Ameno lido che s’incurva e gira

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Ameno lido che s’incurva e gira


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Ameno lido che s’ incurva e gira I segni della Storia sul secondo seno del Mar Piccolo di Taranto

Scorpione Editrice


Il titolo “Ameno lido che s’incurva e gira…” è una citazione da T.N. D’Aquino tratta da Delle Delizie Tarantine, Napoli 1771, libro secondo, pag. 155.

Le immagini che riproducono in facsimile i documenti dell’Archivio di Stato di Taranto nel lavoro di Chirico sono pubblicate in concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (aut. n. 1032 del 28 maggio 2009). Divieto di riproduzione con qualsiasi strumento, tecnica o procedimento. Le immagini riprodotte alle pagg. 8, 9, 11, 17, 18, 19, 23 sono tratte da La Provincia di Taranto (a cura di G. Carlone e O. Blasi), Atlante storico della Puglia, 3, Cavallino (Le) 1987. Le foto di Villa Pantaleo sono state gentilmente fornite dal dott. Gerardo De Benedetto. Le foto di copertina, della Palude la Vela, del Convento dei Battendieri e del complesso di S. Pietro sono di Giordana Tuzzi.


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uando, alla fine dell’Ottocento, fu costruito il canale navigabile che divide l’attuale Borgo di Taranto dall’antica isola, forse il Mar Piccolo non apparve subito con la sua antica grazia di lago salato, segnato nella parte interna da due sporgenze che delimitano un ancor più piccolo bacino, certo allora paludoso. Non fu subito utilizzato né valorizzato, cioè, il sopore discreto del secondo seno del Mar Piccolo, dove la storia ha lasciato tracce sensibili e dove la dimenticanza degli uomini ha trascurato l’attenzione all’interesse culturale e alla frequentazione sociale. Ma ciò ha anche consentito che se ne conservasse intatta, fino a oggi, l’interezza tra natura e storia, e per questo è sembrato opportuno tornare sull’intervento degli uomini in quei luoghi nei secoli, per ritrovare il sentimento della continuità e del passato nella nostra città. È nato da questa esigenza di conoscenza lo studio a tre voci di «Ameno lido che s’incurva e gira...». I segni della storia sul secondo seno del Mar Piccolo di Taranto, promosso dagli Amici dei Musei, in cui gli Autori ricostruiscono il passato ar-

cheologico, archivistico e architettonico di un luogo importante e segreto, ricco di fascino naturale e di espressioni ancora tangibili dell’azione dell’uomo. Già nella ricostruzione documentaria emerge la vita di una città in grado di stabilire un rapporto consapevole con il proprio luogo naturale, quasi un aperto colloquio, se si leggono le disposizioni testamentarie, le vocazioni alla convivenza solidale, la logica geografica e sociale della sistemazione dello spazio rurale intorno al Mar Piccolo. E ciò che viene costruito – proprietà private e luoghi religiosi – è caratterizzato sì dal bisogno dei pochi nobili locali di ampliare il proprio patrimonio con un gioco serrato di contratti matrimoniali e di amicizie notabili, ma risponde anche all’esigenza illuminata di rendere il secondo seno del Mar Piccolo un sito sempre più appetibile per la coltivazione e per la stabilizzazione di dimore rurali e di chiese che diventano riferimento di potere religioso e civile. Il diritto d’uso del fiume Cervaro, concesso da Francesco Marrese nel 1585 all’Ordine dei Padri Cappuccini affinché possano edificarvi un battendiere “a fine di curare li panni della Religione”, e la costruzione “di una gualchiera e di un

piccolo ospizio di appena otto celle per ospitare i cinque fratelli e due terziari addetti alla follatura dei panni” e la nascita,

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accanto ad essi, di una cappella e di un giardino circondato da muri a secco, parlano un linguaggio di capacità imprenditoriale oltre che di volontà di diffusione dei principi religiosi ispiratori dell’Ordine. E la concessione, nel 1536, con enfiteusi perpetua alla stessa famiglia Marrese nella persona del nobile Guala, sindaco di Taranto, della Masseria di San Pietro e Andrea, chiarisce ulteriormente l’interesse che il sito suscita e gli sviluppi agricoli e sociali intravisti. Ma è certo nell’Ottocento che il luogo si anima di vita civile e la superficie “ondulata e occupata da aree depresse alternate a costoni più elevati orientati in senso nord-sud” acquista respiro più intenso. Sono le case patrizie extra moenia a dare un nuovo assetto alla zona con vista sul Mar Piccolo e con possibilità di coltivazione intensiva, caratterizzate da nuova eleganza architettonica e concezione di riposo e di svago. È una Taranto diversa, quella che spia da questi luoghi che si adagiano ancora oggi su una costa in cui la natura domina il paesaggio raccolto e immoto nella ricchezza del passato. Gli interventi degli autori colgono, nella puntuale definizione storica e con la dovizia delle immagini, questa dimensione poetica e dimenticata e la propongono con una qualità di partecipazione che diventa analisi quasi sorridente di una zona di Taranto particolare per amenità e storia. Ed io li ringrazio, anche a nome dei soci, per aver assecondato con slancio il nostro progetto di conoscenza e di divulgazione e, insieme con loro, ringrazio l’editore che si è assunto l’onere economico della pubblicazione per la quale, ahimé, non c’erano sponsor disponibili. Anche attraverso quest’opera Taranto continua così a vivere soltanto di luce propria, della sua storia e del suo passato, in un presente che tarda a chiarire le prospettive, i progetti e i programmi per il suo domani.

