Network in Progress #8

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EDITORIALE

Un paesaggio Stretto di Daniela Colafranceschi

Orti in iter tra spazi disegnati e spazi praticati di Maria Felicia Della Valle

Il riscatto dei vuoti urbani comincia da Scalabrin sTREEt di Maddalena Martina Lucchi

#08

PAESAGGIO DELLA CREATIVITĂ€ URBANA

mag/giu 2012


www.verdiananetwork.com info@verdiananetwork.com

Direttore responsabile: Alessandra Borghini Casa Editrice e sede della rivista: ETS, P.za Carrara 16/19, Pisa Legale rappresentante Casa Editrice: Mirella Mannucci Borghini Presidente redazione e proprietario sito online: Enrico Falqui, via Lamarmora 38, Firenze Iscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisa n° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress”

ISSN 2281-1176 Responsabile editoriale: Stella Verin

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Concept copertina: Annalisa Cataldi, Antonina Cremona


SOMMARIO EDITORIALE

Un paesaggio Stretto di Daniela Colafranceschi7 Orti in iter tra spazi disegnati e spazi praticati

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di Maria Felicia Della Valle

Il riscatto dei vuoti urbani comincia da Scalabrin sTREEt di Maddalena Martina Lucchi

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UNA TESTIMONIANZA DI CREATIVITA’ URBANA IL TEATRO DEI CHILLE DE LA BALANZA NELL’EX-MANICOMIO DI SAN SALVI A FIRENZE: UN LUOGO-CORPO di Claudio Ascoli

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RIPENSARE LA GRAND PARIS: LA VILLE POREUSE 33 di Annalisa Biondi Barriere architettoniche e permeabilità urbana di Damiano Galeotti, Sabrina Tozzini, Stella Verin

RECENSIONI

La fine della città

Leonardo Benevolo

La fine della res publica? di Arianna Anichini

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IDEE CREATIVE IN MOSTRA PER SARZANA

Convegno ed esposizione delle proposte di riqualificazione e valorizzazione per il territorio di Sarzana dell’Università di Firenze

di Francesca Calamita

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PhotoStory La photostory di questo mese parla di particolari, dettagli e oggetti che non sempre notiamo ma che ‘popolano’ la città. Sono passati più di 30 anni ha quando provocatoriamente Hollein affermava che “tutto è architettura”; eppure la nostra percezione sembra ancora poco abituata a questa concezione. L’approccio ‘paesaggistico’ sembra avere connaturata in se una visione olistica e omnicomprensiva della realtà; quella visione secondo cui tutto, anche ciò che non rimane è paesaggio. stessa che oggi la parola ‘architettura’ vuole assumere sembra rifuggirne. Eppure le città sono piene di giustapposizioni di oggetti, segnali, decorazioni e vegetazioni... Quello che bisogna chiedersi è se l’architettura ‘spogliata’ di tutti questi elementi sia ancora architettura piuttosto che mera ‘materia’; perché se per architettura intendiamo quella ‘della città può perdere la sua natura una volta sparito l’elemento umano, fatto questo sí sempre di contraddizioni e giustapposizioni.

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Civita di Bagnoreggio, Viterbo


Foto di : Vanessa Lastrucci, Fotografo Freelance Rubrica

L’Architettura che non mi piace L’Architettura che mi piace

di Enrico Falqui

Io e i miei allievi abbiamo sostato in silenzio davanti al “mausoleo” di Castello, nieri. -

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nitivamente sottratto.


PhotoStory

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Poggioreale, Trapani


EDITORIALE

Un paesaggio Stretto di Daniela Colafranceschi

UniversitĂ degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria

1. Area Falcata a Messina (foto di Daniela Colafranceschi)

S

ono numerose le esperienze didattiche, di indagine scientifica, di applicazione progettuale di laboratori seminariali che ci vedono intervenire su temi legati alla città e al territorio, per i quali si privilegiano ambiti applicativi che sono instabili, precari, di frontiera, comunque nevralgici, dove l’intervento di architettura del paesaggio assume un ruolo chiave e determinante.


Mi riferisco a quelli che ho spesso denominato ‘paesaggi critici’ perché fragili, compromessi, apparentemente svuotati di senso, eppure potenzialmente di grande ricchezza. Il contesto geografico, come uno degli ambiti possibili di riferimento, è quello mediterraneo; per cultura, per consuetudine, per la complessità che presenta e le opportunità che offre, non ultimo, per i laboratori di progetto che nella mia Facoltà di Reggio Calabria andiamo svolgendo e che, proprio a queste latitudini, si rivolgono. I porti, gli stretti, le aree marginali, depresse o ex infrastrutturali, le periferie urbane, il sistema degli spazi pubblici della città consolidata, l’architettura dei parchi e dei giardini per ambiti di margine, la riqualificazione di fiumare, ambiti costieri, per i quali il sistema ‘paesaggio’ alla luce dell’attuazione della Convenzione Europea, reclama la definizione di attitudini e politiche per una qualità strategica di intervento, nel progetto e nella sensibilizzazione ambientale dei suoi valori paesaggistici. Ai luoghi marginali, critici, incoerenti, si riconosce una forte potenzialità paesaggistica verso la loro sensibilizzazione estetico-culturale ed ecologico-ambientale in grado di riqualificarli come ‘sistemi di nuova centralità’. Dalla recente ratificazione della CEP-Convenzione europea del paesaggio, emerge in modo netto, la necessità di pensare al paesaggio non in riferimento a singole parti di pregio del territorio, ma all’intero ter-

ritorio e alle sue risorse, come esito della secolare influenza delle attività antropiche che qui si sono succedute e stratificate. Questa nuova istanza porta con sé due conseguenze fondamentali: la prima, è che lascia dunque intendere, estendere (e ribaltare) un concetto di ‘paesaggio di qualità’ verso l’idea di ‘qualità del paesaggio’: qualità, evidentemente, di tutto il paesaggio, in quanto prodotto, immagine scritta sul suolo di una società e di una cultura. La seconda -conseguente- è che questo nuovo concetto di paesaggio, individua di per sé un’area che non è omogenea e dunque il paesaggio a cui appartiene non è semplicemente la dilatazione fisica di ambiti territoriali contenuti nel suo perimetro, ma in una logica del tutto nuova, il riconoscimento di un ‘paesaggio misto’, complesso, ibrido, per il quale non esistono confini, limiti, bordi e dove non si distingue un dentro da un fuori. E’ un sistema aperto; una geografia di risposte locali e globali, plurali e specifiche di espressioni estetiche, emozionali, sociali. E’ da qui, l’interesse, ad individuare proprio negli ambiti di limite, nelle frange di transizione, nella condizione di ‘margine’ una categoria progettuale propria dei paesaggi della contemporaneità; luoghi interfaccia che alimentano di ‘differenza’ ed eterogeneità, spazi dove si sovrappongono e transitano altri e nuovi significati, laddove l’imprecisione dei contorni è la chiave per penetrare nel significato delle cose ed alimentare quella ‘macchina interpretativa’

