Offset Magazine nr 10

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Offset Magazine nr. 10 - Prodotto autoctono trentino stranamente gratuito e forse per questo poco serio

la musica che c’è!


PROGETTO REALIZZATO CON IL SOSTEGNO DI:

OFFSET MAGAZINE: Viale Trento 47/49 38068 Rovereto (TN) www.offsetmagazine.it info@offsetmagazine.it Editore: Leonardo Menegoni Direttore Responsabile: Roberto Vivaldelli Caporedattore: Elia Bona Redazione: Sara Vicenzi Francesco Frizzera Giulio Bazzanella Janis Bortolotti Gabriele Penazzi

Marcello Orlandi Emanuele Massa Marco Galvagni Alice Leonardi Tiziano Grottolo Gioele Maiorca Andrea Michele Porzio Valeria Marchiori Luca Zaniboni Agnese Colasanti Adriano Cataldo Anna Viganò Ludovico Fiamozzi Progetto grafico: Officina di Vì - Victoria De Biasi Illustrazioni: Victoria De Biasi Giovanni “Pandispagna” Morghen

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Inserto staccabile: Giovanni Pandispagna Morghen Stampato da: Festini S.N.C. Hanno collaborato a questo numero: Tito Gironzolato, Dye Joel, La Nonna Offset Magazine: Registr. Tribunale di Rovereto n.2/17 del 20-02-17


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Editoriale Lo Storione Omnia Sunt Communia - La Rivoluzione Prima di Lenin Musica Recensione dell’Amico - uSSSy / Voyage Sotto il Sole del Bondone: Le Inchieste di Thegiornalaio Non è Roba per Vecchi Speciale La Musica Che C’è! Cose a Caso Il Piano D Cavoli a Merenda, Capre a Colazione È Finito il Pane, Miseriaccia! Oroscopo Binario

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editoriale

Cicerone diceva che Una vita senza musica è come un corpo senz’anima

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giusto qualche migliaio di anni dopo un certo Friedrich Nietzsche ancora sosteneva che “La vita senza la musica sarebbe un errore”. Ma che cosa è la musica? E sopratutto, a cosa serve? Se ci pensate bene, la musica non ha uno scopo ben preciso, e al contempo ne ha tantissimi. Come scriveva Nick Hornby, giusto perché oggi siamo in vena di citazioni: “La musica ha un grande potere: ti riporta indietro nel momento stesso in cui ti porta avanti, così che provi, contemporaneamente, nostalgia e speranza”. La musica va a braccetto con l’emozione, è catalizzatore del sentimento e, sempre continuando con le citazioni che ci fanno sembrare intelligenti, “La musica è il mediatore tra lo spirituale e la vita sensuale”, chiamando in causa uno che di musica ne sapeva giusto un paio di cose come Ludwig van Beethoven.

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editoriale La musica sembra quindi qualcosa di molto forte e, seppur spesso ben scandita da “regole” o quantomeno convenzioni, resta pur sempre un problema escatologico, o per usare una terminologia più terra-terra e molto probabilmente più corretta (perdonatemi studiosi di filosofia): che ce ne facciamo della musica? Questo cruccio se lo poneva probabilmente anche uno che di studio dell’essere umano ne aveva fatto una ragione di vita, come Darwin (e con questa chiudiamo con le citazioni, promesso): ”La musica è tra i doni più misteriosi di cui sono dotati gli esseri umani”. Molto probabilmente il nostro Charles una risposta non se l’è mai riuscita a dare, visto che ad oggi abbiamo migliaia di studi antropologici sul significato della musica. Addirittura esiste una recente disciplina scientifica chiamata “biomusicologia” che studia la musicalità nelle altre specie per cercare di comprendere meglio la nostra. Per spiegarvela meglio: c’è della gente che fa ascoltare alle capre musica classica o cerca di far ballare i leoni marini. Bello, no? A questo punto vi chiederete “Ma con tutto sto pippone dove vuole andare a parare?” La risposta è semplice:

restavano le pagine dispari e non si poteva andare in stampa... nooooo, che vi credete? Ci sembrava giusto porre una riflessione sul senso della musica ad oggi, dove siamo continuamente bombardati da questo media: alla radio, alla TV, in ascensore, sul cellulare, sul computer, dal dentista, quando quei simpaticoni dei call center ci mettono in attesa. La musica è diventata un riempimento per colmare il vuoto che c’è nel mondo (e qui vi evito un’altra bellissima citazione) e forse abbiamo iniziato a non darle più il valore che si merita. O forse sono i tempi che sono cambiati. Tutto molto più fluido, veloce, dinamico, come i gusti e le tecniche di fruizione; forse ci siamo stufati dei concerti, del dover uscire di casa al freddo e dell’obbligo di socializzare, preferendo starcene a casa sotto la coperta ad ascoltare la musica in streaming con Spotify ancora crackato alla faccia di chi ci vuole poveri. Forse siamo noi che siamo vecchi e ci stiamo perdendo il mondo che va avanti. Se questo fosse il caso, chiedo gentilmente a voi giovani di provare un po’ di compassione per questi vecchietti che a questo antico sogno di fare i concerti ancora ci credono.

ma com’è che con tutta sta menata sull’importanza della musica, ai concerti in zona siamo sempre i soliti quattro str***i? Questo il motivo per cui a sto giro l’editoriale vuole espandersi e rubare spazio, non solo perché altrimenti ci

Almeno a quelli gratis. Che vi costa dare un po’ di soddisfazione a chi in “quel senso di musica” ancora ci crede? Che poi, suvvia! Magari vi dice pure bene e trovate anche da scopare. O riuscite a fare in streaming anche quello?

