Provita Dicembre 2015

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Notizie

“nel nome di chi non può parlare” Anno IV | Rivista Mensile N. 36 - Dicembre 2015

Intervista a Elvira Parravicini

I figli piccoli, da Cronos a Gesù Bambino

POSTE ITALIANE S.p.A. | Spedizione in AP - D.L. 353/2003 | (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) | art. 1, comma 1, NE/PD | Autorizzazione Tribunale: BZ N6/03 dell’11/04/2003 | Contributo suggerito € 3,00

Padova CMP Restituzione

“Se non ritornerete come bambini. .”

NOTIZIE PROVITA AUGURA un santo Natale a tutti i lettori


Notizie

- Sommario Editoriale: “Se non ritornerete come bambini…”

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“nel nome di chi non può parlare” RIVISTA MENSILE

Lo sapevi che...

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Primo Piano I figli piccoli: da Cronos ad Abramo, sino a Gesù Bambino 11 Francesco Agnoli

Restituiamo le fiabe ai bambini 14 Claudia Cirami

I bambini del XXI secolo davanti alla TV

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Maria Elisa Scarcello

N. 36 - DICEMBRE 2015 Editore ProVita Onlus Sede legale: via della Cisterna, 29 38068 Rovereto (TN) Codice ROC 24182 Redazione Antonio Brandi, Alessandro Fiore, Andrea Giovanazzi Piazza Municipio 3 - 39040 Salorno (BZ) www.notizieprovita.it/contatti - Tel. 329 0349089 Direttore responsabile Antonio Brandi Direttore editoriale Francesca Romana Poleggi Direttore ProVita Onlus Andrea Giovanazzi

Attualità

Il destino di Frankenstein

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Andrea Giovanazzi

Un giorno in ospedale 9 Clara Echelle

Distribuzione MOPAK SRL, Via Prima Strada 66 - 35129 Padova

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Gian Paolo Babini

Il coraggio e la felicità

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Federico Catani

Courage International, il coraggio della verità

Impaginazione Francesca Gottardi - Massimo Festini Tipografia

Scienza e Morale Vedere il Bello dove gli altri vedono solo sofferenza

Grafica Copertina Francesca Gottardi

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Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero: Francesco Agnoli, Gian Paolo Babini , Federico Catani, Claudia Cirami, Clara Echelle, Vincenzo Franceschi, Andrea Giovanazzi, Maria Elisa Scarcello, Daniele Sebastianelli

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Daniele Sebastianelli

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Famiglia ed Economia Ludopatia: una malattia della società liquida Vincenzo Franceschi

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L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali, involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto. Fonte immagini: Freepik.com


Editoriale

Editoriale

Andiamo costruendo una società sempre meno a misura di bambino. Qualcuno parla di “adultocentrismo”. Anzitutto, in Italia mancano incentivi e tutele adeguate a chi ha figli, in contrasto con l’art.31 della Costituzione, secondo il quale la Repubblica dovrebbe sostenere la maternità, l’infanzia e la formazione della famiglia, con particolare riguardo a quella numerosa. Oggi, poi, si vorrebbe equiparare alla famiglia qualsiasi unione o gruppo di persone “perché basta l’amore”. Di conseguenza si pretenderebbe di far crescere “normalmente” i bambini in contesti “anormali”. Nella mentalità comune “fare” bambini (un tempo si diceva “avere” bambini…) è quasi una disgrazia, un impegno gravoso, la fine della vita libera e spensierata dei genitori, la fine dei viaggi, dei divertimenti e della carriera lavorativa. L’aria che respiriamo è infetta di egoismo e materialismo volto all’autodistruzione. Non a caso le donne hanno il primo figlio dopo i trent’anni, non a caso la crescita demografica nel nostro Paese è tra le più basse d’Europa. I bambini, del resto, sono le prime vittime della “cultura della morte”: uccisi dall’aborto, cosificati, selezionati, congelati con la fecondazione artificiale, sono i primi a soffrire per il divorzio, per le famiglie allargate e sfilacciate. Gli omosessualisti, poi, pretendono il “diritto” di deprivarli fin dalla nascita della mamma o del papà. Vengono corrotti e confusi da cattivi maestri (anche a scuola, ormai) e da spettacoli quotidiani intrisi di sesso e violenza: i contributi dell’AIART nelle pagine seguenti spiegano l’evidenza che è sotto gli occhi di tutti. L’ipersessualizzazione che caratterizza questa cultura mira a distruggere l’innocenza dei bambini, la loro dote più preziosa, con la quale essi, invece, sarebbero in grado di arricchire tutti noi, grandi e smaliziati. Sulla carta, anche a livello internazionale, si parla molto dei “diritti dei bambini”, ma poi la stessa ONU raccomanda “l’educazione” a preservativi e lubrificanti per i maschi… da 10 anni in su.

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“Se non ritornerete come bambini…”

Leggerete in queste pagine che il passaggio dalla barbarie alla civiltà è avvenuto di pari passo con la considerazione della dignità sociale dei piccoli. Oggi è invece in atto un’involuzione in senso contrario. La cultura della morte ha preso di mira i bambini: dobbiamo difenderli, tutti, siano essi oppure no legati a noi da vincoli di sangue. Bambini felici, bambini sani oggi, sono garanzia di una società sana e solida domani. La cultura “progressista”, viziata e contro natura che oggi domina l’Occidente, insegna che il senso della vita è il soddisfacimento degli istinti e dei desideri. In nome di questo, nulla è più inviolabile, i deboli soccombono, in primis i bambini. Questo accade perché si è perso il valore della sacralità della vita, senza se e senza ma. Eppure, non tutto è perduto: se il male fa notizia e - soprattutto - possiede la gestione dei canali d’informazione, nella realtà il Bene “resiste”: sia per la buona volontà dei singoli (leggete la testimonianza a pag.9), sia per l’attività di tante associazioni (oggi presentiamo Courage, a pag.25), sia per il lavoro di tanti che contemplano la bellezza della vita anche nel mistero del dolore (si veda a pag.20). Notizie ProVita non è una rivista per bambini. Ma in occasione del Santo Natale, vogliamo dedicare questo numero ai bambini. O meglio - copiando l’idea di Antoine de Saint-Exupéry - al bambino che è stato ciascuno dei nostri lettori. Perché “Tutti i grandi sono stati bambini, una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)”. Con un augurio speciale per il Santo Natale e per un felice 2016. Antonio Brandi


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Lo sapevi che... Non accontentiamoci dei proclami e della propaganda della dittatura di Pechino: cerchiamo di non abbandonare le donne della Cina, che continuano ad affrontare aborti forzati, e le bambine della Cina, che continuano a essere soppresse prima e dopo la nascita. La dittatura post comunista cinese, in nome del materialismo più radicale, non fa politica per l’uomo e continua a calpestare i diritti umani impunemente. Hanno annunciato il passaggio a due figli: è imposto per motivi economici. Ma indipendentemente dal numero di figli consentiti, le donne che restano incinta senza permesso saranno ancora trascinate fuori dalle loro case, legate, e costrette ad abortire. I nati maschi, in Cina, sono dai 160 ai 190 ogni 100 femmine: per questo ci sono circa 37 milioni di uomini cinesi che non potranno mai sposarsi. Perciò fiorisce il traffico di donne e la schiavitù sessuale… La politica del figlio unico non ha bisogno di essere modificata. Ha bisogno di essere abolita.

Che queste persone abbiano necessità di essere curate sembra un fatto abbastanza chiaro, ma sorge spontanea una domanda: queste persone sono malate nel corpo o sono malate nella mente?

In Spagna, dopo quattro giorni senza cibo e acqua la dodicenne Andrea Lago è morta all’ospedale di Santiago de Compostela. La ragazza aveva una malattia neurodegenerativa che le ha bloccato progressivamente gli arti. I genitori hanno chiesto ai giudici il permesso di “lasciarla morire dignitosamente”, nonostante l’opposizione dei medici: la ragazzina non provava alcun dolore. Ma la nuova legge della Galizia ammette la “sedazione terminale” - che in realtà è un “terminare sotto sedazione”: lasciar morire di fame e di sete una persona che da sola non può provvedere al proprio sostentamento è un omicidio bello e buono. Molto “buono”: perché per non far soffrire troppo il condannato gli si somministra una bella dose di sonnifero.

Il sindaco di Napoli ha trascritto l’atto di nascita di Ruben, un bambino che risulta figlio di due mamme (sposatesi in Spagna). Si sa: gli amministratori progressisti possono violare spudoratamente la legge, perché evidentemente loro sono “superiori”. Però: possono scriverlo nei registri dell’anagrafe, nei codici civili, sui passaporti, sui muri… possono anche far finta di crederci, ma è e resta una menzogna. Una sola è la madre di Ruben. Quella che l’ha tenuto in pancia per 9 mesi. L’altra gli vorrà bene come una mamma, ma non è e non sarà mai un’altra mamma: due mamme non esistono. Nella realtà, nella verità, la mamma è una e una sola. E da qualche parte ci sarà anche un padre, qualcuno che ha dato o venduto il seme da cui è nato il bambino. Un padre di cui Ruben è stato scientemente e volontariamente deprivato. Possono scrivere pure che ha 100 mamme: ma 100 mamme non faranno mai un papà.

Pare che sia aumentato del 500% il numero degli adolescenti transgender in Inghilterra: non sanno se sono maschi o femmine o qualcosa nel mezzo. Dai 139 casi del 2010 si è passati ai 697 del 2014, un aumento del 500%. Come si vede basta avviare una campagna di propaganda - insinuare dubbi e incertezze fin dai banchi di scuola - per ottenere subito i risultati. E, naturalmente, il SSN dovrà stanziare adeguati finanziamenti alla bisogna.

Cinque giudici del Consiglio di Stato hanno dichiarato illegittime le trascrizioni dei matrimoni gay che i sindaci più “moderni” facevano in barba alla legge e ai principi basilari dello Stato di diritto. Uno dei cinque, il giudice Deodato, è stato esposto alla gogna mediatica per essere cattolico e perciò omofobo. Tra le tante accuse ingiuriose che gli sono costate l’aver semplicemente applicato la legge, c’è anche quella (di Repubblica) di aver rilanciato un post “anti-gender” di ProVita. Siamo andati a vedere di quale post si trattasse. Si trattava della foto di un bimbo Down sorridente col cartello: “Buona Pasqua. La vita è il dono più grande”. Un post davvero antigender! Magari anche omofobo?

L’utero in affitto uccide. Nell’Idaho, una donna di nome Brooke, che ha affittato il suo utero per ben tre volte, è morta l’8 ottobre scorso portando in grembo due gemelli per una coppia spagnola. Ma i mass media non lo dicono.


Lo sapevi che...

Non sapremo mai quante donne, tra le vittime dell’iperstimolazione ovarica e quelle delle gravidanze artificiali andate male, rischiano la vita o muoiono a causa di questa pratica barbara. Infatti, mentre tutti invocano l’aborto, non solo legale, ma addirittura “obbligatorio” in qualsiasi momento della gravidanza per “salvare la donna”, sappiamo bene che quando il “contenuto” vale parecchi quattrini, il “contenitore” si può anche buttar via. Già è accaduto in India, a Premila Vaghela. Oggi accade in America. E – ripetiamo – purtroppo non sapremo mai quante volte è accaduto e quante volte ancora accadrà: in questo caso i soldi importano molto di più delle preoccupazioni per il “femminicidio”.