2. Quartiere S. Sperato a Reggio Calabria (foto di Stefania Condurso)

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3. Quartiere S. Sperato a Reggio Calabria (foto di Stefania Condurso)

che ci permette di abitare luoghi apparentemente inabitabili. Sono territori che ci parlano, che ci rendono evidente che, il paesaggio che li caratterizza, il paesaggio di ‘limite’, qui separa e unisce allo stesso tempo. Sono spessori che hanno specificità propria, non sono solo “tra”, non identificano una demarcazione tra un bianco e un nero, ma vivono di una identità propria, come spazi ‘somma’ e ‘sovrapposizione’ attraverso i quali transitano nuovi e diversi significati. Uno spazio ‘terzo’ tra due, che genera l’esistenza di un altro territorio, questo sì privo di confini, di grande ricchezza e qualità. Sono luoghi più difficili da ‘interrogare’ ma da cui è più facile ricevere risposte. Il mediterraneo, o meglio un mediterraneo -quello meridionale- e la sua geografia complessa, da telone di fondo, assume qui un ruolo protagonista. Un paesaggio che rimane nel suo insieme, referente più generale di una dimensione di conoscenze specifiche morfologiche e fenomenologiche ormai radicate nella nostra cultura. Paesaggio mediterraneo come paesaggio fragile, povero, con scarsa possibilità di rigenerazione, molto vulnerabile agli inter-

venti urbanistici ed infrastrutturali e con poca capacità di suturare spontaneamente le ferite ad essi conseguenti. Il progetto di questo paesaggio passa per la lezione della sua geografia: una lezione di razionalità, che incontra il linguaggio esatto dei materiali disponibili, di relazione organica con il territorio; la lezione di un dialogo intelligente con il luogo anche alla scala di spazi e risorse minime. Calabria e Sicilia: dimensioni difficili e magnifiche al contempo. Regioni delle differenze, dei disagi, dei forti contrasti e dalle mille contraddizioni, dagli assetti territoriali di volta in volta imposti e stratificati; quelli di queste terre sono paesaggi fortemente dinamici che si giustappongono e contrappongono ad altri tenacemente statici. Così, lo Stretto di Messina ha visto spesso misurarci - attraverso il progetto di architettura del paesaggio - con la sua criticità. Un’area geografica che suggerisce e stimola la possibilità di indagare nuovi patti tra natura e cultura; luoghi dove è possibile incontrare sintesi paesaggistiche innovative. E’ un habitat che ispira nostalgia ma permette anche prospettive, immagini, concetti, forme, sentimenti e ragioni del tutto 9


moderni. Il sistema degli ambiti pubblici qui è ancora in grado di strutturare tra loro antichi insediamenti, espansioni urbane ed interventi edilizi recenti; strade piazze e ancora tra questi i cortili, gli interstizi, i vuoti, gli ambiti incolti di prossimità o gli slarghi stradali, nell’idea che anche solo pochi elementi possano generare capacità evocatrici forti; che lavorare con materiali semplici possa arricchire un progetto; che la modificazione solo lieve della topografia lasci conquistare un valore di complessità allo spazio. Città, sobborghi, paesi, località costiere e balneari, centri agricoli e rurali, tutte identità riconoscibili, tra le quali si interpongono frange indefinite di territori negletti, di periferie autocostruite, di estensioni urbane abusive diffuse, di zone intermedie ibride o aree dimesse che attendono risposte progettuali in adesione a quel ‘sistema paesaggio’ che gli è pertinente e appartenente. Condizioni che impongono strategie di intervento forti come forti e critici sono questi contesti; reclamano cioè una attitudine paesaggistica che non è soltanto di risanamento o di tutela, che non è solo protezionista nei confronti di una patologia esistente. Il progetto di paesaggio identifica invece la chiave di volta con cui riscattare queste realtà attraverso una risposta che non può che essere contundente e anche provocatoria; che permetta ai luoghi di acquisire - per reazione - un’identità propria e rispondere così ad un nuovo assetto, ad una modificazione sul piano funzionale ed estetico, con un valore aggiunto di qualità per quella parte di territorio o di città a cui si dirige. Con il riconoscimento di “Reggio Calabria città Metropolitana” (marzo 2009) si consolida un’identità dello Stretto come Area Metropolitana. Si consolida e legittima dunque il pensiero di una area estesa al territorio di Calabria e Sicilia prospiciente lo Stretto, dove città, cittadine, centri minori, conurbazioni, in10

frastrutture, connotano un unico sistema metropolitano. Per esso è proprio il sistema ‘paesaggio’ – a partire dal suo mare, quello dello Stretto – il più forte ‘link’ di connessione e di identità comune. E’ per questo che ho più volte usato il termine di ‘Parco dello Stretto’ per meglio esprimere quell’idea identitaria di questo ambito geografico e alle potenzialità forti che offre , quando si pensi al suo territorio come dispositivo di nuova significazione, come soggetto capace di sostenere strategie e generare processi di qualificazione o ‘riqualificazione’ attraverso il progetto ‘non convenzionale’ del suo paesaggio. L’esistenza di un’Area Metropolitana dello Stretto non fa che ribadire questo concetto. Il ‘Parco dello Stretto’ come capacità che ha una porzione di territorio di restituire significato e qualità e, parallelamente innescare un processo piú diffuso di riconoscimento del suo paesaggio come prodotto culturale, perché spazio complesso, ibrido. L’acqua non è tutta uguale. Il mare, così come la terra acquistano senso e significati in relazione alle geografie a cui appartengono. Quanto più una distanza che separa le coste diminuisce, tanto maggiore è il grado di relazione che tesse tra le sue sponde. Gli stretti di mare in questo senso, sono spazi di tensione e relazione del tutto speciali. Sono ambiti unici e vorrei aggiungere ‘uniti’. Il loro identificarsi come unità è forse definito più dall’uso, dal passaggio, dal viaggio, dalla visita e dalla vista di questo luogo, che da coloro che lo vivono e vi appartengono. L’acqua, per queste geografie, agisce come potente fattore identitario. Quindi, un pezzo di mare speciale, una ‘piazza liquida’, lo spazio pubblico tessuto e sotteso dalle mille traiettorie e rotte che quotidianamente lo attraversano, lo solcano, lo ‘attaccano’ alle sue rive. La grande piazza dell’Area Metropolitana si carica di identità propria, proprio perché spazio di incontro tra entità. Sono le città insieme ai loro territori di


4. Frange e brani di coltivazioni nella periferia di Reggio Calabria (foto di Daniela Colafranceschi)

margine ad intessere il dialogo tra sponde, a costruire differenti assetti e adattabilità espressive. E’ il loro paesaggio a definirsi come struttura ‘portante’ di un unico ‘sistema’ in grado di superare e annullare una cronicizzata dicotomia. Il Parco dello Stretto come ipotesi di pensiero, intenzioni e attitudini verso un progetto unico, organico, condiviso da aree metropolitane su sponde opposte, dove l’assenza di una loro connessione fisica, diventi il punto di forza che ne potenzi invece l’integrazione. Un ambito ‘scambiatore’ di relazioni e valori urbani tra le città a cui appartiene e di cui disegna le geografie. E’ uno spazio definito da ‘reti’, attraversato, percepito, controllato, e proprio per questo fortemente ‘vincolo’ tra città e territorio. E’ un ibrido perché è un territorio costituito da acqua e terra; è un territorio di mare. E’ un parco perché non cessa di mediare la relazione tra ambiente e città. Così sul piano della distanza metrica tra le

due sponde, - che esiste solo sulla superficie astratta della carta geografica – le due coste sono saldate: l’acqua tesse la relazione che tra le due coste racchiude. Non una scenografia, ma una geografia complessa e critica, dove il teatro di una sua identità culturale è quella del paesaggio e delle mille forme di abitarlo. Al progetto la grande responsabilità di interpretarlo.

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PhotoStory

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Poggioreale, Trapani


Orti in iter tra spazi disegnati e spazi praticati di Maria Felicia Della Valle

Dottore di Ricerca in Progettazione Paesistica

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Fig.1 Berlino, Hebbel Theater, Life Science-Urban Farming

apportarsi al paesaggio urbano implica l’esercizio di leggibilità trasversali derivanti dall’interazione tra spazi-usidesideri che ne trasformano le valenze, i confini, le immagini. Nella misura in cui gli spazi sono esprimibili in forma di itinerari personali, essi diventano esperienze della casualità e dell’imprevisto, assimilabili non tanto al solo schema dei bisogni, quanto piuttosto alla trama dei desideri, in sintonia con quanto già affermava Melin Webber sull’importanza di considerare le comunità urbane “come sistemi estesi nello spazio, processuali, i cui cittadini interagiscono con altri cittadini ovunque si trovino, in quanto è l’interazione, non il luogo, che costituisce l’essenza della città e della vita urbana”. Ciò comporta la necessità di riconoscere, nei processi di trasformazione e rigenerazione urbana, la creatività come categoria progettuale per calibrare l’attenzione da una semplice risoluzione delle criticità riscontrate, all’immissione di opportunità concrete volte a rafforzare un milieu 13


culturale già presente o potenziale nelle pratiche di appropriazione/cura degli spazi di uso individuale e collettivo. In tale ottica gli orti urbani, come tipologia di verde, possono assumere un ruolo nodale nella trama degli spazi aperti di numerosi quartieri o aree di margine dove, spesso, l’eccessiva frammentazione e discontinuità degli ambiti individuali, collettivi o semicollettivi genera difficoltà di usi, orientamento, integrazione nonché bassi livelli di accessibilità e di sicurezza. Non è un caso che l’inserimento degli orti sia considerato dalle strategie di governance territoriali sempre più orientate ad interventi di riqualificazione degli spazi interstiziali e residuali di prossimità per la costruzione di nuovi sistemi di paesaggio rispondenti a specifiche esigenze delle collettività locali: “parchi agricoli peri urbani, spazi di vecchie e nuove filiere agroalimentari d’eccellenza, sistemi di orti, giardini, aree per lo sport e aree del loisir concorrono a svelare una campagna che oggi non è più solo luogo di produzione distinto fisicamente e funzionalmente dai quartieri, ma che piuttosto si configura come un ulteriore prolungamento degli spazi dell’abitare urbano”.

