NIP #16 Settembre 2013

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Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #16 Settembre/Ottobre2013


www.nipmagazine.it redazione@nipmagazine.it

Enrico Falqui_ enricofalqui@nipmagazine.it Direttore Responsabile

Stella Verin_stellaverin@nipmagazine.it Direttore Editoriale

Valerio Massaro_valeriomassaro@nipmagazine.it Direttore Creativo

Francesca Calamita_ francescacalamita@nipmagazine.it Responsabile eventi, attività culturali e tirocini

Paola Pavoni_ paolapavoni@nipmagazine.it Responsabile network culturale

Vanessa Lastrucci_ vanessalastrucci@nipmagazine.it Responsabile Social Networks Hanno collaborato con NIP: Ludovica Marinaro, Luca Casarano

Con il patrocinio di:

In copertina:

Casa Editrice: ETS, P.za Carrara 16/19, Pisa Legale rappresentante Casa Editrice: Mirella Mannucci Borghini

Network in Progress Iscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisa n° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress” ISSN 2281-1176

Adolfo Morales Senza nome (dettaglio) Anno: 2012 Misure: 40,5 x 29,5 (cm) Tecnica: Acquerello su carta Editing and graphics: Valerio Massaro Vanessa Lastrucci Luca Casarano


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pinte artistiche e correnti alternative ti portano sempre a scoprire spunti interessanti. Questo è il caso di una mostra fotografica che abbiamo visto tempo fa dal titolo Modern Ruins - A Topography of Profit dell’architetto Julia SchulzDornburg. La mostra è una rassegna fotografica su costruzioni a carattere altamente speculativo realizzate in Spagna, che poi sono state abbandonate a causa della crisi economica. Enormi mostri, dei Leviatani ancorati sulle colline suburbane di innumerevoli città spagnole; inutile dire che sono la

copia che non si distacca di molto da quello che succede oggi anche in Italia.

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uello su cui vogliamo ragionare ora però non è come sia possibile che queste costruzioni vengano abbandonate non terminate, e nemmeno come la speculazione bruci e consumi ettari ed ettari di terreni incontaminati, ma piuttosto come sia possibile che tali edifici vengano costruiti, perché sono diventati negli anni il modello di casa, e di vita, ideale che gli abitanti aspirano a acquistare per passare lieti anni della loro vita.

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uand’è che il gusto e l’attenzione al bello sono divenuti essi stessi argomenti sui quali i cittadini si omologano con cotanta arrendevolezza?

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ene, per rispondere al nostro interrogativo ci viene in aiuto il sociologo francese Gilles Lipovetsky, il quale afferma che “Oggi, il vettore dell’estetizzazione del mondo non è più l’arte, ma il consumo “.

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cco risolto il busillis! è il capitalismo, a quanto dice il nostro studioso, che ha fatto dell’estetica uno strumento essenziale della propria espansione.


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l Capitalismo contemporaneo ha fatto un ulteriore passo avanti rispetto a prima, non solo ci istiga a comprare determinati oggetti facendo pensare che siano indispensabili, ma ci ha anche addomesticati a credere che determiante cose siano belle e quindi che noi ne abbiamo bisogno.

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itornando alla nostra mostra fotografica una delle immagini che ci aveva colpito maggiormente era una collina completamente sbancata e ricoperta di villette a schiera mai terminate.

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a chi ci ha mai detto che le villette a schiera sono le case dei desideri, le più belle?

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e città con sconfinate periferie monotone e prive di genius loci sono il risultato di questo capitalismo estetico che ci fa avere dei bisogni che in realtà partono da presupposti sbagliati.

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uesto solo un esempio in riferimento alla città, ma ne potremmo tirare fuori innumerevoli altri, spaziando dai mobili per giungere agli occhiali da vista…

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a crescente diffusione del sentimento estetico ci fa credere che il bello e l’essere belli sia importante, ci dà dei modelli da seguire che risultano a suo vantaggio e ci rende tutti più esigenti.

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unque la prossima volta che compriamo una casa, ma anche sempilicemente un paio di occhiali, domandiamoci se le regole estetiche che stanno dettando la nostra preferenza siano davvero le nostre… così magari sulla prossima collina che incontreremo vedremo un bel bosco invece che una schiera di identiche villette!


La copertina è un’illustrazione originale di: Adolfo Morales email: fito@amorales.cl Artista grafico cileno, radicato a Berlino. Le sue opere sono paesaggi grafici con un linguaggio proprio, astratto ed informale, che lasciano allo spettatore la libera interpretazione del significato intrinseco. Attraverso la tecnica dell’acquerello l’artista ottiene tessiture sovrapposte, linee, colori e trasparenze.

Adolfo Morales Senza nome Anno: 2012 Misure: 40,5 x 29,5 cm Tecnica: Acquerello su carta


Adolfo Morales Cieli rossi Anno: 2005 Misure: 77 x 56 cm Tecnica: Acquerello su carta

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Contents

#16 Rubriche

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Contraddizioni del rinnovo urbano a cura di Vanessa Lastrucci

Architettura che non ci piace

Il parco di San Donato a Firenze

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di Biagio Guccione

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Focus on

Melbourne Royal Botanic Gardens Orto botanico o parco urbano? di Enrica Bizzarri

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Intervista

PIET OUDOLF a cura di Laura Malanchini Il progetto

Bordeaux? 39 Ri_conoscete La città en train de se faire

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di Francesca Granci Creatività Urbana

una piazza contemporanea 49 Di Lo spazio aperto al MAXXI, luogo carico di “senso”

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di Caterina Padoa Schioppa

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Cartolina da Cork Mano mano piazza... di Caterina Fusi Le recensioni

_il libro_ La bellezza civile Splendore e crisi della città di Enrico Falqui

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Valerio Massaro Š


CONTRADDIZIONI DEL RINNOVO URBANO testo di Vanessa Lastrucci foto di Vanessa Lastrucci, Valerio Massaro

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igenerazione urbana è la parola d’ordine per la maggior parte degli interventi nelle città dell’ultima decade e più. Spesso osannata come la soluzione definitiva e la prova materiale del cambiamento: si rinnova un ambiente urbano, si trasforma e si abbellisce. Sicuramente si innesta un processo irreversibile dove la rigenerazione urbana non di rado guida alla gentrificazione, che scioglie il tessuto sociale locale e lo sostituisce con uno di diverso (più alto) livello di benessere trasformando non solo gli abitanti, ma anche i negozi e le attività dell’area. Il quartiere malfamato torna a splendere di vita patinata. Eppure esistono zone delle città che beneficiano della cattiva reputazione ed attirano tra gli abitanti una serie di persone giovani e creative, artistiche e bohémien che ne cambiano il volto in cool ed attraente. E così si ritrovano ad essere minaccia della rigenerazione urbana. Barcellona, Toronto sono esempi noti dove questi processi sono ancora in corso e chiaramente leggibili, ma non mancano di trovarsi nelle città italiane. Mostrare le aree che sono state rinnovate, le aree dove è prevista una trasformazione, gli effetti, la loro vitalità non serve solo a farci chiedere “È proprio necessario? È un processo gestibile?”. Serve piuttosto a visualizzare dove si è trattato solo di bassa speculazione, ed il quartiere ha perso il motivo della sua vitalità; o si è trattato di un’opportuna rigenerazione che ha migliorato le condizioni di vita degli abitanti, non li ha sostituti.

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Architettura che ci piace/ non ci piace

IL PARCO DI SAN DONATO A FIRENZE

di Biagio Guccione

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l Parco di San Donato a Novoli è il primo parco urbano realizzato dopo l’Unità d’Italia a Firenze, dopo 150 anni, dopo Firenze Capitale, dopo lo straordinario sistema di verde pubblico che ci ha lasciato Giuseppe Poggi. L’idea iniziale era apprezzabile! Eliminati gli stabilimenti FIAT, quell’area strategica per Firenze è stata destinata alla costruzione del Tribunale, dell’Università, di un Centro Commerciale e molte residenze ed invece di parcellizzare il verde in spazi interstiziali, si decise di realizzare un grande parco di 12 ettari. Doveva e poteva esser un evento. Invece sotto i nostri occhi c’è un’area verde senz’anima, senza un disegno degno di nota, dove non sono rispettati i principi di base elementari, condivisi dalla paesaggistica mondiale: rispettare la cultura locale, analizzare il pae-

saggio e la vegetazione del posto e stare attenti alla funzionalità, cioè l’alfabeto della paesaggistica.

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on si richiedeva il colpo di genio che non c’è stato, ma almeno il rispetto della grammatica e della sintassi. Ricordiamoci che Firenze è la patria del giardino all’Italiana. Dopo 150 anni si realizza un nuovo parco e si vanno a cercare i motivi ispiratori in altre culture del passato: il giardino paesaggistico all’inglese! Un susseguirsi di collinette ricoperte di prato con qualche albero qua e là, sino ad arrivare alla solita e banale montagnetta belvedere con il gazebo in cima con il percorso a spirale segnalato da banali cipressi! Certamente non poteva mancare il ponte fuori scala per renderlo un po’ post modern su un patetico laghetto con zampillo. Tutti elementi triti e ritriti che mettono


Architettura che ci piace/ non ci piace tanta tristezza! All’ingresso una magniloquente quanto inutile gradinata bianca affiancata a destra e sinistra da due patetici rock garden con le cascatine d’acqua che ci sorprendono per l’ovvietà! Non parliamo di come è stato risolto il rapporto con il tribunale che incombe, sembra che non ci si sia accorti della sua presenza! Anche la scelta della vegetazione è un po’ assurda. “La scelta delle specie – dice Francesco Ferrini autorevole docente di orticoltura introdotte nel Parco di San Donato presenta numerosi aspetti critici. Non si è, infatti, tenuto conto delle esigenze pedoclimatiche degli alberi (e anche arbusti) introdotti e, soprattutto, delle caratteristiche edafiche del substrato, costituito in gran parte da terreno di riporto povero di nutrienti e dalla tessitura prevalentemente argillosa. La specie arborea dominante, il frassino maggiore (Fraxinus excelsior), pur presentando ottime caratteristiche estetiche, soffre il clima caldo e la siccità, è caratterizzato da un tasso di crescita relativamen-

te lento e da una vegetazione non particolarmente densa che produce un’ombra leggera...”

