Jobs Act. Il mercato del lavoro, due anni dopo.

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JOBS ACT

IL MERCATO DEL LAVORO DUE ANNI DOPO

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Jobs Act Il mercato del lavoro due anni dopo Una pubblicazione Neos • Notizie Economia Opinioni Soluzioni a cura di Francesco Beraldi & Ivan Lagrosa Con il sostegno di Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi e in collaborazione con CEST • Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari Traduzioni Dr. Janet Rutherford Progetto grafico Riccardo Agosto, Daniele De Luca, Martina Spalla Stampa PressUp s.r.l. Questo libro rispetta l’ambiente L’azienda utilizza prodotti marchiati FSC C109382 e PEFC/18-31-42 Stampato nel mese di giugno 2017. Questo lavoro è sotto la licenza di Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0 International License. Per leggere una copia della licenza è possibile visitare il sito http://creativecommons.org/licenses/by-nc/4.0/ o mandare una lettera a: Creative Commons, PO Box 1866, Mountain View, CA 94042, USA. NEOS ringrazia il Collegio Carlo Alberto per aver contribuito economicamente alla realizzazione del rapporto. Le opinioni espresse nel presente lavoro sono quelle degli autori e non impegnano in alcun modo il Magazine Neos, gli enti che hanno contribuito a vario titolo alla realizzazione del report e gli intervistati. Ogni errore o omissione è inoltre da attribuirsi esclusivamente agli autori. Per commenti e segnalazioni scriveteci a redazione@neosmagazine.it


Che cos’è NEOS Magazine Fondato nel 2015 da un gruppo di studenti accomunati da un background economico, Neos • acronimo per Notizie Economia Opinioni Soluzioni • nasce con l’intento di creare una rivista di studenti universitari che tratti tematiche di attualità politica ed economica attraverso analisi di stampo accademico, ma dal profilo divulgativo. Il nostro obiettivo è dare agli studenti l’opportunità di valorizzare e accrescere sin da subito le competenze che acquisiscono durante il loro percorso di studio, approfondendo le tematiche di proprio interesse e facendosi così da tramite tra un pubblico giovane e le riviste specializzate. Da un lato, Neos arricchisce quindi l’esperienza di chi partecipa al progetto e, dall’altro, si impegna a restituire alla collettività un valore attraverso il proprio lavoro: articoli, dossier e interviste a numerose personalità di spicco vengono infatti pubblicati con costanza attraverso i nostri canali online. Il vero asset che rende Neos speciale è il nostro team: la redazione è composta da un vivace gruppo di oltre trenta studenti, sempre alla ricerca di stimoli e di occasioni per valorizzare le proprie capacità, contribuendo a diffondere un’analisi chiara e divulgativa. Nel nostro team sono rappresentate oltre dieci Università e Scuole di Eccellenza da tutta Italia: dall’Università Bocconi di Milano, alla Luiss, alla Sapienza di Roma; dal Collegio Carlo Alberto alla Scuola di Studi Superiori di Torino, al Sant’Anna di Pisa, senza dimenticare la Business School europea École Supérieure de Commerce de Paris. Alcuni dei nostri redattori contribuiscono allo sviluppo del Magazine dall’estero, permettendo così una maggiore pluralità nel team e nelle tematiche affrontate. Questa diversità si profila anche dal punto di vista dell’ambito di studio dei redattori: attorno al nucleo con un background economico, si è infatti sviluppata una cornice che copre tutte le maggiori discipline universitarie, permettendoci così di arricchire ulteriormente il panorama delle materie affrontate.


Indice Introduzione • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 6 1 • Un mercato del lavoro duale • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 8 Intervista a Tito Boeri • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 22 2 • NEET e mercato del lavoro europeo • • • • • • • • • • • • • • • • • 28 Intervista a Alessandro Rosina • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 40 3 • Il Mezzogiorno: crisi e prospettive di sviluppo • • • • • • • • 48 4 • Le riforme del mercato del lavoro in Italia, dal 2000 al Jobs Act • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 58 Intervista a Elsa Fornero • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 68 5 • L’andamento dei contratti e del mercato dopo l’introduzione del Jobs Act • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 80 Intervista a Pietro Garibaldi • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 96 6 • L’evoluzione della disciplina del licenziamento • • • • • • • • 102


Intervista a Andrea Ichino • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 114 Intervista a Piero Martello • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 122 7 • Le politiche del lavoro dopo il Jobs Act • • • • • • • • • • • • • 132 Intervista a Maurizio Ferrera • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 142 8 • La conciliazione tra esigenze di cura, vita e lavoro nel Jobs Act • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 148 Intervista a Daniela Del Boca • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 162 9 • Il lavoro accessorio e l’esperienza dei voucher • • • • • • • • • 166 10 • Germania: dal “Piano Hartz” ai giorni nostri • • • • • • • • 186 11 • Loi Travail: la via francese al Jobs Act • • • • • • • • • • • • • 200 12 • Flessibilità e strumenti per l’impiego: la ricetta spagnola alla crisi • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 212 13 • Il diritto del lavoro in una panoramica europea • • • • • • 224 Autori • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • 236



Sono passati due anni dall’approvazione del Jobs Act, un tempo che inizia ad essere sufficiente per soffermarsi ad analizzare quanto avvenuto in Italia a seguito della Riforma. Questo report si propone non solo di valutare le dinamiche dell’ultimo biennio, ma anche di ripercorrere le decennali trasformazioni che le hanno innescate e di costruire una prospettiva di confronto europeo. Il Magazine Neos, composto per lo più da studenti e neo-laureati provenienti da diverse università italiane, ha lavorato negli ultimi mesi a questa pubblicazione, con l’intento di fornire una panoramica organica e completa del mercato del lavoro italiano e non, e di spiegare la riforma del Governo Renzi e le sue implicazioni economiche e sociali attraverso una pluralità di voci e prospettive, cifra distintiva del team di lavoro. Per questo motivo i capitoli sono inframmezzati da interviste ad alcuni tra i più importanti studiosi italiani del mercato del lavoro. La pubblicazione si apre con un’analisi della dualità che caratterizza il mercato del lavoro italiano, che rappresenta forse la migliore chiave di lettura per capire le riforme del lavoro che sono state introdotte negli ultimi anni. Due focus – su giovani e Mezzogiorno – approfondiscono la tematica dal punto di vista generazionale e territoriale. L’approccio diventa poi giuridico nel passare in rassegna le principali riforme del lavoro degli ultimi anni: dalla Legge Biagi alla Riforma del Governo Monti, al Jobs Act, per poi analizzare i trend che hanno caratterizzato il mercato a seguito dell’introduzione di questa ultima riforma. I quattro capitoli successivi approfondiscono da un punto di vista più strettamente economico tematiche quali il licenziamento, le politiche del lavoro, la maternità e il sistema dei voucher. L’ultima sezione è dedicata all’inserimento delle specificità italiane in un contesto europeo ed internazionale, grazie ad una serie di focus su altri Paesi europei quali Francia, Germania e Spagna. La panoramica si conclude con un ampio capitolo sul diritto del lavoro in una prospettiva europea, che permette di capire il ruolo dell’UE nella regolazione del lavoro e inquadrare una volta di più il Jobs Act nel più ampio contesto internazionale. Questa pubblicazione è stata resa possibile grazie al generoso contributo di alcune realtà, che hanno concorso in diverse forme alla riuscita del report: il Collegio Carlo Alberto, il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi e il CEST – Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari. Un grazie va inoltre a tutti gli intervistati.

INTRODUZIONE

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Introduzione La dualità nasce da riforme che negli anni hanno liberalizzato il mercato del lavoro in maniera distorta (Boeri, 2010); ad una forte, e giusta, domanda di flessibilità proveniente dal mercato, il legislatore ha risposto introducendo nuove forme contrattuali, a margine di quella che ancora oggi viene considerata una delle vie principali di ingresso nel mercato: il contratto a tempo indeterminato. La maggiore flessibilità prevista da tali tipologie contrattuali non è stata però accompagnata dall’introduzione di tutele aggiuntive e, per certi versi, compensative a favore dei lavoratori. Questi interventi ai margini hanno così lasciato sostanzialmente inalterata la disciplina del contratto a tempo indeterminato, andando a creare importanti e sostanziali disparità di trattamento fra gruppi di lavoratori. La bassa crescita economica degli ultimi anni, innestata su tale contesto, non ha fatto altro che allargare la forbice delle diseguaglianze. La Figura 1.1 mostra chiaramente l’effetto degli interventi di liberalizzazione sulle forme contrattuali temporanee, utilizzate per la maggior parte da giovani lavoratori: mentre la protezione dei lavoratori a tempo indeterminato è rimasta inalterata fino al 2012 – quando è entrata in vigore la Riforma del lavoro del Governo Monti – le forme di lavoro precario hanno man mano visto ridursi il loro indice di protezione.

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La disoccupazione: un’analisi per classi Tra i principali indicatori dell’andamento del mercato del lavoro rientra a pieno titolo il tasso di disoccupazione, che considera gli individui (i) senza un’occupazione, (ii) disponibili da subito a lavorare, (iii) attivamente impegnati in attività di ricerca, e li rapporta al totale della forza lavoro (occupati e disoccupati). Come si comprende facilmente da questa definizione, il dato ci restituisce un’immagine non completa – e nel caso del tasso di disoccupazione giovanile anche fuorviante – della situazione occupazionale nel mercato. I dati Istat del 2015 (Grafico 1.2) mostrano per esempio come la percentuale di persone che attualmente non lavorano e che vengono classificate come disoccupate sia relativamente piccola rispetto al totale delle persone senza lavoro. Tra le categorie considerate, di particolare interesse risulta la categoria delle persone scoraggiate, le quali hanno smesso di cercare un’occupazione dal momento che ritengono eccessivamente basse le probabilità di trovarne una. La percentuale di questa tipologia di persone rimane pressoché costante tre le varie fasce di età. Nel grafico, inoltre, è stata inclusa anche la categoria dei lavoratori che svolgono un’attività lavorativa part-time non per scelta. Questi, infatti, sarebbero disposti ad accettare un’occupazione a tempo pieno nel caso la trovassero e, volendo ampliare la nostra panoramica, possiamo quindi includerli fra i lavoratori (in parte) disoccupati, o sottoccupati, come vengono spesso definiti. Nelle righe successive questa categoria sarà oggetto di un maggiore approfondimento. Considerando il tasso di disoccupazione, una delle più importanti dualità che caratterizzano il nostro mercato riguarda la sua segmentazione per classi di età: giovani da una parte, fasce più anziane dall’altra e nel mezzo un mercato del lavoro che offre possibilità occupazionali decisamente diverse in base alla classe di appartenenza. Se, per esempio, i giovani tra i 15 e i 24 anni costituiscono circa il 6% della forza lavoro del Paese, essi pesano per circa il 20% sul dato della disoccupazione. Per contro, mentre i lavoratori tra i 45 e i 54 anni rappresentano il 30% della forza lavoro, essi pesano per solo il 20% sul numero dei disoccupati. In termini relativi, emerge quindi come i giovani fra i 15 e i 24 anni siano nettamente sovra-rappresentati sul totale dei disoccupati. In assenza di diseguaglianze fra i gruppi considerati, dovrebbe esserci una sostanziale parità fra il peso che ogni classe esercita in termini di forza lavoro e di disoccupazione (Adda, Trigari, 2016).

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Il grafico 1.3, però, considera la disoccupazione totale, e tiene quindi anche conto di quella di breve periodo, minore di un anno. Di conseguenza, è possibile trovare alcune attenuanti frizionali che possano giustificare un maggiore tasso di disoccupazione giovanile, sebbene la differenza osservata sia comunque difficilmente riconducibile solo ad esse. Una prima spiegazione risiede nel fatto che tra le fasce di età più giovani occorrano tempo e diversi tentativi prima di trovare un’occupazione in linea con le aspettative. Cambi repentini di attività intervallati a periodi di disoccupazione non fanno altro che peggiorare il dato negativo della categoria; inoltre, soprattutto nella fascia di età 15-24, coloro che entrano nel mercato del lavoro sono in media meno istruiti e danno quindi origine ad un fenomeno di selezione avversa,

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che aumenta le loro difficoltà di trovare un’occupazione. Questa medesima tipologia di comparazione usata per le classi di età risulta essere distorta anche a svantaggio delle regioni meridionali, delle donne e delle classi meno istruite. Rimanendo sulla suddivisione per classi di età, se una percentuale dell’alto tasso di disoccupazione giovanile potrebbe essere in parte anche spiegata con dinamiche frizionali, questa possibilità viene meno se guardiamo al tasso di disoccupazione di lungo periodo, definito dall’Istat come maggiore di un anno. I grafici 1.4 e 1.5 mostrano come i dati rimangano fortemente distorti a sfavore sia dei più giovani sia delle regioni meridionali; e in entrambi i casi la crisi economica non ha fatto altro che aumentare il gap fra le categorie considerate.

Un dato che per le categorie più giovani resta in linea con le altre classi di età – se non persino migliore – riguarda invece la durata del periodo prima di trovare un lavoro, che per circa la metà dei disoccupati di età inferiore ai 24 anni rimane più breve di un anno. Le stesse percentuali considerate sul totale della popolazione sono perlopiù sovrapponibili, con il dato dei disoccupati per un periodo inferiore all’anno leggermente minore.

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Infine, la situazione occupazionale femminile. Se l’Italia, nel complesso, è caratterizzata da tassi di occupazione aggregati più bassi della madia EU – e ancora lontani dagli obiettivi prefissati – l’andamento del tasso di occupazione femminile nel nostro Paese è persino peggiore, con un gap nei confronti dei Paesi europei che da anni si mantiene costante a circa 15 punti percentuali. A fronte di questo trend non soddisfacente, se paragonato ai nostri partner europei, risulta però interessante notare come, all’interno del nostro Paese, negli ultimi anni il tasso di occupazione femminile sia cresciuto di più rispetto a quello maschile,

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con risultati che sono stati nettamente positivi nel Nord e Centro Italia, e soddisfacenti, soprattutto se paragonati con il crollo del tasso di occupazione maschile, nel Mezzogiorno.

Le dualità nelle dinamiche contrattuali Come anticipato in apertura del capitolo, la dualità del mercato del lavoro italiano si riscontra, oltre che nelle dinamiche del tasso di disoccupazione, anche nelle tipologie contrattuali con cui persone appartenenti a classi diverse risultano occupate. E la tipologia di contratto è ben lontana dall’essere una semplice questione formale in quanto, oltre a rispecchiare una segmentazione del mercato prevalentemente per fasce di età, come vedremo al termine del capitolo, anche questo tipo di dualità può avere importanti conseguenze. Con riferimento ai dati Eurostat e Istat, le figure 1.9 e 1.10 mostrano la suddivisione del totale degli occupati per tipologia contrattuale, prima (2007) e dopo (2015) la grande crisi, per le classi di età 15-24 e 55-64. Gli andamenti dei due gruppi risultano alquanto interessanti. Da una parte, infatti, la crisi economica ha inciso in modo negativo e profondo sulla percentuale di giovani con un contratto a tempo indeterminato, che è passata dal 49,3% al 36,3%; l’effetto della crisi sulla stessa tipologia contrattuale per gli over 55 è stato invece contrario: mentre nel 2007 gli impiegati a tempo indeterminato erano il 60,3%, nel 2015 la stessa percentuale è salita al 68,9%. Inoltre, mentre per questa categoria la percentuale degli occupati a tempo determinato è aumentata solo dallo 0,2%, l’incremento dello stesso dato sugli under 25 è stato decisamente più alto, pari al 12,7%. Infine, se la percentuale di lavoratori autonomi è rimasta pressoché costante per i più giovani, questa si è ridotta di circa un terzo per i lavoratori più anziani. L’andamento dei contratti a tempo determinato diversificato per fasce di età restituisce quindi un’immagine chiara di come la dualità presente nel nostro mercato in termini di diverse tipologie contrattuali, come anticipato, spesso rispecchi e ricalchi una segmentazione per fasce di età. E la figura 1.11 rappresenta in modo ancora più plastico questo fenomeno.

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Lasciando per un attimo da parte l’analisi in termini di fasce di età e considerando il dato aggregato, risulta interessante notare come la percentuale di persone occupate con contratti a termine in Italia sia nel complesso perfettamente, e in maniera quasi sorprendente, in linea con la media europea e con altri Paesi quali Francia o Germania e persino nettamente inferiore rispetto ad altri quali la Spagna. Questo dato positivo non tiene però conto di un numero elevato di lavoratori autonomi, decisamente sopra la media europea; spesso, questa tipologia contrattuale viene utilizzata da persone che de facto sono impiegate come veri e propri lavoratori dipendenti a tempo determinato, con ancora meno garanzie rispetto a questi ultimi. Ma quanto dura, in media, un contratto a tempo determinato? Il grafico 1.14 restituisce un’immagine alquanto netta di

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come per la maggior parte dei casi i contratti temporanei vengano utilizzati per periodi molto brevi, minori di anno per circa l’80% dei casi. Un tale utilizzo dei contratti a tempo determinato è sicuramente coerente con il loro scopo e mette in luce una volta di piĂš le reali esigenze di flessibilitĂ provenienti dal mercato. Ciononostante, come emerge anche dai numeri decisamente elevati di imprese che decidono di utilizzare tale strumento di impiego, il contratto a tempo determinato viene ancora e spesso utilizzato

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per ridurre i costi di produzione piuttosto che per far fronte ad esigenze transitorie di aggiustamento della forza lavoro – soprattutto in periodi di forte incertezza – o di valutazione dell’adeguatezza del lavoratore rispetto alla posizione per cui è stato assunto. Come vedremo, il contratto unico a tutele crescenti risponde ad entrambe queste esigenze in maniera più efficiente rispetto al contratto a tempo determinato.

Il part-time involontario Spesso poco considerato, il dato sui lavoratori part-time non per scelta propria può essere considerato un buon indicatore della salute di un mercato del lavoro e delle sue diseguaglianze circa le possibilità di accesso. Anche in questo caso, infatti, le differenze tra i gruppi di lavoratori prima considerati sono rilevanti: se quattro lavoratori part-time su cinque, tra i 15 e i 24 anni, sono lavoratori part-time involontari, la stessa proporzione scende ad un lavoratore su due nelle classi di lavoratori di età più avanzata. Questa differenza percentuale tra le due categorie è aumentata di cinque punti percentuali dall’inizio della crisi al 2015. E ancora, a fronte di un incremento nettamente contenuto nella differenza tra lavoratori e lavoratrici part-time involontari, il gap è aumentato significativamente, triplicandosi, fra persone con un titolo di studio elementare o inferiore e persone con una laurea o un titolo di studi superiore. Se nel 2007 tale differenza era del circa il 7%, lo scorso anno ha sfiorato quota 19%: mentre circa un lavoratore part-time su due con un titolo di laurea è in tale situazione lavorativa non per scelta propria, questa percentuale sale a quota 72% tra i lavoratori meno istruiti. Se il dato considerato per fasce di età mette in luce una volta di più la disomogeneità delle opportunità lavorative che il mercato offre agli individui più e meno giovani, dobbiamo però tener conto di come al crescere dell’età sia certamente ragionevole che le necessità, magari per motivi familiari, di ottenere un’occupazione part-time cresca e che quindi il dato considerato – il part-time involontario – diminuisca. È però parimente evidente come quel divario così elevato fra le classi di età non possa essere solamente spiegato con le diverse esigenze dei lavoratori durante il corso della vita ma raffiguri una via di accesso al mercato del

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lavoro sempre più obbligata per le fasce più giovani, benché non preferita.

Uno sguardo sulle conseguenze Questa breve panoramica del nostro mercato del lavoro ha messo in luce la sua forte dualità e le diverse angolazioni da cui è possibile analizzarla. Ma quali le sue conseguenze? Oltre ad effetti negativi sulla fiducia e sul morale dei lavoratori – che possono portare ad un aumento del fenomeno dello scoraggiamento, per esempio – la prima conseguenza di un tipo di occupazione temporanea risiede nel fatto che tale tipo di contratto offre in media minori possibilità di formazione sul posto di lavoro (Grafico 1.16). E questa carenza di formazione continua, sommata a periodi di disoccupazione, non fa altro che accrescere il gap fra le competenze richieste dalle imprese e quelle in possesso del lavoratore, il quale vede così ridursi ulteriormente le possibilità di essere rioccupato, una volta terminata la copertura del contratto. Inoltre, un’occupazione temporanea, magari spesso intervallata da periodi di inattività, porta il lavoratore ad ottenere pensioni in prospettiva più basse, a causa dei minori contributi versati durante la vita lavorativa. Considerando infine una prospettiva più marcatamente macroeconomica, il fatto che un numero consistente di giovani occupati sia impiegato con contratti di lavoro temporanei comporta una maggiore volatilità del tasso di occupazione giovanile,

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con una più marcata diminuzione durante i periodi di recessione ed una più rapida ripresa, rispetto alle altre categorie di età, durante una fase espansiva (Bentolila et al., 2010).

Un tale tipo di segmentazione che penalizza le fasce di età più giovani rischia infine di incidere negativamente e in maniera consistente da una parte sulla produttività – e quindi sul grado di competitività delle nostre imprese; dall’altra, di pari passo, un mercato che non è capace di rinnovare la sua forza lavoro è un mercato che, in media, sarà meno capace di sfruttare le possibilità di sviluppo che le nuove tecnologie offrono.

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Fonti Adda Jérôme, Trigari Antonella, Labor market inequalities across Italian demographic groups: a focus on the youth and the long-term unemployed, Bocconi Policy Brief 01 (2016). Boeri Tito, Garibaldi Pietro, Un nuovo contratto per tutti, Milano, Chiarelettere (2008). Boeri Tito, Garibaldi Pietro, and Espen R. Moen, Inside severance pay. No. 47, Sciences Po (2016). Boeri Tito, Garibaldi Pietro, Two tier reforms of employment protection: A honeymoon effect? The Economic Journal 117.521 (2007). Del Punta Riccardo, L’economia e le ragioni del diritto del lavoro, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali (2001). Garibaldi Pietro, Taddei Filippo, Italy: A dual labour market in transition, (2013).

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rielaborazione su fotografia di Niccolò Caranti

intervista TITO BOERI Ph.D. in Economics alla New York University, Tito Boeri è stato senior economist all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, consulente del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell’Ufficio Internazionale del Lavoro. Oggi è Professore ordinario all’Università Bocconi e responsabile scientifico del Festival dell’Economia di Trento. Dal dicembre 2014 è Presidente dell’INPS.

di Francesco Beraldi

Università degli Studi di Torino & Collegio Carlo Alberto

e Ivan Lagrosa

Università Bocconi & IGIER


Professore, il mercato del lavoro italiano è ormai da molti anni caratterizzato da una forte dualità, con una larga fetta di lavoratori tutelati dal contratto a tempo indeterminato e altri, i lavoratori precari o autonomi, privi di tutele, con salari in media più bassi e condizioni di lavoro complessivamente peggiori. Lei in passato ha condotto studi sul tema e ha illustrato l’effetto illusorio e temporaneo (Honeymoon effect) delle riforme che hanno creato questa dualità, conosciute in letteratura come Two Tier Reforms. Ci spiega come e a partire da quali esigenze nasce un mercato del lavoro duale? Qual è l’honeymoon effect che tali riforme generano? In passato, prima degli interventi di liberalizzazione del mercato, nel caso un’impresa si fosse accorta di aver commesso un errore nell’assumere un lavoratore, una volta stipulato un contratto a tempo indeterminato, si sarebbe trovata di fronte a costi molto elevati per una eventuale procedura di licenziamento. Per ragioni soprattutto di natura politica, c’era quindi l’esigenza di intervenire senza andare ad intaccare la posizione dei lavoratori che già avevano dei contratti a tempo indeterminato. Sono state così introdotte molte forme di lavoro temporanee, su cui si è concentrata interamente tutta l’esigenza di flessibilità delle imprese. Il risultato è stata la creazione di due mercati del lavoro paralleli: un mercato ultra-flessibile e un mercato che è rimasto rigido come era all’inizio. E come abbiamo documentato nello studio che ha citato, questo dualismo del mercato del lavoro comporta una serie di effetti, fra cui quello di veder concentrato tutto il rischio di licenziamento sulla parte dei lavoratori flessibili. Per certi aspetti, infatti, la presenza di un elemento flessibile nella forza lavoro isola gli altri occupati da questo rischio. Nel breve periodo, durante la transizione a questo nuovo regime e in un periodo di miglioramento della congiuntura economica, la dualità ha provocato un aumento del numero dei posti di lavoro poiché le imprese hanno potuto assumere nuovi lavoratori sapendo che sarebbero poi stati facilmente licenziabili qualora la congiuntura fosse peggiorata.

INTERVISTA A TITO BOERI

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La dualità del mercato sembra aver colpito in maniera importante le prospettive occupazionali delle generazioni più giovani. Scarring effects, minori possibilità di on job training e pensioni in prospettiva più basse dovute ai minor contributi versati sono alcun dei tratti che contraddistinguono oggi il mercato, per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Anche alla luce degli studi che ha condotto sul legame tra produttività e dualità del mercato, ci fornisce un quadro di insieme circa l’inefficienza che tale allocazione delle risorse genera? La più grande inefficienza sta nel fatto che c’è un cattivo ingresso nel mercato del lavoro da parte delle persone che oggi hanno più capitale umano da offrire: i giovani. Questi, infatti, sono lavoratori che rimangono ai margini del mercato e che vengono assunti con contratti a termine, i primi di cui l’impresa si disfa non appena la congiuntura peggiora, concentrando tutto il rischio, come si diceva prima, su di loro. Inoltre, il fatto che siano dei contratti a tempo determinato, o temporanei, non spinge né l’impresa né il lavoratore a fare investimenti sul posto di lavoro, quali quelli sulla formazione. Tutto ciò, nel lungo termine, ha degli effetti negativi sulla produttività del lavoro.

In questa cornice, il nostro mercato registra un tasso di occupazione decisamente lontano dagli obiettivi prefissati dalla UE per il 2020, con importanti divergenze territoriali, di genere e, ancora, di età. Come incrementare la partecipazione al mercato del lavoro, anche considerato il momento storico, in cui le nuove tecnologie sembrano spingere in una direzione opposta? Le nuove tecnologie possono essere anche uno strumento per aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, perché rendono possibile un’organizzazione molto più flessibile, ad esempio in termini di orario del lavoratore e di possibilità di lavorare a distanza da casa. Questa flessibilità può permettere un maggiore coinvolgimento soprattutto per persone che hanno esigenze di diversa natura, come ad esempio responsabilità familiari. Certamente, c’è anche il rischio che alcuni mestieri, soprattutto quelli più ripetitivi, possano venire sostituiti dalle macchine o dai robot. Questo è sicuramente un problema nel momento in cui c’è una struttura produttiva che è fortemente specializzata su mansioni

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di questo tipo. L’Italia, da questo punto di vista, è un Paese abbastanza vulnerabile. Se non riesce rapidamente a ristrutturarsi, c’è effettivamente il rischio che una serie di lavori in piccole imprese possano in qualche modo essere sostituiti a causa dell’avanzamento tecnologico.

Molte pubblicazioni mostrano una chiara correlazione negativa fra il tasso di partecipazione al mercato del lavoro e il tasso di disoccupazione, sfatando una volta di più l’idea che il numero dei posti di lavoro sia fisso. Questa considerazione si lega a due importanti fenomeni che si stanno verificando nel nostro mercato: la massiccia immissione di manodopera straniera e l’innalzamento dell’età pensionabile – uno dei suoi studi più recenti riguarda proprio l’effetto delle Riforma Fornero sulle nuove generazioni. Lei che prospettive vede in relazione a questi fenomeni? È indubbiamente vero che nel medio-lungo periodo il numero di posti di lavori non è fisso, per cui aumenti dell’offerta di lavoro possono benissimo conciliarsi, e anzi normalmente si conciliano, con incrementi dei tassi di occupazione. Può tuttavia avvenire che, in una fase di recessione, in cui quindi nella determinazione dei livelli occupazionali prevale la domanda piuttosto che l’offerta di lavoro, un brusco innalzamento dei requisiti pensionistici possa avere nell’immediato, nel brevissimo periodo, un effetto negativo sull’occupazione dei giovani. Questo fenomeno sembra emergere negli studi che abbiamo recentemente condotto all’INPS, e sembra essersi verificato in seguito all’introduzione della Riforma Fornero. La possibile presenza di queste conseguenze di breve periodo è quindi un importante dato su cui riflettere. Però, nel lungo termine, è assolutamente vero che un aumento dell’offerta di lavoro tende a creare anche più domanda, e quindi non necessariamente spiazza chi già lavora.

INTERVISTA A TITO BOERI

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Nel 2008, nel suo libro, tra le proposte complementari all’adozione del contratto unico, c’era anche l’introduzione di un reddito minino garantito. Il dibattito politico degli ultimi anni è spesso tornato sulla questione, e coloro poco propensi alla sua adozione sostengono la necessità di incentivare la creazione di lavoro piuttosto che elargire sussidi di questo tipo – ad esempio con la proposta del lavoro di cittadinanza. Il trade-off fra questi due intenti si può riassumere nel confronto fra politiche attive e passive di sostegno al lavoratore/cittadino. Lei ritiene una misura più efficiente dell’altra? Il Jobs Act sembra essersi mosso in entrambe le direzioni. Io ho sempre pensato che non ci sia alcun trade-off tra politiche attive e politiche passive, sono due politiche che devono procedere di pari passo, tant’è che i paesi che fanno più politiche attive fanno anche più politiche passive. Sono complementari tra di loro perché le politiche attive servono anche a fare pressione sui beneficiari delle politiche passive e ad assicurarsi che questi abbiano i giusti incentivi per reinserirsi nel mercato del lavoro. Penso che in Italia ci sia bisogno di avere degli ammortizzatori sociali di ultima istanza per le persone che si trovano in stato di disoccupazione di lungo periodo. In questo senso è giusto avere strumenti come il reddito minimo garantito, che condizionino i trasferimenti alla situazione economica e patrimoniale della famiglia nel suo complesso. Però questo va sicuramente accompagnato dal rafforzamento della capacità di proporre politiche attive ai beneficiari. Le due cose vanno insieme, non c’è contrapposizione.