Cordialmente vostro, Leonardo Menegoni Incauto Presidente di Associazione Offset & Bistrattato Editore di Offset Magazine

Per messaggi di amore e odio o atti di folle beneficenza scrivete pure a info@offsetmagazine.it

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“Lo Storione è la miglior rubrica dell’ Offset Magazine fatta eccezione per tutte le alt re” Winston Churchill

Omnia sunt communia La Rivoluzione prima di Lenin

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mnia sunt communia” gridavano i contadini di Thomas Müntzer che misero a ferro e fuoco la Germania del XVI secolo. “Tutto è di tutti”: al sentire queste parole i ricchi principi tedeschi non potevano che cagarsi sotto e correre a nascondersi nei loro castelli. Siamo nella prima metà del 1500 e da alcuni anni le famose tesi di Martin Lutero avevano preso a circolare per l’Europa dando il via allo scisma protestante. Questa però non fu l’unica conseguenza dello scisma: masse di umili, contadini, artigiani e lavoratori urbani videro in quella che passò alla storia come Riforma protestante l’occasione per riscattarsi dalle loro miserie, e al grido di “Omnia sunt communia” iniziarono una rivolta che rischiò di sovvertire l’ordine sociale ben prima dell’avvento del comunismo.

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«Che ragione c’è di mostrare clemenza ai contadini? Se ci sono innocenti in mezzo a loro, Dio saprà bene proteggerli e salvarli. Se Dio non li salva vuol dire che sono criminali. Ritengo che sia meglio uccidere dei contadini che i principi e i magistrati, poiché i contadini prendono la spada senza l’autorità divina. Nessuna misericordia, nessuna pazienza verso i contadini, solo ira e indignazione, di Dio e degli uomini. Il momento è talmente eccezionale che un principe può, spargendo sangue, guadagnarsi il cielo. Perciò cari signori sterminate, scannate, strangolate, e chi ha potere lo usi». Tratto da “Esortazione alla pace a proposito dei dodici articoli dei contadini di Svevia” di Martin Lutero (1525) che, per inciso, per salvarsi il culo voltò le spalle ai rivoltosi e si schierò con i principi tedeschi.

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Questa rivolta, meglio nota come “Guerra contadina”, tra il 1524 e il 1526 mise a soqquadro l’intera Germania meridionale, trovando il suo tragico epilogo nella battaglia di Frankenhausen, in Turingia, dove l’esercito contadino venne sconfitto dai mercenari assoldati dai principi tedeschi. La rivolta arrivò a lambire anche Alto Adige e Trentino, al tempo Tirolo, trovando nella figura di Michael Gaismair il suo indomito condottiero. Sulle origini di Gaismair non sappiamo molto, probabilmente nacque nel 1490 vicino a Vipiteno da una famiglia benestante e ricevette una buona istruzione di stampo umanistico che gli permise di ricoprire importanti incarichi isti-

tuzionali. Divenne persino segretario del principe vescovo di Bressanone, Sebastian Sprenz. Il 12 maggio 1525, durante l’assalto all’abazia di Novacella, Michael Gaismair venne eletto dai contadini ribelli loro comandante. In un primo momento Gaismair tentò la mediazione fra i rivoltosi e l’arciduca Ferdinando, ma convinto a recarsi ad Innsbruck venne qui arrestato con l’inganno. Senza la loro guida i contadini vennero facilmente sbaragliati dalle armate imperiali. Fuggito da Innsbruck il nostro si rifugiò in Svizzera dove, assieme a Huldrych Zwingli, teologo e riformatore di Zurigo, elaborò un piano per la conquista militare del Tirolo. Ma non solo, nei territori tirolesi

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avrebbe dovuto insediarsi una repubblica popolare con l’obiettivo di costituire una comunità paritaria senza servi né padroni puntando anche all’abolizione della proprietà privata.

«[…]Quarto, tutti i privilegi devono essere aboliti, perché sono contro la parola di Dio e falsificano il diritto, e perché nessuno deve godere di vantaggi rispetto agli altri». Michael Gaismair, “L’ordinamento regionale del Tirolo” (1526) I tempi però non erano più propizi; le rivolte contadine furono soppresse nel sangue e gli Asburgo, dopo le prime batoste, riuscirono a riorganizzarsi, mettendo inoltre una taglia


enorme sulla testa di Gaismair. Il tentativo di invasione del Tirolo naufragò definitivamente nel maggio del 1526 e il condottiero tirolese assieme a circa 2000 contadini ribelli fu costretto a fuggire nei territori veneziani, dove peraltro riuscì a farli arruolare fra i contingenti della Serenissima. Tra le sue imprese per conto di Venezia va ricordato il vittorioso assalto alla piazzaforte di Cremona.

Per approfondire questa tematica consiglio vivamente la lettura del romanzo storico “Q” scritto nel 1999 dal collettivo di Luther Blissett; da una delle sue costole nacque il collettivo di scrittori attualmente in attività “Wu Ming”.

Quando nel 1528 si ritirò dal servizio militare acquistò, per sé e la sua famiglia, una tenuta nei pressi di Padova dove poteva mantenersi grazie ad una pensione annua di 300 ducati d’oro. I suoi nemici però non si erano dimenticati di lui: il 15 aprile 1532 venne assassinato da due sicari probabilmente inviati dalla famiglia imperiale degli Asburgo che non aveva scordato l’onta subita alcuni anni prima.

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di Tito Gironzolato


Recensioni dell’Amico

album del mese

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voyage

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ussi medio-orientali! Con questa esclamazione potrei finire così la recensione e ricominciare a fare il mio lavoro (ovvero poltrire), ma non è questo il giorno! *1 Voglio parlare di una band “particolare”, di un duo per essere precisi...

ISTANBUL, IN UN NEGOZIO DI MUSICA: D) Allora hai deciso che strumento prendere? B) Sì, alla fine prendo un Saz elettrico *2. D) Ci sta, quanto vai a spendere? B) Al cambio sono circa 500 euro, ora devo trovare un modo per aggirare la dogana (non fatelo a casa, è illegale), poi quando sarò diventato abbastanza bravo con lo strumento modicherò la mia chitarra e la farò diventare microtonale *3. D) Alla fine ti allenerai sui pezzi degli uSSSy *4? B) Direi di sì, essendo che la maggior parte dei loro pezzi rispetta lo standard turco. Poi mi divertirò un sacco a fare pezzi come Unicorn Seeking Pastures *5, madò che figata! D) Alla fine hai ascoltato il loro ultimo album? B) Sì, i suoni sono più curati rispetto agli altri album, inoltre hanno aggiunto più chitarre e il basso, ma non so. Sicuramente c’è una certa ripetitività, anche se penso comunque che quest’album sia il migliore della band.

