non si ferma di fronte a nessun ostacolo, a nessun anche mantenere un certo controllo su PC e Smarsacrificio, a nessun dolore. È una questione di cuotphone. re. Non dimenticatevi che per essere buoni pastori, bravi maestri si è sempre agnelli e studenti alla scuola del Vangelo, alla scuola di Gesù, unico vero Pastore e Maestro, per essere immagine di Cristo. Imitate Don Lorenzo Milani morto 50 anni fa il 26 giugno 1967 a soli 44 anni, che è stato un buon pastore, un buon maestro, un buon educatore, che ha avuto a cuore i suoi ragazzi per un insegnamento di vita illuminato dalla sapienza del Vangelo fino a dire nel suo testamento; “cari ragazzi ho amato più voi che Dio”. Evitate atteggiamenti di buonismo lasciandogli fare tutto quello che vogliono senza NO e senza RINUNCE. Siate educatori e non difensori d’ufficio delle cause perse di comportamenti sbagliati dei vostri figli. Non siate autoritari ma autorevoli. “L’ha detto il mio papà, la mia mamma” ed io aggiungo che per loro le vostre parole a questa età sono Parola di Dio. Non caricate sulle loro fragili spalle pesi enormi per stanchezza, nervosismo e a volte incapacità di vero amore. Non manchi la tenerezza e l’amore nei loro confronti. Come si può non volere

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CONTROLLATE IL FATTORE TEMPO: Controllate la quantità di tempo che trascorrete online. Educateli al dialogo più profondo del cuore con Dio nella preghiera, nell’ascolto della Parola di Dio e nell’Eucarestia ogni Domenica, giorno del Signore e non dipendenti dalla tecnologia.

 Cari bambini, quanti cattivi pastori di volgarità e di scemenza offre questo mondo. NON SEGUITELI ! Quanti esempi di bene, nella vostra intelligenza SEGUITELI !  Cari bambini i vostri cuori sono puri come quelli dei tre pastorelli di Fatima (Lucia, Francesco e Giacinta). Cent’anni fa, il 13 Maggio 1917, con i loro occhi videro la Madonna. Fra pochi giorni il 13 maggio 2017, Papa Francesco a cent’anni dalle apparizioni

dichiarerà questi bambini Santi.Vi auguro oggi come i discepoli di Emmaus al termine di questo cammino di preparazione di riconoscere Gesù Buon Pastore nello spezzare il pane perché come ci ricorda Saint Exupery nel piccolo principe, l’essenziale è invisibile agli occhi ma non al cuore. Vi auguro di diventare Santi, di saper ascoltare e seguire Gesù.  Cari bambini chi vogliamo seguire? Oggi Gesù si manifesta a voi nel segno del pane e del vino come il Buon Pastore e chiede ad ognuno di voi: Vieni e seguimi.  Cari bambini non siate la pecora nera che fa quello che vuole ma “Se lo vuoi Tu Gesù lo voglio anche io”. Cari bambini non siate pecoroni che fanno le cose solo perché le fanno gli altri, ma usate la vostra testa e il vostro cuore. “Signore da chi andremo, tu solo hai parole di vita, di vita eterna”.  In questo giorno di festa, non per rattristarvi ma per condividere gioie e dolori, vi chiedo di ricordare nelle vostre preghiere Luca, il giovane papà della piccola Michelle che domenica scorsa è volato in cielo e che martedì abbiamo salutato nella fede. Questa bambina speciale a maggior ragione aveva bisogno del volto del papà come buon pastore. Dal cielo sia il suo angelo custode, ma qui sulla terra questa bambina accanto alla sua mamma trovi tanti volti di papà buon pastore, nella scuola e nella comunità e nessun bambino soffra perché orfano di padre e madre vivi !!!

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 Oggi Gesù Buon Pastore prima di scendere dalla croce e sedersi a tavola con noi vivo, come con Marcellino pane e vino, ha fatto il miracolo della comunione radunando attorno a voi cari bambini anche i vostri parenti più lontani o chi da molto tempo non vedete a fare festa, facendo superare qualsiasi distanza geografica o di incomprensione e divisione per sedersi alla stessa tavola e sono convinto sono qui accanto a noi anche i nostri cari che sono nell’eternità. Sono momenti di grazia anche per noi adulti

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per chi li sa cogliere per un cammino di vita e di amore e non una parentesi di un giorno.  Cari bambini in questo giorno così speciale vi chiedo una preghiera speciale per quelle giovani pecorelle che stanno vivendo una seria malattia, per la loro guarigione e per le loro famiglie e di unirvi al mio cuore, al mio pensiero, alla mia preghiera come pastore di anime nel ricordare mio fratello che era pastore di pecore perché sia nella visione beata di Gesù Buon Pastore e pregate anche per me per essere immagine di Cristo Buon Pastore.  Cari Bambini amate Dio nella bellezza del creato, negli animali, nel volto di ogni persona, del papà e della mamma e con le parole di Marcellino rivolte a Gesù “Vuoi bene alla tua mamma?” SI, io di più e chi non l’ha più sa cosa vuol dire e con immensa gioia spalancate il vostro cuore a Gesù Buon Pastore nella sua Parola e nell’Eucaristia…Vieni Signore Gesù.  Abbiate sempre il desiderio di giocare con l’amico del cuore Emmanuel = Dio con noi (non solo nello spazio baby in sagrestia dono per la vostra prima comunione a tutti) ma nel cercarlo nella messa perché Gesù non si vede ma lui c’è. La liturgia è gioco. Gesù gioca a nascondino, si vela in un pezzo di pane, vero e necessario alimento per

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tutti dell’anima e del corpo, ma si svela agli umili e semplici di cuore, a voi cari bambini. Pochi giorni fa avete incontrato con tanto entusiasmo l’ultimo pastore e il suo gregge, oggi con immensa gioia incontrate il VERO PASTORE: GESU’. Questa mattina è venuta in sagrestia una bambina di prima elementare a servire la messa e mi è corsa incontro e mi ha abbracciato con una gioia immensa. Così ora andate incontro a Gesù accogliendolo a braccia aperte nel vostro cuore per una gioia immensa e senza fine. Vieni Signore Gesù !

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CRESIME - 14 MAGGIO 2017

Telegramma del PAPA

Reverendo Parroco Don Vittorio Rossi Parrocchia di Sant’Alessandro Martire Piazza Vittorio Veneto, 1 24030 Paladina Ai ragazzi di seconda media che nella chiesa parrocchiale di Sant’Alessandro Martire in Paladina, ricevono oggi il sacramento della confermazione, il Santo Padre Papa Francesco rivolge il suo affettuoso pensiero e mentre auspica che arricchiti dalla speciale forza dello Spirito Santo diano aperta testimonianza a Cristo crocifisso e risorto e adempiano con amore i suoi comandamenti, l’esorta ad impegnarsi per la crescita spirituale del popolo cristiano e invia di cuore l’implorata benedizione apostolica che volentieri estende ai rispettivi genitori, ai padrini, ai parenti presenti al sacro rito.

Cardinale Pietro Parolin Segretario di Stato di Sua Santità

Mittente: Poste Vaticane NR. TG. 0976 00120 Città del Vaticano 25/05/2017 ore 10,54

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LETTERA PASTORALE DEL VESCOVO 2017-2018

Un cuore che ascolta, comunità cristiane in ascolto dei giovani

La lettera pastorale di quest’ anno introduce nel mondo meraviglioso che sono i giovani, le nuove generazioni. È molto importante avere davanti concretamente il volto dei giovani che conosciamo, i giovani delle nostre parrocchie, delle nostre comunità, delle nostre associazioni, di quelli che frequentiamo perché ci sono vicini di abitazione o sono colleghi di lavoro che condividono le nostre stesse passioni. Rispetto al passato, quando operavo in parrocchia o in oratorio o seguivo i giovani in maniera anche intensa in preparazione al matrimonio, o comunque giovani che formavano la loro famiglia, oggi per me non è una cosa abituale, quotidiana frequentare i giovani. Li incontro col contagocce, li incontro insieme, in bellissime esperienze condivise, però quest’anno più che farci raccontare dei giovani, vorremmo incontrarli, riconoscerli, ascoltarli. Con questi sentimenti cerchiamo di scorrere il testo della lettera. Nella presentazione ho raccontato la storia che ora voglio ripetere a voi. È la storia di un padre e suo figlio, che non è più bambino, non è più adolescente, ma è come quei giovani di cui vorremmo parlare e che stanno attraversando tra i venti e i trent’ anni della vita. Questo romanzo di un autore contemporaneo, Michele Serra dal titolo “Sdraiati” è scandito da un invito del padre al figlio: “Andiamo insieme sul colle della Nasca”. Questo padre ritiene che andare col figlio sul colle della Nasca sia l’esperienza decisiva della vita. Questo padre lo ritiene il bene in assoluto: “Tu dovresti venire con me al colle della Nasca, tu non hai idea di come ti piacerebbe, tu non hai idea di quanto ti farebbe bene, sono sei ore di cammino, non troppe, non poche, si dorme nel piccolo albergo sul torrente, ci si sveglia alle cinque, si beve il caffè, si prepara lo zaino, si sale lungo il sentiero nel bosco dei larici alle prime luci del mattino che penetrano tra i rami fitti e con fatica si riesce a vedere dove si mettono i piedi… Si suda e si parla… Vieni con me! Andiamo insieme sul colle della Nasca. Quando ti vedo così pallido, penso che ti farebbe molto bene venire con me al colle della Nasca. So che non ti piace camminare, ma guarda che è solo un pregiudizio. Camminare è una guarigione, un’esperienza di salvezza”. “Se non vieni con me al colle della Nasca non fai un dispetto a me, lo fai a te stesso. Dai, vieni con me al colle della Nasca. Partiamo venerdì mattina e sabato sera sei di nuovo a casa per uscire con i tuoi amici. Te lo chiedo per piacere. Non farlo per me, fallo per te”. Non vi riconoscete? Sì, perché tutti abbiamo un colle della Nasca dove vorremmo portare i nostri figli, un colle che abbiamo sempre desiderato potessero scoprire perché ritenevamo fosse decisivo per la loro vita! Le abbiamo tentate tutte: “Se vieni con me sul colle della Nasca ti pago! Un tanto al chilometro, un tanto per ogni ora di cammino… ci mettiamo d’accordo, non è questo il problema, quanti soldi vorresti? Euro più, euro meno…”. “È stata finalmente decifrata un’antichissima stele rinvenuta tra le pietre e i licheni di una remo-

tissima valle. Risale a 7000 anni fa e contiene la profezia che dice testualmente: -Tra 7000 anni l’umanità sarà dannata e rischierà di scomparire tutta intera: uomini, donne, bambini… a meno che un giovane eroe e il suo vecchio padre salgano insieme sul colle della Nasca. Si salva l’umanità e tu non vuoi venire? Lasci andare l’umanità alla sua distruzione? Di’ la verità! Tu muori dalla voglia di venire con me al colle della Nasca, ma pur di non darmi questa soddisfazione ti ostini a fingere che non ne hai voglia. È così … tu non vuoi darmi soddisfazione”. O ancora: “Se non vieni con me sul colle della Nasca sento che potrei morire di crepacuore”. In certe situazioni si va giù pesante: “Se non vieni con me sul colle della Nasca ti rompo la schiena a bastonate…” o “Io ho preso un appuntamento da un famoso ipnotizzatore perché riesca a convincerti di salire al colle della Nasca”. Ad un certo punto sul libro di Serra si legge: “Poi… finalmente… un giorno ci sei venuto…” Vi ho detto come finisce la storia perché è bello lo stesso leggere questo libro anche sapendo il finale… E… finalmente sì, finalmente padre e figlio vanno… partono! Questo figlio parte, non con tutta l’attrezzatura dell’alpinista, ma con le braghe quelle che hanno il cavallo a mezz’asta, quando… ad un certo punto scompare, non si vede più… e suo padre non se ne accorge e quando lo cerca… non lo vede più… In ansia incomincia a chiamarlo “Forse si è fatto male… Forse si è fermato…”. La storia prosegue: “E finalmente ti ho visto. Eri in alto, molto più in alto di me, quasi un chilometro avanti, appena sotto alla sommità del colle, molto più in alto di me”. Qualcuno mi chiederà dove è il colle della Nasca! Il colle della Nasca è ciò che noi, gli adulti, i padri… riteniamo il meglio della vita; lo è stato per noi e vorremmo che lo fosse anche per i nostri figli, per tutti i giovani, per le nostre comunità cristiane, il meglio che ha a che fare con il Vangelo, con il Signore . Non è detto che questo avvenga, però ci sono delle sorprese, quelle che nella lettera pastorale trovate sotto il capitolo “Una buona storia”. Un autore contemporaneo dice “Se hai una buona storia e qualcuno a cui raccontarla sei salvo”. Mi piace riconoscere che tanti giovani sono una buona storia, io vi voglio raccontare alcuni capitoli della buona storia che ho vissuto con i giovani, come il pellegrinaggio a piedi da Assisi a Roma terminato in modo sorprendente con l’incontro con papa Francesco, una buona storia caratterizzata dal fatto di camminare insieme. Quanti giovani erano? Circa 600: abbiamo camminato per sei giorni e ogni giorno ero sorpreso. Con loro non c’ero soltanto io, ma 40 preti. Camminare insieme. Credo che molti di loro ricordino con altrettanto entusiasmo anche l’ esperienza, come la ricordo io, della Veglia delle Palme, come un capitolo di questa buona storia durante il Giubileo della Misericordia, in quel percorso che terminava nella parrocchia della Celadina.

