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Le padelle

C’è una regola molto importante da osservare: il bordo della padella è necessario che sia sempre alto, sia per evitare gli schizzi d’olio bollente, sia, soprattutto, per fare in modo che il cibo venga totalmente immerso in abbondante bagno di frittura. Ogni forma e materiale ha la propria ragione d’essere, nulla può essere lasciato al caso.

La padella ovale, provvista di manico lungo, ha forma ovale, bordo alto e fondo piano. Seppur poco di usa, è ideale per friggere più agevolmente i pesci per via della loro forma allungata.

Le forme

Il wok, provvisto di manico lungo perché non diventi bollente durante la cottura, ha forma semisferica e conica, bordo alto e fondo piano. Qui il cibo, per via della caratteristica forma conica, si concentra verso il centro, dove il calore è più elevato.

La padella a mantecare, provvista di manico lungo, ha forma circolare, bordi alti e svasati, fondo stretto.

La padella dritta, provvista di manico lungo, ha forma circolare, bordi alti e dritti, fondo piatto e largo.

Il padellone con cestello in acciaio smaltato, provvisto di due manici corti, ha bordi molto alti in modo da consentire di accogliere all’interno un cestello forato in filo di metallo nel quale collocare il cibo da friggere; il cestello, provvisto di due manici con prolunghe che si appoggiano ai manici esterni, viene infine sollevato al termine della cottura.

Il materiale

Le padelle in ferro sono adatte a gestire temperature elevate e sono anche in grado, nel contempo, di trattenere a lungo il calore e limitare l’innalzamento della temperatura dell’olio al punto di fumo.

Le padelle in alluminio, essendo ad alta conducibilità termica, permettono anche di ottenere una distribuzione più omogenea del calore.

Le padelle in rame smaltato, essendo ad altissima conducibilità di calore, consentono di far riscaldare più velocemente il liquido di frittura.

Le padelle in acciaio inox si contraddistinguono per la loro bassa conducibilità termica con il vantaggio di un maggior controllo e mantenimento della giusta temperatura.

Le friggitrici ad aria

Le friggitrici ad aria – secondo l’oleologo e tecnologo alimentare Lorenzo Cerretani – meritano una breve trattazione a parte, per via della di usione raggiunta negli ultimi tempi. “Al di là del nome – chiarisce Cerretani – non si tratta di una vera e propria friggitrice perché manca l’elemento di base per definire tale lo strumento: cottura in immersione in bagno d’olio. Al contrario, le friggitrici ad aria non sono altro che fornetti ventilati e nascono per rinvenire prodotti surgelati già prefritti come ad esempio le patate prefritte surgelate”.

“Le friggitrici ad aria – prosegue Cerretani – hanno trovato larga di usione anche perché permettono di ottenere prodotti più salubri in quanto meno grassi con un buon compromesso di gusto e struttura (croccantezza). Oggi grazie alla di usione che questo strumento ha raggiunto, sono numerose le applicazioni e le ricette che vedono la friggitrice ad aria utilizzata per cuocere e scottare tanti cibi”. Sempre in merito alle friggitrici ad aria, diventa molto interessante il punto di vista del maestro di cucina. Ci conferma a tal proposito anche lo chef Giuseppe Capano che non si tratti di friggitrici vere e proprie, ma, in pratica, “di piccoli forni ad alta e cienza che riescono con pochi grassi in alcuni casi a imitare in qualche modo una reale frittura ma senza raggiungerne la qualità finale. Non sono strumenti inutili – ammette Capano – perché consentono di realizzare diverse preparazioni interessanti grazie alla loro prestazione complessiva, e non solo ad alte temperature; ad esempio, tengono molto bene le basse temperature e possono diventare degli e cienti essiccatori con l’unica pecca del poco spazio disponibile. Diciamo – conclude Giuseppe Capano – che il nome costruito ad arte dal punto di vista del marketing, per vendere di più, in realtà non fa giustizia a uno strumento che è valido di per sé, indipendentemente dalla frittura, ma che, va chiarito, imita la frittura spesso solo malamente”.