2. Berlino, City Plants, Professional meeting for more participation in city design

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Pertanto gli orti, nelle zone urbane e peri-urbane, svolgono funzioni produttive, ambientali, sociali e culturali, sempre più richieste a livello globale con trend di crescita esponenziali, che stanno delineando, in molti scenari contemporanei, nuove modalità di gestione, fruizione e valorizzazione dello spazio pubblico. In tal modo, il carattere di multifunzionalità assunto dall’attività orticola, si riflette non solo in una diversificazione della produzione di beni e servizi, ma anche in una trasformazione dei paesaggi urbani ordinari con nuove forme di spazialità, nuovi modelli insediativi, nuove reti di connessione. Disponendosi all’esterno dei rapporti economici che regolano e strutturano generalmente gli spazi agricoli destinati alla grande produzione, gli orti possono rappresentare una vera e propria risorsa per la riqualificazione di aree di frangia e di risulta, per l’adeguata dotazione di verde e attrezzature ricreative in quartieri residenziali ad alta densità, per il miglioramento della qualità ambientale e paesaggistica dei contesti di vita, per l’integrazione economica, occupazionale e socio-culturale, per lo sviluppo di servizi pedagogici e terapeutico-riabilitativi, per la produzione e la commercializzazione di alimenti di qualità, per la realizzazione di veri e propri presidi di quartiere. Le nuove istanze di carattere ambientale e sociale superano, nell’incremento della sua potenzialità di spazio collettivo, i risvolti dell’uso privatistico di uno spazio di proprietà pubblica. Per esempio, in Francia e in Inghilterra questo tipo di riserva, tra le maggiori inerenti la gestione degli orti, è stata soppiantata dal diffuso riconoscimento del loro contributo alla risoluzione delle problematiche urbane legate al degrado e ai disagi sociali grazie al lavoro delle associazioni che, pur conservando il tradizionale modello organizzativo basato sulla proprietà collettiva, pubblica o associativa del terreno con conduzione individuale degli orti, hanno promosso la loro fruizione come spazi aperti di quartiere con una diversa commistione d’usi e fun-


zioni e, dove possibile, il loro inserimento nei parchi urbani. Dal punto di vista progettuale nel corso della sua storia evolutiva il fenomeno degli orti si è collocato su una linea sottile tra due diverse modalità: la progettualità codificata e l’autocostruzione. Alla ricerca di forme e di organizzazioni spaziali che li caratterizzino come portatori di qualità estetica raggiunta attraverso il principio ordinatore dell’uniformità e dell’integrazione contestuale, fa riscontro un altro aspetto, legato all’esistenza di soluzioni spontanee, emblemi di processi cognitivi di invenzione e interpretazione personale dello spazio e di rifiuto di soluzioni progettuali molte volte avvertite come modelli estranei alla natura e alla cultura del luogo, in qualche modo imposte. Nel paesaggio degli orti sembra, infatti, delinearsi quasi un’inconsapevole resistenza alla rarefazione di quegli spiragli di autonomia dell’abitare e a quei gradi di libertà del vivere cittadino: la volontà di un universo urbano che, sia quando è progettato sia quando è autocostruito, tenta di evitare di restare soffocato dall’omologazione dei processi di globalizzazione, da una parte, e dalla resistenza dei sistemi regolativi dall’altra. Alla luce degli sviluppi attuali, preme evidenziare come funzioni e forme

degli orti possano essere congruenti con la grammatica dei contesti di localizzazione: quale paesaggio per gli orti? E quale forma di integrazione paesaggistica? Dal punto di vista pubblico gli orti urbani sono attualmente nell’occhio di un ciclone mediatico per quanto riguarda il livello di attenzione sul tema da parte delle collettività e degli enti governativi: nel campo della prassi rientrano in molti progetti di rigenerazione e riqualificazione urbana per la dotazione di spazi verdi e aree ricreative, ma ciò non toglie che restino da una parte al centro di critiche e, dall’altra, di forme di assorbimento nell’establishment ufficiale; ciò rende questo tipo di paesaggio da un lato, a rischio di estinzione e dall’altro di standardizzazione. Il sociologo Ivan Illich avrebbe detto degli orti che si tratta di “diritto alla disoccupazione creativa”, di spazi vernacolari che ripropongono nella vita della città un tipo di economia che è molto più vicina al valore d’uso che al valore di scambio. Lo

3. Lione, Jardins familiaux du Fort de Bron. Progetto Studio Ilex. La veduta aerea evidenzia l’articolazione dell’impianto e le relazioni introdotte dal progetto che si è occupato della riorganizzazione del sito di orti concependolo come uno spazio aperto di quartiere.

4. Jardin du Closs Carret, Quartiere de la Croix-Rousse. L’orto pedagogico si estende tra due strade parallele su li) richiamando nell’apertura dei passaggi la traccia della ripartizione parcellare che caratterizzava i jardins potager presenti in questo quartiere operaio.

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5. Copenaghen, Instant Allotment

stesso Illich però a distanza di pochi anni nel suo Lavoro Ombra avvertiva il rischio di una fenomenologia del margine: “nel diritto di arrangiarsi da soli c’è la strategia di un sistema che si sbarazza del welfare e che addossa tutti i costi del fare società ai cittadini, al loro fare informale. In un certo senso è tutta la logica del self-help che sembra per un verso liberatoria e per un altro invece uno sfruttamento ulteriore del settore informale, a cui viene affidato quel link-work, quel lavoro che consiste nel tenere insieme la società di cui la grande economia ha voluto ben presto sbarazzarsi”. Ciò che invece andrebbe evidenziato nel rapporto tra percezione pubblica e mondo degli orti è che si tratta di un paesaggio ordinario, quello portato a pari dignità dalla rivoluzione concettuale della Convenzione Europea del Paesaggio. Un paesaggio quotidiano che, al pari di altri, si configura come indizio del livello di vita delle città, del livello con cui le persone sono capaci di rendere familiari anche spazi sfigurati da interventi poco attenti alle esigenze del vivere e dimentichi di quell’aspirazione 16

manifesta del cives, il quale tende sempre a riaffermare la necessità di uso dello spazio. La città vive di una parte conscia e di una parte inconscia, quella conscia dovrebbe costruire strade, case, monumenti per favorire l’espressione di quella inconscia, per niente marginale, non per soffocarla, né per dirigerla perché essa appartiene alla libertà di ciascuno. In questa prospettiva si situano le nuove problematiche: dall’eccesso di produzione di un paesaggio spontaneo, gli orti tendono oggi a passare all’eccesso opposto, alla produzione di un tipo di paesaggio standardizzato che più che rispondere alla loro natura risponde a quella della loro facile accettazione. Quest’ordine di sistemazione e questa integrazione viene vista attraverso una progettazione dei siti fino al più piccolo dettaglio secondo uno stretto impianto formale e una rigida regolamentazione che deve tendere ad evitare le possibili derive di appropriazione dello spazio da parte dei fruitori. Tendenza rigettata da altre posizioni a favore di un paesaggio spontaneo, popolare, che conservi maggiore ricchezza


6. Martine Rascle, Promenade. La nature en ville. Schizzo prospettico, matita e carboncino. Archivio Agence Ilex, Lione 2005.