Ma quanti sono gli omosessuali in Italia? E quante coppie stabili omosessuali sono tarpate nel desiderio di far riconoscere allo Stato la loro unione? E quanti bambini che vivono con coppie omosessuali non possono vantarsi davanti agli ufficiali di stato civile dell’anagrafe di avere due mamme o due papà (il che comunque non sarà mai vero, anche quando diventasse legale)? A sentire l’Arcigay, gli omosessuali italiani sarebbero cinque o sei milioni. Secondo l’Istat gli omosessuali sono circa un milione, meno del 2% della popolazione italiana. I figli che vivono con coppia omogenitoriale secondo Arcigay sono centomila, secondo Arcilesbica sono duecentomila. Secondo l’Istat, in Italia esistono circa 13.997.000 coppie stabili. Sono coppie con o senza figli. Tra queste, le coppie composte da un uomo e da una donna sono 13.990.000. Le coppie dello stesso sesso certificate dal censimento 2011 sono 7.591. Di queste 7.591, una su 14 si occupa di uno o più minori figli di uno dei partner: i bambini e ragazzi che vivono con queste 7.591 coppie sono in tutto 529. La stragrande maggioranza di questi 529 bambini o ragazzi sono figli di un normalissimo rapporto tra un uomo e una donna, hanno anagraficamente una madre e un padre (separati).

Il ” genere neutro ” non esiste.

Possono scriverlo su tutti i documenti del mondo, ma resta sempre e solo uno “sbaglio della mente umana”. In Francia un signore di 65 anni ha ottenuto il diritto di essere riconosciuto nei documenti ufficiali come “intersesso”, un qualcosa che sta a metà tra il maschio e la femmina, il mitico androgino che periodicamente affiora in superficie pur non trovando alcuna conferma nella “evidence based science”. Era stato registrato come maschio

alla nascita, in quanto presentava una vagina rudimentale e un micropene in assenza di testicoli: una condizione che nel corso della vita gli aveva procurato non poche sofferenze.

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Ma se si fosse recato da uno specialista del settore avrebbe saputo ben presto di essere, in realtà, una femmina affetta dalla sindrome definita come “iperplasia surrenalica congenita”. Questa anomalia congenita attualmente può essere curata addirittura in utero e la bambina nasce con un apparato sessuale perfettamente femminilizzato. Qualcuno avverta i giudici francesi, e preventivamente anche quelli italiani, del fatto che la loro è stata solo un’esibizione di ignoranza con l’obiettivo di trovare una scusa giuridica per scardinare “l’antiquata” divisione binaria in maschi e femmine.

Per giustificare il macabro commercio di organi e di feti che è stato dimostrato dal giornalismo investigativo del CMP (potete vedere i video denuncia sul nostro portale web), la Planned Parenthood ha tentato la scusa che “è per il bene del progresso scientifico”, “è per salvare molte vite, per curare bambini malati…”. I fatti dimostrano, invece, che la ricerca non ha nessuna necessità di organi e tessuto fetale, né è riscontrato alcun successo terapeutico, quando i ricercatori usano organi o tessuti di bambini abortiti. Sia nel campo dei trapianti, sia nel campo dei vaccini, sia nel campo della ricerca biologica in genere, studi decennali dimostrano che il tessuto fetale e le cellule embrionali non servono proprio a niente. I risultati semmai si ottengono con le staminali adulte. Solo a una cosa, oggettiva e documentata, sappiamo che sono servite le cellule fetali commerciate da Planned Parenthood, finora: a essere trapiantate nei topi, per fare i ratti molto intelligenti.

La vignetta del mese

di Francesca Gottardi


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N. 36 - DICEMBRE 2015

Andrea Giovanazzi

Prolife per passione e per indole, essendo tra gli ultimi nati in una famiglia di circa un centinaio di parenti tra zii e cugini! : www.notizieprovita.it

Il destino di Frankenstein: tra letteratura e utopie scientifiche

E’ uscito un libro che pone serie questioni di bioetica, sul confine tra la scienza e l’hybris e che mette in luce la drammatica attualità del mostro di Mary Shelley. Abbiamo intervistato l’autore. di Andrea Giovanazzi Paolo Gulisano è medico e scrittore. Nel corso degli anni ha dato alle stampe libri su figure della cultura cristiana inglese come J.R.R. Tolkien, Chesterton, il Beato Newman e tanti altri, ma anche testi di storia della Medicina. Nelle librerie è appena uscita la sua ultima fatica, realizzata a quattro mani con l’anglista Annunziata Antonazzo, Il destino di Frankenstein (Editrice Ancora).

Gulisano, perché questo libro? Duecento anni fa una ragazza inglese poco più che ventenne, Mary Shelley, diede alle stampe un romanzo destinato a diventare una delle opere letterarie più singolari della Modernità: Frankenstein di Mary Shelley è il capostipite della letteratura dell’immaginario, dell’horror e della Science Fiction, ma non si ferma lì. La Shelley visse in un periodo di grandi rivolgimenti, storici, sociali e soprattutto scientifici. Un periodo dove già iniziava un dibattito etico derivato dalle nuove straordinarie scoperte che avevano suscitato molte domande sui confini tra la vita e la morte e il potere su di esse degli scienziati. A duecento anni dalla pubblicazione tuttavia, le questioni di tipo scientifico ed etico sollevate da Frankenstein sembrano diventare sempre più attuali e urgenti: è possibile disporre totalmente della vita umana? Quali sono i limiti degli interventi delle tecnologie biomediche? Rileggendo il romanzo di Mary Shelley con lo sguardo rivolto agli scenari contemporanei, emerge una realtà molto inquietante: c’è qualcuno che si diverte a giocare a fare Dio.

Per la fine del 2017 un team di neurochirurghi italiani e cinesi ha in programma il primo trapianto di testa.

Che significa?

C’è una notizia, trapelata negli scorsi giorni, che ha dell’incredibile: per la fine del 2017 un team di neurochirurghi italiani e cinesi ha in programma il primo trapianto di testa. Lo hanno affermato sia il chirurgo cinese Ren Xiaoping, ideatore dell’operazione, sia il neurochirurgo italiano Sergio Canavero, operante presso l’ospedale torinese delle Molinette, già autore di alcuni studi sulla sostenibilità di tale intervento. Esiste già anche un volontario che ha accettato di sottoporsi all’esperimento, Valery Spiridonov, russo, affetto da una grave malattia incurabile che provoca una progressiva atrofizzazione dei muscoli chiamata Werding-Hoffman disease. L’operazione dovrebbe avvenire, secondo il progetto, nella Harbin Medical University, nel nordest della Cina. L’ipotesi di un trapianto di testa, che ha tra i suoi fautori appunto il neurochirurgo torinese Sergio Canavero, resta però estremamente controversa: secondo vari specialisti, infatti, questo tipo di trapianto dal punto di vista tecnico è al momento un traguardo «fantascientifico», poiché mancano a oggi le basi sperimentali e di conoscenza che possono permettere di affermarne la fattibilità. In Italia, inoltre, la legge sui trapianti vieta quelli di cervello e di organi genitali. Diversa però la posizione della Cina, che di recente ha acceso il dibattito per l’apertura a tecniche spregiudicate, come nel caso di un gruppo di ricercatori che ha scatenato le polemiche nella comunità scientifica per aver usato delle tecniche di “taglia e incolla” del DNA su un embrione. E’ piuttosto significativo che il professor Canavero abbia chiamato il suo progetto “Heaven”. Si tratta dell’acronimo di HEad Anastomosis VENture, anastomosi cerebrosomatica, ma in inglese significa “Paradiso”. E’ una sorta di scalata al Cielo, questo tipo di esperimento. Certamente non mancano le motivazioni “umani-


Attualità tarie”: salvare una mente prigioniera in un corpo malato, affetto da gravi patologie invalidanti come quelle neurologiche, o da tumori devastanti e inguaribili, ma l’ipotesi di spostare una testa - con il cervello e tutto il suo deposito di emozioni, sentimenti, ricordi - su un altro corpo apre delle prospettive assolutamente inquietanti. Sembra la realizzazione delle utopie di Frankenstein.

Frankenstein di Mary Shelley è il capostipite della letteratura dell’immaginario, dell’horror e della Science Fiction, ma non solo: le questioni di tipo scientifico ed etico sollevate da Frankenstein sembrano diventare sempre più attuali e urgenti. In che senso? Il capolavoro di Mary Shelley aveva un sottotitolo, Il moderno Prometeo, che era tutto un programma. Se è vero che il romanzo apparteneva a quella fiction di tipo gotico che ebbe pieno sviluppo e produzione durante l’800 romantico, tuttavia rappresentava anche una riflessione fondamentale sulla figura dell’uomo di scienza e sull’importanza del suo ruolo nel cammino del progresso per il miglioramento delle condizioni di vita della comunità umana. Rileggendo le pagine di questo romanzo viene alla mente l’espressione “playing God”, cioè “giocare alla divinità” o “fare la parte di Dio”, un’espressione ormai usata da molti professionisti nel campo della bioetica. Essa richiama sicuramente a quel dibattito ormai quotidiano sul vero significato della difesa della vita e della sua dignità. L’atto dell’interpretare Dio prendendone il posto rivela la piena coscienza della volontà, del voler essere al posto di Dio con tutto se stesso. Nel caso del Dottor Frankestein di Mary Shelley non si tratta di giocare a fare il creatore, ma di voler “essere” il creatore. Una sfida ambiziosa e inquietante… In una nota parodia cinematografica, il dottor Frankenstein, di fronte all’evidenza della fattibilità tecnica del suo progetto di realizzare una creatura a partire da pezzi di cadavere assemblati chirurgicamente e in cui viene trasmessa l’energia elettrica - ritenuta l’elemento vitale della materia - esclama: “Si può fare!”. E’ l’“imperativo tecnologico” cui deve rispondere la scienza moderna: se è tecnicamente possibile, perché non farlo? L’etica chiede invece che si diano le ragioni di questi atti, e pone una domanda cruciale: ciò che è tecnicamente fattibile, è anche moralmente, o almeno umanamente, lecito? Ci stiamo avvicinando all’Overreaching, all’eccesso. Frankenstein come l’antico Prometeo ambiva alla sete di conoscenza e a porsi come portatore di questa conoscenza per il bene e il progresso dell’umanità. Questa era la sua unica ambizione, ma al tempo stesso questa era l’origine della sua tracotanza, dell’overreaching, del suo andare oltre i limiti, recando

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dolore e disperazione a se stesso e a tutti coloro che amava invece di prosperità e progresso: «Tutte le mie indagini e le mie speranze si sono ridotte a nulla, e, come l’angelo che aspirava all’onnipotenza, io sono incatenato in un inferno perpetuo». Esplicito è il riferimento letterario al Paradiso Perduto di Milton. Quel Paradiso che si vorrebbe conquistare oggi con i mezzi della tecnologia più avanzata, senza tener conto delle possibili conseguenze del playing God. Lei nel suo libro parla di “delirio di onnipotenza” della scienza moderna. Quello che Mary Shelley aveva immaginato nel suo romanzo di duecento anni fa sembra diventare oggi una terribile realtà, quella di una scienza che non ha alcun rispetto verso la vita e rischia di procurare morte e distruzione e non benessere e armonia. La Shelley riteneva che la cosa più spaventosa del suo romanzo fosse, non il mostro uscito dalle mani di Victor Frankenstein, scienziato, ma il delirio di onnipotenza dello scienziato, che non sa porre alcun freno alla sua ambizione. Certo, le motivazioni che portano a questo tipo di sfide sembrano umanitarie: dare speranza a chi soffre di gravi malattie, ma la prospettiva di un simile “giocare” con la tecnica porterebbe inevitabilmente a solleticare il desiderio di eternarsi. Mettere il proprio cervello in un corpo nuovo, magari giovane e prestante, per riavere tanti anni a disposizione, conservando però la propria memoria e la propria identità. Ma sarebbe davvero così? Mary Shelley aveva cominciato a chiedersi quale futuro ci sarebbe potuto essere se i morti avessero avuto davvero la possibilità di ritornare in vita, come avrebbero vissuto e quali


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sarebbero state le conseguenze morali e psicologiche, nel momento in cui fosse stato messo in pericolo il confine tra la vita e la morte. Inoltre il potere che lo scienziato avrebbe ottenuto da questi esperimenti sembrava farlo diventare sempre più sicuro di sé fino al punto di pensare di poter davvero avere un potere sulla vita e sulla morte. Il dottor Frankenstein stesso affermava, come il più concreto scienziato illuminista, che superstizioni e credenze non lo toccavano minimamente. Egli si era concentrato sull’azione corruttrice della morte sui cadaveri e si diede totalmente allo studio e alla ricerca di una strada che conducesse alla scoperta del principio della vita. Forse è questa l’origine e al tempo stesso la causa del playing God.