Gli utensili

Non sono molti gli accessori che si possono utilizzare nel corso di una frittura: si va dal termometro da cucina oggi nella sua evoluzione a infrarossi, per avere sotto controllo la temperatura, al coperchio paraschizzi, dalle palette per girare, mescolare e sollevare il cibo, con o senza foratura, alla schiumarola a rete. Per tutto il resto ci vuole grande attenzione, metodo, olio e cibi buoni.

di Luigi Caricato na porzione non eccessiva, consumata ogni tanto, in assenza di specifiche patologie o restrizioni imposte da un regime dietetico, non è da considerare un problema. Un consumo maggiore sarebbe da valutare con attenzione, come abitudine alimentare, anche in relazione alla quantità di olio o grasso (e spesso di sale) che ogni alimento fritto porta con sé

Coordinatrice di progetti di ricerca internazionali, la professoressa Tullia Gallina Toschi collabora con numerosi atenei e diversi istituti europei. Docente presso l’Università di Bologna, è tra gli esperti chimici degli oli di oliva della Commissione europea e del Consiglio oleicolo internazionale. A lei abbiamo posto alcune domande di stretta attualità, in materia di frittura, in modo da sciogliere ogni dubbio in merito alle tante dicerie che si leggono e si ascoltano intorno a un metodo di cottura tanto controverso quanto largamente praticato con grande soddisfazione per i nostri sensi.

La frittura è un metodo di cottura spesso visto in chiave negativa: il fritto piace, ma fa male. Non basta osservare le giuste regole ed evitare errori nella scelta del bagno di frittura? Basterebbe poi il buon senso e non eccedere nelle quantità da ingerire e nella frequenza di consumo. È così? O ci sono evidenze scientifiche che condannano in ogni caso il fritto?

Non ci sono evidenze che condannino senza appello il fritto, ma ci sono alcune considerazioni da fare. I problemi principali della frittura sono tre. Uno riguarda la qualità dell’olio, che, almeno in casa, non dovrebbe essere riutilizzato, un secondo riguarda, al contrario, la sostenibilità, e quindi il quantitativo di olio che dovrebbe essere così buttato (e quello che viene finemente nebulizzato nell’ambiente), e l’ultimo riguarda il quantitativo di olio che ogni alimento fritto è in grado di assorbire e che quindi viene consumato insieme alla frittura stessa. In merito alla salute la qualità dell’olio di frittura resta il punto chiave. Nella ristorazione, dove il bagno di frittura non può essere certamente cambiato ad ogni ciclo, l’olio deve essere filtrato e controllato, in termini di formazione di composti ossidati o altre sostanze potenzialmente tossiche generate dal riscaldamento prolungato ad alte temperature e la friggitrice svuotata e lavata accuratamente ad ogni cambio di olio. Oramai esistono strumenti anche poco costosi, ben più precisi di una valutazione visiva del colore, della presenza di schiuma o del cambiamento della viscosità, per determinare la qualità dell’olio durante la frittura. Gli oli da utilizzare, poi, devono contenere trigliceridi con una buona percentuale di acidi grassi resistenti all’ossidazione, come l’acido oleico. Si utilizzano, ad esempio, l’olio di arachide, l’olio di girasole ad alto oleico o miscele di oli di semi con caratteristiche simili. Ci sono oli in commercio specificamente formulati per le friggitorie e la ristorazione. Se si utilizzano correttamente, se chi li acquista non pensa solo al risparmio, il fritto, consumato episodicamente, non può essere considerato un problema di sicurezza alimentare. Se parliamo, invece, di frittura casalinga gli oli di frittura da utilizzare possono essere i medesimi che ho citato, ma il problema di sviluppo di sostanze ossidate è minore perché, come ho già detto, l’olio non dovrebbe essere riutilizzato. Non è pensabile far ra reddare un bagno di frittura casalingo, conservarlo una settimana o più e poi scaldarlo di nuovo e, magari, ripetere ancora questa operazione. L’ossidazione non si ferma, quindi a casa dopo la frittura l’olio restante deve essere correttamente smaltito. Per riassumere, una porzione non eccessiva di buon fritto consumata ogni tanto, in assenza di specifiche patologie o restrizioni imposte da un regime dietetico, non si può considerare un problema. Un consumo maggiore sarebbe da valutare con attenzione come abitudine alimentare, anche in relazione alla quantità di olio o grasso (e spesso di sale) che ogni alimento fritto porta con sé. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare, al mattino, a colazione, per esempio trovandosi a Modena, che scegliere un croissant integrale ai frutti rossi, al posto di uno gnocco fritto sarebbe più salutare. Il croissant quasi certamente conterrebbe molto più grasso e di peggiore qualità, più zuccheri semplici e sarebbe stato probabilmente congelato e riscaldato due volte. In questo caso la decisione da prendere, sia sul piano culturale, sia sul piano della sostenibilità sensoriale, sarebbe lo gnocco. La decisione che prendiamo quando etichette mentali come “integrale” o “fritto” compaiono nella nostra mente non sempre è giusta!