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Non lavorano, non studiano, non si formano. Chi sono? Il termine NEET deriva dall’acronimo inglese “Not in Employment, Education or Training”. La generazione NEET indica, quindi, quella fetta di giovani che sono contemporaneamente fuori dall’occupazione, dall’istruzione e dalla formazione. Il termine è stato coniato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1999 dalla Social Exclusion Unit (SEU), l’equivalente della Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale in Italia. Nelle intenzioni primarie vi era la necessità di elaborare un programma ad hoc che consentisse il reinserimento in percorsi di istruzione, di formazione o di lavoro dei giovani di età compresa tra i 16 e i 18 anni a rischio di abbandono scolastico ed esclusione sociale. Al fine di rispondere nel modo più esaustivo possibile alla domanda “chi sono?”, con l’ausilio dei dati Istat abbiamo suddiviso i NEET italiani sulla base di tre fattori di differenziazione: area geografica, sesso e titolo di studio. Come è possibile osservare dal grafico 2.1, oltre la metà dei NEET presenti nel nostro Paese proviene dal Mezzogiorno. Questo dato così alto è anche probabilmente influenzato dal maggior radicamento del fenomeno del lavoro nero nelle regioni meridionali: i giovani lavoratori in nero, infatti, sfuggendo alle rilevazioni statistiche, finiscono per essere identificati come NEET. Al Nord spetta invece un valore percentuale, nel 2016, del 29%. Il Centro Italia risulta infine l’area con la percentuale di NEET più bassa, intorno al 15%. Benché la ripartizione per area geografica appaia come alquanto stabile nel tempo, è possibile osservare come durante la crisi la quota percentuale del Sud, pur restando elevatissima, sia diminuita, mentre sono leggermente aumentate le quote del Centro e ancor di più del Nord. Suddividendo invece la popolazione per titolo di studio, è possibile notare come gli individui in possesso di un titolo di laurea siano meno soggetti a rientrare nello status di NEET: durante tutti gli anni considerati, la loro percentuale rimane sempre intorno al 10% del totale.

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Nel grafico 2.2 risulta poi interessante osservare come, durante tutto il range temporale preso in considerazione, il peso dei NEET con un diploma sia aumentato, mentre sia diminuito quello dei NEET senza alcun titolo di studio. A partire dal 2010 sono infatti i diplomati ad essere i più rappresentativi all’interno di questa categoria. Osservando infine la distribuzione dei NEET per sesso, è possibile notare una leggera prevalenza dei NEET di sesso femminile, che si è andata però lentamente ad attenuare con il passare degli anni.

Qual è la situazione dei giovani in Europa? Dai dati sulla disoccupazione giovanile risalta come i Paesi europei nella condizione più problematica siano prevalentemente quelli del Sud Europa.

A guidare la triste classifica del più alto tasso di disoccupazione giovanile vi è la Grecia, con il 48,6%; seguono poi a breve distanza Spagna e Italia, rispettivamente con il 46% ed il 37%. Diretta conseguenza di questa ineguale distribuzione della disoccupazione giovanile all’interno del panorama del Vecchio Continente sono le differenti opportunità di emancipazione dei

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giovani europei. Secondo Eurostat, i Paesi che abbiamo evidenziato avere un maggior tasso di disoccupazione giovanile sono anche quelli in cui i giovani fanno maggiore fatica ad intraprendere una vita adulta indipendente dal proprio nucleo familiare. Gli alti valori che si registrano nel Sud e nell’Est Europa sono infatti probabilmente dovuti, oltre che a fattori culturali, alla mancanza di un lavoro stabile.

Che ruolo ha la spesa in protezione sociale? Se accettiamo l’idea che il compito dello Stato non sia quello di creare posti di lavoro, quanto piuttosto quello di creare le condizioni migliori affinché il lavoro venga generato dal sistema economico-produttivo, è necessario chiedersi se la spesa pubblica sia distribuita in modo da favorire l’induzione e il sostegno del lavoro. Servizi di welfare atti alla formazione professionale ed al supporto temporaneo alla disoccupazione, con accompagnamento/reinserimento nel mercato del lavoro, risultano elementi chiave per un’efficace spesa pubblica di contrasto alla disoccupazione.

Entrando nella riclassificazione funzionale della spesa (dati Eurostat), risulta come per l’Italia la spesa in protezione sociale abbia una notevole incidenza rispetto al PIL, ben superiore alla media europea.

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I livelli simili di spesa in protezione sociale dell’Italia e Paesi del nord Europa come Svezia e Danimarca, tipicamente identificati come nazioni molto attente alla protezione dei lavoratori, nasconde in realtà un’illusione, rappresentata dalla spesa pensionistica e dall’altissimo tasso di dispersività della spesa per assistenza tipica dei mediterranei. La spesa in protezione sociale è infatti costituita sia dalla spesa previdenziale che da quella per assistenza. L’Italia, come la Grecia, utilizza gran parte di tale spesa per sostenere il sistema pensionistico, piuttosto che per finanziare vere e proprie attività di supporto all’inserimento nel mercato del lavoro. Tale spesa diviene quindi improduttiva, comportando carenze di fondi per progetti di inserimento e formazione, o di riduzioni impositive per le imprese che assumono.

È evidente che una spesa di questo tipo, che fornisce un reddito immediato, sia più conveniente da un punto di vista elettorale rispetto all’investimento in politiche attive, che restituiscono invece risultati solo nel medio-lungo periodo. Per quanto la spesa pensionistica possa risultare efficace come sostegno al reddito, essa è uno strumento che non influisce minimamente sulla formazione del capitale umano e sulla sua valorizzazione all’interno di dinamiche lavorative. Al contrario, si trasforma in una barriera invisibile, che per risultare economicamente sostenibile pesa sul sistema produttivo, riducendo ulteriormente le possibilità di inserimento dei più giovani.

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Formare cittadini o lavoratori? Analizzati gli elementi di sostegno e protezione sociale che possono influenzare l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, altro tassello fondante è il sistema educativo. Due elementi che recenti studi introducono come vincenti per la realizzazione professionale dei giovani studenti uscenti dagli istituti scolastici sono: •

Collegamenti fra Scuola e Impresa

Incentivo alla mentalità imprenditoriale

Nel caso Italiano, gli istituti scolastici sono caratterizzati da un forte distacco dal mondo del lavoro, spesso basato su pregiudizi ideologici. L’obiettivo nelle scuole spesso non è quello di formare individui idonei alle richieste del mondo lavorativo, ma di crescere cittadini con una visione di pensiero. Per quanto idealmente ammirevole, i dati sembrano però smentire l’effettiva efficacia di questa impostazione. Nell’ultima classifica stilata dall’Ocse sulle competenze principali degli adulti, l’Italia figura all’ultimo posto, tra i 24 paesi analizzati, per competenze in lettura, e al penultimo posto per competenze matematiche. Tra le scuole italiane ed il mondo produttivo i collegamenti sono rari, se non inesistenti. Si tratta di due mondi paralleli, che dovrebbero dialogare ma parlano due lingue differenti. Ne è un esempio il tentativo di introduzione dell’alternanza scuola-lavoro effettuato dal Governo Renzi. Tale manovra, dopo aver generato indignazione, sta risultando difficilmente applicabile a causa della mancanza di quel tessuto di relazioni territoriali sul quale si dovrebbe basare. Questa mancanza di reti che permettano agli studenti di conoscere e farsi conoscere nel mercato del lavoro prima della conclusione degli studi determina così lo spaesamento dei giovani al termine degli anni scolastici. Come diretta conseguenza, si genera una dipendenza dell’utilizzo dei “legami forti”, ovverosia quelli parentali, in contrapposizione ai “legami deboli”, quelli derivanti dalle conoscenze personali o amicizie sviluppate in ambiente accademico-lavorativo. La prevalenza nell’uso di conoscenze parentali distorce così il corretto funzionamento del mercato del lavoro, in particolare giovanile, in quanto mina al principio

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della pari opportunità e determina più facilmente un’allocazione inefficiente dei lavoratori. Questa mentalità può essere annoverata tra le cause determinanti dell’alto tasso dei NEET nei paesi mediterranei. Altro elemento chiave, come precedentemente citato, risulta la tipologia di mentalità con la quale il capitale umano si approccia al mondo del lavoro. Nel contesto moderno risulta sempre più cruciale, per ottenere e mantenere un vantaggio competitivo, lo sviluppo di un ambiente favorevole ad un’attività imprenditoriale che faccia di connettività, creatività ed innovatività le proprie basi fondanti. Al fine di perseguire tale obiettivo risulta determinante l’indice di complessità burocratica (procedure formali e impositive necessarie per l’avviamento di un’attività d’impresa) e la percezione del ruolo sociale svolto dal mondo imprenditoriale. Secondo un recente studio prodotto dal World Economic Forum, l’Italia risulta tra i paesi meno innovativi e favorevoli all’imprenditorialità d’Europa. In tale studio la cultura imprenditoriale (definita come EEA) è stata misurata non solo sulla capacità di far nascere nuove idee ed opportunità imprenditoriali autonome, ma anche sulla base dei lavoratori in grado di formulare ed implementare nuove idee all’interno della stessa organizzazione per la quale stanno già lavorando. Questo contesto più generalizzato si riflette in maniera drammatica sulle opportunità imprenditoriali dei più giovani. Un’indagine condotta da Gallup nel 2011 ha infatti messo in evidenza come i giovani italiani siano, in Europa, quelli che riscontrano maggiori vincoli e un eccesso di complicazioni nel realizzare una propria idea imprenditoriale (22%, contro una media europea del 13%).

Le politiche attive e i giovani La condizione dei più giovani appena descritta ha radici lontane e risiede in un insieme di fattori culturali, demografici e istituzionali. Le riforme del mercato del lavoro iniziate con la Legge Treu nel 1997 e proseguite con decisione dalla Legge Biagi del 2003 hanno incrementato notevolmente il tasso di occupazione giovanile. Tale incremento occupazionale è stato però

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caratterizzato da condizioni di precarietà nelle diverse sfaccettature di sottoccupazione e lavoro a part-time involontario e dall’assenza di una seria politica di welfare capace di sostenere il nuovo sistema creato. Con l’acuirsi della crisi nel 2008 e l’inestricabile dualismo insiders–outsiders che caratterizza da decenni il mercato del lavoro italiano, gli indicatori di occupazione delle giovani coorti si sono deteriorate con estrema rapidità. Con l’avvento dei governi tecnici nel 2011, le misure di ALMP sono state dirette principalmente per l’occupazione e in misura residua per l’istruzione e la formazione. Nonostante tali misure, una concreta politica di investimento nel capitale umano giovanile non è mai effettivamente decollata. Negli ultimi anni, il d.lgs. n. 150 del 2015 in tema di “Disposizioni di riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive” ha recepito l’ultimo atto della riforma prevista dal Jobs Act. In questo contesto, l’attuazione delle politiche attive e passive e il loro coordinamento avviene da un lato attraverso il rafforzamento dei principi di personalizzazione dei servizi per l’impiego e di condizionalità nell’elargizione dei sussidi, e dall’altro con l’introduzione del nuovo strumento dell’assegno di ricollocazione. Sul target giovani, non particolarmente interessato da politiche attive ad hoc, si è previsto di porre particolare enfasi al progetto Garanzia Giovani. Si tratta di programma dell’Unione Europea che intende assicurare ai ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano opportunità per acquisire nuove competenze per entrare nel mercato del lavoro.

Linee guida per il futuro “La prospettiva futura dell’Europa dipende dai suoi giovani”: questo è ciò che scrive la Commissione Europea nel suo rapporto “Youth on the Move”, l’iniziativa che si occupa principalmente di rilanciare l’occupazione giovanile a supporto della “Strategia Europa 2020”. Il Fondo Monetario Internazionale stima che, in assenza di stimoli concreti per il rilancio dell’economia, sarà necessario un tempo di 25 anni per riassorbire gli effetti devastanti della crisi economica sull’occupazione.

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Le precondizioni affinché tale recupero avvenga nel minor tempo possibile devono essere affrontate su tre direttrici fondamentali: Favorire il completamento del percorso di studi e far sì che in questi venga prestata attenzione non solo alle competenze formative (competence skills), ma anche alle competenze sociali ed emozionali (life skills).

1.

Migliorare e istituzionalizzare efficientemente il meccanismo di transizione scuola-lavoro, attraverso un ampliamento dei corsi professionali di base nella scuola media superiore. Risulta necessaria inoltre un’attenta e rigorosa selezione della preparazione degli insegnanti, unita ad ingenti investimenti nello strumento dell’apprendistato, che va rilanciato con forza, imparando sulla scorta degli errori del passato e dall’esperienza di Paesi che da molti anni lo adottano.

2.

Favorire una ricerca attiva nel mercato del lavoro, mediante l’attuazione di politiche serie e ben monitorate, sia ex ante sia ex post, in modo tale da non rendere repentinamente obsoleto un bene così prezioso quale il capitale umano dei giovani. In tale direzione, è necessario investire una quota consistente di spesa pubblica nei Servizi per l’impiego e l’istruzione. Il Jobs Act ha previsto l’istituzione dell’ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro): un segno positivo, seppur timido, verso l’implementazione di un sistema di politiche incardinato su efficienza e qualità dei servizi per l’impiego.

3.

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Fonti Istat Eurostat Commissione Europea Ministero dell’Economia e della Finanze, La spesa pubblica in Europa: anni 2007-2015 OECD, Inchiesta sulle competenze degli adulti (2013) World Economic Forum, Europe’s Hidden Entrepreneurs: Entrepreneurial Employee Activity and Competitiveness in Europe (2016) Great Britain Cabinet Office, Bridging the gap: new opportunities for 16-18 years old in education, employment or training, report by the Social Exclusion Unit, 1999 Barberis E., Sergi V., Politiche attive per il mercato del lavoro nella crisi: il quadro europeo e il caso italiano,Università di Urbino, Argomenti,terza serie, 5/2016 Pwc, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Valutazione ex-ante degli strumenti finanziari da attivare nell’ambito del PON “Iniziativa Occupazione Giovani 2014- 2015” e PON “Sistemi di politiche attive per l’occupazione2014-2020”, 2015 European Commision, Youth on the Move. Analytical report, Flash Eurobarometer Series, 319b, 2011.

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intervista ALESSANDRO ROSINA Alessandro Rosina è professore ordinario di Demografia e Statistica presso l’Università Cattolica di Milano, dove è anche Direttore del “Center for Applied Statistics in Business and Economics”. Sono diverse le Commissioni Istat e Ministeriali a cui ha partecipato come esperto (“Progetto PIAAC - Programme for the International assessment of Adult Competencies”). Ha inoltre contribuito al “Mutual Learning Program” promosso dalla Commissione europea sul tema “Targeting NEETs” in veste di esperto italiano. La sua analisi verte su temi quali il capitale umano e la mobilità internazionale dei talenti, le politiche familiari, il welfare e l’innovazione sociale.

di Mariachiara Bo e Adele Ravagnani

Università degli Studi di Torino & Collegio Carlo Alberto


Professore, per prima cosa, ci introduce al fenomeno dei NEET. Chi e quanti sono e, soprattutto, perché rappresentano una criticità per il nostro Paese? L’acronimo NEET (Not in Education, Employment or Training) è stato coniato nel Regno Unito verso la fine del secolo scorso, ma il suo utilizzo diffuso inizia dal 2010, quando l’Unione Europea adotta il tasso di NEET come indicatore di riferimento sulla condizione delle nuove generazioni. Rispetto all’usuale tasso di disoccupazione giovanile, nell’indicatore sono compresi tutti i giovani inattivi, non solo i disoccupati in senso stretto. Uno dei pregi della categoria NEET è l’inclusione non solo di chi cerca attivamente lavoro (tecnicamente “disoccupati”, parte della “forza lavoro” assieme agli occupati) ma anche degli “inattivi”. In quest’ultimo gruppo rientrano però sia gli “scoraggiati” (ovvero chi non cerca più, ma vorrebbe lavorare) sia coloro che non sono interessati al lavoro. Il fatto che nel tasso dei NEET rientri anche quest’ultima sottocategoria - che non solo non fa parte della forza di lavoro in senso stretto, ma nemmeno di quella potenziale - è l’aspetto più criticabile. È però utile tener presente che in chi risponde di non essere attualmente interessato ad un lavoro rientra anche il lavoro sommerso e le persone, soprattutto donne, impegnate in attività informali di cura che potrebbero essere incluse nel mercato del lavoro in presenza di adeguati strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro. Rispetto alla dimensione del fenomeno, i dati Eurostat evidenziano che: l’Italia presentava livelli più elevati della media europea prima della recessione (18,8% nel 2007 contro 13,2% Ue-28); il fenomeno è aumentato maggiormente da noi durante la crisi (salito a 26,2% nel 2014 contro 15,4% Ue-28); la nostra discesa risulta più lenta con l’uscita dalla crisi (attorno al 22% nella prima metà del 2016, mentre molti Paesi dell’Unione sono già tornati ai livelli pre-crisi). Attualmente in termini relativi siamo secondi solo alla Grecia, mentre in termini assoluti siamo il maggior produttore di NEET in Europa con oltre 2,2 milioni di under 30 che non studiano e non lavorano (ma si sale a 3,3 nella fascia 15-34, dato Istat del 2016).

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Quali sono gli ambienti economici, sociali e culturali a cui appartengono i NEET? Costituiscono un gruppo eterogeneo da questo punto di vista? All’elevato numero di NEET in Italia contribuiscono, in misura maggiore che negli altri Paesi avanzati, i giovani con carenti competenze e disagio sociale, a rischio di scivolare verso una condizione di marginalizzazione, sia neodiplomati e neolaureati con buone potenzialità ma con tempi lunghi di collocazione nel mercato del lavoro per difficoltà di valorizzazione del capitale umano nel sistema produttivo italiano. Quelli però più a rischio di rimanere intrappolati in tale condizione sono coloro che provengono da famiglie con scarse risorse culturali e nei contesti socialmente ed economicamente più deprivati. Anche l’iper protezione dei genitori nei confronti dei figli aumenta il rischio di cronicizzazione nella condizione di NEET. Durante il suo intervento in occasione del Talks Slidingdoors 2016 di Verona ha fatto riferimento anche ad un’altra categoria di giovani, gli Expat: under 35 che cercano opportunità di studio e lavoro oltre il confine nazionale. Vi è una correlazione tra questo fenomeno e quello dei NEET? A suo parere, sarebbe riduttivo trarre la conclusione che, considerato l’alto tasso di disoccupazione giovanile italiana, agli under 30-35 non rimanga altro che la scelta tra l’essere un NEET oppure un Expat? Più che in altri Paesi sviluppati, i giovani italiani si trovano a dover scegliere se rimanere nel territorio di origine e adattarsi al ribasso a quello che offre (scarso lavoro e rischio di diventare NEET) oppure scegliere di andare all’estero, ovvero diventare Expat, per non rinunciare a realizzarsi al pieno delle proprie potenzialità. Questo è ancora più vero nelle regioni del Meridione. Se da una parte, in Italia, l’investimento sui giovani lascia a desiderare, dall’altra le famiglie si sono trasformate in ammortizzatori sociali. Il problema alla base di questo aspetto è prettamente economico-legislativo oppure si può inquadrare in un contesto più ampio e culturale? Il fatto che il fenomeno dei NEET sia cresciuto in modo così abnorme senza essere ancora esploso come bomba sociale, è anche dovuto alla presenza di un modello culturale che rende accetta-

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bile una prolungata dipendenza dei figli adulti dai genitori. In altri Paesi è impensabile rimanere a vivere con i genitori fino ai 30 anni, in Italia è considerato normale. di questo fenomeno vi è quindi un intreccio di motivi culturali (i legami familiari forti di mutua solidarietà) e strutturali (le carenza del sistema di welfare per i giovani, in particolare su casa e sostegno attivo al reddito nei periodi di disoccupazione). È vero però che la lunga dipendenza passiva dei trentenni dai genitori sta diventando sempre più insostenibile. Quello dei NEET non è tuttavia solamente un fenomeno italiano, ma europeo. Che politiche hanno attuato gli altri Paesi Membri dell’unione per incentivare i giovani a rientrare nel mondo del lavoro e dell’istruzione? I fattori che spiegano l’eccedenza di NEET in Italia rispetto agli altri Paesi, in termini di policy, sono sostanzialmente tre: A) Molti giovani si trovano, all’uscita dal sistema formativo, carenti di adeguate competenze e sprovvisti di esperienze richieste dalle aziende. B) Molti altri giovani, pur avendo elevata formazione e alte potenzialità, non trovano posizioni all’altezza delle loro capacità e aspettative. C) Infine, mancano strumenti efficaci per orientare e supportare i giovani nella ricerca di lavoro. Siamo, del resto, uno dei Paesi europei che meno investono in formazione terziaria, in politiche attive del lavoro, in ricerca e sviluppo. L’Italia sta beneficiando dei fondi della Garanzia Giovani, piano europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile che prevede dei finanziamenti per i Paesi Membri con tassi di disoccupazione superiori al 25%, da investire in politiche attive di orientamento, istruzione e formazione e inserimento al lavoro, a sostegno dei giovani che non sono impegnati in un’attività lavorativa, né inseriti in un percorso scolastico o formativo. A tali finanziamenti sono seguiti dei miglioramenti concreti per quanto concerne la categoria dei NEET? La principale misura messa in campo in Italia per riattivare i NEET è il Piano Garanzia Giovani finanziato dall’Ue e avviato a maggio 2014. Quella che viene proposta, agli under 30 che si iscrivono al portale dedicato, è – entro quattro mesi dall’uscita dal sistema di istruzione o dall’inizio della disoccupazione – un’offerta “qualitativamente” valida di lavoro, di tirocinio o di ulteriore formazione. Tale Piano ha ottenuto risultati sotto le aspettati-

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ve. Quando è stato attivato i NEET erano circa 2,4 milioni e nel primo semestre 2016 risultano essere ancora abbondantemente sopra i due milioni. Gli iscritti al portale sono attorno al milione ma solo una parte minoritaria ha ricevuto azioni che hanno consentito un inserimento solido nel mondo del lavoro. Inoltre tra gli iscritti sono sovra rappresentati i giovani più qualificati e attivi, che però spesso non hanno ricevuto offerte all’altezza delle aspettative, mentre fuori dal radar sono rimasti in larga parte quelli con titoli più bassi e con meno supporto sociale, che invece maggiormente potrebbero trarre beneficio dal Piano. Garanzia Giovani lascia comunque almeno due eredità positive. La prima è la maggior consapevolezza e determinazione nel procedere verso un potenziamento dei servizi per l’impiego efficaci su tutto il territorio nazionale. La seconda è data dalle numerose iniziative in sinergia a Garanzia Giovani che sono spontaneamente nate sul territorio e in collaborazione con associazioni e organizzazioni non pubbliche. In “NEET: giovani che non studiano e non lavorano” Lei ha sottolineato come anziché considerare le nuove generazioni come avanguardie del cambiamento si tenda a relegarli in panchina, cosa propone per farli scendere in campo a “giocare in attacco”? Quali sono inoltre i costi, anche sociali, dello schema difensivo adottato fin ora? Come documentano varie ricerche le ricadute negative sono di vario tipo: minori entrate fiscali, costi maggiori per prestazioni sociali, malessere sociale. Il costo sociale, stimato dall’Eurofound, è pari all’1,2 percento del PIL europeo, si sale a valori attorno al 2 percento in Italia. Ci sono poi però anche costi individuali, sia materiali che psicologici, di difficile quantificazione. Il fenomeno non va però letto solo in termini di costi, ma anche di mancata opportunità del sistema Paese di mettere la sua componente più preziosa e dinamica nella condizione di contribuire pienamente alla produzione di crescita presente e futura. I giovani, spesso etichettati come bamboccioni e schizzinosi, stando alle statistiche si dicono desiderosi di essere protagonisti del proprio tempo e ritengono di essere la forza propulsiva che può fare la differenza, portando un cambiamento in positivo. Secondo Lei, quale delle due percezioni è quella più calzante stando alla realtà dei fatti? E

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come è possibile che ci sia una dicotomia così evidente tra come la generazione degli under 30 considera se stessa e come è invece considerata dalle generazioni precedenti? I motivi di questa dicotomia sono vari. Il mondo cambia velocemente e diventa sempre più complesso. Quello che valeva per la generazione dei genitori vale sempre meno per quella dei figli. Soprattutto nei Paesi come l’Italia, poco attrezzati ad interpretare e gestire il cambiamento, le nuove generazioni si trovano desiderose di cogliere le nuove opportunità del proprio tempo, ma non aiutate a farlo con strumenti adeguati. Le generazioni più mature continuano invece ad interpretare la realtà con schemi superati, confondendo potenzialità e fragilità delle nuove generazioni, non mettendole nelle condizioni di dare il meglio di sé, così il loro fallimento diventa una profezia negativa che si auto-adempie. I giovani di oggi vorrebbero essere protagonisti del cambiamento sia a livello personale sia sociale ma spesso non hanno le capacità e le competenze adeguate. Quali sono gli strumenti che i giovani dovrebbero acquisire e quali sono i luoghi i cui dovrebbe avvenire questo apprendimento? Una delle chiavi principali sta nello spostamento al rialzo del rapporto tra valorizzazione del capitale umano e competitività delle aziende, al cui centro sta l’aumento della qualità dell’offerta e della domanda di competenze. I giovani italiani hanno abbastanza chiare le inefficienze del mondo del lavoro ma hanno anche sempre più forte la consapevolezza di alcune proprie debolezze che frenano la possibilità di cogliere al meglio le opportunità che il mercato offre e, ancor più, di farsi trovare pronti rispetto ai mutamenti qualitativi nel sistema produttivo nei prossimi decenni. Restando sul tema delle riforme del governo Renzi, crede che l’alternanza scuola-lavoro introdotta dalla Buona Scuola possa favorire l’inserimento nel mondo del lavoro? Una ricerca recentemente pubblicata dall’Istituto Toniolo in collaborazione con McDonald’s mostra come la consapevolezza dell’importanza di questo tipo di competenze sia molto forte non solo negli imprenditori ma anche nei giovani stessi. Secondo i ragazzi intervistati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, che prevedono un’esperienza concreta nelle

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aziende, possono produrre ampi benefici. A ritenerlo non sono solo gli studenti degli istituti tecnici, ma anche quelli dei licei, con una percentuale attorno all’88 percento. La percentuale sale ulteriormente, arrivando al 93 percento, tra chi si è già confrontato con il mondo del lavoro e ha quindi sperimentato sul campo le competenze utili. Più specificamente, le soft skills che ci si aspetta di migliorare sono l’intraprendenza, la capacità di lavorare in gruppo, l’abilità di problem solving, l’autoefficacia, il saper prendere decisioni. Gli stessi giovani sono però anche consapevoli che tali progetti da soli non bastano per colmare il divario rispetto a quanto richiesto nel mondo del lavoro. Efficaci contesti informali di complemento e rafforzamento delle life skills sono allora anche esperienze esterne alla scuola e alle aziende, come indica una ricerca promossa dall’Agenzia nazionale giovani. Esempi virtuosi in questo senso sono il volontariato nei grandi eventi e il Servizio Civile Europeo (SVE). Tutti questi programmi devono però consentire un effettivo accesso a tutti e un miglioramento misurabile delle competenze acquisite per diventare parte di un solido processo di riposizionamento delle nuove generazioni al centro dello sviluppo del Paese. In un articolo su Il Foglio del primo febbraio 2017 ha scritto: “Ciò che rende il domani diverso dall’oggi sono soprattutto le nuove generazioni. Per rendere il domani migliore di oggi serve allora un riformismo in grado di assegnare ad esse un ruolo centrale nel processo di sviluppo”. Crede che Il Jobs Act sia collocabile all’interno di questo genere di riformismo? Il Jobs Act è un passo in avanti sul versante della maggior stabilizzazione dei percorsi lavorativi giovanili, ma non certo in grado di mettere le nuove generazioni al centro del nostro modello di sviluppo. Anche perché manca un vero modello di sviluppo del nostro Paese. Cosa vogliamo essere tra 10 anni? Quali sono i settori strategici su cui investire? Come fare in modo che chi si sta formando oggi diventi indispensabile per espandere tali settori? Le startup sono diventate una realtà fondamentale dell’economia odierna, tuttavia in Italia la loro diffusione non è capillare ed è limitata a pochi centri. Quali sono le misure che permetterebbero al nostro Paese di diventare una terra

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di opportunità? All’interno del Jobs Act ci sono incentivi all’autoimprenditorialità? Negli ultimi anni è cresciuta molto l’attenzione verso le startup, gli incentivi all’autoimprenditorialità, e le iniziative che promuovono le esperienze di successo. Dobbiamo però anche stare attenti al rischio che il fenomeno cresca quantitativamente senza che nel complesso migliorino le condizioni delle nuove generazioni. Non basta che sempre più giovani siano incentivati a provarci. Devono anche migliorare tutte le condizioni attorno perché si inneschi un circuito virtuoso tra innovazione, occupazione di qualità e solida crescita in un mondo sempre più competitivo. Più che dai casi di successo, si può allora imparare da quelli di insuccesso. Potrebbero dirci molto di quanta strada dobbiamo ancora fare per dare vero ed effettivo supporto alla crescente propensione all’intraprendenza delle nuove generazioni. Non c’è solo la carenza di finanziamenti e l’eccesso di burocrazia, ma anche un deficit di formazione e bassi investimenti in ricerca e sviluppo, a rendere più difficile e frustrante l’esperienza del giovane potenziale startupper italiano. Come stiamo aiutando i ragazzi che falliscono a rendere l’averci provato una esperienza utile per il loro percorso futuro? Costoro sono molti di quelli che osanniamo sui giornali e nei convegni patinati. È con loro che la vera sfida si vince. Si può altrimenti rischiare di creare un mondo elitario e autoreferenziale, con molta determinazione ed entusiasmo al proprio interno, ma sostanzialmente slegato da tutto il resto. Se l’obiettivo non è solo il successo di qualche centinaio o migliaio di giovani selezionati, ma la crescita vera dell’Italia attraverso le nuove generazioni, non dobbiamo partire dalle startup ma considerarle parte di un progetto più ampio di rafforzamento del raccordo tra capacità e competenze dei giovani e opportunità di valorizzazione nel mondo del lavoro. Le singole esperienze di eccellenza non sono mai mancate sul nostro territorio. Ma, anche nel caso dei giovani, concentrarsi solo su quelle non ci aiuterà a fare il vero salto di qualità sistemico che da troppo tempo continua a mancare.