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Eravamo in 2000 e ad un certo punto siamo entrati in “carcere”. In 2000! Credo che non sia mai successo. Il direttore gentilissimo era stato avvertito dai responsabili di un numero inferiore. Entravano… entravano… Il direttore diceva: “Non dovevano essere 500?” e gli rispondevano: ”Sì… siamo pochi!”… I detenuti stavano a guardare, alcuni alle finestre, alle grate… Abbiamo ascoltato la testimonianza di alcuni di loro, tra l’altro alcuni giovani avevano preparato questo incontro e poi mentre eravamo lì, in questo clima intenso (per alcuni era la prima e forse l’unica esperienza in carcere… me lo auguro!), terminate le testimonianze e la preghiera, quando noi eravamo rivolti verso l’uscita e le persone erano dietro alle nostre spalle… tutti ci siamo voltati e abbiamo salutato con le mani alzate… In carcere ci hanno detto che non lo dimenticheranno più. È una buona storia. È una buona storia anche quella della Gmg a Cracovia. Anche qui non eravamo pochi, eravamo 1800, una delle Diocesi con la rappresentanza più alta, visto anche il numero dei nostri abitanti. Abbiamo condiviso momenti di intensità e di festa, semplici dal punto di vista della sistemazione, ma anche di grande intensità per l’incontro e le esperienze forti con giovani di tutto il mondo: per alcuni era una novità, per altri un appuntamento. Ci sono, però, anche buone storie che si ripetono qui vicino a noi… Mi piace ricordare la proposta che c’è da molti anni, molto consolidata, del Gruppo Samuele. Lì sono passati centinaia, migliaia di giovani, uomini, donne… Cinque anni fa ho desiderato anche di accoglierli; ogni anno 40, 50, 60, 70 giovani ed anche più… giovani ventenni e trentenni che vogliono fare un percorso di riscoperta seria della fede. A questo Gruppo si accompagnano altre esperienze, non solo di giovani, ma anche di adolescenti. Come dimenticare le centinaia di giovani partiti per le Missioni... Desidero che anche noi, le comunità cristiane ci uniamo e diventiamo capaci di narrare queste buone storie. Penso all’ infinità di educatori animatori, allenatori, catechisti, giovani, adulti, anziani, uomini, donne (in questo momento, però, mi piace mettere in risalto i giovani) che investono tempo, intelligenza, entusiasmo, disponibilità per svolgere compiti come questi per i più giovani di loro, per le persone che formano la nostra comunità, per altri giovani che forse non sono così disponibili come loro… Mi piacerebbe appunto che le nostre comunità guardassero i volti dei giovani riconoscendovi una buona storia o almeno la possibilità di una buona storia. Non facciamo pesare quelle inevitabili delusioni che a volte ci attraversano. Qualche volta, è vero, si sperimentano delusioni, ma non lasciamo che la delusione sia invadente. Io ho parlato solo di storie buone che assumono un volto comunitario, ma ci sono infinite storie personali, molte storie che non prendono una visibilità particolare, ma sono buone storie. Io penso che un approccio a questo universo delle giovani generazioni, che noi vogliamo in maniera particolare esplorare in questi anni, meriti una porta d’ingresso di questo genere, ma non soltanto stasera, non soltanto quest’anno, anche avanti negli anni, come atteggiamento diverso della comunità cristiana. D’altra parte proprio perché ci introduciamo attraverso questa porta (che ci apre il cuore e ci rasserena) siamo provocati

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da una domanda, una domanda molto particolare perché l’universo della vita è amplissimo, una domanda che ci interessa in quanto siamo credenti e vorremmo immaginare che appunto, siccome la fede è per noi come la vetta del colle della Nasca, sia affascinante, bella, importante e decisiva per tutti e mi stupisco che non sia così. Non è così! Qualche volta siamo talmente sorpresi, anche un po’ impauriti, da pensare che su questa terra siamo rimasti solo noi i credenti. Non è vero, però ci sembra che le nuove generazioni: i giovani, i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri pronipoti siano indifferenti a ciò che per noi non solo è caro, ma decisivo e ci sembra proprio il bello della vita, il colle della Nasca.Tra i giovani e Dio c’è un’ ostilità, ci sembra addirittura che ci sia indifferenza. Perché? Perché? Incontro tante volte adulti: mamme, papà, nonne, nonni che mi dichiarano la loro sofferenza, la loro delusione, direi anche un senso di colpa: “Non sono stato capace!”. Perché? Le ragioni sono tante, alcune sono proprio degli slogan: “È sempre stato così, ma poi ritornano…”. Sono un po’ di decenni che vanno dicendo: “Quando le persone che sono qui in chiesa moriranno, le chiese resteranno vuote!”, ma le chiese sono decenni che si riempiono ancora, si vede che ad una certa età ritornano… Tornano quando hanno un figlio che va alle elementari, tornano per il matrimonio… Tornano, tornano… E così ci consoliamo dicendoci che… alla fine qualcosa pare funzioni. Cosa volete, siamo in un’epoca così: la secolarizzazione c’è, specie qui in occidente, non possiamo farci niente. Si dice: ”Ha da passà sta nuttata!”. Come il padre del colle di Nasca diciamo che abbiamo fallito o che le abbiamo tentate tutte! Oppure è nata una nuova religione? Non è vero che i giovani non credono, credono a modo loro “Dio a modo mio”, cioè credono in un modo diverso. È una risposta ricorrente e interessante come tante altre, ma io credo che, come tutte le risposte generiche, rischia di non rendere ragione della verità, soprattutto della verità di ogni singola persona. Qualche volta ho avuto anche questa impressione: che una persona giovane, e non solo giovane, ma certamente una persona giovane, scelga di essere indifferente nei confronti di Dio come risposta all’indifferenza di Dio nei suoi confronti. Noi annunciamo l’amore di Dio: “Dio non ti dimentica, Dio non ti abbandona” e qualcuno racconta che Dio non l’ha incontrato mai, da nessuna parte… non l’ha mai visto… Queste son parole nostre… Ma non è così! “A Dio non interessa niente della mia vita… e perché io dovrei interessarmi della sua?”. Insieme a queste ragioni ce ne sono tante altre, di fatto, però, ci sembra di percepire che c’è una lontananza, una distanza… Sarà proprio così? Apparentemente ci sembra così e questa constatazione ci porta a quella che ritengo una “tentazione”. Ed è la tentazione del “resto”. Una volta eravamo tutti cristiani, adesso non è più così, molti si sono allontanati, oggi rimane un piccolo “resto”, come il “resto” d’Israele ed è anche vero, però, che il “resto” d’Israele non ha scelto di diventare un “resto”, si è ritrovato così e Dio ha cominciato la sua storia con quel piccolo “resto”. Bisogna quindi fare attenzione che il “resto” non diventi una scelta. Siamo rimasti noi che siamo i credenti, i buoni … quelli che resistono, gli altri si salveranno per mezzo di noi. È rimasto un “resto” di giovani, ma non voglio che l’immagine

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di “resto” diventi un alibi rispetto alla missione di Gesù che è per tutti, sempre: per quelli che lo accolgono e per quelli che non lo accolgono, per quelli che in questo momento incontriamo e per quelli che non incontreremo mai. È per tutti. Rimarremo in pochi, ma io non sono un esegeta. Quando leggiamo Paolo che parla ai Romani, ai Colossesi, ai Corinzi… dobbiamo pensare che parla a piccolissime comunità, ma è come parlasse al mondo, perché Gesù è di tutto il mondo. Il Papa, in uno dei discorsi d’introduzione al Sinodo dei giovani, si esprimeva così: “Abbiamo ascoltato il Vangelo, abbiamo cantato, abbiamo pregato, abbiamo portato i fiori alla Madonna, abbiamo accolto la croce che arrivava da Cracovia e domani la consegneremo a Panama dove ci sarà il Sinodo da cui nessun giovane deve sentirsi escluso”. Qualcuno potrebbe dire: “Ma perché non facciamo il Sinodo per i giovani cattolici?” o “Perché non facciamo il Sinodo per tutti i giovani che appartengono alle associazioni cattoliche, così è più forte?”. No. Il Sinodo è per tutti i giovani. “Anche per i giovani che sono agnostici?” Sì. “Anche per i giovani che sono lontani dalla chiesa?” Sì. “Anche per i giovani che (non so se ce n’è qualcuno, ma forse ci sarà) si sentono atei?” Sì. Sì. Sì, perché il Vangelo è destinato a tutti. Vi do qualche numero, molto sommario, tanto per avere l’ idea di chi stiamo parlando: i venti- trentenni per cominciare, qui a Bergamo sono 110.000 mila su una popolazione di un milione. Quindi bisogna dire tra le altre cose che 10.000 sono presenti nelle nostre comunità, negli oratori, nelle forme più diverse; 2.000 venti-trentenni li ritroviamo ancora in oratorio nelle associazioni. Questo per farci l’idea di che cosa significhi parlare di venti-trentenni qui a Bergamo. Prima che il Papa indicesse il Sinodo dei Vescovi sui giovani, ci siamo interrogati non sugli adolescenti che arrivano fino ai 18 anni, ma soprattutto su questa fascia di età (venti-trentenni) che molti sacerdoti chiamano “la fascia di seminagione”. Cosa vuol dire “seminagione giovane”? Non è una frase compiuta, manca il verbo, sono due sostantivi, due nomi… Vuol dire che stiamo pensando di seminare il Vangelo nel cuore dei giovani oppure che sono i giovani a seminare il Vangelo nelle nostre comunità, sulle nostre strade? Il seme è il Vangelo o il buon seme della giovinezza? Abbiamo volutamente lasciato le due parole ad interpretazioni diverse perché effettivamente questi movimenti e molti altri son quelli che si verificano: una volta i giovani sono i seminatori, una volta sono il campo, una volta sono il seme… insomma c’è tanta possibilità di variare fra queste due dimensioni: la seminagione e i giovani. Certo, seminagione ha a che fare con qualcosa di vivo. C’è questa bellissima immagine che io ho più volte adottato nei Consigli, nei percorsi che ho fatto in questi anni: l’immagine dello “scrigno”. È l’immagine che ho molte volte utilizzato nel parlare delle nostre tradizioni, delle nostre strutture, delle nostre iniziative. Tutto questo è come uno scrigno prezioso: le nostre chiese, i nostri oratori, le nostre iniziative, tutto ciò che ha formato lo scrigno. È uno scrigno prezioso, ma proprio prezioso, incastonato di gemme, uno scrigno così prezioso che fa nascere la domanda: “Se lo scrigno è così prezioso, cosa mai ci sarà dentro?” E la risposta? Come facciamo a saperlo? Dobbiamo aprire lo scrigno per saperlo… ed è sempre una sorpresa, ogni volta, perché… lo scrigno può anche essere

“vuoto”. Lo scrigno è preziosissimo e l’attesa è grande, perché uno scrigno così non può che contenere qualcosa di ancora più prezioso… La delusione è grande: dentro non c’è niente. Io apro lo scrigno con la certezza che dentro ci sia la famosa perla preziosa, la perla per la quale “sei disposto a vendere tutto, anche lo scrigno!”. Per forza deve essere così! Ci può essere qualcosa di più prezioso della perla? Apro lo scrigno e ci trovo dentro il seme: il seme è più prezioso della perla. Perché? Perché è vivo! Fin quando lo scrigno custodirà il seme, ci sarà vita. Il paradosso qual è? Che io il seme lo lasci sempre nelle scrigno. Se voglio che il seme non muoia… devo seminarlo. Così il seme vive. Ecco, tutto questo dà un segno, una ragione ai giovani, questa immagine ci dice che non bastano le nostre infinite iniziative. Io continuo a ripeterlo. Facciamo attenzione a non moltiplicare le iniziative, le iniziative non ci mancano. Per carità… non sto dicendo di non fare iniziative, ma stiamo attenti di non ridurre tutto alle iniziative. Che cosa possiamo, dobbiamo fare in questi anni? Riconoscere le buone storie, riconoscere il seme e i frutti che sono nati da quel seme. Cari fratelli e sorelle, nel Vangelo, prima di tutto, Gesù ci apre gli occhi: prima di dirci di andare, prima di dirci di amare, prima di dirci di fare come lui… ci apre gli occhi. Ci apre gli occhi per vedere lui in azione, per vedere come fa lui, per vedere se il seme che lui sta spargendo cresce, per vedere che quel chicco di grano che muore sulla croce… porta dei frutti. Riconoscere: questo è il verbo fondamentale, riconoscere che il regno di Dio è in mezzo a noi. Ma noi ci crediamo o no? O crediamo di più a quelle notizie che ogni sera ci raggiungono sui “media” e ci sconvolgono e avvolgono la nostra esistenza? Il regno di Dio è stato inaugurato da Gesù, è in mezzo a noi e dobbiamo guardare questo, è da questo riconoscimento che nasce qualcosa di diverso, perché il seme porta frutto. Noi abbiamo ceduto alle logiche della produzione: produciamo, produciamo… Dobbiamo fare attenzione che le nostre comunità non consolidino solo processi produttivi: abbiamo oratori, abbiamo organizzazioni, abbiamo volontari, abbiamo… abbiamo… Basta avere solo processi produttivi, ci vogliono anche processi generativi, ci vuole vita, vita, vita.. Mi hanno sempre colpito nei brani del Vangelo i miracoli della risurrezione dei giovani. Nel Vangelo ci sono tre risurrezioni, oltre quella di Gesù. Lui risuscita tre persone, ma due sono giovani. Bisogna generare vita, ragioni di vita, speranze di vita, esperienze di vita. Va bene se abbiamo le nostre belle strutture, ma devono essere generose, generare vita. Alla luce di tutto questo, c’è nella Lettera pastorale il capitolo dedicato ai “MEMO”. Avete presente quei bigliettini gialli che si incollano pere la casa: “Devo prendere il latte…”, “Sono uscita, torno alle 19”… Sono otto biglietti gialli che io appendo come promemoria in questa Lettera, ma sono questi i tre più importanti, perché sono manifesti che rappresentano le “terre esistenziali” proposte dal Vangelo: PRIMO “MEMO”: le terre di missione oggi sono le terre esistenziali dei giovani, cominciando dall’esperienza dei legami, dall’esperienza degli affetti, dall’esperienza dell’amore, delle amicizie… delle relazioni. Una volta c’era la solitudine degli anziani, abbiamo scoperto che oggi c’è anche quella degli adolescenti e quella dei giovani, se pur sempre interconnessi.

