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di Sebastiano Caroni

La verità della polvere. Conversazione con Y ari Bernasconi (con una incursione di Andrea Fazioli) di Sebastiano Caroni

(. .. ) Busso alla porta della pietra. - Sono io, fammi entrare. - Non ho porta - dice la pietra. (Wislawa Szymborska, Conversazione con una pietra)

C'è una cosa che si trova ovunque, ma quasi non si vede: la polvere. Anche quando non la vediamo, lei c'è. Su questo possiamo contarci. Non ha bisogno del nostro permesso per esistere: si manifesta e basta. (Dal Manuale della polvere)

Vari Bemasconi (foto © Yvonne Biihler)

Rispolvero i ricordi. È una domenica della seconda metà di settembre del 2015, un pomeriggio piovoso, insolitamente freddo per la stagione. Sono davanti al Teatro Sociale di Bellinzona, dove ha luogo la decima edizione di Babel, il festival di traduzione. Sono le 15.301 e ho un appuntamento con Vari Bernasconi. Gli ho proposto un'intervista. Il tema è un po' insolito: la «polvere» nelle sue poesie. La sua nuova raccolta, appena pubblicata, s'intitola Nuovi giorni di polvere (Casagrande, 2015).

Qualche giorno prima, al telefono, avevo chiesto a Vari se conoscesse Conversazione con una pietra, una poesia di Wislawa Szymborska che descrive un'insolita conversazione fra un poeta e una pietra. Il poeta cerca di corrompere la pietra affinché questa apra una porta e lo lasci entrare. Ha degli argomenti da far valere, il poeta, sembra guadagnare

terreno, avvicinarsi all'impresa. Noi lettori crediamo che possa farcela, in qualche modo, a entrare. Infatti, sul finire della poesia, sembra trovare una via d'accesso, una porta. Bussa. Vuole entrare.

Ma la pietra dice che non si può, che non c'è porta. La conversazione allora va in frantumi, il varco metafisico - la possibilità di conoscere l'essenza della pietra - si chiude in un lampo. Torna l'imperturbabilità della pietra, la sua impenetrabilità, e si riafferma la sua natura di materia incorruttibile.

Perché avevo parlato a Yari di quella poesia della Szymborska? Forse perché la mia memoria dei versi di Y ari, quelli che precedono Nuovi giorni di polvere e che andavo rileggendo in quei giorni, mi aveva suggerito questo abbinamento con la poesia della Szymborska, soprattutto certi paesaggi, che ora ritrovavo in Nuovi giorni di polvere, una raccolta che comprende le precedenti plaquettes dell'autore, unitamente a poesie inedite. Si tratta di paesaggi spesso segnati da una devastazione senza ritorno, ridotti a conglomerati di macerie e residui, come testimonia questo breve componimento:

Sotto la macchia un reticolo di gallerie, di magazzini, di parcheggi. Spazi di ricreazione, un tempo, di saluto. Adesso, sotto la macchia, vagano i cocci e i vetri, i groppi di metallo, i residui distorti della furia.

«Cocci» e «vetri», «groppi di metallo», «residui distorti». Segnali materici a cui non si può sfuggire, che non si possono, e non si devono, ignorare. Quello che risuona nelle poesie di Y ari è che i paesaggi, quando sono abbandonati dagli uomini, continuano a vivere sulle tracce di quell'abbandono e delle violenze di cui sono stati teatro. Ma nello stesso tempo, perché sventrati, diventano privi di senso - pura materia - e impenetrabili.

Immagini di paesaggi che fanno parte, così come la poesia riportata sopra, di un gruppo di testi pubblicato inizialmente come Lettera da Dejevo (Alla chiara fonte, 2009)1 un libro di poesia che a suo modo è anche un libro di viaggio. In Lettera da Dejevo il poeta viaggiando vede e registra, e si fa attento testimone di ciò che è rimasto di un paese, l'Estonia, che dal 1940 al 1991 è stato soggetto alla dominazione russa. E fra ciò che rimane, ci sono anche paesaggi svuotati. Rimangono le macerie, sarcofaghi vuoti in un teatro spettrale. Quasi un preludio dell'apocalisse, a tratti. E il poeta è l'ultimo superstite che ci riporta a casa i segni della fine: l'alfabeto del quasi-dopo. Forse l'ultimo dopo, oltre il quale non ci sarà più nulla.

I paesaggi di Lettera da Dejevo, restituiti da Yari con un'eloquenza simile a quella - impietosa - della pietra nella chiusa di Conversazione con una pietra, mi avevano condotto a considerare alcuni aspetti della sua poetica come oggetto di un'intervista. C'era qualcosa che m'incuriosiva, che sentivo legata a quei paesaggi che mi erano rimasti dentro. Così, dopo il preludio sulla poesia della Szymborska, chiesi a Y ari cosa ne pensasse di un'intervista sulla polvere. Dopotutto, la sua raccolta di poesie s'intitola Nuovi giorni polvere. La domanda mi sembrava normale: perché proprio la polvere? Cosa rappresenta nell'universo poetico di Y ari Bemasconi?

Leggendo Nuovi giorni di polvere ci si accorge che il termine polvere appare solo dopo diverse poesie, quando siamo già decisamente dentro quell'universo di paesaggi desolati di cui si diceva prima. Che la polvere c'entri qualcosa con questi paesaggi? Lo chiesi direttamente a Yari, quella domenica pomeriggio mentre prendevamo un caffè al riparo da vento e pioggia di fronte al Teatro Sociale. Perché Nuovi giorni di polvere? Perché la polvere?

Yari Bernasconi: Il titolo della raccolta - che riprende un testo della sezione La montagna di fuoco - è nato quasi per caso, anche se trovarlo è stato un lungo percorso. Poi, come spesso succede (e non soltanto grazie a chi scrive), le parole acquisiscono ancora più significato col tempo, scavano in nuove profondità. Diciamo che la polvere attraversa il libro così come attraversa le nostre vite: è un elemento ricorrente, passivo e attivo a dipendenza della forma che assume o rappresenta.