Settembre 2010 Annapaola Petrone Albanese presidente dell’Associazione Amici dei Musei di Taranto

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Fonti storiche per la conoscenza del territorio

9 La vendemmia, gouache napoletana del ‘700 (da L. Mangione, Vigneti di Puglia, Congedo 2008).


Pianta del territorio comunale di Taranto con l’indicazione delle aree paludose e dei principali corsi d’acqua. Rilievo dell’ingegnere idraulico Carlo Pollio, fine XVIII secolo

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a sistemazione dello spazio rurale del territorio intorno al Mar Piccolo è scarsamente testimoniata dalle fonti nei secoli precedenti al XVIII, numerosi sono i riferimenti per il Settecento, mentre un quadro più completo è possibile solo dall’inizio dell’Ottocento sulla scorta dei dati desunti dal catasto murattiano e dalla numerosa documentazione notarile coeva. 1 Proprietari di vasti patrimoni fondiari nella zona, erano solo alcuni signori locali e vari enti religiosi che, sul finire del ‘700, avviarono una importante politica di ampliamento del proprio patrimonio comprando i beni demaniali posti in vendita per effetto della eversione feudale e introducendo nuove colture e nuove forme di gestione della terra. Il rinnovato interesse per la coltivazione della terra e la necessità di curare da vicino le proprie aziende agricole, portò i proprietari a risiedere per lunghi periodi e soprattutto nella stagione estiva, nelle loro residenze di campagna che un po’ alla volta vennero ampliate e riadattate alle nuove esigenze, diventando a volte dei veri e propri casini di villeggiatura. Accanto alla casa padronale sorgevano i fabbricati per i coloni, i “bracciali” e i “gualani”, le posture per la conservazione delle derrate, il palmento, diversi pozzi di acqua piovana e sorgiva, il giardino con alberi da frutto : soprattutto mandorli, fichi, peri, melograni, gelsi. La terra posta a coltura era destinata principalmente a seminativo, ma notevole era la presenza dell’uliveto e del vigneto. 2 In cima alla gerarchia sociale di Taranto, città di pescatori e artigiani, stava un ceto nobiliare molto ristretto, composto da una ventina di famiglie nobili3 che detenevano le maggiori ricchezze e i cui membri si contendevano il potere locale occupando anche uffici regi. Legate e imparentate fra loro, tali casate creavano una fitta rete di relazioni politiche, economiche e sociali determinate essenzialmente dalle alleanze matrimoniali, basate sulla conservazione del patrimonio immobiliare urbano e dei possedimenti terrieri che passavano intatti solo in linea maschile e per via successoria, creando famiglie allargate, proprietà indivise e rapporti di alleanza e di solidarietà fra parentele, in cui il ricorso alla trasmissione ineguale dei beni era funzionale a man-

tenere integro il patrimonio, impedendone lo smembramento. Attraverso l’adozione di istituti giuridici quali le primogeniture e i fidecommessi, veniva favorita poi la creazione di dinastie lineari ed era assicurata l’unità tra un nome e un patrimonio che passava di generazione in generazione indiviso. Per questo, la maggior parte delle giovani fanciulle delle grandi famiglie era incoraggiata ad entrare in convento e solo alcune erano destinate a contrarre un matrimonio vantaggioso; le prime rinunciavano con atto notarile a qualsiasi pretesa sull’asse ereditario, ricevendo in cambio la dote di monacazione, sensibilmente inferiore a quella matrimoniale. “…spirate dalla gratia dello spirito santo deliberorono monacarsi…con la volontà di fare la professione, lasciare le cose mondane, servire Iddio e finire la loro vita da religiose e, conoscendo quanto siano li beni terreni d’impedimento a persona religiosa hanno deliberato prima di fare la loro sollenne professione, renunciare e donare loro portioni di beni

Ampiamente descritta tutta la zona intorno al Mar Piccolo nei diari di viaggio degli intellettuali europei che, seguendo gli itinerari del Gran Tour, giungevano a Taranto; fra tutti, così si esprime nel 1879 Lenormant: “sulle colline degradanti verso Mar Piccolo sì da godere della bella vista sulla tranquilla insenatura, fra poggi di olivi inframezzati a giardini di aranci, limoni, fichi, mandorli e melograni, fanno qua e là capolino le ville dei ricchi abitanti della moderna Taranto”, Viaggiatori francesi in Puglia nell’Ottocento, a cura di G. Dotoli-F. Fiorino, IV, Fasano 1985, p. 444. 2 Per una conoscenza del territorio cfr. A. V. Greco, Masserie del tarantino. Il territorio urbanizzato, Martina Franca 2002; C. Chirico, Sulla via che mena al Pizzone. L’antica strada di S. Lucia a Taranto, Taranto 2001. 3 P. Boso, La popolazione di Taranto secondo il 1


Pianta della città di Taranto e dei comuni del circondario, disegno di Giovanni de Berger, sec. XVIII

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catasto del 1746, in Produttività Jonica, anno IV, nn. 1-2, Taranto 1975, pp. 40-81 Nell’inventario dei beni lasciati in eredità dal cavaliere Giantomaso Marrese, vengono ritrovati e minuziosamente descritti nei contenuti quasi 200 ponderosi incartamenti dal 1376 al 1823 contenenti capitoli matrimoniali, libri contabili, atti di affitto, corrispondenza e atti in pergamena, relativi ad acquisti di beni immobili, donazioni, cessioni, inventari, la cui lettura illumina non solo sulla storia della famiglia Marrese, una delle più potenti e ricche della Taranto fra Sette e Ottocento, ma anche sulla storia in generale delle casate cittadine con le quali i Marrese avevano rapporti di parentela o di affari, offrendo uno spaccato di

grande interesse della struttura economicoproduttiva della società tarantina. ASTa, notaio de Vincentiis Domenico Antonio, 1829, scheda 333, cc. 874r-949v. Del vasto e articolato archivio Marrese oggi, probabilmente, rimangono solo le 69 pergamene conservate a Lecce presso la Biblioteca Provinciale. Cfr. M. Pastore, Archivi privati in Terra d’Otranto, in Studi Salentini, VIII (dicembre 1959), pp. 408-448.

così mobili come stabili che ad esse spettano e competono per qualsivoglia causa portioni, legittime e successioni”. Le poche che si sposavano divenivano invece strumento di alleanza con altre famiglie e comunque le loro quote erano generalmente inferiori a quelle dei fratelli. Ai figli cadetti, oltre alla vita ecclesiastica, si apriva la carriera militare. La ricostruzione storica delle proprietà rurali delle famiglie patrizie tarantine prende, come detto, le mosse dal XVIII secolo con qualche riferimento ai due secoli precedenti. Ad una tale esiguità delle fonti presettecentesche, corrisponde una ricchezza di informazioni per i secoli successivi desunte non solo dai documenti a disposizione negli archivi pubblici e privati ma anche, indirettamente, dalla lettura degli atti stipulati dagli eredi al momento della successione dei grandi patrimoni. Consueti infatti erano gli inventari dei beni di famiglia stipulati dai notai i quali davano informazioni sull’archivio di famiglia, annotando anche la grande messe di titoli di proprietà conservati a testimonianza di acquisti e vendite 4. Testamenti, inventari, capitoli matrimoniali, sono strumenti preziosi per indagare la vita della famiglia tarantina del XVIII secolo; le informazioni casuali che tali documenti forniscono sulla topografia, sulla proprietà, sui tipi di lavoro, sui rapporti interpersonali, sui sentimenti, consentono di ricostruire la vita della elite mercantile e terriera del secolo. In questo contesto si inserisce la storia del territorio ad est del promontorio del Pizzone e delle famiglie che intorno al secondo seno del Mar Piccolo avevano le loro proprietà. Superato il ponte di Porta Lecce, percorrendo l’antica strada S. Lucia, la campagna orientale era caratterizzata da casini, grandi strutture conventuali e piccole cappelle rurali sparsi qua e là tra giardini e vigneti. Lasciata a destra la caletta della Santa degli occhi, incontrastato dominio dell’Arcivescovo Capecelatro e subito dopo il promontorio del Pizzone, per alcune miglia fuori dell’abitato si estendevano appezzamenti a coltivazione intensiva, giardini e vigneti, mentre via via che ci si allontanava da Taranto iniziavano a prevalere i campi seminati a frumento insieme a vaste estensioni di ulivi.