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n parco noioso, senza alcuna attrattiva, solo dopo tre anni il comune si è accorto che mancava un campo-gioco. Un parco pubblico senza un campo gioco, mi sembra un’idea surreale o kafkiana. Il comune recentemente ha provveduto collocandolo a ridosso di Via di Novoli, una sorta di autostrada urbana, tanto per respirare un po’ di buon gas di scarico. Incomprensibile questo errore dato che gli uffici comunali sono pieni di bravi tecnici. Ma quando qualcosa nasce storta sembra che non si riesca più a raddrizzarla!

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Vanessa Lastrucci Š



Enrica Bizzarri

Libera professionista, si occupa di progettazione e restauro di giardini e aree verdi, in ambito pubblico e privato. Laureata in Lettere, diplomata presso la Scuola di Architettura del Paesaggio di Villa Montalto a Firenze, perfezionata in Restauro dei giardini presso l’U.I.A. di Firenze e in Progettazione del verde nelle strutture di cura presso l’Università di Milano. Docente a contratto alla Facoltà di Agraria-Università di Perugia dal 2003 al 2008. Socia AIAPP dal 1999, attualmente è Vicepresidente della Sezione Centrale. Vive tra l’Italia e la Nuova Zelanda. www.enricabizzarri.net


MELBOURNE

ROYAL BOTANIC GARDENS

ORTO BOTANICO O

PARCO URBANO?

Testo e foto: Enrica Bizzarri

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ettari, oltre 50.000 piante distribuite in 26 collezioni, una sede distaccata di oltre 360 ettari: i Royal Botanic Gardens di Melbourne colpiscono con i numeri prima ancora di esserci entrati, ma l’esperienza di una visita certamente li renderà indimenticabili.

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edicare una giornata intera alla visita di questi straordinari giardini sarà sufficiente soltanto a farsi un’idea della ricchezza e varietà del patrimonio botanico, formato soprattutto da maestosi esemplari delle specie esotiche che destarono in origine l’interesse degli studiosi, come i Gum trees, oggi classificati nelle due specie distinte Eucalyptus sp. e Corymbia sp., i Kauri del Queensland (Agathis robusta) e i Notofagi (Nothofagus sp.). Ma i giardini ospitano anche specie provenienti da ogni parte del mondo, in particolare querce, cipressi e altre conifere qui rappresentati da esemplari imponenti, e poi ficus, palme, aceri, olmi, frassini. Ricche e curate le numerose collezioni che vanno dalle più imponenti, come querce, eucalipti e palme, a quelle più delicate e variopinte, come felci, rose, camelie e orchidee terrestri. L’Australian Forest Walk è il percorso tra le piante della foresta australiana, che illustra questo habitat unico, sottolineando quanto sia importante preservare queste aree preziose, così come il Lower Yarra River Habitat in cui piante terrestri e palustri ricreano ambienti ricchi di biodiversità.

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asseggiando per i giardini si resta sorpresi e incantati dai colori e dal profumo dei fiori e dalle inattese sensazioni sonore. Nei giardini vivono infatti oltre 100 specie di uccelli, per lo più nativi australiani tra cui alcuni rari, le cui popolazioni vengono regolarmente seguite e monitorate sia da personale interno che da volontari. In particolare i Rainbow Lorikeet

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(Trichoglossus haematodus), numerosissimi e dal piumaggio sgargiante, rendono la visita una straordinaria esperienza multisensoriale.

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a storia dei Giardini Botanici di Melbourne inizia nel 1846, in una vasta plaga paludosa formata dal fiume Yarra a sud della città. Come per tutti gli orti botanici, le finalità iniziali risiedevano nell’interesse scientifico per il mondo delle piante e anche per i risvolti economici e commerciali relativi alla loro coltivazione, nella vasta e promettente colonia australe. Ma nei decenni successivi alla loro fondazione i Gardens si sono trasformati anche in uno spettacolare parco-giardino, caratterizzato da ampie distese di prato, romantici laghetti e panorami scenografici, coniugando la tradizione paesaggistica inglese con il rigoglio di una vegetazione subtropicale favorita dal clima particolarmente mite e utilizzata a piene mani dai due botanici succedutisi in quegli anni alla guida della istituzione: Ferdinand von Mueller e soprattutto William Guilfoyle, conosciuto come “the master of landscaping”. L’impostazione ottocentesca dei Gardens, che comprende anche il ricchissimo National Herbarium e le elaborate roccaglie in stile “pittoresco”, si è mantenuta e consolidata fino agli anni ’70 del Novecento, quando iniziò la costituzione dei giardini-satellite di Cranbourne, dedicati allo studio e alla conservazione della vegetazione nativa e degli habitat originari della regione, in un’area a circa 40 km a sud-est di Melbourne. Questa nuova e imponente estensione, che contiene anche siti aborigeni e che attualmente copre una superficie totale di 363 ettari, richiedeva una svolta decisiva nella gestione dei giardini, svolta che avvenne nel 1982 con l’istituzione della Royal Botanic Gardens Board of Victoria, la commissione che tuttora governa i giardini in rappresentanza della Corona.

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a. Un caffè all’aperto con vista sul grande Ornamental Lake b. Un carrello porta-attrezzi che funziona anche come esempio di verde pensile c. Due imponenti esemplari di Cupressus macrocarpa, sulla sinistra la varietà ‘Coneybearii Aurea’ d. Ingresso del Children’s garden, Ian Potter Foundation e. Viale

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ul piano della ricerca scientifica le attività dei Gardens si orientano particolarmente verso lo studio della biodiversità vegetale e della conservazione degli ecosistemi minacciati, con programmi di protezione di specie rare o a rischio di estinzione. Nel 1998, in collaborazione con l’Università di Melbourne, ha preso avvio ARCUE (Australian Research Centre for Urban Ecology), una struttura che pone al centro dei suoi progetti di ricerca l’ecologia, la salvaguardia e la gestione della biodiversità nelle aree urbane e suburbane.

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ell’ambito scientifico in senso lato, la parte dedicata alla didattica specifica per i giovani studenti assume una grande importanza, che si rileva dall’entità delle risorse dedicate. L’attenzione verso le nuove generazioni si concretizza in numerosi e vari programmi di apprendimento e collaborazione con le scuole di ogni ordine e grado, che includono visite ed escursioni, corsi di giardinaggio, landscaping e orticoltura, lezioni, workshop e conferenze e la fornitura di un ricco materiale didattico in diverse lingue per gli insegnanti.

L’ a b

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a. Esemplare di Kauri del Queensland (Aghatis robusta) b. Floating island nel grande lago ornamentale

orto/giardino didattico è ampio, fornito di aule indoor e outdoor, di strumenti e materiali adeguati, di spazi in cui i ragazzi, seguiti da personale del parco affiancato dagli insegnanti della scuola di provenienza, possono sperimentare e verificare alcuni concetti fondamentali della biologia vegetale, manipolare terra, semi e piante, comprendere i cicli vitali, il succedersi delle stagioni e l’interazione delle specie viventi. E colpiscono la cura e le risorse dedicate a questi progetti formativi, soprattutto se si considera che questo approfondimento della conoscenza del mondo vegetale viene fornito a ragazzi che comunque vivono in una città molto “verde” e in un pae-


se, l’Australia, che è un continente dotato di grande variabilità di ecosistemi e con una estesa wilderness, ma anche afflitto da enormi problemi ambientali. Forse non è esagerato affermare che un aiuto non indifferente alla riduzione di questi problemi possa passare anche attraverso istituzioni come i RBG e le loro attività.

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ra le caratteristiche che fanno dei RBG una istituzione moderna e inserita a pieno titolo nella ricerca e nella formazione sta la grande attualità di alcune delle ultime realizzazioni, finalizzate allo studio di possibili soluzioni al grande problema della tutela della risorsa idrica. Problema sentito particolarmente nel grande continente australiano e che probabilmente ha contribuito al successo di questi progetti.