Un recentissimo studio viene dalla Cina. Secondo i ricercatori della facoltà di medicina dell’ateneo di Zhejiang, il consumo frequente di alimenti fritti, e in particolare di patatine, può far insorgere ansia e disturbi depressivi, incrementando di conseguenza il rischio nella misura del 12% e del 7%. La ricerca, e ettuata su un campione di 140.728 soggetti, pubblicata sulla rivista Pnas, mette ancora una volta in evidenza il ruolo negativo dell’acrilammide, in questo caso anche nel provocare una neuroinfiammazione cerebrale. Cosa ne pensa al riguardo?

La questione dell’acrilammide (AA) è complessa. Si tratta di una molecola tossica (neurotossica, mutagena), molto solubile in acqua, che si forma in cottura, ad alte temperature (di norma al di sopra dei 120°C) e in presenza di poca umidità, quando sono presenti zuccheri e, in particolare, l’amminoacido asparagina. Questa condizione si può verificare, ad esempio, nel processo di torrefazione, nella frittura o nella cottura ad alte temperature, anche in forno, di tanti alimenti, dalle patate fritte, al pollo arrosto o al pane. L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) considera un limite di esposizione giornaliero all’acrilammide pari a 170 µg/kg ma, teoricamente, ogni condizione che ne riduca l’assunzione è auspicabile. Questo significa che ognuno di noi magari bevendo un ca è, mangiando una fetta di pane, un pezzetto di carne abbrustolito, il lembo bruciato di una pizza, addentando una patata al forno cotta a lungo, o consumando dei cereali al mattino, introduce nell’organismo un certo quantitativo di acrilammide. È senz’altro una sfida delle tecnologie alimentari abbassare questo livello. Come? Con una corretta informazione e con delle strategie. L’EFSA consiglia, per esempio, il lavaggio delle patate una volta tagliate e prima della cottura con acqua e limone (riduzione livelli di AA fino al 70%), sconsiglia la conservazione delle patate al di sotto degli 8°C e si raccomanda molto riguardo alle temperature di cottura. Le tante trasmissioni televisive hanno trasformato tutte e tutti noi in “tecno-cuochi” e, in e etti, dotarsi di un termometro da cucina non è una scelta sbagliata. Una regola su tutte è non cuocere al di sopra di 175° e questo vale sia per la frittura che per le cotture in forno, ovviamente, in quest’ultimo caso, nelle condizioni che ho precedentemente citato (tempi lunghi, scarsa umidità, presenza di carboidrati e proteine). Bisogna abituarsi a dorare e a non bruciare gli alimenti ed insegnare ai bambini a distinguere il tostato (fragrante odore di pane, odore di popcorn), dal bruciato (odore acre di fumo). Ci sono poi delle strategie cosiddette di mitigazione, come utilizzare soluzioni contenenti l’enzima asparaginasi da aggiungere agli alimenti prima della cottura al fine di convertire l’asparagina in acido aspartico, prevenendo così la formazione di acrilammide. Per rispondere, quindi, alla domanda iniziale non è solo la frittura il possibile tramite della assunzione di acrilammide (la cottura delle patate in forno può essere ben più a rischio, se condotta molto a lungo e ad alte temperature) ma una corretta informazione, una dieta varia e bilanciata e il buon senso, possono ridurre l’esposizione a questa sostanza. Se poi ci riferiamo alla Cina è bene ricordare il ruolo estremamente centrale della frittura in quella cultura enogastronomica e quindi non meraviglia il fatto che vi siano ricerche e campagne di prevenzione che mettano in guardia i cittadini, o gli studenti, come nello studio citato, dal consumare alimenti fritti tutti i giorni.