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Via via… troviamo altre “terre” legate ai giovani: il lavoro, lo studio, il mondo dei social-network, anche i nuovi stili di vita… Tra le terre del disagio ricordo una terra esistenziale molto originale: vediamo persone che vengono da altri Paesi, persone che non sono nate in questo Paese, famiglie che sono qui da anni e cominciano ad invecchiare anche loro… ma i loro figli sono giovani e i loro nipoti anche di più! Le persone che stanno arrivando in questi anni in forme così dolorose ci interrogano o pongono dei problemi: sono giovani che ci fanno ricordare che il nostro continente invecchia, che il nostro Paese invecchia, che la nostra Diocesi invecchia e quando noi mettiamo fuori il naso dal nostro continente troviamo tutti giovani. Allora, al di là dei problemi di indole sociale, culturale ed anc he ecclesiale… è un segno dei tempi. Cosa ci dice questa moltitudine di giovani che forma gran parte dell’umanità e di cui una piccola parte ci sta raggiungendo? Cosa ci dicono questi giovani, cosa ci stanno dicendo? Anche questa è una terra esistenziale dei nostri figli che ora viaggiano in tutto il mondo e continuamente entrano in contatto con altri giovani di altri Paesi di tutto il mondo. E se escono dall’Occidente si accorgono che i giovani non sono più una minoranza, perché… sono tutti giovani! SECONDO “MEMO”: quel benedetto colle della Nasca capiamo che è una proposta del Vangelo, quindi il secondo memo è il Vangelo. Se stiamo dicendo queste cose è perché crediamo nel Vangelo, perché crediamo nel Signore. TERZO “MEMO”: è che il Signore mi ha fatto inevitabilmente

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in compagnia, non sono solo a fare la mia vita, non sono un uomo che si è fatto da solo! Invece noi purtroppo la pensiamo così! Qualche volta mi è capitato di sentire da qualche imprenditore: ”Sono partito dal niente e mi sono fatto da solo!”. Mi veniva da sorridere pensando: “Abbia almeno la decenza di avere un piccolo gesto di attenzione verso sua moglie!”. Qui il discorso della fede che prende la forma della vita è quello che noi chiamiamo con termine tecnico: vocazione. Cari fratelli e sorelle, voglio ripetere a voi l’invito che San Paolo ha rivolto ai padri nella lettera indirizzata agli Efesini: “Non esasperate i vostri figli!”, che vuol dire “Non togliete la speranza ai vostri figli!”! Occorre che i padri e i figli, gli adulti e i giovani si donino reciprocamente fiducia e finalmente condividano la gioia. Perché tanta tristezza? Il nuovo arcivescovo di Milano in un suo recente discorso ha detto: ”Bisogna che lasciamo entrare in noi, nella nostra casa, l’angelo dell’Annunciazione perché la prima parola che ha pronunciato è stata “Rallegrati!”. Ribadisco che il soggetto della mia “lettera pastorale” non sono i giovani, ma la comunità cristiana in relazione con i giovani e durante questo triennio nostro impegno sarà ascoltare Dio che ci parla dei giovani e nei giovani. Mi piace concludere con le parole finali del libro di Michele Serra, messe in bocca al padre quando, dopo l’ansia provata sul colle di Nasca per la presunta scomparsa del figlio, al suo affannoso richiamo sente rispondere: “Papà, sono qui!” e lui esclama: ”Finalmente posso diventare vecchio!”.

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GIOVANI E... IL FUTURO

Un cuore che ascolta

“Il giorno dopo, Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’Agnello di Dio!” e i suoi discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e osservando che essi lo seguivano disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì! (che tradotto significa Maestro) dove dimori?” disse loro: “Venite e vedrete!” (Gv) Domanda dei giovani al Vescovo Come affrontare il tema del dolore, dell’insuccesso in un mondo in cui siamo abituati ad avere tutto e subito? In che modo la Chiesa e l’Università potrebbero dare la necessaria attenzione alla crescita personale umana dello studente? Vescovo: “Sono convinto che il futuro rappresenta sempre il meglio, a fronte di un’inquietudine diffusa. Non ritengo di aver vissuto in tempi in cui i motivi di inquietudine fossero rari. L’educazione che ho ricevuto, le persone che ho incontrato, la fede che mi ha ispirato, mi hanno sempre aperto uno sguardo sul futuro da poter conquistare ed essere conquistato, un futuro che ti abbraccia, che ti attende senza aver paura. Il Vangelo ci pone questa domanda: “Di che cosa avete paura? Perché avete paura?”. A questa domanda Gesù dà una risposta che è molto insistente, con espressioni diverse, con un messaggio provocante. Gesù nel Vangelo più di una volta ripete: “Non abbiate paura!” Questa affermazione suscita un’altra domanda: “Come facciamo a non aver paura?” La paura non si decide, si subisce. Io posso anche dichiarare in questo momento di non aver paura, ma nel momento in cui mi troverò nella condizione che alimenta paura probabilmente mi troverò a sperimentarla. Ritengo coraggiosi gli uomini, non quelli che non provano paura, ma quelli che sanno affrontarla e vincerla. Come fare a vivere la paura oggi? La risposta non è facile, è un suggerimento, una possibilità: avere il coraggio di alzare lo sguardo. Penso sia un’ immagine pertinente perché spesso avverto sguardi che si abbassano. È una difesa legittima, non ragionata, ma è una difesa. Io credo che occorra il coraggio di alzare lo sguardo alla ricerca amichevole di un altro sguardo. L’altro è il mio sguardo. Quando frequentavo l’Università fatta di amicizie, a volte mi capitava di arrivare assonnato e durante la lezione di patrologia il professore mi disse un giorno: “Beschi, tu potresti appartenere alla setta degli “ombelicali” reclini su se stessi, che è esistita nei primi secoli del cristianesimo; c’è stata anche questa esperienza spirituale, mistica, che secondo me anche oggi ha seguaci, non per ragioni morali o estetiche, di introspezione, ma di un ripiegamento su se stessi. Alzare lo sguardo non solo per vedere l’orizzonte indefinito di fronte alle innumerevoli ostilità, ma alzare lo sguardo per incontrare lo sguardo di un altro nel segno dell’amicizia. Termino questo primo passaggio con il ricordo della lettura di un autore americano ebreo che ha scritto molti romanzi. Uno di questi romanzi “Il dono di ascendere”, narra la vi-

cenda di un grande artista americano che vive con la moglie delicatissima, la quale spesso la sera ricorda come ebrea la guerra, quello che le è successo. Una sera, dopo aver visto un film sulla guerra, racconta al marito: “Ero nascosta in una casa e quando sono uscita ho cercato i miei cari e non li ho più trovati; allora ho desiderato morire, però non avevo notizie di mia madre e allora tutta la mia speranza si è concentrata nella possibilità di ritrovarla. Un giorno è arrivata la notizia che anche mia madre era morta”. Con le lacrime agli occhi confida al marito: “Quel giorno volevo morire, desideravo poter morire, poi ho incontrato te”. Una persona per vivere ha bisogno di una buona ragione e la migliore ragione è un’altra persona. Domanda dei giovani al Vescovo Cosa ne pensa delle persone che vanno a Messa, ma non sono religiose? Vescovo: Sulla questione di una persona di un’altra religione, che non crede in Dio, ma che desidera poter partecipare a momenti intensi della vita cristiana, innanzitutto c’è da dire che le porte delle chiese sono aperte per tutti, anche per chi non crede, anche per le persone che si avvicinano a volte per curiosità, a volte perché stanno cercando… È bello immaginare che la Chiesa possa essere un approdo della ricerca. In qualche modo mi auguro che l’immagine della Chiesa possa offrire oggi (in una società in cui le chiese sono tante e lo skyline delle nostre città non è più disegnato dai campanili) accoglienza a persone che riconoscono la capacità attrattiva non solo di questi luoghi, ma di quello che rappresentano. Benvenute le persone che ne superano la soglia! D’altra parte questa domanda, questo dubbio, mi pone un’altra questione che non riguarda solo il fatto che la porta della chiesa sia aperta, ma che ci sia un’ accoglienza, cioè che le persone possano avvertire la suggestione di un luogo che è molto forte. A me, quando visito luoghi dove si è pregato per secoli, piace il silenzio, perché sento le pietre pregare, talmente impregnate come sono di preghiera. I luoghi della preghiera, non solo quelli cristiani, sono luoghi che mantengono il loro fascino che non può essere consumato, programmato… Luogo può essere il momento iniziale alla soglia per andare a qualcosa che ognuno cerca di più, per andare ad un incontro… ed è appunto l’incontro che inevitabilmente deve essere mediato. L’incontro con Dio non è immediato, ma mediato dalle persone, dai loro volti. Ecco perché l’Eucaristia che viene celebrata è per tutti! Oggi coloro che si dicono cristiani, che alimentano una relazione fra di loro, dovrebbero essere un’attrattiva, ma non sempre lo è. I cristiani sono capaci di un’ accoglienza? Fanno sì che una persona che viene da lontano, che non è credente, che appartiene ad un’altra religione si senta appartenente? Io credo che questo tema sia di grande rilevanza, non solo nel costruire relazioni, ma nel costruire futuro, dove il ruolo delle religioni si rivela ancora vitale.

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Qualche decennio fa noi vivevamo nella convinzione che le religioni sarebbero scomparse, non dalla fitta delle religioni, ma dall’orizzonte delle scoperte. La religione oggi viene ritenuta da molti un fatto privato. Siamo di fronte a un muoversi di scenari mondiali in cui le religioni giocano, nel bene e nel male, dei ruoli fortissimi. Distinguiamo fede e religione, ma nello stesso tempo la fede prende la forma della religione e oggi le religioni sono soggetti importanti sullo scenario mondiale, al di là del numero delle persone che aderisce a quella religione. Non solo le religioni devono fare i conti in rapporto tra le diverse religioni, ma con la vita dell’uomo. La persona, non credente o appartenente ad altra religione, che chiede: “Posso partecipare all’Eucaristia?” pone una domanda e indica delle strade. La strada del dialogo interreligioso, della tolleranza, della comprensione è una strada di un rilievo enorme. Ogni religione è portatrice di verità e il confronto sulle verità di fede non è semplice, ma d’altra parte oggi ci si pone in modo assolutamente diverso rispetto al passato e trovare l’escamotage che la religione è un fatto privato e personale non regge. La religione si impone non solo a livello sociale, per il grande tema della pace, ma anche perché è un fatto di cultura mondiale. Un’ ultima considerazione: il luogo, le pietre che parlano, le persone… sanno provocarci e introdurci al gusto della preghiera e non solo al senso. Professione, lavoro, passione… non devono assolutamente impaurire. Il lavoro lo troverai. Il gusto si scontra con una pervasiva tentazione del consumo. Noi consumiamo, siamo dei divoratori:  Consumiamo le cose, ma non ci accontentiamo di consumare le cose.

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 Consumiamo le esperienze “Non hai ancora provato…” e questo sembra essere il criterio: bisogna provare, consumare tutto, ma non ci basta neppure consumare le esperienze.  Consumiamo gli uomini, noi diventiamo divoratori di uomini. Consumiamo gli uomini, è tremendo essere mangiati dagli altri! Questa è la logica del consumo. Alla logica del consumare si oppone la logica del gustare. Quando studiavo musica d’insieme (non mi piace suonare da solo!) uno dei miei professori che mi insegnava quartetto polifonico mi diceva: “Fin quando un giorno non sentirai un brivido nella schiena come se ti venisse dell’acqua ghiacciata sulla spina dorsale non capirai il gusto di suonare insieme. Questo semplicemente per consigliarvi come prepararvi ad educare il gusto. La passione è una buona strada non per consumare, ma per gustare. Come all’interno dell’Università si può fare esperienza formativa, e non solo, di perfezionamento della conoscenza, anche nell’Università come l’attuale, esposta, mi sia concesso, al rischio della consumazione, dove ognuno consuma… ricercate il gusto e l’amicizia! Io capisco che il ritmo è frenetico, dai corsi da frequentare a tutto quello che dovete fare, ma resistete alla tentazione del consumare in vista di chissà che cosa… che poi non c’è: la paura. Alimentate il gusto di quello che già state vivendo e certamente il gusto si nutre anche di amicizia. Forse oggi non ci può più essere la realtà universitaria di un tempo, ma certamente lo spazio per l’amicizia c’è. L’amicizia, soprattutto all’interno dell’Università, è il grande salto per prepararsi...

