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V. Trione Artivismo disegnato. Graphic novel e impegno

V. Trione Artivismo disegnato. Graphic novel e impegno 5

R. De Fusco M.D. Morelli Logomachia 19

Advertisement

F. Talevi Historic Waste Landscapes. Una chiave di lettura per la città storica contemporanea 27 M. Zambelli La memoria nel progetto, ovvero del Case-Based Reasoning nell’architettura e nel design 39 A. Donelli Il disegno di Atena 55 F. Deo Quanti oggetti è un oggetto? 63 L. Pujia Spazio pubblico come patrimonio: la lezione educatrice del playground Stephen Wise a New York 71 Libri, riviste e mostre 83

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Michela Bassanelli, Matteo Iannello, Federico Turelli.

Artivismo disegnato. Graphic novel e impegno

VINCENZO TRIONE

Genealogia di un linguaggio

I precursori italiani. 1967: Hugo Pratt pubblica Una ballata del mare salato, atto di nascita di Corto Maltese, autentico manifesto di un “fumettaro”. 1969: Dino Buzzati dà alle stampe il Poema a fumetti in cui Orfeo ed Euridice precipitano nell’inferno della società dello spettacolo. Mi sono illuso disegnando, spiegava Buzzati, di poter dire cose che con le parole non sarei riuscito a dire abbastanza chiaramente [in C. Stajano, Si è di-

pinto il suo romanzo, in «Tempo», 4 ottobre 1969]. E ancora: È riconosciuto da tutti che, nel tempo della cultura, si va verso una civiltà sempre più visiva. Si leggerà sempre meno, si guarderà

sempre di più [D. Buzzati, Il giornale segreto, Corriere della Sera, Milano 2014, p. 68].

Poi, il padre riconosciuto: Will Eisner. E i maestri di oggi: Crumb, Art Spiegelman, Jiro Taniguchi, Gipi, Joe Sacco, Marjane Satrapi. Infine, significative personalità italiane – come, tra gli altri, Igort e Lorenzo Mattotti, Sergio Toppi e Davide Toffolo – che hanno composto tavole simili agli storyboard di tanti cortometraggi. Sono, queste, alcune tra le voci più rappresentative del graphic novel, tra le trincee più avanzate dell’arte contemporanea, che è stata celebrata negli ultimi anni in esposizioni ospitate in prestigiosi musei europei (ad esempio, al Centre Pompidou di Parigi si è tenuta l’antologica dedicata ad Art Spiegelmann; al Musée de la Ville parigino quella su Crumb). 5

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Si tratta di un’esperienza le cui radici affondano in un tempo lontano, come ha ricordato John Baldessari in una lecture del dicembre 2011 (tenuta al Metropolitan Museum di New York), nella quale ha descritto la Cappella degli Scrovegni di Padova come un fumetto ante litteram, dove “idee alte” sono affidate a un’iconografia comprensibile anche dalle classi popolari. Si susseguono affreschi, che sembrano avere un andamento pre-cinematografico. Figure e immagini convergono in una narrazione visiva, fondata su una solida struttura simbolico-religiosa. Scene che, talvolta, lasciano appena intuire gesti e situazioni, un po’ come accade nella pratica filmica. Le pareti e il soffitto narrano la vita di Cristo e il Giudizio Universale. Lo spettatore si sente avvolto da scenari infernali e paradisiaci. Regista involontario, Giotto elabora una drammaturgia densa di dettagli veristici. I personaggi hanno espressioni misurate: sembrano quasi attori di film muti. Credo, ha osservato John Berger, che niente di quanto è arrivato a noi dai secoli passati sia più simile a un cinema di questa cappella ideata e edificata settecento anni fa [J. Ber-

ger, Presentarsi all’appuntamento (1991), a cura di M. Nadotti, Scheiwiller, Milano 2010, p. 18].