Cosa ci insegna il Frankenstein? Victor Frankenstein pretendeva, come molti scienziati figli della cultura anti-cristiana dell’Illuminismo, di colmare le presunte lacune di Dio. La più grande di essa è la morte e tutto il mistero di lutto e di dolore che la circonda. Lo scienziato può svelare questo mistero e sconfiggere la morte completando, così, la grandezza della creazione. In fondo la sua intenzione è il cosiddetto bene dell’umanità. Il mondo gliene sarà grato. Ma è questo il vero scopo della Scienza? O non è forse mettersi in primo luogo in contemplazione della natura, per come essa realmente è? Ma la grandezza e la maestosità del creato sono lontane da Frankenstein. Egli sente la sua azione come una catena che lo tiene legato a se stesso, alla sua sete di onnipotenza e l’unico modo per liberarsene è portare a termine il suo lavoro. Qui risiede, come abbiamo già detto, il significato profondo della figura di un Prometeo moderno, la cui ambizione, e allo stesso tempo presunzione, è quella di voler acquisire la suprema conoscenza e impiegarla per il bene e il progresso dell’umanità. Questa era la sua unica ambizione, ma al tempo stesso questa era l’origine della sua tracotanza, del suo andare oltre i limiti, recando a se stesso e a tutti coloro che amava dolore e disperazione invece di prosperità e progresso. Quello che esce dalle sue mani non è una creatura, ma un mostro. Una costruzione. E come disse Chesterton: “Tutta la differenza fra costruzione e creazione è esattamente questa: una cosa costruita si può amare solo dopo che è stata costruita; ma una cosa creata si ama prima che esista.” ■

“Si può fare!” è l’ ”imperativo tecnologico” cui deve rispondere la scienza moderna: se è tecnicamente possibile, perché non farlo? L’etica chiede invece che si diano le ragioni di questi atti: ciò che è tecnicamente fattibile, è anche moralmente, o almeno umanamente, lecito?


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Un giorno in ospedale

L’aborto è frutto della solitudine e dell’ignoranza: a volte per salvare una vita basta parlare e tendere una mano. di Clara Echelle Ci sono cose nella vita talmente assurde, inumane, ragionevolmente inaccettabili, che pur sapendo della loro esistenza, si stenta a credere che possano accadere davvero anche vicino a noi. Ecco, questo è quello che è successo a me quando, in un normale giorno di controlli medici in ospedale, vengo a sapere che due donne su quattro nella mia camera erano lì per abortire. Sì, per uccidere i loro bambini. Non credo sapessero realmente quello che facevano, o forse sì, viste le lacrime della ragazza sedicenne poco prima di essere portata in sala operatoria. Lacrime inconsolate dalla madre e dalla zia che, nonostante avessero visto, continuavano a fare salotto con l’infermiera. Scena da brividi. Nel letto a fianco al mio c’era un’altra ragazza lì per lo stesso motivo. Parlava male l’italiano, mi guardava e io non sapevo davvero che fare. Non potevo stare in silenzio, non me lo sarei mai perdonato, ma non sapevo davvero come entrare nel discorso. Ho pregato, pregato tanto. E con me tutti gli amici a cui chiedevo preghiere via Facebook. Pregavo Dio che mi desse occasione di parlarle, e che aprisse il cuore di quella madre alle parole che avrei voluto dirle. Io la guardo, lei mi guarda, io le sorrido, lei mi sorride e inizia a farmi mille domande: ma quanto ci vuole? Io devo essere a casa entro sera, ho una bambina che mi aspetta. Quanto dura l’operazione? Cosa ti fanno? Ma fa male? Io ho paura.

Una mezza giornata “persa” per una visita, può diventare un insegnamento di vita, può cambiare la vita, può salvare una vita.

Chi abortisce potrà avere altri bambini, ma quello che ha ucciso non tornerà mai più. Credeva che anch’io fossi lì per abortire e cercava solo qualcuno che la rassicurasse. Mi racconta tutto di lei: il suo ragazzo non lavora, ha una bellissima bambina di due anni, non hanno una casa, non sono italiani e non sanno come muoversi in questo paese che sembra remare contro di loro. Lei non vorrebbe ma non ha altra scelta. Si commuove quando le dico che potrà avere altri bambini, ma che questo non tornerà più. Ed ecco che quando le parlo del Cav, del progetto Gemma, dell’aiuto economico e materiale che avrà se farà nascere il suo bambino, comincia a fare delle telefonate, cambia idea e torna a casa col suo bambino (di 11+3 settimane!) in grembo. Ci scambiamo i numeri ed ora ci sentiamo quasi tutti i giorni. C’è tanto lavoro da fare. La situazione è davvero difficile ma insieme si può tirare fuori qualcosa di buono. Sì, solo insieme si cambiano le cose. Non occorrono giudizi, sguardi di compatimento o quel “rispetto umano” che crea solo solitudine e un vuoto incolmabile tra le persone. Servono azioni, reali atti d’amore e d’aiuto che non fanno sentire soli ma accolti e voluti. Bisogna uscire dalla comodità della propria vita e farsi strumento, bisogna usare i propri mezzi e le proprie risorse mettendole a sincera disposizione di chiunque inciampa sulla nostra strada. E la cosa bella di tutta questa situazione è che tante altre mamme si sono fatte avanti per provvedere al corredino per il bimbo in arrivo, per donare vestitini alla piccolina di due anni o aiutare come possono. E con la gioia nel cuore e con la certezza che “Tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!”, ■ rendiamo lode al buon Dio.


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Ti ringrazio per il sostegno.

Antonio Brandi


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I figli piccoli: da Cronos ad Abramo, sino a Gesù Bambino

Per i bambini il Natale, oggi, ha un significato giocoso a volte molto superficiale. Non sanno che il primo Natale è stato determinante per la loro condizione e considerazione sociale. di Francesco Agnoli Forse, abituati come siamo a duemila anni di cristianesimo, non ci rendiamo più conto di cosa abbia significato storicamente il fatto che Dio si è fatto bambino. L’idea che i bambini, almeno quelli già nati, siano oggetto di particolare amore e attenzione, ci sembra quasi ovvia. Eppure, non era così ai tempi di Cristo. Proviamo a immaginare di essere uomini di duemila anni fa. Come avremmo reagito all’idea di un uomo in carne e ossa, che dice di essere Dio? Forse avremmo detto, come alcuni polemisti pagani, che Dio non può prendere corpo, perché il corpo è la prigione dell’anima, è il limite, perché soffre, patisce, invecchia... Sì, Dio ha voluto prendere un corpo come noi, “una carne cosparsa di sangue, tenuta su da ossa, intrecciata di nervi, avviluppata da vene, che seppe nascere e morire”: così scrive Tertulliano, per ribadire ciò che i suoi contemporanei stentano a credere; per sottolineare la novità di un simile annuncio. E così, con la trasmissione e la diffusione del cristianesimo, la nostra visione del corpo è cambiata. Il cristianesimo ha trasformato un involucro transitorio, destinato ai vermi, nel tempio di un Dio che si è fatto carne e la carne è divenuta il cardine della salvezza (caro cardo salutis est). Quella carne che patisce, si corrompe, muore... quella carne che può affogare, nelle sue brame, lo spirito, è diventata anche la carne con cui abbracciamo, aiutiamo, baciamo; carne che risorgerà gloriosa al tempo della resurrezione dei corpi. Ma Dio non si è fatto solo uomo, si è fatto, per stupirci ulteriormente, bambino! Cioè ha scelto, all’interno della condizione umana, la massima debolezza, dipendenza, fragilità. L’Onnipotente, si è fatto impotente; il Creatore si è affidato, disarmato, inerme, alle sue creature. Colui che ha dato la vita a tutto, si è messo nella condizione di avere bisogno di tutto.

Dalla contemplazione del bambino nato in una grotta nascevano gli orfanatrofi, i brefotrofi, i conservatori dove allevare i bambini senza genitori anche attraverso la musica. In un mondo, quello prima di Lui, in cui l’essere bambino era una condizione di minorità: i bambini potevano essere uccisi, senza scrupoli né conseguenze legali, nell’antica Sparta, come nell’antica Atene e nell’antica Roma... Dovunque la vita del bambino era nelle mani degli adulti, in specie del padre, e poteva essere negata, come avviene ancora oggi presso i popoli non raggiunti dal cristianesimo, per mille motivi: di salute, di sesso, di superstizione (si pensi ai bambini uccisi solo perché nati in un giorno considerato infausto, o quelli eliminati perché caratterizzati da qualche segno sulla pelle considerato di malaugurio...).

Francesco Agnoli

Storico e saggista, bolognese d’origine, risiede a Trento; è sposato e ha tre figli. Docente di Liceo, collabora tra l’altro con Il Foglio, Avvenire, Il Timone, e Radio Maria. * agnoli.franc@tiscali.it

L’imperatrice Galla Placidia


12 N. 36 - DICEMBRE 2015

I primi cristiani cercarono di porre rimedio a questa terribile usanza, da una parte rafforzando l’istituzione familiare, vera garanzia per i deboli, dall’altra stimolando la creazione di vasche, ruote degli esposti, letti, nicchie... Beato Angelico, Natività - 1425

Mentre nel mondo antico era “normale” abbandonare i bambini alla morte, o alla schiavitù, già i primi cristiani cercarono di porre rimedio a questa terribile usanza, da una parte rafforzando l’istituzione familiare, vera garanzia per i deboli, dall’altra stimolando la creazione di vasche, ruote degli esposti, letti, nicchie... per far sì che i bambini non voluti, invece che essere uccisi, venissero abbandonati, senza conseguenze giuridiche per i genitori. Nel V secolo Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio, accoglieva nel suo palazzo di Ravenna bambini abbandonati nelle strade e sui sagrati delle chiese. Nello stesso periodo, a Lione, tale Giberto apriva un asilo per bambini abbandonati. Nel 787, a Milano, l’arciprete Dateo accoglieva i bambini abbandonati in una sorta di conchiglia sulla porta della chiesa, e si dedicava ad allevare, con l’aiuto di balie, bambini raccolti “per cloacas et sterquilinia fluminaque”.

All’incirca negli stessi anni, nelle chiese di Tours e di Angers, “c’erano vasche di marmo destinate a ricevere bambini che venivano deposti lì dai loro genitori”... E, mentre dalla contemplazione delle piaghe di Cristo nasceva l’istituzione ospedaliera, dalla contemplazione del bambino nato in una grotta nascevano gli orfanatrofi, i brefotrofi, i conservatori dove allevare i bambini senza genitori anche attraverso la musica. Nei secoli i missionari cristiani, partiti per l’Africa, l’India, la Cina... per annunciare Cristo, hanno trovato nelle altre culture l’infanticidio e l’aborto, e hanno spesso finito per divenire i protettori e gli avvocati dei bambini. Sempre memori, un tempo nelle terre di missione, oggi nell’Occidente scristianizzato, dei detti dei primi cristiani: “i cristiani…si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati” (Lettera a Diogneto); “Tu non ucciderai con l’aborto il frutto del tuo grembo, ■ né farai perire il bambino già nato” (Didachè).

“A noi cristiani l’omicidio è espressamente vietato, e quindi non ci è permesso neppure di sopprimere il feto nell’utero materno. Impedire la nascita è un omicidio anticipato. Nulla importa che si sopprima una vita già nata o la si stronchi sul nascere: è già essere umano quello che sta per nascere. Ogni frutto è già nel suo seme”. (Tertulliano, Apologetico, cap. IX)

Grazie al grande Giuseppe Garrone, sono di nuovo aperte in tutta Italia le “Culle per la Vita”, versione moderna delle ruote per gli esposti inventate dai primi cristiani.