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GIOVANI E... IL FUTURO

Mons. Francesco Beschi Vescovo di Bergamo e Prof. Remo Morzenti Pellegrini rettore dell’Università degli studi di Bergamo

Domanda dei giovani al Magnifico Rettore Se lei fosse nei panni di un ragazzo che deve scegliere il percorso universitario e tale percorso avesse pochi sbocchi lavorativi, seguirebbe comunque tale percorso e le proprie passioni? Domanda dei giovani al Magnifico Rettore Come può l’Università essere luogo di integrazione culturale e religiosa come antidoto ad ogni fondamentalismo? In una società come la nostra in continua mutazione, l’Università e la Chiesa sono ancora luoghi fondamentali nell’esperienza dell’incontro culturale, anche con le ragioni complesse quasi sconosciute?

Non è un paese per giovani, Rai radio 2

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Il mondo è cambiato negli ultimi 25 anni Il mondo è cambiato a una velocità incredibile La globalizzazione La tecnologia Gli Stati nazionali non esistono più • Le grandi leggi ,sui grandi temi, le fa Bruxelles • L’economia è stabilita dalla finanza e non più solo dal lavoro.

Bassa natalità, società che invecchia,

• Secondo l’ISTAT un saldo tanto negativo tra le nascite ed i decessi non si registrava dal biennio 1917-1918. • Quando il Paese era impegnato nel Primo conflitto mondiale che ci costò la folle cifra di 1.240.000 morti. • Cambiano gli equilibri mondiali, il baricentro economico, demografico, culturale… • I cambiamenti ci sono sempre stati, ma a questa velocità? • Le nuove tecnologie sono il regno dell’immediatezza e dell’istantaneità. • Sono lo spazio dell’impazienza, sono tali per cui la mano arriva prima del pensiero, l’amicizia prima della conoscenza, il tutto subito prima della fatica del creare. • Siamo più veloci nel fare le cose ma non necessariamente siamo più bravi nell’immaginare il futuro La tecnologia ci ha dato molto, ma stiamo attenti a ciò che ci ha tolto. • Il navigatore satellitare in tutti gli smartphone ha ridotto la nostra capacità di orientarci, • così come l’automobile ha ridotto la nostra capacità di andare a cavallo. (il cambiamento c’è sempre stato)

• esempio sentenze cartacee/banche dati telematiche • Siamo un continuo «Pronto Soccorso» e perdiamo di vista i trend di lungo termine e il pensiero strategico • Abbiate il coraggio di fermarvi, respirare e pianificare • Abbiate il coraggio di non rispettare ciò che avevate pianificato La velocità e la complessità fanno si che è come se fossimo in un eterno pronto soccorso • non cilasciano il tempo di fermarci e fare una pianifica• non ci lasciano il tempo di fermarci e fare una pianificazione a lungo respiro • Che può essere mutata per via dell’imprevedibilità, ma è necessario capire o intuire dove stiamo andando • Un bambino che ha appena iniziato la prima elementare raggiungerà la laurea nel 2033, al più presto… • La capacità più importante è quella di imparare • L’importanza del metodo.

Il lavoro del futuro?

• Non lo possiamo sapere perché quel lavoro non è stato ancora inventato e la vera differenza la faranno la conoscenza e la competenza, ma anche la passione e il coraggio di seguire le proprie aspirazioni. • Il 65 % dei ragazzi che sono oggi a scuola, infatti, farà un mestiere che non è stato ancora inventato. • Molti giovani italiani, al contrario dei colleghi statunitensi che da bambini sanno già che cambieranno in media dai cinque ai sette lavori, sono ancora alla ricerca di uno spazio di comfort che gli possa garantire un impiego stabile. • Secondo la London School of Economics, il 56 % dei lavori rischia di sparire in Italia entro due decenni.

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• I genitori si preoccupano di scegliere la scuola migliore per i loro figli, ma è più importante sapere chi sarà il loro insegnante. • Nel 1992 l’economista Eric Hanushek analizzò migliaia di dati sull’efficacia degli insegnanti e arrivò a una conclusione impressionante: uno studente nella classe di un insegnante particolarmente inefficace - nel 5 % più basso della classifica - impara in media la metà del programma di un anno scolastico; al contrario nella classe di un insegnante molto efficace - nel 5 % più alto – imparerebbe l’equivalente di un anno e mezzo di programma. In altri termini la differenza tra un insegnante buono e uno mediocre vale un anno intero di istruzione. • La soluzione proposta dall’economista americano al problema di come migliorare gli standard educativi era di una semplicità disarmante: licenziare il 10 % peggiore degli insegnanti e sostituirlo con un gruppo di colleghi migliori. • Investire sulla formazione di qualità, quindi, significa offrire al paese quelle forme di politica industriale di cui ha bisogno. • Perché investire in modo serio sulla formazione significa fare politica industriale e scommettere sul futuro, prima che le nuove tecnologie, la robotica e le bioscienze spazzino definitivamente gli ultimi lavori ripetitivi che ancora caratterizzano una larga fascia della popolazione italiana. • Del resto i dieci lavori che nel 2004 erano considerati i più redditizi dalla Net Economy americana oggi sono scomparsi e tutti gli outlook finanziari ci dicono che sempre di più nel futuro si affermeranno professioni in grado di risolvere problematiche complesse e analizzare situazioni di rischio.

Sfuggire ai luoghi comuni • • • • • • • • • • •

Le Università sono troppe I laureati sono troppi Ci sono troppi aeroporti La sanità costa sempre di più per colpa dell’invecchiamento Le future generazioni vivranno peggio dei loro genitori Le Università sono troppe? Proviamo ad entrare nel merito: rispetto a chi (Germania, Francia, …)? in quali discipline? quali Università sono di troppo? quelle piccole? quelle con i bilanci traballanti? Come si procede?

ci ricordava, parlando proprio di fake news in ambito sanitario, un settore che peraltro dovrebbe essere più di altri ancorato da un metodo scientifico, come da più parti si affermi che stiamo vivendo nell’era della disinformazione. Senza un filtro critico, ci si fida, a volte, di informazioni superficiali che influenzano, anche se basate su fragilissime fondamenta, la coscienza collettiva. Si arriva al punto dove non è un fatto a produrre una notizia, ma è una notizia (falsa) a produrre un fatto.

Affermazione:

• Ci sono troppi laureati! • Quesito: • Dove e rispetto a chi? Ma come, l’OCSE anche quest’anno ci ricorda che siamo lontani dalla media OCSE dei laureati che è il 41% dei giovani tra i 25 e i 34 anni, mentre in Italia è il 24%! Semmai, forse, è un problema di discipline Sfuggire ai luoghi comuni, • pensare, documentarsi, • dibattere fino a scoprire se c’è genuinità o fanatismo, • se c’è bontà o rancore, • se si pensa alla collettività o solo a se stessi, • se si agisce per costruire o semplicemente per distruggere. Se penso al numero dei laureati così basso nel nostro Paese, ciò è dovuto a 3 fattori principali: il numero di studenti per docente (tra i più alti nei paesi OCSE), il passaggio dalla scuola superiore all’Università, con forti differenze a seconda del tipo di diploma; il tasso degli abbandoni (In Italia, 45 matricole su 100 raggiungono la laurea).

Si parla di fuga di cervelli con estrema preoccupazione

• dei 30.000 giovani che espatriano ogni anno, i laureati sono circa 8.000 • È sufficiente questo dato per creare tanto allarmismo? Oggi si parla anche di fake news, ma sono sempre luoghi comuni….. Non è nulla di nuovo, le fake news hanno costellato la storia, sono sempre esistite. Qualche giorno fa proprio il corriere

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Cosa può fare l’Università?????

Derek Bok della Harvard University ha scritto: “Se pensate di venire in questa Università ad acquisire specializzazioni in cambio di un futuro migliore, state perdendo il vostro tempo. Noi non siamo capaci di prepararvi per quel lavoro che quasi certamente non esisterà più intorno a voi. Ormai il lavoro, a causa dei cambiamenti organizzativi e tecnologici, è soggetto a variazioni rapide e radicali. Noi possiamo solo insegnarvi a diventare capaci di imparare, perché dovrete reimparare continuamente”. Nel Terzo Millennio l’Università ha abbandonato la sua funzione prevalentemente elitaria di luogo elettivo dell’alta ricerca e dell’alta formazione, riservato solo a pochi eletti, spesso provenienti da luoghi lontani, volta a promuovere solo un rilevante fenomeno culturale e sociale, che attraverso la nobilitazione delle professioni più diffuse, si proponeva di realizzare un clima di stimolante impegno culturale che puntava alla valorizzazione della Cultura, come valore fondativo della formazione. Era il tempo in cui la “laurea” non aveva bisogno di aggettivi: era un’asserzione positiva e chiusa in sé, a tutto tondo.

A che cosa serve l’Università?

In Italia si scrive molto di Università, ma non su quale idea di Università. “E’ molto difficile chiedersi che periodo abbiamo davanti, quali sono le sfide, cosa è probabile che càpiti. Ciò non di meno, dobbiamo provarci, così come ci hanno provato i nostri predecessori” – E. Morin. I problemi che oggi dobbiamo risolvere quindi sono inediti, non basterà solo la volontà politica e competenze tecnico-scientifiche, ma anche una rinnovata capacità di comprendere a fondo altre culture e nuove modalità di soluzioni condivise. Un’idea di Università oggi è da mettere direttamente in relazione con il futuro dei giovani. E’ importante cioè che l’Università torni ad educare persone - che poi saranno anche lavoratori in grado di rimanere produttivi ed intelligenti a lungo – e non a formare lavoratori con competenze che rischiamo di essere di corto respiro. Il contributo che oggi può dare alla società è quello di aiutare i giovani ad essere persone realizzate, cittadini consapevoli e lavoratori intelligenti. Posto che in Italia i laureati guadagnano di più e hanno minore probabilità di essere disoccupati rispetto ai diplomati, l’Università non deve “semplicemente” formare lavoratori, è molto più avvincente e produttivo educare le persone a diventare cittadini consapevoli e ad imparare al fine di renderli adattabili per tutta la durata della loro vita. Alvin Tofler ci ammonisce dicendo che: “L’illetterato del 21° secolo non sarà chi non saprà leggere e scrivere, ma chi non saprà imparare”. L’Università dovrebbe quindi fornire gli strumenti, le relazioni umane, i luoghi, i tempi, le condizioni affinchè lo studente possa, in piena libertà, trovare la sua strada, qualunque essa sia. Recenti ricerche hanno messo in evidenza che il cervello continua ad evolvere almeno fino ai 25-26 anni,

quindi proprio gli anni tipici degli studi universitari siano caratterizzati da curiosità, desiderio di esperienze e conoscenze nuove, cioè dall’affermarsi della personalità: sviluppare una propria visione del mondo, del senso del possibile, argomentare la propria posizione, presentarla in pubblico, avere un pensiero critico.

Elias Canetti

“L’imparare deve rimanere un’avventura, altrimenti è nato morto. Ciò che impari di momento in momento deve dipendere da incontri casuali, e bisogna che continui così, da incontro a incontro, un imparare nella metamorfosi, un imparare nel piacere”. “Molti oggi, per diversi motivi, sembrano non credere che sia possibile un futuro felice. Questi timori vanno presi sul serio. Ma non sono invincibili. Si possono superare, se non ci chiudiamo in noi stessi. Perché la felicità si sperimenta solo come dono di armonia di ogni particolare col tutto. Anche le scienze ci indicano oggi una comprensione della realtà dove ogni cosa esiste in collegamento, in interazione continua con le altre […] per essere attivi nel bene ci vuole memoria, ci vuole coraggio e anche creatività.” Papa Francesco ted conference, 2017

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TILLY SMITH

Secondo uno studio condotto su 24 automobilisti a Londra, l'uso del GPS inibisce l'aumento dell'attività dell'ippocampo e della corteccia prefrontale, che regolano l'orientamento e i processi decisionali

furono registrate vittime. Dopo che Tilly tornò in Inghilterra, un cameraman fu autorizzato a seguirla per sapere come si svolgesse una sua giornata-tipo a scuola e fu intervistato anche il suo insegnante di geografia, Andrew Kearney.

Biografia Tilly Smith (1994) è una studentessa britannica cui è attribuito il merito di aver salvato circa un centinaio di persone a Phuket, la mattina del Maremoto dell’Oceano Indiano del 2004. Due settimane prima di Natale aveva studiato gli tsunami a scuola, in una lezione di geografia alla Danes Preparatory School di Oxshott, una cittadina del Surrey. La mattina del 26 dicembre 2004, Tilly era scesa in spiaggia assieme ai genitori ed alla sorella di 7 anni quando vide il mare ritirarsi e ribollire, ed avvisò i suoi genitori; questi a loro volta avvisarono gli altri bagnanti ed il personale dell’albergo dove alloggiavano. Grazie a ciò, la spiaggia fu evacuata pochi minuti prima che lo tsunami si abbattesse su di essa, facendo di Mai khao Beach uno dei pochi luoghi sull’isola dove non

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Riconoscimenti Il 9 settembre 2005 ricevette il Thomas Gray Special Award dall’associazione Britannica The Marine Society & Sea Cadets, dalle mani dell’allora Secondo Lord del Mare, il vice-ammiraglio Sir James Burnell-Nugent. Tilly e la sua famiglia si rifiutarono di rilasciare interviste ad emittenti commerciali e nazionali, ma il 3 novembre 2005 Tilly visitò la sede centrale delle Nazioni Unite, dove incontrò l’ex-Presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton, allora inviato speciale dell’ONU per la ricostruzione nelle zone disastrate. Il 26 dicembre prese parte alla cerimonia svoltasi a Khao Lak per il primo anniversario dal giorno dello tsunami. Verso la fine del 2005 fu nominata “bambina dell’anno” dai lettori del Mon Quotidien, giornale Francese per ragazzi dai 10 ai 14 anni, che le dedicò anche la prima pagina il 27 dicembre. Il 15 giugno, 2006 le Nazioni Unite hanno lanciato una campagna finalizzata a mettere in evidenza l’importanza dell’educazione scolastica come mezzo utile a prevenire perdite di vite umane nei casi di disastri naturali. La campagna è stata presentata con una conferenza tenutasi a Parigi e che ha visto la partecipazione, tra gli altri, anche di Tilly Smith e di altri bambini distintisi per le loro conoscenze in materia di calamità naturali. L’asteroide 20002 Tillysmith è stato così denominato in suo onore.