Provate a fare un gioco, ora. Aggiungete ai “fotogrammi” giotteschi alcune vignette. E assisterete a uno strano esito. Da un’analoga commistione nasce il graphic novel. Che suggerisce una difficile sintesi. Siamo dinanzi a un linguaggio libero, affrancato dai rituali della letteratura, dai vincoli produttivi del cinema, dagli algoritmi delle serie televisive, dal divismo dell’industria discografica, dalla dittatura di galleristi, collezionisti e dealer che sta lasciando l’arte contemporanea senza un vero pubblico cui riferirsi. Risposta alla povertà di tanti esercizi visivi, cinematografici e letterari attuali, capace di portarsi al di là dell’autoreferenzialità e del concettualismo propri di tante opere d’arte del nostro tempo, il graphic novel riesce a sottrarsi alla mania degli effetti speciali tipica dei superkolossal e all’intimismo psicologico imperante in tanti film; infine, non si adegua mai all’idea della scrittura romanzesca come intrattenimento.

Una pratica ibrida. Che negozia per mettere in forma – e che, per mettere in forma, negozia. Mediazione tra spinte, intenzioni e influenze diverse, elabora inattesi compromessi, provocando

disinvolte riarticolazioni di matrici culturali assunte. Talvolta, assorbe e frulla tracce pittoriche: dal futurismo all’espressionismo, alla pop art; o si richiama implicitamente a matrici lontane, come il Liber figurarum di Gioacchino Da Fiore, la più straordinaria raccolta di teologia figurale e simbolica del Medioevo. Altre volte, si appropria di modalità proprie del reportage o della ricerca storica. Gioca con fonti e gerarchie, adatta a sé situazioni – epopee, favole, reportage – spingendosi verso una sorta di “coespressività”. Tra i campi espressivi contemporanei più vitali, assembla soluzioni, per imboccare strade inesplorate nell’arte del rappresentare e del narrare [cfr. V. Trione, Sequencial Art, in IGORT, Pagine nomadi, Coconino Press/Fandango, Bologna 2012, pp. 85-89]. Non c’è genere letterario e cinematografico classico di cui il graphic novel non abbia cercato di riprendere la tradizione adattandola al suo specifico, ha osservato Goffredo Fofi [G. Fo-

fi, L’unica forma d’arte figlia del nostro tempo, in V. Spinazzola (a cura di), Tirature ’12: l’età adulta del fumetto, Il Saggiatore, Milano 2012, pp. 10-11].

Siamo di fronte a un medium sincretico, che muove da suggestioni plurali, ri-locandole in un orizzonte di senso inedito. Un medium che riesce a reinventare tanti codici espressivi. Flessibile e libero nel modellare spazi sconosciuti, si basa sulla confluenza tra sapienza letteraria e tensione pittorica. Si pongono sul medesimo piano soggetto, sceneggiatura e uso di linee e cromie. Uomini, stati d’animo, speranze, inquietudini e visioni del mondo acquistano corpo e colore, flusso e movimento, scansione e contrasto, luce e ombra, ritmo e pausa, velocità e apertura solo se si incontrano testo e immagine. La grafica si allea alla fabula: maestria formale e sensibilità per i contenuti.

Pensato per un pubblico adulto ed esigente, il graphic novel si distingue dal fumetto perché non è seriale, non ha limiti di lunghezza né vincoli di forma, ma esibisce una complessità narrativa e una profondità psicologica sconosciute ai comics. Si offre come felice incontro tra letteratura e arte. Con il libro, condivide il ricorso a un tempo di fruizione libero, variabile, reversibile; e la predilezione per lo storytelling, inteso come dispositivo per contribuire a quella battaglia per l’attenzione diventata cruciale, nell’epoca delle infinite, […] sollecitazioni [M. Ferra- 7

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ris, Storytelling Spa, «La Repubblica», 12 luglio 2015]. Con la pittura, ha molte consonanze: l’astrazione, l’essenzialità delle linee, l’uso espressivo del colore e del bianco e nero, per schiudere spazi vergini all’immaginazione. Il disegno non descrive né illustra, ma catalizza le emozioni e smuove i meccanismi dell’inconscio.