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sservando con attenzione i laghetti dai contorni sinuosi inseriti all’interno del parco si notano una serie di piccole isole coperte di vegetazione che si muovono lentamente nell’acqua, seguendo la spinta del vento o la debole corrente. Acquisendo qualche informazione in più, dagli onnipresenti ed esaustivi cartelli, si capisce che queste floating islands sono parte di un sistema di fitodepurazione, che oltre ad assorbire l’eccesso di nutrienti presenti nell’acqua, offre un perfetto habitat per numerose specie viventi e contribuisce alla vita e alla salute dei laghi, costituendo anche un elemento paesaggistico di grande impatto. L’attenzione per il ciclo dell’acqua non si ferma qui, infatti in diverse zone dei giardini sono impiantati alcuni rain gardens, aiuole prevalentemente formate da erbacee e bulbose, che funzionano come inghiottitoi delle acque meteoriche, regolando e filtrando l’afflusso della pioggia. Un articolato programma di gestione e conservazione delle acque meteoriche, accuratamente descritto, ha consentito negli ul-

c. Vista dell’Ornamental Lake, sullo sfondo la torre della Government house, residenza del Governatore dello Stato d. Curiosi esemplari di Queensland Bottle tree (Brachychiton rupestris) nel Children’s garden e. Annoso esemplare di Melaleuca linariifolia, pianta nativa australiana, detta ‘Snow in summer’ per la abbondante fioritura bianca

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timi anni un risparmio di oltre il 60% dell’acqua impiegata per l’irrigazione. E naturalmente anche nell’orto/giardino didattico sono in atto tutti i sistemi di raccolta, accumulo e utilizzo dell’acqua piovana, con la dimostrazione di un ciclo virtuoso, favorente un corretto utilizzo di questa preziosa risorsa primaria.

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a. Il Perennial border, una interpretazione contemporanea del classico mixed border con piante selezionate per la lunga stagione di fioritura e il ridotto fabbisogno idrico b. L’orto didattico, dove gli studenti sperimentano la coltivazione delle piante commestibili c. Un Rainbow lorikeet (Trichoglossus haematodus) in cerca di nettare tra i fiori scarlatti di Schotia brachypetala

a l’aspetto forse più insolito di questo luogo, almeno nell’ottica di una concezione tradizionale, è l’uso, nel vero e più profondo senso del termine, che i cittadini di Melbourne fanno del loro giardino botanico. È evidente che, al di là delle finalità scientifiche e didattiche di assoluto rilievo e della concezione paesaggistica che appartiene per lo più ad un passato di memoria europea, i giardini funzionano come un parco urbano contemporaneo. La loro collocazione lungo il fiume Yarra, a breve distanza dal nucleo originario di Melbourne, ne fa oggi uno dei maggiori polmoni verdi nel tessuto urbano di una metropoli multiculturale e multietnica in continua espansione che, tra la City e le municipalità periferiche conta oltre 4 milioni di abitanti. I programmi di gestione e le attività che vi si svolgono connotano i giardini anche come spazio identitario e relazionale. Uno dei punti di attrazione dei giardini è il Separation Tree, un antico Eucalipto (Eucaliptus camaldolensis) e importante landmark della città ancor prima che i giardini fossero realizzati. Ai suoi piedi, il 15 novembre 1850, si celebrò con grandi festeggiamenti la creazione della nuova colonia di Victoria, che veniva così separata dal New South Wales. Un albero quindi come memoria di uno dei più importanti avvenimenti nella storia della città e, forse anche per questo, oggetto non soltanto di cura e rispetto, ma anche bersaglio per azioni vandaliche che negli ultimi tempi si sono susseguite con allarmante frequenza.


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n luogo, i giardini, in cui si va a teatro e si organizzano mostre d’arte e fotografia, si lanciano e si sostengono iniziative umanitarie e di pace. Ma anche dove si celebrano matrimoni e dove le famiglie si ritrovano per il pic nic della domenica, dove diverse generazioni e diverse etnie si incontrano e interagiscono, stimolate da programmi inclusivi e multiculturali. Esclusivamente ai più piccoli è dedicato il giardino della Ian Potter Foundation, spazio appositamente progettato per coinvolgere e stimolare la loro curiosità, completamente accessibile, dove i bambini sono liberi di sporcarsi, arrampicarsi sugli alberi, di interagire e giocare con l’acqua e gli altri elementi naturali e di mangiare i frutti del Kitchen Garden.

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n discorso a parte merita poi il nuovissimo Australian Garden, recentemente aperto al pubblico nella spettacolare estensione di Cranbourne. Di qualità assolutamente contemporanea, il progetto curato dagli studi Taylor Cullity Lethlean e Paul Thompson, interpreta lo spirito della peculiare natura australiana, descrivendo in alcune decine di ettari il percorso dell’acqua, dal cuore rosso del continente (il “red centre” dell’outback, Alice Springs e Uluru) fino all’Oceano, attraverso paesaggi desertici, lacerti di foresta pluviale, laghi e fiumi. Il disegno dello spazio, delle strutture e dei percorsi narra di uno spirito e di un’identità australiana immediatamente riconoscibili, proiettati in un futuro che, se immaginato nell’interesse del bene comune, non fa più paura.

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ueste terre australi, così lontane geograficamente da quelli che siamo abituati a considerare i centri pulsanti della cultura occidentale, tanto da essere percepite talvolta come marginali e poco interessanti, non cessano di stupirci a ogni nuova

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d. Raingraden, particolari aiuole formate da erbacee e bulbose, utilizzate per regolare e filtrare l’afflusso delle acque meteoriche e. Alcuni grattacieli del centro di Melbourne visibili da un viale del roseto f. Perennial border

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scoperta, per la vivacità e l’originalità delle proposte culturali e l’attenzione agli aspetti sociali e comunicativi della scienza. Attualmente i giardini impiegano oltre 240 persone, tra management, strutture amministrative e scientifiche, servizi educativi e didattici, gestione e manutenzione. Le attività programmate sono numerosissime, dalle attività di ricerca e collaborazioni internazionali a quelle rivolte al pubblico, educative e promozionali, queste ultime supportate da una attivissima e appassionata attività di volontariato.

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giardini accolgono i visitatori con un attrezzatissimo ed elegante centro visite, che propone servizi e attività per tutti gli interessi, le età e le esigenze. Il centro è dotato di caffè, ristorante e di un garden shop attivo anche online, dove si possono trovare libri, oggetti d’arte, artigianato e coloratissimi gadgets eco-friendly. La biblioteca ospita la più vasta collezione australiana di manoscritti, testi scientifici, fotografie e illustrazioni botaniche ed è visitabile su appuntamento.

a b c a. Uno dei cartelli che illustrano le strategie di gestione delle acque meteoriche tramite i raingardens. b. Ingresso e caffè del Visitor’s Centre. c. Uno dei cartelli che illustrano il programma di conservazione dell’acqua e le strategie di risparmio idrico

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Vanessa Lastrucci Š


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Valerio Massaro Š


Francesca Granci Dopo un’esperienza di studio presso l’Ecole d’Architecture et Paysage de Bordeaux, nel 2009 si laurea in Architettura e nel 2011 si diploma come paesaggista. Cultore della materia per la Specialistica in Architettura del Paesaggio di Firenze, svolge contemporaneamente attività di libera professione attraverso incarichi diretti, collaborazioni, consulenze, ricerche e partecipazioni a concorsi di progettazione, ottenendo importanti riconoscimenti.


Ri_Conoscete

Bordeaux? la cittĂ en train de se faire

di Francesca Granci

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In alto, su due pagine: Bordeaux in trasformazione. Il progetto di riqualificazione del lungo Garonna con il Projet Pilote urbain del 1996; In basso, su due pagine: I Quais jardinées sulla rive gauche

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l passaggio al nuovo millennio è stato, per Bordeaux, un importante punto di svolta. La belle au bois dormant (così era soprannominata dalle altre città francesi) si presenta oggi come una città dinamica, viva, attiva e attrattiva, polo di una vasta area metropolitana1 (la CUB), gestita in collaborazione con A’urba2 che conta in tutto 27 comuni e una popolazione complessiva di circa 700.000 abitanti. è il sindaco Alain Juppé (che all’inizio del suo mandato definisce Bordeaux “fatiscente, ritardataria rispetto ad altre città europee che, invece, stanno mutando secondo un processo di trasformazione al passo con i tempi”) a dare inizio a un emblematico processo di trasformazione che porterà, nel 2007, un’ampia parte della città a far parte del patrimonio dell’umanità3. Bordeaux, oggi, non è più solo la città del vino, ma una città in movimento, con una identità rinnovata, fatta d’acqua, di mobilità e di spazi aperti. Nel 1995 l’amministrazione partecipa, con il Projet Pilote Urbain4, a un bando di gara per l’assegnazione di fondi CEE in favore dello sviluppo regionale dei paesi comunitari. Il PPU viene selezionato, i fondi stanziati e, nel corso di pochi anni, realizzati progetti di rilievo internazionale. I Quais Jardinées e Le Mirroir d’eau,


di M. Corajoud, o le Jardin Botanique de Bastide, ideato da C. Mosbach, sono le realizzazioni più rappresentative di un ampio progetto che comprende il restauro degli edifici settecenteschi lungo la Garonna e degli hangar del vecchio porto; la realizzazione della tramvia5, che unisce la rive droite alla rive gauche e che collega centro e periferia, con la contemporanea e capillare riqualificazione degli spazi aperti intercettati lungo il suo tracciato. Interventi che non solo rigenerano il tessuto urbano, ma attivano nuove dinamiche sociali che evocano le brulicanti attività dell’antico porto commerciale e avviano un inedito dialogo tra le due rive della città. li esiti dei progetti realizzati sulla base del PPU, così incoraggianti dal punto di vista sociale ed economico, spingono l’amministrazione, molto attenta agli aspetti partecipativi e divulgativi6, alla prosecuzione di una politica incentrata sui temi del recupero e dello sviluppo, ampliando il raggio di azione e moltiplicando gli obiettivi: la sostenibilità dei trasporti, con l’incentivazione dei mezzi pubblici; lo sviluppo urbano equilibrato, secondo logiche di risparmio del consumo di suolo; la sostenibilità ecologico-ambientale, con una rete verde di piccole trame e grandi

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L’effetto brouillard in Place de la Bourse, uno dei giochi d’acqua realizzati grazie al progetto del paesaggista francese M. Corajoud.

