Capodopera | n° 28 | Maggio 2011

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Poste Italiane. Spedizione in A.p. 70% - D.C./ D.C.I. TORINO - n° 28/2010 - L.662/96 - Anno X - Numero 28 - Maggio 2010 - € 6,20 - ISSN 1971-7512

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N. 28 - MAGGIO 2010

Artigiane in Rete PASSIONE ARTIGIANA L’Artigianato... per i maestri e per gli appassionati

VIVERE IN UN ECOVILLAGGIO

a della bellezza L’ecovillaggio di Torri Superiore. Un’esperienza di donne e artigianato

Speciale ARTIGIANATO AL FEMMINILE Sguardi sulle imprese artigiane piemontesi al femminile La ricerca continua di Michela Pachner L’audace sfida della stilista Serpica Naro Doppio gioco

QUADRIMESTRALE D’ARTE E D’ARTIGIANATO


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SCUOLE SAN CARLO 13-09-2010

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Formazione dal 1848

SEDE DI TORINO

CFP GABRIELE CAPELLO

V. Pergolesi, 119 - 10154 Torino Tel. 011/20.55.793 - 011/20.58.104 Fax 011/20.58.440 http://scuolesancarlo.org e-mail: info@scuolesancarlo.org

CFP FOLIGNO

V. Foligno, 2/14A - 10149 Torino (TO) Tel: 011.0811129 Fax: 011.0811129

http://torino2.scuolesancarlo.org e-mail: foligno@scuolesancarlo.org

Torino

CFP SANTA PAOLA

C.so Trapani, 25 - 10141 Torino (TO) Tel: 011.3833387 Fax: 011.3808738

http://torino3.scuolesancarlo.org e-mail: santapaola@scuolesancarlo.org

SEDE DI CUNEO

Via Franco Andrea Bonelli, 5 - 12100 Cuneo Tel. 0171/68.14.95 - 0171/18.72.113 Fax 0171/18.72.110 http://cuneo-boves.scuolesancarlo.org e-mail: cuneo@scuolesancarlo.org

SEDE DI BOVES

Cuneo

Via Borgo San Dalmazzo, 19 - 12012 Boves (CN) Tel. 0171/39.01.48 Fax 0171/39.01.71 http://cuneo-boves.scuolesancarlo.org e-mail: boves@scuolesancarlo.org

SEDE DI ASTI

Via Scarampi, 24 - 14100 Asti Tel. 0141/32.44.17 Fax 0141/32.44.17 http://asti.scuolesancarlo.org e-mail: asti@scuolesancarlo.org

Asti

SEDE DI ALESSANDRIA

Via Maria Bensi 2D - 15100 Alessandria Tel. 0131/24.07.81 Fax. 0131/34.33.89 http://alessandria.scuolesancarlo.org e-mail: alessandria@scuolesancarlo.org

SEDE DI BIELLA

Alessandria

C.so G. Pella, 10 - 13900 Biella Tel: 015.0154500 Fax: 015.0154500 http://biella.scuolesancarlo.org e-mail: biella@scuolesancarlo.org


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ANNO X NUMERO 28 MAGGIO 2010 Quadrimestrale d’Arte e d’Artigianato Associazione Scuole Tecniche San Carlo Antica Università dei Minusieri Unione Ex Allievi San Carlo

Direttore responsabile Vito Guglielmi Direttore editoriale Nadia Camandona Comitato Scientifico Sergio Tone

Presidente Associazione Scuole Tecniche San Carlo

Stefano Pasquale

Presidente Antica Università dei Minusieri

Bruno Zanin

Presidente Unione Ex Allievi San Carlo

Hanno collaborato a questo numero

Centro Studi e Documentazione Femminile di Torino, Stefano De Angelis, Roberta Dho, Stefania Doglioli, Michela Goi, Emiliana Losma, Marco Manero, Erica Pellegrino, Silvia Quaranta, Gabriella Rossi

Referenze fotografiche

Archivio Capodopera, Archivio Scuole San Carlo, Nadia Camandona, René Caucasio, Serena Ciarcià, Centro Studi e Documentazione Femminile di Torino, Chorus, CNA Torino, Stefano De Angelis, Fondazione Cologni, Istituto Orafi Ghirardi, Itinerart, Piera Livraghi, MIP, Michela Pachner, Veronica Prampolini, Alberto Ramella, Marta Sanna

Direzione e Amministrazione

In copertina. La festa della santa donna, 2000. Terracotta di Silvia Levenson

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10 anni con Capodopera di Nadia Camandona

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Il bilancio di genere di Emiliana Losma La nostra relazione è qualche cosa di diverso di Gabriella Rossi Notizie dalle sedi a cura della Redazione

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Donne e artigianato di Michela Goi

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La sede storica torinese di Silvia Quaranta

EDITORIALE SCUOLE SAN CARLO

UNIONE EX ALLIEVI UNIVERSITÀ DEI MINUSIERI

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REGIONE PIEMONTE Nel mondo della donna artigiana di Michela Goi PROVINCIA DI TORINO

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La Consigliera di Parità di R. Dho e G. Rossi Donne e artigianato di Marco Manero CONFEDERAZIONI ARTIGIANE

Associazione Scuole Tecniche San Carlo Via Pergolesi, 119 - 10154 Torino Tel. 011/2055793 - Fax 011/2058440 E-mail capodopera@scuolesancarlo.org

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Redazione e Segreteria

Artiste di Corte di Michela Goi La ricerca continua di Michela Pachner di Michela Goi La Regina del plexiglas di Stefano De Angelis L’audace sfida della stilista Serpica Naro di G. Rossi Doppio Gioco a cura della Redazione La forza rivoluzionaria della manutenzione di G. Rossi Immagina che il lavoro... di Gabriella Rossi Abitare in un ecovillaggio di Gabriella Rossi L’esperienza del microcredito di Stefania Doglioli PASSIONE ARTIGIANA

Nadia Camandona Editore Strada Volvera 21 - 10043 Orbassano TO Tel. 011/23413523-23416460 - Fax 011/09652268 E-mail capodopera@nadiacamandonaeditore.to

Stampa GRAFICAT TORINO di Catasso G. & C Snc via Cuniberti, 47 - 10151 Torino Servizio Abbonati Tel. 011/23413523-23416460 - Fax 011/09652268 E-mail abbonati@nce.to Abbonamento annuale 18,00 € ccp 30821151 oppure bonifico bancario Unicredit Banca, Torino. IBAN: IT 14 R 02008 01124 000001648942 intestato “Associazione Scuole Tecniche San Carlo”, causale “abbonamento annuale Capodopera”. Ufficio Pubblicità Nadia Camandona Editore - Silvia Quaranta Tel. 011/23413523-23416460 - Fax 011/09652268 E-mail pubblicita@nce.to - silvia.quaranta@nce.to Poste Italiane. Spedizione in A.p. 70% - D.C.I. TORINO

n° 28/2010 L. 662/96 Registrazione del Tribunale di Torino n° 5476 del 26/02/2001 Le opinioni espresse negli articoli pubblicati dalla rivista Capodopera impegnano esclusivamente i rispettivi autori. Articoli e immagini inviati alla rivista, anche se non pubblicati, verranno restituiti solo previa richiesta. LA TIRATURA DI QUESTO NUMERO È DI 3.000 COPIE

CNA Impresa Donna a cura di Michela Goi

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SPECIALE

ARTIGIANATO AL FEMMINILE

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La creatività in piazza di Michela Goi L’artigianato... per i maestri e per gli appassionati di Silvia Quaranta ARTIGIANI INSOLITI

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Una tela di pietra di Silvia Quaranta ARTIGIANATO IN ITALIA

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La Fondazione Cologni di Michela Goi DONNE ARTIGIANE

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Le cose di Elisabetta a cura della Redazione Piera Livraghi a cura della Redazione Fior di Pesco a cura della Redazione

FORMAZIONE Istituto Orafi Ghirardi a cura della Redazione


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Ed itoriale

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L’ARTIGIANATO È ANCHE DONNA

10 anni con Capodopera Nadia Camandona Direttore editoriale di Capodopera

Si festeggia al femminile

A destra. Un’allieva al lavoro su un dipinto nella sede di Asti dell’Associazione Scuole Tecniche San Carlo.

esteggiamo quest’anno i 10 anni della rivista Capodopera, ma chi ha seguito dall’inizio la nostra avventura, sa che l’idea risale al 1996 e che inizialmente il giornalino dell’Antica Università dei Minusieri e degli ex allievi delle Scuole San Carlo, si chiamava “La buscaja”. Di strada ne abbiamo fatta molta e lo possiamo constatare ogni giorno, con i numerosi lettori che ci seguono e che ora provengono da tutta Italia e che ci leggono su carta ma anche su Internet. Ci riserviamo però questa “celebrazione” con il numero di dicembre 2010 e per ora cominciamo a festeggiare quest’anno di traguardo e, si spera, di rinnovato slancio, con un numero dedicato interamente al femminile. In questi anni le donne sono state svariate volte protagoniste dei nostri articoli, ma spesso, pensando all’artigianato, rischiamo di cadere nel luogo comune di pensare che si tratti di una professione più adatta all’universo maschile. Io stessa ho vissuto sulla mia pelle, come donna

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restauratrice, al termine del corso di restauro arredi lignei presso le Scuole San Carlo di Torino, diciassette anni fa, la difficoltà di trovare lavoro presso artigiani, prevalentemente uomini, che perplessi mi chiedevano se volevo veramente sporcarmi le mie “delicate” manine! Anch’io, come Capodopera e insieme a Capodopera, di strada ne ho percorsa e ora tiro orgogliosamente le fila di una serie di esperienze che mi hanno fortificata come donna, ma mi hanno anche fatto comprendere che più che una differenza di “genere” si tratta di affrontare quotidianamente una differenza di “mente”, quella che ci rende così uguali e così diversi non solo tra uomini e donne, ma anche tra persone dello stesso sesso. Ciò che conta è il rispetto per ciò che è diverso che invece di essere percepito come “pericoloso” dovrebbe essere colto come occasione di crescita e di nuova conoscenza. Putroppo è triste constatare come ancora si sia lontani dal raggiungimento di questa cosiddetta parità, che non si riferisce al mero luogo comune sulla possibilità di poter accedere agli stessi lavori, cosa che in un modo o nell’altro stiamo già facendo, ma di essere valorizzati, ognuno, per le proprie speciali e uniche peculiarità, qualsiasi esse siano. In questo numero abbiamo affrontato l’argomento da un punto di vista più ampio di quello dell’artigianato, anche perchè, tra le pagine di storia che vi proponiamo, emerge un’immagine femminile profondamente radicata in un quotidiano fatto di cura delle cose, di manutenzione in senso lato, di rispetto per ciò che circonda l’uomo e ne permette lo sviluppo della vita e della civiltà. In questi termini emerge quindi la figura della donna come artigiana del mondo, non necessariamente legata a una professione riconosciuta, ma come elemento unificante tra la società che progredisce tecnicamente e le radici profonde che essa ha nella terra, nella natura, in tutti quegli elementi che fanno dell’uomo e della donna “artigiani” della loro vita.


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ASSOCIAZIONE SCUOLE TECNICHE SAN CARLO Bilancio di Genere

Il bilancio di genere: uno strumento di consapevolezza, efficienza e benessere Emiliana Losma Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile, Torino

QUEST’ANNO IN SPERIMENTAZIONE PRESSO LE SCUOLE TECNICHE SAN CARLO razie alla possibilità offerta dal corso “Donne Politica e Istituzioni percorsi formativi per la promozione delle pari opportunità nei centri decisionali della politica” (organizzato dal CIRSD e su iniziativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Diritti e Pari Opportunità e in collaborazione con la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione), le Scuole Tecniche San Carlo saranno il primo ente di formazione professionale del territorio piemontese a sperimentare la lettura del Bilancio di genere. Di che cosa si tratta e da quali motivazioni nasce la necessità di una lettura di genere delle risorse economiche? Facciamo un passo indietro e ripercorriamo insieme le tappe della nascita di questo prezioso strumento culturale. Nell’ambito della IV Conferenza Mondiale sulle donne tenutasi a Pechino nel settembre 1995, i governi si impegnarono a promuovere l’indipendenza economica delle donne per mezzo di cambiamenti nelle strutture economiche. La necessità di realizzare un’analisi di genere del bilancio deriva dalla constatazione che quest’ultimo non è uno strumento neutro, ma che anzi riflette gli stereotipi sociali e la distribuzione del potere. Di conseguenza i modelli di sviluppo socio-economico influenzano le scelte politiche ed economiche producendo impatti ed effetti diversi su donne e uomini. Queste ultime, infatti, rivelano spesso una gender blindness ovvero una “cecità” rispetto ai generi, che penalizza soprattutto le donne. Tra gli obiettivi strategici, quindi, c’è la ristrutturazione e la ridefinizione della spesa pubblica per promuovere l’accesso delle donne alle risorse produttive, riconoscendo i loro bisogni fondamentali nel campo sociale, della formazione e della salute. Il gender budgeting (bilancio di genere) diventa quindi uno strumento innovativo di mainstreaming che consiste nella riclassificazione del bilancio di un ente pubblico o privato per aree sensibili rispetto al genere. La prima sperimentazione di analisi di genere dei bilanci pubblici risale al 1984 in Australia.

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Successivamente si è sviluppata in Gran Bretagna (1989) e in Canada (1993). Nel luglio del 2003 il Parlamento Europeo con la risoluzione sul gender budgeting rivolge agli stati membri la richiesta di «valutare quale sia l’impatto della politica economica dell’ente su donne e uomini al fine di raggiungere una maggiore efficacia nell’elaborazione e attuazione di strategie e meccanismi che diminuiscano il gap di genere». In Italia l’applicazione è avviata in fase sperimentale da alcuni Enti e Amministrazioni pubbliche mediante protocolli e progetti di applicazione. Negli ultimi due anni anche la Regione Piemonte ha predisposto il proprio bilancio di genere, presentandolo unitamente al Rapporto sulla Condizione Femminile. L’esplicita volontà di operare per diffondere questa buona prassi su tutto il territorio è contenuta nella proposta di Legge Regionale n. 328 (“Disposizioni per l’istituzione dei bilanci di genere” e nel Disegno di Legge Regionale n. 342 “Integrazione delle politiche di pari opportunità di genere nella Regione Piemonte”). L’introduzione della contabilità sociale in ambito pubblico corrisponde alla considerazione che un’azione amministrativa, un investimento, un fenomeno sociale, non possono essere misurati soltanto finanziariamente. Il bilancio non ha a che fare soltanto con questioni contabili: è un corpo vivo che riflette le dinamiche dell’economia e della società, le riflessioni degli attori sociali e le reazioni dei decisori politici; è uno strumento, non un fine in sé, che richiede costante reinterpretazione e ridefinizione. Il bilancio di genere è uno strumento innovativo poiché introduce e comporta un cambiamento culturale e organizzativo in quanto richiede una ristrutturazione delle entrate e delle uscite al fine di promuovere la parità tra i sessi nelle diverse fasi delle politiche di bilancio (previsione, attuazione e rendiconto). I budget formulati secondo una prospettiva di genere servono quindi a riposizionare un soggetto sociale nel quadro delle negoziazioni.

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Alcune politiche hanno un impatto diretto sul genere e sono più facili da riconoscere, altre paiono neutre ma, indirettamente, impattano comunque sulla vita di uomini e donne. Anche le politiche ambientali, quelle dei rifiuti, le politiche del lavoro e della formazione, quelle dello sport e della cultura se affrontate con l’ottica della “differenza di genere” possono rivelare ampi margini di azione attraverso cui elaborare numerose iniziative volte a promuovere la parità tra i sessi. L’analisi di bilancio attraverso il genere offre benefici e strumenti, e soprattutto un nuovo strumento decisionale utile a meglio comprendere e soddisfare le esigenze della popolazione e a ragionare in modo più mirato sulla distribuzione delle risorse alle istituzioni, agli organismi di rappresentanza e alle associazioni che a vario titolo si relazionano con l’ente in un’ottica di negoziazione, confronto e partecipazione attiva e a tutte le cittadine e ai cittadini che possono godere di politiche e servizi meno preconfezionati e distanti dalla realtà, ma più mirati alle loro reali esigenze. Proprio per questo motivo abbiamo deciso di prendere in considerazione il bilancio di un ente di formazione, che gestisce risorse pubbliche mirate alla formazione della cittadinanza, per valutare il rapporto tra entrate e uscite rispetto al genere. Non solo per quanto riguarda studenti e studentesse, ma anche per quanto riguarda il corpo docente e l’organizzazione dell’associazione stessa. Da una parte, visto che i corsi sono finanziati in base al numero di allievi frequentanti, si prenderà in considerazione il numero degli allievi divisi

per genere e, trattandosi di una scuola multietnica, si cercherà di ragionare anche sui numeri in riferimento alle nazioni di provenienza. Essendo una scuola professionale con corsi di aggiornamento per adulti sarà interessante ragionare sull’età dei frequentanti e sul loro stato civile. Cercheremo poi di capire se questi corsi offrono reali possibilità d’inserimento nel mondo del lavoro, con i relativi dati. E ragioneremo sulla dispersione scolastica per capirne le cause. Inoltre sarebbe interessante valutare e pianificare se tra le entrate delle Scuole Tecniche San Carlo ci sono contributi più o meno specifici per favorire la conciliazione, le pari opportunità, contrastare la violenza, sostenere le fasce deboli e l’inclusione sociale di minori stranieri. Per quanto riguarda invece il personale lavoreremo sulla visione di genere nell’organizzazione del servizio. I dati relativi al personale prenderanno in considerazione il genere, l’età, i tipi e la lunghezza media dei contratti in modo da poter fornire ulteriori dati di supporto alle politiche aziendali sulla gestione dei contributi. Ogni realtà organizzativa o produttiva, che si inserisca in un determinato contesto è chiamata a offrire il proprio contributo per la crescita e il bene comune, in un atteggiamento di responsabilità verso l’intera comunità, mirando a ristrutturare le entrate e le uscite al fine di promuovere l’uguaglianza tra i sessi. Le Scuole San Carlo, sperimentando tra le prime la lettura del bilancio di genere, confermano la loro attenzione verso la costruzione di una civiltà oltre che più formata anche più rispettosa ed equa tra i generi.

La nostra relazione è qualche cosa di diverso…

Gabriella Rossi Referente di Parità Ente Scuole Tecniche San Carlo

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pesso capita tra colleghe di scambiarsi riflessioni, dubbi e opinioni sul nostro “esserci” nel processo educativo e formativo del nostro lavoro. Che cosa si porta e che cosa ci restituisce lo scambio tra insegnante/allievi? In questa relazione, che non è neutra, prima di tutto noi portiamo i nostri corpi, il nostro essere sessuate al femminile, le nostre esperienze, le nostre abilità e sensibilità, il nostro taglio con maggiore o minore accento dato dalle naturali differenze esistenti tra di noi. Nella nostra storia recente per molto tempo educazione e istruzione, per le donne, hanno seguito percorsi differenti, nel senso

che le donne venivano educate (da altre donne) al proprio ruolo di “femmine dellʼuomo” mentre erano tenute lontane dallʼistruzione o “istruite quanto basta” nel caso di giovani donne del ceto borghese o aristocratico (lʼistruzione come “ornamento”) o nel caso se ne riconoscesse lʼutilità (per le commercianti, per le monache e converse, ecc.) La formazione come docenti è nata in istituzioni separate rispetto a quelle maschili. Negli ultimi quarantʼanni è andata crescendo la componente femminile soprattutto nellʼinsegnamento (nei vari ordini di scuola, e in particolare, nella scuola dellʼinfanzia ed elementare), sia a seguito di

un generale aumento della femminilizzazione della forza lavoro, sia in virtù della peculiarità dellʼinsegnamento, per quanto concerne tempi, modalità e contenuti relazionali. La composizione degli operatori del nostro ente di formazione conferma quanto detto sopra, infatti le donne rappresentano il 55% del corpo docenti. Con unʼequivalente ripartizione di genere nelle materie teoriche e una divisione classica dei ruoli di genere nei laboratori, in cui però spicca la titolarità femminile della falegnameria di Cuneo e Boves, Chiara Fornaro (non solo per genere ma anche per generazione). Ci chiediamo allora, partendo

dalle nostre specifiche esperienze come si declina il nostro specifico sessuale a partire dalla relazione con le allieve e gli allievi. Quali sono le nostre sensazioni, quale secondo noi la strada da percorrere. Siamo consapevoli che tutto questo richiederebbe un maggior spazio di approfondimento ma in occasione di questo numero di Capodopera dedicato al lavoro delle donne proveremo a imbastire un primo spunto di riflessione sulla lettura e valorizzazione della differenza nella formazione, partendo da quello che spesso è un problema: la relazione (conflittuale) con gli allievi. Partendo dal concetto che lʼautorità è componente di questa


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relazione (o dovrebbe esserlo) che pone i termini in disparità e affidamento nonché fiducia nel sapere dellʼaltro/altra porremo questo primo interrogativo sulla conferma/sconferma culturale dellʼautorità femminile in una società che è ancora fresca dal totalitarismo pubblico (e privato) dellʼautorità paterna (intesa come sovranità). E sulla relazione generazionale, perché è con gli adolescenti che vengono espressi maggiormente i conflitti legati al non riconoscimento dellʼautorità. Relazione che si presenta spesso ostile, fragile, da maneggiare con cura, ma proprio per questo virale, ricca e irrinunciabile. Quando parliamo di difficoltà a instaurare una relazione autorevole tutti noi docenti sappiamo di cosa stiamo parlando. Ad esempio a Torino, qui nel quartiere di Barriera di Milano nello scambio tra noi colleghe osserviamo che i nostri allievi faticano maggiormente a riconoscere lʼautorità della relazione leggendo maggiormente il senso del potere in termini gerarchici tra chi ne ha di più e chi ne ha di meno (laboratorio/teoria, insegnanti/direttore, insegnanti uomini/donne). Autorità a cui la nostra relazione è legata, su cui si gioca la nostra conferma e buona parte della valutazione del proprio lavoro.

Sofia Minieri nella sua esperienza di Asti pone infatti maggiormente lʼaccento sulla questione di autorità dellʼinsegnamento e sulla differenza personale di ognuno di noi nellʼapproccio con lʼaula: “considerando che insegnare attiene a unʼinnata vocazione, in tal senso la relazione del docente, maschio o femmina che sia, con il gruppo classe misto, non ritengo comporti differenziazioni. Certo, ogni individuo pone se stesso nel fare, i propri vissuti, le modalità/strategie costruite nel corso degli anni di insegnamento, insomma un background che va ad agevolare la trasmissione dei saperi. Dʼaltra parte gli allievi, maschi o femmine, non instaurano una relazione differente con docenti di genere diverso, piuttosto credo che i giovani riconoscano lʼautorevolezza, la voglia di trasmettere cultura in modo sentito, la voglia di non creare iniquità, il desiderio di dare ad ognuno/a pari opportunità e pari dignità. E poi mi

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chiedo: lʼeventuale differenza di approccio degli/delle allievi/e nei confronti dei/delle docenti è rimandabile a una base culturalestorica?”