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Pianta del territorio comunale di Taranto e veduta prospettica della città , disegno di Giovanni Ottone de Berger, (da T.N. D’Aquino, Delle Delizie tarantine, Napoli 1771).


Pianta del Mar Piccolo di Taranto disegnata dal Pacelli nel 1807.

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Pianta del territorio di Taranto (da G. B. Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, Napoli 1811).

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G.B. Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, Napoli 1811, p. 55 6 ASTa, notaio de Letizia Orazio, 1651, scheda 74, cc. 230v-234r. 7 ASTa, notaio Manograsso Domenico Cataldo, 1677, scheda 86, cc. 16r-26r. I capitoli matrimoniali sono stipulati dalla stessa Vittoria che dichiara di non saper scrivere e comprendono anche un dettagliato elenco di beni corredali , comprese numerose e ricche gioie. 8 I capitoli matrimoniali furono rogati dal notaio tarantino Francesco Antonio de Pierro nel 1685. 9 ASTa, notaio Carosio Giovanni Maria, 1690, scheda 102, cc. 143v-149v. 10 ASTa, notaio Troncone Donato Antonio, 1720, cc.70v-71r. e 776v-780r. 11 Fracesco Antonio seniore aveva acquistato l’Ufficio di regio doganiere e baglivo di Taranto, incarico che aveva poi trasmesso in eredità a suo figlio Pietro Antonio e a suo nipote. ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1757, scheda 183, cc. 931v-933r. 12 Pietro Antonio Calò è tristemente famoso per una vicenda che coinvolse la sua famiglia, una delle più note della Taranto settecentesca, per una mancata promessa di matrimonio che gli costò l’arresto personale nelle segrete della Curia arcivescovile dove rimase per circa quattro anni. Cfr.C. Chirico, Dalla promessa di matrimonio alla dissoluzione. Fonti per la storia della famiglia, in Popolazione e famiglia nel Mezzogiorno moderno. Fonti e nuove prospettive d’indagine, a cura di Giovanna Da Molin, Bari 2006, pp. 181-192 13 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1757, scheda 183, cc. 708v-710r. 14 Ivi, cc. 944r-946v. 15 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1758, scheda 183, cc. 50v-54v. “l’abitazione nobile, li giardini ed alberi di frutti communi restano a beneficio del detto signor Calò”. 5

Masseria Manganecchia o Cimino Una delle prime contrade che si incontravano era Manganecchia, “amena” la definisce Gagliardo nella sua descrizione del territorio, ”posta tutta a vigne e ricca di verzieri e di ville dalla quale ha preso il nome la spiaggia che la bagna. Qua accorrono i tarantini nelle notti di settembre e ottobre in occasione della pesca della sciabica per mangiare sdraiati sul lido.”5 La zona è chiamata indifferentemente nelle fonti anche Cimino perché appartenuta alla antica e nobile famiglia Cimino estinta alla fine del Seicento. I fratelli Alessandro, Alfonso e Francesco Antonio Cimino, a metà Seicento, possedevano in comune “quamdam maxariam consistentem in tumolos centum quinquaginta terrarum seminatoriarum, arboribus sexaginta in circa olivarum, quatragenalibus sex in circa vinearum, turri, domo terranea, magazeno, nonnullis arboribus communibus, iardeno et aliis membris”.6 La proprietà, al confine con le terre di Ludovico Carducci e Diego Panarelli era passata, per motivi legati al recupero dei beni maritali, a Vittoria Gennarini moglie di Alfonso Cimino. Vittoria, rimasta presto vedova, si risposò con Gaspare Mazziotta7, portando in dote gran parte della masseria del primo marito. Il documento è anche una delle prime descrizioni della masseria Cimino in questo momento formata da due territori: la Pezza Grande ( 51 tomoli di terre seminatorie, con 70 alberi di olive, alberi “d’amendole, due albori di celse rosse et uno di celse bianche et tre alberi di fichi”, un giardino di “citrangoli” e mortella, due pozzi, tre palmenti), e la Pezza della Vela ( poco più di sei stoppelli di terre scapole, sette quarantali di vigne e un “giardinetto ammurato a crudo”). Per la prima volta vengono descritti anche i fabbricati “una torre con due camere, dui cortigli, suppenne, due case di paglia, stalla, cellaro, dui magazeni, cioè uno grande e uno piccolo, casa terranea per li gualani et aera paritata”, il tutto per un valore di circa 1900 ducati. Intorno all’ultimo decennio del secolo Vittoria, rimasta nuovamente vedova, sposò Diego Calò8, esponente di un’altra grande e importante famiglia tarantina che nella zona possedeva già dieci tomoli di terre seminate9. Da questo momento Diego ini-