D) Direi che è normale, loro ragionano su una base di musica e scale medio-orientali con una aggiunta di stoner e noise. Se prendiamo ad esempio Brendan Byrnes *6, lui compone principalmente come un occidentale, solo che usa note microtonali. B) Beh, effettivamente non hai tutti i torti. Ascolta, intanto io vado a pagare, aspettami fuori che dopo ci spacchiamo di kebab. D) Non aspettavo altro.

(D) Dye Joel (B ) Boyan

*1 Citazione de Il Signore degli Anelli. *2 Il Saz (oppure Baglama) è uno strumento musicale microtonale tipico del Medio Oriente. *3 In parole estremamente povere è un tipo di composizione (principalmente medio-orientale ed orientale) dove esistono altre note rispetto a quelle classiche occidentali. *4 uSSSy, band formatasi nel 2007 a Mosca, composta da tre componenti ma poi scissa in due. *5 Pezzo del loro settimo album, Afghan Musci Home Party.

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Recensioni dell’Amico *6 *7

Brendan Byrnes, compositore statunitense microtonale. Nono album in studio dei King Gizzard & The Lizard Wizard.

CONCLUSIONI: Il fatto è che dopo il successo di Flying Microtonal Banana *7 dell’anno scorso la gente che, nel bene e nel male, non conosceva questo tipo d’approccio musicale, sta cominciando ora ad interessarsene, alimentando la scena microtonale occidentale che, piano piano, sta facendo germogliare nuovi compositori. Naturalmente la scena esisteva già ma c’era (e c’è) davvero poco perché è di nicchia, anche se potrebbe esserci una prospettiva rosea.

Intanto band come gli uSSSy sono una delle poche scelte nella musica microtonale occidentale che possono fare la differenza. Cosa succede ora? Beh, provate ad ascoltare questo tipo di musica, le strade possono essere essenzialmente due: che ve ne innamoriate perdutamente oppure che la schifate completamente con una piccola (anzi, micro) possibilità che in un futuro possiate riprendere il mano la microtonalità.

dove e come ascoltarlo

PEZZi MIGLIORi

Fumando il narghilè Meditando oppure contemplando Quando si è in viaggio verso il Medio Oriente

African Rock Elephants Riots Copper Tongue Western Clay Bar

ti piacciono i crack Cloud? ascoltati anche:

Brendan Byrnes | Tolgahan Çogulu | Asık Veysel Harry Partch | Sevish | John Schneider

Band

uSSSy

Album

Voyage

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Data d’Uscita

04/05/2018

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Album Prodotti EP Prodotti


Sotto il Sole del Bondone: Le Inchieste di Thegiornalaio

non è roba per vecchi Intervista a Tiziano Leonardi

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rmai viaggiare è una cosa piuttosto comune. C’è chi viaggia per piacere, chi viaggia per lavoro, chi viaggia per piacere ma perché deve e chi viaggia per dovere ma in fondo gli piace. Alcuni non si muovono più di qualche chilometro, altri si spingono qualche centinaio più in là. Altri ancora arrivano tranquillamente dall’altra parte del mondo. Ad ogni modo, ormai capita quasi tutte le settimane, se non tutti i giorni, che qualcuno ti racconti del suo viaggio. Ormai è comune. Il mondo, purtroppo e per fortuna, è molto più piccolo di quanto pensavamo. E non ci sono più gli esploratori di una volta, intendo i Cristoforo Colombo o i Ferdinando Magellano o Marco Polo. Anche attraversare l’Atlantico è relativamente semplice. In 7-8 ore sei lì. Ogni tanto, però, capita di imbattersi in qualcuno con una storia più interessante delle altre. Qualcuno che, forse per indole, forse per personalità, o forse per il motivo per il quale ha deciso di viaggiare, ti ricorda ancora un esploratore del passato,

con un viaggio che è anche un viaggio dentro sé stesso, e dentro il suo, di passato. Conobbi Tiziano Lonardi su un set cinematografico, qualche anno fa. Entrambi facevamo le comparse in “Romeo e Giulietta”, quello girato in Trentino da noaltri. Abbiamo poi avuto altre occasioni di vederci e collaborare. È stato ad aprile di quest’anno che mi ha detto “tra poco più di un mese parto, vado negli Stati Uniti a fare il viaggio che non ho potuto fare 50 anni fa”. Voi capite che già con un incipit del genere la storia non poteva non essere interessante! Tiziano aveva un sogno 50 anni fa. 50 anni fa non ha potuto coronarlo. Immaginatevi le differenze tra allora e oggi. Immaginatevi solo quanto poteva essere complicato, rispetto ad adesso, procurarsi un visto. Ora vai online, compili qualche pagina e parti (a meno che tu non sia stato in Iran ovviamente!). Tutto questo mi ha colpito per-

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Sotto il Sole del Bondone: Le Inchieste di Thegiornalaio

ché Tiziano non ha rinunciato al suo sogno, non si è arreso alle difficoltà. Ho quindi deciso di intervistare Tiziano, per farvi conoscere la sua storia, essenzialmente perché lo stimo, e perché mi piacerebbe che ognuno traesse spunto dalla sua determinazione. Tiziano è l’esempio vivente che “ogni lasciata è persa” non è una regola che vale nel 100 % dei casi, e può essere di esempio per tutti coloro che hanno, per qualche ragione, dovuto rinunciare a un sogno.

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1. Iniziamo; perché hai deciso di fare questo viaggio? 50 anni fa avevo letto “On the road” di Jack Kerouac. Mi sarebbe piaciuto farlo in autostop: ha sicuramente più fascino ed allora era possibile. 2. Che cosa ti ha impedito di fare quel viaggio, in quel momento? Il costo. Un viaggio negli USA costava l’equivalente di un anno di paga di un operaio… adesso con meno di 350 euro arrivi lì. Non ce l’ho fatta allora, poi mi sono sposato, ho messo su famiglia, mi sono separato e fatto tanti lavori. Due anni fa però ho ricominciato ad informarmi ed un po’ alla volta ho creato un piano, un itinerario.

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Sotto il Sole del Bondone: Le Inchieste di Thegiornalaio Tiziano alla Monument Valley. La foto per lui più rappresentativa del viaggio.