Cosa si può ricavare dagli studi e ettuati nel corso degli anni dall’Università di Bologna, visto che avete spesso a rontato il tema della frittura, come pure quello di altri metodi di cottura?

Noi ci siamo molto occupati di ossidazione, che è una reazione di degenerazione che avviene, in particolare, a carico degli oli e dei grassi e che produce composti potenzialmente tossici e abbiamo cercato dei metodi per misurare questa reazione durante la conservazione o la cottura degli alimenti. La conoscenza dei composti che si formano, come ad esempio i prodotti di ossidazione del colesterolo e la loro quantificazione nei diversi alimenti, sono aspetti fondamentali per limitarne la formazione o l’esposizione. Abbiamo studiato e studieremo anche le strategie sensoriali per adottare dei comportamenti corretti. Un esempio è dato dal nostro olfatto, il riconoscimento e il rifiuto di alimenti rancidi ci protegge dalla loro assunzione e quindi dagli e etti potenzialmente tossici dei prodotti di ossidazione. In termini pratici questo significa che se un fritto sa di rancido allora sì che dobbiamo rifiutarlo. Ma come possiamo riconoscere il rancido? Si tratta dell’odore di un’oliera non pulita, della cotenna del prosciutto esposta all’aria o di una nocciolina mal conservata. Il riconoscimento del rancido, come il rifiuto del bruciato sono competenze sensoriali che ci proteggono. E la scelta di un buon olio extra vergine di oliva introduce nella nostra dieta quantitativi di sostanze antiossidanti, i polifenoli o biofenoli, capaci di limitare il processo ossidativo. Sul piano tecnologico ci occupiamo anche di prevedere la shel-life, letteralmente la vita di sca ale, ossia la “scadenza” degli oli e dei grassi e di verificare quanto l’aggiunta di estratti di rosmarino, catechine del tè o polifenoli dell’oliva possano prolungarne la vita, sia in condizioni di conservazione casalinga, sia in condizioni di cottura industriale.

Ultima domanda, per ricapitolare: qual è il liquido di frittura ideale? Quale olio, tra tutti quelli disponibili in commercio, è più indicato tra tutti? Mi piacerebbe avere due risposte: una da studiosa, l’altra da fruitrice del fritto.