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Nel 2010, la CUB bandisce il concorso 50.000 logements nouveaux autour des axes de transports collectifs, come strumento rapido e partecipativo utile ad agire a scala metropolitana e locale, ricercando nuove tipologie di alloggi sviluppati secondo logiche di sostenibilità. fonte: Grands Projets (www.50000logements.lacub.fr)

Contenuti nel PLU, alcuni dei numerosi schemi esplicativi delle strategie di intervento per il perseguimento degli obiettivi prefissati su scala metropolitana. In basso: time line per l’identificazione della trasformazione da città attuale a città proposta;

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a b d

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a- I grandi territori di progetto urbano: individuazione degli ambiti di progetto. b- i nuovi limiti della riqualificazione urbana. c- I centri e le polaritĂ . d- I corridoi dei trasporti collettivi.

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In alto: Place de la Bourse dopo la sistemazione di M. Corajoud. In basso: Avenue Jean Jaurès dopo il passaggio della tramvia. immagine di Jérémie Buchholtz. In basso nella pagina successiva: La piccola place du Serpulet attrezzata per bambini

al centro, in senso orario: -Le Lanières dei quais jardinées, in prossimità di Place de la Bourse -Le vasche del “jardin aquatique”, una delle sette sezioni del Jardin Botanique de la Bastide. Il giardino botanico è uno spazio a libero accesso e fa parte della risistemazione prevista dal progetto ZAC, “caeur de Bastide” -Pont Chaban-Delmas, il nuovo ponte levatoio che collega il quartiere Bacalan, sulla rive gauche alla zona nord de La Bastide, cuore della rive droite. immagini di: F. Granci

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spazi, il più possibile fitta e accessibile; la sostenibilità socio-spaziale, alla ricerca di una maggiore mixité sociale e funzionale; la qualità architettonica, perseguendo l’ottimizzazione e la manutenzione delle architetture. Questi gli obiettivi culturali e strategici dell’amministrazione bordolese che, per non disattendere le proprie aspirazioni, si dota di una serie di strumenti operativi, come la Charte des Paysages, inizialmente pensata per gli interventi di risistemazione delle due rive della Garonna, che si trasforma in uno strumento tecnico-operativo ad uso di architetti e paesaggisti nell’elaborazione di progetti di paesaggio a scala urbana e metropolitana. Lo stesso viene fatto per l’edilizia. In forte sviluppo demografico, Bordeaux cresce, e costruisce, secondo criteri di qualità contenuti nella Charte de Construction Durable7. Il documento contiene i princìpi del costruire sostenibile, stabiliti in base a una serie di incontri tra l’amministrazione comunale e i bailleurs, che operano su territorio francese con formule partecipative convenzionate, al fine di incentivare la

bio-edilizia nel contesto bordolese, secondo le non più rimandabili esigenze ecologico-ambientali.

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dare continuità al cammino che la Mairie intraprende a partire dal ’95 (e che ancora non si è esaurito) il 8 (PLU), uno strumento per lo sviluppo dell’intera area CUB. Gli obiettivi del PLU sono trasversali al tema della riqualificazione urbana, e si confrontano con il territorio a diverse scale di intervento, occupandosi della gestione socio-economica oltre che di quella paesaggistico-architettonica, come specificato negli atti ufficiali dei due seminari divulgativi che anticipano la sua pubblicazione: “(...) Il PLU comunitario: tre scale di territorio condiviso per un realistico progetto urbano di agglomerazione”9. Ogni comune elabora un progetto esplicitando la propria visione sul futuro dei quartieri, lo sviluppo del paesaggio urbano e del quadro economico. Contemporaneamente viene avviata una lettura a scala globale del contesto metropolitano. Ma soprattutto si lavora ad una scala intermedia, quella degli

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ambiti omogenei: definita la loro identità, questi nuovi settori, che non necessariamente seguono i confini amministrativi, sono stati l’oggetto di un vero e proprio laboratorio di progetto sperimentale per la redazione di nuovi e più attuali strumenti operativi di gestione, i Plan d’Aménagement et de Développement Durable (PADD). Come strumento di gestione transcalare, il PLU identifica gli assi di sviluppo urbano e periurbano, lungo i principali assi di mobilità, regola e stabilisce le funzioni da associare ai suoli e, a differenza degli strumenti tradizionalmente applicati, è un piano in continuo aggiornamento, che si adatta alle esigenze del territorio e non viceversa. La sua innovazione è la flessibilità, non in favore di necessità speculatorie, ma in sostegno delle esigenze della collettività. La discussione tra amministrazione comunale e soggetti privati, enti promotori e sponsor viene mantenuta viva avvalendosi, nella fase di studio preliminare come in quella progettuale, di professionalità “esterne”, attraverso procedure concorsuali, i cui esiti, una volta vagliati dall’amministrazione, possono essere recepiti dal PLU, come sta accadendo per il progetto pilota “50 000 logements, autour des axes de transports collectifs”10 e “55000 hectares pour la nature”11.

Bordeaux. Una città in breve tempo trasformata grazie all’applicazione di strumenti urbanistici formulati secondo esigenze, oltre che economiche, sociali, culturali, ambientali e paesaggistiche. Il PLU, sintesi delle strategie di sviluppo per l’area metropolitana, diventa promotore e contenitore di un modus operandi che, oltre a prevedere la partecipazione della cittadinanza in sede pianificatoria, coinvolge nell’iter programmatico figure professionali specifiche e accreditate (economi, architetti, urbanisti, paesaggisti) facendo dell‘interdisciplinarità e della multidisciplinarità la sua più grande innovazione e risorsa. Occuparsi di gestione degli spazi aperti e delle infrastrutture, oggi, è una condizione da cui le amministrazioni, ma anche i cittadini non possono più prescindere. Bordeaux ha fatto sì che questo principio diventasse la sua linea di sviluppo verso il futuro. Ad ogni amministrazione, e di conseguenza ad ogni comunità, la scelta.

Cours du Chapeau Rouge pedonalizzata

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NOTE 1. La Communauté Urbaine de Bordeaux viene istituita nel 1966: i rappresentanti dei diversi comuni partecipano ai processi di trasformazione applicando un modello condiviso di gestione con contenuti omogenei e approcci sistematici, in grado di restituire un’immagine culturale collettiva identitaria. Cfr. con: P. Godier, C. Sorbets, G. Tapie, (a cura di), Bordeaux Métropole, un futur sans rupture, Edizioni Parenthéses, 2009, p. 75). 2. Bordeaux, come tutte le città francesi, è dotata di un’agenzia di pianificazione, L’Agence d’Urbanisme Bordeaux métropole Aquitaine. Istituita nel 1969, è una società privata a partecipazione pubblica. 3. Le motivazioni di un riconoscimento spalmato su 18 kmq di superficie sono riportate nel documento ufficiale di iscrizione: “Una ricchezza unica di una città in movimento. Bordeaux, (...) è stata scelta per il fascino del tessuto medievale e neoclassico; per gli edifici del quartiere Mériadeck; per l’opera di trasformazione urbana iniziata nel 1996 dal sindaco Alain Juppé, con la sistemazione dei lungofiume, il restauro delle facciate degli edifici e la costruzione della linea tramviaria. Scelta, quindi, per la sua forte volontà evolutiva”. 4. Per un approfondimento sul tema: T. Matteini, Sistemi di spazi aperti nei centri storici: complessità, integrazione, e biodiversità nel nuovo paesaggio urbano di Bordeaux, in L. Vallerini (a cura di), Piano Progetto, Paesaggio, Pacini Editore, 2010, p. 145. 5. Tre fasi di lavoro, a partire dal 2000, per il completamento di 50 km di tracciato e 81 stazioni lungo gli assi di trasporto metropolitani. Questo servizio è utilizzato oggi da 345.000 passeggeri/giorno, con l’obiettivo, da parte della CUB, di raggiungere i 550000 passeggeri/giorno nel 2020. 6. La popolazione non resta all’oscuro degli obiettivi programmatici di trasformazione, ma viene informata con riviste, pubblicazioni on line sul sito “Mairie de Bordeaux”, organizzazione di mostre ed eventi finaliz-

zati alla promozione e alla diffusione degli obiettivi. 7. Per soddisfare le nuove esigenze in materia di costruzioni, Bordeaux promuove l’impiego di nuove tipologie edilizie rispettose dell’ambiente e del contesto in vista degli obiettivi ecologici prefissati dall’amministrazione per il 2030. Per raggiungere questo obiettivo i firmatari della Carta (sviluppatori, istituti di credito e altri finanziatori) si impegnano a rispettare i criteri di qualità stabiliti, condividendo una responsabilità comune. 8. l PLU sostituisce il vecchio e obsoleto Plan d’Occupation des Sols, del 1982, secondo un processo di semplificazione della disciplina urbanistica, e raccoglie una serie di sezioni macrotematiche (come la mobilità, la questione degli alloggi, gli aspetti legati all’economia, aspetti legati alle questioni sociali), di cui il tema del trattamento del paesaggio, a tutte le scale di intervento, resta l’elemento cardine. 9. F. Cuiller, a cura di, Les débat sur la ville 6, à propos du Plan Local d’Urbanisme de la Communautè urbaine de Bordeaux, Edizioni Confluences, 2005, p. 14. 10. Cinque importanti studi europei hanno lavorato sul tema dell’alloggio per due anni, sviluppando visioni future della città che, recepite dall’amministrazione, sono diventate la base per nuovi concorsi attualmente in fase conclusiva. 11. Nel 2012 l’amministrazione, per bilanciare le future operazioni immobiliari, promuove uno studio complementare sull’altra metà della superficie metropolitana, quella degli spazi aperti. Cinque raggruppamenti multidisciplinari (economi, paesaggisti, agronomi e urbanisti) sono stati chiamati, sulla base dei curricula, a elaborare strategie di gestione e valorizzazione di questo patrimonio.