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PRIME CONFESSIONI 23 APRILE 2017

IIA Domenica di Pasqua della Divina Misericordia

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PFOFESSOR JONNY DOTTI

Educare all’amore Prof. Jonny Dotti

Faccio solo un cambiamento al titolo, perché il titolo è “Educare all’amore”. Io direi “Educarci all’amore”, aggiungerei questo “ci”. Faccio due premesse semplici: una è che non faccio il professore questa sera, faccio il fratello nella fede come voi. Ognuno di voi è in qualche modo maestro del suo percorso e io porto quella che è la mia vita e le riflessioni che mi sono capitate nella vita, non tanto i titoli accademici o i saperi astratti. La seconda cosa che mi piacerebbe è che consapevolmente ci trattiamo da adulti. Trattarsi da adulti, se penso a S. Paolo, vuol dire, per esempio, non sempre essere simpatici. A volte essere fratelli o amici vuol dire anche dire cose che non sono simpatiche o sentirsi dire cose che non sono simpatiche. Senza arrivare alla correzione fraterna, ci sono però esigenze, delle cose importanti che se ci si vuole bene non si può non dire. Io stasera voglio dire cose che per me, nella mia esistenza, sono importanti, quindi ci sarà poca retorica, poca simpatia a basso prezzo. Spero di riuscire a entrare in sintonia con voi, però mi salvo sempre dicendo che ho i capelli rossi e quelli con i capelli rossi hanno sempre una fama non troppo allegra… diciamo che non appartengo alla categoria dei “buoni”. Ci sono tre passaggi che voglio fare. La questione dell’educare, quel “ci” che vorrei mettere accanto, che coinvolge anche voi e anche me e la questione dell’amare. Sulla questione dell’educazione vorrei che non fossimo superficiali: credere ancora che oggi sia possibile educare, è una sfida enorme. Nei tempi della tecnica non è prevista

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l’educazione, è previsto l’addestramento, al massimo è prevista l’istruzione, perché l’educare comprende sempre il fatto che c’è un mistero, qualcosa che non c’è ancora, che dentro una relazione è in grado di venire al mondo. Noi educhiamo non a qualcosa che sappiamo già, ma educhiamo al mestiere della vita. Educare i bambini, educare gli adolescenti, educare un adulto, educarci come comunità vuol dire asserire che c’è un pezzo di vita che deve ancora venire al mondo. Educare, e-ducere, tirare fuori, vuol dire che c’è un po’ della vita che deve diventare ancora vita, deve andare verso la pienezza. In questo senso, nella nostra tradizione, si dice che Gesù è stato il più grande educatore e tutti i rapporti che Gesù ha avuto con gli uomini sono tutti rapporti che facevano passare quegli uomini e quelle donne da uno stato ad un altro stato. Si dice convertire, cambiare verso, girare la testa da un’altra parte, dirigersi da un’altra parte. Educare è sempre uscire da una situazione così come la conoscevate ed entrare in una situazione nuova, sconosciuta, piena. La domanda è: ma c’è ancora spazio in questa società? In una società dove ci immaginiamo che il problema più grande è la sicurezza, educhiamo a che cosa? In una società dove ci immaginiamo che la cosa importante è che ognuno trovi il suo posticino, e poi degli altri chissenefrega, in una società dove accettiamo le ingiustizie pesantissime che ci sono nel mondo senza tanti problemi, educhiamo a che cosa? In una società in cui da quando ci alziamo la mattina a quando andiamo a letto la sera stiamo dentro ad un

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sistema tecnico che decide quasi tutto lui per noi, dalla macchina, alla radiosveglia, al treno, al cellulare, al computer… è come se lo spazio di educare si sia molto ristretto. E infatti, da genitori (io ho 4 figli e sono sposato da 28 anni) senttamo benissimo questa ferita: che lo spazio reale che abbiamo con i figli è molto limitato. Uno perché è limitato nel tempo, quanto li vedete voi i vostri figli? Il 15% del tempo? 20% del tempo? Se ci metto dentro il dormire forse il 25% del tempo. Per il resto sono da un’altra parte, quasi sempre dentro a dispositivi: quello scolastico, dello sport, del tempo libero, tutti dispositivi tecnici, preordinati, precostituiti dove bisogna entrare, fare delle cose, imparare delle cose poi si esce, si va da un’altra parte. Guardo le mamme: sempre arrabbiate, dalla mattina alle 7.30 quando bisogna organizzare lo smistamento dei pargoli, fino alla sera quando devi andare a recuperarli al corso di non so che cosa o al catechismo. Anche il catechismo è entrato nel meccanismo del dispositivo, no? Tanti dispositivi. C’entrano questi con l’educazione? La mia risposta è no. Quella roba li, è diventare abituati a delle situazioni che altri hanno creato e tu devi entrarci e devi imparare ad usare, ma quello non è educare, quello è addestrarsi. Si addestrano le scimmie, anche gli asini. È un gesto di libertà educare, richiede libertà. Senza libertà non si può educare. Senza spazi di libertà non si può educare. Sono forse le comunità cristiane un pezzettino di questo spazio di libertà? O sono semplicemente un pezzo della grande macchina e quindi anche voi siete un pezzo dell’erogazione dei servizi alla persona più o meno adeguati, per cui giocare a scacchi o venire al catechismo sono su per giù la stessa cosa per un bambino? Il meccanismo è sempre uguale: essere seduto lì, la mamma che apre la portiera, tu che scendi, poi la mamma che ritorna e che riapre la portiera, tu che risalti dentro. Siamo certi che in quell’ora lì c’è qualcosa di cosi diverso? Mi tengo la domanda, non voglio essere così presuntuoso da rispondere, però varrebbe la pena provare a tenersi la domanda. Anche perché c’è una richiesta che ci viene fatta in termini di senso, di missione come comunità cristiana, che è quella di essere lieviti del mondo. Pensate che roba! Non un pezzettino della torta del mondo, più o meno grande, più o meno sociologicamente conosciuta. No, il lievito. Il lievito è poco, non è tanto in una torta. Una torta con tanto lievito non è neanche buona.

Allora l’ipotesi è che quell’ “educarci” forse insieme è possibile. É possibile dire sì all’educare se ci comprendiamo come insieme. Io credo che nessuno da solo, sia come individuo che come coppia, possa rispondere “Sì, è possibile educare”. È una pura illusione, piena di frustrazioni. Questo non è un invito a non provarci come singoli o come coppia. È un invito ad immaginare che si potrebbe fare meglio, si potrebbe fare più in profondità, se insieme ci diamo una mano ad educare, appunto perché prima ci siamo riconosciuti come bisogno di “educarci”. La questione dell’educare non è solo dagli 0 ai 14 anni e poi quello che c’è stato c’è stato. Non so voi come andate coi genitori anziani, ma bisogna educarsi reciprocamente. Io ho accompagnato mio papà un anno fa alla morte ed è stato evidente che insieme negli ultimi cinque anni c’è stato un cambiamento di ruolo: io ho fatto il papà e lui ha fatto il figlio. E questo bisogna imparare a farlo, perché se tu immagini di essere ancora nella posizione di prima, fai del male a te e fai del male a tuo papà. Se vi capitano drammi in famiglia, qualcuno che gioca d’azzardo o che si fa di cocaina, qualcuno che è depresso, qualcuno che è anoressico (se a Paladina è tutto a posto, se Paladina è perfetta mettiamo come esempio le famiglie di Curno), se capitano drammi nella vita e siamo poco educati ad educarci reciprocamente… è dura, perché i traumi richiedono uno spostamento di orizzonti e la capacità di entrare in un’altra dimensione. Sempre. Cosa sto cercando di dirvi? Sto cercando di dirvi che per me, nella mia esperienza cristiana, questa è una scommessa che vale assolutamente la pena fare. Dovete dirvi: “Io voglio una vita piena. Voglio che per i miei figli il bene, il bello, il buono, il giusto, il vero siano ancora cose che valgono.” allora comincerete a provare alcune parole classiche del Cristianesimo, ad esempio nasceranno un po’ di “martiri” a Paladina. E voi direte “Cosa vuol dire?”. Ad esempio i cristiani si devono ribellare perché i bambini non si portino a scuola in macchina. Non si devono proprio portare in macchina, come gesto cristiano, perché voi negate a questi bambini l’esperienza del proprio corpo, negate l’esperienza del rischio, negate l’esperienza del gruppo, negate l’esperienza di provare le cose con la testa, negate l’esperienza di cosa è il caldo e cosa è il freddo. Se voi fate memoria di quali sono le esperienze più importanti che avete vissuto tra i 6 e i 13 anni, solo la metà sono cose successe dentro la classe. Io sono sicuro che l’altra metà sono cose successe fuori dalla classe, esattamente mentre andavate a scuola e quando tornavate indietro. La domanda è: perché portate i bambini in macchina a scuola? La risposta probabilmente è “Perché così è sicuro, così faccio prima”. Voi non lo sapete, ma è perché così il sistema porta degli ottimi consumatori. In teoria il Cristianesimo è contro gli idoli, giusto? Questo è un grande idolo che va combattuto, noi siamo le comunità che lo combattono. Nessuno da solo ce la fa, solo insieme. Anche i grandi santi che appaiono singoli, hanno sempre avuto dietro amici, fratelli e comunità di fratelli. Questo è un esempio concreto. Un altro esempio concreto è che non esiste in una comunità cristiana che uno stia in casa fino a 35 anni. Lo dico col più grande rispetto per chi c’è, ma non esiste.

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È una cosa contro l’uomo e contro la donna questa. La nostra fede prevede dalla Genesi “Lascerai tua madre e tuo padre”. Ma quando mai vi siete sposati quando tutto era certo? Ieri ai vostri figli ho parlato di polli di allevamento. Eh, sì, perché loro diventano polli di allevamento. Ma voglio dirvi una cosa molto più bella di quello che stiamo facendo, molto più bella, molto più ricca, molto più piena, molto più gioiosa. E guardate che quelle che dico sono cose molto concrete, non è che sto parlando cosi... Queste cose sono possibili facendo un passaggio: andare oltre l’individualismo. Il problema è che noi siamo finiti tutti insieme in una cosa che si chiama individualismo, cioè abbiamo identificato noi stessi col nostro io ed è il motivo per cui saltano i matrimoni. Il matrimonio non è l’incontro di due “io”, ma l’incontro di due “tu”. Una comunità non è la somma di tanti “io”, è l’intreccio meraviglioso di sei pronomi: io, tu, egli, noi, voi, essi. Cioè è una persona la comunità, ed è contemporaneamente singolare e plurale, come dice la lingua tra l’altro. Non come lo dice il Jonny. Persona: prima persona singolare, seconda persona singolare, terza persona singolare. Poi? Noi cosa è? Più persone. Prima persona plurale. Una persona è dentro di sé e fuori da sé contemporaneamente singolare e plurale. Siamo qui in chiesa, davanti al Santissimo. Il nostro Dio è Persona, non è tre individui. Padre, Figlio e Spirito Santo non sono tre individui. È una Persona e se noi siamo a immagine di Dio, siamo persone. Cosa vuol dire? Direte che è facile da dire, ma difficile da capire. Ad esempio il Jonny non è l’”io” di Jonny, ma il “tu” di Monica. Il Jonny non è l’”io” di Dio, ma il tu di Dio. Il nostro Capo ha detto che se per caso l’”io” non lo trovate, dovete lasciare perdere subito. “Chi non lascia la propria vita la perderà”. Mentre noi siamo da 50 anni martellati da questa idea, che abbiamo questo “io”, che dobbiamo gonfiare, perché devi essere sempre bello, potente, forte... La fragilità è un valore per i cristiani, è il sommo valore. Senza il riconoscimento reciproco della nostra fragilità, non esiste la solidarietà. Non si diventa solidali perché si è forti, si diventa solidali perché ci si dà una mano nella fragilità.