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Introduzione Nel panorama economico e occupazionale italiano, un punto centrale su cui occorre focalizzare l’attenzione è senza dubbio l’arretratezza che caratterizza il Sud Italia. E per capirne le origini e i tratti caratterizzanti è necessario ripercorrere brevemente la sua storia, dall’Unità a oggi. Nei primi vent’anni dopo l’Unità, la dispersione regionale del reddito in Italia restò bassa sia rispetto ai valori che raggiungerà successivamente, sia in confronto ai divari all’epoca, osservabili in altri Paesi europei con livelli di sviluppo simili. Questa condizione iniziale si comprende meglio se si considera che intorno al 1861: • nessuna regione italiana si era ancora avviata verso una massiccia industrializzazione e in agricoltura, il settore dominante, la produttività non presentava grandi divari territoriali; • i livelli di partenza delle relazioni commerciali tra le aree geografiche del Paese erano molto modesti e la loro crescita era ostacolata dall’arretratezza dei sistemi di trasporto; • sia al Nord che al Sud erano presenti importanti aree urbane, tipicamente coincidenti con capoluoghi o con snodi commerciali storici. La relativa uniformità del reddito pro capite non significava, tuttavia, che le condizioni di vita della popolazione fossero simili nelle diverse regioni. Nel 1861, la quota della popolazione classificata come povera era pari al 52% al Sud e al 37% al Centro-Nord, e nel Sud l’aspettativa di vita alla nascita nel 1871 era di 2 anni e 2 mesi inferiore rispetto al resto del Paese. Ancora più ampio, poi, era il divario riguardante le precondizioni per lo sviluppo industriale. La presenza di fattori chiave, come la dotazione di risorse fondamentali (acqua) e la vicinanza ai mercati europei, era decisamente più favorevole al Nord. Il Sud era inoltre svantaggiato anche rispetto ad altri prerequisiti, quali le infrastrutture, la disponibilità di capitale umano e la questione dell’ordine pubblico. Fu, quindi, l’avvento dell’industrializzazione ad accentuare il gap Nord-Sud nello sviluppo economico.

IL MEZZOGIORNO. CRISI E PROSPETTIVE DI SVILUPPO

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L’unificazione comportò, inoltre, il consolidamento del debito pubblico, il quale proveniva per circa i due terzi dal Piemonte. Al netto delle spese per le guerre d’indipendenza, secondo Banca d’Italia, il debito pro capite era di 188 lire in Piemonte contro le 84 del Regno delle Due Sicilie e le 55 del Granducato di Toscana: l’unificazione del debito ha quindi indotto un trasferimento di risorse reali dal Sud al Nord del Paese. Lo stesso è accaduto per la tassazione che, nel Sud preunitario, così come la spesa pubblica, era particolarmente bassa. Tra gli ultimi decenni del XIX secolo e l’avvento del regime fascista, furono tante le politiche economiche messe in atto per risolvere la Questione meridionale, ma nessuna fu mai realmente efficace e nel periodo fra le due guerre mondiali la situazione non fece che peggiorare. L’autarchia danneggiò il Sud determinando, nel 1951, nuove «condizioni di partenza», per molti aspetti peggiori di quelle del 1861.

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A partire dal 1951 e per circa vent’anni, il Sud conobbe invece un periodo di sviluppo eccezionale: nel momento di maggiore crescita complessiva della storia economica italiana, per la prima e ultima volta dall’Unità, il divario di reddito tra Sud e Centro-Nord si ridusse significativamente. Questo recupero fu dovuto all’aumento della produttività e alla contrazione relativa della popolazione. L’ampliamento della base industriale meridionale si rivelò, però, insufficiente per numero d’imprese e non resse i forti mutamenti dello scenario competitivo che si manifestarono a partire dagli anni Settanta. La contrazione della popolazione dovuta a spostamenti massicci di persone verso il Nord Italia offrì poi importanti opportunità agli abitanti del Sud, ma allo stesso tempo privò queste regioni di molti degli elementi più intraprendenti della sua forza lavoro. L’emigrazione contribuì dunque a causare l’indebolimento del tessuto di competenze specifiche, artigianali e industriali, che avevano radici nel Mezzogiorno già prima della guerra e che avrebbero potuto favorirne lo sviluppo. Per questi motivi, dagli anni ’70 a oggi, il divario tra il Sud e il resto d’Italia è nuovamente aumentato.

Un enorme ostacolo all’imprenditoria rimane poi la presenza di numerose imprese riconducibili alla forma di partecipazioni pubbliche (statali, regionali e comunali). Lo smantellamento di alcune di queste, negli anni recenti, ha comportato il crollo di

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un tradizionale puntello dell’economia meridionale. È quindi possibile che un intervento pubblico abbia contribuito ad un ampliamento dei divari economici e sociali tra il Mezzogiorno e il resto del Paese.

La situazione attuale Il 2015, ultimo anno per cui ad oggi si hanno dati completi, è stato senza dubbio eccezionale per il Mezzogiorno: si è infatti interrotto un crollo del PIL che durava da sette anni e la crescita è stata persino superiore a quella registrata nel Centro-Nord. L’aumento del PIL nelle regioni del Sud ha beneficiato di alcune condizioni peculiari: l’annata agraria particolarmente favorevole e la crescita nei servizi, specialmente nel settore del turismo. Anche la domanda estera netta ha dato un contributo positivo, con un incremento delle esportazioni verso il resto del mondo del 4%. Questo risultato ha solo in misura molto parziale ridotto il depauperamento delle risorse del Mezzogiorno e del suo potenziale produttivo. Il forte calo degli investimenti ha infatti nel tempo diminuito in modo strutturale la capacità industriale, che ha perso quindi in competitività. Il Mezzogiorno permane così in una situazione caratterizzata da bassa produttività, bassa crescita, e minore benessere complessivo. La rilevante ripresa dell’occupazione avviatasi in Italia dalla seconda metà degli anni Novanta, e che ha raggiunto il suo culmine nel 2008, si è arrestata al Sud già nei primi anni Duemila. È dal 2002 che il mercato del lavoro meridionale fa registrare una sostanziale stagnazione, cui è seguito un crollo inevitabile durante la crisi. Fatto 100 il livello di occupazione del 1992 in entrambe le macro aree, il Centro-Nord oggi si trova al 112, mentre il Mezzogiorno poco sopra il 90. Le strategie di risposta alla forte concorrenza internazionale sui prodotti a basso contenuto d’innovazione hanno generato una crescita delle occupazioni non qualificate e un preoccupante fenomeno di downgrading dell’occupazione. Collegati a questi fenomeni sono: il rallentamento della crescita dell’occupazione nelle grandi imprese che si caratterizzano per una domanda di lavoro più qualificata professionalmente, e la tendenza del sistema produttivo a mantenere la competitività più attraverso l’abbattimento dei costi che mediante la crescita della produttività con l’innovazione tecnologica.

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Su queste dinamiche ha senza dubbio inciso l’esplosione delle forme di lavoro temporanee, tra cui l’utilizzo dei voucher per il “lavoro accessorio”: nel 2015 ne sono stati riscossi 88 milioni da 1,38 milioni di lavoratori. Benché solo un quarto di essi siano stati utilizzati nel Mezzogiorno, è in quest’ultima area che si sono registrati gli incrementi maggiori. L’insieme di queste evidenze conduce a qualche considerazione problematica: l’intervento sul lavoro, rappresentato dal combinato del Jobs Act e della decontribuzione, pur avendo fatto registrare alcuni segnali positivi, non è riuscito a modificare il comportamento prevalente delle imprese, che tendono ancora a privilegiare, come prima forma di assunzione, l’occupazione a termine e l’occupazione atipica. L’aspetto più grave della cattiva condizione in cui versa l’economia, non solo meridionale, ma dell’Italia intera, è la disoccupazione giovanile. L’Italia ha quote inferiori a tutti gli altri paesi per quanto riguarda i giovani occupati. Il Sud, in particolare, si colloca in fondo ad ogni classifica europea, facendo registrare una condizione giovanile nel mercato del lavoro peggiore non solo della Spagna, ma persino della Grecia. Anche le statistiche riguardanti la formazione professionale sono negative: gli anni più recenti si sono caratterizzati per l’inversione del processo di accumulazione di capitale umano che stava avvicinando l’Italia, Sud compreso, ai livelli di istruzione terziaria dei principali Paesi europei. La precondizione indispensabile per lo sviluppo è la tutela dello Stato di diritto che, nel Mezzogiorno, significa lotta alla corruzione e contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Le stringenti condizioni di accesso al credito, acuitesi durante la crisi, rappresentano così un’ulteriore criticità che accentua la vulnerabilità delle imprese meridionali.

Redditi e lavoro Secondo l’ultima rilevazione ISTAT disponibile (2016), nel rapporto “Noi Italia, 100 caratteristiche per capire il Paese in cui viviamo”, il PIL pro capite nel Mezzogiorno (16.761 euro) è circa la metà di quello del Nord Ovest (30.821) e del Nord Est (29.734 euro). Per quanto riguarda le politiche per il lavoro previste per il 2017, la decontribuzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato al Sud, previste già nel Jobs Act, varrà solo per i giovani

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e i disoccupati. La decontribuzione sarà totale, fino a 8.060 euro, per 12 mesi per gli imprenditori delle regioni meridionali che assumeranno a tempo indeterminato o in apprendistato giovani tra i 15 ed i 24 anni, e disoccupati con più di 24 anni privi di impiego da almeno sei mesi. A questo proposito, è utile riflettere sull’interazione tra disoccupazione e settore irregolare e sugli effetti di lungo periodo della crisi economica nei confronti di queste due variabili. Nel Mezzogiorno, il lavoro irregolare ha contribuito ad assorbire, almeno parzialmente, gli effetti della crisi economica sul calo occupazionale. Tuttavia, proprio per questo motivo, le categorie tipicamente già al margine del mercato del lavoro rischiano di entrarci in modo irregolare, con effetti negativi in termini di protezione sociale e assicurativa, e di sottoutilizzazione del capitale umano – si pensi anche alla carenza di formazione continua dovuta a queste forme di lavoro. Legati alle politiche per il lavoro sono poi i fondi europei, di cui il Meridione è grande beneficiario. La Banca d’Italia fornisce dati sull’avanzamento finanziario a fine 2013 di circa 750.000 progetti cofinanziati dai fondi europei, con risorse pubbliche pari ad oltre 50 miliardi di euro. I dati confermano un avanzamento finanziario complessivamente basso, migliore nelle regioni del Centro-Nord (65,5%) rispetto a quelle del Sud (50,1%); allo stesso tempo confermano che la dimensione media degli interventi è più elevata nel Mezzogiorno. La principale conclusione che se ne può trarre è che il minore avanzamento finanziario del Sud possa essere interamente spiegato dalla peggiore performance dei lavori pubblici in queste regioni. Infatti, al netto dei lavori pubblici lo scarto Sud/ Centro-Nord si azzera (70,1% contro 70,9%). Per i 18,8 miliardi di progetti del Sud e per i 10,6 miliardi del Centro-Nord che non sono opere pubbliche la velocità di realizzazione è identica. È dunque la realizzazione dei lavori pubblici che fa la differenza; al Sud i lavori pubblici pesano molto di più (50%) che al Centro-Nord (19,8%) sul totale della programmazione: 18,8 miliardi di finanziamento pubblico contro 2,6. Occorre quindi focalizzare l’attenzione sulle innumerevoli criticità che emergono dalla realizzazione di opere pubbliche in tutto il Paese, e particolarmente in Campania, Calabria e Sicilia, connesse sia alla loro dimensione sia alla pluralità di soggetti re-

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alizzatori e alle loro capacità manageriali. Andrebbe dunque ripensata la politica di spesa pubblica, italiana ed europea, a favore delle zone più povere, quali appunto il Mezzogiorno.

I finanziamenti comunitari Per il periodo 2007-2013 sono stati destinati all’Italia circa 28 miliardi di euro, mentre per il periodo 2014-2020 la cifra sale a quasi 33 miliardi. A queste somme vanno poi aggiunte quelle derivanti dal cofinanziamento nazionale, che ammontano a circa 27 miliardi per il periodo 2007-2013 e previste in circa 20 miliardi di euro per quello in corso. La maggioranza delle risorse è indirizzata alle regioni del Mezzogiorno, poiché rientrano nella fascia delle “regioni meno sviluppate”. Dato lo stock importante di risorse messe in campo, sarebbe necessario, e forse ottimale, ripensare l’utilizzo dei fondi in un’ottica di agevolazioni fiscali mirate alle regioni sottosviluppate, attraverso riduzioni di Irap, Ires, cuneo fiscale, IMU su immobili aziendali o a uso commerciale, che avrebbero un maggior impatto sulla crescita. Questa manovra si rivelerebbe come un sollievo per le imprese già in loco, e soprattutto un incentivo decisivo per chi avesse intenzione di investire nel Sud. Anche i giovani sarebbero senz’altro tra i beneficiari, avendo più possibilità di intraprendere un’attività lavorativa nella terra d’origine.

Proposte per lo sviluppo Dopo la lunga disamina dei problemi del Mezzogiorno, risulta ora interessante accennare ad una proposta seria e completa, elaborata qualche anno fa dall’Istituto Bruno Leoni. Secondo l’Istituto di ricerca torinese, il Mezzogiorno dovrebbe abbandonare la via dell’assistenzialismo, attuando la cosiddetta “No Tax Region”: scegliendo la strada della competizione si candiderebbe a diventare una delle aree più dinamiche della zona euro-mediterranea. La proposta consiste nell’abolizione dell’Ires per dieci anni per le imprese che investono nel Mezzogiorno, con l’eventuale previsione di un’aliquota ridotta per un periodo ulteriore di cinque anni. Chi investirà al Sud, non pagherà tasse sugli utili. Il calo di gettito fiscale sarebbe finanziato con la soppressione di un uguale importo di sussidi alle imprese. L’abbattimento della pres-

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sione fiscale è una leva per l’attrazione degli investimenti privati, ma è soprattutto un messaggio chiaro di “astensione” della politica e della burocrazia dalle dinamiche economiche.

Ipotesi federalista La proposta precedente s’inserisce nell’ambito dell’ordinamento costituzionale attuale. Può rivelarsi interessante, però, provare a riflettere su un’ipotesi alternativa: una riforma federalista. Fin dalle origini della vicenda risorgimentale, il contributo politico-culturale dei federalisti (si pensi a Carlo Cattaneo o a Giuseppe Ferrari) è stato importante. Il federalismo si poneva, e si pone tutt’oggi, come una possibile soluzione alla questione meridionale. Esso svilupperebbe una forte competizione tra comuni e tra regioni, che porterebbe da una parte ad abbassare tasse e spesa pubblica, per attirare popolazione, dall’altra a creare un sistema burocratico semplice, snello per attirare imprese e capitali. Non c’è mai stato alcun reale federalismo in Italia, quindi è opportuno chiedersi se l’implementazione del federalismo fiscale possa comportare dei vantaggi rispetto all’attuale sistema. I risultati del modello attuale sono sotto gli occhi di tutti. Un circolo vizioso, una volta innescato, è sempre difficile da fermare, ma lo è ancor di più in un territorio che vive (o sopravvive) di assistenzialismo e clientelismo favorito da trasferimenti statali che assorbono risorse provenienti da altre Regioni. In questa situazione economica, una maggiore responsabilizzazione in tema di autonomia fiscale potrebbe rappresentare un incentivo significativo per la classe dirigente al fine di operare con cognizione e seriamente, non potendo più contare sul flusso di finanziamenti continuo da Roma e da Bruxelles.

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Fonti Toniolo G. (a cura di), L’Italia e l’economia mondiale, Dall’ Unità ad oggi, Venezia (2013) Rapporto Svimez 2016 sull’economia del Mezzogiorno L’economia delle regioni italiane. Dinamiche recenti e aspetti strutturali, (2014) ‘Condizioni economiche delle famiglie’, su Noi-Italia.istat.it - bit.ly/2r8w6N1 ‘Poletti: dal 1° gennaio 2017 decontribuzione totale per le assunzioni di giovani e di disoccupati al Sud’ su Lavoro.gov.it, 16 novembre 2016 - bit.ly/2fYr3Z0 ‘La rivincita del Mezzogiorno parte dalla NoTax Region’, su Brunoleoni.it, 28 agosto 2009 - bit.ly/2r6T1Y4

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LA LEGGE BIAGI L’introduzione della riforma Il disegno di legge che prende il nome di “Legge Biagi” viene presentato al Parlamento nel 2001, con l’intento di rendere più efficiente il mercato del lavoro e ridurre il divario tra la percentuale di occupati in Italia e quella prevista dai target europei. Il contenuto della Legge si inserisce nell’ambito del disegno riformatore proposto dal “Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità”, redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Maurizio Sacconi e da Marco Biagi. Questa Riforma è definitivamente attuata con l’approvazione al Senato nel 2003, per poi subire alcune variazioni sotto il Governo Prodi II nel 2004 ed essere nuovamente modificata nel 2008, con il Governo Berlusconi IV.

I contenuti La Riforma introduce nuove fattispecie contrattuali come i contratti di collaborazione a progetto (conosciuti come co.co.pro.), la somministrazione, che sostituisce il lavoro interinale, ed altre tipologie come il contratto di apprendistato ed il contratto di lavoro intermittente. Vengono previste, inoltre, riduzioni dei contributi previdenziali ed assistenziali a favore dei datori di lavoro che assumono donne. La riforma Biagi introduce inoltre la “certificazione”, una speciale procedura finalizzata ad attestare che il contratto che si vuole sottoscrivere abbia i requisiti di forma e contenuto richiesti dalla legge. È una procedura a carattere volontario, può essere eseguita solo su richiesta di entrambe le parti (futuro lavoratore e datore di lavoro), su tutte le tipologie contrattuali, e ha lo scopo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione di alcuni contratti di lavoro. Se l’intento dichiarato dell’introduzione di questo strumento era quello di garantire una maggiore certezza del diritto, riducendo i contenziosi sulla qualificazione dei contratti di lavoro,

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appare anche evidente come esso abbia rappresentato un valido metodo per incentivare il ricorso a rapporti di lavoro flessibili, ai quali garantiva infatti maggiore certezza.

Gli effetti sul mercato del lavoro L’introduzione di questa Riforma prosegue la tendenza, diffusa anche a livello europeo e già iniziata verso la fine degli anni Novanta, a ridurre le protezioni per i lavoratori ed incentivare la flessibilità nei rapporti di lavoro, con il fine di aumentare l’occupazione.

La legge sembra aver prodotto in un lasso di tempo relativamente breve i suoi effetti: trascorsi i primi anni dalla sua introduzione, i livelli di occupazione, trainati dal contratto a tempo determinato, registrarono infatti un forte aumento. Nel 2006, l’Istat certifica una discesa del tasso di disoccupazione, che torna così ai livelli del 1992. Si registra, inoltre, un aumento dell’occupazione femminile. Sono questi gli anni in cui la maggiore flessibilità del mercato porta ad aumenti consistenti dell’occupazione, anche superiori alle aspettative. L’effetto “luna di miele”, cui si è accen-

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nato nel capitolo di apertura e, nel seguito, nell’intervista al Prof. Pietro Garibaldi, terminerà poi con l’avvento della Grande Crisi. Le critiche a questa riforma tuttavia non sono mancate, sin dalla sua approvazione: in particolare, venne criticata l’assunzione implicita di una correlazione tra flessibilità ed occupazione, accusando i promotori della legge Biagi di aver quindi precarizzato il mondo del lavoro senza una solida base teorica ed empirica circa l’opportunità di queste misure.

LA RIFORMA FORNERO L’insediamento del Governo Monti Nel novembre 2011, Silvio Berlusconi, già indebolito politicamente da scandali di natura personale, in seguito alle crescenti pressioni ed all’instabilità dei mercati finanziari, rassegna le dimissioni da Presidente del Consiglio. A sostituirlo è Mario Monti, alla guida di un governo “tecnico” che può beneficiare di un largo consenso in Parlamento. Il Governo Monti viene ricordato principalmente per le misure di austerità e per la riforma delle pensioni che prende il nome dell’allora Ministro del Lavoro Elsa Fornero.

L’approvazione della riforma Tra le misure prese da tale Governo vi è anche la Riforma del Lavoro, approvata nel giugno 2012. Questa legge non incontrò il consenso di tutte le parti politiche: alcuni esponenti del centrodestra si rifiutarono di votarla in Parlamento, mentre da sinistra si levarono molte critiche, in particolare a causa delle modifiche delle norme sui licenziamenti, giudicate di stampo liberista, e quindi dannose. Tuttavia, malgrado la disapprovazione, la legge passa senza incontrare particolari ostacoli: nonostante le frizioni interne alla maggioranza e le manifestazioni organizzate dai sindacati, i numeri in Parlamento sono sufficienti a garantirne l’approvazione.

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I contenuti La legge 92/2012 può essere sintetizzata in tre punti:

Viene messa in atto la razionalizzazione delle tipologie contrattuali esistenti, con l’obiettivo di incentivare l’utilizzo del contratto a tempo indeterminato. L’apprendistato diventa il contratto privilegiato per l’accesso al mondo del lavoro e le sue possibilità di utilizzo vengono conseguentemente ampliate.

Viene inoltre introdotta una redistribuzione delle tutele dell’impiego: da una parte si contrasta l’uso improprio della flessibilità in uscita, dall’altra viene modificato l’Articolo 18. In particolare, lasciando inalterata la disciplina dei licenziamenti discriminatori, si modifica il regime dei licenziamenti disciplinari e dei licenziamenti economici. In queste ultime due fattispecie viene adottato un regime sanzionatorio differenziato a seconda della gravità dei casi in cui sia accertata l’illegittimità del licenziamento: si ricorre alla reintegrazione nei casi più gravi, mentre per i meno gravi è previsto il pagamento di un’indennità risarcitoria. Infine, si introduce una specifica procedura per le controversie giudiziali aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti.

La legge opera un’ampia revisione degli strumenti di tutela del reddito, in primo luogo attraverso la creazione di un unico ammortizzatore sociale (ASpI – Assicurazione Sociale per l’Impiego) in cui confluiscono l’indennità di mobilità e l’indennità di disoccupazione. Il nuovo ammortizzatore amplia sia il campo dei beneficiari, sia i trattamenti: in particolare, oltre all’estensione nei confronti di categorie prima escluse – come gli apprendisti –, fornisce una copertura assicurativa per i soggetti che entrano per la prima volta nel mercato del lavoro e per coloro che registrano brevi esperienze lavorative. L’ASpI sostituisce inoltre i casi in cui la Cassa integrazione straordinaria (CIGS) veniva utilizzata per coprire esigenze non connesse alla conservazione del posto di lavoro. Viene infine confermata la disciplina per la Cassa Integrazione Ordinaria vigente.

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La legge introduce infine strumenti volti al rafforzamento delle politiche attive del lavoro e del ruolo dei servizi per l’impiego, per i quali vengono individuati livelli essenziali di servizio omogenei su tutto il territorio nazionale. Sono previsti inoltre incentivi per accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro – ad esempio con l’introduzione di norme di contrasto alle cosiddette “dimissioni in bianco” e misure per il sostegno della genitorialità – e per il sostegno dei lavoratori più anziani.

Gli effetti sul mercato del lavoro Questa Riforma del lavoro viene introdotta in un periodo di prolungata recessione, e di questo fattore occorre dunque tener conto nel misurarne gli effetti. Analizzando le percentuali dei tassi di variazione degli avviamenti notiamo come siano diminuiti, in seguito alla Riforma, i contratti di apprendistato, di lavoro parasubordinato e di lavoro intermittente – quest’ultimo subisce un vero e proprio crollo. Aumentano invece i contratti di lavoro a tempo indeterminato e, anche se solo in minima parte, i contratti a tempo determinato.

Gli andamenti dei contratti a tempo indeterminato e determinato farebbero supporre un passaggio da alcune forme contrattuali più flessibili a quelle più stabili, ma con un volume di avviamenti complessivamente in calo. Diverse analisi econometriche svolte sulle serie temporali degli avviamenti, dei saldi fra avviamenti e cessazioni e, infine, degli occupati, confermerebbero l’associazione negativa tra la Riforma e la dinamica del volume complessivo di lavoro.

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Sebbene non si possano trarre conclusioni definitive, l’effetto della Riforma sembra esser stato duplice: da un lato, avrebbe prodotto un meccanismo di sostituzione tra le diverse forme di lavoro, riducendo le distorsioni e gli abusi nell’utilizzo di alcuni contratti atipici; dall’altro, avrebbe disincentivato le imprese ad assumere nuovi lavoratori o a rinnovare i contratti in scadenza.

IL JOBS ACT L’iter di approvazione, favorevoli e contrari Nel gennaio 2014 il Segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, lancia l’iter di una Riforma del mercato lavoro che introduca il contratto unico a tutele crescenti, una semplificazione delle regole esistenti, una modifica della rappresentanza sindacale, un assegno universale di disoccupazione ed un’Agenzia Nazionale per l’Impiego. Con la nascita del Governo Renzi, la Riforma viene introdotta tramite due provvedimenti: il cosiddetto Decreto Poletti (dal nome del Ministro del Lavoro) nel marzo 2014 e una legge nel dicembre dello stesso anno, che ne va a completare il disegno. Le deleghe vengono attuate l’anno seguente mediante l’emanazione di decreti legislativi. La Riforma del lavoro è stata causa non solo diverse manifestazioni di protesta da parte dei sindacati, ma anche di frizioni all’interno del principale partito di maggioranza, il PD: l’ala sinistra del partito infatti bolla il Jobs Act come eccessivamente a favore delle imprese. Un parere negativo sulla legge viene dato inoltre dai partiti all’opposizione. Favorevoli alla riforma sono invece la maggioranza dei Democratici, i centristi e Confindustria.

La riforma 1. Il decreto Poletti 1.1. Viene inserito un tetto al numero di contratti di lavoro a tempo determinato che l’azienda può stipulare. Il datore di lavoro può infatti stipulare contratti a tempo determinato nel limite del 20% del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato

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in forza al primo gennaio dell’anno di assunzione. Per i contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, rimane la possibilità di individuare limiti quantitativi differenti per il ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato. Per le aziende che non rispettano il limite del 20 per cento è prevista una sanzione amministrativa a carico del datore di lavoro. 1.2. Viene rafforzato il diritto di precedenza delle donne in congedo di maternità per le assunzioni da parte del datore di lavoro, nei 12 mesi successivi, in relazione alle medesime mansioni oggetto del contratto a termine. 1.3. Per quanto riguarda la stabilizzazione al termine del contratto di apprendistato, il Decreto legge riduce gli obblighi previsti dalla legislazione previgente ai fini di nuove assunzioni in apprendistato (obbligo di stabilizzazione del 30% degli apprendisti nelle aziende con più di 10 dipendenti). Da un lato, l’applicazione della norma viene quindi limitata alle sole imprese con più di 50 dipendenti, dall’altro, viene ridotta al 20% la percentuale di stabilizzazione.

2. La legge delega e decreti attuativi 2.1. Con il contratto a tutele crescenti cambia la disciplina dei licenziamenti. Per i licenziamenti economici viene esclusa la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro. Viene previsto invece un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio. Il diritto alla reintegrazione si limita ai licenziamenti nulli e discriminatori, e a particolari casi di licenziamento disciplinare ingiustificato. Vengono previsti inoltre termini certi per l’impugnazione del licenziamento. 2.2. Viene riformato il sistema degli ammortizzatori sociali: nasce la NASpI (in sostituzione dell’ASpI), che fornisce una prestazione economica a favore del lavoratore che venga a trovarsi in stato di disoccupazione per ragioni che non dipendono dalla sua volontà. Si introduce inoltre un assegno di disoccupazione destinato ai soggetti che abbiano fruito della NASpI per l’intera

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sua durata senza aver trovato una nuova occupazione e che si trovino in una condizione economica di bisogno. L’assegno è erogato mensilmente per una durata massima di sei mesi e il suo importo è pari al 75% dell’ultima indennità NASpI percepita. 2.3. Si istituisce un’agenzia unica per le ispezioni del lavoro, denominata Ispettorato del Lavoro, che svolge le attività ispettive finora compiute dalle Direzioni Territoriali del Lavoro, da INPS e INAIL. 2.4. Vengono introdotte misure volte alla tutela della maternità e a favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire adeguato sostegno alle cure parentali. 2.5. La disciplina di molti contratti di lavoro (la collaborazione a progetto, la somministrazione, il lavoro a chiamata, il lavoro accessorio, l’apprendistato, il part-time) viene modificata. Anche queste misure hanno l’obiettivo di rendere il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la forma principale del rapporto di lavoro. 2.6. Vengono introdotte diverse novità in tema di mansioni e di jus variandi in capo al datore di lavoro: si introduce la possibilità di mutamento delle mansioni per tutte le mansioni rientranti nello stesso livello e categoria legale di inquadramento (e non più soltanto per mansioni “equivalenti”); diventa possibile assegnare il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale (c.d. demansionamento) in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali o nelle ulteriori ipotesi previste da contratti collettivi (anche aziendali), con diritto alla conservazione del trattamento retributivo; viene infine introdotta la possibilità di stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, quando ciò costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento. 2.7. Viene istituita l’ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, avente personalità giuridica di diritto pubblico e sottoposta alla vigilanza del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali) con la finalità principale di coordinare le politiche attive del lavoro. 2.8. Viene disposto che le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro siano fatte, a pena di inefficacia, esclu-

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sivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del Lavoro e vengono estesi i presupposti per l’utilizzo di strumenti dai quali derivi anche la possibilità di un controllo a distanza dei lavoratori. Vengono infine introdotte una serie di norme volte a semplificare l’inserimento nel mondo del lavoro di persone con disabilità.