Sempre sul tema dellʼautorità il sentire di Cristina Campese Referente di Parità di Alessandria ci dice che: “purtroppo la mia esperienza al momento non è positiva... secondo me il riconoscimento del ruolo è lʼimpresa da affrontare... in aula, piccoli o grandi che siano gli allievi, è sempre indispensabile avere ed emanare una buona consapevolezza di sè, di quello che si è e di quello che si fa e sa, cercando di non farla scalfire dagli attacchi a 360° che arrivano, sia dai grandi che dai piccoli...” Entrando nel merito del nostro sentire circa la relazione di genere con gli allievi le impressioni nello scambio tra di noi hanno trovato alcuni fondamenti comuni anche tra diverse sedi e realtà territoriali.

Sempre Cristina Campese della sede di Alessandria ci dice che: “trovo molto difficoltoso stare in relazione con allievi che hanno culturalmente aspettative diverse sulla donna, per cui rifiutano la relazione classica sociale che passa dal contatto visivo; con questi allievi che hanno solo il contatto corporeo (spinte, scontro) come mezzo per stare con te, è molto impegnativo conservare ruolo e idea di sé e non farsi trascinare dal loro modo di comunicare, quindi per esempio dalla voglia di spingere via fisicamente allontanando.”

Parlando invece di differenza di sguardo e aspettative nei confronti dei docenti dice ancora Cristina Campese: “sia dallʼesperienza personale che da quanto raccolgo in giro come riflessioni e confronto dʼidee tra colleghe/i, esiste una differenza di aspettative da parte dellʼallievo nei confronti dellʼinsegnante, donna e uomo; quello che posso dire è che da una donna gli adulti si aspettano una sorta di ʻmaternageʼ, di essere presi in bracciocarico, come se da una donna si potesse essere scusati più facilmente che non da un uomo; credo che questo funzioni anche nei confronti di quegli uomini che, per indole o educazione,

sono propensi a parlare con gli allievi, oltre che a far fare, diventando così (almeno nella mia realtà) più ʻfemminiliʼ e quindi ʻmaterniʼ, accoglienti, onnicomprensivi. Questo con la conseguenza che con un insegnante comprensivo ci si permette maggiormente di discutere, controbattere e ribellarsi, anche fortemente alcune volte (!) Con i ragazzi, dipende molto dallʼeducazione individuale, per me. Non noto differenza di atteggiamento, per esempio, tra ragazzi italiani e stranieri nei confronti di insegnanti donne: chi sa (da famiglia, media, esperienze varie) che può permettersi di ʻallargarsiʼ con le donne, cerca di farlo anche a scuola, italiano o straniero che sia. Nei confronti degli insegnati uomini, invece, spesso ho riscontrato un bisogno di identificarsi in un insegnante ʻidealeʼ, nel senso di ʻproprio quello che cerco-ho bisognoʼ, che con le insegnanti è impossibile.”

Silvia Andreis delle sedi di Cuneo e Boves conferma il sentire comune di molte di noi nel confronto con lo sguardo maschile degli adolescenti: Xdalla mia esperienza mi sembra di poter dire che i ragazzi maschi considerino la donna meno autorevole dellʼuomo, riconoscendo maggiormente lʼautorità paterna. Sono più portati a metterti alla prova, a stuzzicare, a provocare per vedere come reagisci mentre con lʼuomo questo avviene meno, hanno più rispetto e meno sfida. Sfidano lʼautorità, per vedere se debole, per testarla. Perché secondo me in casa hanno esempi di ruoli differenti in cui appunto lʼautorità (sovranità) paterna è maggiormente agita. Magari con lʼinsegnante uomo sono più propensi a provare a mettersi alla pari… fare battute sul sesso… o altri tipi di battute, cercando la complicità ʻtra uominiʼ e magari lʼinsegnante uomo a certe battute presta meno attenzione e la relazione si mette più sullo scherzo mentre a noi donne genera fastidio… sentendo maggiormente la spinta del ricondurci a corpo… ci tocca di più emotivamente e non lo sentiamo tanto come scherzo.”

E noi? Che sguardo portiamo in aula? Diverso dai nostri colleghi? Il miglior ritratto, quello conclusivo di questo primo confronto sui generi ce lo regala Cristina

Campese: “classico collegio docenti; tema: lʼandamento della classe; le donne sanno tutto sulle relazioni dei ragazzi con la famiglia, la fidanzata, gli amici, i sogni, ecc.; gli uomini sanno a che punto sono rispetto al programma, cosa cʼè da fare, come stanno i ragazzi con se stessi rispetto allʼidea di sé come uomini. Le aspettative degli insegnati sono diverse: gli uomini vogliono vedere la fine del processo, mentre le donne sono attente al processo in atto (le donne guardano come viene prodotto lʼoggetto, mentre gli uomini guardano lʼoggetto, se sta nei canoni richiesti per esempio...” Entrambe parti necessarie per lʼaccoglienza piena della persona, nella sua totalità di individuo. Il punto importante è il nostro riconoscimento della ricchezza della specificità dei nostri sguardi, maschili e femminili, verso i giovani e le giovani che abbiamo preso in carico nellʼaccompagnarli alle soglie del mondo adulto. E la competenza femminile nella pratica di relazioni è gia ampiamente riconosciuta nelle scuole primarie e dʼinfanzia e ci auguriamo continui ad affermarsi anche con adolescenti e adulti. Sicuramente è una bella sfida per noi operatrici delle Scuole San Carlo calate in territori “difficili” ma certo è che fare pratica di relazione e riconoscere questa necessità non può che portare del bene, a beneficio di tutti, maestre, maestri, allievi e scuole...

Per concludere restando legata a quanto detto poco sopra da Cristina Campese vi propongo le parole di Giannina Longobardi, che non insegna alle Scuole San Carlo ma è maestra e filosofa di Diotima, comunità filosofica dellʼUniversità di Verona e ci dice che: “Lʼunica cosa che dobbiamo fare è autorizzare lʼamore. Nella scuola superiore questa autorizzazione non circola affatto. Lʼamore per ragazze e ragazzi è clandestino, non previsto, inconfessato, guardato con sospetto. Finito lʼobbligo lʼamore non ha legittimità, deve prevalere la tecnica: il sentimento e la preoccupazione sono debolezze femminee. Non sono vostri figli, non fate le chiocce, non fate le mamme, ci dicono. Possiamo rispondere che sì, sono nostri figli.”

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ASSOCIAZIONE SCUOLE TECNICHE SAN CARLO Notizie dalle Sedi a cura della Redazione

Quando l’abito diventa poesia A Boves un atelier di moda Erica Pellegrino Responsabile della sede di Boves

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a novità di questʼanno formativo è senza dubbio il corso di Stilista rivolto a disoccupati in possesso di titolo di studio superiore e finanziato dalla Provincia di Cuneo. Un percorso formativo certamente ambizioso che scommette sulle possibilità di impiego in un settore, quello della moda, tanto bello quanto fragile. Lavorando da qualche anno con le aziende di moda presenti sul territorio, abbiamo constatato che la produzione rimasta in provincia riguarda principalmente i settori dellʼalta moda, dellʼabito da cerimonia e dellʼintimo, essendo ormai appannaggio dei paesi in via di sviluppo gli altri tipi di lavorazioni. Di questo si è parlato negli incontri con i rappresentanti della Confartigianato Piemonte Moda e in particolare il presidente, Claudio Ambrogio, ha sottolineato quanto sia lunga la formazione di un operatore del settore a causa della complessità del lavoro e delle molteplici competenze da trasmettere. Nella progettazione e confezione di un abito importante, come possono essere quelli da cerimonia, le cose da conoscere e di cui tener conto sono innumerevoli, dallo stile, alla scelta dei materiali, alle finiture, ai decori. Avere una persona già in parte formata può essere un grande vantaggio per le aziende. «Il settore moda» ci spiega Ambrogio «comprende realtà produttive molto variegate; si va dalla progettazione del capo, alla creazione del modello, al taglio dei tessuti, alla confezione dellʼabito, alla stiratura. Per esempio è molto importante saper stirare un abito e la figura della stiratrice è spesso ricercata dalle pulitintolavanderie, le quali lamentano anche la difficoltà nel riconoscere la composizione dei tessuti al fine del loro lavaggio.» «Non è vero che il settore della moda non offre possibilità lavorative» sottolinea il presidente «spesso le mie dipendenti passano a negozi della concorrenza e non è da sottovalutare anche la possibilità di mettersi in proprio partendo con il lavorare per negozi e lavanderie.» Gli iscritti al corso Stilista sono tutte donne con una forte motivazione al percorso e una grande passione per la creazione di abiti.

Alcune hanno già lavorato nellʼambito della moda, ma vorrebbero migliorare la propria specializzazione per meglio collocarsi allʼinterno delle aziende; altre hanno coltivato fin da piccole questa passione, cercando di svilupparla attraverso la partecipazione a brevi corsi o da autodidatte. Parlando con la professoressa Spinelli, docente di laboratorio e imprenditrice del settore, si sta valutando la possibilità di supportare le allieve nella creazione di una cooperativa che operi nellʼambito della moda a trecentosessanta gradi, cercando di utilizzare al meglio i talenti di ognuna di loro. Intanto le lezioni continuano in un clima di grande entusiasmo, gli abiti creati fanno bella mostra di sé sui manichini e a breve avranno inizio i tirocini nelle aziende selezionate per mettere in pratica le cose apprese. In alto. Le allieve del corso di stilista e i loro bozzetti.


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Laboratori didattici sull’artigianato e sull’agricoltura A Cuneo la cultura del fare

Erica Pellegrino Responsabile delle sedi di Boves e Cuneo

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elle giornate dal 3 al 6 giugno la città di Boves ospiterà unʼimportante manifestazione sul mondo dellʼartigianato e del tessuto produttivo della Provincia di Cuneo che è parte integrante del progetto “La porta delle Alpi” (www.laportadellealpi.eu). Unʼiniziativa, questa, che vuole definire un territorio facendo sì che gli attori che intervengono possano presentare i loro valori turistici, commerciali e artistici nello stesso modo, con le stesse opportunità. Lʼevento, promosso dalla Confartigianato di Cuneo, dalla Confcommercio, dalla Coldiretti, dal Comune di Cuneo e dal Comune di Boves, ha come momento significativo lʼattivazione di laboratori didattici sullʼartigianato e lʼagricoltura in cui sperimentare la manualità e apprendere tecniche per la lavorazione di materiali diversi. Obiettivo della manifestazione vuol essere quello di far conoscere la ricchezza del tessuto produttivo

del territorio attraverso la manipolazione di materiali e lʼutilizzo di strumenti di lavoro, con lʼintento di valorizzare i mestieri manuali. Troppo spesso ancora oggi il lavoro artigianale, portatore di cultura e di intelligenza pratica, viene visto come ripiego anziché come risorsa e scelta professionale vincente; attraverso i laboratori didattici si vogliono avvicinare giovani e adulti alla cultura del fare. I laboratori didattici saranno ubicati nei locali dellʼEx Filanda Favole e presso le Scuole Tecniche San Carlo e la Scuola Edile di Boves, rimarranno aperti durante tutta la durata della manifestazione e la partecipazione è gratuita. Una navetta permetterà ai gruppi di raggiungere agevolmente le diverse strutture, mostrando al contempo le bellezze della città di Boves, nota ai più per la nascita delle prime formazioni partigiane e per lʼeccidio perpetrato a danno della popolazione civile dalle formazioni nazifasciste. Il percorso didattico avrà inizio nei locali della Ex Filanda Favole, recentemente ristrutturati grazie a un progetto regionale, dove i partecipanti potranno assistere alla presentazione del progetto, ricevere informazioni circa lʼubicazione dei laboratori didattici e visitare alcune vetrine espositive sullʼattività delle scuole professionali e delle associazioni di categoria. Nel corso delle quattro giornate sono previste numerose altre iniziative quali concerti, cene a tema, vendita di prodotti tipici, possibilità di visite guidate. Una bella occasione per scoprire nuovi territori e realtà ancora poco conosciute! Per maggiori informazioni potete visitare il sito del Comune di Boves: www.comune.boves.cn.it, o quello delle Scuole Tecniche San Carlo: www.scuolesancarlo.org, nella sezione Cuneo e Boves.

Aperti per fiera dal 26 agosto al 5 settembre

San Carlo a porte aperte

Le Scuole Tecniche San Carlo alla Grande Fiera d’Estate di Cuneo

La GFE compie 35 anni e ci vedrà presenti con uno stand allʼinterno dello spazio espositivo riservato ai soggetti istituzionali. Per lʼoccasione verranno esposti i migliori manufatti realizzati nel corso dellʼanno formativo appena concluso, dai mobili agli abiti, e i nostri operatori saranno a disposizione di chi vuole saperne di più. Vi aspettiamo numerosi!

sabato 5 giugno dalle 10.30 alle 18.30 presso la Sede di Torino, Via Pergolesi 119

Le Scuole San Carlo in collaborazione con lʼUnione ex Allievi organizzano una giornata di apertura al pubblico con musica, spettacoli , dimostrazioni di laboratorio e lʼirripetibile opportunità di acquistare i nostri manufatti e le nostre t-shirt sostenendo le Scuole San Carlo. Sfileranno le allieve dei corsi di sartoria con le loro creazioni. Tra gli ospiti Beppe Brondino & Madame Zorà, Mago Valej & Minù e Marco Sereno, ci sbalordiranno con giochi di magia. Contatti e informazioni: Tel. 011/2055793 - info@scuolesancarlo.org - http://scuolesancarlo.org/torino

I contribuenti che desiderano destinare il 5 PER MILLE allʼAssociazione Scuole Tecniche San Carlo possono indicare il Codice Fiscale 07585390011 nellʼapposita casella della dichiarazione dei redditi dellʼanno 2009


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PER LA SUA

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PUBBLICITÀ SU CAPODOPERA

Tel. 011/23413523 011/23416460 Fax 011/09652268 E-mail: pubblicita@nce.to www.nadiacamandonaeditore.to


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ASSOCIAZIONE SCUOLE TECNICHE SAN CARLO Unione Ex Allievi Michela Goi

DONNE e Artigianato Teatro

UNA DONNA IN

nna Maria Montaldo è la direttrice del laboratorio di falegnameria del Teatro Regio di Torino. La sua intenzione di occuparsi di falegnameria, e inizialmente di restauro, è sempre stata chiara. A vent’anni decide di iscriversi al corso di restauro ligneo presso le Scuole San Carlo, lavorando nel frattempo presso un restauratore. A scuola si trova a essere l’unica ragazza della classe, ma qui la differenza è più legata al divario d’età, perché i compagni sono tutti adolescenti. Sono i suoi insegnanti a indirizzarla al corso per tecnico di palcoscenico, dove le componenti femminile e maschile si equivalgono. Ma mentre le altre ragazze sono interessate per lo più alla scenografia, Anna si orienta verso la falegnameria, ovvero la costruzione di quelle strutture che fanno da sostegno alle scenografie. Il suo lavoro è piuttosto inconsueto per una donna, infatti Anna è a capo di una squadra di lavoro composta esclusivamente da uomini. Eppure non lamenta particolari problemi nell’inserirsi in un ambiente maschile: il rapporto con i colleghi è sempre stato paritario. Le difficoltà affrontate non sono state poche, ma tutte legate al percorso lavorativo in sé piuttosto che all’essere donna. Diventare capo è stato faticoso per il bagaglio di esperienze necessario a questo tipo di ruolo, in cui fermezza e diplomazia sono fondamentali per il coordinamento e la scelta dei collaboratori, che devono essere qualificati e capaci di lavorare in team. Ma con la convinzione che il tempo e la pratica le hanno portato, Anna non ha nessun problema a essere

Anna Maria Montaldo al lavoro presso il laboratorio di falegnameria del Teatro Regio.

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Foto: Alberto Ramella.

riconosciuta e rispettata dai nuovi collaboratori. Una fatica tutta femminile è quella di conciliare il lavoro con l’impegno di mamma, che però si è rivelato utile sul fronte del lavoro. La scelta della maternità è arrivata in un momento difficile in laboratorio, ma al rientro Anna si rende conto che le sue priorità sono cambiate e se il suo impegno non è diminuito, ora lo gestisce con più distacco. Nonostante tutto, la sua convinzione per le scelte fatte non è mai venuta meno, né è scemato l’amore per la professione, nonostante le lavorazioni richieste non siano sempre varie e creative e occorra far fronte alla scarsità d’investimenti nel settore ottimizzando i costi senza nulla togliere alla qualità. Ma il laboratorio ormai ha il suo “stile”, un metodo di lavoro che porta alla realizzazione di strutture assolutamente sicure ma anche belle da vedere senza la scenografia. E questo è il frutto del lavoro di un gruppo che si è consolidato nel corso degli anni. L’anomalia di Anna è forse destinata a finire, perché mentre ci racconta la sua vicenda, in laboratorio si aspetta l’arrivo di una stagista delle Scuole San Carlo. E lei è estremamente curiosa di avere finalmente una collega donna e magari ritrovarci un po’ di se stessa e confermare l’idea che le donne nel lavoro sappiano mettere senso del dovere, resistenza e costanza nell’impegno.

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IL RESTAURO Carta È DONNA arta Sanna è una restauratrice di opere d’arte su carta. Ha studiato all’Istituto d’Arte Passoni e nel 2007 ha terminato il corso di restauro del materiale cartaceo alle Scuole San Carlo. A 30 anni lavora in proprio già da cinque nel laboratorio Lucchini e Sanna snc che gestisce con un socio, dopo alcune esperienze da dipendente tra cui quella presso la Bottega Fagnola. Il settore del restauro cartaceo conta la presenza di molte donne, per questo probabilmente Marta dice di essersi trovata a dimostrare la propria professionalità più per il fatto di essere giovane che per l’essere una ragazza. Ma l’ambiente è piuttosto ristretto e quando ci si fa conoscere dai clienti, anche grazie al passaparola, non ci sono più perplessità da vincere. Né racconta di aver avuto problemi nel lavorare da dipendente, anzi, il confronto con capi e colleghi si è sempre svolto alla pari. Nondimeno, per quanto non ci sia alcun tipo di discriminazione, rimane l’impressione che alle donne occorra una marcia in più, in un lavoro che già di per sé richiede una grande passione. Marta parla di un “maschilismo involontario” di fronte al quale è necessario dimostrare la propria capacità. La vera difficoltà consiste nel conciliare la famiglia e un lavoro molto impegnativo, in cui è richiesto un costante aggiornamento anche tramite corsi, e per di più svolto in proprio. Con un mestiere di questo tipo è sempre complicato scegliere il “momento giusto” per avere un figlio: Marta ricorda di aver lavorato fino al giorno precedente il parto e dopo non è rimasta a casa più di due mesi; ora sua figlia ha 18 mesi e il lavoro non ha orari. Certamente avere un socio è d’aiuto e non manca il sostegno della famiglia, ma al di fuori della cerchia famigliare e lavorativa il sostegno alle madri lavoratrici è del tutto carente. Il caso di Marta Sanna dimostra che è possibile conciliare i diversi aspetti della vita di una donna ed essere assolutamente soddisfatte Marta Sanna al lavoro nel delle scelte compiute, mettendo però in conto suo laboratorio. dedizione e disponibilità a lavorare duramente.

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DAL RESTAURO ALL’

arlando di donne che lavorano nel settore dell’artigianato non potevamo non raccontare anche del nostro editore, Nadia Camandona. Terminato il corso di restauro degli arredi lignei delle Scuole San Carlo nel 1993, inizia l’anno successivo a lavorare come restauratrice e a insegnare nella scuola, dove tiene corsi fino al 2005. L’idea della casa editrice prende forma nel 2006, un cambiamento evidente rispetto alle esperienze precedenti che però da queste ha tratto la sua linfa. Nadia Camandona ha sempre avuto il desiderio di mettersi in proprio, ma l’esperienza da dipendente è stata indispensabile per imparare a darsi dei ritmi, lavorare con altre persone e da queste imparare. Lasciare un posto fisso non è stato facile, ma il lavoro a scuola non le bastava più, né sembrava soddisfacente l’idea di tornare al restauro e alle consulenze di antiquariato. Dopo essersi licenziata ci sono voluti appena pochi mesi per mettere a fuoco il nuovo progetto. Avendo fondato “Capodopera” nel 1996 (al tempo con il titolo “La buscaja”), pubblicato alcuni libri e scritto le dispense per i corsi, il pensiero va all’editoria e in particolare a un’editoria focalizzata sull’artigianato, un mondo che già ben conosce. Il passo successivo è stato rivolgersi al Mip, il servizio della Provincia di Torino per mettersi in proprio, che fornisce nozioni sul funzionamento di un’azienda, in particolare sotto l’aspetto burocratico e finanziario. Ma il tutor la mette davanti a problematiche oggettive: la crisi dell’editoria, la concorrenza, la difficoltà a trovare autori validi e a farli conoscere. Ma il progetto messo a punto si rivela convincente. A questo punto la Nadia Camandona Editore è coinvolta nel progetto Mentoring della Regione Piemonte, tutto al femminile, che prevede l’affiancamento alla neo imprenditrice di un’imprenditrice dello stesso settore, un progetto che ha visto la partecipazione di 14 nuove imprese conclusosi con la piena soddisfazione di tutti i soggetti coinvolti. L’esperienza si è rivelata indispensabile, anche grazie all’ottimo rapporto umano oltre

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Editoria D’ARTE

che professionale che si è instaurato con la mentore, Silvia Ramasso della Neos Edizioni. Le due case editrici infatti continuano a essere in contatto, condividendo spazi espositivi alle fiere e alimentando lo scambio di esperienze . La presenza della mentore è stata utile anche per l’inserimento nell’ambiente degli editori e delle relative associazioni. E qui, almeno all’inizio, si percepisce un po’ di diffidenza verso una donna imprenditrice, ma le barriere iniziali in realtà sono normali in un ambiente molto concorrenziale e con il tempo vengono meno. Anche in questo caso la questione che emerge è quella del carico di lavoro che grava su una donna che lavora e al contempo ha una famiglia, soprattutto perché con un lavoro autonomo l’impegno è continuo e non ci sono orari. Nadia Camandona, comunque, ha trovato nel lavoro in proprio la soddisfazione delle sue aspettative, forte delle esperienze lavorative precedenti. E ora sarebbe per lei più difficile rinunciare alla sua attività che tornare a essere dipendente, perché la possibilità di scegliere liberamente nel lavoro paga ogni sacrificio. Da due anni alla Nadia Camandona Editore lavora anche Silvia Quaranta, ex allieva delle Scuole San Carlo e restauratrice del legno. Silvia ha lavorato come restauratrice dal 2004 al 2007, ma l’impossibilità di aprire un proprio laboratorio l’ha portata a cambiare strada. Sarebbe stato necessario, infatti, poter sostenere le spese della partita Iva e di un negozio, ma in mancanza di una clientela fissa, che all’inizio di un’attività è molto difficile avere, tutto questo non è stato possibile. Qualche difficoltà in più è arrivata certo dall’essere una ragazza che fa un mestiere manuale, in alcuni casi molto faticoso, in cui ci si sporca le mani. Ma forse avrebbe seguito lo stesso percorso anche se fosse stata un uomo. E il suo lavoro si svolge anche adesso nell’ambito dell’artigianato, Silvia continua a mantenere i contatti con gli artigiani conosciuti nel corso degli anni, per esempio con l’Università dei Minusieri. Inoltre ora il suo campo d’interesse si è ampliato anche a settori che non riguardano solo il restauro ligneo, a forme di artigianato nuove e ricche di stimoli. La voglia di restaurare non è venuta meno e così continua a fare lavori per sé e per gli amici. Il cambiamento è stato grande: dopo il lavoro in laboratorio, tutto il giorno in piedi tra i mobili, ora Silvia passa le sue giornate al computer, ma la passione per l’artigianato è rimasta la stessa.