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Io non sto con mia moglie perché lei è forte e io sono forte. Sto con mia moglie perché lei accoglie il mio peccato e la mia fragilità e io cerco di accogliere la sua. L’anno scorso ci sono stati meno matrimoni che nel 1943. Cos’ è che c’era anche a Paladina nel 1943? La guerra mondiale. Una somma tra matrimoni civili e religiosi, perché se pensassi solo a quelli religiosi non so a che periodo storico bisogna tornare indietro. Non è mica un caso! È proprio perché i matrimoni sono pensati come due “io” che si incontrano e che non si devono disfare. Se io pensassi che mia moglie mi deve accontentare in tutto e io la devo accontentare in tutto, arrivederci! Ma proprio arrivederci! Essere il “tu” dell’altro vuol dire che l’altro è l’altro, non è il medesimo di te stesso, è l’altro! E l’altro resta l’altro fino alla fine. L’altro resta un mistero fino alla fine. Io di mia moglie Monica non ho ancora capito niente. E questo è il motivo per cui noi stiamo ancora insieme dopo 30 anni. E il nostro matrimonio rischiava di saltare esattamente nel momento in cui dicevo “Adesso ho capito come è fatta!”. Dico cose assolutamente tradizionali, ma oggi queste cose che abbiamo completamente dimenticato sono fondamentali per fare in modo che il titolo che il vostro don mi ha dato per questa sera, sia vero. Se no vi avrei dato la storiellina, due tecniche e basta. Educare con le storielline e con le tecniche c’entra proprio poco. Educare è credere profondamente che c’è un senso profondo in me e nell’altro che deve venire al mondo e l’educare è questo processo d’amore che lo porta al mondo. Guardate che c’è un risvolto sociologico molto evidente! Se voi andate dall’altra parte e immaginate che ognuno di noi è un individuo, mi spiegate con questa idea cosa è la resurrezione? Resuscita la “persona”, che è un nodo di relazione. Noi risuscitiamo con tutte le relazioni che ci hanno costituito. È questo il corpo mistico di Cristo, se no cosa è? Nell’idea individuale non è concepibile che noi celebriamo la venuta di Cristo tutti gli anni. Nell’idea individuale si fa una volta e basta. Direte voi che poi ognuno nella sua religione…. Mi dispiace, ma i cattolici non possono avere un’idea privata della religione. Non è previsto, ve lo dico io.

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Sono solo accenni per dirvi che prendere sul serio la parola “educare” in una comunità cristiana è una cosa che cambia la nostra vita da adulti. Io ieri ho incontrato dei ragazzini meravigliosi, siete fortunati qui a Paladina. Meravigliosi, ma che sognano grandi vette, non potete fargli vedere una montagnetta bassina. “L’importante è che tutto fili e nella vita andrà tutto tranquillo…” No. Dovete trattarli bene. Ieri gli ho detto che sono pezzi unici, opere d’arte. Lo dice la Genesi, non io. Opere d’arte, che devono ancora venire al mondo e hanno bisogno di noi per farlo, di gente appassionata. Penso che oggi sia proprio un bel tempo per affrontare questa cosa, perché siamo per fortuna in crisi. Guardate che la crisi è la Parola di Dio. Anche il nostro mondo occidentale che si era gonfiato come una rana, cambiando caloriferi, frigoriferi, macchine, auto… ad un certo punto è scoppiato. Non è stata solo una crisi finanziaria, i segni del tempo bisogna leggerli. È stata la crisi di un modello che è quello individualista. Con effetti sul mondo pazzeschi. Guardate che noi ci gonfiavamo anche perché succhiavamo risorse prime ad altri. Poi quando questi altri, i famosi cinesi, sudafricani ecc.. han detto “Oh, ma ti devi gonfiare solo te?” e hanno iniziato a gonfiarsi anche loro, il mondo non ha retto. E la finanza che girava cosi veloce ha fatto venire un infarto all’organismo. Ricordatevi che anche in queste situazioni non siamo uomini come singoli, ma siamo umanità e il Cristo cosmico è il Cristo di tutta l’umanità. Roba seria. Allora in questo tempo benedetto, con questa crisi benedetta (e voi direte “Eh, ma le fabbriche han chiuso, io non ho più il lavoro”), eh sì, la crisi è sempre dolorosa! Ci viene richiesta una nuova forma di rigenerazione del nostro convivere, ci vengono richieste nuove forme di vita. Non è finita la vita. Ci viene richiesto di prendere sul serio cosa ci dice la crisi. E cosa ci dice questa crisi? E qui voglio dare un po’ di concretezza al verbo “Amare”. Ci dice che forse dobbiamo recuperare un rapporto con il reale più appassionato, più amore-

vole, più profondo, più rispettoso, più dignitoso, non casuale, non lasciato solo alle scelte di altri. “Ah, lo dice la legge!”, “Ah, ma tutti fanno cosi!”. Se andiamo avanti così è finita. C’è una responsabilità profonda che abbiamo rispetto al reale: noi, come dice la tradizione siamo co-creatori di Dio. Non è che la creazione è avvenuta miliardi di anni fa e poi è finita lì. La creazione continua e lo fa anche attraverso di noi, attraverso le nostre azioni, il nostro lavoro, le nostre preghiere, la nostra comunanza, i nostri sentimenti. E allora cosa potrebbero essere queste cose amorose tra di noi? E nel “tra di noi” ci metto pure i miei figli, i miei fratelli. E con questo “tra di noi” intendo anche i ragazzini più giovani, i vostri figli, i miei figli che, ricordo, per i cristiani sono fratelli nella fede. E anche di questo la società dei servizi si è completamente dimenticata. Non sono né utenti, né clienti, né fornitori, sono fratelli nella fede da quando sono battezzati. I miei figli sono anche miei fratelli nella fede. Anche perché voi sapete che S. Paolo ha detto chiaramente che nell’al di là non c’è moglie, né amante, né figli. Siamo tutti insieme nel corpo mistico di Cristo, siamo tutti fratelli. Questo dice sempre la nostra tradizione ed è una prospettiva importante nel nostro tempo. Una prospettiva di responsabilità reciproca importante per non finire nelle grandi fauci dell’idolo tecnocratico, che è il più grande impero che l’umanità abbia conosciuto. L’impero romano, a confronti, era tollerante e disponibile. Questo penetra nelle nostre vite tutti i giorni, non solo con la tecnologia. Penso che noi cristiani dobbiamo essere emancipati dalla tecnologia, proprio perché vogliamo essere liberi, non liberi di scegliere tra tante cose, questa è una forma di libertà strumentale, ma liberi di essere ciò che siamo e ciò che siamo chiamati ad essere dal giorno del battesimo in avanti. Provate a stare due settimane senza telefono, senza televisione, senza dispositivi che mediano le nostre relazioni; se non siamo capaci… c’è qualche problema.

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Poi se siete capaci di usare qualsiasi cosa usatela pure, ma ricordatevi che un cristiano deve essere libero prima, se no c’è qualche problema. Pensate ai nostri ragazzini! Come vanno i vostri ragazzi? Quanto usano l’iphone? 3 ore? La media in Italia dei quindicenni sta sopra le 4 ore al giorno e c’è una buona percentuale del 20-30% che, se la staccate dal digitale, ha dei problemi seri con riscontri psicopatologici. Non voglio metterla sul campo medico, le patologie emergono per conto loro. Sto parlando di gusto per la vita. Questo entrare nel vivere pienamente, nel mondo d’ oggi, vuol dire essere coraggiosi, avere coraggio, fortezza. È una delle virtù cardinali, non è che dico cose particolari. Coraggio, per esempio, a pensare tutti insieme, non pensare separati. Coraggio a pensare di vivere come persona, non come individuo. “Ah, ma quello non mi sta simpatico!”, non fa niente. L’altro è l’altro, se no sarebbe altro, ma identico. Amare il prossimo è questa cosa qui, addirittura Gesù dice che il prossimo sei tu. Non dice “tanto quanto ami te stesso”, dice “come te stesso”, cioè lui è il tuo “tu” e tu sei il suo “tu”. E allora cosa si può fare, nella nostra condizione, se quella è la via che ci ha indicato? Si potrebbe prendere spunto da qualsiasi lettura di Vangelo della domenica. Bisogna cominciare ad immaginare un percorso di comunità più adulto, più responsabile, (res-sponsalis), sposare le cose, oppure saper rispondere alle provocazioni della realtà. Sono due facce, maschile e femminile, della stessa parola. Nessuno è responsabile individualmente, si è responsabili personalmente. Siccome il don mi ha detto “Mi raccomando, pensa soprattutto a cosa coi genitori possiamo fare per i figli”, mi piacerebbe dire alcune cose. Ho qualche suggerimento, ma, detta la premessa che potete giustamente non essere d’accordo, io pretendo che mi giustifichiate perché non siete d’accordo con me, nella fede. La prima cosa da fare con i ragazzini è di aiutarli ad uscire alla svelta dalle famiglie. L’anno scorso abbiamo avuto un tasso di fertilità dell’ 1,15%. Come mai la nostra società si destina all’estinzione? Esattamente perché tutti han paura di fare figli. E perché han paura di fare figli? Perché hanno paura della vita. Se non ci si allena alla vita, si procura solo paura della vita. E come ci si allena alla vita? Andando nel mare della vita.

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Allora vi faccio due suggerimenti: cominciate a prendere a casa in certi momenti i figli degli altri, cosa che si è sempre fatta nella nostra condizione. Lo facevi perché il papà non c’era e allora andavi con qualcun altro… e poi tuo cugino ti veniva ad aiutare ecc.. Oggi tutti nei nostri appartamenti. Un cristiano è incompatibile con l’appartamento. “Che bravo Mandela!”. Abbiamo fatto pure le marce contro l’apartheid. Apartheid e appartamento sono la stessa cosa, cioè “separazione”. Noi dobbiamo tornare ad abitare nelle case, non negli appartamenti che sono stati un’invenzione di un certo capitalismo degli anni 40… e avanti. È stato interessante, ci siamo liberati dal patriarcato, però siamo finiti che quest’anno abbiamo avuto il 47% degli omicidi negli appartamenti. Non li ha mica fatti la ‘ndrangheta o la camorra, non li hanno fatti la criminalità organizzata o i negri... Le famiglie! Lui uccide lei e uccide il cane, il gatto, i figli. Lui 75enne uccide lei 73enne. Ma a 75 anni stai lì buono! E poi… non è prevista la morte nella società tecnocratica! Ma per noi cristiani è determinante morire, non si risuscita altrimenti. Per uscire dagli appartamenti, facciamo le cose semplici: io ho 4 figli, mi auguro che a Paladina ci sia qualcuno che dica “Dai, per 4 settimane 2 figli te li tengo io.” Se no, mi spiegate perché non ospitiamo i negri? Non ospitiamo neanche i figli degli altri!?! Così difficile? No. Però dite “Ma come la mettiamo con l’assicurazione?”. Troviamo la soluzione, la soluzione è il “come” ospitate. Ma prima bisogna tornare al “perché” e al “cosa”, dopo al “come”. Nel Vangelo non c’è mai stato il problema del “come”. “Vieni con me!” e non dicevano “Ma come, poi come faccio con l’Inps, con questo come faccio?”. L’apostolo Pietro aveva un “perché” che lo chiamava, il “come” si è fatto da parte. Quando vi siete sposati, se vi foste chiesto il “come”… ciao! A Paladina stavate abbastanza bene, ma diciamo che nella media gli italiani non avevano tanto chiaro il “come”. Si sposavano perché amavano qualcuno. Adesso invece prima devi avere a posto il mutuo, pagato il divano, la televisione, ci devono essere due auto e poi… forse… mi sposo. Ma siete matti? Questa esperienza educativa si inizia a fare da piccoli, si comincia ad uscire non tecnicamente, ma dentro una fiducia con gli altri. Guardate che questi problemi con gli iphone e la tecnologia aumenteranno moltissimo… e non si risolve il problema della dipendenza da internet negli appartamenti! È irrisolvibile, anche se fate centinaia di ore di terapia. E fra un po’ avremo anche un microchip dentro di noi, si deciderà pure che figlio vuoi: se lo vuoi rosso, un po’ pazzo, con gli occhi azzurri... Nel frattempo la paternità e la maternità sono diventati un diritto: pensate a dove siamo arrivati! E noi cattolici non ci siamo ribellati! Un diritto? Ma quando mai? Ma dove sta scritto nella nostra tradizione che è un diritto? Un dono non è un diritto, è un dono. Io vi faccio questa proposta, fratelli, io la faccio ufficialmente al don, ma molto di più a voi laici perché è chiaro che i preti saranno sempre meno, bisogna che i laici si diano da fare, in una comunità in cui i figli sono i figli del villaggio… Vi ho detto che i vostri figli, se va bene, li vedete il 10-15% del tempo, anche se li mettete su una telecamera. “Gli do il cellulare così so dov’ è...”. Siamo proprio matti, matti! Su queste nostre fobie fanno pure i soldi, tanti soldi.