ziò un’opera di acquisizione di numerosissimi piccoli poderi nell’intento di ingrandire la proprietà. Vittoria nel suo testamento10 dispose che Diego rimanesse usufruttuario “del fabrico della massaria d’essa signora Vittoria detta della Manganecchia, suppenne et ordegni rurali in essa sistenti”, di tre paia di bovi, carrette e capitania di detta masseria oltre alla vigna. Non avendo Diego con Vittoria avuto figli, ne ereditò le proprietà suo fratello Francesco Antonio11 e, in seguito, il figlio di questi Pietro Antonio12 al quale si deve la costruzione della chiesa della masseria Cimino; nel 1757 “volendo propagare il culto divino e la gran divozione che come fedele cristiano ha portato e porta verso l’Immaculata Santissima sempre Vergine Maria Madre di Dio ed il glorioso nostro Protettore S. Cataldo ave eretto dalle fondamenta una nuova chiesa in questa sua masseria di Cimino o sia della Manganecchia coll’espressa deliberazione ed invocazione della detta Immaculata e sempre Vergine Maria e S. Cataldo e sotto questo titolo e patrocinio”; allo scopo Pietro Antonio dotò la nuova chiesa di un capitale di duecento ducati per l’acquisto delle suppellettili sacre, per far celebrare ogni anno sette messe nei sette giorni delle festività principali della Vergine Maria, per pagare il sacerdote chiamato a celebrare e infine per una messa cantata da celebrare in perpetuo nei giorni dell’Immacolata Concezione e di S. Cataldo.13 A Pietro Antonio subentrò nell’eredità suo figlio Francesco Antonio, a richiesta del quale, il 25 ottobre 1757, il notaio si recò nella masseria Manganecchia o Cimino dove il procuratore di Francesco prese possesso della sua eredità “con entrare ed uscire nell’abitato rurale, nell’abitato nobile, capanne di semoventi, nella chiesa, terreni, giardinetto ed alberi, camminando ed ordinando alli coloni varie cose riguardo il coltivo della detta masseria con rompere rami di arbori e fare ogn’altro atto che denota lo vero possesso.”14 Francesco Antonio diede poi in fitto i terreni della sua masseria riservando a sé e alla sua famiglia il casino e il giardino per villeggiatura15. Qualche anno più tardi un certo capitano Ippolito Cagnazzi di Altamura, per alcuni crediti vantati, chiamò in giudizio presso la Gran Corte della Vicaria i Calò la cui masseria venne sottoposta ad apprezzo da parte di un commissario inviato dal Sacro Regio

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Consiglio, organo napoletano con competenze economiche16. Fu così che il 19 novembre 1761 una parte delle terre della masseria venne venduta a Cagnazzi per 2850 ducati insieme ad alcuni vani sottoposti al casino; a Calò rimase il casino superiore, la rimessa e il giardino detto la Fossata con “alberi di agrumi, cetrangoli, frutti comuni”, in comune i due pozzi e la chiesa, mentre Calò si impegnò a costruire un muro divisorio dentro il cortile della masseria per separare la proprietà venduta da quella rimasta alla sua famiglia.17 Ma la convivenza si rivelò ben presto troppo scomoda e quindi, nel 1766, Francesco Antonio decise di vendere anche ciò che gli rimaneva della masseria; beneficiario, Francesco Maria Pantaleo di Palagiano che per 500 ducati si assicurò un casino consistente in cinque vani e cucina18, una rimessa, un giardinetto di agrumi in una fossata e il corridoio di 18 metri di lunghezza e 5 metri di larghezza costruito per consentire ai Calò di raggiungere il casino dalla strada. È questo il momento in cui si affacciano i Pantaleo come proprietari della zona; a completamento dell’acquisto appena fatto del casino, Pantaleo aveva comprato dai Calò anche alcuni tomoli di terre seminate con alberi di mandorle, “vestiggi di case dirute” e un pozzo, confinanti col casino. Nel 1770 Francesco Maria riuscì a completare, pagando 4950 ducati, l’acquisizione dell’intera masseria Cimino, con l’acquisto della proprietà di Cagnazzi nel frattempo venduta ad un certo Giuseppe Putignani19 e con la costruzione di due palmenti per macinare le uve, di una nuova rimessa e di una stalla.20 Il barone Francesco Maria Pantaleo merita un’attenzione particolare nel panorama tarantino dell’epoca: si sposa due volte, la prima con Palma della Giorgia di Alessano procreando due figli, Domenico e Giulia, monaca professa del monastero di S. Giovanni Battista poi, rimasto vedovo, con Maria Molignani dei baroni di Berardinetto da cui nacquero Giovanni, Antonio, Edvige e Catalda. Il 1770 è anche l’anno in cui Pantaleo affermò la sua posizione in città facendo edificare il palazzo di famiglia a pochi passi dalla chiesa di S. Pietro Imperiale21, affacciato sul Mar Grande

Testamento di Francesco Maria Pantaleo. ASTa, notaio Candia Giuseppe Andrea, 1786, scheda 211, cc3r-9v.

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A proposito delle condizioni debitorie della famiglia, peraltro comuni a molte famiglie nobili cittadine, Francesco Antonio proprio nel 1761 fu costretto, per evitare “che gl’affari più rilevanti della sua casa andassero a rovina” a lasciare Taranto per alcuni anni e a recarsi a Venezia (è figlio della nobile dama veneziana Altadonna Semitecolo) e a Napoli dove pendevano alcune cause presso i

tribunali. Prima di partire si occupò di alcuni problemi riguardanti “l’onore e decoro suo” sistemando la giovane moglie Raffaella de Angelis nel monastero di S. Anna di Lecce, sentito il parere del suocero. Raffaella “per compiacere al detto suo marito, conoscendo essere giustissimo” accondiscese a ritirarsi in convento. F. A. le assegnò un vitalizio e un corredo di biancheria, mobili per arredare la sua camera, vestiti e gioie, oggetti concessi alla donna per suo aggio e decoro per il tempo dell’assenza del marito al quale dovevano poi essere restituiti. ASTa, notaio Pignatelli Diego Gennaro, 1761, scheda 190, cc. 301r-305r. 17 Ivi, cc. 275v- 284v. 18 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1766, scheda 183, cc. 953r-956r. 19 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1770, scheda 183, cc. 1425v-1431r 20 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1771, scheda 183, cc. 455v . La costruzione si deve a Francesco Saverio Miraglia, importante imprenditore edile del secolo, al quale si deve anche la costruzione del palazzo Pantaleo al porto. 21 “Voglio che il mio cadavere sia sepellito nella chiesa del venerabile convento di S. Pietro Imperiale dell’ordine de’ padri predicatori di questa città, con quella pompa funerale convenevole al mio stato”. Questa, fra le altre, la disposizione testamentaria lasciata da Francesco Maria Pantaleo nel suo testamento datato 28 luglio 1783. 22 ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1770, scheda 183, cc. 1077v-1091v. Francesco Maria ebbe sempre un’attenzione speciale per il palazzo tarantino del quale aveva curato ogni particolare, assicurandosi la vista anche del Mar Piccolo e della retrostante Piazza Grande, Ibidem, 1772, c. 144, c. 399, c. 648 23 Tenero il riferimento alla moglie Maria per la quale dispose che, insieme ad un adeguato vitalizio, dovesse abitare nel quarto del palazzo tarantino con l’uso “dei mobili, suppellettili di casa, argenti, gioie, della carozza dei quali non sia tenuta a dar conto e questo legato che le faccio in argomento della mia venerazione, stima ed amore”.