Questa combinatoria richiede fatica. Impossibile affidarsi, come spesso accade in tante installazioni d’avanguardia, all’improvvisazione, alla trovata, alla provocazione effimera. Il graphic novel pretende cura nell’esecuzione e nella definizione dei dettagli. Le tavole vanno elaborate una per volta: ognuna richiede ore o giorni di lavoro. Inoltre, occorre misurare il rapporto tra parole, figure e inquadrature, senza mai dimenticare la continuità del plot. È un’operazione molto vicina a quella di cui amava servirsi Hitchcock, il quale componeva i suoi storyboard disegnando i singoli capitoli dei film momento per momento. Il fumettista si comporta nello stesso modo: dosa e decide ogni volta i vari elementi – visivi ed espressivi – delle proprie storie. Come nel cinema, ogni inquadratura deve essere necessaria, “morale” (per dirla con i teorici della Nouvelle Vague), risultato di un’ispirazione e di una convinzione. E deve riuscire a pronunciare immediatamente il significato di una determinata scena.

Lungi dall’essere un limite, questa laboriosità si dà come recinto all’interno del quale è possibile esercitare una straordinaria libertà. Il creatore di graphic novel assegna a se stesso una griglia, dentro cui effettua audaci scorribande. Deve inevitabilmente tener conto della struttura letteraria, dei dialoghi e delle inquadrature, ma può far giocare queste componenti senza attenersi a regole rigide. Agendo non come un direttore d’orchestra, ma come il regista di un film muto, che oscilla tra echi neorealistici e tentazioni visionarie.

Talvolta, il creatore di graphic novel sceglie di inventare trame dominate da libertà fantastica. Più spesso preferisce risalire a precise memorie storiche, culturali, letterarie e storico-artistiche, riattivandole e rilanciandole.

In alcuni momenti, il discorso si fa più articolato. E si carica di urgenze ulteriori, ispirandosi ai modi propri del giornalismo d’inchiesta. Nella consapevolezza che, come scriveva Benedetto Croce, mentre il giornalista propone una filosofia improvvisata e

una storia improvvisata, l’artista deve indugiare nel sogno, lo scienziato nella mediazione, lo storico nell’indagine docu-

mentaria [B. Croce, Il giornalismo e la storia della letteratura, in «La Critica», VI, 1908, pp. 235-237].

Segni politici

In molti casi recenti, il graphic novel rifiuta ogni “abbandono”. Cessa di essere linguaggio disimpegnato. Per scoprire uno spessore politico, etico, militante. Diviene testimonianza civile, come dimostrano le “prove” di Art Spiegelmann, di Joe Sacco e di Igort. Si fa simile alle “scritture corsare” pasoliniane, segnate da colori lividi e luttuosi, da un disarmato oblio della speranza. Tiene insieme ricognizione storiografica e passione reportagistica. Senza mai dismettere i suoi abiti casual, sceglie di confrontarsi con argomenti dolorosi. Quasi sulle orme della lezione giottesca, trasmette tematiche profonde, spesso drammatiche, ricorrendo a soluzioni immediate.

Siamo di fronte a un capitolo decisivo dell’“artivismo”, tra i fenomeni più rilevanti dell’arte del XXI secolo; punto di convergenza tra maniere e stili, tra ricerche e fermenti; cartografia abitata da figure che, servendosi di linguaggi e di media differenti, si misurano con alcune emergenze del nostro tempo (“Esiste un altro mondo, ma è in questo”, amava ripetere Paul Éluard): il dramma dei migranti, l’apocalisse ecologica, l’emarginazione delle periferie urbane.

Intrecciando arte e impegno, queste personalità pensano il proprio mestiere come un momento altamente politico, per entrare nella polis. L’arte va alla conquista di ciò che è esterno ad essa. Dialoga con quel che la circoscrive e la attraversa. Si fa, come aveva scritto Pasolini a proposito del cinema, “lingua scritta della realtà”. Fino a spingersi sulla soglia tra testimonianza e azione.

In alcuni casi, gli artivisti si limitano a registrare ferite e lacerazioni, sottraendo alla cronaca alcune visioni. In altri casi, entrano nel corpo del tempo presente, immaginando ipotesi di riscatto urbanistico e antropologico: si prendono cura di parti del mondo, fino a dissolvervi le proprie opere. In altri casi ancora, per sottrarsi ai rischi dell’anestetizzazione e a quelli dell’estetizzazione del 9

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dolore e del male, vogliono marcare una netta distanza dal giornalismo e dal documentarismo, inclini a coniugare verità e arbitrio, realismo e simbolismo, adesione ed evocazione [cfr. V. Trio-

ne, Artivismo, Einaudi, Torino 2022].