Come già risposto, per casa va bene un olio vegetale appena acquistato. Si può avere così la condizione che sia stato ra nato di fresco e che non contenga prodotti di ossidazione. Gli oli più insaturi come l’olio di soia sono più fluidi, quindi vengono meno trattenuti dall’alimento, quelli più saturi resistono maggiormente al processo ossidativo. L’olio, in ogni caso, non deve essere riutilizzato ma correttamente smaltito per essere impiegato industrialmente in altro modo. Ad esempio, oltre a vari altri usi proposti gli oli esausti possono essere utilizzati per la produzione di poliuretani, così da essere pienamente utilizzati come risorsa, non come scarto. C’è poi chi pensa che si possa friggere in olio di oliva. Io sono un po’ perplessa, almeno ad utilizzarlo da solo. La scelta di un olio di oliva non porta di erenze sostanziali rispetto all’uso di un olio di girasole ad alto oleico, perché sono entrambi ra nati e il contenuto di polifenoli che proteggono l’olio di oliva dall’ossidazione è, di norma, limitato; inoltre l’olio di oliva contiene molti composti volatili che si percepiscono all’olfatto e non sempre la frittura richiede un “imprinting” così evidente. Se ci fosse in commercio un olio di oliva molto deodorato e ancora ricco di antiossidanti ci si potrebbe pensare… D’alto canto, se da un lato potrebbe essere ragionevole friggere con un extra vergine di oliva, straordinariamente resistente all’ossidazione perché “nativo” e molto ricco di polifenoli antiossidanti, l’impronta olfattiva potrebbe essere ancora più intensa e poi si dovrebbe smaltire un olio, dopo un solo uso, di grandissimo valore nutrizionale. Sia sul piano culturale che sul piano della sostenibilità in cucina, mi pare uno spreco. Gli oli extra vergini vanno usati soprattutto a crudo per preservare intatte le caratteristiche sensoriali e nutrizionali, oppure in cottura, ma in alimenti nei quali l’olio resti all’interno del piatto, come fettine, pasta, sughi, frittate, pizza o torte salate. Volendo fare un po’ i chimici in cucina per friggere, sia a casa che (a maggior ragione!) al ristorante, si potrebbe utilizzare un olio vegetale tra quelli che ho citato aggiungendo un filo di extra vergine molto ricco di polifenoli, come una Coratina, a proteggere il bagno d’olio. Questa, sì, potrebbe essere una buona idea!

Alcuni riferimenti bibliografici

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Tura, M., Mandrioli, M., Valli, E., Dinnella, C., & Gallina Toschi, T. (2023). Sensory wheel and lexicon for the description of cold-pressed hemp seed oil. Foods, 12(3) doi:10.3390/foods12030661 di Luigi Caricato ulla è lasciato al caso.

Si selezionano e si studiano i singoli componenti, valutando di volta in volta le caratteristiche di ciascun olio, simulando le diverse formulazioni e tenendo conto non solo dei parametri analitici u ciali, ma anche delle valutazioni organolettiche dei diversi alimenti fritti, compresa la loro gradevolezza quanto a colore, fragranza e croccantezza

Salvatore Falco

Laureato in Scienze e tecnologie alimentari nel 2000, presso il Dipartimento di Scienza degli alimenti dell’Università di Napoli Federico II, nel 2001 ha iniziato a lavorare presso la Olio Dante SpA, dove oggi è responsabile di laboratorio e dei processi produttivi degli oli sfusi (filtrazione, miscelazione, ra nazione). Assaggiatore esperto di olio extra vergine di oliva e capo panel, ha partecipato a diversi progetti di ricerca realizzati dalla Divisione Ricerca&Sviluppo della Olio Dante, occupandosi principalmente della valorizzazione dei sottoprodotti dell’industria olearia, della caratterizzazione degli antiossidanti dell’olio e della valutazione della stabilità qualitativa e della salubrità dei prodotti.

La frittura è cosa seria, piace molto, ma è attraversata da tanti pregiudizi di cili da scalfire. Il fritto fa bene o fa male? Certamente, rispetto alle tante dicerie attraversate da altrettanti luoghi comuni, qualcosa sta cambiando. Si intuisce, finalmente, che a rontare il discorso con uno spirito diverso aiuta a farci riconsiderare la frittura in una nuova e più serena chiave di lettura. Ne abbiamo parlato con il tecnologo alimentare Salvatore Falco, responsabile del laboratorio e dei processi di lavorazione degli oli sfusi di Olio Dante, il quale, per superare ogni ostile e infondato preconcetto sulla frittura, enuncia tre principi fondamentali: olio buono, temperatura di cottura adeguata e cambio frequente dell’olio nella friggitrice.

Oggi la frittura non spaventa più.