Il testamento è datato 28 luglio 1783 scritto e sigillato dal notaio tarantino Lorenzo Paolo Trani la cui scheda notarile venne conservata dal notaio Giuseppe Andrea Candia che, all’atto della morte di Pantaleo, ne pubblicò il testamento. ASTa, notaio Candia Giuseppe Andrea, 1786, scheda 211, cc.3r-9v. 25 Nel testamento Francesco Maria assegnò alle due figlie nubili Edvige e Catalda 4000 ducati di dote a testa oltre al corredo del valore di 500 ducati. 26 ASTa, notaio Castriota Domenico Antonio, 1787, scheda 229, cc.87r-109r 27 ASTa, notaio Castriota Domenico Antonio, 1786, scheda 229, cc. 145v-161r (al documento è allegata una copia autentica del testamento di Francesco Maria). 28 La masseria, di 232 tomoli di terra “con 570 alberi di olivo, giardinetto, case rurali, capanne, magazzini, abitazioni, chiesa” a confine con Masseria Paluderbara, era una volta di proprietà De Raho, poi pervenuta in eredità ai Gennarini. Nel 1765 “poiché si trovano oppressi di altri debbiti forzosi” i fratelli Filippo, Michele e Tommaso Gennarini si videro costretti a vendere la loro proprietà a Francesco Maria Pantaleo. ASTa, notaio Mannarini Francesco Nicola, 1765, scheda 183, cc.1233v1251r. 29 La Masseria Paluderbara era di proprietà dei fratelli Achille e Cataldantonio Carducci che l’avevano ereditata dal padre Bartolomeo, nel 1765 “trovandosi in positivi bisogni” e per soffisfare i numerosi creditori i due fratelli la vendettero per 14500 ducati a Francesco Maria Pantaleo. Ibidem, cc.899v926v. 24

nello splendido scenario del porto. Il palazzo è oggi uno dei più begli esempi di architettura settecentesca, tra i pochissimi nel borgo antico a non essere il risultato di più unità edilizie accorpate, ma costruito dalle fondamenta dopo il diroccamento di una preesistente casa palazzata22. Francesco Maria ne affidò la realizzazione ad uno dei più accorsati costruttori dell’epoca, Francesco Saverio Miraglia, al quale affiancò il pittore francavillese Domenico Antonio Carella per le decorazioni dei soffitti e delle stanze, secondo un costume che si andava affermando nelle province meridionali su modello napoletano. Il 6 giugno 1786 Francesco Maria morì nominando erede universale Giovanni, l’unico figlio maschio avuto da Maria Molignani23, sua seconda moglie ed erede particolare Domenico, primogenito nato dal primo matrimonio. Il testamento24, sottoscritto tre anni prima e consegnato al notaio di famiglia, è illuminante non solo per la descrizione dei beni Pantaleo, ma per le strategie messe in atto, sul finire del secolo XVIII, dalla nobiltà locale per regolare i propri affari patrimoniali. Come già detto precedentemente, la necessità di tutelare il patrimonio familiare rendeva gli eredi solamente usufruttuari dei beni che dovevano invece passare intatti da primogenito in primogenito e, in caso di estinzione della linea maschile, la trasmissione riguardava i primogeniti maschi delle figlie femmine con l’obbligo però che “… il marito di detta mia figlia ed ogni primogenito che succederà nella di lei discendenza debba unire alla propria famiglia il cognome di Pantaleo”25. Puntuali e severe le disposizioni di Francesco Maria, il quale “in sedia sedendo, sano per la Dio grazia di corpo, vista, intelletto e nella sua retta loquela e memoria, considerando di dover tra breve tempo morire”, dispose, secondo il diritto successorio vigente, affinchè tutto il patrimonio si conservasse per il primogenito: “espressamente proibisco ogni atto di vendita, alienazione, pignorazione, permutazione, censuazione, obligazione ed ogn’altra distrazione, sotto pena di caduità…e della nullità ed invalidità di quel contratto che si fosse sopra

di ciò fatto, senza che sopra la proprietà di detti beni tutti si possa trasferire o acquistare dominio, possesso…neppure al regio Fisco per qualsivoglia delitto, anche gravissimo che fusse di Lesa maestà, divina ed umana… delle quali, Iddio non voglia, incorresse o fosse incorso il possessore usufruttuario…” La disposizione paterna, però, non convinse Domenico, figlio avuto dalla prima moglie Palma della Giorgia, il quale ricorse al Sacro Regio Consiglio per la tutela dei suoi interessi. “Essendo insorte delle discordie” l’11 aprile 178726,con la mediazione di Tommaso Ciura, comune amico, si addivenne tra i fratelli ad una articolata convenzione27: per i beni paterni situati nel territorio di cui parliamo si dispose che a Giovanni andasse masseria Raho 28 con quattro pezze di terre seminatoriali: La Salinella, Calzo, Cocevolina e la Piantata, dell’estensione totale di circa 195 tomoli, 530 alberi di olive, una pezza di terre paludose destinata a pascolo con alcuni fabbricati, buoi, carri, aratri e altre capitanie e infine la masseria Cimino di 75 tomoli di terre seminatoriali con fabbricati e dotata di “para tre di bovi aratorii, una giumenta, tre zappe, tre zapponi, una carretta o sia carro colla sua vacana, tre giochi, dodeci piloni, mettà de’ quali cioè sei esistenti dentro la capanna e sei sopra l’aja per uso di detti bovi, una casa piena di paglia, tomola cento cinquanta di avena, tomola trenta di grano, tomola due di fave, tomola due di ceci, due giardinetti, sessanta sette quarantali di vigne, due palmenti in ordine, trenta botti esistenti dentro la cantina di sotto al casino”. A Domenico spettò masseria Paluderbara29 con fabbriche inferiori e superiori “terre seminatoriali cento novanta e stoppelli sei, con dentro numero seicento trenta alberi d’olivi fruttiferi, altre terre paludi di pascolo tomola settanta e due stoppelli e tomola quattro terre paludi comprate da signori Carducci e dotata di sette para di bovi, due carri in ordine con due racane, sette aratri, sette giochi, una giumenta, venti otto piloni, mettà de’ quali esistono entro le capanne e l’altra mettà sopra l’aja per uso d’ bovi, sette zappe, sette zapponi, un lamione pieno di paglia, tomola cento di grano, tomola due cento cinquanta di avena, tomola dieci di orzo, tomola sette di fave, tomola cinque di ceci, numero tre cento cinquanta pecore”.