3. Ti farò una domanda banale. Descrivimi brevemente qual è stato il tuo itinerario e come è stato il tuo stile di viaggio. Hai programmato tutto o hai improvvisato? Sono atterrato a New York. L’idea iniziale era fare l’intera tratta fino a Los Angeles in bus. Poi ho cambiato idea, decidendo di andare in volo fino a St. Louis, un tempo punto di partenza per il Far West, e poi arrivare in pullman a San Francisco, così da vedere la parte più “wild”. Da St. Louis ho attraversato, di giorno e di notte, Missouri, Oklahoma, Texas e New Mexico, arrivando infine a Flagstaff (Arizona). Lì mi sono fermato tre giorni, utilizzandola come punto di partenza per vedere la Monument Valley e il Grand

Canyon. Poi ho fatto Las Vegas e sono volato a Denver. Da lì, con un treno, ho attraversato le Montagne Rocciose e la Sierra Nevada arrivando poi a San Francisco. Poi, da Los Angeles, sono volato a Toronto, da lì ho visitato le Cascate del Niagara e sono tornato a New York in bus. Non avevo mai fatto un viaggio del genere: né così lungo in termini di chilometri, né così lontano. Il tutto è durato tre settimane. Ho deciso di programmare tutto a puntino, e prenotare tutto quello che potevo da qui, nei minimi dettagli. 4. Un bel viaggio, affrontato completamente da solo. Cosa significa viaggiare da soli per te? Avevi già viaggiato da solo prima? Che consigli hai per chi ha paura di viaggiare da solo?

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Varie volte. Da ragazzo ad esempio avevo fatto tutta l’Europa da solo, in autostop. Allora è successo banalmente perché non avevo trovato nessuno per accompagnarmi. Mi è piaciuto. Quando si è in tanti si creano situazioni spiacevoli: se si hanno idee di viaggio diverse si crea del nervosismo e si litiga. Al limite si può andare in due, ma bisogna essere molto affiatati. Se uno ha paura di viaggiare solo, non esistono consigli seri e non banali, è una cosa che dipende da come sei fatto.

tutto il mondo. Credo che la pizza sia il cibo più diffuso, anche se spesso fatta con ingredienti poco ortodossi, tipo ketchup. Ho mangiato tanti hamburger e tanti hot dog, ed ho trovato il primo supermercato normale con frutta e verdura a New York, al ritorno… mi ha colpito moltissimo la quantità di obesi presenti.

5. Avevi paura prima di partire? Le tue paure sono state smentite o si sono confermate?

La differenza principale sarebbe stata il mezzo. 50 anni fa avrei utilizzato l’autostop. Francamente a 68 sarebbe stato un po’ più difficile. Vedo che ora è una pratica non più usata nemmeno dai giovani. Nel dettaglio, mi immaginavo diversa Sausalito, oltre il Golden Gate. Ci sono andato per via di Kerouac, ma ora è diventata una sorta di Rimini. Anche Berkeley, dove sono stato come omaggio ai primi moti sessantottini. È comunque un luogo universitario molto bello, pieno di localini interessanti.

Molta. Avevo paura dell’incidente, che può essere inteso come stradale o fisico, ma anche in senso lato. Ad esempio a causa di un ritardo infinito della Greyhound (compagnia di pullman americana, NdR) ho perso il mio volo da Los Angeles a Toronto, e ho dovuto trovare una soluzione. Era mezzanotte, in un aeroporto immenso, ho dovuto destreggiarmi armeggiando con lo smartphone e con il mio inglese rudimentale. Però devo dire che me la sono cavata! Se hai un incidente in Europa sai che in qualche modo puoi tornare, lì è diverso. Il fatto di non poter comunicare, non sapendo la lingua, era piuttosto preoccupante per me. E poi banalmente avevo anche paura di affrontare un viaggio così lungo in aereo, temevo di stufarmi! In realtà è andata bene, al ritorno ho dormito tutto il tempo! Avevo anche paura di arrivare da solo in posti nuovi. Ad esempio sono arrivato a Las Vegas alle 2:00 di notte… ma devo dire che c’era più vita lì a quell’ora che in una qualsiasi sagra trentina in pieno giorno! (ride, NdR) 6. Qual è stato il luogo più spettacolare che hai visto, e quale invece ti ha deluso di più? La Monument Valley è incredibile, non ci sono aggettivi per descriverla. Ci arrivi dopo 300 km nel deserto, in una zona gestita dai Navajos, con baracche di legno e carcasse di automobili arrugginite lungo la strada… poi arrivi, ed improvvisamente ti si staglia davanti quello che per me è stato lo spettacolo più bello mai visto. Il mio errore è stato visitarla prima del Gran Canyon! Anche lì era fantastico, ma in confronto alla Monument Valley mi ha deluso! Anche le Cascate del Niagara… hanno un grande impatto, ma ci hanno costruito intorno una serie di complessi che rendono il luogo un misto tra Rimini e Las Vegas. Sono completamente fuori contesto. Mi ha colpito molto anche Alcatraz: dev’essere stata dura stare lì. 7. Come te la sei cavata con il cibo? Fortunatamente vado matto per il cinese… a parte gli scherzi, si trova anche roba buona perché ci sono cibi di

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8. Cosa ci sarebbe stato di diverso nel tuo viaggio se l’avessi fatto 50 anni fa?