e autenticità. Quale prospettiva? Forse la soluzione è una scelta di mediazione tra la cultura dell’autonoma espressione, che prima di essere una condizione è un diritto, e la necessità dell’integrazione contestuale che ne restituisca i livelli di relazione spaziale e sociale. La domanda d’integrazione non può essere ignorata e può essere soddisfatta proprio attraverso un progetto di paesaggio a “maglia flessibile” che colga e traduca i rapporti figurali con le forme e gli elementi del contesto e concepisca i siti non come allineamenti monotoni di parcelle, che definisca elementi progettuali in grado di lasciare margini di personalizzazione senza nuocere all’effetto d’insieme. Negli orti non si elaborano oggetti, ma relazioni ovvero rapporti di paesaggio che, attraverso segni progettuali o auto costruiti e i modi dell’aggregazione delineano trame eterogenee di micro paesaggi in grado di apportare nuove gamme tonali, nuovi livelli e spessori nella sintassi urbana. Non, dunque, una semplice sommatoria di frammenti in un rigida maglia spaziale, ma circuiti di relazioni le cui singole sfere possono funzionare, a seconda delle esigenze, come entità autonome o come parte di un tutto più ampio e integrato nel contesto. In questo modo di riorganizzare lo spazio aperto, di effettuare operazioni

di conoscenza che lo investono e lo modificano, ogni linea di confine si trasforma in elemento interagente con una pluralità di ruoli. Quindi se l’identità si costruisce nel fare comune, ricreando un rapporto affettivo di interazione tra comunità in divenire e luoghi, essa si configura come l’esito emergente di un’esperienza aperta di costruzione, non assumibile come dato a priori. Per questo l’appartenenza ai luoghi e alla comunità, possono essere solo esiti di un processo che passa dal diretto coinvolgimento delle soggettività e dalla costruzione di nuovi luoghi di incontro e di socialità attraverso interventi che non scindano le forme fisiche dai contenuti appropriabili. Ciò apre un’ulteriore riflessione sulla capacità del progetto di paesaggio di farsi “dispositivo” e sulla centralità dell’agire secondo il paesaggio in qualsiasi campo dell’operatività dell’architettura. Una riflessione che tocca il ruolo del progettista nel processo di trasformazione del paesaggio, che è processo essenzialmente collettivo.

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1 MELIN WEBBER, Luoghi urbani e sfera urbana non locale, in AA.VV., Indagini sulla struttura urbana, Il Saggiatore, Milano, 1968, pag. 173. (edizione originale 1964). 2 PAOLA DI BIAGI, ELENA MARCHIGIANI (a cura di), bana, LaboratorioCittàPubblica, Mondadori, Milano 2009, pag. 105. Si pensi a quanto sia preminente, nelle aree metropolitane più congestionate, la richiesta, per esempio, di aree per prodotti alimentari di qualità (circuiti brevi di commercializzazione, pick your own, km 0, urban farming, raccolta diretta nei campi, reti di mutuo aiuto, ecc.) da sviluppare mediante la tipologia degli orti collettivi o jardins habitant. Tra le diverse tipologie quelle più ricorrenti sono: orti familiari (tradizionali, assegnati ad un singolo utente senza la possibilità di commercializzazione dei prodotti); orti collettivi (generalmente non contemplano la parcellizzazione e prevedono la commercializzaziopubbliche, scuole, ospedali, ecc.); orti didattici (inseriti nelle strutture scolastiche o allestiti all’interno dei siti di orti familiari o in spazi aperti di quartiere); orti terapeutici o di inserimento sociale (prevedono la commercializzazione dei prodotti in circuiti a corto grazione nel mercato del lavoro dei soggetti emarginati. Si dispongono su terreni coltivati collettivamente e di inserimento occupazionale e sociale. In vista di tali obiettivi l’allestimento di questa tipologia richiede la predisposizione di una parte localizzata in una zona abitata che favorisca la dinamica relazionale con la collettività e la presenza obbligatoria di un coordinatore professionalmente competente nelle tecniche di L’inserimento degli orti nei parchi oltre ad aumentare la multifunzionalità incrementa la presenza umana, in termini di sicurezza e di presidio, anche nei giorni non festivi. Inoltre, in cambio della concessione in uso del terreno coltivabile, che dovrebbe pur sempre rimanere di proprietà pubblica, si potrebbero richiedere prestazioni di manutenzione, abbattendo così i costi di gestione del verde pubblico. Cfr. MARIA FELICIA DELLA VALLE, POMPEO FABBRI, Il Verde Urbano. Struttura e Funzione, Politecnica, Milano 2010, pag.18. risorsa. E’ quella capacità di orientamento, di fare di un posto il proprio luogo. E’ la permanenza di una facoltà culturale che si appiglia e mette radici per forme e colori ed usi e movimenti: il luogo di arrivo della propria emigrazione”. FRANCO LA CECLA, I giardini di Lower East Side, in MICHELA PASQUALI, I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pag. 12. Nella stretta relazione che intercorre tra l’orto e il suo ideatore, paesaggisti come Bernard Lassus hanno ravvisato “un’estetica radicata nei luoghi e fondata sull’immaginario dove l’incommensurabile poetico è

besco e il sensibile della nostra epoca”. MASSIMO VENTURI FERRIOLO, Paesaggi rivelati. Passeggiare con Bernard Lassus, Guerini e Associati, Milano 2006, pag. 94. FRANCO LA CECLA, op. cit..,Torino 2008, pag. 12


PhotoStory

Firenze Foto di Vanessa Lastrucci


PhotoStory

Logro単o, centro storico, La Rioja (Spagna) Foto di Chiara Serenelli


Il riscatto dei vuoti urbani comincia da sTREEt di Maddalena Scalabrin Dr.ssa in Architettura del Paesaggio Martina Lucchi Dr.ssa in Architettura del Paesaggio streetitalia@gmail.com

Gli alberi in città sono come degli ombrelli che ci proteggono dagli agenti atmosferici, purificano l’aria e l’acqua e forniscono benessere. Gregory McPherson

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uante sono le piazze, i parcheggi, le aree dismesse e gli spartitraffico caratterizzati dalla preponderante presenza del cemento? E in quale misura elementi come questi potrebbero abbellirsi grazie all’inserimento di alberi e vegetazione? Per chi ha la fortuna di abitare in zone verdi con una forte presenza di parchi e aree riservate agli alberi, la risposta è semplice: abbattimento delle polveri sottili e dello smog, riduzione delle allergie ai pollini, aumento del valore degli immobili, incremento della biodiversità, riduzione dello stress. Insomma: un netto miglioramento della qualità della vita. I vuoti urbani - vuoti squallidi e trascurati - si mostrano nelle nostre città sotto un’infinita varietà di forme e aspetti diversi, portando spesso luoghi altrimenti vivibili a una perdita


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di significato. Il rischio, denunciato fino allo sfinimento da attivisti e cittadini oggi come in passato, è quello della scomparsa delle relazioni sociali, relegate a pochi ghetti privilegiati e alieni al resto della città. Il paradosso è che chi abita questi spazi privilegiati, magari senza rendersene conto, rischia di rinchiudersi entro i propri confini e ignorare ciò che lo circonda, con una conseguente scollatura del tessuto sociale dell’intera città. Il vuoto deve essere ripensato e percepito come uno spazio pubblico multifunzionale e come un luogo di benessere personale

ricchire gli angoli di Firenze piantando più alberi. Con l’intento di cogliere l’aspetto funzionale dell’albero calato in un contesto urbano, abbiamo pensato di trasformare l’operazione di pianificazione e realizzazione dell’effettivo impianto dell’albero in qualcosa di immediato, tangibile e monetizzabile. Il primo step è stato quello di formulare un sistema di linee guida pratiche e dettagliate, che si adattino allo spazio a disposizione e che possano indicare le informazioni necessarie per un impianto corretto. Nasce sTreet, il cui nome rimanda proprio

in cui trascorrere il proprio tempo. Tutto questo è possibile grazie all’inserimento nel tessuto urbano di elementi del paesaggio. Ed è qui che entra in gioco sTreet, un progetto che noi, ragazze laureate alla magistrale dell’Università di Firenze, intendiamo sviluppare nei prossimi mesi. Il nostro interesse per la questione nasce durante il tirocinio presso la P.O. Direzione Ambiente del Q4, dove ci venne proposto di sviluppare un progetto esistente già nel lontano 2001. L’idea era semplice: ar-

a questo obiettivo (street, strada, ma anche tree, albero). sTreet non si occupa dei grandi parchi o giardini storici, ma di piccoli spazi, quelli meno noti ma non meno importanti. Micro-interventi di questo tipo consisteranno nell’introduzione di uno, due o più alberi, che andranno inseriti in varie aree sparse nelle nostre città. La novità di sTreet consiste nel calcolo automatico, tramite software, del miglior modulo da inserire a seconda dello spazio disponibile, della ne-