Fissiamo un presupposto, la frittura è uno dei più antichi e utilizzati metodi di cottura che conferisce al cibo un aroma, una fragranza e una consistenza che altri tipi di cottura, considerati più salutari, non riescono a garantire. Infatti, la frittura è ampiamente utilizzata sia nei settori professionali come quello dell’industria alimentare e in particolar modo quella a erente alla produzione degli snack, o come quello della ristorazione professionale, sia essa catering, ristoranti, street o fast food, ma è anche largamente utilizzata nel contesto casalingo in tutti gli angoli di mondo.

Nonostante numerosi studi presenti in letteratura scientifica dimostrino che la frittura è sicura, ancora oggi, purtroppo, la frittura è demonizzata e considerata poco salutare in taluni contesti. Le cattive abitudini di alcuni nel processo di cottura e la bassa qualità degli ingredienti utilizzati possono contribuire a spiegare questa cattiva reputazione.

È ormai un dato acquisito il fatto che la tecnica di cottura sia di per sé sana e salutare, se questa avviene nel rispetto delle buone regole e ricorrendo agli oli più idonei per il bagno di frittura.

Come appunto dicevamo, per aver un buon fritto è assolutamente necessario seguire poche ma imprescindibili regole che consentono di ottenere un risultato di qualità. I principi basilari sono ormai noti a tutti gli operatori professionali del settore e i confezionatori del settore food industriale usano etichette che sono sicuramente di aiuto e riportano tutte le indicazioni necessarie. Le si può sintetizzare in tre principi fondamentali: olio buono, temperatura di cottura adeguata e cambio frequente dell’olio nella friggitrice.

Quanto è importante il ruolo di un laboratorio per realizzare gli oli più adatti, appositamente finalizzati alla frittura, in grado di garantire ottime performance in termini di gusto, senza venir meno alla stabilità degli oli alle alte temperature?

Nel settore degli oli alimentari il laboratorio è determinante. Innanzitutto è necessario monitorare i parametri normati e previsti dalla legge, di tipo qualitativo (acidità, parametri ossidativi ecc.), gli indici di genuinità (acidi grassi, frazione sterolica ecc.) e igienicità (contaminanti quali idrocarburi, ftalati, pesticidi ecc.).

Il monitoraggio e il controllo di questi parametri u ciali permette non solo di proporre al consumatore un prodotto a norma ma anche di selezionare le materie prime migliori. Un altro aspetto fondamentale di un laboratorio attrezzato e specifico per l’analisi degli oli alimentari è che, attraverso le determinazioni analitiche non u ciali, è possibile ottenere informazioni utili alla realizzazione di nuovi prodotti. Infatti nella formulazione degli oli per fritture attraverso l’analisi dei composti polari, degli indici spettrofotometrici, della determinazione e quantificazione di prodotti secondari di ossidazione, è possibile valutare la degradazione dell’olio in cottura.

Quanto studio c’è dietro l’ampia gamma di prodotti destinati alla frittura? Avete quelli specifici come il “Friggì” a marchio Topazio, l’olio di semi di arachide OiO e l’Olita Frittura croccante. Come siete giunti a trovare la combinazione perfetta?

In e etti c’è molto studio: selezionare i singoli componenti, valutare singolarmente le caratteristiche di ogni olio e/o componente, simulare le diverse formulazioni e tutto questo tenendo conto non solo dei parametri analitici u ciali, ma lavorando molto sulle valutazioni organolettiche dei diversi alimenti fritti e quindi sulla loro gradevolezza, su colore, fragranza, croccantezza ecc. Fondamentale, poi, è la determinazione dei principali parametri analitici per la valutazione della degradazione dell’olio nel corso del processo di termossidazione, valutando tali indici nel corso di più cicli di frittura. Ad esempio, noi valutiamo il decremento dei tocoferoli (antiossidanti lipofili) nelle varie forme , , , , come indicatori dello stress ossidativo che subisce l’olio nel corso della frittura e/o anche la determinazione quantitativa dei composti polari quali monogliceridi, digliceridi, acidi grassi liberi e prodotti polari di trasformazione che si formano durante la frittura e/o durante il riscaldamento.