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La seconda proposta: avete tanto spazio qui nel vostro oratorio, cominciate dalla terza media a farli vivere insieme da soli. Un mese. Oh, senza le mamme neh! Come adulti, a turno si va a vedere come va, si assegnano dei compiti... Da soli a farsi da mangiare, da soli a farsi la lavatrice, da soli a darsi da fare, a fare i compiti, a supportare qualche povero... Terza proposta: cominciate a farli lavorare presto. Se è contro il diritto alla scuola… protestate, contestate! Esattamente perché nel momento in cui c’è il risveglio sessuale, alla fine della pre-adolescenza, c’è ancora qualche margine di cambiamento… Dopo qualche anno, in particolare per i maschi, ci sono solo i cellulari e… problemi. Io sono laureato, ho studiato all’università, ma io gli insegnamenti più importanti della mia vita li ho avuti fuori dal sistema scolastico. Il mio vicino meccanico, dove andavo a dare una mano a sistemare le automobili, mi ha insegnato ad andare fino a Bergamo, da Seriate dove abitavo, l’idea del territorio me l’ha data lui; il mio nonno mi ha insegnato a tagliare l’erba e portarla ai conigli; il mio papà non so quanti e quanti metri di “regnate” (recinzioni metalliche) mi ha fatto dipingere per avere l’abbonamento dell’Atalanta che costava 4 mila lire! Quante belle esperienze! Mi ricordo nel ’76 in terza media, a Ponte, siamo andati a raccogliere i soldi per i terremotati, avevamo raccolto 20 milioni di lire e siamo andati personalmente a consegnarli… Se beccano oggi adolescenti che vanno in giro con una busta con 40 mila euro (cifra corrispondente) vengono tutti arrestati. Denunciano al telefono azzurro: ”Irresponsabili!”. Personalmente devo le mie poche o tante capacità di imprenditore a quelle esperienze lì, tutte fatte nella comunità cristiana! Caravaggio è andato a scuola? Correggio è morto a 27 anni, Raffaello a 33, Gesù Cristo a 33. Gesù ha fatto l’artigiano con il suo papà… Per quanto ne so, basandomi sulla mia esperienza, ho trovato che i ragazzi che si applicano nella realtà, si applicano molto più volentieri anche allo studio, perché trovano un senso a quello che fanno. Non so come i nostri figli, i nostri ragazzi stanno rispetto ai soldi… I nostri figli, a 10 anni, sanno da dove vengono i soldi? Sanno che vengono dal lavoro? Vivo in una comunità di casa-famiglie, ho sempre ospiti, ma

non basta per reggere questo difficile momento… E allora, cominciate a mettere su una piccola impresa, per minorenni… quando è estate o nel periodo delle vacanze natalizie, un po’ la sera, al pomeriggio, non per i ragazzini scalognati, ma per tutti perché i nostri ragazzini sono strutturalmente tutti scalognati, destinati ad essere polli da allevamento… sempre se crediamo nella libertà, nella giustizia, nella bontà, nell’onestà, nella bellezza, nella risurrezione… nella salvezza. Mi potrete dire: “Ma è fuori- legge!” Sarà anche, ma sarebbe ora… che qualcuno rischiasse anche la galera per una buona causa! Credo che anche qui la metà delle Messe celebrate in un anno siano in onore dei martiri, se non la metà… almeno cento giorni all’anno. Pensate… una bella comunità di martiri a Paladina, perché si sono rifiutati di rispettare l’obbligo che fino alla terza media bisogna portare i figli come pacchi e andarli a riprendere a scuola… questo in nome della sicurezza, perché magari c’è il maniaco da qualche parte… c’è il negro… il musulmano col mitra… Sì, ribellatevi! Ci sarà una comunità di martiri qui a Paladina, ma saranno martiri per amore! Servono esperienze vive, concrete, belle, positive, gioiose… si possono fare tante cose belle… Questo solo per farvi capire che l’amore non è parlare dell’amore, né testimoniare la passione dell’amore. L’amore è sacro perché è fare sacro uno spazio, un tempo, una relazione che è anche una cosa educativa… Questo è l’amore, non un epistolotto sull’amore, sul rispetto… Parlando ieri con i vostri ragazzi ho detto: “Ti amo perchè sei unico e mi aspetto da te cose meravigliose, meravigliose!” In un tempo di crisi le cose meravigliose hanno più possibilità di esistere, più che in un tempo standard quando ci sentiamo a posto, però ci sentiamo tutti dipendenti da ogni cosa… Oggi si è rotto qualcosa ed è in questa rottura che ci è possibile tirar fuori le cose migliori di noi stessi. Auguri!

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BEATA MOROSINI Cari ragazzi perché siete venuti a Fiobbio per conoscere una ragazza morta sessanta anni fa a soli 26 anni? Chi era Pierina Morosini? Era una ragazza coraggiosa, che pregava tanto.Veniva da una famiglia povera (anche se allora moltissime famiglie erano povere), era molto credente, l’unica che lavorava in famiglia, primogenita di nove figli più altri otto a balia, molto attiva, che faceva tante cose. Aveva un suo “diario dell’anima” dove scriveva le cose importanti per lei: le sue riflessioni, una frase importante, un giorno speciale per lei, la sua regola di vita… (il Diario di Anna Frank, il Diario dell’Anima di Papa Giovanni XXIII°, il Diario di Pierina Morosini…). È una cosa utile avere un diario dove segnare le cose importanti, perché altrimenti ce le dimentichiamo, è utile fissarle nella testa e nel cuore, come la Madonna che “meditava tutte queste cose nel suo cuore”. Pierina faceva tesoro, scriveva, imparava a memoria, ricordava... La famiglia di Pierina era povera, ma tra tutte le famiglie povere di Fiobbio non mancava del necessario perché Pierina lavorava in un’Azienda Tessile ad Albino e quindi in casa entrava uno stipendio fisso; avevano un po’ di terreni, qualche mucca e quindi rispetto ad altre famiglie, che non avevano niente, era una situazione dignitosa. Pierina aveva scelto un’altra povertà, quella che voleva lei. Per esempio lei era brava a cucire, a fare i vestiti. Qualcuno le aveva suggerito di non fare l’operaia, ma di fare la sarta, ma lei preferiva il posto stabile in azienda per garantire uno stipendio alla sua famiglia. A tempo perso confezionava abiti alle sorelle, a chi glielo chiedeva… ma per lei mai. Indossava sempre un grembiule nero (ne aveva due paia per il cambio) e zoccoli neri. La sorella Anna (che è in chiesa adesso a pregare) ci teneva alla cura del suo abito, al suo mettersi in mostra, essendo giovane. Un giorno la sorella Pierina le ha detto: “Ascolta Anna, ho capito che ti vergogni di me perché sono sempre vestita con lo stesso abito nero. Non preoccuparti, tu stai sull’altro marciapiede”. Pierina ricercava l’essenzialità.

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Anche a chi le suggeriva di tenersi un po’ lei rispondeva che non ne aveva bisogno, né di un vestito bello, né di cose da comprare. A chi le diceva: “Sei l’unica che lavora, comprati qualcosa per te!”, lei rispondeva: “I miei soldi servono per mantenere la mia famiglia, io ho altro”. Pensate… una ragazza così giovane che poteva dire: “ Sono io che lavoro qui, sono io che faccio i vestiti!”. Pierina invece queste cose le metteva a servizio degli altri perché aveva altro: una povertà non uguale a quella di tutti, ma una povertà scelta, una povertà voluta, non nel senso che non mangiava, che era denutrita, ma rinunciava a tutto quello che era superfluo. Lei diceva: “Non mi serve, ho già quello che riempie il mio cuore!”. Addirittura decide di rinunciare a sposarsi. Le dicevano: “Pierina, non sei una brutta ragazza, alcuni ragazzi ti hanno fatto la proposta di sposarli, perché tu dici di no?”. Lei risponde-

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va: “Io sono già occupata”. “Con chi? Non ce l’hai detto!”. Quando era al cotonificio a lavorare, nella pausa mangiavano quello che avevano portato da casa, poi lei spariva. Figuratevi le amiche: “Dove sarà? Sarà con qualcuno, con chi si sarà appartata?”. Dove era? Era in chiesa a pregare, nella chiesina dello stabilimento: “Io sono qua con il mio Amore”. Noi potremmo dire: “Ma Pierina, ma cosa stai dicendo… il tuo amore? Non esagerare, potresti dire il tuo Signore!”. Pierina ci risponderebbe: “Perché non ci si può innamorare di Gesù? Pierina era innamorata del Signore. Pensava sempre a lui, parlava sempre con lui e gli diceva: “Voglio che la mia vita sia tutta tua”. Nel suo cuore nasce un desiderio: diventare suora, consacrarsi a Dio totalmente. “La mia vita tutta per te, Signore, e possibilmente missionaria. Mi piacerebbe, Gesù, andare dappertutto, in tutto il mondo per farti conoscere. Voglio essere tutta di Dio, ma anche essere non solo di Fiobbio, di Bergamo, ma di tutto il mondo. Andare, partire… per annunciarti a tutti, Signore!”. Era veramente innamorata. Pensiamo alla preghiera: va bene la preghiera, giusto, però insomma senza esagerare… Pensiamo al suo regolamento di vita: 1) Quando mi alzo le preghiere 2) poi la Messa e comunione 3) durante il cammino per il lavoro la corona del rosario, anzi, possibilmente tre rosari al giorno nell’andata e nel ritorno e il tempo che mi avanza lo userò per pregare 4) a metà strada nel ritorno mi siederò a meditare 5) la sera prima di dormire farò qualche buona lettura: la vita di un santo, una riflessione a carattere spirituale, la parola di Dio del giorno seguente per prepararmi a ricevere l’Eucarestia. Addirittura nel suo regolamento di vita scrive: “Ogni volta che suonano le ore al campanile, un pensiero a te, Signore. Noi potremmo dire “Che esagerata!”. Non era forse un po’ bigotta? Glielo dicevano anche allora: “Ma Pierina, sempre pregare, sempre pregare… che pesante che sei, che noia!”. Lei rispondeva: “A me piace pregare! A me piace parlare con Dio”. O era ossessionata, bigotta, esagerata o era innamorata. Quando uno è innamorato è incantato, va un po’ via con la testa, pensa sempre a quella persona. C’era un tale che scriveva così alla sua fidanzata: “Alla mattina non mangio perché penso a te, a pranzo non mangio perché penso a te, alla sera non mangio perché penso a te, di notte non dormo perché ho fame”. L’innamorato pensa sempre alla persona di cui è innamorato. Tutti i cristiani sono chiamati ad amare il Signore, non solo a rispettarlo, ad obbedire “attento che ti vede!”. C’è chi ha questo rapporto con Dio, un cristianesimo ridotto a cose da fare e a cose da non fare. Gli Ebrei avevano 613 precetti nella legge… Pensate, ragazzi, che se andavate al catechismo allora… dovevate imparare 613 precetti! Quando invece un dottore della legge chiede a Gesù qual è il primo comandamento, lui risponde: “AMA!”. Devi fare le cose per amore. Non sei condannato al cristianesimo, ma sei un innamorato di Gesù Cristo. Pierina ci ha testimoniato cosa vuol dire innamorarsi del Signore, fare le cose per

amore suo, perché tutto quello che sei, tutto quello che hai te lo ha dato Lui. Noi diciamo: “Come fa il Signore a volermi così bene? È addirittura morto in croce per me! Allora anche io desidero volergli bene. Imparerò piano piano…. Ma come faccio Gesù a volerti tanto bene?”. “Ama le persone che hai accanto e sarà come se amassi me”. “Va bene Signore!”. Occorre diventare cristiani veri! Farete la Cresima, diventare cristiani adulti significa imparare ad amare il Signore, amare gli altri. Pierina, questo l’ha vissuto in modo grandioso. Ecco perché pregava sempre, perché uno quando è innamorato ci sta volentieri con la persona amata. Questa è una chiamata per tutti. Poi c’è qualcuno che dice: “Ma io vorrei amare così tanto il Signore da non dedicargli solo una parte della mia vita, ma proprio tutto!” e allora c’è qualche ragazzo che entra in seminario, per dedicare la vita non a una sua famiglia piccola, ma per fare il papà ad una famiglia più grande, diventando sacerdote. In seminario intraprende un cammino di discernimento fino a diventare ministro di Dio. Oppure una ragazza che dice “Io rinuncio a fare una mia piccola famiglia per essere totalmente tua, Gesù, già da adesso. In paradiso saremo tutti così, ma io già adesso vorrei appartenerti totalmente, vorrei dedicarti tutta la mia vita!”. Ci sono ragazze che partono per consacrare la loro vita diventando suore o ragazzi frati che vivono una vita comunitaria nel servizio agli altri nella preghiera. “Voglio già adesso che la mia vita sia tutta tua, Gesù!” e c’è qualcuno che dice: “Come Pierina voglio partire e fare il missionario e gridare a tutto il mondo quanto ci vuol bene il Signore, perché tutti siano salvi. Partirò!”.