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cessità di ombreggiamento, della presenza di parcheggi, dei limiti d’impianto e così via. L’accidentalità della genesi di questi spazi, e cioè il fatto che essi non siano nati da un disegno ma dall’assenza di un disegno (e su questa assenza diventa molto diffi-

rato un metodo che indichi le linee guida per una progettazione sostenibile, a seconda della tipologia di spazio che si intende migliorare. Il software sTreet, in questa nuova ottica, diventerà quindi un mezzo consultabile in maniera intuitiva, permettendo a chi lo

cile sovrapporre qualsiasi schema), rende tuttavia l’operazione complicata. Affinché l’albero giusto al posto giusto diventi non solo uno slogan ma una realtà concreta e vantaggiosa per chiunque, abbiamo elabo-

userà di venire indirizzato verso un corretto impianto arboreo. L’utente dovrà limitarsi a inserire i dati relativi allo spazio che intende riqualificare. Nello specifico: – le dimensioni dello stesso, 25


– la distanza dall’edificato, – la distanza minima dalla carreggiata, – la presenza del marciapiede, – il grado di visibilità da garantire, – il contesto (parcheggio, vicolo, ecc), – la mappatura dei sottoservizi, – la presenza di impianti arborei nelle vicinanze. A questo punto il software indicherà il modulo sTreet più funzionale a quel particolare spazio, con le informazioni tecniche necessarie a realizzare un progetto corretto sia dal punto di vista formale che da quello tecnico-botanico. Nell’immagine qui sotto alcuni esempi delle informazioni fornite dal modulo sTreet. Il progettista non dovrà far altro che introdurre nello spazio da riqualificare il modulo sTreet che gli è stato indicato. Il software, in definitiva, è pensato per tutti coloro che hanno bisogno di un supporto nella realizzazione di un progetto di verde urbano, ed è indicato quindi sia per i tecnici comunali che necessitano di velocizzare i tempi progettuali, sia per gli architetti che si occupano anche di esterni, sia per professionisti del settore che lo useranno per dimostrare il valore economico del proprio lavoro. I vantaggi sono evidenti: primo fra tutti quello di evitare le lunghe e travagliate fasi di scelta delle specie e delle tecniche d’impianto. Verrà inoltre garantita una certa omogeneità di interventi sul territorio, il che renderà il paesaggio urbano più digni-

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toso e vivibile. Non solo: la progettazione di ogni singolo spazio, grazie a sTreet, potrà essere presentata in anticipo ai committenti secondo ‘linee giuda’ certificate, fornendo quindi costi, materiali necessari, uomini previsti e ore di lavoro richieste. STreet intende dimostrare come l’arboricoltura urbana rappresenti, oltre che un ottimo espediente per ridare vita a quegli spazi che non hanno precisa destinazione d’uso, una buona pratica da molteplici punti di vista. La sistemazione degli interstizi urbani può riportare ordine, coerenza e riconoscibilità funzionale in ambienti frazionati e disomogenei, migliorando in sostanza la qualità della vita di tutti noi e, soprattutto, delle generazioni alle quali lasceremo in eredità questo piccolo e meraviglioso pianeta.


UNA TESTIMONIANZA DI CREATIVITA’ URBANA

IL TEATRO DEI CHILLE DE LA BALANZA NELL’EX-MANICOMIO DI SAN SALVI A FIRENZE: UN LUOGO-CORPO di Claudio Ascoli Compagnia Teatrale Chille de la balanza

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1. San Salvi negli anni ‘20

al 1998 un padiglione dell’ex-manicomio fiorentino di San Salvi, e gli spazi all’aperto che lo circondano, sono diventati sede e materia prima di un progetto teatrale dei Chille de la balanza, storica compagnia del teatro di ricerca in Italia (www.chille.it). Così, un’area di oltre 30 ettari - negata per più di un secolo ai fiorentini - si è nel tempo trasformata in una città aperta, luogo di produzione culturale: teatro, arti visive, musica, canzone d’autore, poesia… La parola ‘cultura’ ci riporta al verbo latino ‘còlere’ che ha diversi significati: coltivare (un campo), ornare (un corpo), venerare (una divinità), ma soprattutto abitare (un luogo). Abitare è una facoltà umana. E’ una abilità acquisita, costruita sì su una predisposizio-


ne biologica (l’essere fisicamente presente in quel luogo), ma elaborata culturalmente, quindi condivisa con una società. E come osserva Merleau-Ponty, “il nostro corpo non è nello spazio: abita lo spazio, inerisce lo spazio”. Località è la forma del possesso di un luogo da parte dei suoi abitanti: il termine inglese belonging–appartenenza è da considerarsi attivo nei due sensi: dei luoghi e delle persone. Ecco perché mai come oggi è importante fare mente locale, comprendere come ogni gestione del territorio sia una mera questione di conoscenza locale. La Cecla propone un parallelo affascinante invitandoci a considerare che noi siamo fatti della stessa carne di cui sono fatti i luoghi e che per questo tra noi e loro c’è una stessa corrispondenza e somiglianza. Siamo le mappe di noi stessi e dei luoghi che ci circondano, così come questi diventano mappe del nostro corpo e dei nostri sensi”. Molti Artisti contemporanei, tra cui chi vi parla e il gruppo Chille de la balanza da me diretto, vivono lo spazio come percorso-luogo di percezione, come soprattutto ‘spazio tra’. Spesso presentando il mio Fare Teatro, parlo di “Luogo-Corpo-Metodo in un percorso tra tradizione e tradimento”. Un percorso basato sul disequilibrio, inteso come attitudine alla discontinuità, ad essere aperti all’infinito. Anche da ciò la nostra

marginalità in una società dialettica, nella quale si cerca disperatamente una sintesi, un punto fermo, una risposta. Il nostro disequilibrio è invece all’opposto il lavoro sul terreno della domanda, in una continua ricerca di nuovi inizi non vincolati dalla mente, semmai dal Corpo. Cerco di spiegarmi meglio. Oggi la città soffre di molte mancanze: mancano ad esempio i ‘luoghi accanto’, luoghi che assolvano la funzione dell’agorà (sorta di mercato come occasione di accordi nonostante le differenze e i malintesi), di luoghi in cui la vita possa trovare spazio per allargare lo spazio, come stiracchiandosi. Chiunque abbia partecipato o costruito progetti con noi, e sia stato a San Salvi, non può non riconoscerlo come un ‘luogo accanto’. Abitare per noi è infatti molto più di una semplice attività di progettazione: quotidianamente orientiamo il nostro spazio rispetto a noi stessi, stando al suo interno. Abitare è creare e viceversa. La casa, il villaggio…San Salvi non sono un’immagine ridotta del cosmo, in un certo senso sono già il cosmo. Al contrario, spesso oggi assistiamo ad una sorta di fascismo architettonico. I luoghi non sono da abitare, ma da consumare nei tempi e nei modi decisi dalle centrali del consumo. Da qui la moltiplicazione di notti bianche, feste calate dall’alto e quant’altro. Di conseguenza bisogna che la città sia difesa dalle ‘presenze improprie’ 2. Camminamenti e gabbia. (Foto di Renato Bartolozzi)