A sinistra. Nadia Camandona alla Fiera del Libro di Imperia con i suoi libri d’arte e i nuovissimi libri elettronici di cui è la prima rivenditrice indipendente in Italia. Dall’alto. Nadia Camandona e Silvia Quaranta alla Festa del Libro di Orbassano. Nadia Camandona con il legatore Ivo Guzzon, autore del libro dedicato alla legatura d’arte Quinta di copertina, durante la presentazione alla Fiera del Libro di Torino nel 2008. Da sinistra: Nadia Camandona, Ivo Guzzon, legatore insignito dell’Eccellenza Artigiana, Gianpaolo Minazzi della Regione Piemonte, settore Artigianato, e Mario Guilla. Lo stand al Salone del Libro di Torino 2009 con la mentore Silvia Ramasso della Neos Edizioni.

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PROFESSIONE SVERNICIATORE

Chorus Sverniciature esegue dal 1987 opere di pulizia tecnica per il restauro e la manutenzione del legno (porte, persiane, finestre, mobili eccetera). Opera in tutto il nord e il centro Italia e ha consolidato una capillare rete di collaborazioni con aziende, alle quali offre consulenza e formazione per la gestione dell’attività di manutenzione, restauro e riedizione serramenti, secondo le peculiarità locali. Applica le proprie competenze in materia gestionale, ambientale e di sicurezza sul lavoro, nell’ottica di una filiera che porti a un marchio di qualità nel rispetto del consumatore. Questa ambizione passa attraverso una normalizzazione dei capitolati d’intervento secondo metodi e tecniche focalizzati su natura, epoca, stato, tipologia e finitura del manufatto. Mediante una codifica dei gradi di finitura, porosità, idoneità ai cicli protettivi e condizioni di qualità normative, si interviene con opportuni principi attivi, attrezzature e sistemi di levigatura che garantiscano una resa della superficie pari alla necessità di progetto nei tempi stabiliti.

Vendesi aria di montagna

e acqua di sorgente per sverniciare serramenti. Non richiesta autorizzazione alcuna. Rifiuti come concime biologico, operai contenti. Costo €/kg 0,50. Tutto il resto è utile. Proprio fessi quegli sverniciatori conto terzi che si complicano la vita con problemi superflui… A chi importa di quei 100 lt/mq di acqua di lavaggio per manufatto (valori di media statistica), quei 3 kg/mq di sverniciatore, quei 4 kg/mq di svariati codici rifiuti che nessuno vuole come fertilizzante e che (scandalo!) nessuno vuole bere. E che peggio ancora, cosa davvero strana, pochi vogliono respirare. Contento sarà quel cliente che ignaro o poco interessato pagherà la metà del giusto. Otterrà un servizio da un artigiano che, amante delle favole, il giorno dopo tornerà a far più bello il mondo sverniciando di nascosto. Non sarebbe meglio invece professionalizzarsi e formare una rete, un sistema, anziché annegare in una tinozza?

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ANTICA UNIVERSITÀ DEI MINUSIERI Il Museo

La sede storica torinese rinnovata per accogliere nuove iniziative dell’Università dei Minusieri Silvia Quaranta

l 21 marzo 2010, come ogni anno, l’Antica Università dei Minusieri ha organizzato la festa in occasione di San Giuseppe, il santo protettore dei falegnami, e anche quest’anno il presidente Stefano Pasquale e i membri del Consiglio di Amministrazione hanno accolto tutti i soci nella sede storica di vicolo Santa Maria a Torino, ma questa volta ci attendeva una bella novità. Si cominciava a percepire il cambiamento già nello scendere le scale, perché siamo stati avvolti dal profumo della tinteggiatura data di fresco e una volta scesi… ecco la sorpresa. La sede storica aveva ripreso vita. L’eleganza della sede, l’ordine e l’attenzione per le modifiche apportate hanno emozionato tutti i presenti. Lo stupore sui loro volti faceva trasparire l’emozione che li aveva colti. Per me, giovane socia, è stato emozionante vedere l’euforia e la soddisfazione nelle espressioni di coloro che per mesi hanno lavorato affinché si raggiungesse questo risultato. Sono uomini che credono fortemente nei principi fondamentali dell’associazione, credono nell’artigianato e nell’importanza che ha

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festeggiare ogni anno San Giuseppe, che non è solamente un’occasione per ritrovarsi insieme agli amici, ma è un modo per ricordare coloro che hanno creato l’Antica Università dei Minusieri, coloro che hanno creduto fortemente che questi valori dovessero essere tramandati fino ai giorni nostri. Alcuni membri del consiglio e qualche socio sono figli di artigiani che hanno contribuito alla crescita dell’associazione, ed è per questo motivo che il nuovo volto della sede storica assume un valore rilevante. Tutti i soci con i quali ho parlato quel giorno esprimevano la loro gratitudine nei confronti di chi aveva lavorato per il “rinnovamento”, ma dietro la grande gioia si nascondeva un velo di malinconia per la nostalgia degli anni in cui all’artigiano e al suo lavoro veniva dato il giusto

A sinistra. Lo spazio dedicato ai capi d’opera e alla bandiera dell’Associazione. A destra. La zona centrale della sala che può ospitare conferenze ed eventi.

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La ricca raccolta di annuari dell’Associazione.

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valore, nostalgia perché un tempo c’era la certezza che il proprio lavoro sarebbe stato tramandato alle generazioni future, nostalgia perché il giovane che si avvicinava al mondo dell’artigianato lo faceva perché spinto dalla passione. Ed è proprio la passione il sentimento dominante che ha mosso i membri del consiglio affinché la sede storica ritornasse agli antichi splendori. Tutto questo per far capire ai giovani artigiani che l’amore e la passione per il proprio lavoro durano nel tempo. É per questo motivo che l’associazione, che quest’anno festeggia i suoi 374 anni, è pronta ad accogliere tutti coloro che desiderano far parte di quella che si può definire una grande famiglia. Una volta finiti i festeggiamenti e spentesi le luci della sede storica, non c’era malinconia sui volti della gente, ma la certezza che con oggi i soci abbiano riscoperto il sentimento che dal 1636 dà vita all’associazione: la passione e la convinzione per quello che si fa e per quello che si rappresenta.

Una donna presidente dell’Ente Parco La Mandria dov’è ospitato il MuseoVivo dei Minusieri

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ʼarchitetto Emanuela Guarino è presidente dellʼEnte Parco La Mandria e socia dello studio AEG Guarino Vlaic architetti associati, per questo ci interessa il suo parere in merito al mondo dellʼartigianato, che conosce attraverso le esperienze di cantiere legate alla sua professione di architetto e ai contatti con il Museo Vivo dellʼAntica Università dei Minusieri che ha la sua sede proprio al Borgo Castello della Mandria. Guarino mette in evidenza lʼevoluzione continua che caratterizza il settore ma che non è percepita dallʼopinione comune. Lʼartigiano infatti non è più legato solamente ai mestieri tradizionali: è questo, anzi, lʼambito che più sconta la difficoltà a garantirsi un adeguato ricambio generazionale, a trovare una continuità che assicuri la sopravvivenza di competenze consolidatesi nel corso del tempo. Ma lʼartigiano oggi si trova a far fronte a problemi di varia natura: il quadro legislativo è poco chiaro e non sempre corrispondente alle esigenze dei lavoratori del settore, senza contare lʼostacolo della burocrazia. E se lʼeccellenza è lʼunica possibilità, perché è impossibile competere con chi abbassa i costi spostando la produzione allʼestero o pur restando in Italia fa lavori “in serie”, allora serve davvero un sostegno a chi lavora bene. Ma il punto di vista di Emanuela Guarino ci interessa anche in relazione al tema di questo numero. Lo studio AEG è composto interamente da donne e contrariamente a quello che i luoghi comuni potrebbero suggerire, lʼambiente di lavoro è assolutamente positivo. Le donne hanno onestà intellettuale, capacità di lavorare in team e soprattutto mettono in campo una forte solidarietà reciproca: difficilmente, infatti, sottovalutano le esigenze famigliari delle colleghe, avendo ben presente in prima persona quali sono le difficoltà della conciliazione. Per di più, in un ambiente tutto al femminile non si creano le rivalità che potrebbero essere stimolate dalla presenza di uomini davanti ai quali emergere e che non sempre sono ripagate dal successo professionale. Le difficoltà emergono piuttosto quando si tratta di entrare in contatto con lʼuniverso maschile. In cantiere un uomo viene immediatamente riconosciuto nel suo ruolo, mentre di fronte alle maestranze una professionista, per quanto brava, deve vincere una certa diffidenza iniziale per dirigere i lavori. Questo non esclude affatto che si stabiliscano ottimi rapporti dopo le perplessità iniziali, ma resta il fatto che una donna deve conquistare e dimostrare la sua credibilità. E se tra le quotidiane difficoltà a mettere insieme gli impegni famigliari e quelli lavorativi, capita di avere con sé i figli, non manca un certo timore nel portarli in cantiere o in riunione. La dedizione al lavoro permette di venire a capo di ogni ostacolo, ma lʼauspicio di Emanuela Guarino è che la mentalità diffusa vada verso il cambiamento.


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REGIONE PIEMONTE Osservatorio dell’Artigianato Michela Goi

Donna Artigiana Nel mondo della

ulla base dei dati forniti dall’Osservatorio dell’artigianato della Regione Piemonte, sappiamo che nella nostra regione le imprese artigiane guidate da donne, intese come le imprese in cui una donna ricopra la carica sociale più importante, sono 22.729. Nel 2003 le imprese al femminile erano già oltre 20.000 e rappresentavano il 15,6% del totale. Le donne impiegate nell’artigianato sono in aumento, in particolare tra le dipendenti. Quanto al solo lavoro indipendente, l’incremento è stato piuttosto ridotto, ma se le coadiuvanti e le lavoratrici in proprio sono addirittura diminuite, si è rilevato un forte aumento delle imprenditrici, delle libere professioniste e delle socie di cooperative. Oltre che in aumento, le imprese femminili si dimostrano anche “in buona salute” sotto il profilo del fatturato, soprattutto in relazione alla crisi in corso. Né si avvertono differenze sensibili nel ricorso alle agevolazioni pubbliche tra imprese a conduzione femminile o maschile. Ma vediamo le caratteristiche di queste imprese. Al confronto con i colleghi uomini, le imprenditrici piemontesi sono più giovani (con un’età media intorno ai 41 anni), hanno aziende di dimensioni analoghe e il 75% di loro ha avuto almeno un’esperienza formativa nel settore della propria attività. Inoltre sono in possesso di un titolo di studio più elevato, in particolare quelle che lavorano in ambiti considerati tradizionalmente maschili, come la metalmeccanica e i servizi alle imprese: più del 40 % ha frequentato almeno la scuola superiore. Addentrandoci nella sfera relazionale, scopriamo che il 58% delle donne alla fondazione dell’impresa non è coniugata né convivente, ma più della metà ha figli. Dati che potrebbero significare un’inconciliabilità del lavoro con la presenza di una famiglia oppure una maggiore

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A sinistra. Samantha Panza, insignita dell’Eccellenza Artigiana, nel suo atelier di Asti.

indipendenza delle imprenditrici rispetto all’istituzione matrimoniale. Di sicuro il 34% delle donne intervistate, in particolare le più giovani, pensa che la mole di lavoro non sia compatibile con la famiglia o gli impegni personali. Il carico d’impegni familiari, d’altro canto, può scoraggiare molte donne dall’intraprendere questo genere di carriera, ma questo è un campo d’indagine diverso. Tratto comune delle donne imprenditrici è senz’altro la determinazione e l’autodeterminazione: le motivazioni della fondazione di un’impresa sono per lo più legate alla volontà di mettere in atto un proprio progetto e di essere libere nel lavoro. E questi obiettivi superano le ambizioni legate al reddito e alla posizione sociale. Si tratta, nella grande maggioranza dei casi, di scelte maturate senza condizionamenti,

Foto: gentile concessione di Principessa Valentina

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vista la bassissima percentuale di aziende ereditate dalla famiglia d’origine e la scarsa presenza di familiari nelle imprese. Il 41,4% delle donne intervistate ritiene che l’essere donna sia stato un fattore discriminante: quasi la metà ne è stata avvantaggiata per aver intrapreso lavori ritenuti tipicamente femminili o rivolti alla donne, mentre il 24,2% ha dovuto fronteggiare diffidenze e pregiudizi legati alla presunta incapacità femminile di conciliare professionalità e famiglia. Ma se dopo il superamento di queste difficoltà iniziali, gli ostacoli a cui fanno fronte successivamente le imprenditrici non sono diversi da quelli degli uomini, è pur vero che la presenza numerica delle donne è ancora decisamente bassa e dunque le vere barriere che le tengono lontane dall’imprenditoria sono da ricercare a monte rispetto alla nascita dell’impresa. Un segnale positivo viene dagli addetti delle aziende al femminile, che sono donne per oltre l’80%: ecco che allora queste imprese si dimostrano, per usare la definizione del rapporto sull’imprenditorialità, “agenti di femminilizzazione” del mercato del lavoro e saranno un aiuto per il cambiamento di mentalità di cui si sente la necessità.

A destra. Un’allieva del corso di Restauro ligneo presso le Scuole San Carlo di Torino.

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Si è detto che tra le lavoratrici indipendenti, le coadiuvanti famigliari sono diminuite nel decennio 1993-2003 e il ruolo del coadiuvante non è appannaggio femminile, anzi, dei quasi 8.000 coadiuvanti piemontesi, gli uomini sono la maggioranza. Ma questa figura si rivela particolarmente interessante da un punto di vista femminile perché rispecchiando la situazione di aziende a conduzione famigliare, fornisce dati anche sul ruolo sociale della donna. Per coadiuvanti familiari si definiscono i familiari del titolare che “lavorino abitualmente e prevalentemente nell’azienda” (Legge 4 luglio 1959 n. 463). Nata per tutelare in particolare i lavoratori dell’agricoltura, e specialmente gli eredi, questa figura è caratterizzata da minimi contributi previdenziali e assicurativi e non è fiscalmente autonoma. Questo profilo è scelto quasi sempre per ridurre i costi in azienda, ma determina posizioni di grande debolezza, per esempio in caso di divorzio. Se si considera la crescente instabilità dell’istituzione matrimoniale (le coadiuvanti, infatti, sono per lo più le mogli dei titolari), questa figura si trova a essere sempre meno garantita, nella misura in cui i suoi compensi sono da negoziare in via informale in seno alla famiglia anziché essere contrattualizzati. Molte di loro effettivamente trovano nel loro lavoro più che

altro un compenso di natura morale, ovvero la consapevolezza di ricoprire un ruolo fondamentale per la propria famiglia, individuata come la vera fonte di garanzie sul fronte della fiducia e della conciliazione, anche se in realtà la presenza di figli non fa necessariamente diminuire la mole di lavoro da sbrigare. Il lavoro, comunque, è percepito anche dai mariti come una sorta di estensione dei compiti svolti a casa. Anche perché di solito, nella divisione del lavoro, è il titolare a occuparsi della produzione, del cosiddetto “mestiere”, mentre la coadiuvante gestisce l’amministrazione, la vendita o altre attività terziarie, elementi ritenuti non centrali quanto più le aziende sono gestite in modo tradizionale. Diversa la situazione tra le generazioni giovani, tra le cui fila si vede una maggior condivisione delle decisioni con i titolari. Un cambiamento davvero auspicabile in una categoria eterogenea per caratteristiche ma omogenea molto spesso per la scarsa consapevolezza di queste donne rispetto alla loro posizione fiscale e giuridica.

Tutti i dati sono stati forniti dall’ Osservatorio dell’artigianato Regione Piemonte; per le imprenditrici la fonte è Imprenditorialità femminile nell’artigianato in Piemonte, a cura di A. Tavella e S. Cominu, 2004, Osservatorio dell’artigianato Regione Piemonte (Assessorato all’artigianato Direzione Commercio e Artigianato).


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PROVINCIA DI TORINO Le Pari Opportunità

La Consigliera di Parità una preziosa alleata per il rispetto delle differenze sul luogo di lavoro

Roberta Dho Gabriella Rossi

COME, QUANDO E PERCHÉ RIVOLGERSI A LEI

a Consigliera di Parità è la figura istituzionale prevista dal Ministero del Lavoro per promuovere le politiche di pari opportunità tra uomini e donne nel lavoro e contrastare le discriminazioni di genere. É nominata con decreto dal Ministero del Lavoro, di concerto con il Ministero delle Pari Opportunità, su designazione delle Regioni e delle Province interessate ed è scelta in base alla sua specifica competenza ed esperienza in materia di lavoro femminile, di normative sulla parità e pari opportunità e di mercato del lavoro. Nell’esercizio delle proprie funzioni è un pubblico ufficiale e ha obbligo di segnalazione all’Autorità giudiziaria per i reati di cui viene a conoscenza. É membro a tutti gli effetti rispettivamente delle commissioni regionali e provinciali tripartite. Partecipa inoltre ai tavoli di partenariato locale e ai comitati di sorveglianza; è componente delle commissioni di pari opportunità del corrispondente livello territoriale. Proviamo a vedere insieme come intervenire nelle situazioni di discriminazioni sul luogo di lavoro. Abbiamo chiesto alle consigliere di Parità della Provincia di Torino, Laura Cima e Ivana Melli di raccontarci la loro attività.

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Cosa vuol dire subire una discriminazione e come contrastarla? Ce ne parlano le Consigliere di Parità della Provincia di Torino. Può succedere di intuire, sospettare oppure di capire esplicitamente che il “trattamento” meno favorevole che ci riguarda rispetto a un’altra/o persona o collega di lavoro dipenda da una caratteristica della nostra esistenza. Il genere, l’essere donna o uomo, può essere motivo di discriminazione qualora la “differenza” venga vissuta in modo negativo, come un problema, anche senza che ci siano concreti motivi per ritenerlo. Il fatto può coglierci di sorpresa, stupirci, ma i dati ci dimostrano che succede purtroppo ancora troppo spesso, anche se la discriminazione non appare in modo chiaro, esplicito. Spesso si nasconde dietro a comportamenti o modalità che non sembrano creare distanze ma che, nei fatti, le determinano. Cosa s’intende per discriminazione? Potete farci un esempio? Partiamo da due esempi che ci aiutano a capire concretamente cosa siano le discriminazioni: diretta e indiretta. La richiesta all’atto dell’assunzione di una firma di dimissione in bianco, per esempio, è una discriminazione diretta rivolta alle donne in vista di una futura maternità. Per quanto punita dalla legge, questa prassi è ancora diffusa e purtroppo non sufficientemente contrastata. Esistono poi discriminazioni meno evidenti (indirette) come la consuetudine di prevedere riunioni aziendali nel tardo pomeriggio (dopo le 17.00). Di per se la scelta non è “dannosa” ma, nei fatti, colpisce le persone che hanno problemi di conciliazione dei tempi (perché con figli piccoli per esempio) e queste sono in

Le Consigliere di Parità della Provincia di Torino Laura Cima e Ivana Melli.

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Le consigliere e la Rete di referenti di parità delle Agenzie Formative della provincia di Torino.

gran prevalenza donne. La prassi non è quindi propriamente “neutra” rispetto al genere. Come interviene la Consigliera di Parità? Come suggerisce il termine “consigliera”, individuato ormai quasi vent’anni fa quando la figura è stata istituita, abbiamo il compito specifico di indirizzare la persona in difficoltà verso la miglior risoluzione del problema. L’Ufficio della Consigliera, quindi, accoglie e ascolta i quesiti di lavoratrici e lavoratori attraverso contatto telefonico, e-mail o attraverso il sito Internet e nei casi più complessi incontrando la persona. Nell’ambito del colloquio, in forma privata in un locale destinato a tale scopo, determiniamo la tipologia del caso, se sia pertinenza dell’Ufficio o se debba essere rinviato ad altri servizi (Sindacato, Servizi sociali, Centri per l’impiego o altro) e cerchiamo di indicare le possibili e concilianti vie d’uscita dalla situazione. La Consigliera di parità può procedere senza che ci sia il consenso del/la lavoratore/trice? No, la lavoratrice o il lavoratore una volta informati dovranno decidere, ove sia il caso, se richiedere l’intervento della Consigliera. La nostra azione è volta a mediare tra il punto di vista dell’azienda e del/la lavoratore/trice che convochiamo al fine di ricercare le vie di conciliazione amichevoli. Nella gran parte delle situazioni questa procedura, talvolta supportata da altri soggetti, come i sindacati che ci affiancano nella mediazione, funziona e il caso si conclude con una conciliazione. Non sempre, però. Si creano allora gli estremi per un’azione legale e la Consigliera ha la facoltà di procedere in sede giudiziaria. Finora le nostre cause sono sempre andate a buon fine per la lavoratrice, ma le garanzie non bastano, spesso le persone sono restie ad affrontare un percorso legale.

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É possibile identificare un profilo della persona che subisce discriminazioni sul lavoro? L’analisi che annualmente svolgiamo sui casi trattati ci permette di individuare delle costanti nelle persone che si rivolgono a noi.