Mi viene in mente il viaggio in Oriente di Nicolas Bouvier, nel 19531 che è poi diventato il suo grande capolavoro letterario L 'Usage du monde (1963). Ecco: in italiano il titolo è stato tradotto - secondo me splendidamente - in La polvere del mondo (Diabasis, 2004 e ried. 2009, con le traduzioni di Giuseppe Martoccia e Maria Teresa Giaveri). Come dice Linnio Accorroni in un bell'articolo del 2006 apparso su «Nazione Indiana» (www.nazioneindiana.com), il titolo italiano coglie «una delle idee-guida di quest'opera: l'idea che le cose del mondo, tutte, siano sottoposte ad inevitabile usura e che, per questo, spesso solo in ciò che rimane della loro distruzione riposa un'arcana, caduca dimensione di Senso e di Bellezza». È un'intuizione che ruberei volentieri.

Sebastiano Caroni: Ci sono molte espressioni che si affidano alla parola «polvere», molte delle quali sono negative (per esempio «mangiare la polvere»); altre invece assumono dei sensi positivi, come l'idea di rispolverare i ricordi. Polvere di stelle (Stardust), inoltre, è anche il titolo

di un film di W oody Allen. Insomma, la parola «polvere» può coprire un ampio spettro di significati, sia in positivo sia in negativo. La polvere può essere sia la cosa più anonima e insignificante, sia materia rarissima e pregiata, quando si tratta di pietre preziose oppure di sostanze ad uso narcotico (in quest'ultimo caso il valore attribuito alla polvere dipende, ovviamente, dai punti di vista; per coloro che la usano la vita può letteralmente dipendere dalla «polvere»). In questo ventaglio di significati, ce ne sono alcuni che si avvicinano maggiormente al messaggio che la tua raccolta di poesie vuole trasmettere al lettore?

YB: Ne sceglierò solo uno, un po' per gioco (anche perché sarebbe illogico credere di poter essere esaustivi). E riprende la mia risposta precedente: la polvere come viaggio, o come compagna di viaggio. «Viaggio» inteso nel suo senso naturalmente più ampio. Qui la polvere può infatti anche rappresentare un limite estremo. Penso per esempio alla già citata sezione La montagna di fuoco, dove la polvere è quella ardente del vulcano, che quando scende a valle spazza via tutto lasciando solo cenere e morte. È un'immagine che mi è sempre sembrata significativa del rapporto tra uomo e natura, ma anche tra natura e vita; e infatti la prosa poetica che chiude la sezione finisce con queste parole: «Gli alberi e i rami sopravvissuti alla tenaglia del calore si alzano ridicoli e sgraziati, in attesa delle foglie o di altri giorni di polvere». In questo senso, si può guardare anche al grandioso - e di questi tempi ancora follemente attuale - Furore (1939) di John Steinbeck: sono le terribili tempeste di polvere a rendere i campi incoltivabili e a costringere così la famiglia Joad (e con lei centinaia di migliaia di altri individui e altre famiglie) al drammatico viaggio dall'Oklahoma alla California.

C'è poi il viaggio come condizione di quella <<geografia mobile» a cui mi sembra di appartenere sempre più. E allora «chiedi alla polvere della strada!», come diceva John Fante nella sua prefazione a Chiedi alla polvere (1939, come Furore), che così l'ha intitolato perché «in quelle strade c'è la polvere dell'Est e del Middle West, ed è una polvere da cui non cresce nulla, una cultura senza radici, una frenetica ricerca di un riparo, la furia cieca di un popolo perso e senza speranza alle prese con la ricerca affannosa di una pace che non potrà mai raggiungere».

SC: Bastano due cose per fare la comune polvere. materia e movimento. Gli spot pubblicitari da decenni ci insegnano a neutralizzarla, allontanarla, scacciarla dalla nostra casa. Ma anche così, ad armi spiegate, come ci intima la pubblicità, la polvere imperterrita ritorna. Su questo non ci sono dubbi. Al di là dell'allusione alla retorica pubblicitaria

(che in qualche modo può far pensare ai brevi testi del Barthes di Mythologies), rimane il fatto, inequivocabile, che la polvere ci accompagna nel nostro vivere quotidiano, anche se non sempre è gradita. Ma non è che, in fondo in fondo, dietro la polvere si nasconde una qualche grande «verità»?

YB: Non bisogna essere religiosi o credenti per conoscere la famosa locuzione «Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris», ovvero (( Ricorda, uomo, che polvere sei e polvere tornerai», ripresa dalla Genesi (3, 19) e utilizzata nella liturgia del Mercoledì delle ceneri.

SC: Per dirla con il filosofo americano Charles Sanders Peirce, la polvere è indice dello scorrere del tempo. Secondo Peirce, gli indici sono segni che intrattengono un rapporto naturale con il loro messaggio, che s'inseriscono in una continuità logica e temporale con ciò che rappresentano. In questo senso, vedere fumo può essere indice della presenza del fuoco. Da questo punto di vista la polvere si colloca decisamente nella categoria peirciana degli indici. Sembra fatta apposta per segnalare l'inesorabile trascorrere del tempo e la sua direzionalità. Dal passato al futuro passando per il presente, dalla polvere non si torna indietro. Al massimo, si potrebbe dire, la polvere si sposta. Ma lei continuerà ad esistere, come indice del passaggio del tempo. Noi possiamo rispolverare i ricordi perché la polvere è la prova che il tempo esiste, e che il tempo è processo, movimento, di cui facciamo parte anche noi. A partire dal tuo modo di intendere la poesia, ritieni che la polvere sia solo abbandono, desolazione, rifiuto, oppure dalla polvere può nascere qualcosa? E cosa? Oppure, detto altrimenti: la polvere può essere solo un punto di arrivo oppure può fungere anche da punto di partenza nelle tue poesie?