Gli effetti sul mercato del lavoro Sugli effetti del Jobs Act (ed in particolare sul suo impatto sulla disoccupazione) sono state espresse opinioni contrapposte: la maggioranza di governo lo descrive come un successo, mentre di parere opposto sono le opposizioni. Probabilmente è ancora presto per dare giudizi definitivi, tuttavia è possibile fare alcune considerazioni preliminari. Se un miglioramento economico generalizzato c’è stato, tuttavia ancora non è chiaro quale sia stato il ruolo da un lato della congiuntura economica globale e dall’altra delle decontribuzioni previste dalla legge di stabilità ed entrate in vigore partire dal gennaio 2015: questa misura ha portato ad un notevole abbassamento del costo non salariale del lavoro, incoraggiando quindi le assunzioni.

Fonti “An Analysis of the Biagi Law”, Eryk Wdowiak, 2017. Banche Dati de IlSole24Ore. Economia e Politica, rivista online. Gazzetta Ufficiale Istat.it Lavoce.info Senato.it

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rielaborazione su fotografia di Niccolò Caranti

intervista ELSA FORNERO Elsa Fornero è Professoressa ordinaria di Economia Politica presso l’Università di Torino e coordinatrice scientifica del CeRP (Center for Research on Pensions and Welfare Policies). Dal 2011 al 2013 ha ricoperto la carica di Ministro del Lavoro, delle Politiche Sociali e delle pari opportunità durante il governo Monti, in questo periodo è stata fautrice di due importanti riforme: quella delle pensioni e quella del lavoro, approvate rispettivamente a fine 2011 e metà 2012. In seguito alla cambio di esecutivo nel 2013, è ritornata a dedicarsi alla propria attività accademica. Attualmente è inoltre Vice-Presidente di Share Eric ed Honorary Senior Fellow presso il Collegio Carlo Alberto, i suoi campi di interesse includono l’economia del risparmio e delle pensioni.

di Francesco Beraldi

Università degli Studi di Torino & Collegio Carlo Alberto


Gli osservatori internazionali non perdono occasione di sottolineare la necessità che l’Italia intraprenda una serie di riforme strutturali, quasi come se fino ad oggi queste fossero mancate. Come mai permane questa pervasiva sensazione di incompiuto, dal momento che molti ambiti, tra cui proprio il mercato del lavoro, hanno subito negli ultimi decenni importanti e numerosi interventi riformatori? Occorre innanzitutto ragionare sul concetto di riforma, in modo particolare per quanto riguarda le riforme che toccano in maniera profonda il ciclo di vita degli individui, ossia, con riferimento alle riforme del lavoro, l’arco di età adulta e matura delle persone. Sono convinta che in questi anni si sia data un’accezione troppo tecnica al concetto di riforma, basata su ricette che possono aver fornito empiricamente buona prova in contesti specifici, ma che sono in generale ancorate a una visione troppo astratta del mercato. Non si è, infatti, prestata sufficiente attenzione al modo in cui queste riforme, che incidono sulle scelte di vita delle persone, devono essere “fatte vivere” nella società. Spesso si ritiene, a mio avviso un po’ semplicisticamente, che per ottenere i risultati desiderati, sia sufficiente approvare leggi che introducano cambiamenti nelle regole. Una riforma, tuttavia, non è mai fatta soltanto di obblighi e divieti, che in ogni caso potrebbero, se non condivisi, essere almeno parzialmente aggirati. Questa impostazione sembra, tuttavia, essere tipica delle raccomandazioni di FMI, OCSE, e Banca Mondiale, che chiedono “riforme” con assiduità esasperante, senza preoccuparsi di come possano essere accettate e messe in pratica dalla società, di come possano promuovere cambiamenti nei modi di pensare e di comportarsi delle persone nelle loro diverse vesti (per esempio, di lavoratori e di datori di lavoro). La mancanza di risultati può essere così ricondotta al fatto che le riforme non riescono a penetrare nel cuore della società e finiscono con l’apparire innovazioni meramente tecniche, magari imposte dall’esterno per obiettivi che la maggioranza non riesce a comprendere e tanto meno a condividere. Una situazione che tende a ripetersi in Italia: il governo di cui ho fatto parte ha abbastanza radicalmente riformato il mercato del lavoro (con la Riforma che porta il mio nome, la Legge 92 del 2012), eppure qualcosa non ha funzionato. E ciò che non ha

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funzionato, secondo me, è proprio il “meccanismo di trasmissione” dal testo legislativo ai comportamenti sociali. A partire dalla fine degli anni ‘90, in un contesto di forte integrazione europea, l’Italia si avvia ad una serie di riforme volte a liberalizzare il mercato del lavoro. Le chiederei di evidenziare i bisogni del sistema produttivo alla base di questa esigenza di flessibilizzazione, soffermandosi inoltre sulle conseguenze che la maggiore flessibilità in entrata ha avuto sulla segmentazione del mercato del lavoro italiano. L’Italia aveva tradizionalmente un mercato del lavoro piuttosto rigido, sul quale successive riforme, dalla Treu alla Biagi, hanno innestato norme di liberalizzazione, ritenute più consone all’esigenza di competere nel mercato globale e di aumentare la produttività. Il risultato di queste riforme, in sé positive, è stato però di creare aree di precarietà accanto al segmento tradizionalmente “protetto” – in larga misura identificato con i maschi adulti - dal quale era difficile uscire, per la tutela dell’articolo 18, ma nel quale era altrettanto difficile entrare. La flessibilizzazione ha determinato la marginalizzazione, e in alcuni casi la totale esclusione, di segmenti di lavoratori che facevano fatica a entrare (rientrare) nel lavoro protetto. È il caso dei giovani, e in particolare dei Neet, che si trovano nella peggiore condizione possibile: quella di non usare il proprio capitale umano, ponendolo così a rischio di deterioramento; è il caso delle donne, ancora troppo spesso viste come fornitrici di un reddito complementare a quello del coniuge; ed è il caso dei lavoratori anziani, per i quali le difficoltà di lavoro implicavano non già politiche attive, bensì l’incanalamento in schemi di protezione sociale in attesa del pensionamento (anticipato). L’eccessivo peso della contrattazione al livello nazionale, più lontano dall’ambito in cui si determina la produttività, rappresentava un’ulteriore fonte di rigidità. L’idea di rendere flessibile il mercato del lavoro rispondeva pertanto a esigenze pratiche di adeguamento di questo mercato ai cambiamenti dell’economia, ma poggiava anche su un’impostazione scientifica recente che ha cercato di privilegiare l’analisi dinamica dei flussi (entrate e uscite dal mercato) rispetto all’analisi statica degli stock (numero di occupati/disoccupati). Questa analisi si basa sul principio che se è difficile uscire dal mercato è anche difficile entrarvi e più che guardare alla platea dei disoccupati di un certo momento indaga i processi di entrata nel mondo

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del lavoro e di uscita dalla disoccupazione, e i fattori che li ostacolano, determinando disoccupazione di lungo termine o addirittura permanente. Le implicazioni di politica economica di questa analisi hanno così sottolineato la necessità rendere il mercato del lavoro più flessibile, quale condizione per superare le segmentazioni e la marginalizzazione e rendere il lavoro più dinamico e più inclusivo. Questa è la direzione che si è seguita in Italia, proprio a partire dal “pacchetto Treu”. Le riforme, tuttavia, hanno, sì, reso formalmente più accessibile il mercato del lavoro, ma nella pratica hanno determinato sacche di precarietà dalle quali è stato sempre più difficile uscire, complice anche la grande recessione. Da un lato, una flessibilità utilizzata soltanto per abbattere il costo del lavoro (obiettivo in sé giusto, ma insufficiente a rendere stabilmente più competitiva l’impresa) e non integrata da incentivi all’investimento, all’innovazione, alla riorganizzazione non consente un guadagno duraturo di competitività. Questo atteggiamento è peraltro riconducibile in parte alla struttura del nostro mondo produttivo, e cioè al prevalere di imprese piccole e piccolissime, per le quali l’abbassamento del costo del lavoro è spesso condizione per la sopravvivenza. Con questo tipo di utilizzo della flessibilità, tuttavia, l’impresa può stare a galla, ma difficilmente emerge nella competizione globale. D’altro canto, le riforme si sono scontrate con una dura opposizione sociale che non di rado ne ha screditato persino intenti e risultati attesi. La crisi d’identità del sindacato e una struttura sociale frammentata e poco coesa hanno grandemente contribuito a limitare l’efficacia del processo di riforme volte al rinnovamento del mondo del lavoro. Un tempo, sentendosi rappresentati da un partito o da un sindacato di riferimento, i cittadini potevano più facilmente accettare anche riforme che non condividevano appieno. Oggi questo legame si è fortemente attenuato, mentre l’accentuarsi di manifestazioni di democrazia diretta rende più difficile superare la dicotomia tra la visione “illuminata” della riforma, propria dei “tecnici”, e quella del cittadino, che finisce per interpretarla prevalentemente soltanto come perdita di diritti, alla quale è giusto opporsi. Questo rappresenta, a mio avviso, il vero “snodo” delle riforme, oggi.

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La Riforma del lavoro del 2012, che porta il suo nome, aveva tra gli obiettivi quello di superare la tradizionale carenza italiana di politiche del lavoro attive, quali sono a suo giudizio gli ostacoli, anche a livello di mentalità, che ancora oggi ne limitano l’attuazione, e come valuta le misure del Jobs Act che vanno in questa direzione? In questo tormentato percorso di riforme si inseriscono la Riforma del 2012, che porta il mio nome, e il successivo, più radicale Jobs Act del governo Renzi. Parlando della prima, l’obiettivo, scolpito nell’articolo 1 della legge, era sicuramente nello spirito sia di Treu sia di Biagi: rendere il mercato del lavoro più inclusivo e dinamico, combinando una giusta protezione del lavoratore con l’accettazione di una maggiore mobilità e flessibilità*. In particolare, credo che la modifica dell’articolo 18, poi superata dal Jobs Act, sia stata ingiustamente sottovalutata, come ha dimostrato recentemente Pietro Ichino (Corriere della Sera, 17 febbraio 2017), a proposito della “normalizzazione” dei processi per licenziamento seguiti alla nostra Riforma. Per quanto concerne le politiche attive, esse sono fondamentali per promuovere l’occupazione su due piani: l’occupabilità delle persone e una migliore efficienza del mercato. Per essere efficaci, esse richiedono però grande professionalità, e questo è uno dei punti di debolezza del nostro Paese. Faccio spesso il paragone tra mercati finanziari e mercati del lavoro. Noi accettiamo comunemente che alla base dei mercati finanziari ci sia professionalità specifica, che siamo anche disposti a pagare molto bene, perché riteniamo che i tecnici di questo settore siano in possesso di conoscenze “esoteriche” difficili da acquisire o persino da comprendere per un cittadino privo di una adeguata preparazione. Il mercato del lavoro, nel quale oggetto di scambio sono servizi prestati dalle persone, è anche più complesso del mercato finanziario, dove in definitiva si scambiano titoli, cioè sostanzialmente “promesse di pagamento”. Per questo motivo, le sue logiche e i suoi meccanismi dovrebbero essere pienamente compresi non *

Art 1: “La presente legge dispone misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado dicontribuire alla creazione di occupazione, in quantita’ e qualita’,alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione”.

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solo da parte dei tecnici che ispirano i cambiamenti legislativi, ma anche da parte di chi ci lavora. Eppure, in particolare nelle agenzie pubbliche del lavoro, la professionalità specifica non è quasi mai stata considerata un prerequisito indispensabile al buon funzionamento delle stesse. Non è pensabile che un qualsiasi dipendente pubblico possa essere trasferito, senza adeguata formazione, nell’ufficio per il lavoro, perché non ha le conoscenze necessarie per aiutare una persona a inserirsi/reinserirsi. In questo contesto è sicuramente positiva la collaborazione che si è instaurata tra agenzie pubbliche e private: queste ultime per avere successo devono avere standard e risultati apprezzabili, e questo ha innescato una competizione che ha fatto bene anche agli uffici pubblici del lavoro. L’altro esempio è quello del cosiddetto life long learning, ossia della “formazione permanente”. Oggi la sola formazione all’inizio del proprio ciclo di vita non è più sufficiente. Già in passato erano necessari degli adeguamenti periodici ma ora neppure questi bastano. La “formazione permanente” implica innanzitutto una consistente offerta formativa a livello aziendale per l’aggiornamento del personale, ma è fondamentale anche occuparsi del “capitale umano” di chi non ha un lavoro: quando una persona rimane fuori dal mercato tende rapidamente a perdere professionalità ma anche la capacità di acquisirne di nuove. Il superamento dei molti ostacoli a una maggiore presenza e a una maggiore efficacia delle politiche attive era un obiettivo fondamentale della mia Riforma. Purtroppo, mi sono dovuta fermare prima, anche perché le politiche attive sono, ancora oggi, largamente decentrate a livello regionale (era una delle innovazioni che la modifica costituzionale si proponeva di superare e che è stata cancellata con la vittoria del no al referendum) e mancò l’appoggio delle regioni a causa del prematuro scioglimento di alcune di esse (Lazio, Lombardia e Molise). In ogni caso, per riagganciarmi alle cose dette in apertura, quella della “formazione permanente” è davvero una riforma “del modo di pensare”: occorre invertire una “cultura” fatta di risorse sprecate in finti corsi di formazione, di mancanza di professionalità, di clientelismo. Per questo, introducemmo l’ASpI, acronimo di un nome non casuale: Assicurazione Sociale per l’Impiego, inteso esattamente come pre-requisito e supporto alle politiche attive, un

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sostegno finanziario alle persone impegnate nella ricerca di un (nuovo) impego. Sicuramente, una delle innovazioni più importanti della nostra Riforma. La rivoluzione digitale e l’automazione rappresentano una grande opportunità di sviluppo, ma anche una minaccia alla stabilità di milioni di posti di lavoro. Ritiene credibile questo rischio, e quali soluzioni ritiene possano mitigare questi effetti negativi, sia in chiave preventiva per i lavoratori, sia in ottica di reinserimento per i disoccupati? Benoît Hamon, vincitore delle primarie nella sinistra francese, aveva tra i punti del proprio programma l’inasprimento della tassazione per le imprese i cui stabilimenti vengono “robotizzati”, nei quali, cioè, si sostituiscono i robot ai lavoratori. Per quanto l’obiettivo di salvare posti di lavoro sia sempre nobile ritengo che la ricetta proposta sia inadeguata, e di retroguardia. La storia ha sempre dimostrato che per quante sofferenze umane le nuove tecnologie possano determinare, cercare di impedirne l’adozione è al massimo una tattica di breve termine, che non elude, in alcun modo, la necessità di trovare strategie di medio periodo. Accettare l’innovazione tecnologica, significa rendersi conto che la sostituzione dei robot agli esseri umani produrrà maggiori difficoltà nel trovar lavoro e che occorre prepararsi, non già frenando l’innovazione, ma occupandosi fattivamente di chi è stato così “sostituito” e ha pertanto bisogno di un nuovo addestramento e di ricollocazione. L’assegno di “ricollocazione”, introdotto dal Jobs Act, è uno strumento. Occorrerà monitorarne gli effetti e integrarlo con altre misure volte a migliorare l’occupabilità delle persone. Occorrerà soprattutto creare lavoro nuovo e questo inevitabilmente avverrà in quelle attività in cui gli esseri umani, forniti di preparazione adeguata, saranno competitivi con le macchine. Purtroppo gli esempi concreti riguardano soprattutto di forme di “lavoro povero”: gli Stati Uniti hanno creato lavoro soprattutto nel settore non competitivo dei servizi, in particolare dei servizi alle persone, che non richiedono una grande qualificazione. Non possiamo limitarci a simili risultati: diversi studi mostrano che molte delle attuali professioni scompariranno nel giro di una ventina d’anni. Si comprende facilmente il senso di paura che ciò può generare. Rinchiudersi, però, non aiuta. Nuovamente, la ricerca di soluzioni non può che riguardare l’istruzione e la formazione permanente, che non sono più un optional, ma una necessità.

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Non sono nemmeno del tutto convinta che ridurre il “lavoro pro capite” possa essere la strada giusta, anche se in passato è già stata seguita: con il progresso l’orario di lavoro si è infatti considerevolmente ridotto. Molto dipende dal modo in cui la produzione è organizzata e dalla possibilità di introdurre una più forte rotazione dei lavoratori. Mi sembra comunque una strada più percorribile che non la vecchia soluzione del mandare in pensione in anticipo per sostituire i lavoratori anziani con i giovani. E poi non tutti i problemi del mercato del lavoro si risolvono con modifiche nella regolamentazione di questo mercato. Per attivare nuovo lavoro servono soprattutto investimenti e crescita. La severa recessione che ha seguito l’instabilità finanziaria del 2011 ha esacerbato la dualità giovani-adulti nel mercato del lavoro, peggiorando la condizione dei giovani, nonostante alcuni vantaggi - come il potenziamento dell’apprendistato - che per loro erano stati previsti nella Riforma del 2012. Alla luce di questi risultati, quali pensa possano essere gli strumenti di coordinamento più consoni tra istruzione, imprese e centri per l’impiego per combattere la disoccupazione giovanile? E come valuta l’alternanza scuolalavoro introdotta nel 2015? Sono convinta che una delle maggiori debolezze strutturali nel nostro mercato del lavoro sia la scarsità del dialogo tra il mondo della formazione e il mondo del lavoro. Ci sono alcune aree del Paese, parlo soprattutto del Nord Est e in particolare del Trentino, in cui questo dialogo non solo è presente, ma è anche proficuo e di antica data: non è una soluzione tecnica recente, è un modo di lavorare incardinato da tempo nella società. Più in generale, però, in Italia questo dialogo è molto difficile soprattutto per la presenza di forti pregiudizi reciproci. Il pregiudizio della scuola nei confronti del mondo del lavoro è chiarissimo e talvolta nettamente ideologico. Il mercato del lavoro è visto, da una certa parte del mondo scolastico, come il luogo del “profitto” e dello sfruttamento, da cui è meglio rimanere lontani per dedicarsi alla formazione del cittadino, spesso interpretata in chiave anti-impresa. Dal canto suo, il mondo del lavoro considera l’inserimento, sia pure temporaneo, di studenti nelle fabbriche e negli uffici come una perdita di tempo e un costo addizionale. Questa è,

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secondo me, un’impostazione molto miope, e rappresentò una delle ragioni per cui, nella mia Riforma, insistetti sull’apprendistato, anche come preparazione a una vita di lavoro inevitabilmente caratterizzata da maggiore mobilità di funzioni e di datore di lavoro. L’apprendistato va inteso come “formazione applicata” che permette di acquisire valori tipici del mondo produttivo, come ad esempio il valore della competitività e l’accettazione delle “sfide”. Tutto questo, però, non si può ottenere in tempi brevi. Molte imprese sono disponibili a impiegare apprendisti, ma sono purtroppo principalmente interessate al loro minor costo. Quando feci la proposta di vincolare alla stabilizzazione di alcuni apprendisti la possibilità di assumerne altri – con lo scopo di evitare che le imprese utilizzassero l’apprendistato solo a fini di economicità molte organizzazioni imprenditoriali gridarono allo scandalo e fui criticata per introdurre rigidità; una ulteriore dimostrazione di come in Italia si tenda ad utilizzare la flessibilità non tanto per migliorare la produttività, ma soprattutto per ridurre il costo del lavoro. Sono inoltre decisamente favorevole all’apprendistato “duale”, anche se ritengo che questo rappresenti il punto di arrivo di un’intesa ancora maggiore tra scuola e lavoro. L’apprendistato duale rappresenta una sfida più difficile del semplice apprendistato in azienda, perché richiede una maggiore integrazione tra i due mondi. La sfida è maggiore anche dal punto di vista dello studente, che deve riuscire ad adattarsi sia alla scuola che all’occupazione, ed avere quindi una elasticità mentale assai elevata.

I fenomeni demografici in atto e il progressivo innalzamento dell’età di pensionamento portano ad una riflessione sul ruolo degli over 55 nel mercato del lavoro: questa fascia rappresenta ormai oltre un quinto della popolazione in età lavorativa ed è ancora caratterizzata, nonostante i progressivi miglioramenti, da dati occupazionali inferiori rispetto agli altri principali paesi europei. Quali sono gli strumenti a disposizione del legislatore per aumentare il coinvolgimento di queste coorti e per stimolare – se questo

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è desiderabile – la prosecuzione volontaria del lavoro anche dopo l’età della pensione? Sono sempre stata favorevole alla flessibilità di pensionamento a partire da un’età minima, per esempio dai 63 anni in su, ma è necessario che accanto al principio di flessibilità vi sia quello di responsabilità. La pensione deve cioè divenire sempre più simile a un conto personale, finanziato con i propri contributi previdenziali, e i lavoratori, basandosi su questo conto, devono avere la facoltà di decidere la data del proprio pensionamento. Questo è possibile con il calcolo contributivo di determinazione delle pensioni, che consentirà ai lavoratori, quando sarà pienamente operativo, di scegliere l’età di pensionamento in conformità a considerazioni di tipo personale e famigliare e in accordo con il proprio datore di lavoro. Siamo tuttavia in una fase in cui l’eredità negativa che il sistema previdenziale del passato ci ha consegnato pesa ancora troppo, limitando fortemente le scelte possibili. In particolare, la flessibilità del pensionamento con il metodo retributivo finirebbe per essere messa a carico delle generazioni giovani e future e questo è socialmente inaccettabile, perché proprio i giovani costituiscono oggi il segmento più debole della nostra società. Rimane vero che l’invecchiamento attivo è uno dei problemi da affrontare, perché il mercato del lavoro è avaro di occupazione non soltanto nei riguardi dei giovani, ma anche dei lavoratori anziani i quali, se perdono il lavoro, sono difficilmente ricollocabili (anche se il nostro mercato, negli anni recenti, sembra dimostrare il contrario). Le politiche sull’invecchiamento attivo sono state studiate e variamente applicate in vari paesi, dalla staffetta generazionale, al pensionamento graduale, che abbina pensione e retribuzione, entrambe in misura parziale. Non esistono soluzioni miracolistiche e occorre quindi procedere con pragmatismo, eventualmente replicando soluzioni sperimentate con qualche successo in altri Paesi (per esempio, nei Paesi del Nord Europa). Inoltre è corretto ricordare che, con la modifica all’art. 18 introdotta dalla Riforma Fornero e resa più radicale dal governo Renzi, i lavoratori meno giovani o già anziani sono maggiormente esposti al rischio di licenziamento. Il problema della perdita del posto di lavoro in queste fasce d’età più alta va quindi adeguatamente affrontato. La prima risposta politica deve, ancora una volta, riguardare la formazione. Chi perde il lavoro a 55 anni non può

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essere lasciato solo e neppure semplicemente inserito, secondo il vecchio schema, in un percorso di mobilità che lo “accompagni” verso la pensione. Anche per questi casi introducemmo l’ASpI, che da un lato fornisce ai disoccupati i mezzi per vivere, e dall’altro li orienta verso attività di formazione e nuove opportunità di impiego. Chiaramente la formazione di chi ha 55 anni deve essere diversa da quella di un giovane, le politiche attive devono quindi avere dei target specifici, e non indistinti. Anche per chi non è più giovane, quindi, occorre ragionare in un’ottica di opportunità di reimpiego e non semplicemente di pensionamento anticipato. Si tratta nuovamente di un cambiamento radicale di mentalità, che non si ottiene solamente con l’approvazione di una riforma, ma che richiede un cambiamento nel modo di porsi di fronte ai problemi, un nuovo atteggiamento del sindacato e dei partiti politici, che devono porsi come obiettivo non solo quello di proteggere il reddito dei disoccupati, ma soprattutto quello di promuoverne il reinserimento nel mondo del lavoro.

Una recente ricerca di Boeri e Garibaldi ha messo in luce la presenza di un effetto spiazzamento a danno dei giovani che è seguito all’innalzamento dell’età di pensionamento nel 2012 (se gli anziani lavorano più a lungo, i giovani rimangono disoccupati). Bisogna quindi pensare al coinvolgimento nel mercato del lavoro delle coorti over 55 e alla diminuzione della disoccupazione giovanile come a due obiettivi contrastanti? Forse nel breve periodo. Per prima cosa, noto che entrambi gli autori hanno cambiato idea: molte volte Boeri, in particolare, ha infatti affermato che non deve valere il principio della sostituzione. Sono d’accordo nel dire che, in un contesto di crisi, allungando l’età pensionabile le assunzioni dei giovani sono state rese più difficili, ma trovo poco corretto che lo si affermi senza considerare lo stato di necessità e di crisi finanziaria in cui è stata fatta la riforma delle pensioni, e che si presentino queste difficoltà quasi come fossero una caratteristica strutturale, e quindi come se dovesse valere la regola del “numero fisso di posti lavoro”, per cui se “entra uno lo fa a spese di un altro”. Le ricerche empiriche mostrano concordemente che i Paesi in grado di creare occupazione

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la creano sia per i lavoratori anziani che per i lavoratori giovani. Non c’è quindi una correlazione negativa, bensì positiva. Dobbiamo perciò pensare all’occupazione giovanile e a quella degli over 55 come a due obiettivi compatibili. Altrimenti commettiamo lo stesso grave errore che ha tenuto le donne fuori dal mercato del lavoro. Il lavoro delle donne, infatti, era sempre ritenuto complementare al lavoro degli uomini, e quindi, in caso di carenza occupazionale, erano (sono) le donne a dover lasciare il mercato del lavoro per tornare al loro tradizionale ruolo entro la famiglia. La vera sfida è capire come rendere il mercato del lavoro veramente inclusivo. Ho sempre combattuto, tra l’altro insieme a Boeri, l’idea di un mercato con una quantità fissa di posti di lavoro, e sono rimasta di questa idea. È ovvio che in una situazione di recessione i vincoli alla creazione di nuovi posti di lavoro diventano più stringenti, ma ciò deve indurre a uno sforzo maggiore e capillare per migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, anche aiutando le imprese a reggere l’impatto della crisi e a investire, rendendo più sinergico il mondo della formazione con quello del lavoro, per migliorare l’occupabilità delle persone. Indulgere nella vecchia pratica dei “prepensionamenti”, in un periodo, tra l’altro, di forte allungamento della durata della vita, sembra un ritorno all’antico piuttosto che una visione strategica. E, da ultimo, vorrei ancora ricordare come, con il senno di poi, si può sempre argomentare che le cose andavano fatte meglio. Dover introdurre riforme importanti sotto la minaccia di una crisi finanziaria – poi risolta anche grazie a quelle riforme - è però cosa ben diversa, che non auguro a nessuno.

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INTRODUZIONE Nel valutare una riforma del mercato del lavoro sono diversi gli aspetti su cui è possibile e doveroso soffermarsi. Spesso, il dibattito pubblico finisce però con il prendere in considerazione dati parziali che, senza essere contestualizzati, possono dar seguito ad interpretazioni prettamente politiche. D’altro canto, valutare gli effetti di una riforma che si compone di numerosi provvedimenti non è compito facile. Due sono le principali difficoltà che emergono nel considerare il contributo del Jobs Act: (i) una congiuntura economica nazionale, ma soprattutto internazionale, in netto miglioramento e alla quale potrebbero essere attribuiti molti dei risultati positivi che stiamo osservando; (ii) una forte decontribuzione fiscale sui contratti che più di altri avrebbero dovuto beneficiare della Riforma, quelli a tempo indeterminato.

IL CASO ITALIA L’andamento italiano nella congiuntura europea Come già anticipato in apertura del capitolo, attribuire tutti i risultati osservati a partire dal 2015 alle sole novità introdotte dal Jobs Act sarebbe un errore grossolano. In particolare, questo paragrafo ha l’obiettivo di valutare l’andamento dell’economia e del mercato del lavoro italiano nel contesto europeo, nel tentativo di capire se almeno parte della ripresa italiana possa essere attribuita ad elementi congiunturali internazionali, piuttosto che alla Riforma del lavoro (intesa come complesso di novità normative e decontribuzione). Al fine di effettuare questa analisi, si è deciso di utilizzare i dati relativi al 2011-2016, ritenendo che i dati relativi alla profonda recessione del 2009 possano in qualche modo distogliere l’attenzione da quelli che sono gli andamenti relativi al periodo di introduzione del Jobs Act, portando in un certo senso a sovrastimarne gli effetti. Dopo un breve periodo di crescita nel biennio 2010-2011, in cui l’economia europea sembrava essersi lasciata alle spalle la L’ANDAMENTO DEI CONTRATTI E DEL MERCATO DOPO L’INTRODUZIONE DEL JOBS ACT

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grande crisi, nel 2011, il deteriorarsi delle finanze pubbliche nei paesi del sud Europa e delle aspettative riguardo alla tenuta della moneta unica hanno determinato un forte punto di rottura nel cammino della ripresa. Il 2012 e il 2013 segnano infatti nuovamente due anni di recessione per l’economia italiana ed europea. A partire dal 2014, grazie al calo del prezzo delle commodities, ad una moderata espansione fiscale e, soprattutto, ai forti stimoli monetari provenienti dalla BCE, una debole ripresa ha iniziato ad affermarsi, e a guadagnare gradualmente impeto. In questo contesto di forti variazioni nei tassi di crescita delle economie, un dato è però rimasto pressoché costante: il ritardo italiano. Nella figura 5.1 si può infatti notare come il gap di crescita italiano, misurato semplicemente come differenza tra il tasso di crescita reale dell’Italia e quello dell’Area Euro, abbia mantenuto nel periodo 2011-2016, nonostante un lieve e graduale miglioramento dal picco negativo del 2012, un valore pressoché costante, intorno al -1%. Se, quindi, a partire dal 2014 l’economia italiana si è avviata ad una flebile ripresa, questa può facilmente venire inquadrata in una congiuntura europea che ha visto nel triennio 2014-2016 la zona Euro crescere ad un ritmo compreso tra l’1.2 e il 2%. Scarsi, seppur non totalmente assenti, sono invece i risultati in termini di chiusura del gap di crescita italiano. Un’analisi simile a quella dell’andamento del PIL può essere effettuata per l’andamento dell’occupazione. In questo caso, il dato preso in analisi riguarda la variazione del tasso di occupazione 15-64 anni, espressa in punti percentuali, rispetto alla fine dell’anno precedente. I dati sono inoltre corretti per la stagionalità. Anche in questo contesto i risultati italiani risultano sistematicamente inferiori a quelli europei. Infatti, con l’eccezione del 2012 – anno peggiore in termini di PIL e gap di crescita ma sorprendentemente migliore in termini di gap occupazionale – la crescita dell’occupazione italiana è risultata uguale o inferiore alla media dell’Eurozona in ciascuno degli anni considerati, a partire dal 2011. In Italia, quindi, sia in termini di produzione, che di numero di posti di lavoro, la recessione ha colpito più duramente che nel resto dell’Area Euro, e la successiva ripresa è stata più debole. Come nel caso della produzione, anche l’aumento degli occupati registrati nel triennio 2014-2016 sembra in larga parte inquadrabile all’interno del più ampio trend di miglioramento del mercato del lavoro europeo. A partire dal 2014, è possibile

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riscontrare un assottigliamento del gap italiano, ma questo è probabilmente attribuibile all’eccezionale negatività del risultato del 2013, e avviene comunque prima dell’implementazione del Jobs Act nel nostro mercato del lavoro.