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3. C’era una volta il manicomio

come barboni, mendicanti, e ancora musicanti di strada estemporanei, bambini, finanche anziani che si fermino a leggere o pensare, forestieri colpevoli di mangiare qualcosa seduti su una panchina. Ai nostri occhi ci viene offerto un territorio imbalsamato! Di contro, il carattere da luoghi di confine, da luoghi perduti fa proprio delle aree marginali e di risulta gli spazi per eccellenza dove gli Artisti (soggetti principali della mente locale) possano esercitare al meglio la loro attività. E’ qui che si ritrova il futuro delle città: centri storici abbandonati, spazi industriali dismessi, zone di confine…come gli ex-manicomi. Ma cosa intendo per confine? Una traccia, una traccia che distingue l’abitare dal non abitare. Oggi i centri si svuotano, ma paradossalmente notiamo che quanto più un insediamento sia privo di centro, tanto più è difficile definirne i confini. “Abitare i confini”, frase di Padre Balducci che dà il titolo al nostro attuale percorso di ricerca a San Salvi, è un ossimoro; sta a indicare la necessità di dar vita ad un centro ‘nel’ confine: il confine come estensione di una (nuova) centratura avvenuta. E’ qui che ritrova senso il perdersi nella sua più alta accezione, cioè quella capacità di riattivare una interazione tra noi e l’ambiente. “L’attuale”, dice Foucault, “non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l’Altro, il

nostro divenire altro: la traiettoria.” Viva i luoghi marginali, le aree abbandonate, dunque…ma attenzione! Tali territori risultano difficilmente intelligibili e quindi progettabili, perché privi di una collocazione viva nel presente e quindi in definitiva (apparentemente) estranei ai linguaggi del contemporaneo. La loro conoscenza non può perciò avvenire che per esperienza diretta: in definitiva possono essere testimoniati piuttosto che rappresentati, ancor meglio ascoltati. Osservano gli Stalker, e io concordo: “qui improvvisamente lo spazio assume un senso, ovunque la possibilità di una scoperta, il timore di un incontro indesiderato. Lo sguardo si fa penetrante, l’orecchio si dispone all’ascolto. Restano possibili due sole azioni: il riconoscimento degli abbandoni come massima forma di cura per ciò che è noto e si è sviluppato e l’attraversamento come immediata rinascita di un discorso che ascolti il muggito, il lamento, il soffio che i luoghi abbandonati articolano”.

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Firenze, torrente Mensola Foto di Chiara Serenelli


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Sansepolcro Foto di Vanessa Lastrucci


RIPENSARE LA GRAND PARIS: LA VILLE POREUSE di Annalisa Biondi Architetto

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el 2008 l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy convoca dieci gruppi multidisciplinari composti da architetti, ingegneri, urbanisti e paesaggisti per riflettere sulla metropoli del XXI secolo ed in particolare sul nuovo volto della Grand Paris. Ogni gruppo definisce dei nuovi scenari che successivamente verranno tradotti in dieci proposte elaborate da professionisti sia francesi che internazionali: l'Atelier di Castro Denissof Casi, Yves, il Groupe Descartes, Jean Nouvel con Dutilheul e Cantal-Dupart, Antoine Grumbach, MVRDV, LIN, Studio O9, lo studio AUC, l'Atelier di Christian De Portzamparc e lo studio Rogers Stirk Harbour & partners. L'intento non è quello di realizzare un concorso di idee, piuttosto una riflessione collettiva: affrontando lo studio della Grand Paris, un'area di 12.000 kmq e di circa 12 milioni di abitanti, si dovrà inevitabilmente arrivare ad affrontare un tema molto più ampio, che riguarda il prossimo futuro delle metropoli europee.


1.Proposta del sistema della mobilità di Rogers Stirk Harbour & partners

Come sarà il volto di Parigi tra 20-30 anni? Nello sforzo di rispondere a questa domanda i dieci gruppi di tecnici hanno realizzato proposte molto diverse tra loro ma tutte basate sulla necessità di superare lo schema radiocentrico della Parigi attuale. Partendo proprio da questo obiettivo, il gruppo degli architetti Rogers-StirkHarbour immagina una metropoli policentrica impostata su un articolato sistema della viabilità, mentre il Groupe Descartes propone di suddividere l'intero agglomerato della Grand Paris in venti aree urbane da 500mila abitanti, pensate come 20 città sostenibili che contribuiranno alla creazione di una nuova scala locale metropolitana. L'idea di una città reticolare si ritrova anche nella proposta dell'équipe AUC, che elabora nuovi modelli spaziali basati sul concetto di una città ibrida, polimorfa e polifonica. Anche il gruppo di De Portzamparc si concentra sull'analisi del modello spaziale della città ma non propone uno schema policentrico, bensì uno a rizoma come nuova figura topologica capace di organizzare le future connessioni. Lo studio Castro Denissof Casi, invece, propone un'organizzazione policentrica i cui nodi sono rappresentati dall'intersezione di vecchi e nuovi luoghi reali, immaginari e simbolici. Sempre su questo tema si concentra l'equipe guidata da Antoine 34

Grumbach che prende spunto da una citazione di Napoleone: “Paris, Rouen, Le Havre, une seule ville dont la Seine est la grande rue”, immaginando una città lineare da Parigi al porto di Le Havre attraverso la via naturale della valle della Senna. Le altre équipes invece, si concentrano di più sullo studio del tessuto metropolitano, come il gruppo tedesco LIN che interpreta lo sviluppo della Grand Paris come una combinazione di agglomerati urbani a diverse densità attraversati da paesaggi flessibili, oppure come il trio Nouvel, Dutilheul e Cantal-Dupart che propone una città verticale con torri, grattacieli e padiglioni con serre e giardini agli ultimi piani. Invece, lo studio olandese MVRDV immagina una città capace di massimizzare le sue performance e scommette paradossalmente su una "Grad Paris plus petit" ossia più piccola, intendendo con "plus" una città più ambiziosa, più ottimista, più densa, più efficiente, più ecologica, più compatta, ossia più facile da governare e quindi più piccola.

2. Lo schema a rizoma proposto dall’Atelier di Christian De Portzamparc


3. La città lineare da Parigi a Le Havre di Antoine Grumbach

Infine, la proposta del gruppo italiano diretto da Bernardo Secchi (Studio 09) introduce il tema della Ville Poreuse. La metafora della porosità applicata alla città serve a suggerire la stratificazione e l'adattabilità dei tessuti che la compongono, l'ipotesi degli autori è che ogni città in futuro, dovrà affrontare tre problematiche fondamentali legate alla progressiva crescita della disuguaglianza sociale, al rischio ambientale e alla mobilità. Partendo dalla definizione della porosità geologica (ossia il rapporto tra pieno e vuoto) l'équipe si è servita del contributo di un gruppo di ricercatori (il Laboratorio MOX di calcolo scientifico del Politecnico di Milano) che ha elaborato modelli matematici in grado di fornire valutazioni quantitative del concetto di porosità urbana. Attraverso le categorie di porosità, connettività, permeabilità e accessibilità lo studio rilegge tutto il territorio, suddiviso in una maglia di 3 km, nel tentativo di comprenderne la struttura spaziale. Una volta individuati i

pori, è necessario capire come connettere l'uno all’altro: la connettività garantisce la permeabilità del tessuto urbano, che a sua volta rende più ampia l’accessibilità, aumentando così la libertà di mobilità dei cittadini. Su questo schema viene poi elaborato un progetto di porosità, messo in atto attraverso cinque proposte: una nuova immagine per la metropoli parigina, l’acqua e le relazioni biotiche, la biodiversità e la sociodiversità, il riciclo al 100% del tessuto urbano, la politica della mobilità e dell’accessibilità. La ville Poreuse è dunque composta da tre elementi: il supporto (le support), la spugna (l'éponge) e la maglia (la maille). Il supporto è rappresentato dall'attuale configurazione geomorfologica del territorio della Grand Paris, mentre la spugna è costituita dai noms, dai punti e dai nodi. I noms sono i toponimi che rappresentano l'appropriazione storica da parte delle comunità che hanno abitato questi luoghi; i punti sono i monumenti, che per definizione sono luoghi di con35


4. Il progetto della Ville Poreuse

centrazione e rappresentazione dell'immaginario; i nodi sono invece rappresentati principalmente dalle fermate del trasporto pubblico (rubinetti) attraverso cui la popolazione fluisce dalla rete della mobilità (tubature) diffusa in tutta la città. Infine la maglia è un organismo isotropo sovrapposto alla spugna, come struttura principale su cui si basa la riorganizzazione della città attraverso una accessibilità capillare. Quindi potersi muovere liberamente è uno dei diritti fondamentali della Ville Poreuse che si ri-organizza non intorno ai grandi 36

flussi di mobilità ma attraverso una serie di reti locali interconnesse. Un sistema del genere potrebbe essere la soluzione per dotare la struttura di Parigi, oggi gerarchica e frammentata, di una rete leggera, isotropa e diffusa, luogo degli spazi di prossimità, connessi tra loro e alle reti della grande viabilità.