9. Perché, secondo te, l’autostop non viene più utilizzato? Auto ormai accessibili facilmente anche ai più giovani, ma sicuramente anche maggior diffidenza da parte degli automobilisti. 10. Le persone più strane che hai incontrato o le situazioni più particolari che hai vissuto? Ce ne sono a bizzeffe! Prima di tutto, anche se non è strano, mi ricordo un filippino che era con me alla Monument Valley, che era stato a Riva del Garda e a Malcesine, mio paese d’origine! Poi c’era un ragazzo particolare, che a Flagstaff mi ha chiesto una sigaretta che poi ha rifiutato quando gli ho offerto il tabacco per rollare. L’ho poi rivisto camminare solo a Las Vegas, vestito non troppo dismesso, ma aveva un sacchetto di nylon come bagaglio. Mi ha ricordato “Un uomo da marciapiede”, il film con Dustin Hoffman e John Voight. 11. Per chiudere... secondo te, cosa può insegnare a livello personale viaggiare in luoghi diversi e/o per lunghi periodi di tempo? Ovviamente, viaggiare, girare, vedere e conoscere gente nuova di usanze, religioni e colori diversi è un bel sistema per riuscire a socializzare. Credo che tanti conflitti che conosciamo oggi anche qui non dovrebbero esistere. Sarà un po’ banale, ma credo che questo valesse 50 anni fa e valga anche oggi, tanto più essendoci la possibilità per i giovani di viaggiare anche a costi più contenuti. Il viaggio è stato molto impegnativo, considerato che ho 68 anni e ho una conoscenza molto limitata della lingua inglese. Un paio di

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Sotto il Sole del Bondone: Le Inchieste di Thegiornalaio volte mi sono sentito scoraggiato. Magari l’anno prossimo farò un viaggio organizzato dal Circolo Pensionati di Lizzana, le due settimane alla Pensione Miramare di Rimini… ma non credo! 12. Qualcosa che vuoi aggiungere? Mi piacerebbe lasciare la mia email, tizianogato@live.it. Darò volentieri consigli a chi, giovane e giovane dentro, vorrà buttarsi in un viaggio simile. Non è roba per vecchi!

E io vi consiglio di contattarlo. Ho riassunto qui una chiacchierata di più di due ore, che sarei rimasto ad ascoltare ancora di più!

di Luca Zaniboni

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la musica che c’è! T

errific è una parola inglese che in italiano può essere tradotta con “magnifico”, “formidabile”, “straordinario”. È un falso amico, come si suol dire, ma è anche la parola che vorrei usare per descrivere il lavoro artistico di Christophe Chassol. Nato a Parigi, Chassol è un musicista, compositore di colonne sonore, arrangiatore e direttore musicale, la cui ricerca spazia tra minimalismo, jazz, elettronica, pop, rap, folk, world music. Il suo genere è l’ultrascore, come lui stesso l’ha definito, un modo per harmoniser le réel, armonizzare il reale. In pratica Christophe Chassol, nella sua trilogia Nola Cherie, Indiamore e Big Sun, ha registrato momenti, suoni, rumori, li ha rielaborati nella sua casa-studio e li ha montati insiemea immagini trasmesse in loop. Ha raccontato storie che accorciano le distanze tra l’ordinario e l’insolito, così allo spettatore capita di veder sonorizzato un uomo della Martinica che imita il canto degli uccelli o un gruppo di persone che ballano durante una festa popolare. Terrific, per l’appunto. Chassol ha suonato anche a Rovereto, lo scorso maggio, in un concerto inserito nella rassegna Jazz’About. Ho parlato di lui, ma potrei benissimo raccontarvi di quella volta in cui Lee Ranaldo (ex Sonic Youth) è stato a Trento grazie a Transiti o dei Visibile Cloaks a Rovereto con Musica Macchina. Tutte e tre sono rassegne musicali organizzate dal Centro

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Servizi Culturali Santa Chiara, tutte e tre sono giunte alla loro quarta edizione portando ogni anno nei nostri teatri artisti di grande calibro. Ho incontrato Alberto Campo, Denis Longhi e Marco Segabinazzi, rispettivamente direttori artistici di Transiti, Jazz’About e Musica Macchina, e insieme vi spieghiamo perché dovete smetterla di dire che in Trentino non succede mai niente. 1) Qual è il filo conduttore che unisce gli appuntamenti della rassegna? Perché si è deciso di chiamarla così? Alberto Campo: L’idea di Transiti allude, come specifica il sottotitolo, alle “musiche in movimento”, sia in senso culturale (disposte cioè a trasformarsi attraverso l’incontro con altri suoni e linguaggi) sia in termini geografici (nel senso del nomadismo fisico e mentale). Diciamo musiche disposte a mettersi in discussione. Dunque il filo conduttore della rassegna non riguarda le questioni stilistiche, bensì l’attitudine che muove gli artisti. Ragion per cui, volendo stare a questa edizione, nel programma possono convivere un pianista quasi classico qual è Lubomyr Melnyk e una band sfacciatamente pop come i Nouvelle Vague, passando da un rumorista del sassofono (Colin Stetson), una cantautrice apolide (Bedouine) e il padre fondatore del minimalismo (Terry Riley).

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Denis Longhi: Il naming Jazz’About serve un po’ a dissacrare l’immagine colta e verticale che siamo abituati ad associare al termine jazz. Questo pressapochismo (all’incirca, grossomodo) del vocabolo “about” mi ha aiutato a prendere le distanze in modo informale dalla spesso stucchevole considerazione di cui godono le programmazioni e le curatele jazz tout-court. Con Jazz’About siamo riusciti ad attraversare i confini canonizzati, sia in termini di linguaggio che di espressione, e soprattutto è stato centrato l’obiettivo indispensabile dell’audience development. Siamo passati dall’Africa alle Americhe, dall’Europa ai Paesi dell’Est raccontando un suono universale che attinge un po’ dalla tradizione e un po’ dal futuro prossimo. Marco Segabinazzi: Parto da lontano: formalmente, Musica Macchina è la rassegna di musica classica contemporanea del Centro Santa Chiara. Nelle sue prime tre edizioni curate da Daniele Spini ha offerto una panoramica di quelle esperienze, nell’ambito della classica contemporanea, in cui l’elemento tecnologico (di qui il titolo della rassegna) assume un ruolo determinante – nella composizione come nell’esecuzione – con tutti gli spunti per una riflessione sulle implicazioni legate al rapporto tra l’uomo e la tecnologia che ne possono conseguire. Con questa edizione si è cercato di aprire maggiormente ai linguaggi di certa sperimen-