YB: Di certo non si tratta di un punto d'arrivo. Può essere punto di partenza o punto mediano, ma con rispetto verso la realtà e la sua caducità. In generale, la mia visione è aperta; ritengo però importante -e anzi necessario - che l'apertura non si nasconda dietro a superficiali speranze o bozzetti edulcorati. È anche una questione di responsabilità. La speranza è importante, spesso misteriosa, e proprio per questo va coltivata attivamente, evitando le approssimazioni. La seconda sezione del libro s'intitola Non è vero che saremo perdonati, da un verso di Franco Fortini, ed è una provocazione che va in questa direzione. L'attesa e la dissimulazione sono elementi pericolosi. Ora, non so dire se affronta-

re la vita e i suoi misteri con gli occhi aperti ci renda più forti; di certo non ci rende più deboli.

D'altra parte, ritornando al titolo della raccolta, i nostri non sono <<altri giorni di polvere» come suggeriva il testo da cui è ispirato, ma «nuovi giorni di polvere».

Siamo qui giunti al termine della nostra conversazione. In realtà non tutto quello che sta scritto qui fu discusso e soppesato (così come ve lo presento ora) in quel pomeriggio di fine settembre, al riparo da vento e pioggia in un caffè davanti al Teatro Sociale. Successe che quell'incontro prese una piega decisamente simpatica e inaspettata, complice forse anche l'atmosfera letteraria di Babel. Nel mezzo dell'intervista sopraggiunse Andrea Fazioli, che a sua volta aveva appuntamento con Vari, e molto naturalmente si continuò a parlare di polvere. Con entusiasmo e leggerezza arrivammo anche a improvvisare un piccolo Manuale della polvere.

In fondo Babel, il tema insolito dell'intervista e la convivialità del caffè incoraggiavano questo nostro filosofare dal sapore un po' surrealista. Andrea ipotizzò addirittura la creazione di un Manifesto letterario della polvere ...

Secondo me funzionerebbe.

Andrea Fazioli: Ed eccomi qui. Non so bene come sia successo. Ho gli occhi che bruciano, la gola riarsa. Attorno a me per fortuna il polverone si sta diradando ... ecco, comincio a vederci un po' meglio. E mi trovo ... ma com'è possibile? Mi trovo dentro un'intervista. Fatemi osservare bene. Un'intervista non mia: io non sono né quello che porge le domande, né quello che risponde. Ero tranquillo, a casa, e stavo fumando in pace la pipa sulla mia poltrona. Ho sentito prima un fruscio, come fa il vento quando invade una casa deserta, poi il pizzicore agli occhi, l'odore, il gusto acre della polvere. E di colpo era tutto un vortice, un mulinello di granelli impazziti, una girandola che mi ha strappato alla poltrona e depositato qui.

Metto subito le mani avanti: non è colpa mia. Sebastiano Caroni e Y ari Bernasconi mi hanno evocato e trasportato dentro questa intervista, usando qualche incantesimo, qualche polvere magica di quelle che conoscono soltanto loro.

Ma visto che ci sono, fatemi dire che ricordo bene quel pomeriggio piovoso. Ai margini di Babel, come due cospiratori, Sebastiano e Yari si bisbigliavano confidenze polverose. Prendere un appuntamento con Yari e poi trovarsi all'ora giusta e nel posto giusto non è mai scontato

(di solito finiamo in due città diverse, ed è già una fortuna se imbrocchiamo il giorno). Perciò, dopo aver espresso il mio sollievo, mi sono accorto subito che stava accadendo qualcosa d'importante. In quel tranquillo pomeriggio bellinzonese stava nascendo non soltanto il Manuale della polvere (opera che in un certo senso contiene ogni altra opera, con un effetto alla Borges), non soltanto il Manifesto letterario della polvere, ma anche l'Accademia della polvere (o dei polverosi?): una sintonia fra quanti, poeti o prosatori, hanno accolto questo elemento primordiale di ogni materia.

Come narratore, lo posso confermare: quando in una scena arrivi a preoccuparti della polvere, vuol dire che sei entrato nell'atmosfera. Quando invece la scrittura si fa vaga, lontana dall'esperienza, le cose appaiono sospese nella loro astrazione, senza vita e senza polvere. Perché la polvere, benché spesso sembri indicare il contrario, è il primo e più evidente sintomo della vita'.

Sebastiano ha avuto un'ottima intuizione nell'impostare l'intervista: spesso scegliere un punto di approccio puntuale aiuta a muoversi nella complessità di un'opera. Guidati dalla scia di polvere, i lettori sapranno cogliere tutte le atmosfere e i temi di Y ari Bernasconi: il viaggio, l'appartenenza, l'emigrazione, la morte, la resistenza. La polvere non è segno di abbandono e di smarrimento, ma residuo da usare per una (ri)costruzione: Restano adesso soltanto i nostri passi. I Non servono grandi parole: la strada è questa, I bagnata. Siamo insieme e inseguiamo la notte. I Goffi e testardi ma sempre selvatici.

1 Hoagy Carmichael incise per la prima volta Star Dust nella notte di Halloween del 1927. Chi avrebbe mai pensato che questo brano, nato in una notte oscura, con una struttura melodica complessa, diventasse una canzone fra le più celebri al mondo? Misteri della polvere, di nuovo ... ma, ehi, che ci faccio qui? Non ci credo. Mi hanno trascinato pure in una nota a piè di pagina1

Cinque cartoline dal fronte (intorno a Ponte Tresa) di Y ari Bemasconi

Dicono guerra e io guardo il lago appena mosso. Lo specchio di cielo fra Italia e Svizzera, nel tepore del sole che arriva. Gli eroi sono altrove: niente sanno di queste vite assembrate negli abitacoli e nel traffico, in mezzo a polveri sospese. Le giornate che si stringono fra due diverse e sempre uguali indifferenze. Non direbbero guerra, se potessero.

Qualcuno vorrebbe capire e riconoscere un tratto distintivo, ma è subito sconfitto: la piccola stazione risponde solo di una folla disordinata, di sguardi che cercano in luoghi dispersi o inaccessibili. Discretamente e forse con un po' di vergogna. Il resto è un lento transitare oscillante: chi scende dal vagone, chi aspetta, chi aiuta un anziano a salire.