Nell’ultimo anno 2009 gli 86 casi trattati riguardavano nel 93% una donna, in gran prevalenza di nazionalità italiana, di età compresa tra i 30 e i 40 anni e spesso con 1 figlio/a. Questo perchè il problema per cui ci si rivolge a noi è, prevalentemente, legato alla conciliazione lavoro e famiglia. La maternità (rientri, demansionamenti, congedi parentali, ecc.) si conferma quale momento più “critico” nei rapporti delle donne con il lavoro, gli altri fanno capo alla voce discriminazioni (24%), tra cui mobbing e molestie, seguono i casi multipli (12%), cioè con più richieste di intervento. É inoltre impiegata con contratto a tempo indeterminato in un’azienda privata con più di 15 dipendenti, prevalentemente nel settore dei servizi e, non in ultimo, ha un titolo di studio medio alto (il diploma 42%, la laurea triennale 10%, specialistica 6%). Per noi è quindi difficile intercettare le problematiche di chi svolge lavori precari o delle donne immigrate che si sentono poco tutelate e sono meno informate. Questo basta per farci capire come l’emersione del problema, che registriamo attraverso la nostra attività, sia una piccola fetta del disagio lavorativo che molte donne vivono. Come è possibile che tuttora le donne debbano affrontare situazioni così discriminanti sul lavoro? Di fatto non esistono oggettive motivazioni a questo fenomeno: le donne conseguono migliori risultati scolastici a tutti i livelli, entrano nel mercato del lavoro con maggior determinazione, hanno grande volontà di crescere e flessibilità nell’apprendere e nell’adattarsi. Eppure la cultura organizzativa delle aziende è ancora poco capace di superare la visione della maternità come un ostacolo e a valorizzare la risorsa donna. La carenza dei servizi per la cura di bambini, anziani, malati e la scarsa condivisione dei ruoli familiari fa il resto. Per questo ci impegniamo per cambiare la cultura e la mentalità: in azienda per far capire che ambienti più accoglienti, inclusivi, con organizzazioni flessibili e non discriminanti favoriscono la produttività e la competitività aziendale. Non è mai il contrario e gli esempi non mancano. Cerchiamo di agire anche sull’informazione: essere consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri da parte delle lavoratrici è un primo importante tassello per contrastare le discriminazioni.


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PROVINCIA DI TORINO L’artigianato del Gusto

Donne e Artigianato

Marco Manero Referente progetto MIP Mettersi In Proprio della Provincia di Torino

Sguardi sulle imprese artigiane piemontesi al femminile l Piemonte è la quinta regione in Italia per numero di imprese guidate da donne: le imprese femminili sono circa 111.000, quasi un quarto del totale, una percentuale che cresce con costanza, anche se lentamente, negli ultimi anni. L’artigianato però si configura ancora come un settore “difficile” da questo punto di vista, in cui le donne rimangono una parte minoritaria dell’occupazione totale, con una presenza concentrata su alcuni comparti, soprattutto quello del benessere (estetica, acconciatura, palestre, eccetera). D’altra parte il numero di lavoratrici artigiane (sia dipendenti che indipendenti) ha registrato una crescita molto significativa nell’ultimo decennio. Sempre più imprenditrici e occupate nel settore, quindi, con un’occupazione femminile che è aumentata di quasi il 29% (contro il 6% di quella maschile) nel periodo tra il 1999 e il 2007, come ricorda il “Rapporto sull’artigianato in Piemonte” (Regione Piemonte, edizione 2007-2008).

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Di fronte a questa crescita ci si chiede se ci siano degli elementi particolari nell’approccio all’impresa delle donne che scelgono il mestiere dell’artigiano. Un quesito a cui non è per nulla semplice rispondere, anche per chi professionalmente si occupa di nascita di nuove imprese. Abbiamo provato a porgere questa domanda a consulenti e imprenditrici con cui collaboriamo, nell’ambito delle attività svolte dal programma Mip della Provincia di Torino. Mip è infatti uno Sportello per la Creazione d’impresa rivolto a coloro che vogliono aprire una nuova attività. Vengono realizzati con gli aspiranti imprenditori (e naturalmente imprenditrici) percorsi gratuiti di accompagnamento e tutoraggio, che sono gratuiti grazie al sostegno dell’Unione europea (Fondo Sociale Europeo),

dello Stato italiano (Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali) e della Regione Piemonte. Attraverso i pareri raccolti dagli operatori di Mip, si tratteggia una figura femminile consapevole delle difficoltà poste dalla sfida imprenditoriale, ma anche capace di grande creatività e volontà nell’affrontarla. Come ben sintetizza Enrica Gay, consulente Mip e coordinatrice del gruppo Giovani Imprenditori della CNA Torino: «Credo che gli elementi che caratterizzano principalmente l’artigiana siano la tenacia e il senso pratico. Spesso le donne, oltre a gestire il proprio lavoro, hanno in mano l’organizzazione dell’economia domestica: bollette, spesa, figli (anche se rispetto al passato molta strada è stata fatta in questo senso, per arrivare a una maggiore “autonomia” dei mariti!). Per gestire questa mole di impegni sono sicuramente necessari risolutezza, capacità di organizzazione e anche coraggio, come pure capacità di ascolto e pazienza: qualità preziose per chi affronta la sfida di creare e dirigere una nuova impresa». «Sicuramente la scelta di mettersi in proprio condiziona la vita di una persona e la mette alla prova, ma la stimola e la porta a dare il meglio di sé.» confermano Erica Lazzarini e Marzia Jourdan, fondatrici di “Io Mangio Gofri”, un’interessante piccola impresa con sede a Roure, in Val Chisone. L’azienda produce e commercializza i gofri, tradizionali pani croccanti della valle, e altri prodotti enogastronomici tipici. Erica e Marzia hanno maturato la loro idea d’impresa collaborando con le associazioni locali durante le feste estive, e appassionandosi alle tradizioni e alla cultura legata al gofri.

Per informazioni sul servizio Mip: www.mettersinproprio.it

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Un tratto distintivo di “Io Mangio Gofri” è la capacità di cooperare con vari soggetti per la promozione e la diffusione del proprio prodotto. Collaborazioni diverse e “a tutto tondo”: da quelle più immediate, con le imprese della Val

Chisone che producono i golosi ingredienti per le farciture oppure ottime birre artigianali locali, a quelle più articolate, per esempio con operatori turistici, organizzatori di eventi in tutta Italia e con gli enti pubblici nell’ambito di progetti di salvaguardia e promozione dei prodotti locali. «Penso che il nostro percorso formativo, che ha compreso esperienze completamente diverse da quello che facciamo oggi come artigiane, ci abbia agevolato nell’essere più aperte, per incontrare le persone e lavorare insieme a loro.» sottolinea Marzia Jourdan. Se la tenacia e la capacità di ascolto e collaborazione sono tratti distintivi per ogni buona imprenditrice, c’è forse un punto che più di In alto. Erica Lazzarini e Marzia Jourdan di “Io Mangio Gofri”. In basso. La preparazione del “gofri”.

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Foto: Baby Photolab Villar Perosa

ogni altro può caratterizzare l’impresa “al femminile”: l’abilità nel comprendere la propria clientela. «Può sembrare banale, ma non lo è», conferma Mario Parenti di Valentina Communication, società ideatrice del Salone nazionale dell’imprenditorialità femminile “Gamma Donna”, «molti degli acquisti sono decisi da donne, e chi meglio di un’altra donna può interpretare il loro processo di scelta? Durante l’organizzazione della terza edizione di “Gamma Donna” (che si è tenuto a Torino nel gennaio scorso, nda) ci siamo ad esempio imbattuti in un’interessante ricerca, il progetto “Rethink Her”, che ha studiato come le donne siano fondamentali per una percentuale tra il settanta e il novanta per cento di tutte le decisioni di acquisto nel mondo. Si tratta di un elemento interessante e di cui tenere conto per ogni impresa, tanto che è stato proposto come principale tema di riflessione al quinto “Forum Internazionale della Comunicazione e del Branding”, tenutosi lo scorso marzo a Barcellona». Interpretando questo interessante spunto, si potrebbe quindi dire che la capacità di interpretare i desideri delle proprie clienti può rappresentare un punto di forza straordinario dell’artigianato al femminile. Le artigiane piemontesi potranno senz’altro crescere, sia in termini quantitativi che qualitativi, nella misura in cui saranno in grado di soddisfare i bisogni della propria clientela, non solo in termini di qualità del prodotto ma anche di capacità di comunicare con essa.


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CNA Impresa Donna

CONFEDERAZIONI ARTIGIANE Spazio Donna a cura di Michela Goi

30.000 imprenditrici artigiane solo in Piemonte na Impresa Donna è nata all’inizio degli anni ’90. Sono più di 30.000 le imprenditrici artigiane in Piemonte. Ad esse si aggiungono 8.000 familiari che operano a vario titolo all’interno delle aziende. Cna Impresa Donna le sostiene, le tutela nella loro vita aziendale, promuove lo sviluppo delle loro imprese, cerca le forme più utili alla conciliazione con la loro vita familiare. La nostra esperienza ci permette di assistere le donne nel momento più delicato di un’attività autonoma: la costituzione dell’impresa. Spesso le scelte compiute al momento della nascita dell’impresa possono ripercuotersi sull’intera vita aziendale. Per questo consigliamo le future donne imprenditrici di confrontarsi con i nostri operatori prima di avviare l’attività per scegliere un inquadramento contributivo e fiscale adatto a tutti i componenti dell’impresa. Gli sportelli attivati grazie alla Regione Piemonte ci permettono inoltre di dare un’informazione puntuale

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e precisa su un’importante legge rivolta alle imprenditrici, alle lavoratrici autonome e alle professioniste: la legge 53/2000 sulla conciliazione. L’art. 9 della legge consentirebbe alle imprenditrici in maternità di ottenere un contributo per poter pagare un/una dipendente o collaboratrice per farsi sostituire in azienda nel periodo della maternità. Si tratta di un’opportunità molto importante a cui però è attualmente difficile accedere per una serie di problemi burocratici non ancora superati. La Cna, con altre associazioni imprenditoriali femminili, si sta battendo da tempo affinché questa legge, fondamentale per le imprenditrici, abbia applicazione regionale e quindi sia più facile e snella la procedura per accedere ai fondi. Abbiamo inoltre proposto la possibilità di prevedere anche semplici sgravi fiscali per le imprenditrici che vogliano farsi sostituire nell’impresa durante i periodi di assenza per maternità o che debbano ricorrere a delle figure di sostituzione per curare i genitori malati. In questi mesi inoltre, grazie alla collaborazione con Cna Artisti, abbiamo promosso la nascita di una banda composta interamente da elementi femminili, la “Lady’s Orchestra” per promuovere, anche con la musica, l’immagine e l’importanza dell’imprenditoria femminile nella nostra regione.

egli ultimi anni, in merito allʼimprenditoria femminile, la CNA Piemonte, in collaborazione con il “Comitato Impresa Donna” di CNA Emilia Romagna e di Ecipa Piemonte, Emilia Romagna e Bologna, ha sviluppato il progetto multiregionale “Sviluppo manageriale delle donne titolari di impresa” che ha visto la partecipazione di 14 imprenditrici. Lʼazione è nata nel quadro delle attività istituzionali del Comitato Impresa Donna della Cna per sostenere e migliorare le capacità manageriali delle donne titolari e coadiuvanti impegnate in ruoli chiave nelle piccole imprese e imprese artigiane. Le donne, nel corso del progetto, sono state affiancate da imprenditrici esperte (mentor) che hanno trasmesso la loro esperienza nel campo della gestione aziendale e del marketing. Unʼaltra attività, “Le Donne possono: network e partnership” prevedeva la realizzazione di un corso per acquisire competenze nellʼambito delle strategie di marketing e della commercializzazione al fine di diventare competitive nella gestione dei processi verso i mercati esteri e la partecipazione alla Fiera Nazionale delle Imprenditrici nellʼambito della Fiera di Bologna tenutasi dal 9 al 17 giugno 2001. Inoltre, nellʼambito dello stesso progetto, è stata realizzata unʼazione di orientamento rivolta a 58 donne disoccupate/inoccupate interessate ad avviare una loro attività in proprio e che necessitavano di informazioni, orientamento, assistenza tecnica e consulenza per poter avviare lʼimpresa. A ottobre 2003 Cna Impresa Donna e Confartigianato Donne Imprese hanno organizzato un incontro sui temi del welfare, della conciliazione e dei congedi parentali con le on. Armosino e Turco. La Cna Piemonte partecipa inoltre al progetto “Le manager della Conciliazione e dellʼempowerment” (soggetto attuatore Confartigianato Imprese Torino) unitamente a Confartigianato Imprese Torino, Casartigiani, Confcooperative, Apid, Coldiretti. Gli sportelli per la legge 54, per il sostegno alle imprenditrici in difficoltà sono tuttʼora attivi in tutte e otto le province piemontesi.

In alto. Laura Pianta e Anna Casale, rispettivamente coordinatrice e presidente di Cna Impresa Donna Piemonte. A sinistra. Il debutto della “Lady's Orchestra”.

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SPECIALE Artigianato al femminile Michela Goi Artiste di corte, da Emanuele Filiberto a Vittorio Emanuele II di Allegra Alacevich Il testo fa parte di una collana curata dal Centro Studi del Pensiero Femminile di Torino, pubblicato dall'editore Thélème grazie al sostegno della Regione Piemonte.

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Il volume ha lo scopo di ricordare alcune artiste che in Piemonte hanno operato dalla fine del Cinquecento a Ottocento inoltrato; al contrario di ciò che si pensa sono numerose le donne che parteciparono attivamente alla vita artistica piemontese. Ben più di cento tra pittrici, scultrici, fotografe e altre figure si dilettarono o vissero dʼarte nei secoli passati in una terra che sembra averle accolte senza limitazioni. Alcune giunsero da altre zone italiane - da Lombardia, Lazio, Veneto... - e dall'estero dallʼAustria, dalla Francia, dalla Spagna... - per soddisfare i sovrani sabaudi e committenze per lo più religiose e aristocratiche; molti sono i nomi pressoché sconosciuti (Caterina Arellano, Rosa Meda e Clementina Pregliasco, solo per ricordarne alcuni), ma altrettanto numerosi quelli eccellenti (Sofonisba Anguissola, Orsola Caccia, Angelika Kauffmann...) Nella pubblicazione se ne riportano vita e opere, con il fine di invogliare il lettore a godere della produzione artistica femminile e di approfondirne i mille risvolti. Accompagnano il testo alcune immagini di quadri inediti realizzate da Roberto Chiarlo.

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Artiste di Corte

ell’occuparci delle donne nell’artigianato e nell’arte, non potevamo non prendere in considerazione il loro ruolo anche in una prospettiva storica. Non solo per suggerire una lettura che fa luce su quelle figure note a chi s’interessi di arte piemontese, ma anche per restituire alle donne la loro tradizione all’interno della storia e della storia dell’arte e non più considerarle come eccezioni brillanti in un mondo maschile. Il libro che proponiamo è il volume Artiste di corte. Da Emanuele Filiberto a Vittorio Emanuele II, Torino, Thélème 2004, scritto da Allegra Alacevich per la collana Donne del Piemonte, ideata e curata dal Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile. Si tratta di un regesto delle artiste nate o attive nel territorio sabaudo, di cui sono puntualmente forniti dati biografici, opere e le relative fonti archivistiche e bibliografia. Abbiamo chiesto all’autrice di raccontarci con quali intenti si sia accostata alla ricerca e quali dei dati emersi si siano rivelati particolarmente interessanti.

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«È da una manciata d’anni che la storia dell’arte riconosce al genio femminile una piena capacità di rappresentazione del mondo, a cui per altro la secolare e obbligata subalternità culturale permette di attribuire una sensibilità acuta e originale. Alla generalizzata ammissione dell’esistenza di singole artiste decantate nel corso dei secoli (come Artemisia Gentileschi e Angelica Kauffman), fa eco un rifiuto della storiografia a indagare gli ambiti in cui le donne operarono. Attraverso Artiste di Corte ho cercato di delineare tale panorama nel Regno piemontese (1563-1865), realtà che per essere giudicata necessita di confronti impraticabili, dal momento che per ora altri studi analoghi non sussistono. L’analisi mette comunque a fuoco un aspetto della condizione femminile – quello artistico – molto originale rispetto a ciò che viene ufficialmente tramandato. In primis la formazione delle artiste avveniva presso botteghe-atelier e la creazione che ne derivava era tutt’altro che dilettantesca: fino al tardo Settecento la maggior parte di loro viveva dei proventi della propria arte (come le sorelle

Caccia). Un’altra smentita alle teorie correnti è che le artiste si istruissero e lavorassero sulla scia delle orme paterne: si delinea una trasmissione del sapere artistico secondo la linea genealogica femminile (famiglia Gili), oppure da madre a figlio (la Clementina). È da rilevare che le tecniche artistiche adoperate non sono limitate alla sola pittura, ma spaziano in ambiti sia di caratteristica presenza femminile sia di minore frequentazione della donna: ci sono le miniatrici, le vignettiste e caricaturiste, le disegnatrici a lapis e a carboncino, le disegnatrici di botanica, le topografe, le pittrici a olio, a smalto e a pastello; i supporti – oltre la tela e la carta – sono anche l’avorio, la stoffa, l’ardesia, la ceramica e la pergamena. Altresì sorprendenti due ulteriori dati: la forte presenza in Piemonte di artiste straniere – tra le altre Fede Galizia, Elisabetta Sirani e Rosalba Carriera, ammirate per la loro originalità e perfezione di stile – e il numero elevatissimo di artigiane, con stuoli di intagliatrici di marmo, indoratrici, orefici, di direttrici di piccole fabbriche e commerci che fornivano dai rubinetti alla ferramenta; e ancora titolari di tintorie, di stamperie, di vetrerie nonché ricamatrici, tessitrici, tappezziere, materassaie e anche ‘cava macchie’. Auspicabile sarebbe la realizzazione di una mostra e l’edizione di un catalogo, testimoni imprescindibili del mondo dell’arte, soprattutto di quello femminile, finora rimasto nascosto.» Allegra Alacevich


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Michela Pachner La ricerca continua di

ntrare nella casa-studio dell’artista torinese Michela Pachner è entrare nel suo mondo. È logico aspettarsi che la casa di un artista ne ospiti le opere, ma qui lo spazio ne è del tutto strutturato. L’effetto è inizialmente spaesante, perché si vedono accostati opere, oggetti, fotografie e, naturalmente, i mobili di una casa in cui si abita. L’impressione è quella di vedere le opere quasi troppo da vicino, senza la guida fredda eppure rassicurante di un allestimento museale. Alle pareti si vedono le conchiglie dipinte su legno con colori alla nitro, con la contraddizione evidente tra soggetto e supporto naturali e tecnica artificiale. Ci sono i Luminosi in plexiglass, dove sottili tratti colorati compendiano i ritratti di personaggi noti, tra cui Einstein. Accanto a una poltrona, quasi come una pianta d’appartamento, c’è l’installazione esposta nel 1972 alla galleria Stein, Aquitrino, fatta di navette per la tessitura montate su aste in ferro fissate a una base dello stesso materiale. Non mancano nemmeno gli acciai degli anni Settanta con macchine e velivoli e uno, eccentrico rispetto agli altri, che ritrae suo figlio a figura intera. Ma questo, mi dice Michela Pachner, lo ha realizzato proprio quando tutti si aspettavano che continuasse a raffigurare macchine o aerei, per non soggiacere a uno schema. Queste pareti affollate di opere testimoniano un lavoro guidato dal cambiamento, dall’evoluzione e dalla ricerca costante della sincerità. Michela Pachner studiava pittura con Casorati, ma quando capì che stava iniziando a replicare in maniera meccanica quanto imparato, cambiò strada, interessandosi all’astratto.

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Le sue scelte artistiche riflettono le sue scelte come donna: a vent’anni si sposa con un restauratore che diventerà antiquario, ne impara anche il mestiere, ma sa che questa non è la sua strada. Né le basta la gratificazione dell’abilità del marito, cosa tutt’altro che scontata negli anni Cinquanta. Negli anni Settanta inizia a lavorare su materiali diversi: fossili, minerali, legni che vengono dipinti o assemblati. Il terrazzo dello studio è come un grande collage di oggetti d’uso, vestiti, pezzi di legno e ferro dipinti e colorati. Oggetti assolutamente anonimi che perdono la loro funzione originaria ma anche il loro anonimato. Mi sembra di vedere anche qui un invito a guardare con occhi diversi quello che quotidianamente si dà per scontato. Anche l’arte deve essere guardata così. Di fronte alle fotografie dell’ultima mostra, organizzata nel novembre del 2004 presso l’Associazione Piemonte Artistico Culturale, l’artista mostra la maniera geometrica in cui le opere sono disposte: ordinate, in fila. E mi fa notare che se le opere sono qualcosa di davvero naturale possono disporsi secondo il loro senso, come un’onda che fluisca in libertà. Che è quello che succede all’interno della casa. Nonostante me lo fossi proposta, non ho parlato di problematiche femminili con Michela Pachner. Mi sembra che la sua tensione continua verso la genuinità e la rottura degli schemi, la volontà di avere e suscitare negli altri uno sguardo non filtrato sul mondo comprendano in sé il superamento di ruoli e di stereotipi che pesano sul mondo femminile. E in fondo l’arte serve anche a mostrarci che qualcosa di diverso è possibile.

Michela Pachner nasce a Torino nel 1926. Il padre è un medico appassionato di arte, la madre è pittrice. Frequenta il liceo artistico a Genova e successivamente lʼAccademia Ligustica. Torna a Torino nel 1946, dove studia allʼAccademia Albertina ed è poi allieva di Casorati. Nel 1972 partecipa al gruppo “Rivolta femminile” di Carla Lonzi. Si interessa di antipsichiatria e lavora con malati psichici negli ospedali di Collegno e Grugliasco con lʼart therapy. Nellʼ80 è in India e si avvicina alla filosofia di Osho. Le sue opere sono state esposte con continuità nelle gallerie torinesi, dal 1962 al 1974; nei successivi quindici anni si sono susseguite performance allʼaperto, in teatri e altri spazi.

In alto. L’installazione Acquitrino. In basso. Il terrazzo.