5: Studio della porosità, connettività, permeabilità e accessibilità della Ville Poreuse

Tutte le immagini sono tratte da Le Grand Paris de l’agglomération Parisienne http://www.legrandparis.net/

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Firenze Foto di Vanessa Lastrucci


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Roma, pressi di Saxa Rubra Foto di Chiara Serenelli


Barriere architettoniche e permeabilità urbana di Damiano Galeotti Paesaggista

Sabrina Tozzini Architetto

Stella Verin Architetto

1.Una via del centro storico di Fucecchio

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l tema della permeabilità urbana, intesa come possibilità per tutti di percorrere ed accedere agli spazi pubblici urbani ed ai vari servizi sparsi nelle città, rappresenta oggi una questione di prioritaria importanza. Sempre più le amministrazioni locali manifestano oggi, anche in base agli obblighi dettati dalla legge, una sensibilità nei confronti delle difficoltà che le barriere architettoniche (B.A.) creano ai cittadini, e fra queste il Comune di Fucecchio ha chiesto al DUPT della facoltà di Architettura dell’Università di Firenze di svolgere una ricerca sul tema delle barriere architettoniche. Il lavoro è stato affrontato, sotto la direzione ed il coordinamento scientifico del prof. Gabriele Paolinelli, ricercatore e docente di architettura del paesaggio presso il DUPT.


2.Una tavola, estratto del lavoro di monitoraggio delle Barriere Architettoniche.

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Due momenti delle attività partecipative con le associazioni si disabili

Il lavoro ha preso avvio dal ragionamento sul concetto di Handicap che come ricorda anche la carta di Barcellona, è dinamico e nasce dalla presenza di un gap tra ciò che la società percepisce come ‘normale’ e ciò che invece viene lasciato ai margini, pensato come un caso limite da non tenere in considerazione nella progettazione. Ciò significa che è in primo luogo la società stessa, con la propria cultura e tecnologia, e non tanto lo stato fisico del singolo a creare una disabilità. Ad un evolvere tecnologico e culturale cor-

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risponde una sempre maggior inclusione dei singoli, e le loro differenze possono divenire motivo di apprezzamento piuttosto che di esclusione. Questo auspicato evolversi della società porterà probabilmente all’individuazione di nuove barriere da abbattere, per trovare vie anche dove ancora non cerchiamo e per la volontà di rendere le città sempre più vivibili per tutti. La normativa vigente, indica come barriere architettoniche ai sensi dell’articolo 1 comma 2 del DPR 503/1996: a) gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilita di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita in forma permanente o temporanea; b) gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti; c) la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che permettono l’orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di pericolo per chiunque e in particolare per i non vedenti, per gli ipovedenti e per i sordi. Nella Regione Toscana già la L.R. 47/1991 chiedeva ai comuni di dotarsi di piani di intervento per l’abbattimento delle barriere architettoniche, piani confermati dalla L.R. 1/2005, ed il successivo regolamento del 29 luglio 2009, n. 41/R, il quale elenca una tipologia di barriere architettoniche,


in parte derivate dal DPR 503/1996. Si tratta di tipologie utili a normare la progettazione di dettaglio, calibrate anche sull’ambiente urbano. Il lavoro su Fucecchio è stato affrontato con un approccio ‘paesaggistico’ che ha permesso di integrare il tema delle B.A. con gli aspetti funzionali degli spazi aperti pubblici e dei servizi al cittadino, tenendo conto della conformazione morfologica, storica e architettonica del territorio. L’area urbanizzata di Fucecchio si trova sulla riva destra del fiume Arno, e si estende in parte adagiato su di un colle, il Poggio Salamartano, e per la maggior parte nella zona pianeggiante che si trova alla sue pendici. L’articolazione dell’abitato è quindi caratterizzata dalla presenza del rilievo morfologico sul quale si attesta il centro storico della città, per questa ragione l’accessibilità di questa area è fortemente condizionata dall’articolazione morfologica del luogo; l’espansione più recente dell’abitato è invece localizzata nella parte pianeggiante e si estende prevalentemente verso sud, sudovest fino a lambire le rive del fiume Arno. Di notevole interesse sono anche le caratteristiche storiche dell’insediamento: Fucecchio rappresentava la XXIII tappa (Mansio), insieme a Ponte a Cappiano dell’antica Via Francigena, perciò la località, definita Arne Blanca, crebbe notevolmente in relazione a questo percorso. E’ da sottolineare dunque che nel monitoraggio e studio della accessibilità dell’ abitato di Fucecchio tutti questi elementi sono stati presi in considerazione. Attraverso lo studio normativo e l’individuazione di alcune esperienze significative sul tema (case studies) in merito alle modalità di intervento sulle barriere architettoniche, e grazie ad alcune attività partecipative che hanno reso possibile il confronto fra le associazioni di disabili presenti a Fucecchio, il Comune e i ricercatori, è stato definito uno spettro tipologico delle B.A. da indagare. In base ai dati ricavati è stato successiva-

mente costruito un Archivio Geografico Informativo, implementabile nel tempo, la cui funzionalità è stata sperimentata nel censimento delle B.A. nell’area urbana di Fucecchio. Attraverso un intensa campagna di sopralluoghi sono state censite tutte le B.A. presenti negli spazi aperti pubblici urbani, secondo modalità che hanno privilegiato non tanto il singolo episodio, quanto la funzionalità sistematica della viabilità. Ogni elemento viario è stato quindi catalogato in base alle sue dotazioni, problematiche, funzioni ed opportunità progettuali. Si è ritenuto opportuno sviluppare lo studio dell’accessibilità urbana tenendo

5.Un estratto del lavoro, abaco delle barriere

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conto delle specificità morfologiche e storiche di Fucecchio, valutando in modo separato il tessuto del centro storico rispetto alle espansioni successive, riconoscendo non tanto l’impossibilità di superare le barriere morfologiche, quanto la necessità di programmare interventi mirati e diversi nei due casi. Successivamente questi dati riportati nell’archivio hanno permesso, attraverso adeguate e specifiche modalità di interrogazione, di assegnare un grado di accessibilità ad ogni percorso. Il lavoro ha mirato a superare l’aspetto meramente computistico spesso alla base dei piani di abbattimento delle barriere architettoniche, cercando di pesare i criteri di valutazione sulla scala urbana ed è arrivato ad individuare alcuni percorsi ritenuti prioritari e fondamentali per la fruizione della città. Tali percorsi si configurano come dotazione minima urbana per la creazione di una prima rete di accessibilità che vada a connettere gli spazi pubblici di maggiore interesse e gli spazi urbani dove si concentrano le funzioni principali, le fermate degli autobus, i parcheggi, i nodi, i percorsi, le piazze, i luoghi di aggregazione e i luoghi essenziali per gli spostamenti pedonali e la fruizione della città. Sono stati inoltre individuati all’interno del nucleo urbano i principali nodi funzionali oltre agli agglomerati che si configurano a formare i diversi ‘quartieri’. Congiungendo queste due analisi è stato quindi possibile creare una rete di percorsi accessibili che andranno a connettere i nuclei funzionali ed urbani individuati. Gli spazi aperti pubblici se messi a sistema in un’ottica di fruibilità e accessibilità per tutta la cittadinanza, potranno creare uno spazio urbano dotato di una migliore qualità e vivibilità.