Non ci sono stendardi e grandi mitologie da rianimare. Solo piccole sofferenze, sacrifici comuni. Sono tutti superstiti, qui, dove i sentieri s'intrecciano sotto il verde di boschi fitti e poco spettacolari. Colline uguali, forse monti, e il fiume abbandonato dalle anguille, più in basso. Non ci sono trincee, ma sempre più profondo è il solco dell'odio, delle finte incomprensioni .

Verso Luino le strade non crollano, non lasciano voragini aperte sopra il buio. Solo gli smottamenti danno scosse leggere alle curve e ai profili delle rocce. Le storie di contrabbando sbiadiscono lontane: auto svizzere e italiane attendono al semaforo che è sempre rosso all'entrata del tunnel. Poco dopo, dov'è il tornante pericoloso, fiori di plastica si sciolgono al sole.

Attraverso la striscia d'acqua dolce fra Caslano e Lavena, dove i pesci sembrano rallentare, un ragazzo raggiunge l'altra riva e schiamazza. Ma se ritorni domani o dopo, quando il velo di pioggia nasconde il cielo, vedi gli alberghi cupi e inabitati e le case svuotate, mentre su è solo monte, strapiombo. Senti l'ansia dell'inizio, e più forte la paura di un'altra, nuova fine.

Dal rigo alla riga

di Ludovica Radi/ (Università Palacky Olomouc)

Riassunto Nell'ambito della narrazione teatrabile neosurrealista di cui è espressione la saga del Teatro del Manichino, punto fondamentale risulta la soluzione drammaturgica e scenica del Manichino stesso, protagonista maschile, muto, inespressivo e immobile, e tuttavia impegnato in viaggi artistici per il mondo, desiderato e coinvolto da una brillante ballerina che con lui riesce a interloquire. In un graduale processo evolutivo, di tour in tour, i media di ultima generazione sopperiscono alla sua timidezza, ma la dimensione musicale sembra trovarlo particolarmente favorito, per cui la donna decide di entrarci, interpretando a modo suo i pentagrammi. Si evidenziano allora gli elementi musicali rintracciabili nei racconti precedenti, dai titoli e dai richiami alle danze, alle rime, ai cori, ai ritornelli, dalle performance di strada, agli archivi musicali del passato, per poi concentrarsi sulla vicenda al Bolshoi che invece pone la musica come linguaggio sentimentale predominante. Concludendo, nella sperimentazione di sempre nuove forme di comunicazione, in cerca di un'affinità culturale e una maggiore complicità emotiva tra i personaggi, un posto privilegiato occupa la musica, in quanto interprete delle emozioni più sottili. La musica neo-surrealista scaturita a proposito della partitura del Mefistofele di Arrigo Boito è un processo simbolico di traduzione dalle note alle parole. Se le note esprimono il mondo in cui vive e opera questo uomo di ambito artistico, che impersona il sogno di Lei, le parole sono gli appunti con cui la donna, avvinta e quasi soggiogata dalle fitte alternanze di suoni e di note a margine, traduce le emozioni di lui a modo suo. La scrittura diviene allora musica solidificata in parole e tradotta al femminile. La pagina si trasforma in carta da musica, mentre note, scappate al pentagramma insieme alle alterazioni di diesis e bemolli, si affiancano spregiudicatamente alle parole, trattandole come fossero altre note. Parole-chiave: Musi ca neo-surrealista, Manichino, Bolshoi, Mefistofele Boito, scrittura femminile surrealista, note vs parole

Abstract In the series of the surrealistic theatrical tales of the «Mannequin Theatre», we read about a fascinating Dummy travelling with a dancer, a lively and colourful giri. How can he speak? As a dummy he is silent, expressionless and motionless; yet, she is able to talk with him and engages him in artistic tours around the world. In a graduai evolution, from town to town, the new media overcome his shyness. As he seems at home in the world of

music, she decides to enter this dimension too. W e can highlight musical elements traceable in previous stories (titles, references to typical dances, rhytmes, chorus and refrains, street performances, and musical archives of the past), and then focus on the tale, which is setting at the Bolshoi Theatre, and that puts forward a new musical dimension as a predominant emotional language. In short, among more and more forms of communications, tested throughts these tales, in the search of affinity between male and female characters, we discover music as the expression of the most subtle emotions. The neo-surrealist music arising from the score of Arrigo Boito's Mephistopheles is a symbolic process of translation from notes to words. Notes express the world in which M., who embodies L.'s dreams, works and lives; words are the notes with which the woman translates its signs in her own way: music becomes words ... In her writings, words are feminine translations of masculine notes. Some pages tum into music paper, while some notes and alterations of sharps and flats, escaped from the stave, are flanking words like a new kind of notes. Key-words: neo-Surrealist Music, Mannequin, Bolshoi, Boito's Mefistofele, surrealist women's writing, notes vs. words

Dove i suoni canonici della lingua faticano a configurarsi, dove i pensieri trascorrono tra uomo e donna lungo canali non ben definiti, semplicemente perché a viaggiare sono una ballerina in compagnia di un Manichino, la musica può intervenire con quei falsi agrammatismi che sanno arrivare al profondo dell'animo. Ne nasce così una musica neosurrealista', progetto che si è concretizzato in una delle tappe narrative del «Teatro del Manichino» (Radif 2012a-b, 2013).

Non è dato conoscere il mestiere preciso di lui, al di là del fatto che si sviluppi in ambito artistico, ma a giudicare dal racconto «Al Bolshoi col Manichino» (Radif 2016)1 l'ultimo uscito della saga, in cui tre repliche del Mefistofele di Boito sono l'occasione dell'incontro dei protagonisti, emerge una sua speciale familiarità con le note e poi la scena, al punto che sembra assumere i panni di un direttore d'orchestra oltre che di un regista. Perciò la protagonista intuisce che la modalità comunicativa da prediligere con lui potrebbe essere proprio quella che corre sul pentagramma. Come si può notare fin dalla copertina, nel segno di una biscroma color porpora, in cui dal palchetto in primo piano Lei assiste allo spettacolo mentre lui presso l'orchestra è rivolto alla loggia

'L'intuizione di una lettura neosurrealista della musica come linguaggio alternativo nella comunicazione con il Manichino è stata da me esposta brevemente nel corso del 1 Seminario lntemacional Musica y palabras: cantar poemas Contar canciones, Siviglia 2-4 giugno

2016.

dei Serafini, il punto di partenza è l'osservazione, che possiamo anche interpretare come ammirazione, dal momento che M. rappresenta un ideale, e il sogno da conquistare. Con muto entusiasmo Lei segue lui che, pur non parlando, agisce e comunica a criptici segni, che rischiano di rimanere illeggibili oltre l'orizzonte in cui si muove. Ma il fascino dell'alterità e la curiosità di conoscenza sono due molle che la animano a uscire e rientrare dal palchetto e trovare altre occasioni per incontrarlo, per così dire, oltre il suo mestiere e farsene interprete, in una musica femminile che parte da lontano.