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Ci sono preti, frati, suore che partono per la missione, ma ci sono anche dei giovani laici, non preti o suore, ci sono delle coppie, a volte c’è chi va a fare il medico in situazioni di estrema necessità, dove mancano ospedali, cure mediche e medici. Pierina voleva donarsi totalmente a Dio e girare il mondo intero, ma non è andata suora missionaria perché non le è stato possibile. La mamma le ha detto: “Pierina, sono belli i desideri che hai nel tuo cuore, ma chi mantiene la tua famiglia se tu parti? Chi mi aiuta con i bambini piccoli? Ci andrai dopo”. Lei, invece di lamentarsi nel dire “Non è giusto, io faccio quello che voglio!” ha detto: “Se il Signore mi chiede adesso qualcosa di diverso… pronti!... faccio quello che lui vuole, non c’è problema, l’importante è servire il Signore. Se lui adesso non ritiene giusto che io vada via per le missioni, mi guardo in giro e vedo cosa posso fare qui!”. Cosa comincia a fare? Quando è in fabbrica, come operaia non si lamenta dicendo: “Che vita da schifo, sono qui a fare l’operaia quando potevo essere in missione…”. Il suo sorriso l’accompagnava, vedeva una collega in difficoltà e diceva: “Lascia a me questo lavoro che è difficile e brutto, fai questo che è più facile”. Tutte le altre operaie dicevano “Pierina o è tutta bacata oppure ha qualcosa di strano, qualcosa di grande”. Sentiva una persona bestemmiare… capiva che doveva fare la missionaria qui. Si avvicinava a chi aveva bestemmiato e si metteva in ginocchio e gli diceva: “Di’pure a me questa parolaccia che hai detto a Dio, dilla a me, prendimi pure a calci, ma non offendere Dio”. Qualcuno diceva: “Vai via bigotta!” e la prendevano in giro ancora di più, qualcun altro diventava tutto rosso, abbassava la testa: “Scusa Pierina” e se ne andava mortificato per quello che aveva detto. Gli altri operai, che allora erano 500, dicevano: “Che coraggio questa ragazza!”. Quando rientrava a casa stanca dal lavoro si metteva ad aiutare in famiglia. Se c’era bisogno per pulire la chiesa, Pierina era sempre disponibile e così per qualsiasi attività pastorale: per il gruppo missionario, come catechista, come assistente per le bambine di Azione Cattolica; andava a trovare gli ammalati ed era nel gruppo delle zelatrici del Seminario, che pregavano e lavoravano per sostenere i seminaristi nel loro cammino di formazione in preparazione al sacerdozio. Ogni volta che c’era una proposta, lei era sempre disponibile ben volentieri. Lei diceva: “Se non posso partire per l’Africa, per l’America latina, per l’Asia… io farò la missionaria

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qui, nella mia famiglia, nella mia fabbrica, nella mia parrocchia. Voglio essere un dono per tutti”. Pierina era veramente una ragazza formidabile e c’è riuscita ad attuare i suoi propositi. Di tutte le persone che sono in chiesa in questo momento, metà erano sue compagne, o colleghe di lavoro e quando si chiede loro come era Pierina, rispondono dicendo: “Era proprio buona!”. Anche quando la trattavano male, lei sorrideva, taceva, perdonava tutti. Era proprio buona. Pensate che una delle due signore che è al museo, quella più anziana, era proprio sua compagna di banco (compagna abbastanza vivace) e dice: “Io sono sicura che Pierina è santa perché… con tutto quello che gli ho fatto passare…”. Questa donna dice: “Quello che l’ha aggredita è fortunato”. Questa espressione sembra fuori luogo, in realtà ha un senso profondo: “Io la conoscevo bene Pierina e quando qualcuno le dava fastidio in fabbrica, quando qualcuno le rispondeva male o la trattava male, sapete cosa faceva? Passava tutta la giornata a pregare per quella persona. Se lei era fatta così, sarà in Paradiso a pregare tutti i giorni per quella persona, pregherà per lui più che per tutti gli altri”. Se qualcuno le faceva del male lei passava tutta la giornata a pregare per lui… pensate che cuore grande! Arriviamo alla fine: un giovane del paese continuava ad insidiarla: “Pierina, vieni con me!”. “Ti ho detto di no!”. “Ma perché?”. “Sono già occupata”. “Con chi?” . “Non posso dirtelo”. Pierina continuava a mantenere le distanze. Tuttavia questo giovane si fa insistente e un giorno fa una scommessa al bar davanti a tutti, perché lui si vantava che tutte le donne erano sue, ma in realtà non ne aveva neanche una (bulletti che si vantano, ma che in realtà non sono capaci di amare neppure una persona). Gli amiconi da bar lo provocano dicendo che con Pierina non sarebbe riuscito. “Pierina è integerrima, non cede”. “Scommettiamo?” e scommette dei soldi davanti a tutti: che lui sarebbe riuscito a far crollare Pierina.


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È amore questo qui? Purtroppo ci sono ancora oggi tante persone che vivono come bestie, per cui vogliono accoppiarsi, non amarsi.. Pensiamo a quante notizie trasmesse dalla televisione di femminicidi, quante donne vengono uccise, subiscono violenza, perché ci sono dei maschietti capricciosi che dicono: “Tu sei il mio giocattolo, se il giocattolo non mi piace più lo butto via o se il giocattolo non accetta di giocare con me… piuttosto ti uccido!”. Ma è amore questo? Quando c’è pretesa, violenza, non c’è mai amore. Pierina continua a rifiutare queste “avances” e quel giorno, uscendo dal lavoro, passa dall’edicola a prendere qualcosa e vede ancora quel giovane che la importunava da giorni. Lei affretta il passo per tornare a casa, ma lui la segue. Ad un certo punto sembra che lui vada da un’altra parte, per un altro sentiero, mentre lei prosegue per casa. Pierina in cuor suo è rassicurata: “Meno male se n’è andato, me ne sono liberata!” Affretta comunque il passo, arriva al punto d’ incontro tra due sentieri, quello che proviene da Albino che percorreva Pierina tornando dal lavoro e quello che sale da Fiobbio. Questo giovane ha preso l’altro sentiero, ha corso più veloce di lei e quando lei è arrivata da Albino in quel punto d’ incrocio tra i due sentieri, si è trovata di fronte questo giovane che le intimava di fare quello che lui voleva. Pierina ha preso un sasso in mano e gli ha detto: “ Stai lontano perché altrimenti ti tiro questo sasso!” tremando dalla paura. Questo giovane le ha tolto questo sasso dalle mani e le ha detto: “O fai quello che ti dico o ti spacco la testa con questo sasso”. Hanno cominciato a lottare, Pierina si è difesa fino all’estremo delle sue forze, ha tolto il crocifisso che aveva sotto il vestito e glielo ha mostrato dicendogli: “Guarda a chi stai facendo questo! Io sono solo sua”. Pierina è stata colpita e ha subìto violenza.

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Una cosa orribile, indicibile e inaudita. Pierina non è morta subito. È rinvenuta per pochi attimi e si è trascinata alcuni metri verso casa, accasciandosi priva di sensi. Un fratello, non vedendola rincasare, è sceso per andarle incontro e l’ha trovata adagiata per terra. Ha chiamato i soccorsi. Il fatto è accaduto verso le tre del pomeriggio del 4 aprile di sessant’ anni fa. I soccorsi allora non erano veloci come oggi, non c’era l’elisoccorso o il cellulare per chiamare… C’era anche la difficolta di arrivare a recuperarla in mezzo al bosco! Pierina arriverà agli Ospedali Riuniti di Bergamo alla sera, ormai in coma irreversibile. È rimasta in agonia senza mai più riprendere conoscenza per due giorni. La sua morte è avvenuta il 6 Aprile. La morte di Pierina è uno dei tanti casi di femminicidio, come sentiamo alla televisione purtroppo quasi tutti i giorni? O c’è qualcosa di più in questo triste avvenimento? Già prima di questo episodio finale Pierina aveva fatto una vita particolare, eroica nel vivere prima di morire. Nel gesto di mostrare il crocifisso al suo aggressore ha ribadito che la sua vita era donata totalmente a Dio, fino al dono totale di sé nel martirio. Pierina non voleva morire, ma vivere. Cari ragazzi, forse a nessuno di noi sarà chiesto di morire per Gesù, anche se ancora oggi in molte parti del mondo vi sono cristiani che pagano con la vita il loro essere cristiani, discriminati, perseguitati e uccisi. A rendere testimonianza a Gesù in certe situazioni ci vuole coraggio. In Italia, a Bergamo, se partecipiamo alla Messa, nessuno ci uccide, però, cari ragazzi, se vogliamo essere dei veri cristiani saremo chiamati a fare delle scelte importanti, controcorrente, anche se derisi e ostacolati. Essere veri cristiani è bello, ma non è semplice, non è facile. Quando ci saranno alcuni compagni che denigrano il tuo essere cristiano nel modo di vivere, di parlare, di agire, di

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pregare e di accostarti ai sacramenti, alla domanda: “Tu vai ancora in chiesa, credi ancora?” tu potrai omologarti all’andazzo dei nostri giorni seguendo la massa e voltando le spalle a Gesù o potrai usare la tua testa e seguire la sapienza del cuore (“Vangelo”) decidendo di rimanergli fedele. Quando qualcuno ti dirà: “Non vedi che tutti sono disonesti? Qui sul lavoro devi un po’ arrangiarti, rubano un po’ tutti, fallo anche tu!”. Tu potrai decidere: “Io NO!”. “Allora vai da un’altra parte!”, “Certamente, ma io non tradisco quello che il Signore mi ha insegnato: scelte di onestà, scelte di fede. Certo che vado a Messa e non mi vergogno e cerco di essere coerente con gli insegnamenti del Vangelo rimanendo fedele a Gesù fino alla morte, fino alla fine!”. Questo è quello che ci insegna Pierina Morosini. Per voi ragazzi che vi state preparando alla cresima penso sia un messaggio molto forte: “Non voltare mai le spalle a Gesù. Lui non ti volterà mai le spalle. Anche se sbagli, anche se pecchi, Gesù sarà sempre con te!”. “Pierina, tu sei stata veramente una grande, ti chiedo di aiutare anche me a rimanere fedele a Gesù sempre, ad essere generoso, a fare tesoro delle esperienze, ad avere uno sguardo sempre ampio per appassionarmi al mondo intero!”. Pierina che era una povera contadina, sperduta in un paesino della valle Seriana, voleva partire per le missioni, mentre noi, che abbiamo tutte le possibilità (abbiamo internet) per vedere il mondo intero, ci chiudiamo nelle nostre piccole cose: il mio cellulare, il mio ombelico del mondo, le mie due amiche, le mie tre cosettine ecc. Dobbiamo allargare gli orizzonti, la passione per il mondo, la voglia di fare il bene agli altri, dobbiamo interessarci di

quello che succede, desiderare di ampliare gli orizzonti… Un’ ultima cosa: che ognuno di voi possa trovare la strada a cui il Signore lo chiama per avere una vita meravigliosa. Pierina la sua strada l’aveva trovata, poi le è stato chiesto qualcosa di diverso che non avrebbe mai immaginato: il dono totale di sé nel martirio. E tu la tua strada l’hai trovata? Ti auguro come Pierina di avere il tempo di pensare per capire cosa il Signore ti chiede per essere felice.

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ANAGRAFE PARROCCHIALE - MATRIMONI DONGHI ROBERTO E CATTANEO ELISA 27/05/2017

BURINI STEFANO E CAVALLERI ROSSANA 24/06/2017

MILESI EMANUELE E CAPELLI CRISTINA 30/06/2017

78


PIROLA SIMONE E MASPER FRANCESCA 14/07/2017

RONCALLI LUCA E CAVAGNA SIMONA 01/09/2017

CAMMINIAMO INSIEME

79 79


MATRIMONI CAVALLERI NICOLA E MOGICATO SAMUELA 16/09/2017

BREMBILLA VALERIO E ROTA VALERIA 07/10/2017

ROTA DEVID E SIGNORELLI NAILA 09/12/2017

80

CAMMINIAMO INSIEME


BATTESIMI RINATI IN CRISTO CON IL SACRAMENTO DEL BATTESIMO FUMAGALLI LEONARDO battezzato il 11/06/2017

LOCATELLI GABRIELE battezzato il 11/06/2017

MUSICCO FRANCESCA battezzata il 11/06/2017

CAMMINIAMO INSIEME

81


BATTESIMI DUZIONI SOPHIE battezzata il 11/06/2017

MOROTTI MELISSA battezzata il 30/07/2017

GREMI GABRIELE battezzato il 20/08/2017

82

CAMMINIAMO INSIEME


RIZZO EMMA ROMANA battezzata il 17/09/2017

ROCCHETTI ALESSANDRO battezzato il 24/09/2017

GOTTI MATTEO battezzato il 01/10/2017

CAMMINIAMO INSIEME

83


BATTESIMI

MICHELETTI CHIARA battezzata il 01/10/2017

CROTTI TOMMASO battezzato il 29/10/2017

CIARAMELLANO GIOELE battezzato il 29/10/2017

84

CAMMINIAMO INSIEME


VECCHI MATTEO battezzato il 12-11-2017

GRIGOLI BRYAN battezzato il 26/11/2017

CAMMINIAMO INSIEME

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DEFUNTI

Ci hanno lasciato

DAMINELLI LUIGI 89 ANNI 21/05/2017

RONCALLI GIUSEPPINA 91 ANNI 05/06/2017

SALVI ANTONIA 73 ANNI 06/06/2017

BENAGLIA GIOVANNA 86 ANNI 08/06/2017

CAPITANIO ARNALDO 79 ANNI 28/06/2017

BONACINA MARIA 88 ANNI 01/07/2017

PALAZZI MARIA 91 ANNI 17/07/2017

CASTELLI GIUSEPPE 87 ANNI 23/07/2017

CASTELLI SILVANO 72 ANNI 31/08/2017

LICINI AGOSTINO 78 ANNI 13/09/2017

RAVAZZANI PIETRO 79 ANNI 23/09/2017

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CAMMINIAMO INSIEME


... la casa del Padre

TAVERI GIANPIETRO 57 ANNI 27/09/2017

PEDRINELLI PIERANGELA - 49 ANNI 01/10/2017

BARONI LINA 91 ANNI 02/10/2017

NAVA VINCENZO 68 ANNI 05/10/2017

ROTA ALBINO 89 ANNI 06/10/2017

BONO CAROLINA 87 ANNI 24/10/2017

BERTULETTI ANGELO 95ANNI 29/10/2017

MASSERETTI FEDE 81 ANNI 24/11/2017

TOGNI ROTA CECILIA 84 ANNI 10/12/2017

BONALUMI ANGIOLINA 77 ANNI 12/12/2017

DON ANGELO GOTTI 75 ANNI - 14/03/2017

DON DAVDE PREVITALI 70 ANNI - 15/10/2017

PARROCO DI PETOSINO

PARROCO DI AZZONICA

CAMMINIAMO INSIEME

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Un cuore che ascolta. “Maestro dove abiti?�

Venite e vedrete


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