All’idea dell’arte come controvita (per dirla con Philip Roth) si richiamano tanti autori di graphic novel politici. Si pensi a Maus, vetta dell’opera di Art Spiegelman. Epocale romanzo disegnato (vincitore del Premio Pulitzer nel 1991), che ricostruisce la vicenda (autobiografica) di una famiglia ebraica internata in un lager. Servendosi di alcuni stratagemmi da sempre cari alla storia dell’arte e al fumetto (personaggi con volti di animali), Art Spiegelman compie metamorfosi spietate: gli ebrei sono trasformati in topi, i nazisti in gatti. Elabora un’epica che cattura, e sa far sorridere, commuovere, piangere. Fa “ascoltare” discorsi sul dolore, sull’umorismo, su beghe quotidiane. Ci conduce in un universo tragico e, insieme, magico, che incanta con un ritmo lento e incantatorio. Maus è una storia splendida. […] Quando due di questi topolini parlano d’amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell’Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi da un ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con la disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico ha scritto Umberto Eco

[l’affermazione di U. Eco è in Art Spiegelman, Maus (1986-1991), Einaudi, Torino 2000, p. non numerata].

Il graphic novel, qui, diventa requisitoria appassionata, segnata da timbri diversi: dietro una maschera giocosa e infantile, si nascondono tormenti, angosce. Per evocare l’Olocausto, Spiegelman sa farsi storico, scrittore e pittore. Si fa testimone della “banalità del male”: sceglie un episodio minimo e, tuttavia, esemplare. Attinge alla sua esperienza personale: muove da alcune memorie private. Infine, rinvia alle sperimentazioni dei protagonisti dell’espressionismo e della Nuova Oggettività.

In un orizzonte affine si situano i Quaderni ucraini e i Quaderni russi di Igort, che potrebbero essere letti come il requiem per il dolore di un popolo. Si succedono le tappe di un viaggio che conduce attraverso storie lontane, come le parti di un polit-

tico quattrocentesco. Atmosfere. Conflitti. Appunti. Poi, pause. Distruzioni. Trasposizioni di vicende vere. Annotazioni di eroi minori dimenticati. A volte, incrociamo folle. Più spesso, solitudini. Vuoti. Silenzi. Fino al limbo, che è come un’attesa prolungata. È “il luogo ove riposano le anime”. Tante le assonanze con il cinema epico di Wenders e di Herzog. Il fumetto: scrittura melanconica, dietro cui si intuiscono ragioni private, assonanze intime.

Nel continente politico del graphic novel potremmo collocare anche le tavole di Zerocalcare dedicate ad alcuni episodi storici drammatici (il G8 di Genova) e ad alcune aree del mondo ferite a morte (Gaza, Iraq, Kobane). Ne sono protagoniste minoranze ed eroi minori, ignorati dalla storia ufficiale. Nascono così coinvolgenti testimonianze di episodi vissuti e raccontati in prima persona con lo spirito del reporter. Pagine del diario civile di un viaggiatore del nostro tempo, incline a pensare i propri lavori come occasioni per riflettere su alcune emergenze della nostra epoca, adottando punti di vista critici e inediti.

Africa Comics

In questa mappa, momento centrale l’esperienza del graphic novel del Continente Nero. Si tratta di un importante capitolo di quel macrocosmo ancora poco esplorato che è rappresentato dall’arte africana contemporanea. Un paesaggio vivace e mobile, caratterizzato da spinte e da controspinte: da aperture verso il mondo occidentale e da ripiegamenti.

