Libretto Tosca 2013- Padova, Teatro Verdi

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femminile del canto: la preghiera (e/o confessione d’artista) “Vissi d’arte, vissi d’amore” del II atto che Puccini volle fosse cantata “dolcissimo con grande sentimento”. Fedele all’originale francese che Puccini incrociò come s’è detto nella celebre recitazione-ricreazione della Bernhardt, la stesura librettistica di Illica fu letta da Verdi a Parigi con entusiasmo (anzi pare ci avesse fatto un pensierino anche lui). La sceneggiatura operistica rispettava, anzi intensificava, il precipitare delle azioni che si svolgono nell’arco di una ventina di ore e il ruolo di Tosca: ultima vittima di una progressione di crudeltà fisiche e psicologiche che aveva come implacabile burattinaio il barone Scarpia, capo della polizia: “bigotto satiro che affina / colle devote pratiche la fola / libertina e strumento / al lascivo talento / fa il confessore e il boia!” (cantato con un Sol diesis sopra il rigo, registro acuto per il carattere vocale tenorile: di solito lo si ascolta quasi urlato). Fin quasi al tragico e grandioso “avanti a Dio!” suicida di Tosca, Scarpia è il subdolo servitore d’una livrea fatta di crudeltà e macchiavellismi, di sospetti e torture. Nel libretto agisce di sbieco, perfino attraverso le didascalie: l’avverbio “freddamente” è usato con intenzione reiterata.

Angelotti, Cavaradossi, i plebei o subalterni vessati di turno (dal Sacrista a Spoletta) e le donne (oltre a Tosca, la marchesa Attavanti di cui il fratello dice: “tutto ella ha osato/onde sottrarmi a Scarpia scellerato”; e noi non vogliamo approfondire quel “tutto”): ogni personaggio umano vive nella luce riflessa dell’ostilità universale e disumana di Scarpia (da questa prospettiva il vero protagonista dell’opera è lui). Senza esserne l’obiettivo privilegiato: se non fosse capitata l’occa­sione offerta dal ventaglio da esibire come indizio della presunta infedeltà di Cavaradossi a Tosca, chi avrebbe passato il secondo atto nello studio di Palazzo Farnese dello sbirro? E che fine avrà fatto l’amante (o la legittima consorte) del Conte Palmieri, prima di Tosca doppiamente beffata: nella crudeltà del ricatto e nell’enormità della tradita speranza? Nel confronto con Scarpia il filo-bonapartista Cavaradossi si trasforma in eroe-patriota, l’egoismo e la fragilità sentimentale di Tosca trovano una strada altrettanto grande nel secondo atto, anche se poco prima lei avevano ceduto d’impulso al ricatto esercitato dal suono della voce straziata del suo Mario e l’aveva tradito (“nel pozzo… nel giardino”). Il loro eroismo di riporto

Dietro la freddezza pulsa una rabbia impaziente, un livore sordo e quasi atavico: da emarginato sociale. Uomo odiato e temuto, Scarpia si vendica avversando il mondo che per paura lo scansa (o riverisce) oppure perseguitando chi non attesta il suo potere col terrore stampato negli occhi: Cavaradossi, probabilmente il Conte Palmieri o i coraggiosi componenti della famiglia Attavanti. Smisurato nell’orgoglio e nella crudeltà esercitate con bizantina cura e sinistra mansuetudine, Scarpia è contro tutti. Ufficialmente lo fa per ragioni politiche e motivazioni di ordine pubblico. In realtà agisce senza conoscere né aver bisogno di obiettivi precisi se non la morbosa passione-attrazione per Tosca che è bella, amata, corteggiata. Semplice e pia. L’esacerbazione di Scarpia nei confronti degli altri e la rivalità sociale nei confronti di Tosca (che può bussare alla porta della Regina, senza fare anticamera come lui) è incondizionata: basta di per sé.

spicca nell’ansimante finale, anche se per una buona metà del terzo atto sono la natura e l’ambiente esterno a cifrare realistiche cartoline illustrate musicali in partitura (lo stornello d’apertura Puccini lo volle originale; come il concerto mattutino dei campanari papalini giocato su sofisticate stereofonie orchestrali): pae­saggi dell’anima. Dove l’emozione soccorre la grammatica e il comune senso poetico (il “Lucean le stelle” non sempre imbocca versi plausibili) si maschera dietro la melodia e gli arabeschi avviati dal clarinetto in orchestra. Nel finale la temperatura espressiva mira al concreto: la “lezione di recitazione” impartita da Tosca all’amante, l’esaltazione istericamente esibita (“Trionfai/di nova speme”), l’ipnotica e lancinante marcia del plotone d’esecuzione. “La frammentarietà è cosa voluta da me”, così Puccini rintuzzava le riserve di Giulio Ricordi (11 ottobre 1899): “non può essere una situazione uniforme e tranquilla, come in altre

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