tazione sonora, includendo anche artisti e progetti che non sempre trovano spazio in una convenzionale programmazione di classica contemporanea. Questo è sicuramente il riflesso della mia personale formazione – Sche non definirei classica – ma anche dell’intenzione di trovare punti di contatto tra “mondi sonori” che raramente vengono a confronto. L’impronta curatoriale che ho cercato di dare a questa edizione è quella di un dialogo implicito tra passato (concentrando l’attenzione su alcuni momenti che hanno segnato la storia della ricerca sonora, indicativamente dalla metà del Novecento in poi) e presente/futuro prossimo (per esempio ciò che di tali esperienze di ricerca sonora è rimasto e come esse sono state incorporate in alcune delle manifestazioni più attuali). Credo che in alcuni appuntamenti della rassegna questa struttura teorica appaia più esplicita, in altri forse meno: per esempio, nel recente appuntamento sulla tape music e sull’uso della strumentazione analogica, con Valerio Tricoli, Panos Alexiadis e Giovanni Lami, mi è sembrata tutto sommato evidente. Il titolo Musica Macchina dunque esisteva già molto prima del mio arrivo, io l’ho per così dire ereditato e inevitabilmente ho dovuto tenere in considerazione l’impostazione programmatica che portava con sé: il che per me è stato tutto sommato un vantaggio, considerato quanto un vincolo possa al tempo stesso rappresentare uno stimolo in funzione creativa.

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2) In un festival musicale quanto è importante coinvolgere nomi importanti o piuttosto concentrarsi sui contenuti di qualità? Qual è il giusto equilibrio? AC: Transiti, come altre rassegne del Centro Santa Chiara, nasce da un finanziamento pubblico, ancorché indiretto. Ragion per cui lo scopo non è lavorare su artisti noti e di richiamo (compito che spetta agli organizzatori privati): si tratta piuttosto di suggerire ascolti differenziati, seminando anziché raccogliendo. Detto questo, per raggiungere un punto di equilibrio è comunque necessario calibrare con attenzione nomi affermati, benché “di culto”, e altri viceversa “di ricerca”. La qualità non viene mai meno, ma un po’ di quantità non guasta. DL: In queste quattro edizioni, riuscire a bilanciare un programma che contempli leggende che hanno fatto la storia della musica, headliner dell’attuale nuovo panorama jazz e artisti ancora sconosciuti in forte fase di ascesa, è stato il segreto per essere omnicomprensivi e trasversali, tenendo uno sguardo orizzontale nel qui e ora della contemporaneità. Credo che la mission che mi è stata affidata non sia costruire una cervellotica e autoreferenziale stagione per addetti ai lavori, ma costruire un racconto, una storia appetibile che susciti curiosità e interesse per avvicinare giovani, adulti e soprattutto nuovi pubblici che hanno sempre diffidato da proposte apparentemente troppo complesse o palesemente destinate a un pubblico di élite.

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MS: Sono convinto che una cosa non escluda l’altra. O, quantomeno, credo che questo sia un aspetto rilevante più per altre rassegne e festival che per il caso di Musica Macchina, che ha la caratteristica di essere una rassegna “specializzata” che si svolge in un contesto particolare come quello di un piccolo centro di provincia. Ovviamente ritengo che tutti gli artisti selezionati portino contenuti di qualità (altrimenti non li avrei selezionati), poi senz’altro accade che alcuni di essi siano percepiti come dei “nomi importanti”, per la loro storia o per un’attenzione mediatica di cui possono essere oggetto. Però bisogna anche considerare per chi possono essere importanti. Prendiamo ad esempio James Ferraro, che della selezione è forse l’artista più hyped, soprattutto in un certo ambiente: io lo seguo dai tempi di The Skaters e in passato ho fatto qualche centinaio di chilometri per andare a sentirlo, dunque a me e a parte della mia filter bubble in effetti può rappresentare un nome molto importante... ma ho il sospetto che per una consistente parte del pubblico che viene agli appuntamenti di Musica Macchina questo non sia poi così rilevante. Una delle soddisfazioni che si possono avere programmando musica di ricerca in un contesto di provincia è che non di rado si finisce per coinvolgere spettatori meno “ortodossi” ma comunque curiosi, che non sono necessariamente venuti apposta per sentire quell’artista e magari non sanno bene cosa aspettarsi dal-

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speciale

la performance. Avendo organizzato per anni concerti fra Trento e Rovereto, mi è capitato spesso di imbattermi in spettatori che prima del concerto sapevano poco o nulla di chi avrebbe suonato cosa, e alla fine della serata se ne sono tornati a casa con il disco dell’artista. Qualcosa di simile è accaduto anche nella data di novembre: al termine del live set di Valerio Tricoli non pochi spettatori si sono concentrati attorno alla sua postazione, affascinati dalla strumentazione e interessati a scambiare impressioni con lui. Non succede sempre, ma quando succede capisco che qualcosa ha funzionato. Tornando al discorso iniziale, se c’è un effetto incidentale che i cosiddetti nomi importanti possono avere su una rassegna come questa, è quello di attirare l’attenzione di un certo pubblico che è disposto a spostarsi da un’altra città o regione, il che è ovviamente molto positivo e fa parte degli obiettivi che ci siamo posti. 3) Riconosciuta l’importanza dell’ambiente architettonico nella veicolazione del suono, credi che le location presenti nella provincia di Trento siano già ottime o vadano valorizzate? AC: Trento mi pare molto ricca di luoghi per la musica, considerata la dimensione del comune. Dall’Auditorium Santa Chiara al Teatro Sociale, per gli spettacoli di maggiore prestigio, mentre il Sanbàpolis ha come valore aggiunto

la duttilità: può essere infatti piccolo teatro, locale da concerti e addirittura club (come abbiamo sperimentato, capovolgendolo, con Distretto 38). Una situazione invidiabile anche da città più grandi. DL: Credo migliori venue sul territorio italiano siano difficili da identificare. Il fatto di potere sviluppare questo progetto e i relativi concerti all’interno di strutture come il Mart, il Muse, il Teatro Sanbàpolis o l’Auditorium Santa Chiara è un privilegio assoluto; non si può fare altro che provare a rafforzare la sinergia tra contenuto e contenitore, giocando sulla magia e il connubio generati dalla complicità tra musica e immaginario architettonico. MS: Mi sembra che in Trentino le location “istituzionali” di buona qualità come teatri, auditorium e sale non manchino e che, almeno in passato, ci sia stata una disponibilità di spazi addirittura sovradimensionata rispetto a quella che era l’effettiva programmazione culturale (da questo punto di vista, ora il rapporto è sicuramente più equilibrato). Lo stesso auditorium Melotti, che ospita l’intera stagione di Musica Macchina, è senz’altro una bella sala, in un contesto affascinante come il polo culturale di corso Bettini. Anche se è significativo come per la nostra rassegna, in alcuni casi, ragionando insieme ai musicisti sul set-up, la scelta sia infine caduta sul decisamente più