BIBLIOGRAFIA M. Jacques, a cura di, Bordeaux 1995, 2005, 2015, Edizioni Mollat, con la collaborazione di A’urba e Mairie de Bordeaux, 2004; P. Godier, C. Sorbets, G. Tapie, (a cura di), Bordeaux Métropole, un futur sans rupture, Edizioni Parenthéses, 2009; T. Matteini, Sistemi di spazi aperti nei centri storici: complessità, integrazione, e biodiversità nel nuovo paesaggio urbano di Bordeaux, in L. Vallerini (a cura di), Piano Progetto, Paesaggio, Pacini Editore, 2010; F. Cuiller (a cura di), Les débat sur la ville 6, à propos du Plan Local d’Urbanisme de la Communautè urbaine de Bordeaux, Edizioni Confluences, 2005; R. Lucante, B. Hermet, a cura di, De la ville à la métropole, 40 ans d’urbanisme à Bordeaux, Le Festin, 2011. “Bordeaux, un agglomération en mutations, (dalla rivista) Urbanisme, n. 22, 09/2004”.

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Vanessa Lastrucci Š


Vanessa Lastrucci Š


Piet Oudolf è un importante garden designer e paesaggista Olandese, vivaista e autore. E una figura di spicco del movimento "New Perennial" utilizzando audaci accostamenti di erbacee perenni e graminacee che vengono scelti per la loro struttura tanto quanto che per il colore del loro fiore. http://www.oudolf.com/


INTERVISTA A PIET OUDOLF

a cura di Laura Malanchini

Intervista a Piet Oudolf, uno dei più geniali ed innovativi paesaggisti contemporanei, ideatore di grandi progetti recenti come l’ High Line e il Battery Park a New York e il Lurie Garden di Chicago, nonché di numerosi parchi nel Nord Europa. Oudolf è un autodidatta. Racconta che a 26 anni decide di dare una svolta alla sua vita, poiché non voleva il futuro che gli si prospettava nel ristorante di famiglia. Inizia così a cercare la sua strada, cambiando molti lavori, finchè attraverso un lavoro stagionale in un vivaio scopre il suo amore per le piante e successivamente si trasferisce in campagna, dove insieme alla moglie comincia a coltivare e studiare le specie che più lo attraggono. Oggi è un affermato paesaggista, considerato un vero rivoluzionario dai critici di settore. Si fa ispirare da natura, arte e tempo. Ama le piante povere: soffioni, margherite, spighe ed erbacce super-resistenti. Sono le piante dei margini le sue predilette, caparbie, vitali, avversate, ignorate. Serbatoi di diversità biologica, simboli di resistenza, di spontaneità e semplicità: l’altra faccia del modello tradizionale di giardino. Oudolf le ha conosciute direttamente nella sua casa-vivaio a Hummelo, nei Paesi Bassi, e ne ha scoperte di nuove grazie a un folto gruppo di amici con la stessa passione, con cui ha creato il Movimento delle Nuove Perenni. Attentissimo all’estetica del progetto, il paesaggista olandese pensa che la bellezza stia nel processo, nel cambiamento stagionale, nell’attesa di quel che sarà. Per questo è fondamentale conoscere ogni dettaglio del ciclo vitale delle specie utilizzate, per riuscire a suscitare emozione attraverso il sapiente accostamento di colori, movimenti, masse e stagioni. Ecologia, sostenibilità sono temi che sono alla base della sua filosofia del progettare. Uno stile il suo che contrasta la prepotenza dell’impatto umano sulla natura, che non smette di sorprendere se lasciata a se stessa, ma allo stesso tempo necessita di un’ infinita passione e studio continuo per ottenere risultati “artificialmente spontanei”.

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10 DOMANDE a Piet Oudolf 1- Il suo lavoro ha ispirato molti paesaggisti introducendo l’uso preponderante di erbacee perenni e graminacee. Negli anni ’80 ha addirittura fondato il Movimento delle Nuove Perenni. Da dove nasce il suo amore per questa tipologia di piante? Negli anni ’80 non abbiamo fondato un vero e proprio Movimento per la conservazione delle perenni, eravamo semplicemente un gruppo di persone, di amici, con gli stessi interessi, la stessa “ossessione” per le piante, che si scambiavano competenze ed informazioni. Non ci sono particolari motivazioni per cui questo interesse è nato. La passione è solamente passione, non si può spiegare. Eravamo così appassionati da volerne fare un lavoro a tempo pieno. La scelta delle erbacee non ha una motivazione particolare, amo anche i fiori, amo tutto delle piante, ma le preferisco. Mi piacciono più delle altre specie, tutto qui. 2- Quali sono le loro proprietà irrinunciabili? No, semplicemente i fiori non sono abbastanza per me, non sono permanenti. Il mio scopo non è solo decorare, voglio creare qualcosa che duri nel tempo. Le perenni me lo consentono grazie al loro speciale ciclo di vita.

Lurie garden, Millennium park Chicago, U.S.

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Lurie garden Millennium park Chicago, U.S.

3- Lei non ama essere definito un artista, tuttavia ha definito i suoi giardini “pitture viventi” ed il suo lavoro un’“espressione di se stesso”. Come funziona il processo creativo che sta alla base del suo lavoro? E quanto ogni progetto sposta un po’ più in là i limiti e i confini definiti da quello precedente? Non sono io a chiamare le mie opere “pitture viventi”, sono gli altri che attribuiscono loro epiteti e definizioni. Io mi limito a lavorare con le piante per esprimere una sintesi di me stesso, del mio sentire, e del mio amore per il regno vegetale. Quel che faccio è quel che mi piace fare, e se ne viene fuori qualcosa di buono, ne sono felice. Il mio lavoro nasce sempre dall’ispirazione e dall’esperienza, dallo studio e la coltivazione diretta delle piante e dalle mie idee, ovviamente. L’ispirazione non nasce mai da un metodo definito, qualcosa che io faccio per stimolarla: mi guardo intorno, osservo il mondo, e mi faccio invadere dall’intuizione. L’ispirazione può giungere da qualsiasi cosa io viva o veda, da tutte le cose belle che si trovano nel mondo, ma è assolutamente personale. Quando inizio a progettare, mi faccio trasportare dai suggerimenti della mia immaginazione, mi lascio prendere dall’entusiasmo. Una volta finito, guardandomi indietro mi capita di scoprire di aver realizzato qualcosa che andava ancora oltre quanto mi ero immaginato. In questo senso non è che ogni progetto muova un pò più in là il confine, ma ogni progetto lavora al limite del possibile, perché è l’immaginazione a volerli valicare. Gli unici limiti che voglio consapevolmente superare sono quelli del giardino tradizionale, con i suoi dogmi e le sue regole a cui cerco di sottrarmi. Gli stili decorativi classici coinvolgono periodi limitati della

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Leuvehoofd Rotterdam, NL

fioritura delle piante, quello che faccio io è totalmente differente: le mie composizioni sono sistemate in modo da essere durevoli nel tempo ed avere diverse espressioni nel lungo periodo. 4- Ha detto che il giardino è metafora della vita ed in molti suoi progetti lascia piante non tagliate in inverno al fine di contemplarne gli steli in decomposizione, in ricordo del ciclo della vita della natura. Riesce sempre a conciliare estetica e concept? Cosa riveste più importanza per Lei? Quello che le persone dovrebbero comprendere è che la bellezza sta anche oltre il momento della fioritura, come le stagioni della vita hanno tutte una loro dignità, così anche il giardino può esprimere tale bellezza in ogni periodo dell’anno. I miei giardini non ricercano il momento della fioritura, l’importante è l’intero processo, l’intero ciclo vitale delle piante, in modo che si possa godere esteticamente e sensorialmente anche del momento della decomposizione stagionale. Fino a che un giardino appare bello, per me è lecito, anzi necessario, non tagliare, ma se l’estetica viene a mancare, non si riuscirà neanche a cogliere il significato del progetto. Perciò l’estetica è sicuramente da privilegiare. 5- Che differenza c’è tra “naturale” e “spontaneo”? E’solo nella parola, non trovo una differenza sostanziale tra i due concetti. La naturalezza sta nella spontaneità, anche se ordinata. Tutto ciò che risulta da un progetto è tenuto sotto controllo, anche ciò che appare assolutamente naturale e spontaneo è frutto di una costante operazione di controllo del processo. Il giardino non è natura, è ispirazione. 42


6- Quanto è importante per un progettista saper seminare, conoscere la dimensione del tempo nei processi evolutivi della Natura? é fondamentale sapere come si comportano le piante. è la cosa più importante. Ma per quanto riguarda i processi evolutivi della Natura, la questione è troppo grande per essere riassunta in poche frasi. Ciò che faccio non mira ad imitare la natura: io faccio solo giardini, che hanno a che fare con la bellezza, con l’estetica, con l’immaginazione, con l’ispirazione e l’esperienza, è questo ciò che cerco. Non si può inserire anche la magnificenza del processi evolutivi naturali in questo contesto, è totalmente un’altra questione. 7- Sette anni fa lei ha progettato “High Line, Section 1” a New York; “High Line, Section 2” è stata inaugurate due anni fa; che confronto può fare tra le due esperienze? Sono la stessa esperienza, semplicemente declinata in due diverse sezioni. Sono state progettate contemporaneamente, nel 2006, con obiettivi comuni. La prima è stata completata subito perché volevo che quello spazio fosse pronto per le persone. La seconda sezione è una sorta di continuazione del racconto iniziato nella prima. 8- Ha parlato della contemporaneità dei suoi giardini come del suo sforzo di disegnare qualcosa di ecologicamente sostenibile, idoneo al tempo in cui viviamo. è questo il principale messaggio che vuole comunicare a chi “vive” i suoi giardini? Credo che le mie parole siano state travisate. La sostehigh line 2 New York City, U.S.