Primo Piano

Ho illustrato in modo approfondito quanto fin qui esposto nel mio Indagine sul cristianesimo, edito da La fontana di Siloe, Torino - 2014. Nel mondo antico convivono estrema durezza verso il parricidio, attestato piuttosto frequentemente ad esempio a Roma, e dovuto agli eccessivi poteri del pater familias sui figli (ius exponendi, ius vendendi, ius noxae dandi, cioè il diritto per un debitore insolvente di far imprigionare il figlio al posto suo) e tolleranza verso l’infanticidio. Si pensi a tal riguardo alla mitologia greco-romana: il celebre “Edipo re”, di Sofocle, è la storia di un bambino esposto perché destinato a uccidere, cosa che effettivamente farà, il padre; ma nella mitologia è addirittura il primo padre della storia, il dio Urano, a uccidere i figli natigli dall’unione con Gaia. La quale costruisce una falce e propone ai figli il parricidio. Uno di loro, Crono-Saturno, ascolta la madre ed evira il padre. Ma non finisce qui: Crono stesso ucciderà i suoi figli, sapendo che uno di loro lo spodesterà. Sarà ZeusGiove a sfidare il padre Crono e a costringerlo a vomitare i suoi fratelli. Dalla mitologia alla leggenda: Roma stessa, non nasce da un tentato infanticidio, quello di Romolo e Remo? E non sono forse attestati, per secoli, in tutto l’impero romano, dove più e dove meno, i sacrifici rituali e propiziatori di bambini a Saturno, dio dell’agricoltura, dell’abbondanza e della ciclicità della natura? Tutta questa visione è ribaltata nella rivelazione biblica: nell’Antico Testamento Dio chiede ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, e Abramo non esita: non lo ritiene per nulla strano, essendo una consuetudine di tanti popoli antichi. Ma Dio ferma la sua mano, e gli ebrei non praticheranno più il sacrificio di bambini, a differenza dei popoli vicini. Nel Nuovo Testamento sarà Dio stesso a sacrificarsi per gli uomini, presentandosi a loro come puer e filius: così ciò che è grande si fa piccolo, ciò che è forte, onnipotente, si fa debole e indifeso; e ciò che è piccolo e indifeso diventa, in altro senso, “grande”. Alla paura del nuovo, del cambiamento, che mette in discussione, propria della mitologia greca e orientale, si sostituisce l’idea secondo cui il cambiamento prodotto dalla nascita diventa promessa e

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manifestazione del Dio Creatore del mondo, che fa nuove tutte le cose. Nello stesso tempo alla paternità umana, del pater familias, in ogni epoca e luogo antico quasi “onnipotente”, si affianca una paternità superiore, quella di Dio Creatore, che giustifica l’autorità paterna (come derivata e vicaria di quella divina), ma nello stesso tempo la limita fortemente. Ogni figlio, infatti, almeno in teoria, smette di essere proprietà dei genitori, come gli schiavi dei padroni, loro possesso, per divenire anzitutto e prima di tutto “figlio di Dio”. Minucio Felice, un apologeta del II secolo, nel suo Ottavio, al capitolo XXX, paragrafo 2, paragonando l’insegnamento di Cristo con quello degli dei pagani, scrive: “Voi esponete i vostri figli appena nati alle fiere e agli uccelli, o strangolandoli li sopprimete con misera morte; vi sono quelle che ingurgitando dei medicamenti soffocano ancora nelle proprie viscere il germe destinato a divenir creatura umana e commettono un infanticidio prima di aver partorito. E questo apprendete dai vostri dei, Saturno, infatti, non espose i propri figli, ma addirittura li divorò”. A sua volta, Tertulliano, nel suo Apologetico, cap. IX, ribadisce: “A noi cristiani l’omicidio è espressamente vietato, e quindi non ci è permesso neppure di sopprimere il feto nell’utero materno. Impedire la nascita è un omicidio anticipato. Nulla importa che si sopprima una vita già nata o la si stronchi sul nascere: è già essere umano quello che sta per nascere. Ogni frutto è già nel suo seme”. San Giustino, nella sua Apologia prima, al capitolo XXVII afferma: “A noi, per non commettere alcuna ingiustizia o empietà, è stato insegnato che è proprio dei malvagi esporre i neonati: prima di tutto, perché vediamo che sono tutti avviati alla prostituzione, e non solo le fanciulle, ma anche i giovinetti; e, come si dice che gli antichi allevassero greggi di buoi o di capre o di pecore o di cavalli, così ora allevano anche fanciulli solo per farne un uso vergognoso”. D’altro canto l’accusa, già vista: voi cristiani avete attenzione per donne, schiavi e… bambini. Così in Spagna, nel Concilio di Toledo del 529 i vescovi stabiliscono che vadano puniti i genitori che hanno ucciso i figli, “con le pene più severe, esclusa la pena capitale”, mentre nel concilio di Braga del 572 vengono prescritte norme contro l’aborto e l’uccisione dei figli nati da relazioni adultere. Intanto il cambiamento di percezione che i genitori hanno dei figli diventa, non di rado, palpabile. Anzitutto il bambino non viene più posato a terra prima di essere riconosciuto, prima di diventare “qualcuno”, prima di ricevere un nome, come avveniva per esempio a Roma o in Cina: sin dal suo nascere, esiste, c’è prima di ogni riconoscimento altrui. Inoltre, mentre nel mondo antico e pagano i bimbi morti molto piccoli sono accostati ai morti di morte violenta e ai suicidi, per cui si teme soprattutto il loro ritorno tra i vivi, “per vendicarsi di chi ritenevano responsabili della loro condizione o semplicemente perché in qualche modo gelosi della vita che era stata tolta loro in anticipo”, e questo comporta per loro riti funerari “più riservati e rapidi rispetto a quelli degli adulti”, i genitori cristiani dedicano ai loro figli, anche neonati, sulle epigrafi delle tombe, appellativi commoventi, definendoli “angeli”, “dolci come il miele”, “innocentissimi agnelli senza macchia”, “amatissimi”…


14 N. 36 - DICEMBRE 2015

Claudia Cirami

Siciliana, ha una laurea in filosofia e il magistero in Scienze Religiose. È insegnante di religione cattolica. * sorrialba@gmail.com

Restituiamo le fiabe ai bambini

Molti genitori hanno cominciato da poco a protestare per le fiabe “gender” che vengono lette nelle scuole. Ma è da tempo che si cerca di deprivare i bambini delle vecchie e care fiabe della nonna… di Claudia Cirami C’erano una volta… fiabe e favole. Cullavano i sogni dei bambini, fornivano utili insegnamenti per la vita, e, soprattutto, servivano a operare la distinzione tra il bene e il male. Anche se in origine erano rivolte ad adulti – nel senso che in epoche senza radio, giornali e TV venivano narrate per trascorrere le ore in cui non si lavorava – man mano, espunti certi connotati sanguinari e violenti, sono diventate patrimonio dei bambini. Poi sono arrivate le ideologie post sessantotto e nulla è più stato lo stesso. Come fossero artigli, queste hanno iniziato a ghermire le povere storie, stravolgendo significati, introducendo variazioni, demolendo personaggi, e inventando persino altre trame se le storie originarie non si prestavano a scopi ideologici. Hanno iniziato le femministe (che, in verità, non hanno mai smesso), affermando che le eroine delle fiabe sono espressione della sottomissione della donna ad un mondo fatto da e per gli uomini. Le critiche, nel tempo, si sono sprecate. Venivano (e vengono) considerate stereotipi sessisti: la bellezza delle principesse (perché? il principe è forse inguardabile o appena passabile?); la rivalità tra donne (vera, ma altrettanto vero è che non tutti gli uomini nelle fiabe brillano per comportamenti lodevoli…); le virtù femminili delle principesse, dalle più interiori, come la mitezza, a quelle esteriori, come il bel canto (perché? I rispettivi principi sono forse scienziati o manager di successo o avvocati di grido?). L’Associazione Hubertine Auclert, ultima in ordine di tempo, ha sottolineato, per l’ennesima volta nella storia del femminismo, che Cenerentola & compagnia bella

Le fiabe sono sempre servite a far viaggiare la fantasia, a dare utili insegnamenti per la vita, e, soprattutto, operare la distinzione tra il bene e il male.

Cenerentola & compagnia hanno sempre bisogno di un uomo che venga a salvarle. Colpa grave, gravissima per i fanatici di un femminismo per il quale non ci può essere aiuto e cooperazione tra i sessi. hanno sempre bisogno di un uomo che venga a salvarle. Colpa grave, gravissima per i fanatici di un femminismo dove non ci può essere aiuto tra i sessi (perché non intendere in questo senso la dinamica del principe che salva e della principessa salvata?), ma solo autonomia e indipendenza reciproca. Da tempo è così iniziata la rivisitazione delle fiabe tradizionali. Nel 2008, per esempio, è uscita una nuova versione de La principessa sul pisello di Andersen. L’autrice, Octavia Monaco, ha proposto una principessa con un carattere più forte e un lieto fine diverso, ovviamente all’insegna del femministicamente corretto, come si può intuire già dalla presentazione del testo sul sito della casa editrice, Orecchio Acerbo: “La Principessa di Octavia Monaco, acuta e indipendente, scopre il tranello e sceglie la via della libertà. Riuscendo a vivere davvero felice e contenta. Ma libera. Fuori dalle mura del castello, lontano da un Principe che proprio non la meritava”. Nemmeno Rapunzel ha più bisogno del principe: in La principessa salvata dai libri di Wendy Meddour e Rebecca Ashdown, la celebre lunghicapelli al principe preferisce una lettera di assunzione in una biblioteca. Non ci sono solo fiabe rivisitate, ovviamente: agli scopi ideologici, di solito, servono anche nuove di zecca. Così, in Spagna, per citare un solo esempio, al tempo di Zapatero, hanno presentato La principessa differente, in cui la protagonista, chiamata Alba Aurora, accettava il principe – di cui ovviamente anche lei non aveva bisogno – solo come amico per fare un giro in moto lungo la Muraglia Cinese.


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Le fiabe tradizionali, oggi, sono “colpevoli” di promuovere solo l’amore tra un uomo e una donna.

Poi è arrivato l’animalismo, che è cosa diversa dalla cura del Creato. Ideologico tanto quanto il femminismo, anche l’animalismo mette sotto accusa le fiabe tradizionali. L’Aidaa, un’associazione animalista, se l’è presa con Cappuccetto Rosso, con queste parole: «…è arrivato il momento di riscattare a tutti i livelli il nostro amico lupo a partire dalla necessità di togliere dagli scaffali di tutte le librerie, le biblioteche pubbliche, scolastiche e private quell’orribile fiaba che si intitola Cappuccetto Rosso, nella quale si paragona la figura del lupo a un animale cattivo e privo di scrupoli che non si fa problemi a mangiare la nonna per arrivare poi a mangiare la tenera carne di cappuccetto rosso». A dire il vero, altri animalisti si dissociano spesso dai comunicati “pittoreschi” di questa associazione. Tuttavia, non si può negare che esiste un filo di ribellione animalista contro questa fiaba, se ne circolano versioni rivisitate, come “Vera storia di Cappuccetto Rosso e lupo Pupo” di Michele Pezone e Fabio Mafalgia e “Cappuccetto Rosso Animalista” di Alessandra Catalioti, entrambe in difesa del lupo. In realtà, Cappuccetto Rosso è solo la rappresentazione allegorica dell’incontro con il male, che spesso si presenta sotto mentite spoglie.