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speciale piccolo e meno scenografico Basement del Melotti. Il che in realtà si spiega con il tipo di performance, che talvolta richiede una maggiore prossimità fra artista e pubblico e una dimensione estremamente immersiva dell’esperienza sonora, oltre alla necessità di pensare un set-up da zero, cose che sul palco di un auditorium vero e proprio non sempre sono possibili. Chiaramente non sarà così per tutta la rassegna, e per altre performance l’auditorium si è rivelato essere lo spazio ideale, però credo che questo rifletta l’inclinazione di un certo mondo della sperimentazione sonora a confrontarsi più facilmente con spazi non convenzionali, anche in ragione della dimensione site specific che caratterizza la ricerca di molti di questi artisti. Se ci penso, è un’inclinazione che coinvolge anche la mia sensibilità di organizzatore, dato che da sempre mi sento più a mio agio in location non convenzionali. Per qualche anno ho curato una rassegna di concerti che si tenevano in un vero e proprio ufficio: era una delle caratteristiche di quella rassegna, e prima dei concerti dovevamo proprio spostare le scrivanie e i computer per fare spazio all’impianto e alla strumentazione. Devo dire che in tutti i casi i musicisti coinvolti hanno accolto positivamente l’anomalia di uno spazio che non fosse pensato apposta come una venue. Ci sono poi location non convenzionali che esercitano un fascino particolare – come ad esempio le chiese, o le sale espositive di un museo – e che spesso risvegliano un grande interesse nel pubblico (e negli artisti) proprio in virtù di questa anomalia, e su questo tipo di soluzione, se si tratta di spazi che “suonano bene”, personalmente sono sempre ben disposto.

è più pronto di quanto non si creda, forse persino più dei promoter stessi... È un discorso che si collega a quanto detto poco fa sul profilo che il pubblico può assumere in un contesto come quello locale. Quando un evento richiama pochi spettatori la responsabilità è quasi sempre di chi organizza (non certo degli artisti o del pubblico stesso) e comunque, al di là della promozione del singolo evento, credo che molto dipenda dalla capacità dei promoter di costruire un pubblico specifico in situazioni dove un certo tipo di programmazione è finora mancato o non vi è stato con regolarità. È qualcosa che non si realizza in una sola rassegna e anzi, richiede anni di lavoro, ma che negli ultimi tempi abbiamo visto accadere in realtà locali non molto diverse dalla nostra.

4) Ultima ma non meno importante, il pubblico trentino è pronto per rassegne come Transiti/ Jazz’About/ Muisca Macchina?

di Valeria Marchiori

AC: Come dicevo prima, Transiti si prefigge l’obiettivo di seminare, creando un pubblico, più che di raccogliere l’esistente. Diciamo che, nell’arco delle tre stagioni precedenti, un suo pubblico la rassegna se l’è costruito e ha permesso ai frequentatori dei concerti di conoscere artisti che altrimenti difficilmente sarebbero arrivati in zona. DL: Dalla scorsa stagione posso rispondere con fermezza di sì. I sold out di Snarky Puppy, Jacob Collier, Thundercat o Bonobo, non sono assolutamente casi fortuiti. Il territorio ha metabolizzato la proposta e oggi il pubblico di Trento e Rovereto è l’arma in più della stagione Jazz’About. Vorrei ringraziare pubblicamente la “small crew” che mi segue costantemente, per la passione e la forza con cui mi hanno sostenuto e reso questa stagione un progetto virtuoso per il Centro Santa Chiara. MS: In realtà non sono così convinto che sia il pubblico a dover essere pronto. Peraltro non di rado si scopre che

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Cose a Caso

il piano d #10 OFFSET MAGAZINE

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Cose a Caso

Z

adie Smith divide gli scrittori in due grandi categorie. Da un lato ci sono i macropianificatori, cioè coloro che, onniscienti, sanno da cima a fondo l’intera architettura del romanzo ancor prima di scrivere una sola riga. Per loro non ha importanza scrivere l’inizio o la fine nell’ordine che sembra naturale, possono cominciare dove desiderano, sanno già tutto, le svolte, le descrizioni, il carattere dei personaggi. Tutto è studiato e analizzato nel minimo dettaglio, nulla uscirà dai piani prestabiliti. Poi ci sono i microgestori, cioè gli scrittori che impiegano tantissimo per iniziare a produrre qualcosa, che devono fermarsi a riordinare le idee confuse nella mente, che non sanno dove tutto andrà finire. La cosa bella – o brutta – è che i microgestori aspettano loro stessi di vedere la direzione che prenderanno le vite dei personaggi, li seguono rispettosi, soffrono e gioiscono con loro. Certo questa è una strada sconosciuta, non ancora tracciata, un’autostrada verso l’insicurezza. L’altra è una strada collaudata, solida, con numerose corsie larghe e rassicuranti. Alcuni preferiscono la prima, altri la seconda. Credo che questa semplice divisione possa applicarsi anche alla vita di tutti giorni, fuori dai rigidi confini letterari. Pensate di trovarvi a organizzare una ipotetica gita a Roma. Un gruppo di amici senza segni particolari. All’improvviso si creerà uno spartiacque netto tra due fazioni. C’è chi controllerà il meteo, scaricherà l’applicazione di Trenitalia per vedere gli eventuali ritardi, metterà già la mantellina nel già pronto zaino da almeno dieci giorni, conterà al centesimo i soldi da portare, stamperà gli itine-