Da un lato, il bisogno di porsi in dialogo con le neo-avanguardie europee e statunitensi, sottraendosi ai modi propri del primitivismo e della négritude. Dall’altro lato, la necessità di non recidere i ponti con le radici, dando voce a una sensibilità etnicoantropologica. Bricoleurs che tendono a muovere sempre da qualcosa di esistente, gli artisti africani 2.0 si affidano a ricognizioni filtrate in chiave lirica o ironica. Talvolta, riarticolano suggestioni tratte dalla storia più recente dei loro paesi. Altre volte frugano in una vasta discarica di frammenti quotidiani o autobiografici, di cui si appropriano, per riconvertirli infine in episodi pittorici e scultorei. Sulla soglia tra espressionismo, realismo vi- 11

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sionario, attenzione civile, ultra-pop, neo-tribalismo e abbandoni segnici, pervengono a implicite forme di affabulazione. Si tratta di proposte figurative in cui questi artisti non vogliono informare su contesti né su problematiche: mirano, invece, a farsi inquieti testimoni delle condizioni umane e sociali di un’Africa combattuta tra fascinazioni per i frutti della civilizzazione e ancestrali legami con mitologie e ritualità arcaiche.

Su queste basi si modulano gli esercizi elaborati da artisti sorretti da una notevole disponibilità linguistica e tecnica, abili nel transitare attraverso pratiche non contigue (pittura, scultura, installazione, video e, appunto, graphic novel), disinvolti nel violare gerarchie consolidate: il colto e il popolare, il sofisticato e il massificato. Ma, privi di un autentico senso dell’appartenenza a una determinata comunità, questi autori spesso appaiono contagiati da quel virus della globalizzazione stilistica – indissolubile intreccio tra internazionalismo, modernizzazione e omologazione – cui pochi artisti di oggi riescono a sottrarsi.

Le medesime oscillazioni ritornano nella graphic novel africana, la cui scoperta in Occidente risale agli inizi del Duemila. 2006, Harlem. Presso il museo newyorkese d’arte contemporanea afroamericana Studio Museum di New York, si tiene una mostra oramai quasi leggendaria: Africa Comics. Un’importante occasione per scoprire le tavole di tanti sconosciuti graphic novelist africani. Tra i visitatori dell’esposizione, il critico statunitense Robert Storr, che ne rimane a tal punto colpito da scegliere, in quell’archivio di visioni, il lavoro a quattro mani di un disegnatore ivoriano (Nganguè Titi Faustin) e di un giornalista camerunense (Eyoum Nganguè), per presentarli alla 52ª edizione della Biennale di Venezia da lui curata (2007). Un’eternità a Tangeri – il titolo dell’opera – racconta il percorso di un ragazzo africano di Gnasville (luogo immaginario e rappresentativo di tutte le città africane), che arriva a Tangeri dopo un lungo viaggio fatto a piedi, a cavallo e in macchina attraverso tanti Paesi, sfidando condizioni di vita disumane, controlli di polizia, trafficanti senza scrupoli. Nasce così una cronaca colonialista amara [cfr.

N. Titi Faustin, E. Nganguè, Un’eternità a Tangeri (2004), Lai-momo, Bologna 2007].

Un’eternità a Tangeri è tra i tasselli più interessanti di un

ricco database disponibile in Rete (www.africacomics.net), in cui sono selezionate e raccolte alcune tra le rilevanti voci della graphic novel africana. Un fenomeno di bruciante attualità e di straordinario rilievo estetico, culturale e civile, caratterizzato da poche figure emerse (e pubblicate) in Occidente e da tante altre ancora sommerse e clandestine, a causa dell’assenza di una seria industria editoriale.

Accomunati dalla volontà di portarsi al di là di ogni tipo di intrattenimento – proprio di ampie regioni del fumetto europeo e statunitense – molti artisti attivi in Congo e in Costa d’Avorio, in Ciad e in Sud Africa, in Gabon e in Madagascar, in Cameroun e in Guinea, in Algeria e in Angola, in Benin e in Burkina Faso, in Egitto e in Marocco pensano il proprio mestiere innanzitutto come un modo per comunicare, per confessarsi, per farsi ascoltare, per far conoscere contesti geografici, condizioni di vita, emergenze sociali.