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Giardino delle vergini Biennale di Venezia 2010 menzione speciale

nibilità è sicuramente un concetto importante da perseguire, ma non credo che sia la parola più adatta quando si parla di giardini. Hanno bisogno di molta energia, di molta acqua, di molto lavoro: si può progettare al fine di limitarne gli input necessari, ma non lo si può evitare. Infatti io non sono mai riuscito a progettare giardini che non necessitassero almeno di un piccolo impianto idrico, come qualcuno invece ha scritto. Ciò che intendevo è più inerente alla sostenibilità nel tempo, all’importanza del processo. Un giardino non può durare solo una stagione. Non cerco di trasmettere un messaggio specifico, mi piace tentare di far comprendere la complessità del tempo. I miei giardini possono sembrare sempre qualcosa di irrealizzato, che non si sa come apparirà ad aprile o in ottobre. Qualcuno mi critica per questo, ma il progetto deve funzionare sempre, tutto l’anno, è più importante il processo della bellezza effimera. Per me, è una sorta di performance, che mi auguro ispirerà qualcun altro. 9- Nel 2010, alla Biennale di Venezia, lei ha ricevuto una menzione speciale per il Giardino delle Vergini, da lei progettato, per la sua capacità di trasporre nel paesaggio il tema di quella Biennale, ovvero “People meet in Architecture”; quel giardino rimane l’unica testimonianza della sua opera innovativa nel Paese fondatore dell’Arte dei Giardini. In quale città italiana desiderebbe lasciare il segno della sua opera? Mi piacerebbe progettare in qualsiasi città che fosse in grado di mantenere il giardino conforme alla mia idea nel 44


Serpentine Gallery London, UK

tempo, usando i miei stessi strumenti e senza stravolgerne il senso. Lavorerei per una popolazione che si meriti “quel” giardino, che capisca che non lo avrei fatto uguale altrove. La manutenzione è l’attributo principale della progettazione. Vorrei lavorare per una città in cui le persone siano in grado di capire il valore del giardino, dove abbiano buon senso estetico e siano ricettive nei confronti di quel che intende il progettista. Il mio lavoro dipende da questo, da quanto la gente sia disposta e capace di seguirmi. 10 – Lei è stato definito da molti critici “rivoluzionario” nel campo della progettazione paesaggistica; cosa la preoccupa e cosa le dà speranza pensando al futuro della nostra società, in un’ottica di sostenibilità ambientale, sociale ed economica? Non sono un politico, cerco di contribuire con il mio lavoro, così che le persone vedano il mio lavoro e quello del mio team. Si tende a concepire il giardino come “factotum”, solo perché si vuole un po’ di verde nelle città. Il giardino invece è qualcosa che ha a che fare con la cultura. Ho più speranze che preoccupazioni, ma quella più grande riguarda ciò che la gente pensa e percepisce. Spero che si smetta di agire male e che le persone si muovano allo scopo di creare qualcosa che contribuisca, come cerco di fare io, a rendere il mondo un posto più bello.

Immagini: www.oudolf.com

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Vanessa Lastrucci Š



Caterina Padoa Schioppa è architetto con studio a Roma e Docente a contratto al Politecnico di Milano. Dopo aver studiato a Roma, lavorato a Parigi dal 2000 al 2002, nel 2002-2003 frequenta il Master in Landscape Urbanism all’Architectural Association di Londra. Nel 2005 si ristabilisce a Roma e nel 2009 consegue il Dottorato di Ricerca presso la Facoltà di Architettura di Roma Tre con una tesi oggi pubblicata con Aracne Editrice intitolata “Transcalarità e adattabilità nel Landscape Urbanism” Dipl.arch, MA Architectural Association, PhD Roma Tre padOAK studio web: www.padoak.com


Di una piazza contemporanea Lo spazio aperto al MAXXI,

luogo carico di “senso�

di Caterina Padoa Schioppa

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Teorema MAXXI

anche temporaneo, di ciò che gli sta intorno.

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er assurdo, la “piazza” del Maxxi a Roma è un teorema che discende da un unico assioma, e che recita così: uno spazio aperto per funzionare ha bisogno “solo” di una solida superficie di cemento, perforata da dodici tigli e qualche seggiola mobile. Il resto accade. Come il Rockefeller Center a New York e il Beaubourg a Parigi, questo è uno spazio nobilmente rimediato, i cui effetti sulla città sono non-intenzionali, presumibilmente scatenati dalla vitalità e dall’esuberanza di una grande architettura. Non è una piazza “progettata” alla maniera rinascimentale o barocca, frutto di una volontà pianificatrice, ma al contrario l’esito di un compromesso o di un fortunato errore. Nel progetto iniziale di Zaha Hadid, infatti, un volume costruito l’occupava. E’ più simile al vuoto frazionato, improvvisato tra edifici della città medievale, che si impregna della funzione o del contagio,

e piazze romane, come gran parte delle piazze italianeI, nel corso della storia hanno perso l’originaria ricchezza di funzioni e di ruoli, primo tra tutti quello di interpretare intelligentemente le situazioni orografiche, morfologiche e climatiche per potersi - per esempio - comportare come sistemi di drenaggio urbano. Hanno invece conservato la funzione sociale, divenendo progressivamente spazi scenici sovraccarichi di significati ideali, teatri della rappresentazione del potere, dell’organizzazione sociale ma anche del conflitto e del movimento insurrezionale. Pensiamo, proprio in questi giorni, a Piazza Taksim a Istanbul divenuta emblema di uno scontro politico che ha come oggetto la piazza stessa, ma che appunto rappresenta diverse, inconciliabili idee di potere.

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orse anche per questo si fatica a chiamarla piazza, quella del MAXXI, che difficilmente potrebbe trasformarIn alto: Piazza del MAXXI

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In basso: Lo spazio del MAXXI all’inaugurazione di He, l’installazione del giovane studio torinese bam! bottega di architettura metropolitana, vincitore di YAP MAXXI 2013

si in luogo della contestazione illecita. E tuttavia anche qui si ha la percezione di un processo creativo collettivo, nel quale viene continuamente ridefinito il rapporto funzionale, scenografico e tattile tra l’architettura e il vuoto, ma anche tra pubblico e privato. Si dirà che questo luogo non è propriamente “pubblico”. In effetti, il MAXXI rappresenta in modo esemplare la nuova e più complessa nozione di proprietàii. Come scrive Anna Lambertini “comune, collettivo, condiviso, associativo, partecipato, sono aggettivi che invitano a superare la contrapposizione pubblico/privato e a ricollocare varie specie di spazi aperti, sia pubblici che privati, come possibili ambiti di affermazione della realtà complessa dell’abitare insieme. È una prospettiva

che non nega il conflitto, ma che cerca di trasformarlo in dibattitoiii”. I nuovi eterogenei spazi aperti, come Jan Gehliv aveva pronosticato, devono necessariamente farsi “parco”, in senso figurato, o “giardino” per sopravvivere, cioè per scatenare l’interesse del pubblico. Qualcosa deve accadere.

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l MAXXI lo spazio minerale è tecnicamente non infrastrutturato - è una struttura minima che accoglie avvenimenti artistici e culturali, ordinari ed eccezionali – che, giudicato secondo i nostri standard urbanistici, non può essere considerato un “giardino”. Eppure si comporta come un giardino. Giardino di pietra o giardino secco, dove il prato è letteralmente un evento stagionale – arriva in bucce preconfe-

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zionate a giugno e viene rimosso con l’arrivo dell’autunno - che rievoca il principio taoista del wu-wei, la nonazione, il non-intervento.

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nche senza eventi programmati, lo spazio itinerante, effimero, mutevole, delimitato dal Museo da una parte, e la biblioteca, il bar, e il bookshop dall’altro, è colonizzato da persone di tutte le età – molti bambini per la verità – che, come direbbe Italo Calvino, scelgono questo come luogo per “realizzare i propri sogni”. L’assenza di oggetti per il gioco, per esempio, non sembra affatto dispiacere ai bambini, che per le loro invenzioni scelgono i sassi bianchi che ricordano quelli di Pollicino, o la strana panchina progettata dall’ar-

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chitetta irachena che ricorda il dorso dell’elefante del Piccolo Principe, o più semplicemente quel fondo levigato sul quale si può pattinare, correre, giocare a pallone tutti i giorni dell’anno. L’esperienza del vuoto e del bello è dunque di per sé un accadimento. Per questo, oltre che luogo di spettacolarizzazione e di eccessi, il MAXXI è anche paesaggio allegorico, onirico, che incoraggia la ricerca di “senso”, fisico e figurato.