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1.Barriere Architettoniche a Fucecchio


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Roma Foto di Paola Pavoni


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Firenze, strada per Settignano Foto di Chiara Serenelli


RECENSIONE

La fine della città

Leonardo BENEVOLO

intervista a cura di Francesco Erbani, Laterza, pagg. 170, euro 12,00

La fine della res publica? di Arianna Anichini

Studentessa presso la Facoltà di Architettura di Firenze

«[...] più volte lei sottolinea in questa conversazione l’importanza che l’urbanistica si sostanzi in risultati concreti che le persone possono apprezzare, difendere se minacciati, e che inducano speranza di risultati ancora migliori. Questo doppio registro fatto di orizzonti e di pratiche rimanda ad uno più generale di intelligenza e operatività. Nella realtà italiana di oggi, il disastro prodotto in tante parti del nostro territorio è la dolorosa metafora di un disastro più complessivo [...] »

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on queste poche ma incisive parole, Francesco Erbani, il curatore dell’intervista a Leonardo Benevolo, sintetizza efficacemente ciò che emerge in tutto il libro. Territorio e paesaggi urbani, attori pubblici e privati, mondo accademico, politica, Benevolo fa un’operazione di ricostruzione densa ed estremamente chiara e concisa delle intrecciate dinamiche urbanistiche e politiche succedutesi dal Fascismo sino ai giorni nostri, di cui lui stesso è stato un protagonista. Le esperienze di Roma, Brescia, Palermo, Venezia, Napoli che vengono descritte, mettono sul banco degli imputati, non tanto la città in sé e per 49


sé, ma piuttosto gli attori fondamentali dei processi di trasformazione (parola che non prescinde dal significato di conservazione) del territorio: pianificatori, accademici, Pubblica Amministrazione, imprenditori, Benevolo spiega impeccabilmente come le loro attività si mescolino, spesso disordinatamente (usa anche le parole lavoro precario), senza un progetto innanzitutto culturale ben definito, studiato, partecipato, e che sia soprattutto concretizzabile e interprete dei bisogni futuri dell’uomo. Giò Ponti in Amate l’Architettura (Soc. Editrice Vitali e Ghianda, Genova 1957) scrisse: «architettura, nel passato, era espressione di una politica, anzi dello splendore di una politica». Anche se probabilmente si forza un po’ la lettura di Ponti, c’è comunque un messaggio ben preciso, che si ritrova continuamente tra le parole di Benevolo: è l’autorità alla base che deve creare le condizioni per cui si possano concretizzare gli interventi sulla città, sul territorio, sul paesaggio. Ciò che è estremamente interessante del lavoro di questo architetto, ed è una costante fondamentale, che forse viene ancora prima della parte più prettamente tecnica, è l’addestramento e l’irrobustimento dell’apparato amministrativo, la formazione «[...] di un organismo permanente, in grado successivamente di approfondire il nostro lavoro, di correggerlo, e poi di intervenire direttamente o controllare gli interventi di altri soggetti». In questo excursus storico di Benevolo, è sconcertante l’attualità di ciò che si legge: la stagnazione del Bel Paese era ed è uno dei punti cardine dei potenti interessi, privati e non, per cui, dove tutto è fermo, tutto è possibile. Per questo, Benevolo indaga continuamente sulla deontologia di questa professione, che definisce un’arte difficile, una recherche patiente (cit. Le Corbusier), qualità spesso scardinate dall’attività dei colleghi della scena contemporanea, ma che sono fondamentali e imprescindibili per ciò che l’architetto è chiamato a fare, «la bellezza realizzata nella vita» (cit. Piet Mondrian).

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RECENSIONE

IDEE CREATIVE IN MOSTRA PER SARZANA

Convegno ed esposizione delle proposte di riqualificazione e valorizzazione per il territorio di Sarzana dell’Università di Firenze

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ella Sala Consiliare del Comune di Sarzana (SP), alla presenza di un pubblico numeroso e attento, si è tenuto sabato 12 maggio il Convegno “Paesaggi critici e Spazi liquidi” organizzato dall’Amministrazione Comunale, dal Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio e dal Laboratorio di Architettura ed Ecologia del Paesaggio dell’Università di Firenze. Il Convegno e la contestuale Mostra delle 38 tavole progettuali, allestita nel suggestivo Atrio del Palazzo Comunale, hanno permesso di illustrare le proposte di riqualificazione e valorizzazione paesaggistica per il territorio di Sarzana, elaborate dagli studenti del Laboratorio di Progettazione dei sistemi verdi territoriali del Corso di Laurea Magistrale in Architettura del Paesaggio di Firenze, che hanno dapprima analizzato il contesto paesaggistico, l’evoluzione storica e le dinamiche sociali del territorio, per poi proporre un masterplan generale capace di mettere a sistema diversi interventi che puntano alla tutela attiva 51


e alla valorizzazione innovativa di alcune zone particolarmente significative di questa porzione di Val di Magra, tra cui il Parco storico di Villa Ollandini e il sistema naturalistico costituito dai Bozi di Saudino e dal Fiume Magra. Le relazioni degli studenti sono state introdotte da interventi di approfondimento scientifico e culturale tenuti da docenti universitari e professionisti che hanno il-

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lustrato il significato e l’identità storicoculturale di Villa Ollandini (arch. Stefano Milano), l’evoluzione e le emergenze botaniche ed architettoniche del suo parco (arch. Silvia Lanfranchi), i fattori emergenti del paesaggio botanico-forestale di Bozi e del Fiume Magra (prof. Paolo Grossoni), mentre i coordinatori del Laboratorio sperimentale (prof. Enrico Falqui e prof. Lorenzo Vallerini) hanno de-


scritto il percorso accademico svolto dal gruppo di 21 studenti che con passione e professionalità hanno svolto un lavoro di eccezionale pregio e che ha permesso di organizzare tale importante evento, ringraziando soprattutto l’Amministrazione Comunale per la disponibilità dimostrata e offrendo la possibilità di proseguire nel lavoro di indagine ed approfondimento per avanzare proposte sempre più concrete e dettagliate. L’incontro pubblico, come hanno sottolineato il Sindaco Massimo Caleo e l’Assessore alle Politiche della pianificazione e programmazione territoriale (Avv. Roberto Bottiglioni), si è infatti configurato come una prima occasione per condividere con la popolazione idee sullo sviluppo di quella porzione di territorio ligure, anche in vista del futuro avvio dell’iter di programmazione del nuovo piano urbanistico comunale. La partecipazione infatti è stata numerosa sia in occasione del convegno che, nonostante la pioggia, nel pomeriggio della domenica, in cui erano previste due visite guidate alle aree oggetto di studio per

condividere con i cittadini gli scenari futuri proposti, occasione che sarà riproposta nelle prossime settimane invitando a partecipare le associazioni, i comitati, gli studenti delle scuole e tutti coloro che hanno a cuore il futuro del proprio territorio.

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info@verdiananetwork.com

Mission diffonde una cultura della sostenibilità dello sviluppo urbano e territoriale, della conservazione e gestione del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale, secondo i principi della Convenzione Europea sul Paesaggio (Firenze, ottobre 2000) dello Spazio Europeo (SSSE, Potsdam, maggio 1999). Verdiana Network svolge progetti di ricerca, formazione e sensibilizzazione sui parchi, le aree protette e le reti ecologiche, gli itinerari culturali, gli ecomusei, i distretti culturali, la territoriale a partecipazione pubblica, anche in collaborazione con Università, Istituti di ricerca ed Enti pubblici, con la possibilità di coinvolgere studenti e giovani laureati attraverso tirocini e stage formativi. Verdiana Network offre al pubblico interessato la possibilipropria attività tramite la pubblicazione periodica di articoli gress.

Nel territorio di Marche e Umbria, in collaborazione con le Fondazioni Cassa di Risparmio di Loreto, Macerata, Foligno e Perugia, Verdiana Network ha svolto un progetto di ricerca per il recupero dei cammini di pellegrinaggio al Santuario di Loreto e la sua menzione a Itinerario Culturale Europeo, cio paesaggistico alla progettazione. In Lunigiana (Toscana), con la collaborazione dei Comuni di Fivizzano, Aulla, Bagnone, Fosdinovo, Licciana Nardi e Villafranca, il patrocinio della Regione Toscana, Verdiana Network ha promosso e coordinato il Corso di Formazione e Aggiornamento professionale Parchi naturali, aree protette e reti ecologiche per lo sviluppo del territorio, che ha portato all’elaborazione e all’esposizione di interessanti proposte progettuali per il territorio. Per la città di Firenze Verdiana Network è impegnata in un’iniziativa, denominata Progetto Cartoline, di sensibilizzazione al tema del degrado, dell’abbandono e della necessità del recupero degli spazi della città contemporanea, nata all’interno della ricerca per un Urban Center nell’area meesposizioni.


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