Si può dire una costante dei racconti del Manichino la dimensione della danza, forse il primo tentativo di oltrepassare la dimensione verbale, mentre si vanno affinando le possibilità interpretative della donna:

Ma il Manichino stesso muta, perché abbandona il linguaggio soltanto gestuale per assumere battute vere e proprie; l'espediente drammaturgico a nostro giudizio riuscito (anche se da un punto di vista prettamente scenico ci sarebbe da discutere su come attuarlo effettivamente nella rappresentazione) è il riferire la battuta come se fosse condensata in un gesto o in un movimento compiuto dal Manichino; per esempio a p. 14: M - Ti va bene che io non faccio programmi, almeno non di questo genere ... sorrise. L - Vedi, a questo ciondolo antropomorfico puoi cambiare d'abito, volendo. M - Volendo, replicò col sopracciglio ... Piuttosto, potreste cambiarvelo fra di voi, suggerì malizioso con un rapido gesto. (Trovato 2013)

Ogni racconto si presenta ritmato secondo un'ispirazione coreutica specifica che lo indirizza e lo permea di sé più ancora in senso simbolico che realistico. Se il primo s'intitola Tango col Manichino, il tango si rivela la chiave interpretativa con cui leggere i movimenti dei due protagonisti, misteriosamente collegati, pur nelle traversie che li separano, da una complicità di coppia. Il tango viene tratteggiato a p. 29 (con riferimento allo schema di p. 28), come accenno estemporaneo a un futuro a due, mentre la caffettiera sul fornello assume il ruolo di vedetta nel susseguirsi di nuovi orizzonti.

La veste rosa d'Aurora ormai era svanita [ ... ] e mentre la torretta sul fuoco prometteva caldo l'aroma, [ ... ] i due tentarono un tango: due tre passi non di più, e non di meno di uno schizzo di futuro.

L'elemento corale, invece, corrisponde al piatto brusio di sottofondo udibile nella routine quotidiana. Il ritmo si recupera nelle forme poetiche in cui la dosata lunghezza delle righe fa pensare a una volontà di recitabilità cantata. Ne è un esempio il girotondo: ((Ofidismo elettrizzante[ ... ], /nomadi in volo /per casa Batllò» [p. 15].

In questi casi, alcune rime o la ripetizione di suoni come la ((j» restituiscono i passi dei personaggi alla sfera della danza.

Sullo sfondo della vicenda del Tango, che si racconta nei ritmi di vari syrtòs, mentre la scelta del tango sottolinea il ballo di coppia rispetto alle danze tradizionali elleniche di gruppo, accenni musicali vorrebbero collegare la storia ad altre precedenti ipotetiche puntate, in un ideale passaggio senza preclusioni e senza ordine; allo scoccare delle note, i due vivono e danno agili piedi al ballo evocativo di altri tempi e luoghi. Li vediamo danzare in copertina, dove il tango è incorniciato da un portale in stile Gaudì entro la sagoma di un mulino ad antiche pale, galleggianti sul mare in burrasca di Rodi.

E se il «viaggiatore esperto» per recarsi in Russia dalla cicladica Oia passa per l'Aia (pag. 20) un motivo c'è. In effetti il mulino a vento tratteggiato sulla copertina del primo racconto della serie, il Tango, qui prende la forma di un imponente spartito, che ruota in aria come pale le sue pagine melodiche. (Trovato 2016); Dai Carpazi via Karpathos era giunto ad Atene, poi dai laghi via Malaga si intratteneva con lei sulla spiaggia di Barcellona, ora lo ritroviamo a Praga appoggiato con una mano ai sostegni di un tram, il 17, quello che li lascia sul Rasinovo Nàbrezi. Indipendentemente dalla lingua sa sempre come interpretare la realtà agli occhi della protagonista. (Trovato 2013)

Nel secondo racconto, che trova la sua scena nella Barcellona gaudiniana, l'impronta del ballo è suggerita nelle primissime pagine da uno schizzo dedicato al flamenco. È il flamenco romantico capovolto, in quanto seguito con occhi di pipistrello. La prospettiva dunque è rovesciata a indicare la novità del punto di osservazione. Anche la musica risente di questo rovesciamento prospettico, nel momento in cui sono le case ad apprestarsi a cantare: ((All'asta di Carrer Bermellon, via mal imbiancata, tra case rosse crestate, come galli in attesa di cantare» [p. 2]

La voce si fa suono misterioso quando la protagonista, rincontrando il Manichino all'asta modernista, gli urla sottovoce il suo nomignolo [p. 2]; la musica si declina nelle sue pause all'ingresso in casa Batllò: (<il silenzio li avvolse, il silenzio dell'ammirazione [p. 10]».