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SPECIALE Artigianato al femminile Stefano De Angelis

Regina Cassolo Bracchi nasce a Mede (Pavia) il 21 maggio 1894. Frequenta lʼAccademia di Brera e successivamente si perfeziona presso lo scultore torinese Giovanni Battista Alloati. Nel 1921 sposa il pittore Luigi Bracchi e si trasferisce a Milano. Nel 1931 espone le nuove invenzioni plastiche in alluminio, latta, celluloide, cera, come La signora provinciale. Nel giugno 1933 aderisce al gruppo futurista, quindi sottoscrive il Manifesto tecnico dellʼAeroplastica futurista e nel 1951 aderisce al Movimento dʼArte Concreta. Nel 1952 inizia a lavorare strutture in plexiglass. Dal 1963 Regina compone una serie di disegni dedicata al suono delle campane, preludio al Linguaggio del canarino; quindi produce sculture in plexiglas ispirate alle imprese dellʼastronauta russa Valentina Tereshkova. Regina si spegne a Milano nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1974. “Regina. Futurismo, arte concreta e oltre” Fondazione Ambrosetti 16 gennaio - 7 maggio 2010 Via Giacomo Matteotti 53, Palazzolo sull’Oglio (BS) lunedì/venerdì 9-13/ 4.30-18.30 sabato, domenica e festività su appuntamento www.fondazioneambrosetti.it

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olo una persona che non aveva paura di guardare sempre avanti rimanendo affascinata dallo spazio e da tutto ciò che rappresentava la modernità e il futuro poteva pensare al plexiglass come una nuova forma d’arte. Regina Cassolo Bracchi, protagonista certa del futurismo al femminile, negli anni Cinquanta ha trasformato il plexiglass allargandone la sfera di azione con sculture che trasformavano un materiale freddo e duro in qualcosa di elegante e docile. Precisa nella vita e nell’organizzazione del suo lavoro lasciando poco o niente al caso, l’architettura delle forme era per lei qualcosa di mentale, ragionato, ma comunque sempre ispirato in prima battuta dall’istinto verso ciò che appariva indistinto. Da sempre le sue opere sono state costruite spesso con materiali per l’epoca inusuali e poco graditi dalla critica, come latta, celluloide, marmo, alluminio, fil di ferro e appunto plexiglass, trasparente e quasi impalpabile. La straordinaria avventura artistica di Regina, scomparsa trentasei anni addietro, è stata ripercorsa interamente alla Fondazione Ambrosetti Arte Contemporanea di Palazzolo sull’Oglio in provincia di Brescia, che ha voluto ricordare l’artista lombarda dedicandole la più completa antologica mai realizzata dal titolo “Regina. Futurismo, arte concreta e oltre”, curata da Paolo Campiglio e realizzata grazie al contributo del Museo di Mede e alla collezione privata di Zoe e Gaetano Fermani, della scultrice grandi amici e ammiratori.

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La Regina del plexiglas La mostra si distribuisce lungo le piccole e curate sale di Palazzo Panella, sede della Fondazione, ed è stata suddivisa in sei momenti, partendo dagli esordi degli anni Venti sino alle ultime produzioni degli anni Settanta. In tutto più di 140 opere, non solo sculture ma anche bozzetti e disegni, proprio per meglio illustrare il lungo lavoro che stava alla base di ogni scultura di Regina Cassolo Bracchi, che non smetteva mai di prendere appunti. Proprio l’autonomia artistica ha reso Regina ammirata e cercata da quegli artisti che volevano rompere gli schemi, come Marinetti e Fillia, che trovavano nel suo pensiero una risposta convincente. Regina entrò nel gruppo dei futuristi milanesi e partecipò a diverse esposizioni, a partire dalla “Mostra in onore di Umberto Boccioni” del 1933, sino a quando fu lei stessa a volersi allontanare perché riteneva di dover andare oltre. E quando nel 1951 Regina aderisce al MAC, incomincia anche a modellare le prime sculture in plexiglass, esponendo i suoi lavori in differenti occasioni con Munari già a partire dal 1952. Negli anni successivi seguì un’intensa produzione di opere plexiglass solo o associato ad altri materiali, spesso nominate semplicemente Struttura, in una contrapposizione fra trasparenze opacizzate e accesi cromatismi: sculture che scendono dall’alto con invisibili fili di nylon, come ad esempio Struttura del 1964, oppure piccole opere da tavolo come Struttura multicolore cerchi e fili del 1968 o ancora Omaggio a Charles P. Conrad e Alan Bean del 1970 in plexiglass colorato e carta disegnata. Tutte e tre sono esposte a Palazzolo sull’Oglio per una mostra che ha restituito pienamente il valore artistico e poetico delle opere di Regina Cassolo Bracchi, nata a Mede nel 1894 e spentasi a Milano nel 1974 con la certezza e la superbia di aver realizzato sempre strutture dall’equilibrio instabile, «in una straordinaria libertà creativa di forme e motivi, di accoppiamenti cromatici e inedite policromie» come scrive Paolo Campiglio nel testo in catalogo, edito dalla stessa Fondazione Ambrosetti. In alto. Struttura, 1951, plexiglas trasparente e opacizzato. In basso. Struttura multicolore cerchi e fili, 1968, plexiglas, nastri adesivi colorati e fili di nylon.


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Serpica Naro

L’audace sfida della stilista L’INNOVAZIONE VA DI MODA

hi è Serpica Naro, la stilista anglo nipponica svelatasi al mondo grazie a una delle maggiori operazioni di marketing creativo che la Milano della moda ricordi da diversi anni? La sua prima comparsa pubblica avviene proprio alla Milano Fashion Week Donna nel 2005. Residente a Tokio, Serpica Naro è una giovane designer anglonipponica, che nel 2005 grazie a un profilo seducente e trasgressivo, riesce senza alcuna fatica a essere inclusa nel calendario della più ambita vetrina modaiola italiana, la Settimana della Moda di Milano. Laureata al Bunka Fashion College, conquista gli addetti ai lavori per la scelta di tessuti high tech, di avveniristiche tecniche di taglio che contemplano l’invenzione del mascheramento e per l’uso spregiudicato di tessuti rifrangenti e fasciature nelle collezioni moda. Nel suo proporsi al pubblico, è soprattutto una sperimentatrice eclettica e suggestiva. Serpica Naro non innova perché è lei l’innovazione. Dalla realizzazione degli irriverenti eco-pannolini, all’ambizioso progetto giapponese del Droplife System, rivoluzionario trattamento per le pelli secche. Ma il vero potenziale di Serpica Naro non risiede tanto nei suoi vestiti, quanto nell’ideale che incarna. Una bellezza asiatica con una cicatrice sulla guancia. Una vita di trasgressione vissuta a cavallo tra Londra e Tokyo, il legame viscerale con l’underground, gli incontri discutibili con i personaggi più controversi che circolano dietro

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le quinte sono il pendolo che oscilla di fronte agli occhi del mondo. E arriviamo a febbraio del 2005. Milano, Settimana della Moda. Serpica è pronta al suo debutto su questa passerella. Sul palco si presenta la sua pr Nadja Fortuna e la sfilata apre al grido di «We are not low class, we are not high class, we are the new class». Ecco sfilare 8 modelli “che rappresentano con sarcasmo alcuni aspetti della precarietà”. Abiti che nascondono la maternità per non essere licenziate, gonne anti-mano morta piene di trappole per topi, minigonne sexy per fare carriera più in fretta, abiti da sposa per donne senza cittadinanza italiana, perché l’unico modo per averla è sposare un italiano, le magliette con il numero di giorni che mancano al licenziamento. Per finire, le vere produzioni di chi lavora come precaria del textil design ma rifiuta i circuiti ufficiali della moda: i modelli autoprodotti della linea londinese Sailor Mars, la Industrial Couture milanese, la collezione spagnola di Yo Mango. Ecco. La beffa è svelata. Serpica Naro, semplicemente, non esiste. Serpica Naro è l’anagramma di San Precario, il santo falso protettore dei lavoratori precari, è frutto dell’ingegno delle menti precarie del settore moda. Esiste tuttavia la sua collezione di abiti, che viene presentata come previsto, con tanto di approvazione della Camera della Moda. Sono bastati circa duecento lavoratrici e lavoratori precari del mondo della moda, coordinati dal collettivo Chainworkers, per creare, gestire e imporre all’attenzione del pubblico e delle istituzioni internazionali una finta stilista, con tanto di sito internet di riferimento, show room, redazioni, tre uffici stampa di cui uno inglese, uno italiano e uno giapponese, un book che la Camera della Moda ha approvato a pieni voti, uno stile invidiato dai concorrenti più blasonati. È la forza sovversiva della creatività delle donne e uomini che sperimentano nuove strategie di sopravvivenza e di conflitto sull’assurdo meccanismo lavorativo in cui sono loro malgrado presenti con la propria creatività. Ma era solo questo l’obiettivo di Serpica Naro? Sbeffeggiare e

SPECIALE Artigianato al femminile Gabriella Rossi Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile, Torino

In alto. A sinistra. Una creazione di Serpica Naro.

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Il logo di Serpica Naro.

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Dall’alto. Alcune creazioni di Serpica Naro.

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denunciare il meccanismo macchinoso dell’evento moda? «Ridendo, ci si è chiesti se questa invenzione (l’anagramma Serpica Naro) potesse diventare un l(u)ogo di reti di auto produzioni tessili di contrapposizione alla moda. In un momento di estasi collettiva ci siamo convinte di poterci inventare il personaggio e inserirlo nel circuito ufficiale Milano Moda Donna seconda vetrina mondiale dopo Parigi del Prêt-à-Porter. Per presentare una nuova stilista bisognava sottoporsi al giudizio di una commissione mostrando una collezione di capi, i buyers (cioè i compratori: show room, negozi che vendono vestiti di Serpica, ecc.), recensioni di riviste specializzate o meno sullo stile di questa stilista, il numero della registrazione del marchio, la partita Iva della società e la sede di riferimento. Quello che era necessario era uno stile credibile, un sito adeguato, un book altrettanto credibile, un ufficio stampa, un (nostro) uomo all’avana che in questo caso è Tokyo e tantissimo aiuto da chi in questo settore ci lavora. Leggendo la Storia della moda di Enrica Morini, studiando gli atti del convegno dei giovani e la moda, informandoci attraverso precarie e precari che lavorano nelle redazioni dei giornali di settore, avvalendoci della loro collaborazione e correzioni, spremendo neuroni ed energie, coinvolgendo sempre più persone, inventando senza pudore, in pochi giorni, si è riuscito a creare tutto ciò. La Camera della Moda, ufficio politico della omonima settimana, dopo una decina di giorni ci comunicava la nostra avvenuta iscrizione.» Ma l’intenzione di Serpica non si ferma davanti alla denuncia delle condizioni lavorative del settore e della messa a nudo della fragilità del sistema selezione moda. Infatti successivamente all’evento pubblico della Fashion Week, Serpica da buona iperattiva ha girato un po’ l’Europa facendo workshop/presentazioni in contatto con collettivi affini e sta portando avanti diversi progetti. Il più sentito è la Com+unity Serpica Naro, che mette a disposizione delle piccole autoproduzioni un luogo virtuale dove condividere talenti e saperi. La “com+unity” è rivolta in particolar modo a tutte le autoproduzioni e le piccole etichette di stile alternativo, non solo italiano. È anche uno strumento che promuove un sistema economico sostenibile, a filiera corta, libero dai sovrapprezzi fuori misura imposti spesso dai rivenditori. Quest’anno sono stati messi in cantiere diversi progetti, alcuni già operativi, altri in via di definizione.

Serpica Naro è quindi ora una community dedicata alla moda autoprodotta, è un brand collettivo che ripensa la produzione di stile oltre la precarietà. Un collettivo composto per 80% da donne che sul sito serpicanaro.org espongono le proprie creazioni. Vestiti, gioielli, accessori… oggetti preziosi, materiali differenti… lana, vetro, tessuti, metallo, stili estremi tra loro, attenzione all’ambiente. Lo spazio Style-Lab, la vetrina di Serpica Naro a cui ogni creativa può aderire, è tutto questo e molto di più. E offre la possibilità di entrare in un luogo, reale o virtuale, in cui si è certi che tutto quello che si compra è prodotto artigianalmente da piccoli produttori/produttrici o filiere produttive garantite che salvaguardano il più possibile la deprecarizzazione del lavoro. Un luogo in cui scambi liberi e no profit, sia di abiti che di idee, sono favoriti e incoraggiati. Secondo le creatrici di Serpica, oggi combattere la precarietà lavorativa e di vita non significa necessariamente attivarsi in lotte sindacali ma anche sperimentare diverse economie. Infatti il marchio Serpica Naro è un metabrand, quindi libero di essere utilizzato da tutte a patto che le creazioni che gli appongono il marchio siano liberamente riproducibili, e che i prodotti derivati siano rilasciati secondo la medesima licenza (le etichette SerpicaNaro sono scaricabili dal sito). Essa mette a disposizione, in condivisione, la creatività, l’abilità, ma anche la capacità e la decisione di non fare uso di pratiche di sfruttamento lavorativo nella catena produttiva/distributiva e la necessità di reinnestare nel sociale il valore che produce. Attraverso la licenza Serpica Naro si condividono tutti i diritti che normalmente la legge riserva al proprietario del marchio stesso: il vero proprietario di un processo sociale è la collettività che sa condividere. Ciò che il progetto Serpica Naro vuole valorizzare non è il capo di questo o quella stilista, ma la viralità dei meccanismi di partecipazione nei processi sociali e la messa in relazione delle varie creatività. Uno spazio in cui liberare e potenziare il proprio stile, in cui mettere in pratica la propria radicalità per costruire un forte legame con il mondo, sino a cambiarlo. Uno spazio aperto a tutte e tutti coloro che vorranno condividere questa visione della produzione. «Come le nonne erano quelle che ci insegnavano a lavorare a maglia senza volere niente in cambio, noi abbiamo creato una nonna collettiva di nome Serpica Naro.»


Doppio gioco

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etro fuso e terracotta per una mostra tutta al femminile giocata sulla metafora dell’abito-casa. Protagoniste sono Silvia Levenson e Enya Daniela Idda, che hanno accolto l’invito di Stefano Vitali a esporre insieme le loro opere alla Galleria Avanguardia Antiquaria di Milano sino al prossimo 26 giugno. Nasce così la mostra “Doppio Gioco”, a cura di Andrea Balzola, che mette a confronto due artiste con differenti tecniche di lavoro, ma unite da un comune sentire. «La nostra unione» sottolinea Enya «ricorda le ‘affinità elettive’ di cui parla Goethe. Crediamo entrambe che l’arte non abbia una vera appartenenza rispetto l’artista, ma che sia l’artista stesso a contribuire al viaggio dell’arte lasciando un segno anche di sé, ma non solo di sé. Questa visione ci ha permesso di sperimentare quanti temi unissero i nostri lavori, soprattutto nei desideri futuri. Non è il passato a creare la nostra unione artistica ma lo sguardo verso il futuro.»

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Entrambe lavorate principalmente con materiali fragili ma anche molto affascinanti, vetro e terracotta. Come siete arrivate a questa scelta? «Nella terracotta» continua Enya «ho trovato la possibilità di ‘costruire’. Le mie sculture non sono mai gestuali né pensate di getto, ma crescono dal basso verso l’alto, e il mio compito è far si che non cadano. E poi sono sarda, nata e

SPECIALE Artigianato al femminile

cresciuta in mezzo alla bentonite e al caolino. E mi piace la storia di Costantino Nivola, per me un grande maestro, che prima di essere artista era muratore. Con la terracotta racconto l’ambiguità del vuoto da abitare: per una bambina la casa di Barbie è la sua casa, la sposa sogna una casa perfetta, dove quasi non c’è vita, poiché se ci fosse esisterebbe anche il seguito di ‘vissero felici e contenti’, che non è sempre piacevole.»

A cura della Redazione

Diversa la storia delle sculture in vetro di Silvia Levenson: «Un giorno vidi il lavoro dell’artista svedese Bertil Valien e rimasi affascinata dal fatto che si potesse usare il vetro per fare arte. E da allora ho iniziato anch’io a sperimentare questa tecnica. Sappiamo che il vetro ci protegge e ci isola nelle case ma sappiamo anche che può rompersi e farci del male: lavoro su questa ambiguità fra la perfezione formale e la fragilità. Tutto il mio lavoro è una riflessione sulla condizione umana e sui rapporti interpersonali, sulle difese e le strategie che ci creiamo per affrontare la vita ogni giorno. Dunque i vestiti di vetro sottolineano la fragilità e più che altro le inutilità delle nostre corazze e armature.» Insomma una mostra da vedere, in cui alle grandi terrecotte di Enya, cui interessa tanto l’esterno quanto l’interno di un’opera d’arte-racconto, si affiancano le opere di Silvia, amare ma non senza una via d’uscita. «L’ironia e il paradosso lasciano sempre una porta aperta: quella che ci fa sorridere o riflettere. La mia visione della vita si riassume nelle scarpette con il chiodo: c’è sempre qualcosa che disturba, ma continuiamo pur sempre a camminare, o almeno così mi sembra».

“Doppio gioco. Silvia Levenson e Enya Daniela Idda” Galleria Avanguardia Antiquaria 6 maggio - 26 giugno Via Canonica 20, Milano da lunedì a venerdì 10-19.30 orario continuato sabato 10.30-13.30/16.00-19.30 www.avanguardiantiquaria.com Dall’alto. Silvia Levenson. Debutto in società, 1999, gesso, metallo, filo spinato, vetro, cm 80 x 80x160. Collezione Maria Cilena, Milano. In basso. A sinistra. La sposa, 2010. In basso. A destra. La festa della santa donna, 2000, terracotta, h 130 cm.

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La forza rivoluzionaria della manutenzione come cura del mondo l significato della parola manutenzione (in latino manus-tensiones) è tenere in mano. Tenere in mano inteso come attività di cura. Manutenzione, quindi, come funzione della cura. Se pensiamo al lavoro di cura l’associazione con il lavoro delle donne è abbastanza immediata. E quest’ultimo possiamo leggerlo nel suo significato politico, storico, filosofico e simbolico. Ma se proviamo a giocare con le parole dette sopra e a far danzare il pensiero tra un significato e l’altro, possiamo metterle in relazione e magari scoprire analogie e chiavi di letture tra loro intrecciate. Partiremo da un punto solo apparentemente distante. Se per un attimo prendiamo in prestito il pensiero politico di Vandana Shiva, attivista indiana nella salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità, possiamo vedere come risulti possibile parlare di significato intimo del lavoro artigiano mettendolo in relazione con la cura dell’ambiente e della società in cui viviamo. Società intesa dentro e fuori di noi. Il concetto di manutenzione è un concetto conservativo che mira al mantenimento, al prendersi cura, al ridare vita, a ri-comporre. Se ci soffermiamo un momento a osservare il pensiero normativo culturale ed economico della società “moderna” a cui apparteniamo, possiamo notare come essa risulti essere in realtà in contrasto con il pensiero della manutenzione e del conservativo, essendo il modello economico dominante basato invece sul consumo, sull’accumulo, sul concetto di usa e getta. Produci e consuma, consuma e produci. Più si produce e più si è moderni. Il Prodotto Interno Lordo rappresenta il parametro della ricchezza e si basa sull’accumulo quantitativo, mentre la ricchezza di una nazione viene calcolata sulla possibilità di consumo delle famiglie. L’economia del consumo/accumulo non prevede un simbolico conservativo e nega infatti culturalmente la funzione della cura, emarginando socialmente il lavoro di cura, svalorizzandolo sia sul piano simbolico che economico. Banale osservare come i lavori di cura in generale siano infatti quasi sempre relegati ai gradini più bassi della scala sociale (badanti, addetti alle

I Nel gesto artigiano si compie quella fusione tra spirito e materia che si svela nel “saper fare”, “saper come toccare”

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pulizie, operatori ecologici, eccetera) per non parlare del lavoro domestico (definito lavoro di riproduzione), totalmente invisibile nel suo apporto alla sopravvivenza della specie umana e all’economia. In Italia, se tutto questo lavoro venisse calcolato risulterebbe pari al 32,9% del Pil, cioè circa 433mila milioni di euro, un terzo del PIL annuale. Potremmo infatti definirla produzione-ombra. Tutto quel tempo speso a pulire, riordinare, stirare, accudire gli anziani, allevare i bambini, preparare il cibo, viene svolto quasi esclusivamente dalle donne nella totale invisibilità e assenza di riconoscimento. La presenza di una relazione quando il lavoro è svolto a beneficio dell’altrui sopravvivenza (madri, sorelle, figlie, mogli), determina lo sconto sul piano politico di questo gesto fondamentale per l’esistenza. Normale che sia così. Scontato. Naturale. La responsabilità della cura riguarda un solo genere. Ma lasciando per un attimo da parte l’invisibilità del valore del lavoro di cura (lavoro delle donne) e relativo conflitto tra i generi, porterei invece di nuovo l’attenzione sul significato della cura in relazione al mondo. Vandana Shiva, che trae il suo pensiero filosofico dalla tradizione induista secondo cui esisterebbero un principio maschile di trasformazione e uno femminile di cura e manutenzione, ci mette in guardia rispetto ai pericoli che lo squilibrio di questi due principi può (e sta) generando, poiché dal loro equilibrio dipende l’equilibrio del mondo, inteso qui come luogo da abitare. L’equilibrio di cui ci parla Vandana Shiva va alla radice di quanto accennato sopra e riconduce a una visione ciclica dell’esistenza e a una non separazione (operata in occidente a partire da Cartesio) di mente/corpo – natura/cultura. La critica che viene mossa al sistema occidentale è di svilire ed emarginare il principio di manutenzione e di cura. Questa scissione genera uno squilibrio mettendo la natura fuori di noi, facendola diventare “altro da noi”, come cosa subalterna, da dominare, da controllare. Così come si è tentato in epoca patriarcale (e si tenta ancora in molte società) di dominare la parte femminile dell’umanità nella sua potenza