Le fiabe tradizionali, oggi, sono “colpevoli” di promuovere solo l’amore tra un uomo e una donna. Nessuno che abbia pieno possesso delle sue facoltà razionali attribuisce al lupo caratteristiche di cattiveria umana: è giusto notare, tuttavia, che questo animale può rappresentare un pericolo per l’uomo, in determinate circostanze, e questa non è ideologia, è realtà. Ma al sostenitore dell’ –ismo la realtà non è mai interessata. Ora, invece, è la volta dell’ideologia gender, che su queste pagine e sul portale notizieprovita.it è stata più volte denunciata anche in rapporto all’uso delle fiabe.

Specifichiamo che, in realtà, studi di genere sono anche quelli femministi, ma con l’espressione “gender” ci si riferisce ormai a quell’ideologia che predica la scomparsa dei generi maschili e femminili non più in funzione femminista ma per approdare ad un mondo “gender-fluid”, in cui maschile e femminile diventino intercambiabili, scomponibili, sovrapponibili, etc. Ancora una volta alla sbarra finiscono le fiabe tradizionali colpevoli di promuovere solo l’amore tra uomo e donna e, quindi, di considerare esclusivamente l’esistenza ben differenziata del genere maschile e di quello femminile. Così, ecco una sfilza di fiabe e favole pronte ad “educare” i bambini a considerare l’esistenza di altri generi, dei rapporti omosessuali, di “famiglie” diverse da quella naturale, di pratiche quali l’utero in affitto o la fecondazione eterologa. I titoli? Dal “Piccolo uovo”, a “Perché hai due mamme?”, a “Il matrimonio dello zio” (tutti in catalogo dello Stampatello editore), alla storia di Zaff che sarà “la principessa col pisello”. “Qualcuno, superando il grottesco – ha scritto Carlo Cardia su Avvenire – vuole insinuarsi nei momenti più intimi della vita familiare, quando i genitori sussurrano e raccontano ai bambini fiabe e allegorie, che parlano di tutto, del mondo della natura, di animali, principi e principesse, entità fantasiose, per accostare la mente dei più piccoli al mondo ricco e complesso che li attende. Si cerca di intromettersi in quegli attimi speciali del rapporto tra figli e genitori, nei quali affiorano i primi sentimenti e pulsioni psicologiche… e il bambino avverte che il papà e la mamma sono lì per aiutarlo a crescere, affrontare le cose belle e brutte della vita. Sono piccoli momenti magici… proprio qui cerca d’insinuarsi una specie di dottor Stranamore dell’antropologia per offuscare, deformare, quanto di bello e spontaneo nasce e cresce nel linguaggio che unisce genitori e figli” (23 febbraio 2014). Che le ideologie – insomma – lascino in pace il vibrante mondo fantastico di fiabe e favole, intessuto di significati più alti di quelli oggi loro attribuiti: papà e mamme ringrazieranno, i bambini anche di più. ■


16 N. 36 - DICEMBRE 2015

Siamo lieti di pubblicare un contributo della Associazione Italiana Ascoltatori Radiotelevisivi, specialista nel campo della comunicazione sociale e promotrice di un’azione formativa ed educativa all’uso responsabile e critico dei media.

I bambini del XXI secolo davanti alla TV

Qualità televisiva e futuro del mezzo sembrano viaggiare sempre più su due differenti frequenze d’onda. C’è una sorta di timore culturale, poca tutela per i minori e declino di un punto di vista critico sulla TV. di Maria Elisa Scarcello

La televisione generalista perde parte della sua centralità “sociale”, a favore di una televisione sempre più individuale, declinata su più canali e piattaforme; i prodotti video vengono distribuiti contemporaneamente sulla TV, sul pc, sui dispositivi mobili. A questo enorme dilatarsi dell’offerta televisiva non è per niente corrisposto nel tempo un miglioramento qualitativo dei suoi contenuti, ma la TV ha comunque continuato a mantenere intatto il suo appeal e ad assurgere al ruolo di principale agenzia educativa; tanto che il suo utilizzo rappresenta ormai uno dei comportamenti più diffusi tra i giovani: basta pensare che oltre metà dei minori segue la TV dalle due alle quattro ore al giorno, spesso in completa solitudine, dedicando a essa un tempo superiore a quello impiegato nelle attività scolastiche, sportive o relazionali (1.100 ore di televisione l’anno contro 800 ore di scuola). Il minore, però, non è solo un semplice telespettatore davanti alla TV ma anche un soggetto attivo dentro la TV; e il punto nodale è proprio questo, perché il minore non è in grado di filtrare i contenuti dei messaggi televisivi, neanche quando è egli stesso partecipe di questi, poiché non dispone degli strumenti critici

sufficienti a comprendere, ed eventualmente a rifiutare, i comunicati mediatici. La continua frequenza con cui i minori possono essere “bombardati” da contenuti il cui livello qualitativo può non essere sempre soddisfacente, arriva a determinare una complessa sequenza di effetti. Questi possono essere di vario tipo: da quelli derivanti dall’assunzione di posture errate e di un’alimentazione sbagliata a quelli psico-pedagogici e culturali. Ma cerchiamo di comprendere in che modo si ritiene che i minori possano essere lesi dalla programmazione televisiva. Dall’osservazione clinica di condizioni psicopatologiche si evidenzia che, in alcuni casi, l’utilizzazione della televisione diventa una modalità sintomatica di vivere: se vengono a mancare i valori trasmessi dalla famiglia e dalle istituzioni sociali, il bambino vive e trova il suo compenso nell’abuso della TV e assorbe come valori quelli comunicati dalla stessa. Ovviamente, bisogna anche precisare che l’abuso televisivo può essere dannoso, soprattutto, in alcuni particolari casi a rischio. Sono situazioni di rischio quelle in cui viene a mancare l’identificazione primaria con i genitori e quelle in cui vi è un clima familiare problematico e violento.


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Inoltre, oggi la TV è sempre più frequentemente utilizzata come strumento sussidiario, una sorta di “bambinaia”: il problema è che il bambino vive passivamente gli stimoli sonori e visivi equivalenti a stimoli affettivi, senza essere avvezzato alla fatica del confronto con la realtà e, quindi, senza la mediazione del genitore che lo aiuta a distinguere tra quello che è reale e quello che è finzione. Altro fattore da non sottovalutare è la violenza, sempre più presente nei programmi delle TV commerciali; infatti, quasi tutti i generi televisivi, come film di guerra, polizieschi, western, documentari, notiziari, cartoni animati, eventi sportivi, spot pubblicitari e video musicali includono, più o meno volontariamente, situazioni potenzialmente dannose per il benessere dei più piccoli. A tal proposito, l’AIART, Associazione Italiana Ascoltatori Radiotelevisivi, specialista nel campo della comunicazione sociale e promotrice di un’azione formativa ed educativa all’uso responsabile e critico dei media, ha intervistato, su questa tematica, Anna Rezzara, professore ordinario di pedagogia alla Facoltà di scienze della formazione all’Università Bicocca di Milano, la quale ha affermato che: “Una realtà televisiva dei nostri tempi molto pericolosa è che gli adulti, gli adolescenti e i bambini vengono esposti agli stessi messaggi e alle stesse immagini senza pensare che, mentre per un adulto vedere un reportage su una guerra può essere informazione, per un bambino ha un effetto del tutto diverso.

A un enorme dilatarsi dell’offerta televisiva non è per nulla corrisposto nel tempo un miglioramento qualitativo dei suoi contenuti. A seconda dell’età si hanno esigenze e modi di vivere le immagini e i messaggi televisivi in maniera differente. La fruizione televisiva di un bambino di tre anni deve essere costituita da programmi fatti a sua misura, quindi con immagini chiare e non violente e piccole storie raccontate con un ritmo particolarmente lento e che riportino realtà che lui può comprendere”. La TV si caratterizza, quindi, più che come risorsa dell’educazione come il rischio che i bambini, immersi in una serie di immagini anche potenti con effetti speciali che amplificano la violenza, possano percepire la realtà mediatica come un ‘codice normale’. In linea generale, tutti gli esperti del settore, attraverso numerose ricerche condotte anche in altri Paesi, hanno dimostrato che una massiccia esposizione dei minori

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Oltre metà dei minori segue la TV dalle due alle quattro ore al giorno, spesso in completa solitudine, dedicando ad essa un tempo superiore a quello impiegato nelle attività scolastiche, sportive o relazionali. a qualsiasi media può avere ricadute sui processi formativi e sulle condotte infantili. In riferimento alla TV, tra i principali effetti negativi evidenziati rientra quello frequentemente menzionato come la tendenza della televisione a “rubare” l’innocenza dei bambini o, volendo usare il linguaggio di un’altra esperta in materia intervistata dall’Aiart: la “adultizzazione precoce”. Anna Oliverio Ferraris, docente universitaria, psicologa, psicoterapeuta, esperta dei problemi dell’età evolutiva, ha, infatti, messo in evidenza gli effetti deleteri di un’esposizione precoce e continuativa dei bambini al mezzo televisivo, soprattutto bambini piccolissimi che ancora non sono in grado di parlare e di esercitare il senso critico. Come esempio di “adultizzazione precoce” viene indicata la strumentalizzazione che dei bambini viene fatta nella pubblicità e in quei programmi canori in cui i piccoli vengono esibiti come piccole star per il divertimento degli adulti. Questi programmi “adultizzando” i bambini operano una forma di violenza su di essi e possono creare forti squilibri nella loro crescita. Oltre al fatto, spesso non tenuto in considerazione, che l’impiego dei bambini in TV può essere configurato come una sorta di “lavoro minorile” e, quindi, dovrebbe essere vietato dalla legge. Tra le forme di adultizzazione precoce viene indicata anche “l’erotizzazione dei bambini”: ovvero quella forma di adultizzazione che opera la pubblicità televisiva inculcando nei bambini modelli di comportamento o atteggiamenti sessuali tipici degli adulti.


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Il bambino vive passivamente gli stimoli sonori e visivi. Per lui sono equivalenti a stimoli affettivi. Le conseguenze di un’erotizzazione così precoce variano a seconda delle differenti fasce d’età, ovvero tra adolescenti e bambini, e vanno a intaccare la sfera cognitiva, emotiva, sociale. Quanto appena affermato è la conseguenza di un investimento pubblico annuale per il marketing rivolto ai minori di dimensioni non paragonabili a nessun livello raggiunto in precedenza: i bambini (anche i baby spettatori di pochi mesi) sono pertanto diventati l’obiettivo principale di un grande business e con lo sviluppo della televisione digitale si avviano a esserlo sempre di più. Infine, un ulteriore approfondimento va speso su un altro fattore fondamentale: le normative esistenti in ambito televisivo e web non funzionano; semplicemente perché non vengono applicate, poiché la verifica è presidiata da portatori di interessi enormi. Le statistiche parlano chiaro e anche l’ultimo rapporto Aiart (“Il caso Italia”) lo dimostra: l’Italia è agli ultimi posti per quanto concerne la tutela degli utenti televisivi.

Il diritto dei bambini di sfruttare l’opportunità concessagli dalle nuove tecnologie di comunicazione per crescere e ampliare la propria conoscenza della realtà, come i diritti acquisiti nel corso del tempo e raccolti nella Convenzione del 1989 per i Diritti del Fanciullo, sembrano essere tenuti in scarsa considerazione, dal momento che si tende il più delle volte a ignorare le responsabilità di tutti i media. Di sicuro la televisione, se ha una responsabilità sociale, deve rispettare il parere dei telespettatori e garantire un’offerta televisiva, audiovisiva e multimediale di qualità, degna dell’identità valoriale e ideale del Paese, della sensibilità dei telespettatori e che non violi i sacrosanti diritti dei minori. ■

Le normative esistenti in ambito televisivo e web non funzionano; semplicemente perché non vengono applicate, poiché la verifica è presidiata da portatori di interessi enormi.

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Gian Paolo Babini Avvocato, è membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione Giuristi per la Vita, della quale è uno dei soci fondatori. E’ curatore del blogmaipiucristianofobia.org, che raccoglie materiali sulle discriminazioni dei cristiani nel mondo.