La geografia, per delinearsi, prende a prestito vocaboli della sfera musicale:

«le Colonne d'Ercole separano le danze focloristiche del sud Europa dai tamburelli sciamanici dei fuochi d'oro africani. [p. 45], mentre anche la compravendita al mercato lambisce il loro orecchio come una litania da massaia p. 18; gli accordi ci arrivano dal passato con Aristosseno [p. 19], in quell'armonia arcana perseguita dai primi teorici del genere, in vista di un incanto che trova piacevole rispondenza nel discanto di una melodia percorsa qualche rigo al di sopra; e ciò che sfugge al pentagramma sembra ricomparire nella notazione gregoriana dei neumi. Le note inverano il passato nel tetragramma come anche nei cenni al calzolaio di Norimberga, il celebre Meistersinger, artigiano interprete di libertà. Se si assiste a un'interruzione, una sospensione musicale delle armonie, quando le parole sono insolite e dunque si rischia il fraintendimento, un organetto di Barberia è sufficiente per inquadrare un'intera atmosfera, dentro e fuori dalla protagonista, come veicolo verso ataviche note, che sembrano prendere per mano la protagonista e quasi invitarla ad accogliere il passato, pur ancorandola al momento in cui la novità dell'incontro sta affacciandosi nella sua esistenza: «ma dalla finestrella un organetto suonava qualcosa di malinconico e dolce» [p. 23] ... e le parole diventano onde sonore: «par-ole sì non erano parole soltanto, erano delle onde fluttuanti e, per di più, continuavano a oscillarle dentro a dispetto di spazio e tempo» [p. 47]

Si ha insomma la netta sensazione che la musica intervenga all'occorrenza tra i linguaggi in dotazione nei racconti, proprio per supplire alla prevedibile inadeguatezza di altre forme linguistiche del Manichino. Ed è sempre un suono altamente evocativo, veicolo di una storia proveniente dal passato; i gesti si trasformano in musica e le parole si ascoltano nel loro potere allusivo; la musica si cela e si rivela nelle forme un po' mascherate del mito perché si intende come voce supplementare che arriva alle orecchie con una forza ulteriore, in aggiunta alle parole.

Nel terzo racconto è la casa stessa, la preferita, la privilegiata location del viaggio, a danzare: la Casa Danzante appunto. Dunque tutta la vicenda può considerarsi un ballo, con la ballerina che [p. g] rischiava di «prendere sul serio il sogno» o «di ricamare la realtà».

Sul Ponte Carlo assistiamo a un'esibizione pregevole di archi in un dialogo tra santi barocchi (le statue) e giovani menestrelli impegnati in acrobazie di violini con tanto di riproduzione onomatopeica: •fifì firulì fla fla riecheggiano le onde agli altri ponti in sordina» [p. 13], dove le onde della Moldava possono innescare un passaparola con gli altri pon-

ti: e infatti sopra un altro ponte altamente suggestivo nelle serate estive i pensieri rimangono cullati [p. 32) da note di arpeggi medievali. Dall'orchestrazione di voci non si esclude neppure quel dlin dlin degli apostoli dell'orologio astronomico sulla piazza vecchia. A un certo punto, uscendo dal secondo piano, i due rimangono avvolti nelle note su clavicordo della sarabanda di Haendel p. 29, una sarabanda che, tuttavia, sbanda oltre il ritmo, al di là dei consueti tempi e spazi. Mentre il riferimento al rock di una cubista è pretesto per operare un rinvio alle case cubiste, una canzoncina impostata sui numeri diviene occasione per una riflessione romantica sui sentimenti che li legano a distanza. Particolare attenzione si mostra nei riguardi delle musiche di strada: assistiamo a un recupero della scena del Carro di Tespi, in versione attualizzata: «Pé pé pé sentivano .... , [Danzante p. 41); un salto dunque verso la primissima formazione della tragedia arcaica, come l'inverarsi di un'antica promessa davanti a Lei: si rende conto che si tratta di qualcosa di molto kitsch, ne è consapevole, ma al tempo stesso non può resistere a quel richiamo quasi viscerale o subliminale che le si rivolge in termini musicali. Osservando l'immagine di p. 421 ci rendiamo conto della presenza meta-narrativa del capro, con quella sua maschera luminescente sotto i riverberi del sole, e indoviniamo l'incantarsi della protagonista come al cospetto di un nume rivelatore. Altri sono frammenti di suoni e richiami in codice alla musica (si pensi al dettaglio a p. 49: la protagonista possiede una tessera del corso di tango, e questo non è casuale dato il titolo del primo racconto ... ; a p. 54 è una campana a segnare la fine del tempo a disposizione nella sala dell'Archivio, ma è anche un momento speciale per Lei in compagnia del gentile consulente che si è preso a cuore il suo caso; p. fo è un ballo notturno di sapore greco a ispirarle un abbigliamento tipico da danzatrice con tutù e guanti in pizzo neri).

La sensazione complessiva nella Casa Danzante è che siano i passi di chi vi entra a determinarne la tonalità. La battuta finale «o si vive o non si scrive» [p. fo] che antipirandellianamente fonde le due dimensioni, si riflette anche su un pentagramma; se è vero che soltanto l'incontro vissuto con lui poteva darle l'ispirazione a comporre; anche la scritturaeco dei sentimenti può divenire a sua volta occasione di vita in un continuo reciproco inverarsi di motivi.

È nel racconto al Bolshoi che la musica assume un rilievo nuovo, assurgendo a linguaggio complementare rispetto a quello verbale, già corredato di sussidio visivo nei bozzetti. La scelta stessa del Bolshoi, il grande teatro per eccellenza, tempio del balletto, rispetto alle dimore artistiche dei precedenti racconti, tradisce una predilezione nei con-

fronti del movimento, del cambiamento, del fluire di danza e note. In questa tappa artistica nelle lande russe la protagonista si accorge che la musica è la lingua in cui il personaggio maschile, solitamente restio e timido, si muove con maggior agio, riesce a essere più pienamente se stesso, con le sue qualità e potenzialità; lui ha a che fare con quel mondo, Lei ne rimane affascinata e vorrebbe entrarci per meglio comprenderlo, per poter raggiungere una più vera confidenza.

Anzitutto si pone sullo sfondo come sottotrama, che continuamente contrappunta le situazioni narrative, il Mefistofele di Boito, uno <<psicobusiness», com'è lì definito, particolamente adatto a Lei in quanto la circonda di un'aura celestiale. I contenuti si rivelano da subito profondi, anche se trattati con la consueta leggerezza, spesso anche con battute di spirito. Sono i Cherubini, voci bianche a cui è affidata l'esaltazione della luce e della gioia paradisiache, a ritornare nei cori del racconto nelle vesti ingenue di strofette ritmate, ninna nanna che inconsciamente accompagni i protagonisti.