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Testamento olografo del barone Giuseppe Pantaleo. ASTa, notaio de Vincenttis Girolamo, 1870, scheda 411, cc.385r-394v

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Giovanni, nello stesso anno 178728, concesse in fitto le sue masserie Raho e Cimino a Pasquale e Fedele Mariella (padre e figlio) di Carosino per 793 ducati d’argento da corrispondere annualmente, riservando a sé l’uso del casino “con la stalla, rimessa, camera per il torriere delle vigne, cantina, palmenti, chiesa, li due giardinetti di agrumi ed avucchi di ape”. I Mariella, nei patti intercorsi, si obbligarono a dare gratis ogni anno al barone venti carri di paglia per la stalla del palazzo in Taranto, 480 uova, due capponi, “una gallotta, un pavoncello nel S. Natale e tre fuscelli di ricotta tutte le domeniche”. Durante la vendemmia i conduttori delle masserie si impegnarono a consegnare a Pantaleo le due giumente per “cofanare”, e a trasportare a loro spese i materiali occorrenti alle eventuali riparazioni ai fabbricati delle masserie. Gli oneri di manutenzione dovevano essere a totale carico del proprietario. I fratelli Pantaleo, Giovanni e Domenico, alla fine del secolo XVIII risultavano proprietari di un vasto latifondo che comprendeva la masseria Paluderbara (attuale Patrovaro) acquistata dal fallimento Carducci, Raho acquistata dai Gennarini, Cicora in concessione enfiteutica dai Padri del convento di S. Maria delle Grazie dell’Ordine dei Minimi di S. Francesco di Paola29 e Cimino. Nella descrizione delle proprietà Pantaleo agli inizi del XIX secolo, ci soccorre il catasto murattiano in cui, all’impianto, risulta che il barone Giovanni è proprietario di diverse masserie: La Cicora con un seminativo di circa 135 tomoli, una casa rustica e una d’abitazione, la masseria Raho con 127 tomoli di terre seminate, casa rustica, casa d’abitazione, due giardini e oliveto, Il Cavaliere con giardino, casa d’abitazione e oliveto, Cimino con 57 tomoli di seminato, oliveto, giardino, casa rustica, casa d’abitazione e palmento e alcuni appezzamenti di seminativo e vigneto a Palude Erbaro e Manganecchia, oltre al palazzo di famiglia nella Strada del Porto. Giuseppe, figlio di Giovanni, con suo testamento olografo del 10 ottobre 1854, aveva lasciato il suo intero patrimonio, valutato 106.340 ducati, ai tre figli maschi Francesco, Giovanni e Giacomo tutti non sposati e abitanti nello stesso palazzo; la sola legittima, invece, alle tre femmine Caterina moglie di Francesco

de Notaristefani, Maria e Giulia, monaca professa del monastero di S. Chiara. Il primogenito, cui era stata destinata fra le altre proprietà la masseria Cimino, morì nel 1869 e suo padre ridistribuì le proprietà ai due figli maschi superstiti Giovanni che ereditò il titolo di barone e Giacomo. Giuseppe morì il 4 luglio 187030 e i figli vennero chiamati ad aprire la successione della eredità paterna31 nella quale era confluita anche quella della madre, baronessa Maria Giuseppa Martucci. Al barone Giovanni venne destinata la masseria Raho posta lungo la via per Faggiano, di 195 tomoli di terreno seminato e olivato con casa rurale e cappella, la masseria Cicora di circa 130 tomoli confinante con le terre delle masserie Paluderbara, Monacelle e Montefusco32, il secondo piano del palazzo sito in Taranto nella Strada del Porto composto di 11 vani e due terrazzi, il “quartino matto” di quattro vani, la cantina ed un magazzino, oltre a metà della scuderia, della rimessa, della selleria e un magazzino per foraggi con altre tre piccole case contigue.

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ASTa, notaio Castriota Domenico Antonio, 1787, scheda 229, cc. 14r-20r ASTa, notaio Castriota Domenico Antonio, 1795, scheda 229, cc.45-70r ASTa, notaio de Vincentiis Girolamo, 1870,


La ricevitoria di Taranto nella carta geografica disegnata dal Pacelli nel 1807

I due fratelli divisero anche i mobili, gli argenti, le gioie, gli utensili da cucina, le carrozze e i cavalli. Giacomo si spense alle ore 20,15 del 7 dicembre 1887 nella sua masseria Cimino, all’età di 69 anni, confortato dalla presenza del fratello Giovanni, della moglie Rosaria Hueber e dei tre figli Giuseppe, Giovanni e Giuseppina Maria.34 Il primogenito, barone Giuseppe, il 15 ottobre 1913 firmò una convenzione con il Demanio per la Regia Marina con la quale cedeva l’oliveto nella contrada Cimino, determinando il primo pesante stravolgimento della zona. Nello stesso anno, l’azienda del barone Pantaleo era costituita dalle masserie Cimino, Raho, Paluderbara e Cicora, tutte attigue e poste sulla strada provinciale Taranto-San Giorgio, circondate soprattutto da oliveti, mandorleti, vigneti e terreni coltivati a leguminose e cereali. Nei primi anni del secolo XX, le suddette masserie si specializzarono nell’allevamento con oltre cento capi di bestiame bovino e ovino e dando vita alla preparazione e imbottigliamento del latte, distribuito in città da cinque depositi e alla fabbricazione di prodotti caseari, oltre a far nascere importanti stabilimenti vinicoli e oleifici.

‫ﱝﱜﱛ‬ scheda 411, cc. 372r-397v. 31 Ibidem, 1871, cc.139r-161v. 32 Interessante anche la storia di questa masseria appartenuta nel Seicento alla nobile famiglia dei Montefuscoli. 33 ASTa, notaio De Vincentiis Girolamo, 1870, scheda 411, cc. 372. 34 Ibidem, 1888, cc. 41r-45v.

