PambiancoDesign_n1_2020

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DOSSIER

suo processo di manipolazione applicato al progetto materiale. Per lei, gli oggetti sono immagini e le immagini divengono oggetti. “Se penso al mio lavoro, mi considero una designer, anzi ancor meglio, una image maker. Però in base al luogo in cui mi trovo, viene considerato e letto in maniera differente. In Olanda espongo i miei pezzi in contesti di assoluto design, in Francia non sarebbe invece mai possibile, e mi trovo all’interno di musei e gallerie di belle arti”. Quando le si chiede cosa pensa del confine tra arte e design, preferisce parlare di sè e del suo operato, piuttosto che di ‘massimi sistemi’. “Mi riconosco nell’attitudine di molti miei coetanei. La nostra generazione quando lavora a un progetto, nemmeno ci pensa se sta facendo arte o se sta progettando qualcosa. Per quel che mi riguarda, utilizzo il design come spazio di ricerca, e la ricerca diventa un pretesto per esplorare la mia pratica. Solo facendo così, riesco a focalizzarmi solo sul mio lavoro e ad essere indipendente”. Guidata anche dalla sua giovane età, non pensa a logiche di mercato, a commissioni e all’industria. “I miei oggetti sono uno strumento per la mia riflessione. Certo, quando si parla di oggetti ci si riferisce sempre a un determinato comportamento o ad una azione con cui vengono utilizzati, ma a me piace creare conflitti anche dentro uno stesso progetto. Il design è un luogo perfetto per poter creare cortocircuiti... Troppi si interrogano su quale sia la nuova forma giusta per una sedia e quali le aspettative di vendita di un’azienda. Quando creo un vaso, so perfettamente che l’immagine di un vaso è quello che attira le persone in modo inconscio verso quello che ho progettato, ma la mia ricerca muove da ben altro”.

utilizzando il digital cinema come un campo di ricerca per ripensare alla metodologia legata alla produzione di oggetti. Unendo le tecniche cinematografiche ai processi di produzione che da digitale diventa materiale, il suo lavoro cerca di definire un nuovo modo di ‘fare design’. “Per fare ricerca leggo manuali di teoria sul cinema: leggendoli mi rendo conto che quel che apprendo è in piena sintonia con quello che sto facendo. Lavoro nella dimensione digitale, tutto parte dal computer, ma il risultato finale è sempre qualcosa di estremamente materiale, che ha tre dimensioni.

Oggi designer in residence alla Jan Van Eyck Academy di Maastricht, Audrey Large continua la sua ricerca sull’immagine-oggetto così come il lavoro con il collettivo Morph.love, fondato nel 2018

GENERAZIONE ‘FLUIDA’ Quella di Audrey Large è una generazione influenzata da un importante momento di incertezza, positivo e negativo insieme. Instabilità economica, politica e sociale, barriere che spariscono e che si innalzano. La storia si riflette sull’operato di makers e designer che si lasciano contaminare da altre discipline e che esplorano metodologie legate ad altri mondi. In un contesto come quello contemporaneo, esponenzialmente digitalizzato, Audrey abbraccia la forma interdisciplinare del design Febbraio/Marzo 2020 PAMBIANCO DESIGN 51


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