Le note scorrono a più livelli. Nell'articolato programma di avvicinamento all'oggetto-soggetto del desiderio della protagonista, il Manichino, si individua qui un altro oggetto del desiderio che fa da perno al plot: mentre il fondo dell'animo di Lei vive delle tonalità in sottofondo cantate dagli angeli, la protagonista individua nell'enorme libro di note e parole dell'opera una sorta di ricettario alchemico, qualcosa che si lascia osservare nella sua magia, che può offrirle la giusta formula per sintonizzarsi con lui. In dosati gradi di intensità, Lei, passeggiando per strada in fugaci appuntamenti, si sente afferrata da una stretta, da un suo cenno che la indirizza a un ritmo a due. Nel dialogo si offre interprete delle emozioni di lui, riecheggiandole in sé mentre si partecipano a vicenda nei toni personali; l'entusiasmo della dimensione scenica, il vederlo all'opera, tradisce un'emozione forte, un brivido, quasi uno svenimento che attende da lui una risposta. Nel camerino, luogo delle note a riposo, della sospensione, delle pause del rinvio all'oltre, momento del frammento di frasi abbozzate in fretta nell'attimo del contingente tra il corridoio grigio e l'uscita, lì si può cogliere tutto o tutto perdere. Ecco la summa degli spartiti: Lei si accorge di un potenziale sconosciuto, un mondo inesplorato che l'attendeva da secoli, un infittirsi di emozioni, toni, colori, che aspettavano la sua voce. Ed è la partitura il vero segreto, la ricetta con cui si compie la formula del cocktail comunicativo. Lei si accorge che quel volume ha molto da dirle, ma non nel consueto senso di lettura; proprio nel momento in cui non parlano né M. né le note, il libro parla a Lei. È ricorrente il tema del fuori tempo (come l'interruzione della metropolitana sulla linea ateniese che

occasiona il primo incontro): terminato lo spettacolo, fermatesi le note, deposto l'abito scenico, di fronte alle pagine ella interviene con audacia: segna addirittura i suoi numeri di telefono, che annota con questa precisazione non da poco: il primo cellulare se hai da dirmi qualcosa, un altro se hai da dire qualcosa a te stesso (p. 48): non soltanto avvia graficamente, con i propri numeri di telefono, una sorta di lunga controfirma della trama, riscrittura della vicenda lirica o della storia di M. in tono leggermente anarchico, ma ipotizza di avere risposte anche per lui. La comunicazione si sta spostando su un piano differente dal previsto.

Da quel momento il camerino dove il libro riposa in attesa della nuova replica diviene luogo privilegiato, lo sfondo su cui compiere la sua rivoluzione della Musica Neosurrealista.

Musica Neosurrealista: Affascinata dalla sequenza di note, stringe un'empatia con tutti quesi segni interpretandoli a modo suo, e sentendoli incarcerati dietro le sbarre del pentagramma, decide anarchicamente di scardinarli dalla loro struttura di appartenenza (parla alle note e le invita a scendere dal rigo (p. 25).

E mentre si dispiegano davanti a Lei i pentagrammi fitti di note si percepisce come la sua lettura non sia da intenditrice, e neanche da spettatrice, non sia del tutto profana, bensì volta a tutt'altra decodifica. Anzitutto, è interessata più che alle note alle note a margine: vede segni a pastello colorati e li associa a sue rappresentazioni artistiche, giungendo a interpretazioni del tutto personali [p. 25]

La libertà, centro di ispirazione del pensiero ancora surrealista di primo Novecento, torna qui come spunto per un nuovo linguaggio di confine. Si rende conto che nel dialogo col Manichino, muto, ma estremamente sensibile e comunicativo, la musica può arrivare a far capire molto di più dei gesti e delle parole. Vorrebbe quindi tradurre da un codice all'altro ma deve cercare un segno che le permetta questo travaso semantico; lo cerca tra le note a mano, non a caso l'elemento colorato sulle note nere, che aggiunge personalità e unicità a uno spartito. Sono segni di parentesi lasciate aperte, rosse o blu, e varie altre notazioni come frecce oppure figure geometriche accennate. A suo modo, travalicando completamente la competenza disciplinare, la protagonista inizia a far viaggiare l'immaginazione, appellandosi proprio alle ali, sfondo della vicenda. I segni tracciati da lui dunque iniziano a parlare di Lei. Ecco la magia di un linguaggio doppio che duttilmente miscela due voci in una sinfonia. A quel punto ciò che avviene fuori non può che rivelarsi una sottolineatura dei moti dell'animo avvertiti di fronte ai pentagrammi in corsa. Il sentimento è musica, l'animo par-

titura, e tutto ciò che i due vivono, quasi in un intervallo tra una recita e l'altra, è riscrittura dell'opera, un affare di anime appunto. Parlando con M. in cene e spuntini che appaiono soprattutto pretesti per apparecchiare discorsi (ho parlato di questo smaterializzarsi del cibo in evasione e cultura [gli ali-menti, appunto] nel convegno Mujeres desde la tramoya, Università di Siviglia, 28-30 aprile 2016) Lei avverte la possibile sintonia e vorrebbe trovare quel segno che le permette di viverla e condividerla. Una smania la divora nel raggiungere puntualmente il camerino di lui dopo lo spettacolo nell'intento di reperire un segno fondamentale, una sorta di chiave di volta per oltrepassare il confine assegnato alle note rispetto alle parole e traghettarle le une nelle altre e viceversa.

In un crescendo, che contempla il ricorso a varie tecnologie di ultima generazione della comunicazione, specie gli sms dall'estero in cui si parla di segni a margine (p. 74), il segno magicamente compare: una sorta di appendiabiti bicolore (unico termine in tutto il racconto a essere scritto in bicromia, nel rosso e nel blu di Persia), che, per la sua configurazione, permette alle note di sci-volare lungo in suoi lati obliqui come piani inclinati e riversare i toni nell'altra dimensione, quella delle parole.