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In particolare, gli ottimi risultati conseguiti nel 2015, anche grazie alla decontribuzione, hanno fatto sì che il gap con il resto dell’Area Euro raggiungesse lo zero per la prima volta dopo tre anni, salvo poi ritornare in terreno negativo nel 2016. In termini assoluti, e quindi al di là del confronto europeo, è però un fatto evidente il graduale miglioramento delle condizioni occupazionali, sia in Italia che in Europa. Risulta infine interessante analizzare il numero di occupati italiani per trimestre, a partire dal 2011. Il trend identificabile è chiaramente negativo tra il 2011 e la metà del 2013 (-578mila occupati). A partire dal secondo semestre del 2013, il trend appare invece positivo e, in generale, in linea con i dati europei; e questo anche se l’Italia è riuscita ad agganciare la ripresa con ritardo – solo a partire dalla seconda parte del 2013 –, e con minore impeto. La ripresa occupazionale ha determinato la creazione di 583mila posti di lavoro, annullando di fatto la perdita occupazionale verificatasi tra il 2011 e il 2013. La forte accelerazione nell’aumento del numero di occupati che c’è stata poi partire dal secondo trimestre del 2015, e cioè in seguito all’introduzione del Jobs Act, ha permesso, nei soli quattro trimestri tra l’aprile 2015 e l’aprile 2016 la creazione di oltre 400 mila posti di lavoro (il 68% dei posti creati dall’inizio della ripresa).

Andamento di PIL e occupazione prima e dopo il Jobs Act Uno dei pilastri del Jobs Act è la diminuzione del costo del licenziamento per i contratti a tempo indeterminato. Questa ha lo scopo di ottenere una maggiore dinamicità nel mercato del lavoro, favorendo il passaggio di lavoratori dalle imprese in contrazione verso quelle in espansione, e permettendo così, nel lungo periodo, una migliore allocazione del lavoro. Ciò non deve però necessariamente avere un impatto positivo sul numero di posti di lavoro disponibili nel mercato, che dipendono principalmente da altri fattori (quali domanda, investimenti, costo del lavoro). Risulta comunque interessante analizzare la dinamica dei dati di occupazione e PIL per il periodo 2011-2016. Per farlo ci serviamo dei dati trimestrali di PIL e numero di occupati, corretti per la stagionalità. Entrambi i dati sono normalizzati a 100 per il primo trimestre del 2011.

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Tra il 2011 e la prima metà del 2013, la recessione ha colpito in modo più importante il PIL, piuttosto che il numero di occupati. In seguito, a metà del 2013, l’occupazione è invece cresciuta di pari passo con il PIL, se non addirittura in modo più veloce.

La ripresa avvenuta in seguito alla metà del 2013 (vi) è a sua volta scomponibile in due fasi: prima (vii) e dopo (viii) l’introduzione del Jobs Act. I dati sembrano indicare che l’accelerazione della ripresa successiva al 2015 (viii), e quindi all’introduzione del Jobs Act, abbia inciso maggiormente sull’occupazione piuttosto che sul PIL. Dei 2,6 punti guadagnati in occupazione durante la ripresa, ben 1,9 sono avvenuti dopo l’introduzione del Jobs Act, mentre dei 2 punti guadagnati in PIL, solo 1,1 è stato aggiunto in seguito alla novità normativa. Questa analisi permette dunque di affermare che, nonostante il nascere (2014) e l’accelerare della ripresa (2015-2016) siano, come visto in precedenza, inquadrabili nell’ambito di una ripresa di più ampio respiro a livello europeo, è verosimile che L’ANDAMENTO DEI CONTRATTI E DEL MERCATO DOPO L’INTRODUZIONE DEL JOBS ACT

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l’introduzione del Jobs Act abbia determinato un’accelerazione dell’occupazione, senza avere invece un impatto rilevante sulle dinamiche della produzione. L’analisi di questi dati non è tuttavia sufficiente per determinare quanta parte degli effetti sull’occupazione possa essere attribuita alla nuova normativa contrattuale, e quanta alla decontribuzione. Questo punto verrà affrontato nel paragrafo successivo. Per quanto riguarda invece gli sviluppi futuri dei due indicatori, presto o tardi il PIL dovrà tornare a crescere in modo persistentemente maggiore dell’occupazione. Questo per ovvie ragioni, dal momento che l’aumento degli occupati verificatosi negli ultimi anni, anche considerate le dinamiche demografiche del nostro Paese, è comunque da considerarsi un elemento congiunturale e non strutturale del mercato del lavoro. Quanto invece la crescita possa continuare a rafforzarsi, dipenderà anche dall’effettiva capacità del Jobs Act di migliorare l’allocazione dei lavoratori nel tessuto produttivo.

IL JOBS ACT: ASSUNZIONI, TRASFORMAZIONI E LICENZIAMENTI Come anticipato nei paragrafi precedenti, una delle maggiori difficoltà nel valutare gli effetti del Jobs Act risiede nel fatto che l’introduzione del contratto unico a tutele crescenti (marzo 2015) è stata accompagnata e anticipata (gennaio 2015) da un forte esonero contributivo per le imprese che hanno scelto di assumere con il contatto a tempo indeterminato, o di stabilizzare forme di lavoro precario già in essere. L’esonero (L. 208/2015) prevede un taglio dei contributi previdenziali per tre anni con un tetto massimo annuo di 8.060 euro e un risparmio complessivo per il datore di lavoro, nel periodo, di 24.180 euro. La decontribuzione si applica sulle nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato (sia full-time che part-time, in quest’ultimo caso con un aggiustamento proporzionato alle ore di lavoro) e sulle trasformazioni di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Benché la platea di potenziali beneficiari sia decisamente ampia, tre sono a nostro avviso le principali restrizioni previste: (i) la prima, come è noto, risiede nel fatto che tale nuova normativa non è applicabile nel pubblico impego; (ii) l’esonero, poi, non è previsto per i lavoratori che nei 6 mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro; (iii) infine, la decontribuzione non si applica sul-

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le trasformazioni dei contratti di apprendistato, mentre rimane valida per le trasformazioni dei contratti a tempo determinato. La decontribuzione è stata poi rinnovata in misura nettamente ridotta anche nella Legge di Stabilità 2016. Quale sia l’effetto relativo dei due provvedimenti (contratto unico con maggiore facilità di licenziamento e decontribuzione) è una questione che rimane aperta e, a distanza di due anni, ancora molto dibattuta. È probabile che gli esoneri dai contributi previdenziali abbiano semplicemente concentrato nei primi mesi un incremento delle assunzioni a tempo indeterminato che in caso contrario si sarebbe spalmato su un arco temporale maggiore [Ichino, 2016]. Ma quali sono, quindi, i numeri che hanno caratterizzato l’introduzione del Jobs Act? Nei due paragrafi che seguono viene affrontato uno degli aspetti del Jobs Act che più di altri andrà ad incidere sulla struttura occupazionale: l’introduzione del contratto unico a tutele crescenti. Due sono gli aspetti centrali di questa nuova disciplina contrattuale: (i) il primo risiede nel periodo iniziale di transizione, della durata di tre anni, durante il quale le tutele previste per il lavoratore sono estremamente basse; (ii) il secondo nel fatto che, a differenza di quanto avveniva precedentemente con l’Articolo 18, dopo i primi tre anni le tutele diventano crescenti nel tempo, con l’anzianità di servizio. Una prima e immediata intuizione economica utile per comprendere l’efficienza di tale forma contrattuale, e in particolar modo del periodo di transizione iniziale, risiede nell’asimmetria informativa che c’è fra imprese e lavoratori: a fronte di incertezza circa le reali competenze dei lavoratori, le imprese saranno infatti incentivate a prevedere contratti di lavoro temporanei, più convenienti e meno soggetti ad alti costi di licenziamento, così da limitare gli oneri nel caso il lavoratore si rivelasse in seguito non adatto alla posizione per la quale è stato assunto. Il periodo iniziale durante il quale i costi di licenziamento sono decisamente contenuti fornisce quindi un forte stimolo per l’impresa a preferire fin da subito contratti di lavoro a tempo indeterminato, che hanno il vantaggio di offrire maggiore stabilità al rapporto lavorativo nel tempo. Le tutele crescenti nel tempo rispondono poi ad un rischio di licenziamento che, in un contesto di (i) salari crescenti con l’età, (ii) incertezza nella domanda e (iii) necessità di formaL’ANDAMENTO DEI CONTRATTI E DEL MERCATO DOPO L’INTRODUZIONE DEL JOBS ACT

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zione continua del lavoratore, aumenta, per gli occupati, al crescere dell’età (si veda a questo proposito l’intervista Prof. Pietro Garibaldi contenuta nel report o, per un maggiore approfondimento, il lavoro Inside severance pay di Boeri, Garibaldi e Moen). Dal momento che i dettagli sulla disciplina dei licenziamenti e i contenuti specifici del Jobs Act sono affrontati in maniera esaustiva in altri capitoli del testo, nel seguito cercheremo di fornire un quadro il più possibile completo circa le dinamiche economiche che hanno caratterizzato l’introduzione della Riforma, prendendo in esame l’evoluzione dell’occupazione per diverse tipologie contrattuali.

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Il posto fisso Obiettivo centrale del Jobs Act, e in particolar modo del contratto unico a tutele crescenti, è quello di ridurre la precarietà e la dualità del mercato del lavoro italiano, incrementando la quota di lavoratori con contratti a tempo indeterminato, sul totale degli occupati; obiettivo questo prettamente di lungo periodo e rispetto al quale quindi non vi sono ad oggi risultati chiari e univoci (Figura 5.5). Quanto al numero di occupati, come è facile intuire, se da una parte la riduzione iniziale delle tutele rende più facile il licenziamento, dall’altra essa rappresenta un incentivo per le imprese ad assumere a tempo indeterminato. L’impatto della misura sull’occupazione è quindi decisamente ambiguo e, nel lungo periodo, è lecito aspettarsi un effetto in entrambe le direzioni, con tassi di entrata e uscita dallo stato di disoccupazione decisamente più alti di quelli che hanno finora caratterizzato il nostro mercato (Figura 5.6). Questa maggiore facilità di ricollocazione dei lavoratori nel mercato potrà sicuramente rappresentare un mezzo efficace per ottenere un’allocazione più efficiente del capitale umano, con le imprese in difficoltà che dovranno subire minori costi nel licenziare e le imprese in espansione che avranno maggiori incentivi ad assumere [Ichino, 2016].

Assunzioni e trasformazioni in un contesto di decontribuzione La Tabella 2 mostra le variazioni percentuali su base annua del numero di assunzioni e trasformazioni per diverse tipologie contrattuali. Una prima analisi dei dati evidenzia come i numeri delle assunzioni a tempo indeterminato e della stabilizzazione di contratti L’ANDAMENTO DEI CONTRATTI E DEL MERCATO DOPO L’INTRODUZIONE DEL JOBS ACT

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precari siano decisamente favorevoli al termine del primo anno di vita del Jobs Act, il 2015. Il calo verificatosi nel 2016 è fisiologico e caratterizzato da variazioni che in valore assoluto rimangono comunque positive (+1.266.786 assunzioni a tempo indeterminato e +436.966 stabilizzazioni di contratti precari). Con una domanda in (leggera) crescita al termine della recessione è infatti probabile che molte impresse avessero necessità di ampliare la manodopera e abbiano quindi colto nell’immediato le condizioni contrattuali decisamente più favorevoli. Isolare l’effetto della contribuzione dalle semplici percentuali indicate è praticamente impossibile; nel seguito, potremo ottenere qualche informazione in più analizzando i trend temporali. Un primo segnale è in ogni modo possibile osservarlo: dal momento che la decontribuzione non era applicabile sulle trasformazioni di contratti di apprendistato, il +24,7% del 2015 di questo dato mostra come, a guidare questo aumento, sia stata la nuova normativa prevista dal contratto a tutele crescenti. Anche in questo caso la variazione assoluta rimane positiva nel 2016, seppur in leggero calo I trend temporali, come si accennava, ci consentono invece di valutare in maniera più evidente l’impatto delle decontribuzioni sui trend occupazionali. Nella figura 5.7, i dati sulle nuove assunzioni sono indicizzate rispetto alla media di ciascuna tipologia contrattuale sull’intero periodo preso in considerazione. I trend evidenziano come per tutto il 2015 ci sia stato un importante aumento delle nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato, che son state superiori rispetto a quelle effettuate attraverso le altre due formule contrattuali; da notare l’assenza di balzi nettamente positivi nel marzo 2015, con l’introduzione del contratto unico. Inoltre, il picco del dicembre 2016 mostra chiaramente come il +51% evidenziato dalla tabella precedente sia stato per la maggior parte trainato dalla volontà, da parte delle imprese, di sfruttare gli esoneri contributivi; come accennato in precedenza, quello era infatti l’ultimo mese in cui erano previsti in maniera così generosa. Il comportamento, perfettamente razionale, non esclude in ogni caso che le stesse assunzioni si sarebbero verificate, successivamente, anche in assenza dell’esonero. È evidente che la decontribuzione abbia avuto un forte impatto sulle tempistiche decisionali delle imprese in termini di assunzioni. Il grafico 5.8 conferma numeri in media più alti per tutto il 2015 e un forte effetto delle decontribuzioni. Un ragionamento analogo vale infine per la lettura del grafico 5.9, dove è possibile osservare una netta discontinuità solo sulla tipologia contrattuale

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la cui trasformazione era coperta dall’esonero contributivo, quella a tempo determinato.

Risulta infine interessante notare come l’utilizzo delle decontribuzioni si sia distribuito su lavoratori di fasce di età diverse.

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Nel 2015, circa il 40% degli sgravi è stato utilizzato per assumere lavoratori con più di 40 anni. Questo dato è principalmente dovuto alla maggior rilevanza che queste classi di età ricoprono in termini numerici rispetto al complesso degli occupati. È infatti opposta la conclusione che si trae analizzando la Figura 5.11, che mostra il numero di nuove assunzioni con esonero per classe di età, rapportate al numero di occupati che ciascuna delle tre classi esprime. In questo caso, il dato sui giovani risulta essere costantemente più elevato di rispetto a quello delle altre categorie; inoltre, risulta opportuno notare come il picco – già in precedenza osservato – in corrispondenza del dicembre 2016 (che può sostanzialmente considerarsi come una misura dell’effetto della decontribuzione) si sia rivelato nettamente maggiore per i lavoratori più giovani, se rapportati al peso che esercitano sul mercato in termini di occupati.

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Cessazioni e licenziamenti Se da una parte la decontribuzione ha sostanzialmente concentrato nei primi mesi l’effetto positivo sul numero di nuove assunzioni e trasformazioni, dall’altra ha allontanato nel tempo l’aumento del numero di licenziamenti che, come accennato in precedenza e data la più morbida disciplina sugli stessi, in equilibrio è lecito aspettarsi. Oltre ad esser passato ancora relativamente troppo poco tempo perché il numero di licenziamenti dei lavoratori assunti con nuovo contratto possa essere consistente, dobbiamo infatti considerare come una buona percentuale dei nuovi contratti a tempo indeterminato stia ancora usufruendo degli sgravi fiscali. Come era quindi lecito aspettarsi, i dati non mostrano alcun trend particolarmente rilevante né nel numero delle cessazioni, né nel numero dei licenziamenti. E la stessa analisi vale anche per le imprese con più di 15 dipendenti, sulle quali prima gravava il forte vincolo dell’Articolo 18.

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CONCLUSIONI I trend presi in analisi confermano un lento ma netto miglioramento del mercato del lavoro a seguito dell’introduzione del Jobs Act, che ha però solo in parte permesso di restringere il ritardo nella ripresa rispetto ai partner europei. La maggior parte delle nuove assunzioni e conversioni può senza dubbio esser attribuita agli esoneri contributivi previsti per la disciplina del contratto unico; a questo proposito, un recente studio condotto da Banca d’Italia su dati veneti stima che l’effetto delle decontribuzioni sia responsabile per il 40% dell’aumento delle assunzioni a tempo determinato mentre la nuova disciplina contrattuale lo sarebbe invece per il 5%. Lo stesso studio si sofferma inoltre sul ruolo che la più leggera disciplina sui licenziamenti, come si accennava in apertura, possa avere sulla scelta di un’impresa di assumere fin da subito in modo stabile un lavoratore, anche a fronte di incertezza circa le sue effettive competenze. D’altro canto, gli esoneri inizialmente previsti anche sulla conversione di contratti precari in contratti stabili può per il momento aver attenuato questo effetto, essendo razionale per l’impresa testare in un primo momento il lavoratore assumendolo in modo temporaneo e poi, in un secondo momento, convertire il contratto usufruendo delle decontribuzioni.

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Fonti Sestito, Paolo, and Eliana Viviano. “Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market.” (2016). Boeri, Tito, Pietro Garibaldi, and Espen R. Moen. “Inside severance pay.” Journal of Public Economics 145 (2017). Eurostat INPS, Osservatorio sul Precariato Istat.it Lavoce.info


intervista PIETRO GARIBALDI Pietro Garibaldi è Professore Ordinario di Economia politica presso l’Università degli Studi di Torino e direttore del Programma Allievi del Collegio Carlo Alberto; è inoltre responsabile scientifico del Programma Visitinps dell’INPS. È stato consigliere economico del Ministro dell’Economia e delle Finanze, consulente per il Dipartimento del Tesoro e ha lavorato presso il Fondo Monetario Internazionale. È, inoltre, research fellow al Centre for Economic Policy Research di Londra e all’Istituto per il Futuro del Lavoro di Bonn. Ha pubblicato nelle principali riviste scientifiche.

Ivan Lagrosa

Università Bocconi & IGIER

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Professore, lei fu tra i primi in Italia a proporre l’adozione del contratto unico a tule crescenti, quale via principale di ingresso nel mercato del lavoro. Questa misura, oggi legge, ha rappresentato uno dei tasselli fondamentali del Jobs Act. Qual è l’obiettivo e il presupposto economico di tale forma contrattuale? È soddisfatto della sua implementazione o rimangono degli aspetti ancora da risolvere? Partendo dall’obiettivo, rispetto a questo spesso c’è molta ambiguità; secondo me l’obiettivo del contratto unico a tutele crescenti è fondamentalmente quello di ridurre la precarietà, aumentando quindi la quota di contratti a tempo indeterminato sul totale delle forme contrattuali, e di ridurre il contenzioso nel mercato del lavoro, diminuendo il numero di ricorsi ai tribunali per controversie in materia di lavoro. Facendo invece un passo indietro e venendo al presupposto economico di tale contratto, forse la migliore risposta è in un lavoro, Inside severance pay, recentemente pubblicato sul Journal of Public Economics con Tito Boeri e Espen Moen. Lì mostriamo un modello economico che spiega nel dettaglio sotto quali condizioni risulti ottimale un contratto di lavoro che preveda un indennizzo crescente nel tempo in caso di licenziamento per motivi economici. Sostanzialmente, le condizioni, non semplici, sono: (i) incertezza dal punto di vista della produttività delle imprese; (ii) asimmetria informativa tra lavoratori e imprese circa la condizione della domanda; (iii) infine, un contesto in cui il lavoratore deve investire continuamente e in modo crescente nel tempo per mantenere le sue conoscenze. Se queste tre condizioni sono verificate, è desiderabile dal punto di vista dell’efficienza avere un indennizzo che sia crescente nel tempo in caso di licenziamento. L’intuizione economica di queste condizioni risiede nel fatto che, in un mercato del lavoro, quasi per definizione, il salario deve essere crescente nel tempo al fine incentivare il lavoratore a continuare ad investire nella sua posizione attuale; se ad un salario crescente nel tempo aggiungiamo poi incertezza nella domanda (la seconda delle condizioni sopra citate), le imprese si ritrovano in una condizione in cui hanno un forte incentivo a licenziare i lavoratori più anziani. Questo fenomeno giustifica quindi un intervento che non può che essere esterno rispetto al mercato. Quanto alla seconda domanda, sono sicuramente soddisfatto dell’operato del Governo: la proposta che avevamo avanzato

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assieme a Tito Boeri era persino più timida di ciò che poi è stato implementato. Senz’altro la riforma del mercato del lavoro, accompagnata anche dall’intuizione politica di coadiuvare tale riforma alla decontribuzione, è stata uno dei momenti di più grande coraggio politico del Governo Renzi. Quanto alle critiche che si sono levate circa la scelta di lasciare inalterata la disciplina per coloro che già avevano un contratto in corso, anche io ero favorevole a che la riforma fosse applicata solo sui nuovi contratti e non solo sullo stock. E tra l’altro, a questo proposito, la transizione è avvenuta piuttosto velocemente: a dicembre avevamo calcolato che su circa 10 milioni di contratti di lavoro a tempo indeterminato nel settore privato, già un milione e mezzo erano sotto la nuova tipologia contrattuale. Il passaggio sta quindi procedendo a ritmi decisamente sostenuti e arriveremo presto ad avere un mercato del lavoro dove nel settore privato i contratti a tempo indeterminato saranno tutti a tutele crescenti; nel settore pubblico il discorso è diverso.

Tornando per un momento sulle tre condizioni che ha citato, ritiene plausibile sostenere che la terza, quella riguardante l’investimento continuo in competenze, sia attendibile in particolar modo tenuto conto di un periodo storico come questo, caratterizzato da una massiccia innovazione tecnologica? Sì, ovviamente rispetto a questo punto dobbiamo prima intenderci su come decidiamo di interpretare quello che in un modello è soltanto un parametro; se lo interpretiamo come investimento in skills è certamente possibile che sia più urgente in un momento storico come quello che stiamo attraversando. In ogni caso molti altri Paesi hanno già da tempo un indennizzo che è crescente nel tempo. E sotto questo aspetto l’Italia era quindi un po’ un’anomalia: l’articolo 18 rappresentava una tutela fortissima per i lavoratori, che però non era crescente nel tempo. Questo per sottolineare come, benché l’urgenza dell’investimento continuo in skills – e quindi un indennizzo crescente nel tempo – possa essere più urgente oggi rispetto al passato, molti Paesi si erano già accorti per tempo delle dinamiche in atto nel mercato del lavoro e avevano agito di conseguenza.

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Infine la valutazione. Giudicare una riforma del mercato del lavoro non è compito facile. Se da un lato troppo spesso i giudizi finiscono per basarsi esclusivamente su dati occupazionali, dall’altro, soprattutto per la mancanza di un buon controfattuale, anche una valutazione più articolata degli effetti di una riforma come il Jobs Act risulta complessa. Buona parte dei risultati potrebbe infatti essere attribuita ad una congiuntura economica globale che negli ultimi due anni è andata decisamente migliorando; senza contare che il giudizio risulta ulteriormente complicato dalla presenza di forti decontribuzioni previste per i primi anni. Come ovviare quindi a questi problemi? Quando parliamo di una riforma del lavoro così ampia, con molti decreti attuativi anche fra loro eterogenei, occorre sempre restringere il campo della valutazione. In senso ampio, una riforma del mercato del lavoro ha ovviamente il compito di aumentare l’occupazione, ridurre la precarietà, la disoccupazione, e di aumentare l’equità nel mercato. E questo insieme ampio di interventi racchiude al suo interno anche obiettivi strettamente politici. Se invece vogliamo restringere il campo e restare sulla valutazione del contratto unico a tutele crescenti, le difficoltà citate nella domanda ovviamente rimangono, soprattutto a causa della concomitanza con l’introduzione della decontribuzione, cominciata il primo gennaio 2015 (il contratto unico è poi entrato in vigore nel marzo dello stesso anno). Ci sono già due paper sulla valutazione di questa misura contrattuale; il primo è un lavoro pubblicato dalla Banca d’Italia, a cura di Paolo Sestito e Eliana Viviano; il secondo è un work in progress di Marco Leonardi e Tommaso Nannicini. In generale emerge come la decontribuzione sia stata indubbiamente importante sull’incremento dell’utilizzo del contratto a tempo indeterminato. La mia impressione, sulla quale stiamo lavorando assieme a Tito Boeri, è che un punto importante ai fini della valutazione sia quello di considerare le dinamiche dei licenziamenti. Il contratto a tutele crescenti, infatti, introducendo una riduzione dei costi di licenziamento, aumenta le assunzioni ma, in equilibrio, dovrebbe aumentare anche i licenziamenti. E, aspetto importante per avere una valutazione pulita, la decontribuzione non dovrebbe avere alcun effetto su questo fronte. Per fare questo ovviamente sono da considerare solo tutti i posti di lavoro attivati con il nuovo tipo di contratto e non quelli già in essere precedentemente.

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Restando sul mercato del lavoro italiano, di particolare gravità rimane poi la situazione occupazionale dei più giovani. In Italia, nel 2015, secondo l’OECD, il 27,4% dei giovani fra i 15 e i 29 anni è da considerarsi NEET (Not in Education, Employment or Training); in Germania, la loro percentuale scende all’ 8,6%. Quanto impattano questi numeri sulla crescita di un Paese? E, a suo parere, a cosa è dovuta un’allocazione delle risorse così inefficiente? L’effetto sul PIL di questo fenomeno è un effetto livello permanente – non di crescita quindi, se non nel periodo di transizione – di dimensioni sicuramente importanti. Di quanto è difficile stimarlo. Una misura imprecisa si può ottenere considerando il numero assoluto dei NEET e moltiplicarlo per la produttività media degli occupati. Questo numero, pari a circa 170 miliardi, è però sicuramente sovrastimato in quando la produttività media dei NEET è inferiore a quella degli occupati. Quanto all’inefficienza, essa è una rappresentazione plastica del grande mismatch italiano – la differenza fra domanda e offerta di lavoro rispetto alle competenze richieste – che nel nostro Paese è fra i più alti d’Europa. Il fenomeno dei NEET è così strettamente collegato al sistema formativo, che in Italia non prepara adeguatamente i giovani ad entrare nel mercato del lavoro. Questo non è ovviamente l’unico problema: oltre ad avere un sistema formativo adeguato, occorre infatti puntare ad ottimizzare i processi di transizione che, di nuovo, in Italia non sono assistiti. Una riforma del lavoro così strutturale necessita, infine, senza dubbio di diversi anni per produrre risultati visibili e positivi. Oggi, però, quello che osserviamo è che, se confrontati con altri Paesi europei, i nostri principali indicatori di occupazione e disoccupazione restano tra i peggiori; inoltre, mentre altri partner dell’Unione stanno recuperando più rapidamente il terreno perso durante la grande crisi, la nostra economia sembra ancora lontana dal ripartire. Come bisogna leggere questi dati? Questi sono i problemi strutturali e clamorosi dell’Italia. Quando c’è una recessione fa sempre peggio degli altri e quando c’è il boom fa tipicamente meno bene. Paradossalmente l’Italia è un Paese che non ha nessuna delle condizioni che conosciamo per crescere: nella struttura dello Stato, nelle dinamiche demografiche, nella tassazione. Non è un Paese fatto per la crescita. Come

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diceva Solow, “della crescita conosciamo gli ingredienti e non la ricetta”. E noi sappiamo che gli ingredienti non li abbiamo; sarebbe davvero strano se un Paese così riuscisse a crescere. Allargando da ultimo il discorso, mercato del lavoro e mercato dei beni – nel quale si determina il PIL – sono da sempre considerati uno il riflesso dell’altro. Eppure, nei primi anni Duemila, antecedenti la grande crisi, in Italia creavamo nuovi posti di lavoro senza che, unici fra i Paesi OCSE, la nostra economia crescesse; oggi, all’opposto, molti economisti sono tornati a parlare di ripresa senza la creazione di nuovi posti di lavoro – Jobless recovery –, e i rispettivi dati (PIL e occupazione) a livello europeo sembrano confermare tale tendenza. Come giudica queste dinamiche? Dobbiamo abituarci ad una discrepanza strutturale tra PIL e occupazione oppure le dinamiche di cui sopra sono solo congiunturali? Forse a livello italiano la vera anomalia è quella che abbiamo avuto dal 2000 al 2006, periodo in cui avevamo crescita dell’occupazione senza crescita economica. E quello è stato l’effetto del grande precariato, che ho studiato e spiegato nel lavoro titolato appunto “Honeymoon effect”. L’effetto delle riforme ai margini è poi terminato con la grande crisi, durante la quale è iniziata l’espulsione dei giovani dal mercato del lavoro. Quelli rimangono comunque anni decisamente clamorosi: le riforme del lavoro temporaneo hanno funzionato meglio di come chiunque potesse immaginare, immettendo nel mercato del lavoro moltissime persone. Poi nel 2007 il giocattolo si è rotto totalmente e l’Italia, su questo versante, è tra i Paesi che ha pagato più caro il prezzo della crisi. Oggi siamo tornati così in un mercato del lavoro radicalmente diverso che si avvicina più ad un modello di jobless growth. Questo vale più che altro per l’Europa: in Italia in verità c’è stata no growth e no jobs fino al 2014. Poi in quell’anno la ripresa ha avuto effetti simili per importanza in termini di crescita economica e di occupazione, benché quest’ultima sia stata comprata a prezzo d’oro con la decontribuzione.

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Premessa La prospettiva generale di questo report è prevalentemente economica, tuttavia uno dei temi che ciclicamente tornano ad infiammare ogni dibattito su potenziali riforme del mercato del lavoro è la disciplina dei licenziamenti. Per comprendere il problema è imprescindibile un breve excursus di carattere giuridico, che non pretende di esaurire approfonditamente ogni aspetto della questione, ma piuttosto tenta di offrire un inquadramento generale e qualche semplice spunto di riflessione.