A Giacomo venne destinato, oltre alla masseria Paluderbara, di circa 296 tomoli di oliveto e vigneto al confine con le terre delle masserie S. Paolo, Cicora, il piano nobile cioè primo piano del palazzo di famiglia di 11 vani, l’altra metà della scuderia, rimessa, selleria e magazzino. Giacomo ereditò anche la masseria Cimino “dell’estensione di cento sessanta tomoli tra la via antica che porta a Faggiano e il Mar Piccolo, terreni seminatori, olivati, vineati, palude per uso di pascolo, fabbricati rurali, trappeto, cantina con 36 botti, giardino in parte villa, due palmenti, cappella ed intero casino di fabbricati superiori ed inferiori con tutti i mobili ivi esistenti, compresi cinque paia di buoi, due asine, due carri, tutti gli attrezzi” e 123 tra pecore e capre per un valore complessivo di 16.440 ducati.33

Superato il territorio di riferimento della masseria Patrovaro, come già detto una volta Paluderbara, e lasciata la strada che porta a S. Giorgio, si costeggia il secondo seno del Mar Piccolo per lungo tratto paludoso in corrispondenza con l’oasi del WWF “La Vela” alimentata dalle acque del canale d’Ayedda. La zona è ampiamente rappresentata in tutta la cartografia storica dove sono segnalati i toponimi “Battendieri sul Rasca”, “Battendieri sul Cervaro” e masseria S. Pietro; tutti riferimenti a strutture collocate sulle sponde del secondo seno del Mar Piccolo a riprova imprescindibile della importanza topografica, storica ed economica rivestita da tali insediamenti nel corso dei secoli.

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Il Golfo di Taranto nella carta geografica disegnata da Giovanni Antonio Magini e tratta dall’Atlante edito a Bologna nel 1620

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Il golfo di Taranto nella carta geografica disegnata da Giovanni Antonio Rizzi Zannoni e tratta dall’Atlante edito a Venezia nel 1783

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ASTa, notaio Mannarino Francesco Paolo, 1711, scheda 133, cc.151r-152r

Battendieri sul Rasca

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Era consuetudine, per gli ordini mendicanti, dedicarsi alla follatura delle lane per la confezione dei saii dei frati; nel territorio di Taranto, oltre alla gualchiera dei cappuccini sul Cervaro della quale parlerò in seguito, ne esisteva un’altra dei padri Riformati sul fiume Rasca, detta Battendiere nuovo, poiché costruita nel 1669 per generosità della famiglia Albertini signori di S. Giorgio. I frati francescani, non avendo un luogo in cui stare,

La Gualchiera sul Rasca

erano ospitati nella masseria di S. Giovanni “ospitium vulgariter dictum li battendieri di S. Giovanni”. Una rara immagine del luogo è riportata in una pianta allegata agli atti del notaio tarantino Francesco Paolo Mannarino del 1711.35 In quell’anno il Monte della Pietà dei Poveri di Taranto concesse in enfiteusi al principe Giulio Cesare Albertini, signore di Faggiano, Carosino, S. Giorgio e dei feudi di Belvedere e Pasono, sessanta tomoli di terre di sua proprietà per il canone di venti ducati l’anno.

ASTa, notaio Mannarino Francesco Paolo, Taranto, 1711, scheda 133, cc. 151r-152r. 36 ASTa, notaio Troncone Donato Antonio, 1716, scheda 144, cc. 197v-200r. 37 P. Coco, I PP. Cappuccini in Taranto e Provincia, in l’Italia francescana, XVI (1941), pp. 49-53 38 “in loco veteri cappuccinorum”. C. D’AngelaP. Massafra, La Santa Visita di Lelio Brancaccio, Arcivescovo di Taranto, estratto dal vol. II Atti del Congresso internazionale di 35


Battendieri sul Cervaro

studi sull’età del Viceregno (Bari, 7-10 ottobre 1972), Bari 1977, pp. 97-98. 39 Per la storia del convento e chiesa della Consolazione cfr. R. Caprara, Chiese e conventi cappuccini di Taranto, Taranto 1980, pp. 2760. 40 La torre S. Lorenzo è chiaramente visibile nella pianta a pag. 25. 41 ASTa, notaio Rizzi Michele Cataldo, 1767, scheda 227, cc. 223r-225r; Notaio de Vincentiis Domenico Antonio, 1828, scheda 333, c. 260r 42 Si veda capitolo seguente.

Il Convento di San Giovanni

La pianta, tratteggiata in modo elementare dal regio tavolario Angelo Pigonati di Faggiano, rappresenta il territorio chiamato la Torretta confinante a nord e a sud con proprietà dell’Albertini, a levante con l’ospizio di S. Giovanni, a ponente con il “canale de’ Battendieri”, il Rasca, nei pressi del quale gli Antoniani avevano costruito la loro gualchiera. Pigonati tornò qualche anno dopo per incarico dell’Albertini, a descrivere il territorio in occasione di una vertenza tra i confinanti Capitolo e Clero di Taranto e il casale di S. Giorgio36.

Nel 1528 Papa Clemente VII approvava la fondazione dell’Ordine cappuccino37, ispirato alle origini più pure del Francescanesimo e ad un ritorno alla più rigida e intransigente povertà. Ben presto i principi ispiratori della riforma cappuccina portarono ad una notevole crescita dei proseliti dell’Ordine e ad una massiccia diffusione di nuovi conventi. Tra i primi ad essere costruiti in Puglia, il convento di Taranto sorse probabilmente nel 1534 nei pressi del fiume Galeso, accanto ad una piccola cappella rurale dedicata a S. Maria de Consolatione Veteri. 38 I frati rimasero nella loro prima dimora per circa venti anni, poi, ingranditasi la famiglia e anche per sfuggire all’aria malsana proveniente dall’impaludamento del Galeso, costruirono nel 1556 sul Mar Grande un convento più grande e in un luogo più vicino alla città.39 La vita condotta in estrema povertà e i grandi atti di pietà profusi nell’assistenza ai bisognosi e agli ammalati, attirò ben presto sulla piccola comunità francescana la devozione di alcune famiglie benestanti della città e in particolare dei Marrese. La nobile e antica famiglia, già potente nel XIV secolo, era proprietaria di vasti possedimenti nel territorio a sud est del secondo seno del Mar Piccolo dove il 29 aprile del 1556 Ursina Marrese in qualità di tutrice dei figli di suo fratello Giantomaso Maria, acquistò da Carlo Cavezza di Napoli, con atto del notaio tarantino Carlo Boffoluto, 75 tomoli di terreno “con una torre chiamata S. Lorenzo40 e fiume Gervano che attaccano colli terreni della sua massaria chiamata S. Pietro ed Andrea ed indi incorporata alli medesimi”41 al confine della masseria S. Pietro de Mutata, già di proprietà della famiglia dal 153642. La grande devozione portata dalla famiglia all’Ordine di S. Francesco, determinò Francesco Marrese nel 1585 a concedere, a titolo gratuito ed in perpetuo, ai Padri Cappuccini insediati in città da pochi anni, mezzo tomolo di terra per impiantarvi un giardino e l’uso del fiume Cervaro affinchè i frati potessero costruirvi un battendiere “a fine di curare li panni della Religione su-

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Pianta della cittĂ di Taranto fra i suoi due mari, sec. XVIII.