Nella pagina precedente ed in basso: He, l’installazione del giovane studio torinese bam! bottega di architettura metropolitana, vincitore di YAP MAXXI 2013

Sodalizio Forma e Performance: Elogio dell’architettura eccezionale

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l paesaggio, come dice il paesaggista Michel Corajoud, costruisce superfici. “Faire surface… Alors que l’architecture cherche plutôt à faire face”V in francese suona come un’alternativa possibile o un passaggio evolutivo dell’architettura. Passare dal dipanare limiti e contraddizioni al liberare, dentro quei limiti e quelle contraddizioni, mondi possibili. Quella delle superfici sarebbe per così dire l’età adulta del divenire architettura, in cui non c’è più bisogno di identificarsi in maniera rigida e univoca con una funzione. Non c’è dicotomia tra face e surface nell’architettura di Zaha Hadid, e di

molti architetti della sua generazione, che hanno tradotto materialmente - in modo fin troppo letterale – la loro fusione in oggetti che sembrano nati stirando la pelle terrestre, piegandola, sagomandola ed infine abitandola. Questa sintesi estrema tra paesaggio e architettura emula a ben vedere il carattere instabile e imprevedibile della natura, quel carattere che Rem Koolhaas, nel suo primo capolavoro Delirious New York (1978), attribuisce alla metropoli, dove la natura è mero artificio. Gli edifici della cultura - musei, biblioteche, auditorium – sono così divenuti generi ibridi, infrastrutture preparatorie che accolgono e anzi invocano perturbazioni continue al proprio interno, e anche - almeno nelle intenzioni - dall’esterno. Una pertubazione, quest’ultima, che appare meno evidente se pensiamo ai corpi di cemento di

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Zaha Hadid, sospesi, storti, incisi, che incombono sulla piazza, e che sembrano maliziosamente nascondere occhi che vedono ma non son visti. Eppure, al contrario di come comunemente si immagina, questa architettura è tutt’altro che puro contenitore. Potremmo invece dire che è pura forma. “In opposizione alla nozione di libertà come assenza di architettura, ribattiamo che è il vincolo dell’architettura, la sua particolarità e persistenza formale, aldilà di qualunque determinazione funzionalista, che incarna l’unica vera libertàvi” così Reiser+Umemoto chiariscono la relazione tra flessibilità programmatica e strutturale, e determinismo formale. È l’idea della forma come performance, istigatrice di possibilità, di attività e di colonizzazioni spontanee. Una cornice che suggerisce ma non fissa. Un ribaltamento del concetto formale

di minimalismo, che in arte e in architettura è associato all’assenza, e che qui assume la sola valenza positiva di protagonismo dato all’uomo in spazi che provocano vertigine e dubbio. In termini matematici si direbbe che sono campi vettoriali che misurano attraverso l’intensità le infinite variazioni di stato. L’idea di intensità – pregna peraltro di significati filosoficivii - bene descrive il carattere degli spazi contemporanei che, come nel caso del MAXXI, non distinguono più il dentro dal fuori. Sono comunque spazi pensati per essere “allestiti”, occupati e semantizzati, o anche semplicemente attraversati. La riuscita dello spazio aperto del MAXXI dipende infatti prima di tutto dall’aver generato una piccola faglia urbana, con l’apertura di un varco - che è anche scorciatoia - tra due entità prima separate. In alto: Piazza del MAXXI - giugno 2013

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Nella pagina seguente: He, l’installazione del giovane studio torinese bam! bottega di architettura metropolitana, vincitore di YAP MAXXI 2013


Mecenatismo YAP

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l 25 giugno lo spazio ha inaugurato He, l’installazione del giovane studio torinese bam! bottega di architettura metropolitana, vincitore della terza edizione di YAP MAXXI, il programma di promozione e sostegno della giovane architettura – ammessi solo professionisti sotto i 35 anni - organizzato dal MAXXI Architettura, in collaborazione con il MoMA/MoMA PS1 di New York, Constructo di Santiago del Cile e, per la prima volta, Istanbul Modernviii.

YAP è solo una delle tante iniziative che il Museo propone per animare la sua piazza, ma è certamente la più importante. Alla celebrazione di un evento stagionale corrisponde la volontà durevole del MAXXI di fare ricerca e di sperimentare. E’ l’espressione di un nuovo mecenatismo culturale che investe sull’effimero per lasciare altrove tracce permanenti. He è una stanza sospesa nel cielo fatta di strati di velo che si agitano con il

vento e dalla quale, come per magia, gocciola l’acqua. Mutevole nell’aspetto, perfino nel colore – al tramonto quel giallo si tinge di arancio e poi di rosso percorrendo tutti i toni dell’arcobaleno – He di notte si trasforma in una luminosa lanterna cantastorie. Come già nell’installazione YAP 2011 WHATAMI di stARTT – le isole mobili di un arcipelago immaginario dove sorgevano i grandi fiori rossi – i giovani architetti si confrontano con la grande architettura per opposizione, ma solo apparente, incarnando perfettamente lo spirito della nostra epoca. Negli interstizi della città, dove troppo raramente si autorizza l’architettura, ancorché temporanea, a svolgere il ruolo di vitale intensificatore urbano, spesso emerge la capacità di trasformare il tema del riciclo, della scarsità di risorse economiche in ricerca estetica, ed anche di integrare l’innovazione tecnologica – a volte solo visibile nel processo generativo dell’architettura e non più nella propria manifestazione materiale – nell’azione sociale.

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Ma qui c’è qualcosa di più. Come WHATAMI, He è una prova di maturità espressiva in un contesto difficile, non certo per la sua componente sociale, che sappiamo qui essere fin troppo fortunata. Il dialogo con l’architettura di Zaha Hadid è al tempo stesso serio e scherzoso, rispettoso ma non inibitorio, motivato dal bisogno di distinguersi ma anche di accordarsi. Nel dare forma ad uno spazio di cui si vuole mettere in scena la duplice natura corporea ed eterea, costretta e sfrontata, He imita il Museo. E’ molto più che un bel abito. E’ un oggetto assertivo e vistoso che riesce però a solleticare l’immaginario collettivo, popolare e fiabesco.

Note I-Barbiani, L. (a cura di) (1992) La piazza storica italiana. Venezia, Marsilio Editori II-Nell’attuale dibattito si tenta di far cadere la distinzione netta – e forse addirittura pleonastica e anacronistica – tra pubblico e privato. Tra le innumerevoli sedi in cui tale dibattito prende forma, si segnala il recentissimo convegno “Città pubblica/ Paesaggi comuni” tenutosi a Roma presso il Dipartimento di Architettura di Roma Tre, che ha prodotto la pubblicazione: Lambertini, A & Metta, A. & Olivetti, M.L. (a cura di) (2013) Città pubblica/Paesaggi comuni. Roma, Gangemi III-Ibidem p. 262 IV-Gehl, J. (2010) Cities for People. Washington, Island Press V-Corajoud, M. (2004) L’Horizon Intervista per la Rivista Face VI-Reiser+Umemoto (2006) Atlas of Novel Tectonics. New York, Princeton Architectural Press VII-In Deleuze, G. (ed. 2000) Différence et répétition. Paris, PUF Editions; DeLanda, M. (ed. 2012) Intensive Science & Virtual Philosophy. London – New York, Continuum VIII-Per approfondire si veda il sito: http://www.moma.org/interactives/ exhibitions/yap/

In alto: Piazza del MAXXI - giugno 2013

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Vanessa Lastrucci Š


Vanessa Lastrucci Š


Valerio Massaro Š


Caterina Fusi Mi piace guardare gli intrecci che avviluppano un territorio alle sue dinamiche storico-sociali. A Firenze vivo e studio fino alla laurea in Urbanistica con una ricerca sul tema della sicurezza e l’uso degli spazi pubblici. Collaboro con Casa Spa, società di Edilizia popolare, con l’IRPET, e vinco una borsa di studio per una ricerca sui piani strutturali in Toscana. Poi cambio scenario e mi trasferisco per due anni a Cork, nel sud dell’Irlanda, dove lavoro a progetti di edilizia scolastica in uno studio locale. Oggi sono di nuovo con le valigie in mano, destinazione Brasile.


cartolina

da cork

mano mano piazza... di Caterina Fusi

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L

a Piazza, la Chiesa e il Bar. Intorno un paese, e a crescere, una città. Ci sono elementi che sono più forti di un lessico famigliare, come questo trittico, sicuramente italiano. Piazza è salotto, teatro, gioco; piazza mediatica, soggetto politico; piazza grande o del mercato.Ma cosa succede quando ci si trova a vivere in una città senza Piazze? Cork, seconda città dell’Irlanda, capoluogo della regione del Munster, capitale europea della cultura 2004, tra le dieci città da visitare secondo i consigli Lonely Planet 2010, è una città senza Piazze. Senza neanche una Piazza. E questo mi mette a disagio. Me, non gli abitanti di Cork, evidentemente. Alle mie interrogazioni alcuni hanno mostrato stupore a loro volta, come se avessero appena fatto una scoperta; altri hanno riso e alzato le spalle, come a