Per svelare i lati più perturbanti del presente, non si affidano a fantasie né a concettualismi. Tendono a partire da fatti effettivamente accaduti, intorno ai quali modellano originali microepiche. Con sensibilità sociologica, lontani della facile retorica, documentano in presa diretta alcuni eventi tragici. Con sobrio realismo, ci consegnano avventure segnate da libertà negate, da sofferenze, da conflitti, da inquietudini. È quel che fanno Pat Masioni nell’album sul genocidio in Ruanda del 1994; Didier Kassaï nel resoconto della guerra in Repubblica Centrafricana del 2013; il gruppo Bitterkomix nel j’accuse sull’apartheid; e Al’ Mata, che ha seguito le peripezie di Alphonse Madiba, pseudo-studente africano espulso dalla Francia e costretto a ritornare nel suo Paese di origine (2010).

Pur con accenti diversi, questi autori insistono soprattutto sul tema della migrazione. Un atto esistenziale e, insieme, politico, scelto ma più spesso sofferto, che rinvia al paesaggio in cui s’incontra l’altro, dove l’incontro potrebbe precipitare nello scontro, l’ospitalità volgersi in ostilità: il riconoscimento del diverso da noi dovrebbe aprire a un’etica della prossimità e a una politica della coabitazione, ma non di rado sconfina nell’intolleran-

za e nella chiusura [D. Di Cesare, Il diritto di escludere non è legittimo, in «Corriere della Sera», 22 luglio 2018]. 13

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Di queste istanze si fanno interpreti tanti fumettisti africani, che disegnano storie nelle quali mescolano ricognizione storiografica, passione reportagistica e slancio lirico. Ne sono protagonisti individui che, a causa di drammatiche situazioni economiche, sociali e politiche, lasciano la loro terra, per cercare rifugio sicuro altrove. Questi disperati subiscono violenze. Qualcuno riesce a trovare vie di fuga; molti vengono cacciati dai Paesi dove avevano sperato di rifugiarsi; tanti intraprendono peregrinazioni senza fine, nomadi senza identità, condannati ad affrontare pericoli di vario tipo; molti, infine, non ce la fanno e muoiono. Doloroso, per queste anime migranti, l’impatto con “noi”, che troppo spesso cerchiamo di salvaguardare i nostri privilegi e non i diritti umani, impegnati a difendere rigidi confini etnici.

Seguiamo ansie quotidiane, vediamo volti disperati, condividiamo paure e piccole utopie. Abbiamo la sensazione di attraversare una straziante via crucis segnata da speranze e da delusioni e costellata di profughi, di apolidi e di rifugiati, che devono destreggiarsi tra scafisti, trafficanti, poliziotti corrotti, negrieri senza pietà. Siamo dinanzi a un’Odissea clandestina, che potrebbe essere accostata a quella raccontata, in un emozionante libro-memoir intitolato Partire, da Mahmoud Traoré, uno dei tanti giovani africani che, attratto dal mito del mondo globalizzato, si lancia sulle strade dell’esilio a piedi o a bordo di taxicollettivi, di camion da bestiame e di piroghe, lasciandosi alle spalle il Sahel, il Sahara, la Libia e il Maghreb, per arrivare a

Siviglia [cfr. N. Traoré, B. Le Dantec, Partire (2014), Baldini e Castoldi, Milano 2018].

Per “riprendere” queste tragedie viste con gli occhi di personaggi marginali, i fumettisti africani si affidano a disegni dai contorni netti, combinando pratiche non contigue (pittura, giornalismo d’inchiesta e cinema). Essi pongono sul medesimo piano soggetto, sceneggiatura, immagini e inquadrature; e fanno confluire gusto per la narrazione, tensione pittorica e grafica in strips che ricordano da vicino le sequenze dei film muti.

Nell’incontrarsi, i diversi lavori degli autori della graphic novel africana vanno a comporre un implicito kolossal cinematografico in bianco e nero. Che ci parla di un continente abitato da milioni di umiliati e offesi, condannati a cercare di sopravvivere,

feriti dalle infamie dei dolori, degli sfruttamenti, delle violenze, costretti a un sanguinoso viaggio attraverso le tenebre della sofferenza. Una civiltà ancora repressa, oscura e ignorata, in gran parte ancora ignota. Un meraviglioso giacimento di talenti e di sperimentazioni: per noi impossibile da decifrare. Wole Soyinka ha scritto: La storia ha sbagliato. Le dichiarazioni secondo cui l’Africa è stata esplorata sono avventate come le notizie della sua morte imminente. […] Spero che […] nasca una nuova stirpe di esploratori per la corsa alla necessaria Età della Comprensione Universale, ispirata dall’Africa [W. Soyinka,

Africa (2012), Bompiani, Milano 2015, passim].