I comuni della Provincia di Terra d’Otranto nella carta geografica tratta dall’Atlante delle Province cappuccine, edito a Torino nel 1649

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Ricostruzione di una gualchiera

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detta”. La concessione stipulata dal notaio Francesco Giosio di Taranto venne poi perfezionata dal figlio di Francesco, Scipione seniore, il quale l’8 dicembre 1597 per gli atti del notaio Gian Giacomo Giosio, concesse ai padri Cappuccini anche l’uso di un mezzo tomolo di terra “per poterci fare una cappella ed un abitazione per li padri avenno d’assistere al detto Battendiere ed anco di poter murare detto mezzo tomolo di terre per giardino” tanto il terreno quanto il fiume “avesse servito per li padri quo ad usum et non quo ad proprietatem”.43 Quasi subito i frati si posero all’opera e grazie alla generosità dei fedeli costruirono la gualchiera44, un piccolo ospizio di appena otto celle per ospitare i cinque fratelli e i due terziari addetti alla follatura dei panni, una cappella45 e un giardino che circondarono di muri a secco “In detto luogo ci sono otto celle per habitatione de’ frati, con le loro officine, con una chiesa piccola e due altre celle fuora dell’habitato de’ frati per uso de’ tertiarii con una casa dove si ualca il panno de’ nostri frati, il tutto ammurato con un giardino per servizio de’ frati et anco il fiume, quale passa da dentro l’istesso luogo”46. Il 12 febbraio 1604 lo stesso Scipione pensò bene di preservare i diritti acquisiti dai cappuccini anche dalle molestie dei suoi stessi eredi e con atto del notaio Filippo Giacomo Taccaro stipulò una nuova convenzione con i frati con la quale donava “donationis titulo irrevocabiliter inter vivos” terra e fiume col patto che qualora i frati avessero diversamente deciso, tali proprietà sarebbero tornate in possesso della famiglia Marrese.47 Gli accordi tra la nobile famiglia e i frati prevedevano anche la possibilità da parte dei Marrese “dopo che l’acqua ha servita al Battendiere48 di servirsi delle acque del fiume sia per abbeverare i propri bestiami che per affittarla ad uso d’altri bestiami forestieri e per pescare in detto canale”. 49 Il diritto vantato dai Marrese sul fiume aveva già nel passato procurato divergenze con i proprietari confinanti e in particolare con gli Ayello i quali, nel 1626, avevano comprato dai Ciura una masseria di 140 tomoli di terre seminate e macchiose nel luogo detto la Palombara50 confinante con le proprietà di Carlo Ungaro,

ASTa, notaio De Vincentiis Domenico Antonio, 1818, scheda 333, cc. 747r-749v 44 La gualchiera era l’edificio che conteneva il macchinario usato per la follatura della lana, azionato da energia idraulica e sito in prossimità del fiume. A sud del convento, nelle vicinanze dell’attuale circummarpiccolo sorge una struttura curvilinea all’interno della quale sgorga in superficie un citro la cui energia veniva utilizzata, probabilmente, come vasca per il lavaggio delle stoffe. 45 La piccola chiesa, ad una sola navata, rispetta l’architettura semplice delle chiese dell’Ordine cappuccino. 46 Il documento, datato 13 marzo 1670, è riportato in R. Caprara, Chiese e conventi, cit., pp. 61-64. L’autore, ringraziando le persone che gli hanno fornito la notizia, non riporta altre informazioni sulla provenienza del documento. 47 ASTa, notaio de Vincentiis Domenico Antonio, 1818, scheda 333, cc. 748r-748v 48 “I cappuccini hanno due macchine per scardassare la lana e se ne servono per fare i proprii abiti”. Così riferisce C. U. De Salis Marschlins, Nel Regno di Napoli, Galatina 1979, p. 122. 49 Così infatti Raffaele Assi, sacerdote secolare della Chiesa collegiata di Monteiasi, ottenne da Ignazio Maria il permesso di pescare nel fiume Cervaro con il tasso per una volta sola e per 30 carlini in moneta d’argento, con il patto di consegnare la stessa sera “10 rotola del miglior pesce che in detto fiume si pescherà”. ASTa, notaio Rizzi Michele Cataldo, 1767, scheda 227, cc. 223r-225r. Il fiume continuò ad essere affittato per lo stesso scopo anche negli anni seguenti. Ibidem, 1770, c. 375. 50 Interessanti notizie utili per la ricostruzione della storia della masseria Palombara detta anche “sopra li Battendieri” negli atti del notaio de Vincentiis Vito, 1703, scheda 125. 43

di Scipione Marrese, con il fiume Cervaro e il lido del Mar Piccolo51. L’abate Domenico Antonio Ayello pretendeva di servirsi delle acque del fiume per abbeverare i suoi animali, così come avevano fatto i Ciura e tutti i precedenti proprietari della masseria Palombara ma Scipione, che possedeva le sue masserie dall’altra parte del fiume, si oppose in virtù dello ius proibitivo dalla sua famiglia vantato sul fiume; ne nacque una lunga controversia cui pose fine il Sacro Regio Consiglio che si pronunciò in favore della famiglia Ayello. 52 Il pacifico possesso della zona da parte dei Padri Cappuccini, venne turbato agli inizi del XIX secolo da Giantomaso Marrese figlio del defunto Ignazio, cavaliere dell’ordine di S. Giovanni Gerosolimitano, il quale attribuì ai frati, in virtù di alcune mancate riparazioni, la volontà di abbandonare il sito. Ne nacque una lunga lite, costellata di atti giudiziari e perizie53, tra i cappuccini che sostenevano i loro diritti e il Marrese che dimostrava il legittimo possesso dell’intera zona. Nel 1818, “per far morire sul nascere


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