Non a caso il colore rosso era quello con cui l'aveva identificata e primoridalmente descritta l'uomo al momento del primo incontro ad Atene, mentre il blu è connesso con gli occhi color mare di lui. Non può che tingersi bicolore il simbolo della conversione linguistica. È agganciato in SOL, una nota che è stata segnalata a inizio racconto come la chiave per comprendere il Manichino, il quale ha infatti una passione sfrenata per il sole della Grecia.

Avvicinandosi al Sole, sciolgono i loro vincoli al pentagramma e scivolando lungo l'appendiabiti, ne fanno un trampolino per una nuova esistenza.

La gruccia tracciata a pastello bicolore al di sopra dei righi e sulle note, assurge a modello, poi diventando simbolo di una rivoluzione alfabetico-semiotica, con cui si leva da sotto le note il pentagramma e con questo naturalmente si sovverte ogni valore espressivo e di fatto si impedisce a chiunque altro si affacciasse a leggere, di comprenderla. Ecco perché il triangolo, fin da età remote simbolo di perfezione, anche matematica e trinitaria, diviene uno scivolo metamusicale, in cui le note, liquefacendosi al SOL-sole di una nuova ispirazione, acquisiscono nuovi significati. È un salto di segno per cui, mutando lo sfondo, ne muta anche il significato. Approdando sulla pagina del diario di Lei, assumono una veste verbale e si costituiscono veramente come primizia

delle traduzioni del pensiero di lui in forma di Lei. Ed è in effetti lungo questa gruccia che si compie la trasmigrazione dei segni dal rigo alla riga lasciando intendere che da quella sua particolare lettura delle note dipende la scrittura dell'intero racconto. Superamento di confine disciplinare, di genere, le note, grazie alle note a mano e alla sensibilità della protagonista, si colorano mentre le parole si travestono di musica.

Le note, solitamente studiate e meditate da M., vengono a cadere nella sfera del diario di Lei; in questo caso diventano gli appunti che Lei è riuscita a prendere in quei preziosissimi momenti. «lo interpreta a suo modo, lo ascolta al di fuori del teatro e lo rivive in scrittura» (Trovato 2016).

La trasmigrazione dal rigo alla riga curiosamente, come nel falso femminile di rigo e riga, compie anche la traduzione dal maschile al femminile. Gli appunti dovrebbero essere i noccioli della conversazione stessa che il libro riporta, dunque l'ermeneutica di tutta la storia. I toni maschili, scendendo sulle note a margine diventerebbero femminili nelle parole corrispondenti che tesseranno la vicenda. Non a caso le figure angeliche, notoriamente al di sopra delle distinzioni di genere, sembrano vigilare su questo superamento in reciproca comunicazione.

Si comprende allora qualcosa di più della veste editotriale del racconto: i cori dei cherubini si tingono di azzurro contro le grigie nubi (così infatti sono evidenziati a livello grafico nel libro), le pagine del libro abbandonano i riferimenti editoriali classici oscillando da un campo all'altro.

Complice un'indicazione dell'Uomo, che di quando in quando, per esempio durante gli intervalli, fa la sua significativa comparsa con frasi concise ed estremamente incisive (cripticamente valide anche invertendo i termini della locuzione) in questo caso «O si piega o non si spiega» «O si spiega o non si piega» (69) i disegni si piegano come origami edificandosi all'occorrenza nelle forme tridimensionali di architetture fiabesche. Il richiamo dell'origami alla fragilità della carta e al rituale scintoista del ciclo vitale che si rinnova, può dirsi richiamato nell'Esodo del racconto con la visualizzazione delle bolle di sapone che sintetizzano in modo effimero la magia della bellezza poetica.

In corrispondenza dell'ingresso nel camerino di lui il lettore viene immediatamente avvisato che sta accadendo qualcosa, perché le pagine non hanno più il fondo bianco, ma si presentano pentagrammate come carta da musica; e non per nulla nell'interloquire dei due si associano i segni musicali di note e alterazioni alle emoticons, alle parole stesse, a indicare un momento di intreccio delle due dimensioni comunicative. Indifferente alle norme (un altro tratto ereditato dal surrealismo) diesis

e bemolle si infiltrano per alterare in sfumature parole come <<ciao» e graduarne le intensità, mentre le note occhieggiano tra le parole, tentando di addolcirne i suoni o indirizzarne il ritmo. Parole fluidificate in suoni, musica condensata in parole, pagine mobili che volano come all'ispirazione del momento.

Il riflesso della metempsicosi non tarda a manifestarsi nella vita dei personaggi nella scena presso la porta di Kiev (il progetto di Hartmann mai portato a compimento, musicato da Musorskij, dunque, un luogo inesistente e inabitato), dove, in una libreria senza tempo, si avverte il potere della musica di traghettare nel tempo passato e futuro la storia, addirittura aggiungere qualche pagina al racconto precedente, confidandosi l'un l'altra in profondità sogni e modi personali, recuperandosi a vicenda in un passato che si promette ipotetica prospettiva, nella scena clou che esprime in forma romantica l'intesa musicale della storia: un bacio volante in dolcissimo acuto, che rapisce i due oltre il contingente e può essere eternato dalla Medusa, lì a fianco, sulla terrazza della Casa Danzante: «Il seguito fu come un bacio appassionato in volo sulla terrazza, dove l'anima del corpo incontrava il corpo dell'anima, in un intreccio di fibre a cui la pietrificante Medusa, lì accanto, poteva comandare di eternarsi» [p. 80].

Riferimenti Bibliografici

Radif, Ludovica. Tango col Manichino. Genova: Compagnia dei Librai,

2012.

Radif, Ludovica. Pipistrelli a Batllo. A Barcellona col Manichino. Genova: Compagnia dei Librai, 2012. Radif, Ludovica. Alla Casa Danzante col Manichino. Genova: Compagnia dei Librai, 2013. Radif, Ludovica. Al Bolshoi col Manichino. Milano: Ledizioni, 2016. Trovato, Roberto. Il libro di Ludovica Radi/, che indossa un anello,

«Scénario online», 2013. Trovato, Roberto. L 'appendino che fa parlare in musica (ree. Radif 2016) «Scénario online», 20 16.

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