Gli oli da olive sembrano essere in generale molto penalizzati sul fronte frittura. Le stesse aziende che li commercializzano rinunciano a destinarli a tale impiego. È solo perché sono poco competitivi rispetto agli altri oli vegetali, per via dei prezzi più elevati? Non ha la sensazione che manchi una comunicazione specifica, dedicata, che orienti il consumatore all’utilizzo di tutta la gamma, sia degli extra vergini, sia degli oli di oliva, sia del tanto bistrattato olio di sansa di oliva? È solo un problema di ordine culturale questa scarsa attenzione?

Purtroppo veniamo da un lungo periodo di non comunicazione sul prodotto, a seguito del quale gli oli alimentari e in particolare gli oli di oliva, sono passati dall’essere un prodotto d’eccellenza del Made in Italy ad una “commodity”. Questo è successo un po’ per colpa dei produttori e un po’ per mancanza di marketing specifico degli operatori della Gdo, che ormai rappresenta il principale e quasi monopolizzante canale di distribuzione del prodotto oleario. Si è dato poco spazio alle innumerevoli peculiarità del prodotto olio in base alla propria provenienza e alla propria origine, a favore della leva prezzo, rendendo simili, e appiattendo i vari prodotti che il consumatore vede sullo sca ale. Io personalmente credo che ci sia bisogno di due strategie fondamentali. Da un lato perseguire una politica di di erenziazione che consenta al consumatore di apprezzare le di erenze e le caratteristiche organolettiche di un olio rispetto ad un altro o, ancora meglio, di un olio italiano rispetto a un olio comunitario o tunisino. Per quanto riguarda gli oli di oliva, per un loro utilizzo come mezzo di frittura, bisognerebbe di erenziare in funzione delle diverse categorie, tenendo conto anche dell’apporto nutrizionale che, ad esempio, un olio extra vergine può garantire rispetto agli oli ra nati. Ovviamente l’utilizzo di un olio extra vergine, potrebbe caratterizzare, in modo ritenuto da alcuni eccessivo, il gusto e l’aroma del cibo fritto, e qui mi sento quindi di consigliare gli oli di oliva e gli oli di sansa, che rappresentano un buon compromesso in termini di apporto nutrizionale (percentuale di acido oleico), gradevolezza organolettica dell’alimento fritto e food cost. Infine, come seconda linea strategica, è necessario puntare nuovamente sui marchi, sulla loro storia, sulla loro filosofia di produzione e sulla loro capacità di essere custodi di una storia e garanti di un prodotto di qualità, genuino e facilmente identificabile.

di Luigi Caricato

Cosa pensano del fritto nei ristoranti

Nicoletta Polliotto e Ilaria Legato, autrici del volume Creative Restaurant Branding®. Il metodo per far emergere l’identità straordinaria del tuo locale, pubblicato nel 2021 per le edizioni Hoepli? Il loro parere è certamente interessante, anche perché da anni a rontano, seppur da angolazioni diverse ma confluenti, il settore ristorativo inquadrato in una chiave di lettura nuova e originale, facendo leva soprattutto sul valore e sulle opportunità del brand. Nicoletta Polliotto è digital project manager e brand strategist, nonché esperta di food & restaurant marketing e nota conference speaker nel mondo turistico-alberghiero, oltre che autrice di svariati libri. Ilaria Legato, a sua volta, è brand e food designer, proprio nell’ambito del settore Horeca, ed è fondatrice del gruppo “I Food Designer”, nonché coordinatrice del Master in Brand Design and Management for Food, Wine and Tourism allo IED di Firenze. C’è molto da riflettere sulle opportunità che possono scaturire da un’attenzione più qualificata sulla frittura nei ristoranti. Ecco il loro pensiero.