Il licenziamento Il licenziamento è una delle cause di cessazione del rapporto di lavoro. Il modello del codice civile (del 1942) è quello della formale parità contrattuale e dell’employment at will: se il contratto è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dando un preavviso stabilito dagli usi o secondo equità (art. 1218) o, se vi è una giusta causa, anche senza preavviso (art. 1219). Il licenziamento è dunque il recesso del datore di lavoro, mentre le dimissioni sono il recesso del lavoratore. Tuttavia è noto che il licenziamento è stato successivamente disciplinato in maniera assai diversa dalla l. n. 604 del 1966 (c.d. “Legge sulla giusta causa”) e dalla l. n. 300 del 1970 (“Statuto dei lavoratori”), in forza delle quali sostanzialmente il licenziamento deve sempre avere una giusta causa o un giustificato motivo. La giusta causa è un inadempimento talmente grave che non consente la prosecuzione del rapporto; il giustificato motivo soggettivo è un notevole inadempimento degli obblighi del lavoratore, mentre il giustificato motivo oggettivo è legato a ragioni di produzione, organizzazione e regolare funzionamento dell’impresa. La ratio di questo cambio di rotta è evidente: la forza contrattuale del lavoratore è molto diversa da quella del datore di lavoro, soprattutto quando la domanda di lavoro è inferiore rispetto all’offerta, perciò sarebbe iniquo considerarli giuridicamente sullo steso piano. Quindi il lavoratore può tuttora recedere liberamente con preavviso, mentre il datore di lavoro può recedere solo se sussista una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento.

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Soltanto ad alcuni casi speciali si continua ad applicare la disciplina codicistica del licenziamento, ad esempio ai dirigenti, i quali hanno una maggiore forza contrattuale rispetto agli altri lavoratori, oppure ai lavoratori in periodo di prova o in età pensionabile e ai lavoratori domestici. È importante sottolineare che il datore di lavoro può licenziare il lavoratore legittimamente, anche quando non vi sia una violazione disciplinare, ad esempio nel caso di una riorganizzazione aziendale. Perciò, quando si discute di “articolo diciotto” et similia è bene sempre ricordarsi che si sta parlando di licenziamenti illegittimi, cioè dei casi in cui il datore di lavoro ha esercitato un diritto di recesso che in realtà non aveva (ad esempio perché il motivo è insussistente) oppure ha esercitato un diritto di cui era effettivamente titolare, ma non nelle forme previste dalla legge (ad esempio oralmente anziché per iscritto).

La disciplina vigente fino al 2012 Le fonti rilevanti in materia di licenziamento, oltre al codice civile, erano (e sono in parte ancora oggi) quelle già citate nel paragrafo precedente: la l. 604/66 sotto una certa soglia di dipendenti e lo Statuto dei lavoratori sopra tale soglia. La differenza sostanziale tra la legge del 1966 e lo Statuto dei lavoratori è nel tipo di tutela fornita al lavoratore illegittimamente licenziato: l’una di tipo indennitario, l’altra reale. Il licenziato illegittimamente aveva infatti diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro oppure, a sua scelta, a ricevere un indennizzo forfettario di quindici mensilità, se si applicava lo Statuto; se l’azienda invece era sotto soglia, aveva diritto soltanto a un indennizzo compreso tra 2,5 e 6 mensilità o, a scelta del datore di lavoro, ad essere reintegrato. Questo significava che una piccola azienda o un’organizzazione di tendenza (ad esempio una scuola religiosa), alle quali si applicava la legge 604, poteva licenziare liberamente: a costo zero se vi era giusta causa o giustificato motivo, pagando un indennizzo negli altri casi. La maggior parte delle imprese italiane ha sempre cercato di mantenersi dunque sotto la soglia di applicabilità dello Statuto dei lavoratori, ma questo non significa che le regole dello Statuto si applicassero raramente, perché ovviamente

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i maggiori datori di lavoro impiegavano anche un numero più alto di dipendenti. Già dopo questa sommaria esposizione sono chiari gli interessi contrapposti: al datore di lavoro interessa poter gestire il più liberamente possibile il personale, calcolando con precisione i costi; al lavoratore interessano invece la stabilità del posto di lavoro e l’essere tutelato da quei datori di lavoro che usano la minaccia del licenziamento come arma di ricatto per ottenere prestazioni non dovute.

La disciplina della “Legge Fornero” La l. n. 92 del 2012, nota come “Legge Fornero”, interviene modificando la disciplina dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che disponeva la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo. Mentre il vecchio art. 18 apprestava in ogni caso una tutela di tipo reintegratorio, il nuovo art. 18 diversificava le tutele.

1. La tutela reale forte (art. 18, 1°-3° comma) Permane la tutela reale forte, costituita da reintegrazione o 15 mensilità forfettarie (oltre naturalmente al risarcimento del danno, nella misura minima di 5 mensilità), in quattro casi: a) licenziamento discriminatorio, b) licenziamento per motivo illecito determinante, c) licenziamento orale, d) altre ipotesi di nullità previste dalla legge. Sono tutti casi di nullità del licenziamento: il licenziamento nullo non ha effetto, la conseguenza è dunque la reintegrazione nel posto di lavoro. Naturalmente è frequente che il lavoratore non voglia tornare sul posto di lavoro sul quale ha subito un licenziamento così gravemente illegittimo e quindi è logico che la legge gli consenta di chiedere una indennità sostitutiva della reintegrazione. Il licenziamento discriminatorio è quello intimato per condizionare l’adesione o la non adesione ad un sindacato, per inibire l’attività sindacale del lavoratore, o per motivi di discrimi-

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nazione politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di handicap, di età, di orientamento sessuale o convinzioni personali (art. 15 St. lav.). Questa tutela forte si applica a tutte le aziende ed anche ai dirigenti, proprio perché si tratta di casi di estrema gravità.

2. La tutela reale debole (art. 18, 4° comma) La tutela reale debole prevede anch’essa la reintegrazione o l’indennità sostitutiva, ma il risarcimento del danno è limitato ad un massimo di dodici mensilità. Da notare come il risarcimento sia in realtà una indennità risarcitoria, corrispondente alla retribuzione non percepita nel periodo tra il licenziamento e la reintegrazione, dedotto naturalmente l’aliunde perceptum (quanto il lavoratore ha percepito dallo svolgimento di altra attività) e l’aliunde percipiendum (quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi diligentemente alla ricerca di un nuovo lavoro). Un calcolo dell’indennità secondo questi parametri comporta una maggiore prevedibilità del costo massimo del licenziamento, oltre che una spinta al lavoratore a cercare un nuovo lavoro. Si applica quando, nel caso di licenziamento disciplinare, a) non sussista il fatto contestato o b) il contratto collettivo o il codice disciplinare preveda specificamente la condotta e la sanzioni diversamente. Non tutti gli inadempimenti del lavoratore possono infatti dar luogo ad un licenziamento: il datore di lavoro può irrogare altre sanzioni, dette conservative perché il lavoratore conserva il posto di lavoro, che vanno dal semplice rimprovero verbale alla sospensione dal lavoro fino a dieci giorni. Si applica anche in altri casi ex art. 18, 7° comma, tra i quali spicca la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del motivo oggettivo: la insussistenza deve essere qui manifesta, perché viene in gioco la discrezionalità del datore di lavoro nella gestione dell’impresa, che non può essere sindacata nel merito dal giudice.

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3. La tutela indennitaria forte (art. 18, 5° comma) La tutela indennitaria forte consiste nel pagamento al lavoratore di una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra 12 e 24 mensilità, ferma restando l’efficacia del licenziamento. Ecco che in questo caso il licenziamento illegittimo “costa caro”, ma ha comunque un costo massimo certo: il giudice deve in ogni caso dichiarare risolto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, quindi il datore di lavoro può di fatto licenziare pagando un’indennità prevedibile. L’indennità va calcolata dal giudice secondo l’anzianità del lavoratore, il numero di dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento delle parti e le loro condizioni. È chiaro che questo rimedio ha una natura mista di indennità e risarcimento: non è un vero risarcimento perché ha un limite massimo (e quindi potrebbe non coprire l’entità del danno) e perché è parametrato a caratteristiche delle parti estranee alla gravità del danno; non è un semplice indennizzo perché tiene conto del comportamento delle parti. Questa tutela si applica alle altre ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo o della giusta causa, ma il fatto sussista e la condotta (se il licenziamento è disciplinare) non sia altrimenti sanzionata dal contratto collettivo o dal codice disciplinare. Quindi si tratta, ad esempio, del caso in cui il datore di lavoro ha licenziato l’addetto ad una certa attività produttiva, perché è stata acquistata una macchina che svolge in autonomia la stessa attività (giustificato motivo oggettivo), ma il datore di lavoro avrebbe potuto agevolmente ricollocare il lavoratore nell’organigramma aziendale senza eccessivi oneri.

4. La tutela indennitaria debole (art. 18, 6° comma) La tutela indennitaria debole è costituita da un indennizzo compreso tra le 6 e le 12 mensilità. Si applica per violazioni formali o procedurali e l’indennizzo è commisurato alla sola gravità della violazione: ha una natura

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più che altro sanzionatoria, perché è il caso in cui il datore di lavoro aveva il diritto di recedere ma non lo ha esercitato nelle forme stabilite dalla legge. Se ad esempio il lavoratore ha commesso un illecito disciplinare gravissimo, accertato, ma il datore di lavoro non gli ha permesso di farsi assistere da un rappresentante sindacale mentre esponeva le proprie difese, si applica questa tutela: naturalmente il licenziamento non perde efficacia.

La disciplina del Jobs Act Il c.d. “Jobs Act” è notoriamente costituito da una legge delega (n. 183 del 2014) cui sono seguiti numerosi decreti legislativi. Quello che si occupa delle tutele contro i licenziamenti illegittimi è il n. 23 del 2015, che si applica ai tutti i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulati a partire dal 7 marzo 2015. Il campo di applicazione prescinde dunque dalle dimensioni dell’impresa, perché non viene modificato l’art. 18 St. lav., bensì si introduce una disciplina nuova, benché differenziata per le piccole imprese e le organizzazioni di tendenza. Il sistema delineato dal d.lgs. 23/15 è definito dal legislatore “a tutele crescenti”, perché le tutele disposte a favore del lavoratore vittima del licenziamento illegittimo, pur restando molto simili a quelle introdotte dalla Legge Fornero, aumentano secondo gli anni di anzianità.

1. La tutela reale forte (art. 2) La tutela reale forte resta identica a quella prevista dall’art. 18 St. Lav. (v. supra, par. 4.1) e si applica ai casi di: a) licenziamento discriminatorio, b) licenziamento orale, c) licenziamento con difetto di giustificazione del motivo oggettivo per disabilità fisica o psichica, d) altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge. Anche l’ambito di applicazione è dunque molto simile a quello previsto dalla Legge Fornero: opportunamente si è attratto a questa tutela il caso – chiaramente discriminatorio – di difettoso motivo oggettivo di disabilità, precedentemente riconducibile alla tutela reale debole (art. 18, 7° comma St. Lav.).

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2. La tutela reale debole (art. 3, 2°comma) La tutela reale debole è simile nei contenuti a quella introdotta dalla Legge Fornero (v. supra par. 4.2), ma si applica esclusivamente ai casi di licenziamento disciplinare in cui il fatto materiale sia insussistente. L’aggiunta dell’aggettivo materiale è di cruciale importanza, perché esclude che il giudice valuti l’insussistenza del fatto giuridico, ad esempio per una patente sproporzione sanzionatoria, tanto che la norma espressamente dispone che “rest[i] estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. In tal modo l’applicazione della tutela reale, ancorché in forma debole, è notevolmente ristretta. Da notare ancora come, nel calcolo dell’indennità risarcitoria, l’aliunde percipiendum sia calcolato non più come la retribuzione che il lavoratore avrebbe potuto percepire se si fosse dedicato diligentemente alla ricerca di un nuovo lavoro, bensì come la retribuzione che avrebbe percepito accettando un’offerta congrua (da un centro per l’impiego): un altro passo nella direzione della prevedibilità dei costi del licenziamento. Questa forma di tutela non si applica alle piccole imprese e alle organizzazioni di tendenza, alle quali per altro non si applicava neanche secondo la disciplina previgente.

3. La tutela indennitaria forte (art. 3, 1° comma) La tutela indennitaria forte ha un amplissimo spettro di applicabilità: tutti i casi in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo o della giusta causa. Consiste nel pagamento al lavoratore illegittimamente licenziato di una somma compresa tra le 4 e le 24 mensilità, nella misura di due mensilità per ogni anno di servizio: da notare come a) il minimo sia stato ridotto da 12 a 4 mensilità e b) la somma sia predeterminabile con certezza ancora maggiore, in quanto esito di una banale operazione aritmetica. Per le piccole imprese e le organizzazioni di tendenza le somme sono dimezzate.

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4. La tutela indennitaria debole (art. 4) La tutela indennitaria debole si applica quando non siano specificati i motivi (ma sussistano) o quando non sia rispettata la procedura per il licenziamento disciplinare, che prevede una serie di garanzie difensive per il lavoratore. Consiste in una somma compresa tra le 2 e le 12 mensilità, una per ogni anno d’anzianità: anche in questo caso è ridotta la soglia minima e la somma è calcolabile in modo certo. Anche in questo caso le somme si dimezzano per le piccole imprese e le organizzazioni di tendenza.

5. L’offerta di conciliazione (art. 6) È ben chiaro come nel sistema delineato dal d.lgs. n. 23 del 2015 il calcolo delle indennità sia estremamente più automatico e semplificato rispetto alla disciplina previgente. Come abbiamo già evidenziato, questo comporta un vantaggio per il datore di lavoro, il quale può calcolare il costo esatto di un licenziamento illegittimo, ma non solo: rende il ruolo del giudice superfluo quando l’illegittimità sia evidente. Perciò il legislatore introduce la possibilità per il datore di lavoro di offrire al lavoratore (illegittimamente) licenziato una somma compresa tra 2 e 18 mensilità, nella misura fissa di una mensilità per ogni anno di servizio. L’offerta può essere fatta entro i termini per l’impugnazione del licenziamento, quindi nei casi dubbi il datore di lavoro può attendere sperando che il lavoratore rinunci ad impugnare il licenziamento. L’offerta di conciliazione può essere particolarmente vantaggiosa, ad esempio, nel caso di un lavoratore con un’anzianità elevata che sia stato licenziato per giustificato motivo o giusta causa ma con un vizio procedurale. Se, ad esempio, il lavoratore ha un’anzianità di quindici anni e decide di fare il ricorso al Giudice del lavoro può ottenere fino a 12 mensilità; se invece accetta la conciliazione, non deve anticipare le spese del giudizio e ottiene subito 15 mensilità. Naturalmente anche per il datore di lavoro la conciliazione è molto vantaggiosa, perché impedisce il controllo del giudice, che potrebbe rinvenire un’illegittimità più grave, e risparmia le

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spese del giudizio, le quali sono a carico della parte soccombente ex art. 91 cod. proc. civ. Anche le somme offerte in conciliazione sono dimezzate per piccole imprese e organizzazioni di tendenza.

Considerazioni conclusive Dopo questa sommaria esposizione dell’evoluzione della disciplina dei licenziamenti, in particolare sotto il profilo delle tutele dal licenziamento illegittimo, pare evidente che la tendenza costante del legislatore sia di rendere il più possibile predeterminabile il costo del licenziamento illegittimo. Questa scelta naturalmente ha molti vantaggi: rende più agevoli i calcoli e permette una maggiore flessibilità, perché ammette sostanzialmente un licenziamento libero a pagamento, salvi casi di estrema gravità. Sono tuttavia opportune tre considerazioni: La prima: se il legislatore vuole liberalizzare i licenziamenti, perché non prevedere un’indennità automatica obbligatoria che sani qualsiasi illegittimità non gravissima? Perché se l’indennità è calcolata automaticamente in base all’anzianità, perdendo ogni legame con il danno, perde anche qualsiasi valenza risarcitoria. E se la conseguenza, ad esempio, del licenziamento sproporzionato è soltanto l’obbligo di corrispondere un’indennità di anzianità, allora si può ancora dire che quel licenziamento sia illegittimo? Sarebbe forse più lineare dire espressamente che il licenziamento è sempre ammesso per giusta causa o giustificato motivo, oppure dietro indennizzo calcolato secondo la legge, sempre che non sia orale, discriminatorio, nullo per altra causa (tutela reale forte) o disciplinare per fatto materiale insussistente (tutela reale debole). La seconda considerazione: se il licenziamento diventa sostanzialmente sempre possibile (purché sia intimato per iscritto, non sia discriminatorio e non attribuisca addebiti disciplinari insussistenti), il potere del datore di lavoro nello svolgimento del rapporto è aumentato in larga misura. La minaccia del licenziamento è infatti in tal modo un’arma ancora più potente, soprattutto se si tiene conto della nuova formulazione dell’art. 2110 cod.

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civ. (introdotta dal d.lgs. n. 81 del 2015, sempre in attuazione della delega “Jobs Act”): il lavoratore può essere demansionato per una “modifica degli assetti organizzativi che incide sulla posizione del lavoratore” (2° comma); se rifiuta il demansionamento, viola il dovere di obbedienza stabilito dall’art. 2104 cod. civ. e quindi il datore di lavoro può sanzionarlo, sapendo che la sanzione potrà sempre essere anche il licenziamento, soprattutto se il lavoratore non ha un’anzianità elevata. Naturalmente non è scandaloso che il datore di lavoro possa licenziare più liberamente, indennizzando il lavoratore nei casi in cui la giusta causa o il giustificato motivo non sono così evidenti, ma sarebbe preferibile evitare il bizantinismo dell’illegittimità e dell’indennità “risarcitoria”, con il rischio di incorrere in una irragionevolezza, che è oggetto della terza considerazione. È infatti pacifico che il lavoro è non soltanto fonte di sostentamento delle persone ex art. 36 Cost., bensì anche luogo di svolgimento della loro personalità ex artt. 1, 2, 4 e 35 Cost. E allora se un lavoratore viene illegittimamente licenziato, è irragionevole che la funzione risarcitoria sia svolta da una indennità che tiene conto soltanto dell’anzianità di servizio. Due sono le soluzioni possibili. La prima è considerare il licenziamento non giustificato illegittimo: il danno viene risarcito, o quantomeno indennizzato secondo parametri di natura risarcitoria, come l’entità del danno, le condizioni delle parti, la gravità della violazione. In questo caso ovviamente si dovrebbe rinunciare alla perfetta prevedibilità del costo del licenziamento illegittimo. La seconda è considerare il licenziamento non giustificato non illegittimo salvi i casi più gravi (cioè quelli che attualmente hanno tutela reale): allora non è dovuto un risarcimento ed è dunque ragionevole prevedere l’obbligo per il datore di lavoro di una semplice indennità, per compensare il lavoratore della flessibilità di cui questi patisce le conseguenze, auspicabilmente momentanee.

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rielaborazione su fotografia di Niccolò Caranti

intervista ANDREA ICHINO Andrea Ichino è Professore ordinario presso l’European University Institute di Fiesole. Precedentemente è stato professore di Economia presso l’Università di Bologna e ricercatore presso l’Università Bocconi. Insieme ad Alberto Alesina ha pubblicato “L’Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli Italiani” (Mondadori 2009) e insieme a Daniele Terlizzese “Facoltà di Scelta. L’università salvata dagli studenti. Una modesta proposta” (Rizzoli, 2013). I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente l’economia del lavoro, dell’istruzione e della famiglia. Ha pubblicato in numerose riviste accademiche quali: Quarterly Journal of Economics, Journal of Labor Economics e American Economic Review.

di Ivan Lagrosa

Università Bocconi & IGIER

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Professore, una riforma del mercato del lavoro non può che essere valutata in termini di efficienza del mercato e diritti dei lavoratori. Nel caso del Jobs Act, emblematico è stato il dibattito intorno all’abolizione dell’articolo 18. Lei ritiene esista un trade-off fra diritti garantiti ed efficienza del mercato? In questo dibattito, come si è andato ad inserire il Jobs Act? Prima ancora di parlare di efficienza del mercato, dobbiamo chiederci se esista un trade-off tra diritti degli insiders e diritti degli outsiders. Questo trade-off non esiste nel mondo ipotetico disegnato, ad esempio, nel libro di Robert Solow (Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Il Mulino 1994). In questo mondo il mercato del lavoro è duale, con gli insider protetti nel settore primario – dentro le mura della cittadella – e gli outsider abbandonati a loro stessi nel settore secondario – fuori dalle mura. Tuttavia, anche agli outsider conviene che i posti protetti siano pochi, all’interno delle mura, se l’attesa per entrare non è troppo lunga. In questo caso, il valore di attendere senza diritti per poi entrare nella cittadella godendo di pieni diritti è maggiore del valore di una competizione al ribasso che dia un guadagno immediato ma porti poi in poco tempo alla distruzione delle mura della cittadella e, quindi, ad eliminare i benefici delle protezioni per tutti. Fuor di metafora, i minimi salariali e la protezione contro i licenziamenti sono diritti che non possono essere offerti a tutti, soprattutto nelle attuali condizioni di crescita economica globale. Possono quindi essere interpretati come gli effetti di un “cartello” che impedisce la concorrenza, favorendo gli insider. In passato, i tempi di attesa per entrare nel mercato primario e godere di questi diritti erano relativamente brevi e quindi il loro mantenimento andava bene anche agli outsider. Oggi non è più così, a mio modo di vedere. Quindi, la prima domanda che dobbiamo porci è se il sistema precedente al Jobs Act era davvero un sistema che garantiva i diritti di tutti, o solo di pochi. Io credo che garantisse solo i diritti di pochi e che il Jobs Act sia stato un passo nella direzione di una estensione più equa dei diritti, anche se è un passo ancora largamente insufficiente. In aggiunta al trade-off tra insider e outsider, c’è poi il trade-off tra diritti ed efficienza di mercato menzionato nella domanda. Per un economista, valgono i due teoremi fondamentali

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dell’economia del benessere che affermano l’ottimalità paretiana di un mercato concorrenziale in assenza di imperfezioni e la possibilità di redistribuire nel modo preferito i guadagni di efficienza ottenuti grazie al mercato concorrenziale. Partendo da un mondo ipotetico perfettamente concorrenziale, è indiscutibile che violazioni della concorrenza come quelle prodotte dalla protezione contro i licenziamenti e dai minimi salariali producano perdite di efficienza. Per giustificare queste deviazioni dalla concorrenza in termini di efficienza, dobbiamo quindi ragionare nella cosiddetta logica di “Second Best”. Ossia, capire se esistono delle preesistenti imperfezioni del mercato (asimmetrie informative, mercati mancanti, esternalità, etc.) tali per cui le deviazioni diventino efficienti, data l’esistenza di queste stesse imperfezioni. Per esempio, nel mondo di Marx ed Engels la disparità di potere tra proletari e proprietari dei mezzi di produzione può essere descritta come una asimmetria informativa che viola le ipotesi per la validità dei teoremi fondamentali dell’economia del benessere e che quindi rende un equilibrio concorrenziale inefficiente. In questo contesto, i diritti garantiti dallo Statuto dei Lavoratori possono diventare un Second Best. Ma pensiamo davvero di essere ancora nel mondo descritto da Marx e Engels? Io credo di no. Se qualcuno mi convince del contrario, però, sarò il primo a sostenere che il Jobs Act sia un passo nella direzione sbagliata. Altrimenti, il passo è nella direzione giusta.

Un contributo fondamentale dell’ultima riforma è stato quello di aver ripensato la disciplina del licenziamento, restringendo il campo di manovra del giudice. Come valuta questo intervento? Ritiene sia possibile e auspicabile immaginare un mercato del lavoro nel quale l’intervento di un giudice non sia previsto? Lei in passato ha condotto studi che hanno messo in luce molta incertezza nelle sentenze ed una elevata dipendenza dell’esito del procedimento in base al contesto socio-economico locale. Credo proprio che aver ridotto il campo di manovra del giudice nella disciplina dei licenziamenti sia uno dei benefici più importanti

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del Jobs Act, non solo nell’interesse dell’efficienza, ma anche nell’interesse dei pochi insider protetti. Consideriamo per esempio i licenziamenti individuali per motivi economici. Un datore di lavoro ricorre a questa motivazione per un licenziamento quando si attende che il profitto futuro generato dal lavoratore sia negativo. È però possibile che questo profitto sia negativo per colpa del datore di lavoro che ha sbagliato un investimento e, in questo caso, non si vede perché il lavoratore debba sostenere dei costi per errori o incapacità dell’imprenditore. Affidare al giudice la decisione riguardo alla legittimità di un licenziamento in questa situazione significa esporre il lavoratore ad una “roulette russa”. Come ho infatti illustrato in alcuni articoli con Paolo Pinotti, non tutti i giudici la pensano allo stesso modo: ci sono giudici che tendono a decidere sistematicamente a favore dei lavoratori e giudici che invece tendono a decidere sistematicamente a favore delle imprese. Poiché i processi sono assegnati casualmente ai giudici di una stessa sezione, la stessa fattispecie può essere giudicata in modo molto diverso da giudici differenti. Non mi sembra un sistema particolarmente attraente e trasparente. Supponiamo invece che il Parlamento stabilisca un indennizzo che il datore di lavoro deve pagare al lavoratore per poterlo licenziare. Questo indennizzo può essere reso alto quanto si vuole, aumentando così la protezione offerta al lavoratore. Il datore di lavoro, infatti, licenzierebbe solo i lavoratori per i quali la perdita attesa di profitto è superiore all’indennizzo in valore attuale. Il licenziamento avrebbe quindi un valido “motivo oggettivo” solo quando la perdita attesa fosse al di sopra di una soglia minima decisa dalla collettività. Questo è il sistema a cui tende il Jobs Act e mi sembra molto più trasparente ed efficiente. Non lascia infatti la valutazione del motivo “oggettivo” al giudizio “soggettivo” del giudice.

Come ha più volte ricordato, il Jobs Act, con l’abbassamento del costo del licenziamento, non deve essere visto come una bacchetta magica per creare posti di lavoro, ma piuttosto come una misura per aumentare l’efficienza nell’allocazione dei lavoratori. Tuttavia, forse complice la decontribuzione, negli ultimi due anni sembra che la crescita del numero degli

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occupati sia stata più robusta rispetto a quella del prodotto interno lordo. Come valuta la dinamica attuale di tali dati e come pensa che questa possa evolversi in futuro? Come giustamente ricordato nella domanda, la teoria economica dice che l’effetto immediato di una riduzione dei licenziamenti sui livelli di occupazione è ambiguo: le imprese che possono assumere lo faranno più volentieri ma al tempo stesso quelle che vogliono licenziare possono farlo a costi inferiori. Nulla garantisce che l’effetto netto sia positivo. Continuo a non capire perché il dibattito politico non si renda conto di questo. Nel lungo periodo, però, se una riduzione dei costi di licenziamento consente di ridurre il numero di lavoratori che occupano posti di lavoro improduttivi e di aumentare gli occupati dove invece possono essere più produttivi, allora questa riduzione ha effetti positivi sui livelli medi di occupazione, oltre che sull’efficienza del sistema produttivo – ossia sulla dimensione della torta che i cittadini possono dividersi. È pensabile che la riduzione dei costi di licenziamento contenuta nel Jobs Act abbia immediatamente prodotto questi effetti di lungo periodo? Credo proprio di no, soprattutto per un motivo. Se le imprese che possono assumere temono che, dopo la riforma, possa seguire una contro riforma, ci penseranno due volte prima di assumere. Alla luce della fine del Governo Renzi, la contro riforma non è una ipotesi così remota, basti pensare alla vicenda dei vouchers. In queste condizioni, il sistema può finire “in mezzo al guado”, con gli effetti negativi di una legislazione flessibile – chi ha bisogno di licenziare lo fa prima possibile per sfruttare l’opportunità della riforma –, senza godere degli effetti positivi – chi potrebbe assumere non lo fa per paura della contro riforma. Va detto che il Jobs Act non può avere avuto effetti sensibili sui licenziamenti perché vale solo per i nuovi assunti. Non credo, però, che abbia già potuto esprimere gli effetti di lungo periodo sopra ricordati. Quindi, la mia impressione è che l’effetto positivo immediato del Jobs Act sull’occupazione sia da attribuire soprattutto agli incentivi contributivi alle assunzioni. Con il passare del tempo, e il confermarsi degli effetti positivi, però, credo che inizi a

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farsi sentire l’effetto espansivo di lungo periodo della riduzione dei costi di licenziamento sui livelli occupazionali. In ogni caso è presto per trarre conclusioni e gli effetti saranno tanto più positivi quanto più deboli saranno i “venti della contro riforma”.

Rispetto a riforme del mercato del lavoro messe in campo in altri Paesi, quali Francia o Spagna, l’intervento del nostro legislatore è stato decisamente timido se guardiamo alla disciplina della contrattazione, che rimane prevalentemente spostata a livello nazionale a discapito della contrattazione aziendale. Lei ha condotto studi sull’impatto che questo tipo di disciplina ha sullo sviluppo del Mezzogiorno. Riterrebbe dirimente un intervento di questo tipo e, nel caso, cosa frena la sua adozione? Insieme a Tito Boeri e Enrico Moretti abbiamo illustrato le distorsioni generate dalla equalizzazione delle retribuzioni nominali imposta dalla contrattazione sindacale nazionale. Se il Nord è più produttivo del Sud, una contrattazione nazionale che fissi il salario nominale ad uno stesso livello, basso per il Nord e alto per il Sud, aumenta la domanda di lavoro al Nord e la riduce al Sud. Conseguentemente si genera un flusso migratorio verso Nord che fa aumentare il prezzo delle abitazioni in questa regione. Prezzi delle case più alti implicano prezzi più alti di tutti i beni e quindi salari reali inferiori. Ne consegue un equilibrio in cui il Nord è caratterizzato da salari reali inferiori a quelli del Sud, ma in condizioni di piena occupazione. Il Sud è invece caratterizzato da salari reali elevati per chi lavora mentre il resto della forza lavoro è disoccupata. Nessuno si sposta perché il reddito atteso (medio) nelle due regioni è equivalente. Che questa situazione sia iniqua e assurda sembra evidente. Non abbiamo mai sostenuto che la sola liberalizzazione della contrattazione, portandola al livello aziendale, possa risolvere il problema della scarsa produttività del sud, ma certamente favorirebbe un equilibrio più equo e più efficiente per dato differenziale di produttività tra le due regioni. Il rifiuto degli insegnanti assunti al Sud dalla Buona Scuola di spostarsi al Nord, dove avrebbero sofferto un pesante taglio

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al potere d’acquisto delle loro retribuzioni, è la dimostrazione più evidente di quello che Enrico, Tito ed io sosteniamo. Perché i sindacati – e anche la popolazione del meridionale in genere – non se ne rendono conto è per me inspiegabile. Chiedetelo a loro, però, non a me.