Vedere il Bello dove gli altri vedono solo sofferenza Intervista alla neonatologa Elvira Parravicini di Gian Paolo Babini La dott.ssa Elvira Parravicini, neonatologa ed assistente di clinica pediatrica alla Columbia University, opera nel reparto di cure intensive neonatali del Morgan Stanley Children’s Hospital, di New York, dove ha fondato un progetto di “neonatal hospice” per neonati affetti da malattie allo stadio terminale dove si pratica la “comfort care” da lei ideata. Nel mondo ci sono tanti Hospices per malati terminali, perché ha sentito l’esigenza di fondarne uno specifico per neonati? Circa una decina di anni fa, soprattutto negli Stati centrali degli Stati Uniti, per iniziativa di medici ginecologi, molti ospedali cattolici e protestanti hanno creato i “Perinatal Hospices” per assistere le donne durante la gravidanza ed il parto di bimbi gravissimi. Nell’ospedale dove lavoro io, questo tipo di struttura non c’era. Tuttavia, nella mia attività, sono normalmente interpellata dai ginecologi quando c’è un problema per una malattia del bambino e, di routine, facciamo colloqui con i genitori per informarli. In genere le madri che portano in grembo un bambino con una malattia o malformazione incurabile abortiscono, ma non tutte vogliono fare un simile gesto. E’ così capitato che, incontrando mamme che sperimentavano questa dura esperienza, ho offerto loro una prospettiva diversa, informandole sulla durata della vita del bambino e su che cosa sarebbe stato fatto dopo la nascita. Mi sono guardata allora attorno e, vedendo che nel nostro ospedale non c’era nessun altro che faceva

qualcosa di simile, mi sono offerta di seguire questo tipo di gravidanze. Alcuni bambini vivono per pochi minuti, alcuni per poche ore, altri per pochi giorni oppure per settimane. Come neonatologa mi sono così domandata come farli stare meglio, dando loro da mangiare, tenendoli al caldo oppure consentendo alle madri - che lo desiderano - di portarli a casa. E’ così nata la metodologia del “comfort care”. Il mio ospedale è molto rinomato perché è un family center care, cioè un ospedale dove la famiglia è al centro della cura. Ad esempio, la nostra patologia neonatale è aperta ai genitori giorno e notte. E’ una terapia intensiva dove i genitori possono stare vicini ai figli tutto il tempo che vogliono, possono entrare i fratellini, i nonni e gli zii, che a volte vengono da lontano. Siamo specializzati in questo tipo di attenzioni e sono convinta che il “comfort care” è nato in questo ospedale non solo perché è stata una mia idea, ma anche perché è un ambiente abituato a fare stare insieme i bambini con le loro famiglie. Evidentemente mi sono presa a cuore la situazione e, come neonatologa, offro una proposta - la mia unica proposta – alla mamma, che è quella di continuare la gravidanza e di far nascere il bambino. Ebbene, il lavoro di questi anni sta cambiando un poco anche la cultura dell’ospedale dove lavoro, che non è un ospedale cattolico, ma appartiene alla Morgan Stanley, una grande banca. L’impronta culturale non è per niente cattolica, è ateistica se vogliamo, la religione non c’entra, benché abbiamo mamme di tutte le fedi. Le mamme che vogliono continuare la gravidanza sono in generale quelle che credono in Dio (cattoliche, protestanti, ebree, musulmane) e questa strut-


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Un family center care, è un ospedale dove la famiglia è al centro della cura: il lavoro di questi anni ha cambiato un poco anche la cultura dell’ospedale dove lavoro, che non è un ospedale cattolico, ma appartiene alla Morgan Stanley, una grande banca. tura permette alla famiglia, nel suo contesto culturale e religioso, di accogliere il bambino. Non solo. Ci sono anche madri che, essendosi sottoposte alla fecondazione in vitro e dopo tanti fallimenti prima di rimanere incinte, decidono di non abortire anche se il bambino ha delle malformazioni terribili, perché - come esse dicono - è l’unico bambino che possono avere. Se ho ben inteso, ha detto che in America c’erano già esperienze di Hospices. Cosa distingue la struttura da lei diretta? I Perinatal Hospices, di cui ho appena detto, supportano la donna nelle gravidanze difficili, ma quando il bambino è nato non si può non fare nulla. Quello che ho fatto di nuovo è ideare una struttura che curi il bambino durante il corso della sua breve vita, nel calore degli affetti della sua famiglia. Per questo ho elaborato delle linee guida, pubblicate nella letteratura specializzata, ed il nostro centro organizza corsi annuali per insegnare agli operatori sanitari la metodologia di “comfort care”.

Incontrando mamme che sperimentavano questa dura esperienza, ho offerto loro una prospettiva diversa, informandole sulla durata della vita del bambino e su che cosa sarebbe stato fatto dopo la nascita.

C’è chi vede nel bambino ammalato terminale e sofferente la prova dell’inesistenza di Dio. Questa sofferenza ha mai messo in crisi la sua fede? La maggior parte di questi bambini non soffre affatto. E’ una menzogna dire che soffrono. Lo dico sempre durante la gravidanza. Questi bambini, quando nascono, sono molto deboli ed infatti l’uso della morfina è rarissimo. Se per caso c’è dolore, si dà la morfina per bocca e, comunque, ci sono quintali di medicine per combatterlo, per cui non c’è mai un problema di sofferenza. Sono i genitori che soffrono e, per questo, al “comfort care” abbiamo un team di persone che sta al loro fianco. Riguardo alla fede, penso che tutti esistiamo perché Qualcuno lo ha voluto. Io non ho deciso di nascere, voi non avete deciso di nascere, ma Qualcun Altro ha deciso. Chi è questo Qualcun Altro? E’ Quello che dà la vita a questo bambino. Il valore della vita dipende dal fatto che Qualcun Altro vuole quella persona in vita, non io, non i genitori, non i dottori. La fede è già un giudizio sul fatto che qualsiasi bambino nasce, perché Qualcuno lo crea e quindi ha il diritto di vivere. Questo bambino ha un valore, perché è in rapporto con il Mistero di Dio. Come ho appena detto, non vedo il dolore dei bambini, ma quello dei genitori. In questi anni avrò seguito più di duecento famiglie e non ho mai visto situazioni di disperazione, anche se drammatiche. Anzi c’è sempre un momento di bellezza, un momento di gioia, in cui è chiaro che, prima della morte, c’è la vita e tutto quello che facciamo con loro è fatto per celebrare la vita di quel bambino.


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Il valore della vita dipende dal fatto che Qualcun Altro vuole quella persona in vita, non io, non i genitori, non i dottori. ll bambino vive per nove mesi nella pancia della mamma e poi qualche minuto od ora o qualche giorno o settimana fuori di lei. Ecco, questa vita è intensissima, come se dovessero trascorrere ottant’anni in qualche minuto o qualche giorno. Allora tutto l’amore per questo bambino si concentra in quel momento. Quello che cerchiamo di fare, dal punto di vista medico, è in funzione di questo e l’esperienza dei genitori – sebbene drammatica – è anche “molto bella”. Io credo in Dio e la riprova che Dio esiste, trattando queste famiglie e questi neonati, viene dal fatto che, guardando i bambini malati per il loro valore, non manca mai questo momento di bellezza. E’ stato detto che i medici formano il cervello e non il cuore. Fornire ad un sanitario la preparazione psicologica necessaria per affrontare una situazione di dolore equivale a formarne il cuore? Il “comfort care” riguarda casi limite, ma consente di trattare meglio anche i bambini che non moriranno. Mi spiego. In presenza di un bambino che vivrà solo per poche ore o riconosci in lui un valore intrinseco o lo butti via! Però se non trattiamo come una persona dal valore infinito anche il malato cronico o chi ha una polmonite, magari cureremo la malattia, ma tratteremo malissimo la persona. Il problema, a tutti i livelli della medicina, è quello di riconoscere che la persona che si ha davanti ha un valore, perché Qualcun Altro glielo ha dato. E’ il suo rapporto col Mistero di Dio. Allora, aiutare a formare il cuore vuol dire essere persone col cuore, vuole dire che tu medico riconosci che “sei dato” e che tu sei in rapporto con un Altro e che tutto il resto della realtà “è dato”. Se lei legge il decimo capitolo del libro “Il senso religioso” di Don Luigi Giussani trova la risposta che le sto dando, anche se lui lo dice meglio di me. Formare dei medici e degli infermieri ad affrontare la medicina col cuore è il punto fondamentale, perché, se uno usa il cuore, anche la mente è in attività. Faccio sempre questo esempio: mettiamo che l’ammalata è tua mamma e tu studi medicina, certamente studierai molto bene, perché partirai dal cuore!

La maggior parte dei bambini che nascono con gravi patologie terminali non soffre affatto. E’ una menzogna dire che soffrono.

La riprova che Dio esiste, trattando queste famiglie e questi neonati, viene dal fatto che, guardando i bambini malati per il loro valore, non manca mai il momento di contemplazione della Bellezza. Viceversa, se parti solamente con il cervello, puoi essere un mago della medicina, ma magari non ti accorgi che quel paziente ha dei sintomi un tantino diversi da quelli che credi. Io sono convinta che quando si parte col cuore si è medici bravissimi, perché si vede ancor meglio cosa sta succedendo a quel paziente (piccoli segni, ecc). In Italia conosciamo l’hospice perinatale del Gemelli. Esistono altri centri analoghi a quello da lei ideato? - Sì certo. Una struttura è all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, con il Prof. Giacomo Faldella e la Dott.ssa Chiara Locatelli. Poi a Napoli c’è un altro centro iniziato da una mamma e dalla sua infermiera. A Monza, il Dott. Paterlini e la Dott.ssa Vergani hanno delle esperienze simili. E poi, ovunque nascono questi bambini, c’è sempre personale infermieristico e medico che mi contatta, cosicché stiamo cercando di mettere questo personale assieme. Vorremmo fare riconoscere a livello nazionale la disciplina medica di “comfort care” per i neonati. Dappertutto, in America come in Italia, c’è un sacco di ideologia. Noi vogliamo dire: “Fermi tutti, c’è una mamma e c’è un bambino. Dando per scontato che la mamma ama il bambino, offriamole una possibilità, una proposta”. Vogliamo dare alle mamme la possibilità di essere assistite, sia durante la gravidanza sia in occasione del parto. Quale mamma direbbe di no? Questo non è ancora realizzato, perché operando in tal modo c’è un notevole dispendio di energie, in quanto bisogna stare ore e ore col bambino e con la mamma. ■


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Il coraggio e la felicità

Esistono persone libere, che non si lasciano etichettare in base alle proprie tendenze sessuali. Che cercano l’amore e l’amicizia, quelli veri, che danno gioia vera, a prescindere dal sesso. di Federico Catani Parlare di omosessualità è sempre difficile e spesso si fa una gran confusione, specie riguardo alla posizione della Chiesa cattolica sul tema. Accade così di sentir ripetere come un mantra che la Chiesa odia i gay e che un omosessuale non potrà mai essere cattolico. Per affrontare questa materia, però, è necessario chiarire dei presupposti e precisare alcuni punti. Il Magistero della Chiesa distingue tra tendenze omosessuali ed atti omosessuali. Le prime non sono un peccato, i secondi sì. Attenzione però. Dire che l’inclinazione omosessuale non è un peccato non significa affermare la sua bontà: si tratta, come recita il Catechismo, di una tendenza “intrinsecamente disordinata” perché, se assecondata, porta al peccato contro natura. D’altra parte, però, tante sono le cattive inclinazioni che gli uomini hanno. L’importante è saperle vincere, soggiogandole alla ragione. Anche gli eterosessuali sono chiamati a questo: se un uomo, magari sposato, vede una bella ragazza, può essere tentato di tradire sua moglie, ma deve (e può) non farlo. Il peccato sta per l’appunto nel commettere atti sessuali disordinati (anche col pensiero). E tra questi rientrano i rapporti omosessuali. La Chiesa pertanto raccomanda la castità e lo fa con tutti, a prescindere dall’orientamento sessuale. Spesso però si dice che l’obbligo di una vita casta, in particolare per gli omosessuali, sarebbe una forma di violenza, che impedirebbe loro di vivere pienamente la dimensione affettiva. Eppure ci sono casi che dimostrano esattamente il contrario. Nella Chiesa esiste un’associazione, Courage, il cui specifico apostolato è la cura pastorale delle persone con tendenze omosessuali. Recentemente è uscito il film “Dio esce allo scoperto”, del regista spagnolo Juan Manuel Cotelo, che narra la storia di Ruben Garcia, omosessuale convertito ora membro di Courage Latino, il ramo ispanofono dell’Apostolato Courage. L’associazione è nata nel 1980 su impulso del cardinale Terence Cooke, arcivescovo di New York. Sapendo che gli individui con attrazioni per lo stesso sesso hanno un particolare bisogno di sperimentare la libertà della castità interiore e così di trovare la via