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riproduttiva impedendo di agire la propria libertà di autodeterminazione, guarda caso proprio a partire dalla sessualità e riproduzione. L’associazione corpo-natura-donna come entità da dominare a vantaggio dell’associazione mente-cultura-uomo hanno portato alla svalorizzazione del femminile e all’acquisizione di privilegi in termini di potere del maschile. La scissione di cui sopra ha generato la tendenza a dominare il principio riproduttivo, a volersene appropriare, la forza riproduttiva della donna è un qualcosa di temibile, fa paura. Se parliamo di potere biopolitico e all’espropriazione del sapere/potere sul corpo delle donne pensiamo, per esempio, alle politiche demografiche, in mano alle leggi (quasi sempre scritte da uomini) e alla scienza. Pensiamo a come proprio spesso il corpo delle donne nel suo potenziale riproduttivo sia oggetto di scambio di scontri politici (e per questioni numeriche anche in questo caso si tratta prevalentemente di uomini) in cui si dibatte su come normare tutto ciò (aborto, contraccezione, procreazione assistita). La legge quasi mai parla di corpi maschili, intesi nella loro accezione sessuata. La legge parla di un corpo solo, quello femminile, come qualcosa da normare e controllare. Ma tornando alla visione di Vandana Shiva veniamo sollecitati a osservare come questo principio di dominazione delle forze naturali da parte dell’umanità sia lo stesso che sta generando la distruzione planetaria dal punto di vista ambientale. Senza soffermarci troppo a lungo sul conflitto tra i generi possiamo trovare (purtroppo) facilmente altri esempi di prevaricazione e squilibrio di un principio sull’altro a macro livello ambientale. Pensiamo all’invasività dell’industrializzazione da cui dipende lo scioglimento dei poli, alla manipolazione delle sementi e i conseguenti brevetti che obbligano i contadini a comprare semi sterili condannandoli a una schiavitù economica senza fine, dalla privatizzazione delle risorse naturali (non ultima in casa nostra quella dell’acqua). Oppure pensare alla condizione di sottosviluppo in cui versano le culture a produzione agricola e artigianale rispetto alle culture basate sul consumo. Lo stesso vale sul piano simbolico. Con un modello prevaricante sull’altro. Torniamo ora all’econonomia. Oggi la capacità di consumo determina la ricchezza. Si parla infatti spesso di civiltà dello spreco, basata su produzione-accumulo-progresso. Letti come un tutt’uno. Le imprese si reggono sui consumi. Si è bravi cittadini se si consuma, ci raccomandava anche uno spot televisivo di qualche

tempo fa. Tutto questo ha in sé dell’illogicità, la prima, invisibile forse nella sua ovvietà, non tiene conto del fatto che le risorse naturali non sono infinite. Nelle società dello spreco non c’è posto per la manutenzione e la conservazione, l’unicità delle cose, il piccolo. Prende spazio invece l’uniformità. Il modello di economia maggiormente imperante nella nostra società ha come conseguenza la standardizzazione delle merci fino ad arrivare all’appianamento di tutte le differenze, all’omologazione dei prodotti, al deperimento veloce. Nella produzione artigianale ogni cosa è unica. Uguale solo a se stessa, con l’impronta di chi l’ha creata. Nel gesto artigiano si compie quella fusione tra spirito e materia che si svela nel “saper fare”, “saper come toccare”. Le competenze acquisite sono quelle che permettono di “fare anima con le cose”, si parla di “saggezza del saper fare”. La cura che noi dedichiamo alla conservazione del nostro piccolo mondo, il nostro quotidiano, i nostri cari, è il gesto che ci permette di entrare in relazione con il mondo. Ci restituisce il senso del nostro stare e del nostro fare. È uno scambio pari. Tra chi cura e chi/cosa è curato. Che pone al centro la relazione. Così come nel gesto di cura primario, la funzione materna. Pensiamo al significato delle parole. Al senso del modo di dire Mettere al mondo un figlio. Pensiamo alla manutenzione della vita - a partire da quella dei bambini - che vengono, non solo curati, ma “tenuti in mano” o “portati per mano” lungo tutto il cammino dell’ esistenza. La levatrice accompagna il bambino nella sua fuoriuscita dal canale del parto e lo accoglie in questo mondo, “tenendolo in mano”. La parola levatrice deriva dalla funzione di “elevare” il bambino neonato verso il cielo, per mostrarlo al cosmo e agli dei. Levana era il nome della divinità romana che sovrintendeva al parto; non solo lo vegliava, ma permetteva al padre il riconoscimento del neonato attraverso il gesto del mostrarlo al mondo. Se torniamo alla semplice manutenzione di un oggetto, a partire dal gesto artigiano possiamo ri-conoscere ed essere consapevoli di cosa questo gesto è in grado di trasmetterci. La manutenzione è, allora, il mantenimento della natura dell’oggetto attraverso la manutenzione. Si parla quindi di “consapevolezza della qualità”. Manutenzione come lavoro di cura, quindi, di sé e del mondo. Manutenzione come gesto rivoluzionario ed ecologista che mira alla conservazione, al mantenimento della vita contro la sterilità dell’usa e getta. Se per un attimo pensassimo a una società che ponesse al centro il

Manutenzione come gesto rivoluzionario ed ecologista che mira alla conservazione, al mantenimento della vita contro la sterilità dell’usa e getta

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senso della cura si potrebbe arrivare a concepire un modello produttivo diverso, rispettoso dell’ambiente e dei soggetti che lo vivono. Valorizzando e conseguentemente riportando in equilibrio tutto quell’operare che oggi vive nell’invisibilità se non addirittura nel disprezzo. Il pensiero filosofico di Vandana Shiva ci dice che la speranza per un “altro mondo possibile” nasce all’interno di un modello di civilizzazione in sintonia con l’idea che l’umanità è strettamente interconnessa con tutto il resto delle espressioni di vita. Non esiste una gerarchia fissa e immutabile – forzatamente verticale ed escludente – ma un mondo fatto di relazioni tra parti equivalenti: tutte, a loro modo, importanti per la continuazione della Vita, e tutte che richiedono, a loro modo, cura e manutenzione. Il compito è, allora, quello di muovere da questo intento, dispiegando così tutte le nostre possibilità di cura e manutenzione del mondo. Se il nostro cammino esistenziale si basasse su una civilizzazione della cura e manutenzione, si

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cambierebbe radicalmente l’ordine delle cose anche dal punto di vista sociale. Non a caso, le donne ci ricordano ogni momento che, a partire da questa revisione di valori, si può trasformare il mondo, mettendosi in relazione con il mondo. L’ingresso delle donne nel lavoro, per il mercato ha messo in discussione la totale organizzazione del lavoro (che non prevedeva la cura e la relazione con altro diverso dal produttivo), il cui scricchiolio è sotto gli occhi di tutte e tutti, davanti al quale il lavoro non può che adeguarsi e ripensarsi. Il famoso slogan che ci riporta a un percorso di pace “Un altro mondo è possibile” diventa immaginabile come realtà solo se cambia anche il modello produttivo, il rapporto che abbiamo con le cose che produciamo, e il loro perché. Se decidessimo di curare e “manutentare” con consapevolezza il mondo, sarebbe bello ricordarsi di tenere sempre ben presente che il gesto che stiamo compiendo, per quanto piccolo, corrisponde a un prezioso atto rivoluzionario.

VANDANA SHIVA E L’ECOLOGIA SOCIALE ilosofa e scienziata indiana è considerata la teorica più nota di una nuova scienza: lʼecologia sociale. É nata nel 1952 a Dehra Dun, nell'India del nord. Ha studiato nelle università inglesi e americane laureandosi in fisica. Tornata a casa dopo aver terminato gli studi, rimase traumatizzata rivedendo lʼHimalaya: aveva lasciato una montagna verde e ricca dʼacqua con gente felice, poi era arrivato il cosiddetto “aiuto” della Banca Mondiale con il progetto della costruzione di una grande diga e quella parte dellʼHimalaya era diventato un groviglio di strade e di miseria, di polvere e smog, con gente impoverita non solo materialmente. Decise così di abbandonare la fisica nucleare e di dedicarsi allʼecologia. Nel 1982 ha fondato nella sua città natale il Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali di Dehra Dun in India, un istituto indipendente di ricerca che affronta i più significativi problemi dellʼecologia sociale dei nostri tempi, in stretta collaborazione con le comunità locali e i movimenti sociali. Vandana Shiva fa parte dellʼesteso movimento di donne che in Asia, Africa e America Latina critica le politiche di aiuto allo sviluppo attuate dagli organismi internazionali e indica nuove vie alla crescita economica rispettose della cultura delle comunità locali, che rivendicano il valore di modelli di vita diversi dallʼeconomia di mercato. La scienziata denuncia le conseguenze disastrose che il cosiddetto “sviluppo” ha portato nel Terzo Mondo. Lo sviluppo anziché rispondere a bisogni essenziali degli esseri umani minaccia la stessa sopravvivenza del pianeta e di chi vi abita. Le conseguenze dello sviluppo sono la massiccia distruzione ambientale, un enorme indebitamento che spinge i paesi a fare programmi di aggiustamento strutturale basati sulla scelta di spendere meno in salute pubblica, scolarizzazione e sussistenza, rendendo la gente più povera. Nel 1991 Vandana Shiva ha fondato Navdanya, un movimento per proteggere la diversità e lʼintegrità delle risorse viventi, specialmente dei semi autoctoni (native seeds) in via di estinzione a causa della diffusione delle coltivazioni industriali. Navdanya crea così banche di sementi, promuove la conversione allʼagricoltura biologica e stabilisce legami diretti produttore-consumatore per la disponibilità e la sicurezza alimentare. Navdanya contribuisce anche alla creazione di ARISE, unʼorganizzazione nazionale per lʼagricoltura biologica, la più ampia e dinamica rete di promozione dellʼagricoltura sostenibile. Nella visione di Vandana Shiva, la riproduzione femminile e la riproduzione agricola sono due processi vitali che hanno la stessa capacità di sottrarsi e di resistere alla mercificazione. Vandana Shiva ci offre unʼanalisi degli effetti del modello di sviluppo occidentale da un punto di vista femminista ed ecologista, mettendo in relazione due aspetti tra loro interconnessi: la natura e la distruzione ecologica, la donna e lʼemarginazione femminile. La conoscenza scientifica moderna ha creato un concetto di sviluppo basato sulle categorie riduzioniste del pensiero e dellʼazione scientifica. Il concetto di sviluppo in modo particolare si fonda sullo sfruttamento delle donne e della natura. Così come la svalutazione e il misconoscimento del lavoro e della produttività della natura hanno condotto alle crisi ecologiche, allo stesso modo la svalutazione e il misconoscimento del lavoro femminile hanno creato sessismo e disuguaglianza tra uomini e donne. Si verifica così la distruzione di culture e di altri modi di vivere per far posto a culture competitive il cui grado di civiltà è dato solo dal mercato. Il danno maggiore prodotto dalla civiltà industriale, secondo Vandana, è stata lʼequazione donna-natura e la definizione di entrambe come passive, inerti, materia prima da manipolare. A suo avviso invece «le donne sono le depositarie di un sapere originario, derivato da secoli di familiarità con la terra, un sapere che la scienza moderna, cartesiana e maschilista, ha condannato a morte». Per il patriarcato occidentale la cultura è altro dalla natura, dalla donna e così gli uomini hanno creato uno sviluppo «privo del principio femminile, conservativo, ecologico» e fondato «sullo sfruttamento delle donne e della natura». I contributi della Dott.ssa Shiva a favore dalle donne sono riconosciuti in tutto il mondo. Il libro Staying Alive ha cambiato in modo fondamentale la percezione della donna del Terzo Mondo. Nel 1990 scrisse per la FAO una relazione su Donne e Agricoltura intitolata Most Farmers in India are Women (La maggior parte degli agricoltori in India sono donne). Ha fondato la sezione femminile del Centro Internazionale dello Sviluppo Montano (ICIMOD) di Kathmandu.


Immagina che il lavoro...

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… Puoi dimostrare che non ha senso separare tempo di vita e tempo di lavoro e quindi pretendi che cambi il concetto di lavoro e di tempo di lavoro. E a partire da qui, dal lavoro inteso come unità di lavoro retribuito e di relazioni, pretendi di ridefinire l’economia, la teoria sociale e politica… Tutto ciò ipotizza un cambiamento di civiltà (primum vivere) oltre che di misure e di regole economiche… Non possiamo più permettere che siano le condizioni di lavoro, spesso nemiche dei nostri più elementari desideri, a cambiarci nell’intimo, come persone…” Lo scorso ottobre la Libreria delle donne di Milano pubblica il numero di “Sottosopra” interamente dedicato al lavoro, sotto forma di manifesto redatto in 10 punti. Il titolo è Immagina che il lavoro.

Un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini scritto da donne e rivolto a tutte e tutti perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più. Il manifesto è frutto di un percorso collettivo di riflessione avviato da anni dal gruppo di lavoro della Libreria delle donne di Milano in cui convergono donne di diverse età. È rivolto a tutti, uomini e donne, sfidando tutte e tutti per far sì che l’utopia del titolo (cioè l’immaginazione) possa, attraverso la pratica della relazione e un’acquisizione maggiore di consapevolezza, trasformarsi in una realtà più vicina ai nostri desideri senza escludere le relazioni. Pubblichiamo di seguito un estratto del manifesto riguardante il lavoro di cura.

Immagina che il lavoro, a cura del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, in “Sottosopra” ottobre 2009. Info: lavoro@libreriadelledonne.it www.libreriadelledonne.it

L’arte della “manutenzione” dell’esistenza: matrix del futuro, non archeologia domestica. Questo lavoro non è eliminabile. Anzi aumenterà.

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oi donne italiane siamo famose presso i più attenti studiosi internazionali per la nostra dedizione domestica, in particolare per le eccezionali cure che riserviamo alla casa: la casa italiana media, in effetti, è scintillante come uno showroom, rispetto a una francese o anglosassone. Anche gli uomini italiani sono famosi tra gli studiosi: continuano a fare gli eterni bambini che passano dalle cure della mamma a quelle di una moglie/compagna che gli stiri le camicie (in Italia, infatti, le camicie non stiro non hanno mai avuto successo). In sintesi: il lavoro domestico delle italiane è il più alto in assoluto tra i paesi ricchi, mentre quello dei maschi italiani è il più basso. In cifre, questi gli estremi della media giornaliera: - lavoro domestico degli uomini: 1h 55ʼ italiani - 2h 24ʼ norvegesi; - lavoro domestico delle donne: 5h 47ʼ italiane - 3h 36ʼ norvegesi. Avete notato? Anche nei Paesi più ricchi, paritari e dotati di servizi, le donne continuano a coprire più lavoro domestico degli uomini. Ma prima di gridare allʼingiustizia (che cʼè) mettiamo in salvo una verità: la cura dellʼesistenza non è eliminabile dalle nostre vite, è vitale in senso stretto e finora, anche con i migliori servizi al mondo, non ha mai occupato meno di 3 ore in media al giorno per ogni persona adulta tra i 20 gli 80 anni (6 ore per coppia/famiglia). Non è archeologia, residuo del passato. È lo scambio vivo e materiale di cui sono intessute le nostre esistenze di umani. E questo lavoro non è neppure destinato a ridursi. Anzi è matrice del futuro. Tende a crescere perché il sistema sociale ed economico sposta sui singoli individui nuove responsabilità. Lʼagenda degli obiettivi di ogni

singolo uomo e donna, infatti, si fa sempre più fitta: essere belli, giovani, in buona salute, di successo, realizzati, benestanti e felici è un gran lavoro, sempre più specializzato e complesso, fonte di insicurezze, stress emotivi che vanno curati nel privato. E poi cʼè lʼinvecchiamento progressivo della popolazione, che farà aumentare il numero di persone dipendenti. Il problema è: chi fa tutto quel lavoro e chi lo farà, con quale libertà, con quali riconoscimenti. A oggi, in tutti i Paesi è fatto “naturalmente” di più dalle donne. Di questo lavoro, complesso ed essenziale, che connette, dà senso e forma alla vita quotidiana di adulti e bambini, generi e generazioni, gli uomini, nella loro pretesa indipendenza, sono meno consapevoli, benché assai bisognosi. Molti si impegnano, ma raramente ne vedono le conseguenze per il mercato, in economia, nella politica. Quanto a noi donne: è evidente che, per garantire la manutenzione dellʼesistenza nostra e altrui, limitiamo, se possiamo, la nostra presenza sul mercato del lavoro ed è anche per questo che, spesso, facciamo meno carriera e siamo meno pagate. Domanda: le donne lavorano meno per il mercato perché trovano il mix vita/lavoro più vivo e interessante, oppure subiscono il lavoro per lʼesistenza come necessità pratica e imperativo culturale? Forse sono in cammino per scoprirlo. Forse vorrebbero poter scegliere, cambiare gli equilibri nelle diverse fasi della loro vita. Il mix vita/lavoro è un segnale forte e suggestivo che intreccia libertà e costrizione. Che, a volerci metter mano, sarebbe ricco di pensieri stimolanti per il futuro di tutti. Il discorso

della parità invece, semplificando, propone come soluzione la “equa” spartizione tra i due sessi del lavoro in casa e di relazione. Ma una tale spartizione non è definibile con una norma e non è neppure auspicabile che lo sia: è chiaro a tutti che così facendo ogni convivenza diventerebbe un inferno. E, poi, come e chi sanzionerebbe i fannulloni/e? A questo punto il discorso della parità tira fuori unʼaltra parola magica per rimuovere il conflitto: conciliazione tra i due lavori per entrambi i sessi. Ma, come abbiamo visto, in tutti i Paesi, compresi i più virtuosi nordici, il tempo parziale e la flessibilità degli orari sono richiesti soprattutto dalle donne. Questo accade perché ci trasciniamo dietro rimasugli della vecchia divisione del lavoro tra i sessi? Oppure perché a molte quel lavoro piace? Oppure perché nella convivenza il conflitto tra donna e uomo è poco gestibile e la legge certo non aiuta? Questi sono gli interrogativi che i semplificatori non si pongono mai. Si fa strada a questo punto la consapevolezza che il discorso di parità e di uguaglianza, quando ha a che fare con la differenza tra i sessi ˗ che è in estrema sintesi differenza nella relazione con il mondo e con lʼaltro ˗ perde ogni connotato di nobiltà e appare, invece, una semplificazione che non approda a nulla. Parificare, conciliare e chissà che altro ancora, in realtà coprono il conflitto che cʼè nel lavoro, in quello produttivo come in quello di riproduzione dellʼesistenza. Con la differenza che questʼultimo si ribella alla legge e alla monetarizzazione. Esso infatti ha una posta in gioco più ambiziosa: tenere in vita la relazione amorosa nel conflitto e fare esperienza della libertà e del limite.

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SPECIALE Artigianato al femminile Gabriella Rossi Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile, Torino

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ecovillaggio

UN MODELLO DI VITA SOSTENIBILE, UN’UTOPIA CHE DIVENTA REALTÀ

Abitare in un

“Immaginiamo un mondo di trasparenza e di fiducia, un pianeta in cui le diverse culture siano unite nella creazione di comunità in armonia reciproca con tutte le forme di vita e con la Terra, soddisfacendo al tempo stesso i bisogni della nostra generazione e di quelle future” (Tratto dal sito di RIVE, Rete Italiana dei Villaggi Ecologici: http://www.mappaecovillaggi.it/)

er raccontare la natura degli eco villaggi occorre parlare di relazione e condivisione. Condivisione di spazi, condivisione di esperienze, affetti, professionalità, risorse economiche e intellettuali. Condivisione di una visione. Un modello di vita in maggior sintonia con la natura e i suoi tempi che si basa sulla solidarietà, la partecipazione di ciascuno alle decisioni del gruppo, all’eco-sostenibilità. Sperimentando un modo diverso di vivere insieme. Sottraendosi all’individualismo tipico delle nostre società avanzate. All’economia che nega il legame tra chi produce un bene e chi lo utilizza. L’ecovillaggio è una sperimentazione che tenta di ricostruire una nuova socialità basata su un senso di comunità, di appartenenza. Per esempio un tempo (e ancor oggi in realtà distanti o per lo più rurali) l’accudimento dei più piccoli non era solo una questiona privata, era affidata alla collettività. La comunità fungeva da maternage e da controllo della sicurezza dei più piccoli. Con l’avanzamento della famiglia monoparentale e con il disgregamento delle reti di protezione famigliare tutto questo è andato perduto, con un impoverimento dell’universo affettivo di adulti e bambini. La sperimentazione della vita comunitaria, letto anche nella responsabilità collettiva, ci permette di costruire la comunità con un forte vantaggio per la crescita affettiva del singolo (oltre che un notevole risparmio di energie). Liberando il tempo e aumentando la socialità ne trae miglioramento la qualità della vita. Questa scelta porta beneficio anche sul piano della riduzione dei costi economici e ambientali, dal momento che nella condivisione di spazi e risorse, per esempio, gli elettrodomestici vengono utilizzati collettivamente e di conseguenza vi è un consumo nettamente minore rispetto

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Dall’alto. Lavori all’ecovillaggio di Torri Superiore.

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a un normale condominio in cui ogni nucleo familiare possiede il proprio elenco di elettrodomestici: lavatrici, televisori, frigorifero, decoder, modem, auto. Ma non è solo questo, leggiamo infatti dal sito della Rete Italiana dei Villaggi Ecologici (RIVE) che i due elementi fondativi di un ecovillaggio sono l’intenzionalità e l’ecosostenibilità. E che per comunità intenzionale s’intende «un gruppo di persone che hanno scelto di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune». In Italia esiste circa una ventina di ecovillaggi, pochi se messi a paragone con la realtà americana che conta circa 2.000 comunità, il 90% delle quali negli Stati Uniti, ma l’attenzione verso questo processo di trasformazione della società attraverso un vivere insieme diverso è in continuo aumento. Un desiderio di cambiamento che mette al centro la relazione e la cura, la conservazione delle risorse comuni e naturali. Gli eco villaggi in Italia sono legati tra loro attraverso la rete RIVE e a livello europeo dal GEN-Europe che è l’associazione europea degli ecovillaggi. Il GEN-Europe favorisce lo sviluppo di ecovillaggi come modello di insediamenti umani sostenibili attraverso lo scambio di comunicazioni, la partecipazione, l’educazione e il lavoro in rete. Fornisce assistenza nello sviluppo di ecovillaggi, comunità sostenibili e reti in Europa, nel Medio Oriente e in Africa. Promuovendo il concetto di ecovillaggi sosteniamo la protezione dell’ambiente, la cura della Terra e la costruzione di comunità armoniose. Qui di seguito presentiamo l’ecovillaggio di Torri Superiore, nell’entroterra ligure, un esempio di recupero e conservazione di un borgo tardo medioevale del XIV secolo abbandonato per anni.