Uno dei suoi campi di interesse riguarda infine il mondo dell’istruzione, e il suo rapporto con il mercato del lavoro. Alcuni interventi verso una loro maggiore integrazione sono stati fatti anche con il Jobs Act. Eppure, se confrontati con Paesi come la Germania, in Italia i due sistemi sembrano parlare lingue diverse: le istituzioni pubbliche sono diffidenti verso le imprese private, e queste ultime hanno una scarsa fiducia nei confronti del sistema educativo. Da qui fenomeni quali lo skill mismatch. Lei che opinione ha e come pensa sia necessario intervenire? L’integrazione tra scuola e lavoro non può essere gestita centralmente dal Ministero dell’Istruzione: un pachiderma che occupa quasi un milione di persone non può materialmente muoversi in modo efficiente in questo campo, che richiede adattamenti rapidi alle situazioni locali di mercato. Anche se la pubblica amministrazione italiana fosse molto efficiente, e non lo è, una azienda di queste dimensioni non può funzionare bene. Come ho sostenuto con Guido Tabellini (Liberiamo la Scuola, Edizioni Corriere della Sera, 2013), l’unica soluzione è passare ad un sistema di autentica e completa autonomia scolastica (sul modello delle Charter School in USA o delle School Academies in UK) riguardo alla definizione dei programmi, entro limiti fissati dal ministero, e soprattutto alla selezione e retribuzione degli insegnanti.

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intervista PIERO MARTELLO

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Piero Martello è attualmente Presidente della Sezione Lavoro del Tribunale di Milano. Dal 2002 al 2005, è stato Vice Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e, dal 2009 al 2011, Vice Capo Dipartimento per gli Affari di Giustizia presso il Ministero della Giustizia. Giornalista pubblicista, è stato docente relatore in numerosi eventi pubblici e corsi di formazione del Consiglio Superiore della Magistratura e della Scuola Superiore di Magistratura. Testo rielaborato dall’autore dopo l’intervista

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Tommaso Portaluri ETH Zürich


Il Jobs Act, come molti commentatori hanno osservato, ha portato a compimento il passaggio - iniziato già dalla riforma Fornero - da un regime di tutela reale a un regime di tutela indennitaria, restringendo sostanzialmente la possibilità di reintegrazione in favore di un indennizzo monetario di entità certa. Quali vantaggi e quali svantaggi scaturiscono, nella sua lettura, da questo passaggio e come è mutato il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro? È difficile parlare di vantaggi in termine assoluti, perché spesso la norma se crea vantaggi per un soggetto verosimilmente creerà svantaggi per l’altra parte del rapporto. Occorre una premessa: di fronte alle novità legislative bisogna sempre riconoscere il primato della sfera della politica e dei Decisori istituzionali, ovvero dei soggetti che nel nostro ordinamento hanno il potere e il dovere di adottare provvedimenti normativi: Parlamento e Governo. Ciò significa che ai Decisori istituzionali spetta individuare gli obiettivi e i valori da conseguire, fissare le priorità, individuare le tutele da fornire a presidio di tali diritti, stabilire la portata delle tutele. Ovviamente a questo primato e questo potere spetta anche l’assunzione di responsabilità, prima fra tutte quella di non lasciare margini di ambiguità nella formulazione leggi che sono scritte in maniera talvolta generica, talvolta imperfetta, talvolta sia generica sia imperfetta, con l’effetto, voluto o non voluto, di delegare alla magistratura il compito di integrare queste lacune. Per rispondere alla domanda, è pacifico che l’insieme delle leggi degli ultimi tempi in materia lavoristica ha comportato uno scarto di paradigma rispetto all’impostazione normativa e culturale del passato. La legislazione del lavoro, infatti, nasce e si sviluppa sul presupposto, implicito ma anche esplicito, dell’esistenza di un’asimmetria fra le parti del rapporto di lavoro, vale a dire che si dava – e si dà tuttora - per scontato che le parti del rapporto di lavoro, lavoratore e datore di lavoro, non si trovino su un piano di parità di forza contrattuale. Pertanto, la legislazione del lavoro aveva tra gli altri obiettivi quello di correggere questa disparità, di dare un sostegno alla parte che veniva ritenuta, secondo me correttamente, la parte più debole del rapporto di lavoro. Un esempio tipico del distacco operato dalla legislazione più recente rispetto a questa impostazione è l’enfasi che viene data al concetto di flessibilità.

INTERVISTA A PIERO MARTELLO

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Tengo a specificare che queste considerazioni sono meramente descrittive e del tutto avalutative: non c’è una valutazione di tipo politico proprio per quanto detto sul primato della politica. Anche perché non spetta al giudice dare valutazioni politiche su queste scelte di valore. Spetta al giudice applicare la legge, ovviamente esercitando il suo potere/dovere di interpretare la norma, alla luce della Costituzione, dei principi generali dell’ordinamento, della normativa nazionale e comunitaria. La mia impressione, per andare agli effetti di questo passaggio, è che c’è stata una compressione dei diritti dei lavoratori. Si tratta di una mera constatazione, fondata peraltro sulle dichiarazioni che hanno reso esponenti di Governo, motivando questa compressione con una sorta di assioma, ovvero “minori sono le tutele, maggiori sono I contratti di lavoro” o volendo semplificare: meno diritti uguale più occupazione. Possiamo chiamare questa impostazione lo scambio di diritti con lavoro; peraltro, il fenomeno dello scambio tra diritti ed altri valori si è verificato non solo in ambito lavoristico ma anche ma anche in altri settori, si pensi ad esempio al caso della privacy, in cui i diritti di riservatezza vengono compressi in cambio della sicurezza. Sulla teoria per cui maggiore flessibilità del e nel mercato del lavoro determini di per sé sola una crescita dell’occupazione si è scatenata una battaglia di numeri, che ha profili politici che non competono al giudice. Ciò che invece è opportuno sottolineare sul piano tecnico è un complessivo indebolimento della posizione del lavoratore. Si tratta, inoltre, di un indebolimento che non riguarda soltanto il momento finale del rapporto di lavoro (il licenziamento) ma che riguarda tutto il suo svolgimento. Infatti, è evidente che se per il datore di lavoro diventa più agevole licenziare – e quindi parallelamente per il lavoratore più facile la prospettiva di essere licenziato – si genera dunque un indebolimento della posizione del lavoratore anche durante il rapporto di lavoro, che magari porterà questi ad accettare anche situazioni che ritiene lesive per il timore di essere licenziato. Per riassumere in breve questo scarto di paradigma si potrebbe dire che mentre la sanzione comune prevista dalla legislazione preesistente di fronte a un licenziamento illegittimo era la reintegrazione, questa nel nuovo quadro normativo diventa un’ipotesi magari non marginale ma perlomeno collaterale, mentre l’ipotesi generale, più ordinaria, è quella del pagamento di un indennizzo risarcitorio. Pur essendo sempre di fronte a un

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licenziamento non giustificato (ovvero: il lavoratore non doveva essere licenziato) non si ha più la “sanzione perfetta” della ricostituzione del rapporto di lavoro illegittimamente sciolto ma una sanzione per equivalente economico. Parlo di “sanzione perfetta” perché, nel mondo del diritto, la “sanzione perfetta” di fronte a un comportamento illecito è quella di ricostituire la situazione preesistente a detto comportamento, eliminando la lesione del diritto. Invece la sanzione risarcitoria è una soluzione surrogatoria, che si adotta quando è impossibile o poco agevole ricostituire lo status quo ante. Un ulteriore aspetto legato al cambio di paradigma, dalla tutela reale a quella indennitaria, riguarda il noto “contratto a tutele crescenti”. Talvolta le norme vengono pubblicizzate in maniera un po’ frettolosa, spesso soggiacendo alle tentazioni mediatiche. Sono il primo a rendermi conto che la politica è anche comunicazione ma certe volte le esigenze di comunicazione prevalgono sulla sostanza. “Tutele crescenti” è senza dubbio un’espressione bella da sentire ma in definitiva non ha riscontro nella realtà perché la tutela è sempre una e la sua natura è sempre la stessa: indennitaria. Detto altrimenti, non è la tutela a “crescere” o rafforzarsi, ma l’indennità, in quanto collegata all’anzianità; sarebbe dunque più proprio parlare di “indennità crescenti” in ragione dell’anzianità di servizio. Come sottolinea più volte, esiste un primato della politica da rispettare, viene però da chiedersi quale ruolo rimanga per il giudice. In termini più espliciti, ritiene che, pur ponendosi avalutativamente rispetto agli obiettivi posti dai Decisori istituzionali, sia possibile fare una valutazione di idoneità degli strumenti adottati rispetto a fini dichiarati? E, in caso affermativo, come valuta gli effetti di questa riforma rispetto a tempi ed organizzazione del processo? Io penso che il giudice debba anzitutto prendere atto della legislazione, perché non gli competono valutazioni sulle finalità della legge. Accanto a ciò però, i giudici – e anche gli altri operatori del diritto – possono e debbono certamente valutare la congruità degli strumenti adottati rispetto ai fini dichiarati, valutare cioè l’idoneità dei mezzi rispetto ai fini. E qui viene in campo la funzione tipica del giurista – ovvero di magistrati, avvocati, studiosi del diritto e accademici – che è quella dell’interpretazione della norma. L’interpretazione non è solo un potere del giudice ma è anche un

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dovere e, ovviamente, tra tutti gli interpreti quello che ha maggiori responsabilità è il giudice perché la sua interpretazione si traduce in una decisione vincolante per le parti. Qual è l’estensione del potere/dovere di interpretazione del giudice? La risposta non è semplice ma la mia è idea è che, una volta dato il dovuto ossequio alla norma e alla legislazione, il giudice abbia il potere/ dovere di interpretare la singola norma integrandola nel sistema giuridico complessivo, alla luce dunque in primo luogo della Costituzione, poi del sistema normativo nazionale e internazionale (mi riferisco sia alle convenzioni internazionali sia alle direttive e ai regolamenti dell’Unione Europea, che hanno un’efficacia diretta nel sistema giuridico interno del singolo Stato). A tal fine ritengo che il giudice possa e debba avvalersi di tutta quella che chiamerei la tastiera ermeneutica, ovvero di tutti gli spazi che l’ordinamento gli consente, ma evitando torsioni interpretative, cioè evitando di far dire alla norma quello che non può e non vuole dire. È fondamentale rispettare questo limite per due ragioni: anzitutto perché è un vincolo di legge e la funzione pubblica del giudice comporta l’obbligo di tener conto dei limiti dei suoi poteri; in secondo luogo, anche per responsabilizzare il legislatore, perché talvolta delle norme poco chiare o lacunose costringono il giudice a una supplenza che, se si espande troppo, può finire per deresponsabilizzare il legislatore e indurlo a continuare a fare norme generiche e lacunose. La risposta è pertanto affermativa: rimane uno spazio per valutare l’idoneità dei mezzi ai fini. Sugli effetti della legislazione, direi che non ci sono effetti sui tempi del processo, perché la durata dipende da altre questioni e da come funziona, in ogni sede giudiziaria, la giustizia del lavoro. Penso ci siano invece ripercussioni sul ricorso alla giustizia. In particolare, questa legislazione può incidere sia prima del processo, se le parti si accordano preventivamente, sia una volta iniziata la causa, sulla conciliazione, inducendo le parti a trovare un accordo. Può anche darsi che un lavoratore non si rivolga al giudice, preferendo una trattativa preventiva; il lavoratore, infatti, sa che oramai, anche se avesse ragione, cioè anche se il licenziamento fosse accertato come illegittimo, difficilmente potrà riavere il posto di lavoro. La differenza rispetto al passato consiste nel fatto che, siccome le conseguenze del licenziamento illegittimo erano più gravose per il datore di lavoro, era il datore più incline alla conciliazione, mentre adesso succede il contrario per evidenti e speculari ragioni.

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La legislazione di questi ultimi anni introduce una relativa certezza limitatamente agli effetti, perché in caso di indennizzo la legge stabilisce un’entità minima e massima, ma tengo a specificare che ciò ha a che fare con la prevedibilità degli esiti e non con la certezza del diritto, che è una nozione ben distinta. Vorrei sottolineare inoltre che in fase di elaborazione di queste leggi c’era chi suggeriva di valorizzare la tutela indennitaria proponendo di prevedere degli indennizzi di valore molto elevato, tali da scoraggiare ulteriormente possibili abusi del datore di lavoro; poi, nella concreta normativa, questo proposito ha subito una revisione e gli indennizzi sono stati fissati in termini molto meno elevati. La possibilità di reintegrazione ex art. 18 rimane, tra gli altri pochi casi, per i licenziamenti discriminatori o ritorsivi, viene però richiesto che un giudice accerti la non fondatezza della causa di licenziamento, con l’onere della prova che ricade sul lavoratore. Quanto è concreto, a suo avviso, il rischio che un datore di lavoratore mascheri un provvedimento discriminatorio infondato dietro un licenziamento “economico” o disciplinare? Il rischio esiste ma non mi pare agevole quantificarlo, anche perché la casistica non è ancora significativamente ampia. Penso però che il rischio esista perché il licenziamento qualificato come disciplinare o per un asserito giustificato motivo comporta, nella generalità dei casi, per il datore di lavoro il pagamento di un indennizzo per il quale la legge prevede un minimo e un massimo, mentre il licenziamento discriminatorio o ritorsivo comporta la sanzione piena della reintegrazione. È dunque prevedibile che ci siano dei tentativi di mascherare un licenziamento discriminatorio con un licenziamento “economico”. Se il lavoratore prova che dietro questa etichetta si cela un intento discriminatorio allora è prevedibile che la conseguenza sarà quella della reintegrazione. In parallelo, bisogna dire che tentativi analoghi vengono fatti dal lato opposto, dai lavoratori ricorrenti e dai loro avvocati, che sostengono spesso, talvolta fondatamente talvolta non fondatamente, l’esistenza di un intento discriminatorio, al fine di ottenere il rito accelerato, il “rito Fornero”, e per poter coltivare la prospettiva della reintegrazione. Anche qui, il processo è essenziale per realizzare un’indagine sul caso specifico, allo scopo di capire se la discriminazione ci sia realmente stata.

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Uno dei temi che più di altri hanno animato il dibattito pubblico è la questione del demansionamento: riformulando l’art. 2103 c.c. che regola le mansioni del lavoratore, è stato tolto il riferimento al requisito, in caso di modifica, dell’equivalenza tra le ultime mansioni e quelle di nuova assegnazione. Detto altrimenti, l’unico vincolo al demansionamento sarà il livello di inquadramento e categoria legale (operai, impiegati, quadri, dirigenti - che dovrà rimanere invariato) e non più l’equivalenza sia rispetto al contenuto professionale che rispetto al bagaglio professionale del lavoratore. Si tratta tuttavia di questioni sulle quali, negli anni, la giurisprudenza si è più volte espressa; che ne sarà, secondo lei, della giurisprudenza stratificatasi proprio a tutela dell’equivalenza delle mansioni? Sarà totalmente abbandonata in favore della lettera della legge o il giudice del lavoro dovrà tenerne in qualche modo conto? È chiaro che la giurisprudenza si è formata nei corsi dei decenni sul vecchio testo che prevedeva vincoli particolarmente incisivi per legittimare il mutamento di mansioni. La nuova normativa opera invece nell’ottica di rimuovere pressoché completamente i vincoli per il datore di lavoro che intende mutare le mansioni del lavoratore. Con la nuova normativa, sarà necessaria una nuova fase interpretativa nella quale, ove possibile, si terrà conto anche della riflessione giurisprudenziale di questi anni ma ovviamente alla luce della nuova formulazione. Quello che è possibile ipotizzare è che verranno posti - già qualcuno li ha posti - vari profili di incostituzionalità di questa riforma in materia di mansioni. Per esempio c’è chi sostiene, secondo me con qualche fondamento, che il decreto legislativo sia andato oltre i confini della legge delega ex art. 76 della Costituzione. Nella legge delega, infatti, era previsto che la revisione della disciplina dovesse tener conto di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi ma forse – e questa è un’opinione personale - questi parametri non sono obiettivamente individuati. Un altro profilo di natura costituzionale riguarda inoltre l’ipotesi che l’ampiezza di modifica delle mansioni del lavoratore violi i principi costituzionali in materia di tutela della dignità della persona. Accanto a ciò, è opportuno sottolineare che questa nuova norma in teoria sembra dare un maggiore ruolo alla

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contrattazione collettiva, perché prevede che in alcuni casi le modifiche di mansioni possano essere previste da contratti collettivi; in realtà, a una lettura più attenta, probabilmente, sembrerebbe che neanche il ruolo della contrattazione ne esca valorizzato. Si potrebbe dunque concludere che questa normativa restringe il campo tanto per l’interpretazione giurisprudenziale quanto per la contrattazione collettiva. Alcuni economisti (Ichino & Pinotti, 2012) hanno osservato analizzando tempi medi ed esiti delle sentenze in tre diversi tribunali in Italia (Milano, Roma e Torino) - forti difformità nelle tempistiche e negli esiti delle sentenze in ambito giuslavoristico, giungendo alla conclusione che non sia conveniente, anzitutto per il lavoratore, affidarsi a una simile roulette russa. La soluzione che gli autori proponevano è quella di un indennizzo certo, in tempi brevi; quanto secondo lei questa proposta tutelerebbe i lavoratori e quali potrebbero essere tutele integrative o alternative? Quanto e in che modo è importante il ruolo del giudice nel tutelare il lavoratore? Io penso che l’espressione roulette russa sia priva di senso per chi conosca la funzione e la natura del processo; posso capirla perché viene da economisti, ovvero da studiosi che non hanno dimestichezza con la materia e la funzione del processo. Così come se io mi occupassi di economia rischierei di dire cose approssimative, questa è una definizione un po’ avventata. Come già detto, i tempi medi del processo non hanno correlazione con la natura delle tutele, dipendono invece dall’organizzazione di ogni ufficio giudiziario. Nello studio di questi economisti, inoltre, si sbagliava anche a calcolare i tempi medi, perché i tempi medi del Tribunale del Lavoro di Milano sono bassissimi, sono i più bassi d’Italia e sono al di sotto della media europea. È un dato di assoluta rilevanza: il tempo medio di definizione del processo al Tribunale del Lavoro di Milano al 31/12/2016 è di 144 giorni (quattro mesi e mezzo), un tempo estremamente basso, da record, se si considera che la durata media in Italia è di 1009 giorni (tre anni o poco meno). Se l’obiettivo è invece avere un processo che sia il più breve possibile, disconoscendo l’importanza della sua funzione, si potrebbe allora eliminare direttamente il processo, che sembrava l’idea, a mio avviso superficiale, degli autori della ricerca, che sembrano propendere sempre e comunque

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per una risoluzione negoziale tra il datore di lavoro e il lavoratore. Ovviamente tutto si può fare, se il legislatore vuole, ma a me non sembra che la rimozione della tutela giudiziaria rientri al momento tra gli obiettivi del legislatore. A me sembra, inoltre, che in quella ricerca ci sia più di un presupposto fallace. Anzitutto perché i casi presi in considerazione possono essere diversi l’uno dall’altro, e dunque non possono essere decisi tuti nello stesso modo; ma anche se, per ipotesi, i casi fossero gli stessi è tipico della giurisdizione che ogni giudice si formi una propria idea, una volta fatta l’istruttoria e letti gli atti delle parti e le risultanze dell’istruttoria. Ma questa è, per fortuna, la normalità del processo; se la parte ritiene che la decisione del giudice di primo grado sia sbagliata, ha facoltà di ricorrere in appello. Bisogna inoltre notare che la distribuzione delle cause tra i giudici avviene in maniera automatica a ulteriore tutela delle parti. L’automatismo dell’assegnazione, le cui conseguenze sono analizzate nello studio, è un principio di civiltà giuridica che garantisce l’imparzialità dei giudici. Infatti, se invece fosse il capo dell’ufficio ad assegnare le cause ai singoli giudici, si rischierebbe di condizionarne il risultato. L’ottica degli autori, che a me sembra un po’ naïf, suggerisce invece che ogni volta che ci si trova di fronte a una causa di licenziamento sia possibile conoscere in anticipo la soluzione e che se invece detta soluzione è diversa da quella che prevista si tratta di una roulette russa. La variabilità delle decisioni è invece un aspetto che fa parte della normalità del processo e che si registra, tra l’altro, in moltissimi altri ambiti: in ambito universitario, ad esempio, non mi risulta che gli studenti vengano promossi in anticipo, alcuni vengono promossi e altri bocciati, ma solo dopo aver sostenuto un esame; è una roulette russa questa? All’immagine della roulette russa allora si può contrappore quella del, con esiti pre-determinati, ma questa visione è incompatibile con l’amministrazione della giustizia, in cui il processo deve servire ad adattare la norma, che ha una portata generale, al caso particolare. Se da un lato è necessario che di fronte a situazioni analoghe ci siano esiti analoghi, perché è giusto che la parte possa fare una previsione sull’esito della causa, non si può però pretendere che gli esiti siano determinati ex ante. Trovare il giusto equilibrio tra questi aspetti non è banale. Una strada potrebbe essere a mio avviso quella di far parlare tra di loro i giudici, perché esaminino insieme le questioni comuni e confrontino le varie

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posizioni con l’auspicio, che non può essere un obbligo, che tutti insieme convergano su una stessa posizione. Ma partiamo sempre dal presupposto che si tratti di processi identici: in realtà spesso un caso è diverso da un altro. Si tratta tra l’altro proprio di quello che si fa al Tribunale del Lavoro di Milano, dove periodicamente teniamo riunioni nelle quali tutti i giudici si confrontano per provare a convergere su una posizione comune. Ovviamente una convergenza che può essere soltanto facoltativa, perché l’autonomia del giudice comporta che ogni giudice decida e scelga in coscienza, sulla base del convincimento raggiunto. C’è poi un altro sistema che io ho utilizzato spesso: quando si presentano cause identiche che vengono assegnate a giudici diversi, è possibile riunirle e fare in modo che vadano tutte a uno stesso giudice, in modo da avere una tendenziale unificazione della giurisprudenza.

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Cosa sono le politiche del lavoro Quando si parla di politiche del lavoro si fa riferimento ad un’ampia gamma di interventi pubblici atti a tutelare l’occupazione e le persone che ne sono prive; esse possono essere suddivise in due macro aree: le politiche passive e le politiche attive.

Politiche passive del lavoro In generale, le politiche passive consistono in prestazioni monetarie a favore del disoccupato. A seconda della provenienza delle risorse erogate, le politiche passive possono a loro volta seguire due schemi diversi. Secondo lo schema assicurativo, il sussidio viene elargito a fronte dei contributi precedentemente versati dal lavoratore e dal datore di lavoro, e l’importo e la durata della prestazione sono ad essi proporzionali. In tutti i paesi europei esiste un’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, che può variare da un Paese all’altro in termini di generosità della prestazione, rapporto di contribuzione lavoratore/datore di lavoro e vincoli di attivazione. Lo schema assistenziale, invece, preleva risorse dalla fiscalità generale per finanziare sussidi di disoccupazione a favore di chi non avesse pagato i contributi necessari per godere di una copertura assicurativa, oppure per chi ne avesse già usufruito. L’accesso a questo tipo di prestazioni è sottoposto alla presenza di requisiti di reddito (la cosiddetta prova dei mezzi) e, a seconda della platea dei destinatari, distinguiamo lo schema assistenziale dedicato, che tutela esclusivamente i lavoratori, dallo schema assistenziale generale, che prevede un sussidio minimo a chiunque si trovi in condizioni di indigenza, avvicinandosi così all’idea di reddito di cittadinanza.

Politiche attive del lavoro Le politiche attive del lavoro riguardano invece quegli interventi volti ad incidere direttamente sul mercato del lavoro, creando nuova occupazione o intervenendo, a scopo preventivo o curativo,

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sulle possibili cause della disoccupazione. L’OCSE ne ha proposto una classificazione, distinguendo cinque grandi gruppi: 1.

sussidi all’occupazione;

2.

creazione diretta e temporanea di posti di lavoro;

3.

formazione professionale;

4.

sostegno finanziario e servizi per la nuova imprenditorialità;

servizi per l’orientamento ed il collocamento lavorativo. Si parla pertanto di WORKFARE (dal welfare al workfare), ossia uno stato sociale che tende ad aiutare il soggetto a rimanere attivo e competitivo nel mondo del lavoro, traendo i benefici dalle assicurazioni legate alla propria condizione professionale piuttosto che dipendere dall’assistenza.

5.

L’eredità raccolta dal Jobs Act Nell’ultimo ventennio, le riforme delle politiche del lavoro hanno visto contrapposte due visioni del welfare: una ispirata al modello della flexicurity e alla Strategia Europea per l’Occupazione, l’altra prevalentemente risarcitoria, incentrata soprattutto sull’idea di rimediare alle disuguaglianze ridistribuendo il reddito a favore delle fasce medio/basse della popolazione. La Legge Biagi del 2003, introducendo e regolarizzando nuove tipologie di contratto – nello specifico forme di lavoro atipico – ha aperto la strada della flexibility, apportando delle modifiche significative alla struttura del mercato del lavoro. La Riforma degli ammortizzatori sociali iniziata nel 2007 ha invece dettato alcuni principi che verranno poi ripresi e implementati nel 2012 dalla Riforma Fornero. Inizia un processo di armonizzazione dei trattamenti di disoccupazione che porta alla creazione di uno strumento unico, indirizzato al sostegno al reddito e al reinserimento. Si tratta della ASpI (Assicurazione Sociale per per l’Impiego), una nuova

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assicurazione contro la disoccupazione che mira ad estendere le tutele per i disoccupati ad una platea di persone più ampia rispetto a quella dei beneficiari della vecchia indennità di disoccupazione e della Cassa Integrazione. Questi istituti, infatti, non erano adatti a rapportarsi con le nuove forme di lavoro atipiche introdotte dalla Legge Biagi, lasciando di fatto sguarnita dalle tutele una fetta consistente di lavoratori. Inoltre, la Cassa Integrazione si era rivelata essere uno strumento inappropriato in un sistema di tutele moderno poiché spesso impropriamente utilizzato e, anche secondo il Wall Street Journal, l’ASpI avrebbe progressivamente sostituito «quella cosa», come la definisce con un po’ di disprezzo il giornale americano, «chiamata “cassa integrazione”, una sorta di sussidio per la disoccupazione grazie al quale i lavoratori con contratti a tempo indeterminato ricevono una fetta consistente del loro salario, principalmente dallo Stato, non lavorando e non venendo contati tra i disoccupati». Nel 2012 il dibattito si concentrò anche sulla connessione degli ammortizzatori con le politiche attive (workfare). Sebbene questo sia un principio cardine della flexicurity, le politiche attive rimarranno ancora a lungo il punto debole di un sistema di tutela e reinserimento non del tutto implementato. Il Jobs Act entrerà in scena in un contesto in cui sono ben chiari i limiti delle politiche del lavoro nazionali, ai quali aveva iniziato a rispondere l’ultima riforma del 2012, e che possono essere sintetizzati in due macro-punti: il primo consiste nella palese inadeguatezza dei sistemi di sostegno al reddito e alla disoccupazione, i quali, ancora troppo legati alla Cassa Integrazione, risultano inadatti a dialogare con le nuove realtà contrattuali e a dare un aiuto reale ed esteso alla disoccupazione vera e propria; il secondo riguarda l’emergere del bisogno di disegnare delle politiche attive del lavoro capaci di favorire l’occupazione e la riqualificazione professionale del disoccupato.

Le novità del Jobs Act Tutele per i disoccupati Sul fronte del sostegno alla disoccupazione, il Jobs Act implementa un vero e proprio apparato coerente di sussidi capaci di “parlarsi” tra loro, fornendo una forte alternativa alla Cassa Integrazione. Continuando il lavoro iniziato dalla Riforma Fornero, va nella dire-

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zione di una maggiore universalizzazione dei sussidi, di modo che possa goderne una platea sempre più estesa di persone, rompendo così il dualismo che aveva caratterizzato i precedenti sistemi di tutele, i quali vedevano da un lato i lavoratori con contratti sicuri e dall’altro, molto meno tutelati, i lavoratori giovani e precari. Le principali novità vedono l’introduzione di nuovi instituti come la NASpI, l’ASDI e la DIS-COLL.

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La NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per per l’Impiego) si pone in continuità con l’ASpI riprendendone il modello e potenziandone i benefici. L’accesso al sussidio è facilitato poiché necessita di un minor numero di settimane contributive. La maggiore accessibilità è controbilanciata da una durata della prestazione che non è più fissa, ma proporzionale al periodo di contribuzione. La maggiore generosità, oltre che nella durata, è dovuta all’aumento dei massimali e ad una minore riduzione, nel tempo, dell’importo ricevuto. La prestazione diventa così maggiormente universale, in quanto estende la platea di destinatari. Danneggia tuttavia i lavoratori precari e stagionali per due motivi: (i) la durata della prestazione non è più fissa ma proporzionale al periodo di contribuzione, e (ii) nel calcolo della durata non si tiene conto dei periodi per i quali si è già beneficiato di una prestazione. Un’analisi de lavoce.info ha stimato i risultati della Nuova ASpI, andando a evidenziare come le nuove modalità per calcolare l’ammontare del sussidio favoriscano i giovani a scapito dei lavoratori più anziani mentre, mediamente, la maggior parte dei beneficiari vede allungarsi la durata del sussidio. La percentuale di coloro che avrebbero una riduzione della durata del sussidio cresce infatti al crescere del numero degli episodi di disoccupazione osservati nei quattro anni precedenti l’ultima cessazione. L’ASDI è il nuovo assegno sociale contro la disoccupazione introdotto dal Jobs Act. Di natura assistenziale, spetta ai lavoratori che hanno esaurito l’intera durata della NASpI e che si trovino ancora in stato di disoccupazione, a condizione che versino in condizioni economiche di bisogno attestate da un Isee pari o inferiore a 5mila euro. Il sostegno, inoltre, viene concesso solo ai lavoratori con nuclei familiari in cui siano presenti minorenni oppure ai lavoratori che abbiano almeno 55 anni e che non abbiano raggiunto il diritto alla pensione di vecchiaia o alla pensione anticipata. L’incidenza di questo ammortizzatore sociale è ridotta, dal momento che il massimale è pari a €448 al mese (suscettibile di maggiorazioni fino a €611,36). L’ASDI non ha la stessa importanza della vecchia indennità di disoccupazione, facendo ipotizzare una volontà politica di spostarsi da un sistema prevalentemente assistenziale ad uno più assicurativo.