rari culturali, spulcerà TripAdvisor per non essere fregati come sciocchi turisti. C’è chi invece sa che Roma è la capitale, che un giorno prima o poi si partirà, che una volta arrivati lì si vedrà che fare. Macropianificatori o microgestori? Quale la strada migliore? Non c’è una risposta giusta. Quel minimo di esperienza che ho mi ha insegnato che le divisioni non sono così nette. Il mio percorso è più o meno questo: nasco e cresco convinto microgestore, e lo rimango anche per i primi anni di università. Si tira a campare, si pensa ad arrivare indenni la sera, si cerca di raggiungere il massimo risultato oggi e domani si vedrà. Ma si cresce, le cose girano abbastanza bene, e ti trovi a pianificare sempre di più, a sapere cosa farai tra sei mesi, ad avere un’agenda. C’è un processo di avvicinamento alla macropianificazione. Hai in mente un piano A e almeno un piano B, sai che un passo alla volta ci puoi arrivare. Nonostante questo rimpiangi i vecchi momenti, provi nostalgia per l’inconcludente che eri e cerchi di salvare quel piccolo spazio di microgestione che rimane dentro te. Sperando inconsciamente che il piano A e il piano B falliscano, che si realizzi il piano D o il piano Q o chissà cosa. In cosa consiste il piano D? Non lo so, forse lo scoprirò, ma adesso non lo voglio sapere. So che è una strada ignota e complicata che il microgestore che sono vorrà percorrere.

di Ludovico Fiamozzi

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Cavoli a Merenda, Capre a Colazione

il pane è vecchio miseriaccia!

I

l nostro Prospago ha un problema. Una fidanzata invasata, ma non di scarpe, borse, gioielli Pandora. No, peggio: è una fan dell’ambiente, dell’attenzione agli sprechi, della raccolta differenziata... insomma di tutte quelle cose che al nostro protagonista non vengono mai in mente! Non perché non gliene freghi nulla. Per carità, tutti coscienti del cambiamento climatico in questa casa. Ma così, per pigrizia, per scarsa propensione alla faccenda. Ogni tanto scatta una lite sul cestino del residuo, sui sughi pronti in frigo (pasta, pasta e ancora pasta). E per uscirne vivo, Prospago la provoca nella speranza di imboccare l’affermazione perfetta per zittirla e riuscire ad andare in silenzio sul divano a nascondersi! Questa volta però si è dato la mazza sui piedi da solo. E mo’ gli tocca stare a guardare e preparare il suo stomaco a nuovi esperimenti culinari. Tentando di uscire dall’ennesima discussione, l’altro giorno ha osato dire “Beh, il pane vecchio però lo butti via anche tu!” Apriti cielo, non l’avesse mai fatto.

“Che cosa?! Adesso ti faccio vedere io cosa riesco a farci. E non aspettarti dei canederli!” (che di quelli è già pieno il freezer dato che sua madre ne produce in quantità industriali). Eh vabbè. Stavolta è andata male. E stiamo a vedere. Ha deciso di preparare una specie di torta salata. Come prima cosa si accende il forno. 180° e non pensiamoci più. Poi si mette una carota, una cipolla (gialla è meglio, ma non siamo razzisti in questa cucina) e del sedano, in un pentola con acqua leggermente salata e bollente. *1 Mentre le temibili verdure rilasciano il loro sapore, prendete del pane vecchio (raffermo è un termine troppo naif. Quel pane è vecchio, miseriaccia!) e tagliatelo a dadini. Tenete da una parte il “grattugiato”, ovvero le briciole che tagliando avrete sicuramente prodotto e sparso per tutto il tavolo della cucina. Una volta che il pane è finito, mettete tutto in una ciotola e versateci sopra il brodo, evitando di versare anche la carota, il sedano e la cipolla magari! Lasciate lì, coprendo la ciotola con un piatto (o della pellicola, ma ri-

Pane (rigorosamente) vecchio, circa 400 g 1 uovo 1 carota, 1 cipolla gialla,1 piede di sedano oppure 1 dado da brodo vegetale Scamorza q.b. Pancetta q.b. Olio, sale, pepe

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Cavoli a Merenda, Capre a Colazione

cordatevi che poi se la mangiano i delfini in qualche parte del mondo). Il pane si inzuppa e voi intanto preparate la parte gustosa. Perché alla fine è quello il segreto di queste ricette di “riuso”, infilarci dentro ingredienti gordi perché di base stiamo cenando con del pane vecchio. In questo caso, l’adorabile fidanzata ha optato per della pancetta e della scamorza. Prendete un piccolo pezzo di cipolla, versate dell’olio (poco!) in una padella. Quando sarà caldo *2 versateci la

cipolla e la pancetta e fate saltare, fino a che la pancetta non si sarà leggermente rosolata. Nel frattempo prendete la scamorza e tagliatela a fettine sottili. Le dosi? Semplice, guardate il vostro pane: che tipo di teglia pensate riuscirà a riempire? Ecco, a seconda della vostra valutazione tagliate abbastanza scamorza da fare uno strato nella teglia. Una volta che la scamorza è tagliata, la pancetta è rosolata e il forno è caldo, riprendete in mano il pane. Strizzatelo mettendolo un po’ alla volta nello scolapasta (e qui, alla

Piccolo glossario di sopravvivenza

*1 Tecnicamente stiamo facendo un semplice brodo vegetale. Se non avete tutta sta voglia potete anche prendere un dado vegetale e metterlo in acqua bollente. Forse è meglio!

*2 Aprite le narici bene bene. Sentite odore di olio? Bene, è caldo.

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*3 Sì lo so, avete le mani impiastricciate per bene. Quindi un piccolo consiglio: per livellare l’impasto bagnatele sotto il lavandino... vedrete che andrà meglio.


Cavoli a Merenda, Capre a Colazione

vista dello scolapasta Prospago si pente immensamente di aver sfidato la talentuosa ragazza) e rimettetelo nella ciotola. Aggiungete sale, pepe, la pancetta rosolata e un uovo. Impastate spatacciando le vostre manine nella ciotola e aggiungendo il pane “grattugiato” che avete tenuto da parte. Quando l’impasto sarà abbastanza compatto e asciutto avrete fatto. A questo punto prendete una tortiera seguendo le vostre valutazioni di quantità e ricopritela di carta forno. Preparate uno strato con circa metà dell’impa-

sto. *3 Una volta concluso il primo strato, stendete le fette di scamorza e ricoprite con l’impasto rimanente. Teglia in forno per circa un’oretta e poi è fatta. E sapete una cosa... è davvero buono!

Guten Appetit La Nonna

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Oroscopo Binario

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Oroscopo Binario

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