Acquata

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UN ANTIPIRETICO NATURALE di Mario Gesualdi “Acquata Il più vetusto, ed usato beveraggio de’ zappatori Vichesi è l’acquata, la quale fassi, mettendo dell’acqua nelle vinacce, che più non danno mosto, e stringendo poi quelle sotto al torchio. Or siffatta bevanda è del tutto convenevole alla complessione de’ zappatori, al loro modo di vivere, ed alla special natura de’ loro alimenti. Ella l’acquata formando un liquido facile ad inacidirsi nell’interno calore del corpo, è valevole a temperare il soverchio calore del corpo, che dalle disordinate loro fatiche suol’esser eccitato, ad emendare quell’acrimonia degli umori, che può in essi indurre l’inconsiderato uso di alcuni malvagi e mal condizionati alimenti di natura alcalica, ed giovare altresì, come ne accerta Ippocrate, in alcuni febbri abituali, e spesso nelle acute. Or siccome la buona acquata è salubre, così è nociva l’acquata corrotta. … Vichesi, è veramente una barbarie il dare a’ zappatori un’acquata filosa, e puzzolente. E chi tagliò i biondi e saporosi grappoli dell’uva? Non furono elleno le mani di costoro?” Così scriveva Michelangelo Manicone (Vico del Gargano 1745, Ischitella 1810) nella sua “La fisica daunica” a p. 72. Insomma, l’acquata sarebbe un antipiretico naturale nei casi di febbri anche forti. Un motivo in più per recuperare questo antico prodotto dei nostri padri. Quindi l’acquata si faceva anche nel Gargano e non solo a Bovino, o a Troia dove la chiamavano “vinello”, o tra i Monti Dauni, chiamata con nomi diversi. La tradizione si ritrova anche nel Salento, a Manduria, la patria del Primitivo. Qui si faceva nel seguente modo: “L'acquata si ricavava togliendo la pasta dell'uva dalla furata (torchio) dopo la spremitura. Tale pasta veniva stesa per terra annaffiandola abbondantemente e lasciata riposare per qualche ora; veniva poi rimessa nel torchio per una nuova spremitura, ottenendone così un succo simile al vino che però doveva essere bevuto in breve tempo, altrimenti si alterava e diveniva imbevibile. Lu monuchu si produceva dopo la fermentazione, nel periodo in cui si trasferiva il vino da un contenitore all'altro (si travasaunu li capasuni).” Così riferisce Pasquale Piccini dal sito web Manduria. Dal Sub-Appennino, al Gargano, al Salento. Una tradizione solo pugliese? No. La troviamo anche in Ciociaria, a Patrica, dove, più furbi di noi, in ottobre ci fanno anche una sagra: “Sagra dull'acquata i dulla callarosta" . Nata nel 1968, si festeggia abitualmente nella II o III domenica di ottobre. Insieme alle castagne arrostite (le famose "Camiselle") viene offerto del vinello dolce e frizzante (l'acquata), il tutto accompagnato da attività folcloristiche (balli, giochi popolari, spazi dedicati alla poesia dialettale e al teatro popolare). L'iniziativa è organizzata dalla Pro Loco di Patrica con il patrocinio della Regione Lazio e della XXI Comunità Montana. Anche qui la fanno aggiungendo acqua (addirittura 3 parti) alla vinaccia torchiata.


In alcune zone d'Italia, in Emilia per la precisione, in passato si faceva qualcosa di simile: il cosiddetto"puntalone". Tratto il mosto dalle vinacce, rimanevano appunto queste nel tino. Si ponevano quindi alcune assi sulle stesse, a mo' di pressa; quindi si applicava un palo tra il soffitto e le assi in modo da creare pressione sufficiente. Si aggiungeva allora, qualche secchio d'acqua al giorno, acqua che filtrando per le vinacce fresche palesava senza pretese, il gusto di vino. Nella zona di Forlì e di Cesena viene chiamata mezzovino o "acquadez". Nel Veneto, veniva usata la vinaccia dell’uva che si faceva appassire per poi produrre l’Amarone e se ne ricavava "el vin picolo" che già quello ai tempi era un piccolo lusso. Chi non poteva permetterselo usava la vinaccia dell’uva "normale"cioè quella pigiata subito dopo la raccolta ricavando la "graspia". Quest’ultima, vista la misera gradazione alcolica, andava consumata subito, mentre "el vin picolo" si poteva consumava col tempo perché la gradazione era già più consistente. Certamente una tradizione legata al mondo contadino e alla civiltà mediterranea, che non sprecava nulla e utilizzava tutto fino all’ultimo. Il vino buono veniva venduto “ a li signur”, il contadino si accontentava dell’acquata, un sotto prodotto del vino, di bassa gradazione, ma piacevole a bersi. Che si poteva bere anche nella sosta durante il lavoro nei campi. Accompagnare la colazione con un vino poco alcolico era necessario per restare lucidi e ben saldi sulle gambe. Mia madre, che aveva un vigna nel “Pianello”, proprio sotto il “Villino Chiappinelli”, vigna che divideva con “nu parziunale” , Gennarine (come dimenticarlo!), voleva che si facesse ogni anno. Era buonissima, frizzante, dolce e soprattutto era già pronta ai primi di novembre, tant’è la chiamava “lu vin de li muort”. A mio padre non piaceva, ma a lui non piacevano tutte le cose dolci. Purtroppo, Gennarino dovette partire per la Germania. Erano i primi anni sessanta, quando tantissimi compaesani decisero, loro malgrado, di lasciare Bovino per un futuro migliore. E così niente più acquata. Io l’ho rifatta lo scorso anno. E’ venuta buonissima, tant’è che in famiglia per due mesi, novembre e dicembre, non si è bevuto altro. Oggi, che io sappia, a Bovino non si fa più. Né sono a conoscenza se si faccia ancora nella nostra “Puglia Petrosa”. Un’altra tradizione che si è perduta, ma che è necessario recuperare, valorizzare e soprattutto far conoscere ai giovani, nella speranza che potrebbero limitare il consumo di birra e di alcol a favore di qualcosa di più naturale.


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