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L’ecovillaggio di Torri

Superiore

UNA COOPERATIVA A MAGGIORANZA FEMMINILE PER

UN VILLAGGIO SOSTENIBILE

L’ecovillaggio di Torri Superiore.

orri Superiore è un piccolo gioiello di architettura popolare situato ai piedi delle Alpi liguri, a pochi chilometri dal Mar Mediterraneo e dal confine francese, vicino alla città costiera di Ventimiglia. Originario del XIII secolo, il complesso è notevole non solo per l’architettura compatta, ma anche per il buono stato di conservazione. Il villaggio medievale è composto da tre corpi principali, separati da due vicoli interni in parte coperti. Oltre 160 vani con soffitti a volta (a botte o a crociera) solo collegati da un intricato labirinto di scale e terrazzi. La pietra, la calce e la sabbia utilizzate originariamente per la costruzione erano di origine locale e provenivano dalla valle o dal letto del vicino torrente Bevera. Il villaggio è stato in gran parte restaurato all’inizio degli anni Novanta ad opera dell’Associazione Culturale Torri Superiore. L’Associazione è stata fondata nel 1989 con lo scopo sociale di restaurare e ripopolare il villaggio medievale in stato di abbandono. Nel corso degli anni successivi, un dettagliato studio della struttura degli edifici ha condotto all’elaborazione di un complesso progetto di restauro che bilancia le parti a uso pubblico e quelle a

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uso privato, sostenendo la creazione di una comunità residente e contribuendo alla creazione di un ecovillaggio e di un centro culturale aperto al pubblico. L’Associazione Culturale ha in seguito destinato una grande parte dell’ecovillaggio a centro culturale e ricettivo (una Casa per Ferie per l’ospitalità, un punto ristoro e strutture per attività formative, corsi e seminari). La struttura ricettiva è gestita dalla società cooperativa Ture Nirvane, fondata nel 1999 da alcuni membri dell’Associazione Culturale, e composta da 5 donne e 2 uomini. Viene sostenuta a titolo volontario dalla comunità residente in compiti quotidiani come gli acquisti, le pulizie e la cucina. Nel 2002 la cooperativa ha ottenuto, come azienda a maggioranza femminile, i contributi previsti dalla Legge 215/92 “Agevolazioni per l'imprenditoria femminile” per le attrezzature della casa per ferie (cucina, impianti, arredi sale). L’attento piano di restauro prevede la conservazione e riqualificazione dei caratteri medievali della struttura attraverso l’uso di materiali naturali ed eco-compatibili, dei principi della bioedilizia e di interventi strutturali in armonia con

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l’ambiente circostante. Nelle opere di restauro sono state utilizzate pietra naturale locale, calce (per gli intonaci e le pitture murali) e materiali isolanti naturali. Tutti i serramenti sono in legno sostenibile e vengono usati smalti e colori ecologici. Infatti, sin dall’inizio, l’idea di restaurare il villaggio si è fondata su principi ecologici e la partecipazione alla Rete Globale degli Ecovillaggi e al movimento della Permacultura ha aiutato il gruppo a focalizzare e realizzare molti obiettivi pratici. Torri Superiore e l’Ecovillaggio sono una cosa sola: l’Ecovillaggio comprende tutti i membri residenti e non, e anche gli ospiti della struttura ricettiva sono invitati a seguirne i principi. Gli obiettivi generali dell’Associazione e dell’Ecovillaggio, compresi i programmi di ecoturismo, sono decisi dall’Assemblea degli associati che si riunisce due volte l’anno. Si contano 30 membri, sia residenti che non, e segue principi di sostenibilità, cooperazione e solidarietà. Dal 1999 al 2003 Torri Superiore è stata la segreteria del GEN-Europe (Global Ecovillage Network) con competenze anche su Medio Oriente ed Africa; è tutt’ora la sede legale della rete GEN a livello internazionale.

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La produzione ceramica a Torri Superiore.

Oltre alla cooperativa a maggioranza femminile, a Torri Superiore molte attività lavorative rivolte all’esterno sono gestite da donne, tra cui un laboratorio di ceramica al tornio e gruppi di pratica di Iyengar Yoga. Il laboratorio di ceramica produce in piccole serie stoviglie per l’uso quotidiano (tazze, ciotole, zuccheriere, ecc.) lavorate interamente a mano. I lavori vengono realizzati al tornio, rifiniti e colorati con ingobbio (argilla colorata) e/o smalti. I materiali usati non contengono piombo né altre sostanze tossiche, e sono adatti per uso alimentare. La cottura è a 1150°C, una temperatura alta che permette di realizzare oggetti molto resistenti agli urti che possono essere lavati anche in lavastoviglie. Claudia Stark organizza su richiesta anche corsi di ceramica per adulti e bambini. I gruppi di pratica di Iyengar Yoga sono seguiti da Valentina Tafuto che attualmente insegna con il livello Introductory II, e sono aperti anche gli ospiti dell’ecovillaggio. Gli strumenti di lavoro dell’Iyengar Yoga sono prevalentemente le asana (le posizioni) e il pranayama, controllo ritmico del respiro. Lo Yoga affonda le sue radici nell’etica sociale e personale, attraverso l’attenzione sul corpo, il respiro, la mente, conduce alla coscienza del Sé, puro e libero da ogni dualità.

L’Associazione attiva inoltre numerosi corsi e seminari, come per esempio il corso di autoproduzione domestica di saponi e creme naturali tenuto da Lucilla Borio. Il corso teorico-pratico dura due giorni, e insegna a fare da sé i prodotti per l’igiene personale, con semplici attrezzature domestiche, ingredienti naturali e poca spesa, nell’ottica della riduzione dei consumi e della decrescita felice. Sono tenuti da donne anche i corsi di feltro ad acqua e sapone e produzione domestica di birra. É inoltre attiva una collaborazione pluriennale con l’unione artigianale tedesca “Axt und Kelle” composta da carpentieri e artigiani del legno, l’unica ad accettare anche donne. Secondo lo statuto dell’unione, gli artigiani e artigiane aderenti viaggiano per due anni svolgendo il tirocinio e offrendo gratuitamente il loro lavoro a organizzazioni senza fini di lucro. A livello generale, tutti i lavori svolti a Torri Superiore sia a livello professionale sia come volontariato (manutenzione delle strutture, agricoltura, gestione del centro ricettivo, artigianato) sono ispirati ai principi di assoluta parità tra i generi ed equità. Il rispetto reciproco, la parità tra i generi, la non specificità dei ruoli, l’ascolto dell’altro nella sua totalità, offre la possibilità a ognuno e ognuna di esprimere liberamente i propri talenti e i propri desideri scegliendo cosi la propria forma di condivisione, sentendo intorno a sé il clima caldo della fiducia.


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microcredito L’esperienza del

NASCITA E REALTÀ PIEMONTESE ’idea del microcredito si diffonde grazie al lavoro di Bank, la “banca villaggio” fondata nel 1976 da Muhammad Yunus in Bangladesh. Questa banca rurale nasce per concedere prestiti e supporto organizzativo ai più poveri, riuniti in gruppi di beneficiari (Solidarity Group), tradizionalmente esclusi dal sistema di credito tradizionale. Sull’esempio della Grameen Bank, che oggi è la quinta banca del Bangladesh, diverse Organizzazioni Non Governative (ONG) internazionali hanno adottato nel corso degli ultimi vent’anni programmi di microfinanza/microcredito, al fine di integrare progetti d’intervento a sostegno dell’economia locale dei Paesi in via di Sviluppo. É così che si sono attivate: Accion Internacional, Care Internacional, FINCA International, ACODEP (Asociacion de Consultores para el Desarrollo de la Pequena y Microempresa). Allo stesso tempo, si è diffuso nel contesto europeo un approccio al microcredito sostanzialmente differente, che considera quelli che sono gli aspetti socio-economici più propriamente caratteristici del vecchio continente. In Europa e in Italia gli esempi di microcredito si rifanno alle esperienze di finanza etica. Negli anni Settanta in Italia si costituiscono le MAG (Mutue Auto Gestione), che raccolgono risparmio dai soci per utilizzarlo a favore di progetti nell’ambito dell’economia sociale e della cooperazione internazionale. Numerose ONG italiane hanno poi adottato lo strumento del microcredito nei loro programmi di sviluppo, ritenendolo un importante mezzo per la ridefinizione delle politiche di sviluppo economico. A Padova un solido sistema composto da tre istituzioni ha dato vita a un importante centro di intervento nel campo del microcredito e della finanza etica: la Banca popolare Etica; il Consorzio Etimos; la Fondazione. Oltre all’erogazione di servizi finanziari di credito e risparmio, l’istituzione di microfinanza può supportare lo sviluppo delle micro/piccole attività economiche (micro/small economic activities) anche attraverso l’erogazione di servizi di formazione e assistenza tecnica, in relazione

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alle necessità specifiche del target group. Se è vero che il credito è uno strumento in grado di aumentare gli investimenti produttivi, è altrettanto vero che una buona gestione dell’attività può migliorare l’efficienza; l’introduzione di nuove tecnologie può incrementare la produttività delle micro/piccole attività economiche e un miglior accesso ai mercati può aumentarne il volume di vendite. Il piccolo o micro credito è sbarcato in regioni come Toscana, Sicilia, Campania, Piemonte, Molise, Puglia, Sardegna e Lazio e si è organizzato in città o provincie come Milano, Torino, Bologna, Roma, Cagliari, Venezia, Firenze, Napoli e Siena e sono in corso progetti per l’apertura di nuovi sportelli in qualche altra provincia italiana. In merito alle categorie di soggetti ai quali viene erogato, il microcredito sociale o per solidarietà perlopiù riguarda le donne. Infatti, come si enuclea dal terzo rapporto sul microcredito, il connubio tra donne e microcredito è ideale: il 90% dei progetti finanziati riguarda il microcredito al femminile. Sin dalla sua trasformazione da sistemi primitivi e tradizionali a sistemi strutturati e organizzati in modo moderno, il microcredito ha individuato nelle donne il soggetto privilegiato al quale riferirsi. I motivi sono tanti e ormai già acquisiti perfino dalle organizzazioni nazionali e internazionali di cooperazione allo sviluppo e si possono riassumere con l’affermazione che per la lotta alla povertà e alla disgregazione sociale nei paesi sottosviluppati (ma probabilmente non soltanto), la crescita e l’allargamento dell’emancipazione economica e sociale delle donne è un percorso inevitabile. Il microcredito alle donne è uno degli strumenti più utilizzati che, anche se relegato esclusivamente agli aspetti economici, può avere la capacità di investire anche il ruolo complessivo delle donne nella società e quindi avere un effetto moltiplicatore di incentivo a trasformazioni sociali e culturali. Naturalmente i dati si riferiscono prevalentemente ai paesi poveri e/o in via di sviluppo.

SPECIALE Artigianato al femminile Stefania Doglioli Centro Studi Donne in rete, Torino

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Nei paesi cosiddetti ricchi la situazione è diversa nel senso che non c’è molta differenza tra il microcredito femminile e maschile dal punto di vista dell’accesso numerico a questa risorsa, ma permangono le considerazioni sull’importanza di questo strumento per le donne in quanto costituiscono una parte debole sul mercato del lavoro. In un volume curato da Marcella Corsi vengono raccolti una serie di contributi sul tema dell’esperienza di microcredito nei paesi del Mediterraneo, traendo spunto da una ricerca promossa dalla Fondazione Risorsa Donna in occasione dell’Anno Internazionale del Microcredito (2005).

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A parte le ovvie differenze che si riscontrano nelle diverse aree e che dimostrano come non sia possibile una gestione anche di interventi teoricamente semplici come il microcredito senza adeguarne le regole e i meccanismi alle realtà locali, emerge un giudizio sostanzialmente positivo sia dai dati relativi ai risultati del microcredito, sia nei giudizi direttamente espressi dalle donne intervistate. Un risultato diverso sembra emergere in relazione ai risultati relativi agli effetti sull’empowerment degli interventi di microcredito. I risultati sono contraddittori e in parte deludenti rispetto alle aspettative del gruppo di ricerca, giacché in molti casi appaiono (specialmente in Europa) casi di empowerment negativo. In realtà, come viene anche rilevato nel volume, la cosa non deve stupire: infatti è molto difficile isolare il ruolo del microcredito rispetto ai numerosi fattori che possono aver influenzato e reso in qualche modo inefficace il microcredito stesso. Dalla ricerca, per esempio, sembra emergere come rilevante limite all’efficacia del microcredito la relazione tra lavoro domestico e lavoro esterno delle donne. Un altro aspetto va però messo in luce e ricalca la relazione fra sviluppo economico e sviluppo sociale. L’effetto traino dello sviluppo economico rispetto allo sviluppo sociale, anche se ancora molto caro specialmente agli economisti, è da molte parti messo seriamente in discussione. Di conseguenza anche il microcredito, sebbene per sua natura sia accompagnato anche da meccanismi che investono la sfera sociale, ha indubbiamente un aspetto prevalente di intervento nel campo economico. Aspettarsi un semiautomatico feedback in campo sociale può risultare illusorio: ciò naturalmente non vuol dire che sia inefficace o

addirittura inutile, vuol solamente dire che vi si debbono accompagnare e combinare interventi che investano direttamente gli aspetti sociali, normativi e culturali. Interventi in questi campi sono ovviamente più complicati o addirittura in alcuni casi possono essere pericolosi, specialmente quando si trattano problemi di genere. Sul territorio piemontese le esperienze di microcredito sembrano interessare maggiormente soggetti migranti e sarebbe davvero interessante indagare correttamente la genesi di questo fenomeno.

Le esperienze sul territorio da una ricerca della camera di commercio di Torino Almaterra – il microcredito per le donne, rivolta alle socie dell’associazione, italiane e immigrate, ha due finalità: 1. iniziare o allargare una piccola attività autonoma produttrice di reddito; gli interventi sono al massimo di 5 mila euro. 2. realizzare spese improvvise e urgenti; gli interventi vanno da poche centinaia di euro a un massimo di 3 mila euro. La socia presenta la domanda, l’associazione procede a un’istruttoria che passa al comitato di gestione di “Finanza Etica”. La restituzione è pensata in base alle possibilità della donna che chiede il microcredito. Almaterra svolge una funzione di garante nei confronti di Finanza Etica. Per quanto riguarda il microcredito scolastico come strumento per abbattere il drop out, il 65% dei presidi degli istituti di scuola superiore legherebbe i finanziamenti ai risultati scolastici, riservandoli agli studenti più meritevoli. Il 35% dei presidi lo legherebbe alle difficoltà economiche, indicando il finanziamento come lo strumento utile a colmare lo “svantaggio iniziale, favorendo migliori risultati scolastici in un secondo momento”. Con i criteri del reddito familiare incrociato con la media dei voti o del reddito familiare incrociato con la soglia minima dei voti (per esempio la sufficienza). Ruolo degli istituti scolastici: 44 su 64 istituti vorrebbero essere coinvolti in un progetto microcredito, non solo come “consulenti”, ma come “selezionatori” degli alunni da finanziare.


La creatività in

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PASSIONE ARTIGIANA Associazioni Michela Goi

La manifestazione dell’8 marzo a Eataly.

tinerart, Associazione Mestieri Manuali Creativi in Piazza, compie nel 2010 il suo decimo anno di attività, ma la prima idea del progetto nasce già tra gli anni Settanta e Ottanta. L’associazione conta nel suo nucleo 40 soci che lavorano vetro, cuoio, legno, ceramica o si occupano di maglieria, tessitura, gioielli. Molti sono artigiani iscritti all’albo, alcuni hanno l’Eccellenza Artigiana, altri sono operatori dell’ingegno. Abbiamo parlato con alcuni membri del consiglio direttivo, Erica Agazzani e Cristiana Zanirato, che lavorano il vetro, Marina Costantino, tessitrice, e con il presidente Maurizio Pittaluga, che lavora il cuoio, per farci raccontare obiettivi e iniziative dell’associazione. I membri dell’associazione non condividono solo un mestiere ma una scelta di vita, quella di fare della creatività una professione, al di fuori di una logica produttiva in senso stretto. Un approccio al lavoro che accomuna artigiani professionisti che vogliono uscire dall’isolamento della propria bottega, artigiani di strada e artigiani che hanno il laboratorio in casa. Singolarmente ciascuno può partecipare a fiere

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ed eventi, ma spesso capita di trovarsi in contesti esclusivamente commerciali, tra bancarelle di semplici rivenditori, perché nella definizione di artigiano rientra anche chi importa o assembla i propri prodotti. Né chi organizza le fiere necessariamente conosce le esigenze dell’artigiano, lo sa valorizzare o pensa ad adeguate strutture espositive. La forza dell’associazione sta proprio nel proporre agli enti un gruppo con una propria identità, che possa essere credibile come soggetto e nel contempo connotare l’evento così da evidenziare realmente le caratteristiche dell’artigianato creativo di fronte al pubblico. Itinerart, infatti, ha vinto il concorso del Comune di Torino per diventare soggetto accompagnatore, ovvero per organizzare e scegliere i partecipanti del mercatino che si tiene la prima domenica di ogni mese in via Cesare Battisti. E i prossimi progetti da realizzare con il Comune sono due “speciali”, uno su vetro e ceramica e uno sulla moda. Va sottolineato che l’esperienza dei mercati non è una mera occasione di vendita, ma soprattutto un modo per mostrare in che cosa consista davvero un oggetto d’artigianato, con

L’esigenza di dare coesione agli artigiani che vogliono uscire in piazza non è soltanto una realtà locale, Itinerat infatti è collegata alla rete nazionale Armesma, Associazione Nazionale Arti e Mestieri Manuali creativi in Strada, formata da associazioni che intendono scambiarsi le piazze ed esporre fuori dalle proprie regioni. E con Armesma, è stata organizzata la prima manifestazione nazionale: il 21 maggio presso la sala conferenze della Biblioteca Nazionale Universitaria, via Carlo Alberto 3, si è svolto un convegno sull’artigianato dal titolo “Arti a mano e creatività: una proposta per il futuro”, in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il 22 e 23 maggio, in via Cesare Battisti, ha avuto luogo un mercato dove si sono riuniti circa cento banchi da tutta Italia. Per informazioni: www.armesma.it

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la sua unicità e la sua qualità esecutiva, tanto più necessario in un momento di crisi generalizzata degli acquisti e in un mondo in cui il pubblico si trova sotto gli occhi per lo più oggetti prodotti in serie. A questo scopo i mercatini di Itinerart prevedono laboratori dimostrativi e interattivi per bambini, così da trasmettere non soltanto la consapevolezza delle tecniche del lavoro manuale ma anche il gusto di provare e imparare. La passione per l’insegnamento si rivela un punto chiave di queste professioni, una caratteristica naturale per mestieri che non sono impostati sulla pura volontà di vendere e devono sopperire al venir meno dei meccanismi padrefiglio con cui un tempo si trasmettevano i saperi e la passione. L’importanza di un’associazione come Itinerart consiste anche nel far capire le proprie esigenze dal punto di vista fiscale. Le piccole produzioni non possono e non vogliono identificarsi con la grande imprenditoria, ma a queste condizioni è quasi impossibile trovare una posizione fiscale adeguata che concili gli studi di settore con le esigenze di chi vive della propria creatività e non può impostare la produzione sull’incremento continuo dei guadagni. Non solo: le iniziative promosse necessiterebbero di finanziamenti per i tempi e i costi che richiedono a organizzatori e partecipanti, così come i servizi di formazione e avviamento al lavoro, perché presso l’associazione si trovano istruzioni sulla normativa vigente e chi si avvicina al lavoro artigiano può confrontarsi con colleghi più esperti.

Dall’alto. Laboratorio dimostrativo sulla lavorazione della ceramica raku. Il mercatino di via Cesare Battisti. Laboratorio dimostrativo sulla tecnica del mosaico.

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Un laboratorio interattivo per bambini per costruire giochi in legno.

Per circostanze del tutto casuali, il giorno in cui ho conosciuto personalmente alcuni membri dell’associazione è il 6 marzo, nel corso di un mercatino organizzato per la festa della donna nella piazzetta di Eataly, in cui espongono solo artigiane. A questo punto non c’è quasi bisogno di chiedere come l’associazione si ponga rispetto alla questione della donna: l’associazione ha una forte componente femminile e il consiglio direttivo è totalmente composto da donne (oltre alle persone già ricordate, del consiglio fanno parte anche Graziella Arnaud, settore alimentare, Monica Casa, vetro Tiffany, e Fiorenza Poncino, ceramica terzo fuoco). Impossibile, quindi, che si riscontrino problemi legati al genere. Così il lavoro di questi artigiani si dimostra, oltre che sostenibile, decisamente etico.


L’Artigianato... per i maestri e per gli appassionati

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uriosando sul social network più famoso del mondo, Facebook, mi sono imbattuta su un profilo che ha fin da subito attirato la mia attenzione in quanto parlava di artigianato. Ho contattato le fondatrici del gruppo “L’Artigianato … per i maestri e per gli appassionati” che ho scoperto essere donne. E quale occasione migliore per parlare con loro, visto che questo numero della rivista è interamente dedicato alle donne? É nata una bellissima intervista che ha fatto emergere la passione che ha mosso queste ragazze e ha reso concreta una loro idea.

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Ragazze, raccontatemi un po’ di voi. Siamo due ragazze di 25 anni che s’interessano quotidianamente, per lavoro e per passione, al design, all’arte e alla moda. I nostri nomi sono rispettivamente Serena Ciarcià e René Caucasio. Serena Ciarcià: sono nata e cresciuta nella provincia di Ragusa, originaria di Comiso. Ho frequentato, subito dopo il diploma di maturità scientifica, il corso di Laurea in Design e Discipline della Moda a Urbino. Tutto questo ha comportato il mio trasferimento nelle Marche, dove lavoro da 3 anni presso una casa di moda marchigiana come stilista. René Caucasio: è il mio nome d’arte, anch’io di origine siciliana, mi occupo di design d’arredamento, ricerco nuove tendenze e sono una designer freelance.

PASSIONE ARTIGIANA Artigiane in Rete Silvia Quaranta

Amiamo entrambe tantissimo il nostro lavoro, ne siamo orgogliose. É il mestiere che abbiamo sempre voluto fare e ne siamo molto felici. Parallelamente coltiviamo la nostra passione per l’artigianato e per gli antichi mestieri. Avendo entrambe un lavoro full-time (di cui, ribadisco, siamo fiere), ci dedichiamo al nostro progetto comune sull’artigianato nei ritagli di tempo e nei weekend. Com’è nato il vostro approccio al mondo dell’artigianato? Siamo appassionate di artigianato da sempre, seguiamo da anni l’attento lavoro di alcuni nostri conoscenti che operano nel settore. Amiamo la cura dei dettagli, l’originalità di un pezzo unico, l’armonia artistica che può creare ognuno con il proprio stile, la manifattura eccellente, il poter creare con le proprie mani vere opere d’arte. Grazie anche al nostro lavoro abbiamo sviluppato nel tempo un amore particolare per le armonie di colori e volumi. Cosa vi ha spinto a creare questo gruppo su Facebook? Il nostro obiettivo è quello di promuovere l’artigianato, facilitare i contatti fra artigiani e possibili acquirenti, avvicinare sempre più gli appassionati del settore alle tecniche e ai manufatti meravigliosi che sono racchiusi in questo settore; rendere pubblico ciò che oggi è diventato per svariate ragioni “invisibile”. Ci riferiamo in particolare ad antichi mestieri che hanno portato in alto i termini di stile, qualità, creatività, ingegno. Tali mestieri sono assorbiti dall’immaginario collettivo odierno come professioni non più attuali, ormai in disuso, perché il Novecento, come sappiamo tutti, ha anche creato il mito dell’industrializzazione, della produzione in serie. Si è ormai quasi del tutto perso ciò che prima era l’originalità segnata a mano in ogni oggetto. Siamo convinte che gli artigiani nascosti dentro le loro piccole botteghe, dietro ai banconi di bancarelle vaganti per le città meritino di più. Si avverte sulla pelle, oggi, la necessità di trovare qualcosa di originale, di autentico, di meno macchinoso e più naturale.

A sinistra. Serena e René, fondatrici su Facebook del gruppo “L’Artigianato... per i maestri e gli appassionati”. Dall’alto. Il logo del gruppo. La locandina pubblicitaria. Un’artigiana iscritta al gruppo: Nicoletta Quintino, scenografa e pittrice.