Federico Catani

Laureato in scienze politiche e in scienze religiose, insegnante di religione, è giornalista pubblicista.

necessaria per vivere una vita pienamente cristiana, il cardinale non voleva che molti omosessuali cercassero di soddisfare i propri bisogni in modo sbagliato e insoddisfacente. Perciò, decise di formare una rete di sostegno spirituale per aiutare gli uomini e le donne con attrazione per lo stesso sesso a vivere una vita casta in amicizia, verità e amore. Con l’approvazione della Santa Sede, Courage ha ora più di 100 succursali e punti di contatto in tutto il mondo. Aiutando le persone ad ottenere una maggiore comprensione e apprezzamento degli insegnamenti della Chiesa, in particolare nel settore della castità, Courage vuole mostrare che nella vita casta si trova la pace e la grazia per crescere nella maturità cristiana. Approfondiremo il discorso su questa associazione nelle prossime pagine. Ma quanti conoscono questa realtà? Molti in casa cattolica hanno paura di affrontare questi temi e così accade che chi soffre di questi problemi si senta abbandonato dalla Chiesa o per lo meno assai poco compreso, perché spesso quel che manca è un’adeguata formazione dei sacerdoti.

“La Chiesa raccomanda la castità e lo fa con tutti, a prescindere dall’orientamento sessuale”

Philippe Ariño, alla Manif Pour Tous di Parigi, contro il matrimonio gay


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Ultimamente vi sono diversi giovani con tendenze omosessuali che danno la loro testimonianza per incoraggiare altri a non buttare la propria vita. Tutti sostengono le medesime posizioni. Tra le varie osservazioni, c’è sempre la visione dell’omosessualità per quello che realmente è, ovvero un disagio non innato, ma maturato nel tempo per cause psicologiche e con delle costanti ricorrenti. In Italia, ad esempio, si può consultare il blog di Eliseo del Deserto, il cui autore offre riflessioni senza dubbio controcorrente rispetto alla propaganda omosessualista dei movimenti LGBT, che usano le sofferenze dei “gay” per portare avanti la propria ideologia.

“Nella Chiesa esiste un’associazione, Courage, il cui specifico apostolato è la cura pastorale delle persone con tendenze omosessuali” C’è poi Giorgio Ponte, trentenne siciliano, docente di religione a Milano e scrittore, attivo nelle veglie delle Sentinelle in Piedi. Ponte ha più volte dichiarato di non voler essere etichettato e definito né come gay né come omosessuale, ma semplicemente come uomo che ha tendenze omosessuali, che però in nessun modo possono contraddistinguere la sua identità: siamo infatti uomini e donne, con pregi e difetti, a prescindere dall’orientamento sessuale. E Ponte non si stanca nemmeno di ripetere che la famiglia è una sola: quella tra un maschio ed una femmina. Ne consegue che i bambini hanno diritto ad un padre e ad una madre. Chi sa di avere inclinazioni omosessuali, sa anche che non potrà sposarsi e non potrà avere figli. Del resto, però, come sottolinea Ponte, una vita piena, fatta di amore, non si riduce all’uso della sessualità. Infatti, è amore anche l’amicizia vera. Offrire tali testimonianze non significa certamente dire che si è senza peccato. Vuol dire però che si è compreso qual è il meglio e cos’è il bene: le relazioni di tipo omosessuale non aiutano e non sono certo la meta da raggiungere. Una visione agli antipodi rispetto a chi, mentendo sapendo di mentire, sostiene la bellezza dell’omosessualità e utilizza il termine “gay”, ovvero felice, per definirla. Luca Di Tolve, ex omosessuale ora sposato grazie alla conversione, alla “Cristoterapia” riparativa, ha sempre spiegato che la felicità e l’orgoglio omosessuale tanto sbandierato in realtà nascondono tanta tristezza e tanta depressione, non dovuti tanto – si badi bene – alla vera o

“Una vita piena, fatta di amore, non si riduce all’uso della sessualità” presunta omofobia esistente nella società, ma alla condizione stessa in cui ci si trova: basta girare i locali gay, infatti, per vedere quanta miseria umana c’è (miseria che si ritrova anche in tanti altri contesti, ovviamente). Altro caso è quello del francese Philippe Ariño, autore di “Omosessualità controcorrente. Vivere secondo la Chiesa ed essere felici”, in cui spiega cos’è l’omosessualità, come affrontare in se stessi l’emergere del desiderio omosessuale e come armonizzare fede cattolica con tutto ciò. Ariño si rifiuta di dividere il mondo in omosessuali ed eterosessuali, perché l’unica distinzione reale che esiste è quella tra uomo e donna. Dietro l’omosessualità c’è sofferenza ed evasione dalla realtà. Questa sofferenza accompagna l’interiorità di tutte le relazioni omosessuali, le quali perciò saranno sempre deludenti in ragione della natura propria dell’atto omosessuale: le coppie omosessuali infatti, non saranno mai pienamente felici. L’autore presenta la dottrina cattolica, mettendone in rilievo tutta la ragionevolezza e posatezza: la religione cristiana mostra grande carità verso gli omosessuali, valutandoli come persone ben al di là di singoli atti. La Chiesa dice la verità senza sconti e mostra quale sia il vero amore e a quali condizioni si possa realizzarlo nella vita: proprio in ciò consiste l’aiuto e l’attenzione verso chi soffre di inclinazioni omosessuali. Per chi si affida a Dio, l’omosessualità stessa smette di essere un problema cui reagire in vario modo e diviene la più grande occasione della propria vita, il mezzo che può rendere santi: «Dio si serve di qualsiasi legno per accendere un fuoco - scrive Ariño Se apriamo il nostro cuore, se accogliamo senza rivolta lo scandalo della Croce del Cristo e quello della verginità di Maria, siamo e saremo tutti, omosessuali e no, santi, non perché senza macchia, ma perché santificati». Un messaggio di speranza e un incitamento al combattimento interiore su cui meditare. ■

“Philippe Ariño si rifiuta di dividere il mondo in omosessuali ed eterosessuali, perché l’unica distinzione reale che esiste è quella tra uomo e donna”


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Courage International: il coraggio della verità

Nell’ottobre scorso si è tenuto a Roma il convegno “Living in the truth”, organizzato da Courage International di Daniele Sebastianelli Nei giorni in cui ha tenuto banco il cosiddetto coming out di mons. Charamsa – con relativa conferenza stampa, annuncio del libro-rivelazione e presentazione ai media del proprio “compagno” – un’altra notizia, di segno opposto, è passata inosservata al circuito mediatico. Una conferenza alla Pontificia Università San Tommaso D’Aquino (“Angelicum”) di Roma, il 2 ottobre, dal titolo Living the Truth in Love (Vivere la Verità nell’Amore) organizzata da “Courage International”, l’associazione americana - cui si è accennato nelle pagine precedenti - che aiuta le persone con tendenze omosessuali a riappropriarsi della libertà interiore attraverso l’esperienza di una vita casta seguendo gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Di grande impatto la testimonianza, davanti a circa 200 partecipanti, di quattro relatori d’eccezione, ex omosessuali, che hanno raccontato il loro percorso “di liberazione” da uno stile di vita “disordinato”, definendolo come un’esperienza personale di disgregazione interiore, approdando a una vita casta e felice. Andrew, Paul, David e Rilene, i loro nomi, protagonisti di un filmato che racconta le loro storie, “Desire of the Everlasting hills” (Desiderio delle colline eterne), visibile su https://everlastinghills.org/movie/.

Al convegno hanno partecipato i cardinali Burke, Sarah e Pell, mons. Melina, padre Paul Check, direttore di Courage e padre Giordano, direttore di Vita Umana Internazionale

Militare ordine di Malta – i relatori cardinali Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, e George Pell, prefetto della Segreteria per l’economia, insieme a mons. Livio Melina, preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia. Introdotti da Padre Paul Check, direttore di Courage. Il gender è una “ideologia, espressione radicale della non differenza” tra uomo e donna, ha ammonito Sarah, un’ideologia che vuole convincerci che “l’anatomia non è in alcun modo determinante nell’identità umana”. “Questa dissociazione tra sesso e ruolo sociale – ha proseguito il cardinale – si ripercuote nelle rivendicazioni di persone gay e lesbiche e in alcuni Paesi il carattere ‘normale’ di questi orientamenti è fatto oggetto di un riconoscimento esplicito nell’ordinamento giuridico, come anche l’omogenitorialità”. Noi “non condanniamo le persone che hanno questa tendenza (omosessuale, ndr) – ha precisato Sarah – ma San Paolo è stato molto chiaro.

E’ possibile riappropriarsi della libertà interiore attraverso l’esperienza di una vita casta, seguendo gli insegnamenti della Chiesa cattolica.

Storie apparentemente diverse ma unite da un passato di omosessualità attiva sfociata in crisi esistenziali. In cerca di una risposta liberante e liberatrice, nel bel mezzo della loro vita si sono fermati a interrogarsi. L’incontro con Courage International è stata la scintilla di una rinascita morale e spirituale che emerge chiaramente dai loro gesti, sguardi e sorrisi, prima ancora che dalle loro parole. Tra i prelati presenti – oltre al card. Raymond Leo Burke, patrono del Sovrano

Daniele Daniele Sebastianelli Sebastianelli

Laureato in Laureato in Comunicazione ComunicazioneIstituzionale Istituzionale alla alla Pontificia PontificiaUniversità Universitàdella dellaSanta SantaCroce, Croce, collabora la la collaboracon conHLI HLIeeha hacollaborato collaboratocon con Sala ee con l’Ufficio SalaStampa Stampadella dellaSanta SantaSede Sede con l’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali della Nazionale per le Comunicazioni Sociali Conferenza Episcopale Italiana. della Conferenza Episcopale Italiana.

Tra i partecipanti: il Card. Burke, Don Francesco Giordano di HLI


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Don Francesco Giordano, direttore di Vita Umana Internazionale (HLI) a Roma, con S.E. il Card. Sarah

Vanno accompagnate senza dare l’impressione che questa tendenza realizza pienamente l’uomo e la donna”. Sarah ha anche spronato i presenti a “parlare chiaro” perché ”un linguaggio confuso, danneggia, non aiuta. Senza offendere né giudicare dobbiamo sempre dare testimonianza della nostra fede. Dobbiamo amare, imparando da Dio l’amore”. Dello stesso avviso mons. Melina che ha

Eppure, “la comunità LGBT ha condotto una battaglia lunga anni affermando l’ideologia transgender – ha affermato lo psichiatra Paul McHugh –.

spiegato come “lo stesso corpo è fatto per il dono di sé”. “La connotazione sessuale” infatti “non è un mero accessorio della persona ma un carattere decisivo della sua identità. Il corpo è il luogo dell’incontro con gli altri, dove si sperimenta anche la fragilità e la solitudine”. “La differenza sessuale non è solo una ‘diversità’, ma rappresenta una chiamata alla comunione tra le persone. È un elemento fondamentale della grammatica dell’amore; esprime le sue caratteristiche fondamentali cioè l’apertura all’altro e la capacità generativa”. Per questo, ha ammonito Melina, “bisogna distinguere tra la sessualità come modo di essere che appartiene all’identità delle persone e l’orientamento che può essere un elemento disordinato. Il Cardinale Pell

La differenza sessuale non è solo una ‘diversità’, ma rappresenta una chiamata alla comunione tra le persone. È un elemento fondamentale della grammatica dell’amore. Questo vuol dire che si può sempre vivere la sessualità come modo di essere radicale e correggere la tendenza che non appartiene in modo profondo all’uomo”. Timothy Lock, psicologo, ha ribadito che “gli individui non nascono gay. Non ci sono dati scientifici significativi che lo dimostrano. Non esiste un ‘gene gay’ per il solo fatto che nessuno è riuscito a trovarlo”. Anzi, “chi diceva di averlo trovato, ha dovuto ritrattare”.