Arte e antropologia

Pur attivi a latitudini geografiche e culturali lontane, gli involontari eredi del pittore della vita moderna baudelairiano condividono un modo originale e lirico per interrogare alcune tra le questioni politiche, sociali e antropologiche più urgenti dell’età contemporanea. In particolare, per pronunciare alcuni drammi del nostro tempo, non di rado, essi sembrano “riprendere” i gesti frequentemente adottati dagli antropologi1 .

Inattese convergenze. Siamo dinanzi a mestieri lontani ma intimamente affini. Che, innanzitutto, condividono alcune inquietudini. L’antropologo avverte il bisogno di “sentire” dall’interno l’oggetto del proprio studio, ma la sua disciplina gli impedisce un’assoluta libertà. L’artista, invece, è portato a compenetrarsi con la materia delle proprie visioni e avverte la necessità di affidarsi a una distanza critica, per non naufragare in quelle stesse situazioni immaginarie.

Questi limiti portano molti antropologi e molti artisti a lasciarsi sedurre dagli attraversamenti e dalle metamorfosi. Si mettono in gioco; vogliono allargare i territori di azione ai quali tradizionalmente appartengono; mettono in discussione gli ambiti dentro cui tendono a muoversi; varcano limiti e barriere; mescolano esperienze e sensibilità; sperimentano sconfinamenti; si pongono ulteriori domande, per proiettarsi verso una trans-disciplinarietà nuova, intesa come smarginamento, una forma di spaesamento che somiglia […] all’‘essere afferrati da una trance’ 15

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[A. Castelli, F. La Cecla, Scambiarsi le arti, Bompiani, Milano 2022, pp. 31-53].

Iscrivendosi nella prospettiva di questi sconfinamenti necessari, gli antropologi si trovano così a riscoprire i lati creativi presenti in culture diverse dalla nostra. Senza censurare i propri sentimenti, rivelano “nuove categorie mentali”, contribuendo a introdurre concetti di spazio e di tempo, di opposizione e di contraddizione, tanto estranei al pensiero tradizionale quanto lo sono quelli che si incontrano oggi in talune branche delle

scienze naturali [C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale (1964), Il Saggiatore, Milano (n. e.), p. 301].

Dal canto loro, tanti artisti si lasciano sedurre proprio da quella dottrina impura che è l’antropologia, concepita, ha ricordato Lévi-Strauss, come sapere della modernità costruito soprattutto sulle culture senza-scrittura e sulle società pre-moderne – conoscenza dell’uomo; riflessione sull’uomo stesso a partire dalle sue opere e dalle diverse forme di società; esercizio di classificazione e di analisi; inventario delle possibilità inconsce sottese ai nostri comportamenti; scienza delle società chiuse, nelle quali i rapporti tra gli individui sono per lo più di tipo comunitario; studio di tutte le possibilità visuali nel contesto di determinate

condizioni culturali [D. Freedberg, Antropologia e storia dell’arte: la fine delle discipline?, in «Ricerche di storia dell’arte», 94, 2008, p. 8]; infine, sfida per incorporare […] i dati relativi alle culture più lontane e più neglette, impegnata a portare a compimento l’impresa plurisecolare del pensiero umanistico, estendendo a nuovi ambiti geografici uno sforzo iniziato fin dal Rinascimento e che non ha cessato di attuarsi fino a oggi [C. Lévi-Strauss, An-

tropologia, in Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, ad vocem].

Molti artisti tendono a “replicare” le ritualità cui si affidano proprio gli antropologi-astronomi che cercano di dare un senso a configurazioni sociali molto differenti, per ordine di grandezza e per lontananza, da quelle immediatamente vicine all’osservatore, mirando a far affiorare gli schemi nascosti dietro le

più diverse civiltà [C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, cit., p. 314]. Dapprima, vittime di una estraniazione che li spossessa dalla loro soggettività per far emergere quella di qualcosa che

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