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Come avete messo in pratica la vostra idea? Da subito abbiamo capito che per fare bene ciò che avevamo in mente e partire col piede giusto avevamo bisogno di qualcosa di grande. E lo stiamo costruendo giorno per giorno. Il progetto (per ragioni di natura burocratica) a breve partirà e potremo renderlo pubblico. Con la speranza che questo possa aiutare tanta gente in gamba! Nell’attesa, impazienti, qualche settimana fa abbiamo deciso di creare un gruppo sul social network Facebook per cominciare a conoscere meglio coloro che diventeranno poi i protagonisti del nostro progetto! Abbiamo scelto il nome “L’artigianato… per i maestri e per gli appassionati” perché il tema di base deve essere appunto l’artigianato e perché si propone di abbracciare sia i professionisti (maestri), sia gli hobbisti (appassionati). Quanti sono attualmente gli utenti? Nel giro di pochi giorni i membri del gruppo sono cresciuti tantissimo. A oggi siamo più di 3.000 persone racchiuse in un’unica pagina.

Dall’alto. Elvira Riso, creatrice di gioielli-bijoux. Marina Surdo, creatrice di oggetti unici da regalo in pasta di mais, fimo e prosculpt. Marta Mangos, pittrice. Monica Silva, fashion designer.

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In che modo partecipano? Sono tutti molto partecipi alle iniziative, propositivi, curiosi e attenti! Tutti con una gran voglia di farsi avanti, di mostrare i propri lavori, di rendere pubbliche le proprie creazioni. Non c’è un solo giorno in cui la bacheca resti vuota. Ogni giorno sono presenti nuove attività interessanti, nuovi spunti creativi, centinaia di foto delle nuove creazioni dei membri, consigli, opportunità per partecipare a concorsi, e molto altro. Talvolta qualcuno ci presenta opportunità di lavoro per alcuni artigiani membri del gruppo e noi, ovviamente, siamo felici di poter fare da tramite regalando ad alcuni di loro questa piacevole sorpresa. Ciò che riescono a fare è incredibile. Noi ne siamo entusiaste! Le loro storie, i loro vissuti, i loro manufatti preziosi o delle volte spiritosi e divertenti ogni giorno ci danno la carica per migliorare il nostro progetto per loro. Abbiamo un ottimo rapporto con tutti i membri, un rapporto di rispetto, curiosità e stima reciproca, in cui la gentilezza e la cordialità non mancano mai. Ci rendiamo così conto che ciò che stiamo facendo, ciò che vogliamo portare avanti è davvero qualcosa d’importante, che merita l’attenzione e la partecipazione di tutti. Siamo tanto orgogliose di loro, hanno una forza incredibile, sono tutti originali nella loro creatività personale! A destra. Ilaria Anselmi, Maestra D'Arte in oreficeria, scenografa.

Come si svilupperà il progetto nato su Facebook? A breve il progetto sarà pronto a partire e finalmente potremo invitare tutti i membri del gruppo e della fan page, nonché chiunque sia interessato a partecipare attivamente. Capirai bene che non possiamo spiegartene nel dettaglio lo sviluppo perché non vogliamo rovinare la sorpresa a nessuno. Ormai è quasi tutto pronto e a tempo debito saremo liete d’invitarvi, fornirvi le spiegazioni dovute e rispondere ad altre domande. Avete in mente altri progetti? Abbiamo già in mente un terzo step. Un grande evento che possa contenere tutti. Ma è ancora in stato embrionale e necessita non solo di tanto lavoro ma anche dell’aiuto di enti terzi. Ne riparleremo più avanti. Al momento le nostre forze si concentrano sulla messa in atto del progetto di cui ti abbiamo parlato. Avete avuto difficoltà, come donne, nell’approccio con l’artigianato? Finora il nostro è stato un lavoro fluido, stimolante sotto vari punti di vista e molto creativo. Le nostre idee per migliorare il progetto sono in continua evoluzione e questo per noi è molto importante perché ciò vuol dire che c’è una buona dose di sensibilità e capacità interpretativa verso il prodotto in questione. Probabilmente in futuro ci farebbe comodo il supporto di sponsor che ci aiutino ad avere maggiore visibilità, ma al momento è ancora presto per poter immaginare quali problematiche potremo riscontrare. Questo è stato il mio incontro con René e Serena. Vi terremo aggiornati qualora ci fossero sviluppi in merito al progetto. Nel frattempo, se siete interessati, potete visitare il loro gruppo su Facebook ai seguenti link: gruppo: http://bit.ly/artigianato1 fanpage: http://bit.ly/artigianato2


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Una tela di

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pietra

eronica Prampolini è un’artigiana di Reggio Emilia per passione, dipingere sassi per lei è un hobby nato per caso, che però con il passare del tempo è divenuto un secondo lavoro. Tutto è nato quella volta che raccolse un sasso di fiume e mai avrebbe immaginato che quel semplice gesto sarebbe stato l’inizio di qualcosa che ancora oggi, a distanza di dieci anni, continua a fare. Così ha cominciato a raccogliere sassi di mare, lisci e levigati, sassi di fiume, ruvidi ma dalle forme curiose e irregolari e addirittura sassi delle rotonde stradali o delle fioriere dei centri commerciali. È la forma del sasso che le suggerisce cosa dipingere. Quando li guarda lei non vede “sassi” ma tartarughe, coccinelle, gattini, cagnolini, carote, fragole, pomodori, zucche, cestini di fiori. Solitamente non interviene sulla forma del sasso, è sufficiente lavarlo bene, togliere le incrostazioni e i residui di terra con una spazzola sotto il getto dell’acqua corrente e dipingerlo usando colori acrilici, che sono inodori e molto coprenti. A sasso ultimato spruzza uno spray fissante per colori acrilici a base d’acqua, o di tipo opaco o lucido.

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ARTIGIANI INSOLITI Arte di pietra www.verosassi.it

Le sue composizioni colorate diventano bomboniere per battesimi, matrimoni e cerimonie in genere, presenti per feste di compleanno, segnaposti da tavola, calamite, ciondoli e tutto ciò che le suggerisce la fantasia. In passato cercava il contatto con la gente, partecipando ai mercatini di artigianato artistico organizzati dalla sua città, Reggio Emilia. Adesso attraverso il suo sito internet viene contattata da chi ama regalare creazioni personalizzate, ed essendo un hobby, riuscire a ritagliare del tempo libero dal lavoro e dalla famiglia non è un’impresa facile. Pur non essendo un’artigiana per professione, la passione per ciò che fa si percepisce da come descrive in modo amorevole le sue creazioni, interpretando la forma del sasso e dandogli nuova vita. Guardando le foto, non si può non rimanere colpiti dalla precisione con la quale dipinge, facendo emergere espressioni e caratteristiche dei suoi soggetti. Non solo dipinge seguendo il suo istinto o un’ispirazione, ma alle volte dipinge soggetti su richiesta o anche ritratti di animali sulla base delle foto ricevute dai suoi clienti.

I sassi sono presenti nella sua quotidianità, sulla sua scrivania che è il suo angolo creativo, sul tavolo della sua cucina, in balcone, in macchina, in ufficio e a volte persino in tasca. Questo è il vero significato dell’artigianato, essere mossi dall’amore per ciò che si fa. È artigiano anche colui che non svolge questo mestiere di professione, ma che realizza opere con passione e devozione, e nel caso di Veronica regalando sorrisi alla gente.

Silvia Quaranta

Veronica Prampolini, accanto alla sua passione per l’artigianato, dedica il restante tempo libero al sostegno delle donne affette da endometriosi tramite l’Associazione APE Onlus, che da cinque anni si occupa di fare informazione creando consapevolezza su questa patologia femminile così diffusa ma anche così poco conosciuta. Nata nell’ottobre 2005 da un gruppo di donne con esperienza di endometriosi vissuta in prima persona, con l’obiettivo di diffondere informazioni e conoscenza sulla malattia e cercare di ottenere diritti e riconoscimento da parte degli enti governativi preposti. L’associazione A.P.E. è aperta a tutti, uomini e donne coinvolti direttamente o indirettamente con la malattia. Per saperne di più potete visitare il sito www.apeonlus.info

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Fondazione Cologni

ARTIGIANATO D’ECCELLENZA IN LOMBARDIA

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arlando di artigianato, si affronta spesso il nodo problematico della trasmissione dei saperi ai giovani e il pregiudizio diffuso che il lavoro artigiano si limiti a ricalcare mestieri del passato da tutelare come specie in via d’estinzione. La Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte di Milano ha scelto di fare da ponte tra l’artigianato d’eccellenza e il mondo della formazione, con un aggiornamento costante sugli sviluppi più attuali dei cosiddetti mestieri d’arte. L’ambito in cui si muove la fondazione, infatti, è quel settore che mette in gioco caratteristiche prettamente artigianali, come la produzione di oggetti dotati di una loro funzione, e connotazioni artistiche quali la preziosità e il numero limitatissimo nella produzione. La fondazione nasce a Milano nel 1995 per volere di Franco Cologni, fondatore della prima filiale di Cartier nel 1969, dal 2002 amministratore della Compagnie Financière Richemont SA, che ha assorbito la maison, e fondatore delle scuola milanese di design Creative Academy. Sul fronte dei giovani, grazie alla fondazione i mestieri d’arte diventano parte del percorso formativo universitario: nel 2009/2010 è stata istituita la cattedra di Sistemi di Gestione dei Mestieri d’Arte presso il corso di laurea magistrale in Economia e Gestione dei Beni Culturali e dello Spettacolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. In contesto non accademico è nata invece la collaborazione con RE.T.I.C.A., Rete Territoriale per l’Innovazione della Creatività Applicata, grazie alla quale l’approccio ai mestieri avviene tramite lo strumento dei

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laboratori: sperimentando attivamente la propria manualità, i giovani possono scegliere consapevolmente una professione. Per diffondere una maggiore conoscenza dei mestieri d’arte, la fondazione propone anche due collane. Nella divulgativa “Mestieri d’arte” si trovano monografie relative ai singoli mestieri, tra cui l’orologiaio, l’incisore di monete, il tipografo, il costruttore di monete e altro ancora, e accanto all’inquadramento storico non manca l’attenzione alle prospettive occupazionali odierne. Dal 2000 la collana scientifica pubblica i risultati delle ricerche e gli atti dei convegni del Centro di ricerca Arti e mestieri, fondato nel 1997 in collaborazione con l’Università Cattolica e attivo sulle tematiche dell’artigianato eccellente lombardo ma anche europeo. L’ultimo volume pubblicato è Mestieri d’arte e Made in Italy. Giacimenti culturali da riscoprire, a cura di Paolo Colombo con Alberto Cavalli e Gioachino Lanotte, Venezia, Marsilio Editori 2009, volto ad analizzare le prospettive produttive dei mestieri tradizionali in opposizione alle logiche sempre più stringenti del trasferimento all’estero delle lavorazioni. Nuovi interessanti progetti sono in programma per il 2010. Il 19 aprile sarà presentato il volume di Andrea Branzi Ritratti e autoritratti di design, Venezia, Marsilio Editori, in cui il famoso designer presenterà le biografie dei grandi maestri del design italiano anche attraverso la propria esperienza pluridecennale nel settore. Il libro costituirà un’efficace panoramica sulla storia del design e farà il punto su ciò che questa professione è oggi, attraverso un punto di vista privilegiato. Il biennio 2010/2011 prevede la seconda edizione del premio giornalistico “Benvenuto Cellini”, la cui prima edizione si è tenuta nel 2008/2009, mirato a premiare i migliori articoli, servizi radiotelevisivi e reportage fotografici che abbiano come tema i mestieri d’arte. Il 2011, invece, vedrà la pubblicazione degli studi del Centro di ricerca sulla storia delle Esposizioni universali dalle origini nel 1851 fino all’edizione di Shanghai 2010.

ARTIGIANATO IN ITALIA Associazioni Michela Goi

Nelle immagini vi proponiamo alcuni maestri d’arte che collaborano con la Fondazione Cologni. A sinistra. Interno della Bottega d’arte Ceramica Gatti, di Davide Gatti, una storica bottega di Faenza nata all’inizio del Novecento. A destra. Particolare di un ricamo realizzato nell’atelier di Pino Grasso. Grasso realizza da cinquant’anni ricami per l’alta moda e il prêt-à-porter.

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DONNE ARTIGIANE La passione per le “cose”

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Il suo negozio.

Le cose di Elisabetta Via Monferrato 15/O Torino

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Elisabetta

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Le cose di

a cura della Redazione

Da sinistra. Elisabetta Rebuschi.

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l negozio di Elisabetta Rebuschi sorprende per la sua varietà. Vi si trova bigiotteria e oggettistica di ogni tipo per abbellire la propria casa, ma soprattutto si scoprono tutte le tecniche per creare o decorare oggetti e mobili lasciando emergere la propria vena creativa. Una passione di lunga data per la pittura e la manualità hanno condotto Elisabetta Rebuschi ad acquisire le diverse competenze nell’ambito delle decorazioni creative che oggi trasmette grazie a dimostrazioni e corsi che si tengono nel negozio, dove naturalmente si possono acquistare tutti i materiali necessari. Per chi voglia fare da sé i propri gioielli ci sono corsi di bigiotteria che insegnano a utilizzare materiali come corda, pietra e cristalli Swarovski, e si può imparare anche la tecnica miyuki, che permette di realizzare bracciali di perline colorate con disegni geometrici. Sarà soddisfatto anche chi ama la pittura. Grazie allo stencil, infatti, si può dipingere con mascherine traforate di diversa forma per decorare stoffa o altri tipi di supporti, oppure realizzare decorazioni in rilievo con apposite paste. Con le lezioni di country painting, di tradizione nordeuropea e americana, si impara a dipingere soggetti graziosi e naif senza bisogno di particolari abilità disegnative: si trasferisce il disegno desiderato per esempio su una cornice,

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dopodiché si riempiono le campiture con colori vividi e uniformi. Con il découpage si possono rivestire scatole, vasi o altro con carte colorate e decorate. Una delle possibili applicazioni prevede l’utilizzo della carta di riso, sottile, resistente e dotata di un aspetto traslucido con filamenti più opachi residuo della lavorazione. La bellezza di questa carta risalta particolarmente se applicata su vetro, che in questo modo somiglia quasi all’alabastro. Le tecniche di invecchiamento consentono, invece, di dare agli oggetti una patina di antico. Lo shabby, per esempio, riproduce l’effetto della vernice usurata grazie alla sovrapposizione di due strati di colore, di cui quello più superficiale viene asportato in alcuni punti così da simulare una scrostatura naturale. Con il craklé, invece, si riproducono crepe e fessure che caratterizzano l’invecchiamento di legno, vetro o terracotta. In ambito anglosassone e americano è nato il mondo dello scrapbooking, un insieme di tecniche con cui si decora la carta, un modo per personalizzare biglietti o album di fotografie e dare la giusta cornice ai propri ricordi. Queste sono solo alcune delle possibilità che offre Le cose di Elisabetta, un luogo davvero ricco di stimoli per chi ama esprimersi con la manualità o vuole imparare a farlo.


Piera Livraghi

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ono cinque anni che Piera Livraghi realizza i suoi prodotti e l’esordio della sua attività è stato quasi casuale. Le capitò di fare una sciarpa che si rivelò troppo lunga e così dall’avanzo nacque una borsetta abbinata. Il risultato era così fantasioso che fu subito molto apprezzato in uno showroom. Ora, dopo anni di lavoro, la gamma di creazioni offerte nel negozio di via San Secondo è decisamente varia. In un ambiente accogliente come un salotto i clienti possono trovare borse, sciarpe, cappelli e anche cravatte, tutti tessuti a macchina dalla titolare e realizzati al massimo in due esemplari. Oltre agli accessori si realizzano anche coperte tricot e lampade, di cui Livraghi disegna la struttura e confeziona le fodere. Il negozio offre anche un servizio di rammendi su maglia. Caratteristica comune di ogni accessorio è la creatività nelle forme, nei colori e nei materiali. Una creatività che nasce dalla passione di inventare continuamente senza un progetto iniziale vincolante: le borse o le sciarpe si arricchiscono di dettagli nel corso della lavorazione. I filati stessi sono personalizzati con la mescolanza di fili di vari colori per ottenere sfumature particolari, oppure di materiali diversi, come cotone e seta, per avere una migliore consistenza. Nel negozio si scopre anche una lavorazione di grande effetto: per ottenere applicazioni o inserti si cuciono i filati insieme a una velina

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che li riveste e che si scioglierà a contatto con l’acqua. Il risultato è un tessuto privo del consueto intreccio di trama e ordito, senz’altro più decorativo. L’unicità dei prodotti consiste anche nell’utilizzo di materiali diversi accostati alla maglia, come il cuoio punzonato, il pizzo e la carta plastificata, ma anche le pietre preziose e i cristalli Swarovski. La qualità artigianale è evidente anche nelle finiture. Per ogni borsetta è accuratamente scelta la chiusura così come la fodera, perché anche le parti meno visibili devono dare il piacere di essere guardate a chi possiede l’oggetto. Non è tenuta in conto solo l’estetica, perché le borse sono studiate nel dettaglio anche per quanto riguarda gli scomparti interni e alcune di esse contengono veri e propri beauty case. Ma le idee di Piera Livraghi non finiscono qui: ha infatti in programma di acquistare un telaio così da realizzate accessori e prodotti sempre più personalizzati.

DONNE ARTIGIANE Creatività di maglia a cura della Redazione

Da sinistra. Piera Livraghi al lavoro nel suo atelier. I suoi lavori. In basso. La vetrina.

Piera Livraghi Via San Secondo 68bis Torino

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DONNE ARTIGIANE Cose preziose a cura della Redazione

Fior di Pesco Via Monferrato 20/A Torino

In alto. Fernanda Cinesini con le sue creazioni. In alto. A destra. Fernanda Cinesini con la sua collaboratrice. In basso. A sinistra. Alcune lampade.

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Fior di pesco

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negozi “Fiordipesco” della signora Fernanda Cinesini sono a Torino, in via Monferrato ai numeri 15 e 20. Al numero 15 c’è il piccolo laboratorio nel quale si realizzano paralumi e lampade, mentre al numero 20 si accolgono i clienti che desiderino abbellire o rinnovare la propria casa con complementi in stoffa, confezionati con tessuti di pregio. La signora Cinesini ha iniziato la sua attività a Roma, frequentando la bottega di un antiquario, nei pressi del Pantheon. In seguito, trasferitasi a Torino, ha aperto il suo negozio di lampade. Ancora oggi esso primeggia con le sue creazioni che per forma, dimensioni, originalità dei

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materiali o dei supporti, eccellenza nelle rifiniture, soddisfano le esigenze più prestigiose. Le lampade del restaurato Castello di Racconigi sono state confezionate in questo piccolo laboratorio che a buon diritto aspira all’ “Eccellenza Artgiana”. Negli anni la signora Cinesini ha collaborato con numerosi architetti e ha realizzato progetti di grande importanza, tra i quali i tendaggi per il casinò di Saint-Vincent e per numerose residenze in Costa Azzurra, in Valle d’Aosta e Parigi. Tutti i lavori dei negozi Fiordipesco sono unici, costruiti artigianalmente per ciascun cliente. La signora Fernanda guida, con il suo gusto, le scelte fra i tessuti di Pierre Frey, Rubelli, Fischbacher, Dedar, Colefax e Waverly, realizza divani, poltrone, tendaggi, copriletti e paralumi armoniosamente composti in ambienti eleganti.


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Istituto

Orafi Ghirardi 18-05-2010

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’Agenzia Formativa E.G. Ghirardi affonda le sue radici nella scuola orafa fondata nel 1904 dal cavalier Ghirardi. Oggi l’istituto si rivolge in particolare al settore dell’obbligo scolastico, con un triennio e bienni integrativi. Da dieci anni sono state istituite anche due specializzazioni post diploma: i corsi per Tecnico di produzione accessorio d’ambito, in cui si imparano le tecniche di lavorazione di diversi materiali (tessuto, resina, metalli, legno e altro) e Tecnico stile e design, che prevede uno stage. Per l’area della Formazione continua a domanda individuale esistono corsi serali focalizzati in particolare sull’oreficeria. L’istituto collabora inoltre con alcune scuole superiori, tra cui l’Istituto d’Arte A. Passoni e il Primo Liceo Artistico con percorsi per le disabilità e orientamento per l’ultimo anno. L’orientamento viene svolto anche nelle scuole medie attraverso un corso di design per rendere meno teorici i metodi tradizionali. Le vetrine della scuola mostrano i lavori degli allievi, chiamati a realizzare un oggetto specifico ma assolutamente liberi sui materiali da impiegare. Si vedono allora portabottiglie in legno o metallo con intarsi diversi, borsette realizzate dalla fodera alle finiture con chiusure o applicazioni in resina, lampade in vetro lavorato. Si tratta di realizzazioni estremamente diverse tra loro accomunate però dall’attenzione per il momento progettuale.

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Fin dalle origini, l’istituto ha insegnato la cura per la fase disegnativa e conserva ancora oggi un vasto archivio di disegni, fin dall’epoca in cui gli orafi torinesi erano incaricati di realizzare le repliche dei gioielli di casa Savoia da donare alle delegazioni straniere in visita alla città. L’inserimento lavorativo degli allievi è del 97%, anche perché la politica della scuola è quella di professionalizzare gli allievi anticipando le esigenze del mercato. E al momento il settore predominante è quello dell’accessorio personalizzato, categoria in cui non si include solo quello tradizionalmente inteso, legato alla moda, ma che più in generale comprende le finiture di tutti i prodotti di alta qualità. Una componente su cui il “made in Italy” investe sempre di più per vincere la concorrenza e differenziarsi. Per questo occorre, per il nuovo artigiano, saper affrontare le lavorazioni legate ai materiali più disparati, così da poter lavorare anche in settori quali la nautica e l’automotive. L’istituto Ghirardi ha anche promosso la nascita del progetto “Work no work”, un incubatore formativo che ha la sua sede un’ex area industriale dismessa di Borgaro. Qui si potranno incontrare gli allievi più meritevoli della scuola, gli artigiani e i professionisti in genere per scambiarsi esperienze e competenze, in uno spazio che sarà al contempo una vetrina e uno spazio per sperimentare.

FORMAZIONE Scuole d’Arte a cura della Redazione

Agenzia Formativa E.G. Ghirardi Scuola orafi Via San Tommaso 17 Torino tel. 011.546040 www.scuolaorafi.it ghirardi@scuolaorafi.it In alto. Alcuni lavori in fase di esecuzione presso l’agenzia formativa Ghirardi. In basso. Un anello realizzato dagli allievi.

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NEI PROSSIMI NUMERI SPECIALE ARTIGIANI SUL WEB I DIECI ANNI DELLA RIVISTA CAPODOPERA TUTTI I SETTORI DELL’ECCELLENZA ARTIGIANA AD ARTÒ I contribuenti che desiderano destinare il 5 PER MILLE allʼAssociazione Scuole Tecniche San Carlo possono indicare il Codice Fiscale 07585390011 nellʼapposita casella della dichiarazione dei redditi dellʼanno 2009

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