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dire che sì era vero, ma in fondo era una questione di poco conto. Per me, di poco conto, non lo è mai diventata, neanche con l’abitudine di oltre un anno ivi trascorso. Cork è un dedalo di vie, più o meno strette od ampie, più o meno rette o curve, senza un punto di origine e di approdo. E la sensazione è quella del passaggio, volendo esasperare, del movimento perpetuo. Si tira innanzi a passo svelto passando da un’insegna all’altra in un ritmo cadenzato. Mi manca qualcosa in questo passeggiare. Me lo rivela la frenesia con cui getto lo sguardo intorno, come a cercare l’interruzione del ritmo, la variazione di scorci e profondità. A cercare quei temi collettivi che esprimono il linguaggio della città e le volontà di chi la abita. Mi guardo indietro, mi appello alla


Storia. Cork è stata edificata su una palude. Il suo nome deriva dal gaelico Corcach Mór Mumhan – La grande palude del Munster - e non come si potrebbe pensare dall’inglese Cork – Sughero. Non terra, ma acqua quindi. primi insediamenti risalgono al VI secolo e fu opera dei vichinghi la sua progressiva bonifica. Il centro si trova su un isolotto formato da due bracci del fiume Lee. Al suo interno gli assi viari hanno la struttura di pettini, distribuiti attorno a quelli che un tempo erano i principali canali di acqua e che oggi sono diventati le strade più ampie e moderne. Grand Parade, St. Patrick Street e South Mall sono le vie principali, una sorta di anello che racchiude il salotto buono, quello tirato a lucido con un restauro urbano di fine ‘900 per omaggiare la corsa della tigre celtica. (Poi si trattava di un vicolo cieco. Ma in-

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tanto enormi centri commerciali, ampi parcheggi, insediamenti residenziali di case a schiera monofamiliari erano stati tirati su ad ogni cantone. Oggi, monumenti all’illusione). Di Piazze non vi è traccia in documenti e immagini storiche e successivamente sono state escluse dalla ristrutturazione, sostituite da loisir dai marciapiedi ampi per passeggiare in un sistema di connessione protetto. E allora quali sono i luoghi della relazione? Dal dizionario inglese square si traduce in piazza-quadrato-piastrella. Una forma quindi. Nessuna connotazione sociale com’era invece propria dell’Agorà, che deriva dal verbo “riunirsi”, luogo di incontro e discussione collettiva. Qualcosa del genere è rimasto nella lingua francese che usa il termine place per indicare anche un impegno

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o un dovere in cui restare, o in italiano dove la piazza diventa anche la trasposizione di un soggetto politico. I manifestanti che scendono in Piazza qui take to the streets, si prendono le strade. Ed avviene alla lettera. Gli scioperi, quasi mai di categoria, ma di singoli gruppi di lavoratori, si fanno protestando davanti all’ingresso del proprio posto di lavoro, cartello alla mano e gilet giallo, quello omologato per la sicurezza. È uno sciopero. Strike. La vertenza si gioca in maniera diretta fra datore e lavoratore. La cittadinanza tutta non è invitata, non c’è nessuna azione che aspiri al coinvolgimento di un sentimento civico e collettivo. o spazio pubblico è come compresso. La prima conseguenza è una fruizione più morbida degli spazi privati. Per incontrare gli amici si va in un

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locale, caffè e pub, che sono i veri spazi di relazione quotidiana. Al caffè ci si ferma per bere una bevanda, chiacchierare, leggere o lavorare al proprio portatile. Senza fretta, vi si possono trascorrere ore senza sentirsi in difetto di consumazione. Così come al pub, istituzione locale, di cui fruiscono tutti indistintamente da età e provenienza. È al bancone di un pub che diventa normale incontrare uno sconosciuto con cui parlare del tempo o del tuo paese e che ti offre una birra in segno di omaggio. Poi ci sono le manifestazioni pubbliche, i festivals di musica e teatro. In ottobre si rinnova ogni anno l’appuntamento con il Cork Jazz Festival, manifestazione che vanta un ottimo livello per gli amanti del settore. Di nuovo sono gli spazi privati ad essere aperti, teatri, pub e, per esigenza di numeri,


gli hotel, che mettono a disposizione le loro ampie sale. Ricapitolando, esistono, come è ovvio che sia, momenti di incontro e socialità, ma tutti filtrati dall’uso di uno spazio privato. E questo lo si percepisce. Manca una Piazza. La Piazza come simbolo dello spazio pubblico è quel luogo dove i mutamenti sociali, economici e culturali lasciano la propria traccia, ridefinendo simboli ed identità, stratificando significati e valori. È allo stesso tempo memoria e prospettiva di una collettività. È uno spazio ad uso non strettamente codificato, spazio di passaggio, di sosta, di scambio, di gioco, e per questo di coesione o di conflitto. È la rappresentazione democratica dell’uso di una città e di un territorio. È libertà di espressione. Qui manca, e mi mette a disagio.

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Vanessa Lastrucci Š


Valerio Massaro Š


il libro

Enrico Falqui Direttore responsabile di Network in Progress, docente presso l’ Università degli Studi di Firen¬ze, Direttore del laboratorio di ricerca in Architettura ed Ecologia del paesaggio (Lab AEP), DIDA, Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze

La bellezza civile: splendore e crisi della città di Giancarlo Consonni, Maggioli Ed. 2013, Rimini

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Le recensioni di

La bellezza civile:

splendore e crisi della città

di Enrico Falqui

“Mai nella storia si è costruito come dal 1955 ad oggi, mai nella storia si è prodotta tanta bruttezza”. Con questa affermazione, ha inizio il bel libro di Giancarlo Consonni, ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, che indaga le cause della crisi della città contemporanea “come teatro, dove tutta la società si ritrovava e si rappresentava.”

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La separazione dell’Urbanistica dall’Architettura, afferma Consonni, ha avuto effetti nefasti: l’urbanistica si è arroccata nell’approccio funzionalista e quantitativo e, “restringendo l’ambito di elaborazione a retoriche mistificanti, è divenuta ancella del Principe di ogni territorio. L’Architettura, per la sua parte, è venuta dissolvendosi in vacui formalismi“, abituandosi a dividere ciò che è inscindibile, focalizzando l’attenzione sui singoli oggetti architettonici, trascurando il risultato d’assieme”. Eppure, in Italia, la nozione di “bellezza civile”, ci era stata trasmessa da Giovan Battista Vico, attraverso due paradigmi fondativi: il primo che la qualifica come “bellezza di ciò che è civile”, cioè una bellezza della Città che scaturisce dall’agire in modo civile; il secondo che la rappresenta come “civiltà di ciò che è bello”, ovvero come necessità del singolo cittadino e della Comunità di produrre Bellezza. La sintesi di questi due paradigmi ci permette di capire, ripercorrendo l’evoluzione storica della Città nel nostro Paese, che la Bellezza delle città e dell’Architettura ha avuto il suo terreno di cultura nei legami civili, nella tensione ad un’identità collettiva e nel

il libro

e riflessioni di Consonni non riguardano solo la fisicità di quel che è stato realizzato dal dopoguerra ad oggi, ma soprattutto la cultura sottesa alle trasformazioni urbanistiche che hanno deformato gran parte delle città italiane, durante questo periodo.

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il libro

radicamento dei cittadini in ragioni di senso. “L’arte di costruire la Città, non può non misurarsi con la questione del Senso delle cose, del Senso della vita di una Comunità”. Uno dei nodi cruciali, nella ricerca rigorosa che Consonni espone per spiegare la dissoluzione progressiva del concetto di “Bellezza” nella cultura e nei valori etico-sociali delle nostre Comunità, consiste nel mutato rapporto tra il cittadino e l’abitazione, più in generale, tra Civitas e Urbs. L’errore dell’Urbanistica moderna è stato quello di ridurre i desideri degli uomini a diritti codificati nella dottrina della Pianificazione, imponendoli dall’alto. Le conclusioni non forniscono una ricetta magica e assoluta per ripristinare quell’“Arte del fare Città”, a cui l’Autore richiama continuamente il lettore, denunciando la “disurbanità dilagante”, la caduta della sintassi urbana, lo scivolamento dell’Architettura verso il messaggio pubblicitario. Consonni propone ai “cultori” del progetto di Architettura e Pianificazione della Città un “patto di riconoscimento” reciproco, per uscire dalla crisi della città e “invertire la rotta”. Si tratta di riconoscere, per entrambi, che “gli organismi urbani hanno tratto storicamente la loro struttura dai modi di regolare i rapporti tra spazi pubblici e privati e, successivamente, che in tutto questo hanno operato una misura e una spazialità in cui si sono espressi una sensibilità condivisa e un sistema di regole (per lo più non scritte) che attengono ai rapporti sociali ed interpersonali. Dunque, l’opera costruttiva come il progetto di città rappresentano un seme che viene sparso sul territorio. Ma questo non basta a riprodurre quel concetto Vichiano di Bellezza nelle nostre città: ma è la “ricchezza del seme”, ovvero la capacità del disegno urbano e dell’architettura di interpretare il senso del luogo, la sostenibilità ecologica e sociale del piano urbano e del suo progetto paesaggistico che determinano il progressivo ripristino della Bellezza e dell’Arte di costruire la Città, a misura della felicità di chi la vive e la abita.

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