Siamo arrivati al punto che ciò che un tempo era minoritario e raro ora è molto cresciuto. Ora sono molte le persone spinte a cambiare sesso, convinte che ci sia qualcosa di sbagliato in loro”. Ciò che è interessante, fa notare McHugh, è che se queste persone sono “lasciate a se stesse, ossia non assecondate, circa l’80-90% di esse abbandonano queste preoccupazioni psicologiche e ritrovano la propria via naturalmente”. Quello che dobbiamo capire, ha affermato il professore, “è che si tratta di un disturbo psichiatrico e dobbiamo cercare di curarlo per quello che è senza assecondare e soddisfare il desiderio del paziente come se ci fosse davvero un problema fisico”. Anche perché “non si diventerà mai uomo o donna con un’operazione chirurgica. Si diven■ terà, semmai, un uomo o una donna contraffatti”.



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Siamo lieti di pubblicare un contributo della Associazione Italiana Ascoltatori Radiotelevisivi, specialista nel campo della comunicazione sociale e promotrice di un’azione formativa ed educativa all’uso responsabile e critico dei media.

Ludopatia: una malattia della società liquida Il gioco d’azzardo, oggi sempre più facile, anche on line, è una droga nociva e pericolosa, di cui diventano vittime più facilmente le persone dissociate e sole. di Vincenzo Franceschi Il gioco d’azzardo in Italia oggi è una vera e propria emergenza sociale che richiede interventi responsabili e immediati. I numeri del fenomeno sono davvero impressionanti: siamo il Paese europeo dove si gioca di più, dove si arriva a bruciare in scommesse il 3% del PIL; ogni cittadino spende in media circa 1.300 euro l’anno e il dato è in costante crescita. Il gioco d’azzardo on line (e non) porta con sé un rischio che, in persone vulnerabili, può sfociare in una vera e propria dipendenza comportamentale. Questa condizione è ormai riconosciuta come una forma patologica che può generare gravi problemi sociali e finanziari. Il cosiddetto “gambling compulsivo” viene considerato un “equivalente depressivo”, cioè un comportamento che sta al posto di una depressione negata (che solitamente compare quando il giocatore smette di giocare). Un giocatore dipendente ha un impulso per il gioco irrefrenabile e incontrollabile, al quale si accompagna una forte tensione emotiva e l’incapacità di ricorrere a un pensiero riflessivo e logico. L’autoinganno serve al controllo del senso di colpa e alimenta un circolo autodistruttivo: se il giocatore perde, giustifica il suo giocare col tentativo di rifarsi, se vince si giustifica affermando che deve approfittare del giorno fortunato. Sul versante psicoanalitico l’ipotesi più promettente e suggestiva prende in considerazione l’elemento di sfida alla casualità sotteso al comportamento compulsivo del giocatore patologico: il tentativo ossessivamente messo in atto di sconfiggere la brutale indifferenza del caso, inseguendo la sensazione di avere la dea bendata dalla propria parte. La sfida al caso, la scommessa con il fato introduce il giocatore in una dimensione spazio-temporale assolutamente speciale. L’elemento oggettivo viene messo tra parentesi (le perdite che si fanno sempre più ingenti

non destano la preoccupazione che meriterebbero) e il giocatore è assolutamente convinto che l’azzardo finalmente pagherà e tutto ritornerà a posto; l’elemento soggettivo della “fiducia” non viene compensato dal dubbio in una distorsione che è al contempo cognitiva ed emotiva e assume valore difensivo rispetto a una considerazione più realistica della propria implicazione nel gioco e nelle perdite. Giocare compulsivamente segnala un disagio, ma allo stesso tempo protegge da disastri peggiori e perciò non va rimosso con operazioni di “chirurgia psichica” ma compreso nel suo significato. Nella ludopatia il vero senso del gioco, cioè la creatività, l’apprendimento di regole e ruoli, viene completamente e trasformato in schiavitù, ossessione, ripetitività. È possibile che vengano compromesse relazioni affettive significative, il lavoro, delle opportunità scolastiche, solo per continuare a giocare. È opportuno ricordare che ormai tutti i siti di scommesse online allettano i giocatori “regalando” a chi si iscrive ricchi bonus di partenza, che a volte arrivano persino ad alcune centinaia di euro. Poi si può avere “la sfortuna” di centrare vincite incoraggianti nei primi tentativi. Il risultato finale è quasi sempre sconvolgente: in un anno anche un impiegato o un operaio può arrivare a “bruciare” dai dieci ai cinquanta mila euro, frutto del proprio stipendio, di risparmi, di prestiti, o delle stesse vincite accumulate in precedenza.

Laddove le famiglie diventano sempre più segmentate, frantumate, allargate, distanti, gli individui soli diventano più facilmente prede delle malattie comportamentali e delle dipendenze: come la ludopatia, che alimenta un giro di almeno 70 miliardi.


Famiglia ed Economia

Nella ludopatia il vero senso del gioco, cioè la creatività, l’apprendimento di regole e ruoli, viene completamente trasformato in schiavitù, ossessione, ripetitività. Quando le possibilità di ottenere prestiti si esauriscono, il soggetto può finire nel ricorrere anche a comportamenti antisociali quali la contraffazione, la frode o il furto. La diffusione della dipendenza da gioco d’azzardo è amplificata dall’accessibilità al gioco via mass media ed è tanto più diffusa quanto più tale pratica è legalizzata. Oltre a decine e decine di siti web legali, cioè regolarizzati dai Monopoli di Stato, proliferano sale gioco on line, fuori dal controllo dello Stato. Molte persone, affette da ludopatie, soffrono anche di altri disturbi, tra cui il più comune è la depressione, ma anche alcuni disturbi di personalità caratterizzati da impulsività, quali il disturbo borderline e il disturbo narcisistico di personalità. La ludopatia è una malattia riconosciuta a livello mondiale. È ormai assimilata alle dipendenze patologiche da droghe e alcol e non esiste una netta linea di demarcazione tra chi gioca in modo sociale e chi lo fa in modo patologico. Un ambiente familiare in cui gli aspetti materiali sono enfatizzati rispetto agli aspetti emotivi è un fattore di rischio. In Italia oggi siamo bombardati da messaggi radio, TV, banner su internet, giornali che invitano al gioco. La crisi economica inoltre acuisce il problema: meno risorse si hanno e più si è propensi a rischiare. Giocano di più le persone meno istruite e con minore reddito. Il marcatore dell’ingresso nella patologia è costituito dalla rincorsa delle perdite. Il passaggio a un livello grave è il superamento del confine della legalità. Le dipendenze da droga, alcol, pornografia e gioco d’azzardo sono molto più simili tra loro di quanto

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pensiamo, per come trasformano le vite degli individui. Si arriva a trascurare le proprie normali occupazioni e si ha bisogno di giocare sempre di più per ottenere lo stesso piacere (assuefazione). Lo stato mentale di un giocatore patologico è pertanto estremamente diverso da quello di un giocatore assiduo, ma non patologico, e si caratterizza per il raggiungimento di uno stato similare alla sbornia, con una modificazione della percezione temporale, un rallentamento o perfino blocco del tempo, uno stato alterato di coscienza, uno stato di estasi ipnotica. E’ importante, quindi, distinguere il “vizio del gioco” dalla “malattia del gioco”: una delle caratteristiche fondamentali del gioco d’azzardo patologico, disturbo siglato in psichiatria G.A.P., è la perdita di controllo sul proprio comportamento, che invece nel vizio è un comportamento volontario. Le fasce più a rischio sono, tra le donne, le casalinghe e le lavoratrici autonome dai quaranta ai cinquant’anni e, tra gli uomini, i disoccupati o i lavoratori che hanno un frequente contatto col denaro o con la vendita e un’età intorno ai quarant’anni. Il problema principale, per chi ha davvero bisogno di aiuto, in casi di ludopatia, è che all’interno delle grandi città non esistono più luoghi di aggregazione, il welfare sta arretrando e le famiglie diventano sempre più segmentate, frantumate, allargate, distanti. In una società come quella di oggi che ha puntato tutto sulla produttività, di individui soli e famiglie sfasciate, secondo le stime del Codacons, in 8 anni si è registrato un aumento del 450% del volume d’affari dei giochi d’azzardo, che vale 70 miliardi. ■

Ormai tutti i siti di scommesse online allettano i giocatori “regalando” a chi si iscrive ricchi bonus di partenza, che a volte arrivano persino ad alcune centinaia di euro.


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STOP MaTriMOniO STOP e adOziOni Gay! cirinnà! Sta per essere approvato alle Camere il ddl Cirinnà, che istituirebbe di fatto il matrimonio gay in Italia, e che aprirebbe le porte anche all’adozione per le coppie omosessuali. Il DDL Cirinnà è:  Pretestuoso › perché quasi tutti i diritti che si reclamano per i conviventi sono già riconosciuti dall’ordinamento;  Contrario › all’art. 29 della nostra Costituzione in quanto prevede un regime sostanzialmente identico al matrimonio per coppie dello stesso sesso;  Deleterio › per il futuro dei bambini in quanto favorirebbe il ricorso all’aberrante pratica dell’utero in affitto all’estero;  In conflitto › con il principio di uguaglianza e non discriminazione che impone non solo di trattare ugualmente situazioni uguali ma anche di trattare diversamente situazioni diverse;  Discriminatorio › verso le persone, come gli ufficiali di stato civile, che non potranno usufruire del loro diritto alla libertà di espressione e di religione;  Dannoso › ogni legge ha una forza pedagogica e situazioni problematiche e innaturali sarebbero percepite dalla collettività come “normali”.

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Letture consigliate Francesco Pini - Duccio Tronci Setta di Stato. Il caso Forteto AB Edizioni I lettori di questa rivista conoscono bene l’oscura vicenda del Forteto. Questo libro-inchiesta la riassume servendosi di documenti processuali, archivi dei media toscani e soprattutto attraverso la testimonianza delle vittime. La comune nata a seguito della contestazione sessantottina ad opera del guru Rodolfo Fiesoli, ideologo omosessualista, era un giardino degli orrori in cui si sono verificati abusi sessuali e violenze di ogni genere su minori e disabili, con la contiguità di una precisa parte politica. Il Tribunale dei minorenni di Firenze, i comuni, i servizi sociali continuano ad affidargli i minori, nonostante denunce e condanne. E la Regione Toscana continua a finanziare.

Francesca Pannuti Socrate, la morte di un laico e altri saggi Aracne Questo libro vuole proporre temi quali il rapporto tra fede e ragione e il rapporto di entrambe con la modernità, allo scopo di stimolare il ricupero dell’autentica razionalità. In particolare, il pensiero di Socrate sulla vita e sulla morte si rivela molto attuale: pone delle serie questioni intorno all’eutanasia e le risolve, nel IV secolo avanti Cristo, razionalmente, con un deciso NO. Per Socrate, la filosofia è il modo più umano di vivere, la liberazione dal più grande dei mali che è l’ignoranza vissuta nel vizio; serve alla contemplazione del trascendente. La morte di Socrate divenne la vittoria della razionalità e della religiosità.

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