Nelle cucine domestiche ormai la frittura non è più molto praticata come un tempo, si mangiano i fritti solo al ristorante, o nelle rosticcerie. Come ritenete che sia presentata la frittura oggi al ristorante? Molto spesso il punto di debolezza è rappresentato soprattutto dal liquido di frittura, scelto più con l’ottica del risparmio che non della qualità dei grassi in funzione della loro resistenza e maggiore stabilità alle alte temperature. Cosa ne pensate?

Nicoletta Polliotto: Certamente il bisogno forte di un’alimentazione più sana, sobria e leggera, ci ha portati a diminuire l’utilizzo della frittura nelle nostre preparazioni domestiche. Il fritto, per realizzare il quale gioca anche la necessità di tempo che sempre meno dedichiamo alla preparazione dei nostri pasti, è quindi vissuto come un’eccezione, uno strappo alla consuetudine, una coccola che ci concediamo al ristorante. Purtroppo, ritengo che questo bisogno non venga completamente compreso ed evaso dalle insegne ristorative.

Il fritto è ancora appannaggio o del fast food o del ristorante tipico che propone le ricette classiche. Ecco perché non si ritiene necessario lavorare sulla qualità, sia della scelta dell’olio, sia della giusta tecnica/trattamento di questo ingrediente durante la fase della frittura. Ovviamente la scelta di un ingrediente adeguato, e della procedura più corretta (banalmente il non riutilizzo dell’olio di cottura), implica maggiore attenzione, ma anche un costo superiore che va narrato e proposto nella maniera più e cace.

Ilaria Legato: Dopo un periodo in cui i fritti erano stati messi un po’ da parte in alcuni ristoranti a favore di un cibo più “sano”, proprio nel momento in cui venivano relegati ai luoghi classici del “junk food”, ora i fritti stanno vivendo una presenza diversa e rinnovata al ristorante. Sono sicuramente complici di questa nuova vita dei fritti i macchinari pensati appositamente per una frittura “sana”, frutto di ricerca e innovazione. Nel contempo si fa sentire l’e etto dei vantaggi derivanti dalla disponibilità di tutti quegli strumenti relativi al controllo e alla pulizia dell’olio. E anche lo stesso ingresso nelle cucine di tanti oli specializzati per questa tipologia di cottura, permettono oggi di ottenere fritti più leggeri, più sani e buoni. Tutti questi aspetti sono stati il motivo e l’occasione di un rilancio dei fritti al ristorante.

Cosa dovrebbero fare i ristoratori per valorizzare, anche nella stessa presentazione, le loro fritture? Esistono esempi virtuosi di ristoranti specializzati nella frittura? Cosa suggerite al riguardo?

Nicoletta Polliotto: Come già accennato, il racconto, per esempio nella presentazione del piatto, ma anche - a monte - sul blog e sul website e sui social media, dev’essere accurato e mai lasciato al caso. Il fritto deve diventare un’esperienza, così come viene chiesto e vissuto dall’avventore. Consiglio anche di puntare, nello storytelling, su tutti gli aspetti che possono rendere il fritto leggero e più digeribile, aspetto sul quale i clienti sono molto sensibili. Anche il piatto tradizionale può diventare protagonista di un racconto inedito, fatto di segreti svelati e ritualità a cui la sua matrice antropologica lo lega.

Altro suggerimento: raccontare la tecnica di friggitura e/o di impanatura attraverso gli aspetti chimici, organolettici (temperatura, croccantezza, tempi di immersione...). Senza trascurare il giusto pairing, per esaltare sapori e contrastare eccessi di unto, grasso, pesante, rischi sempre dietro l’angolo in piatti di questo tipo.

Ilaria Legato: Il più famoso fritto misto di pesce in Italia - ma anche del mondo, forse - è quello del tristellato “Da Vittorio”, a Brusaporto: un monumentale e perfetto insieme di pesci, crostacei, frutta e verdura servito in una “paella” direttamente al centro del tavolo. In Toscana il luogo del cuore per il fritto è da “Romano”, a Viareggio; oltre cinquant’anni di buona cucina curata da Romano Franceschini con la moglie Franca, in un ambiente di livello, dove il fritto misto è davvero irrinunciabile.

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