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La DIS-COLL è un ammortizzatore sociale inserito in via sperimentale nel 2015 e pensato per quei lavoratori assunti con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, che, di norma, non potrebbero accedere all’indennità di disoccupazione. La misura è stata prorogata per il 2017, in vista della definizione di una nuova norma strutturale nella legge delega sul lavoro autonomo non imprenditoriale all’esame della Camera. Il lavoro autonomo e le varie forme di collaborazione rimangono in parte una realtà contorta e al momento ancora priva di un sistema stabile di tutele.

Lavoratori sospesi Un merito importante del Jobs Act, sempre sulla scia della Riforma Fornero, risiede nell’art. 1 della legge n. 183/2015, in cui si distinguono e separano gli «strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro» dagli «strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria», sottolineando l’inammissibilità della confusione tra Cassa Integrazione e disoccupazione. Il Jobs Act ha riordinato la normativa in materia di Cassa Integrazione apportando delle modifiche sostanziali. La novità più grande risiede nelle modifiche ai limiti di tempo. Adesso, la «durata massima complessiva» è fissata a 24 mesi in un quinquennio “mobile”, a differenza di un massimo di 36 mesi in un quinquennio “fisso”. Con il vecchio sistema del quinquennio fisso il limite del triennio poteva essere facilmente bypassato, sfruttandone uno alla fine di un quinquennio e un altro all’inizio del successivo, offrendo la possibilità di una Cassa integrazione continuativa per 6 anni. Le nuove norme in materia di Fondi di Solidarietà pongono le basi per un sistema dualistico, pubblico (Cassa Integrazione) per attività ad alto rischio, e privato per le attività a rischio minore, che mantiene anche in questa distinzione un tratto di universalità, poiché i Fondi di Solidarietà sono diventati obbligatori per tutte le imprese con più di cinque dipendenti.

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Politiche attive Il tentativo del Jobs Act è di disegnare e avviare delle politiche attive del lavoro idonee a dare coerenza a tutto un sistema che miri al reinserimento del disoccupato. Nella Riforma, le politiche attive mirano a favorire l’effettiva ricollocazione del lavoratore, tramite percorsi personalizzati e utili all’acquisizione di nuove competenze. Il punto di partenza è lo strumento della condizionalità, che sancisce il passaggio da un sistema meramente assistenzialistico ad un insieme coerente di politiche che iniziano con l’assistenza e terminano con il reinserimento. Gli strumenti di condizionalità sono stati introdotti a tutti gli effetti con la NASpI 2017, che obbliga i beneficiari alla regolare partecipazione alle politiche attive proposte dai Servizi per l’Impiego. I Centri per l’Impiego sigleranno con l’utente un Patto di Servizio Personalizzato che indicherà le azioni mirate per favorire l’inserimento o il reinserimento nel mondo del lavoro. Prevede la cosiddetta “presa in carico” dell’utente da parte del Centro per l’Impiego, individuando le azioni che quest’ultimo si impegna a proporre all’utente, e al contempo vincolando il beneficiario a parteciparvi, pena la perdita dello status di disoccupazione. È un approccio tipico di un modello welfare-to-work, che cerca di legare l’erogazione di una politica passiva (sussidio), al concorso attivo dell’utente disoccupato nella ricerca del lavoro. La riqualificazione del disoccupato verrà favorita dal nuovo Assegno di Ricollocazione. Il buono è di un valore compreso fra i mille ed i cinquemila euro. I soggetti con almeno 4 mesi di Naspi alle spalle lo riceveranno e potranno spenderlo presso uffici dell’impiego e agenzie private. L’assegno è entrato in vigore in forma sperimentale a favore di 30.000 beneficiari, per valutarne l’efficacia e l’impatto sul sistema informativo. Il Jobs Act ha poi istituito la nuova Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro​​che, come molte delle novità introdotte, non ha ancora acquisito un’identità. Il ruolo dell’ente dovrebbe consistere nel coordinare la nuova rete pubblico-privata di centri per l’impiego.

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Nonostante i primi segnali concreti relativi alle politiche attive siano relativamente recenti, qualcosa si è mosso e ci sono già delle esperienze positive a cui fare riferimento, come la rete pubblico-privata dei servizi per l’impiego attivi in Veneto, che sta sperimentando con buoni risultati le novità del Jobs Act e si candida a essere esperienza di riferimento per l’Anpal.

Considerazioni conclusive Riguardo le politiche passive la direzione è positiva, andando verso una maggiore universalizzazione dei sussidi fondati su uno schema assicurativo. È stata rivista la normativa della Cassa Integrazione, riordinandola in un Testo Unico e distinguendo gli «strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro» dagli «strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria», evitando usi impropri della CIG e restituendo importanza ai Fondi di Solidarietà. Dal lato delle politiche attive, il tentativo di riforma segue il modello europeo della flexicurity. L’attuazione delle disposizioni previste non è stata fino ad ora facile ed immediata, pertanto risulta forse prematuro trarre delle conclusioni. Certamente occorre sviluppare un apparato efficiente di politiche attive per evitare che il sistema delle politiche del lavoro si riduca ad una macchina burocratica fondata sul mero assistenzialismo. In questo frangente occorre prendere atto che i numeri disponibili non sono promettenti, in quanto ad oggi solo il 3% degli occupati trova lavoro grazie ai Centri per l’Impiego. In questi ultimi mesi si è tornati a parlare di politiche di sostegno al reddito con l’approvazione da parte di Camera e Senato del disegno di legge delega per il contrasto della povertà che introduce il reddito di inclusione (REI). È un passo importante nella lotta alla povertà, ma identifica anche chiaramente una linea politica che mira ad una maggiore universalizzazione dei sussidi secondo una dinamica assistenziale che va oltre lo schema assicurativo. Un provvedimento del genere esigerebbe in misura ancora maggiore l’implementazione di una rete di Centri per l’Impiego capace di creare un ponte stabile tra assistenza e reinserimento.

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Fonti “La Cassa Integrazione dopo il Jobs Act”, Michele Miscione, Dottrina Lavoro “Origine ed evoluzione delle politiche del lavoro in Italia”, Angelo Marchioro, Quaderno di Lavoro “Per il nuovo paracadute decisive le agenzie private”, Agnese Morriconi, Bollettino ADAPT Decreto legislativo 4 marzo 2015 n.22 Decreto legislativo 14 settembre 2015 n.150 Decreto legislativo 14 settembre 2015 n.148 INPS, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, portale “Jobs Act, l’Italia cambia il lavoro” “Vincitori e vinti con la Naspi”, lavoce.info, 2015

LE POLITICHE DEL LAVORO DOPO IL JOBS ACT

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intervista MAURIZIO FERRERA Maurizio Ferrera è Professore ordinario di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi scientifici riguardano politica comparata e analisi delle politiche pubbliche, con particolare riferimento alle problematiche dello stato sociale e dell’integrazione europea. Negli anni ho preso parte a varie Commissioni di indagine e gruppi di lavoro del governo italiano, dell’Unione europea, dell’OCSE e dell’ILO. Attualmente è Presidente del Network for the Advancement of Social and Political Studies (NASP) fra gli atenei lombardi e piemontesi, membro del Comitato Direttivo del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino ed editorialista presso il “Corriere della Sera”. Nel 2013 ha vinto un ERC Advanced Grant di cinque anni per un progetto di ricerca dal titolo “Reconciling Economic and Social Europe”.

di Umberto Rogna Maggi

Università Degli Studi di Torino


Professore, sono passati due anni l’approvazione del Jobs Act, uno dei più importanti interventi nel mercato del lavoro italiano degli ultimi anni. Come valuta la riforma? Nel valutare l’effetto di una riforma come il Jobs Act occorre da una parte definire quale era l’esito atteso e dell’altra tener conto che interventi legislativi di questo tipo sono solo una delle cause che incidono sugli outcome considerati: bisogna quindi considerare fattori congiunturali e demografici, per non incorrere nell’errore di attribuire alla riforma risultati che sono frutto di altri processi. Ad oggi, comunque, non esistono valutazioni definitive e i dati che abbiamo non ci consentono di catturare tutti gli effetti. Per quanto riguarda gli obiettivi della riforma, il Jobs Act voleva essere una sorta di via italiana alla flexsecurity: da un lato il superamento il dualismo del nostro mercato del lavoro (imprese con meno di 15 dipendenti ed imprese con più di 15 dipendenti; imprese fortemente sindacalizzate e meno sindacalizzate), con la restituzione alle imprese della giusta flessibilità per competere nell’attuale contesto europeo e mondiale. Dall’altro, l’intervento a favore della platea di lavoratori “intrappolati” nei contratti a termine co.co.co. e co.co.pro., offrendo loro un’opportunità di occupazione più stabile, con il contratto unico a tutele crescenti. Si è voluto perciò incentivare la stabilità dell’impiego e la propensione delle imprese ad investire nei propri dipendenti. L’obiettivo della stabilizzazione si può considerare raggiunto: osservando i dati attuali vediamo infatti che è aumentata in maniera significativa la quota di contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti tra i nuovi contratti. Si è verificato inoltre un aumento dei posti di lavoro e ci sono dati che lo confermano, tuttavia su questo argomento è ancora presto per dare valutazioni definitive.

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Restando sulla quantità dei posti di lavoro, una critica che spesso viene fatta al Jobs Act riguarda le decontribuzioni: si sostiene da più parti che l’aumento di posti di lavoro sia stato relativamente basso se confrontato con la quantità di risorse impegnate. A questo scarso risultato in termini occupazionali si aggiunge la critica di aver complessivamente ridotto lo spazio dei diritti dei lavoratori. Lei che opinioni ha a riguardo? La decontribuzione, aspramente criticata, è stato semplicemente un modo per tentare di allineare il costo non salariale del lavoro agli standard degli altri paesi europei. L’Italia ha infatti un costo non salariale del lavoro molto elevato per via degli oneri previdenziali e questo rende le nostre imprese molto meno competitive rispetto alla concorrenza in altri Paesi. Non è stato dunque uno spreco di risorse, quanto piuttosto un tentativo di verificare se la diminuzione di questo handicap potesse incentivare le imprese ad assumere. Il fatto che effettivamente le imprese abbiano aumentato le assunzioni in seguito a questa misura (cosa riconosciuta anche dai detrattori) dimostra che l’intuizione era corretta. Vorrei poi ricordare che chi critica la decontribuzione omette spesso di dire che con le salvaguardie pensionistiche si è speso molto di più, con la differenza che mentre la decontribuzione dura solo tre anni, le salvaguardie durano a vita. Inoltre non sempre sono state concesse ad “esodati”, ma anche a persone ancora impiegate. Per quanto riguarda la seconda critica andrebbe ricordato che una parte integrante del Jobs Act è stata la riforma degli ammortizzatori sociali: la creazione della NASPI ha portato a due conquiste storiche. La prima riguarda l’innalzamento della durata della tutela economica di disoccupazione; la seconda riguarda invece la percentuale di lavoratori che hanno diritto all’indennità di disoccupazione: oggi questa è infatti superiore al novanta per cento – prima della riforma era diverse decine di punti inferiore. Il Jobs Act ha quindi universalizzato il diritto alla tutela economica di disoccupazione, accrescendo, non riducendo, i diritti. La certezza di avere in caso di disoccupazione un sussidio consistente e durevole è molto più importante della presenza dell’articolo diciotto per una platea ristretta di lavoratori.

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Lei, insieme ad altri esperti, è stato tra i primi in Italia ad accendere un faro sulle misure di welfare alternative a quelle fornite dallo Stato. A queste ha dato il nome di “secondo welfare”. Ci spiega di cosa si tratta e quali sono i numeri di questo fenomeno? Vorrei anzitutto fare una precisazione: il secondo welfare non deve essere considerato alternativo, bensì aggiuntivo. Non è infatti un sistema che ha l’obiettivo di sostituire il welfare statale: pensare questo sarebbe un errore. È tuttavia chiaro che il cosiddetto primo welfare sia in parte da razionalizzare sul piano dell’equità, come già si sta facendo – basti pensare alle pensioni di reversibilità senza soglia di reddito o alle pensioni d’invalidità. In altri ambiti, invece, il primo welfare è da ricalibrare: penso al rafforzamento delle tutele verso rischi come la maternità, l’erosione del capitale umano o la non autosufficienza. Il primo welfare, benché imprescindibile, si scontra con dei limiti di spesa, e in Italia quest’ultima è circa il 30% del PIL, in linea con la media europea. Pensare di spendere di più incontra delle limitazioni nella pressione fiscale, già elevata, e nell’enorme debito pubblico. Accanto, dunque, al primo welfare è possibile immaginare un secondo welfare, finanziato da risorse non pubbliche, come ad esempio le assicurazioni private e le Fondazioni. Sono poi possibili connubi tra pubblico e privato, forme miste di welfare. Penso ad esempio all’ultima legge di stabilità, in cui le fondazioni di origine bancaria hanno stanziato alcune risorse in aggiunta a quelle statali con il fine di combattere la povertà educativa. Sono quindi possibili nuovi tipi di interventi di attori pubblici e privati, con risultati molto positivi. Il secondo welfare opera sostanzialmente in un’ottica di ottimo paretiano: le risorse che impiega non diminuiscono il benessere di nessuno. Non per questo è privo di problemi: ad esempio sarà più facile reperire risorse per il secondo welfare al nord piuttosto che al sud, e questo potrebbe accentuare diseguagliane già presenti.

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Un aspetto critico del secondo welfare è che esso riguarda soprattutto le grandi imprese, le uniche con i mezzi necessari per fornire servizi aggiuntivi ai propri dipendenti. In un Paese come il nostro, caratterizzato da piccole e piccolissime imprese e alti tassi di disoccupazione, queste misure creano quindi importanti distorsioni, andando ad aggiungere tutele a chi già le ha. Come è possibile intervenire su questa situazione? Intervenire è possibile, però complesso. Richiede infatti che le piccole imprese si uniscano in reti, ma ciò non è facile, dati i dilemmi dell’azione collettiva: nessuno prende l’iniziativa poiché nessun singolo ha intenzione di affrontare i costi necessari. Occorre dunque l’intervento di un attore più grande, come un Comune, una Regione, una fondazione oppure anche un’impresa di grandi dimensioni, che metta a disposizione il suo know-how al fine di favorire la nascita di queste reti. Ad esempio, un asilo aziendale, ottenuto da un locale pubblico inutilizzato, potrebbe venir restaurato dalla grande impresa e vi potrebbero accedere, dietro il pagamento di un piccolo contributo, i figli dei dipendenti delle piccole imprese legate all’indotto di quella più grande. Esperienze di questo genere vengono già messe in atto con successo. Penso ad esempio all’iniziativa della Luxottica ad Agordo, dove ha creato un ambulatorio dentistico a tariffe calmierate per i propri dipendenti, a cui poi si è aggiunta la convenzione con il Comune, che ha portato all’estensione del servizio per tutti i cittadini. Un altro sviluppo interessante è quello dei fondi sanitari mutualistici: possono essere costituite società non a scopo di lucro che colmino le lacune del sistema sanitario nazionale. Un ultimo esempio è il rimborso dei ticket sanitari da parte di assicurazioni private, un sistema virtuoso già applicato in Paesi come la Francia e che l’Italia potrebbe adottare con successo.

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L’Italia è un Paese caratterizzato da una natalità molto bassa e di conseguenza da un forte calo demografico. Quali politiche dovrebbero essere messe in atto per invertire questa tendenza? Dev’essere il primo welfare ad occuparsene? Il calo demografico è dovuto principalmente al costo dei figli: spesso la madre è costretta a smettere di lavorare, poiché la retribuzione non compenserebbe le spese da sostenere, come ad esempio la retta di un asilo nido. L’assenza di trasferimenti monetari e di servizi gratuiti, o comunque calmierati, costituisce un forte freno alla natalità, oltre a penalizzare fortemente il lavoro femminile e a mantenere molto basso il numero di famiglie a doppio reddito, che in Italia è circa la metà dei Paesi dell’Europa del Nord. Questa situazione è certamente negativa per le aspirazioni dei giovani: i sondaggi ci dicono infatti che le giovani coppie italiane vorrebbero avere in media due figli. Tuttavia, rappresenta anche un grave problema per il Paese, poiché per mantenere costante una popolazione serve una media di 2,1/2,2 figli per coppia. In caso contrario si verificano scompensi tra i nuovi nati e gli anziani, con una conseguente diminuzione demografica. Occorrono quindi politiche di trasferimento monetario che diminuiscano fino quasi ad azzerare il costo dei figli, come avviene ad esempio in altri Paesi del Nord Europa. Questi sono compiti che spettano senz’altro al primo welfare, ma come sappiamo esiste un problema di fondi. L’Italia già spende per questo aspetto quanto gli altri Paesi europei, dunque per reperire risorse aggiuntive occorrerebbe sottrarle da altri settori. Questo ci porta al problema dell’impiego delle risorse pubbliche, che vengono troppo spesso impiegate per la spesa pensionistica. Sarebbe certamente più utile per il Paese utilizzare la spesa pubblica diversamente, in maniera da rendere il sistema-Paese più efficiente.

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Introduzione Il Jobs Act ha introdotto una serie di riforme a proposito delle misure per la conciliazione delle esigenze di cura, vita e di lavoro contenute nel D.Lgs 80/2015. Le principali modifiche apportate in materia sono: da un lato la maggiore flessibilità concessa ai lavoratori nella gestione dell’orario lavorativo durante i primi anni di vita dei figli, ottenuta attraverso l’introduzione della possibilità di richiedere il congedo parentale ad ore e l’estensione del diritto ad usufruire del congedo parentale fino ai dodici anni del figlio (contro gli otto della precedente normativa); dall’altro, l’estensione della durata di fruizione dell’indennità per congedo parentale, pari al 30% della retribuzione, che è passata da tre a ben sei anni dall’ingresso del minore in famiglia. Aggiungeremo, tuttavia, delle riflessioni e dei suggerimenti di policy, in particolare in merito al congedo di paternità. La nostra analisi si svolgerà su di un piano prettamente qualitativo. Tale scelta è stata mossa dalla carenza di dati aggiornati in materia e dalla nostra convinzione che la riforma non sia ancora stata completamente interiorizzata nei processi decisionali legati alla sfera familiare. La ragionevole assunzione che facciamo in questa sede è, dunque, che un effetto più chiaro e nitido della riforma qui trattata, si potrà osservare dai dati del biennio 2016-2017, ovviamente non disponibili in questo momento. Tuttavia, ciò non ci frena da ipotizzare un impatto teorico che queste modifiche alla normativa avranno sul mercato del lavoro italiano. Un’altra premessa dovuta è una specificazione lessicale che sarà importante tener presente nella trattazione del tema. Si distinguerà il congedo di maternità, che è sostanzialmente una misura di salute e benessere della donna, e il congedo di paternità, dai congedi parentali. La differenza è sostanziale, nelle tempistiche e nelle retribuzioni, oltreché nelle finalità. Per una definizione più precisa, l’articolo 2 della legge 30 Dicembre 1971 riporta: • per congedo di maternità si intende l’astensione obbligatoria dal lavoro della lavoratrice; • per congedo di paternità si intende l’astensione dal lavoro del lavoratore, fruito in alternativa al congedo di maternità; • per congedo parentale si intende l’astensione facoltativa della lavoratrice o del lavoratore.

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Di seguito, l’articolo si struttura nel seguente modo: un primo paragrafo puramente descrittivo introduce la disciplina in merito ai congedi legati alla conciliazione lavoro-famiglia; vi è poi un paragrafo dedicato all’impatto economico dei congedi; una parte dedicata ai diritti del padre lavoratore; infine, alcune considerazioni conclusive.

Quadro generale sulla normativa corrente Prima di entrare nello specifico ci sembra opportuno tentare di fornire una breve ed esaustiva descrizione della situazione attuale in materia di congedi, viste le numerose leggi che negli ultimi anni sono andate a toccare questi argomenti. Ricollegandosi alla distinzione riportata dalla legge 30 Dicembre 1971, si possono identificare tre istituti giuridici: Congedo di Maternità Il congedo di maternità è il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro riconosciuto alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e puerperio. Durante il periodo di assenza obbligatoria dal lavoro la lavoratrice percepisce un’indennità economica in sostituzione della retribuzione. Il diritto al congedo ed alla relativa indennità spettano anche in caso di adozione o affidamento di minori. Comprende due mesi prima della data presunta di parto e i tre successivi la data di parto effettiva. Durante i periodi di congedo di maternità la lavoratrice ha diritto a percepire un’indennità economica pari all’80% della retribuzione giornaliera calcolata sulla base dell’ultimo periodo di paga precedente l’inizio del congedo di maternità e dunque, di regola, sulla base dell’ultimo mese di lavoro precedente il mese di inizio del congedo. 2. Congedo Obbligatorio di Paternità (I) In presenza di determinate condizioni che impediscono alla madre di beneficiare del congedo di maternità, il diritto all’astensione dal lavoro ed alla relativa indennità spettano al padre (congedo di paternità). Tali condizioni sono: morte o grave infermità della madre; abbandono del figlio da parte della madre; affidamento esclusivo

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del figlio al padre. La durata e la retribuzione sono del tutto identiche a quelle riportate sopra per il congedo di maternità. 3. Congedo Obbligatorio di Paternità (II) La legge 28 giugno 2012, n.92 ha introdotto in via sperimentale, per il triennio 2013-2015, le misure a sostegno della genitorialità, prorogate anche per l’anno 2016 dalla legge 208/2015 (legge di stabilità per il 2016) e di seguito riportate: Il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di due giorni, fruibili anche disgiuntamente. Tale diritto spetta solo per le nascite, le adozioni e gli affidamenti avvenuti nell’anno 2016. Per gli eventi avvenuti prima di tale anno, sussiste l’obbligo di astensione soltanto per un giorno. Il diritto del padre lavoratore si configura come un diritto autonomo rispetto a quello della madre e può essere fruito dallo stesso anche durante il periodo di astensione obbligatoria post partum della madre. Per la fruizione dello stesso, al padre è riconosciuta un’indennità pari al 100 per cento della retribuzione. Per l’anno 2018 è previsto che il numero di giorni obbligatori passi da due a quattro. Inoltre, in una nota in calce del Documento di Economia e Finanza (DEF), reso pubblico dal Ministero dell’Economia e delle Finanze questo 12 Aprile 2017, si fa cenno a come i giorni di congedo obbligatorio del padre siano “elevabili a 5 in sostituzione della madre in relazione al periodo di astensione obbligatoria ad essa spettante”. 4. Congedo Facoltativo (Non prorogato dal DEF 2017, quindi non più in vigore) La fruizione, da parte del padre lavoratore dipendente anche adottivo e affidatario, del congedo facoltativo, di uno o due giorni, anche continuativi, è condizionata alla scelta della madre lavoratrice di non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di maternità, con conseguente anticipazione del termine finale del congedo post partum della madre per un numero di giorni pari al numero di giorni fruiti dal padre. Questo congedo facoltativo è fruibile dal padre anche contemporaneamente all’astensione della madre. Si precisa che il congedo facoltativo dovrà essere fruito dal padre comunque entro il quinto mese dalla data di nascita del fi-

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glio indipendentemente dal termine ultimo del periodo di astensione obbligatoria spettante alla madre a fronte di una preventiva rinuncia della stessa di un equivalente periodo (uno o due giorni). Si precisa che il congedo facoltativo spetta anche se la madre, pur avendone diritto, non si avvale del congedo di maternità. Il padre lavoratore dipendente ha diritto, per i giorni di congedo facoltativo, ad un’indennità giornaliera, a carico dell’INPS, pari al 100 per cento della retribuzione. 5. Congedo Parentale Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro. I relativi congedi parentali dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi. La madre lavoratrice, trascorso il periodo previsto dal congedo di maternità, ha diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non superiore ai sei mesi. Il padre lavoratore, dalla nascita del bambino, ha il diritto di astenersi per un periodo continuativo o frazionato non superiore ai sei mesi (eventualmente estendibile a sette). Per i periodi di congedo parentale possono usufruire dell’indennità per congedo parentale: entro i primi 6 anni di età del bambino per un periodo massimo complessivo (madre e/o padre) di 6 mesi con un importo pari al 30% della retribuzione media giornaliera calcolata considerando la retribuzione del mese precedente l’inizio del periodo indennizzabile; dai 6 anni e un giorno agli 8 anni di età del bambino, nel caso in cui i genitori non ne abbiano fruito nei primi 6 anni, o per la parte non fruita anche eccedente il periodo massimo complessivo di 6 mesi, il congedo verrà retribuito al 30% solo se il reddito individuale del genitore richiedente risulti inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo di pensione; dagli 8 anni e un giorno ai 12 anni di età del bambino il congedo non è mai indennizzato.

Il confronto con gli altri Paesi Tutti i Paesi OECD, fatta eccezione per gli Stati Uniti, prevedono il congedo di maternità retribuito. Oltre metà di questi offre anche il congedo di paternità retribuito. I congedi parentali, utilizzabili sia dai padri, sia dalle madri, sono previsti in 23 Paesi OECD, ma sono ancora pochi i padri che sfruttano tale servizio. Canada e Israele non prevedono congedi per il padre. Tra gli stati che appartengono all’OECD, diversi disegnano un quadro completo della conciliazione lavoro-famiglia, offrendo sia congedi di ma-

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ternità, sia di paternità, sia parentali specifici per i padri: sono il Belgio, la Finlandia, la Francia, la Corea, il Lussemburgo, il Portogallo e la Svezia. La Norvegia, in particolare, è stato il primo Paese a istituire congedi di paternità, nel 1993. Oggi, addirittura il 97% dei padri ne usufruisce. È uno dei sistemi più flessibili e generosi, con 35 settimane di congedo di maternità retribuito al 100% o 45 settimane retribuite all’80%, e fino a 10 settimane di congedo di paternità, a cui si aggiungono 46 settimane da spartire tra i due genitori al 100% o 56 all’80%.

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Impatto dei congedi parentali Studiare i congedi parentali ha una doppia rilevanza. Da una parte, perché hanno un impatto sulla partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e sulla loro occupabilità. Dall’altra, perché la durata e la qualità del tempo trascorso dai genitori con i figli hanno un effetto sullo sviluppo dei bambini, sulla loro salute, sulle loro abilità cognitive e sui loro comportamenti (Pronzato, 2009). Alcuni studi (Del Boca, Pasqua e Pronzato, 2009; Del Boca, 2015) hanno dimostrato come la lunghezza dei congedi parentali abbia un effetto positivo sulla partecipazione al mercato del lavoro, in particolare nel caso delle donne, facilitando la prosecuzione della loro storia lavorativa. Tuttavia, gli effetti dei congedi non sono lineari. Il prolungamento eccessivo del congedo può avere un effetto opposto, fino a far uscire il genitore (anche qui, in particolare la donna) dal mercato del lavoro, o a diminuire in modo significativo il salario (Ruhm, 1998). Il periodo trascorso al di fuori del mercato del lavoro può, infatti, minare alle competenze del genitore, rendendole obsolete, e può rappresentare una barriera nello sviluppo di una carriera lavorativa. Nei Paesi del Sud Europa, inclusa l’Italia, non soltanto una larga fetta delle donne abbandona il proprio posto di lavoro durante i primi anni di vita dei figli, ma soprattutto, molto spesso, non ritorna sul mercato. Le donne più facilitate a re-inserirsi tra gli occupati sono quelle che lavorano nel settore pubblico, in grosse aziende o in zone dove ci sono più servizi alla cura del bambino, come gli asili nido (Bratti, Del Bono e Vuri, 2005). I congedi parentali hanno un comprovato effetto positivo sulla salute dei bambini, in particolare sul peso alla nascita e sull’immunizzazione (Tanaka, 2005), che passa anche attraverso la maggior possibilità per le donne di allattare il proprio bambino. Al contempo, per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo del bambino, Baum ha dimostrato un effetto negativo del lavoro delle madri nel primo anno di vita (Baum, 2003), e specularmente Ermisch e Francesconi hanno mostrato l’importanza della presenza dei genitori (Ermisch e Francesconi, 2002).

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Diritti (e doveri) del padre lavoratore Dopo aver analizzato gli impatti dei congedi in senso lato, ci sembra doveroso concentrarci sui diritti del padre lavoratore, scegliendo come piano di analisi primario quello della equiparazione dei diritti tra padre e madre lavoratori. Ad oggi, il padre lavoratore, fatte salve le condizioni eccezionali di cui si è parlato sopra, può godere di due giorni di congedo obbligatorio più ulteriori due facoltativi. Come si è già accennato sopra, tutte le, seppur minimali, modifiche apportate a questo istituto sono dovute a riforme diverse da quella che qui è oggetto di analisi. Il Jobs Act sembra dunque non andare incontro alla richiesta di una maggior partecipazione dei padri nella cura dei figli e la promulgazione di una legislazione che sia gender neutral, al fine di dare ai genitori che lavorano specifici diritti in materia di congedi parentali (Raccomandazione 92/241/CEE), né tantomeno ha iniziato o stimolato un percorso di convergenza in questa direzione. Tutte le modifiche apportate in materia di congedi parentali sono avvenute parallelamente per quanto concerne uomini e donne, mantenendo così il divario tra i due sessi pressoché inalterato. Passando all’aspetto puramente economico, in Italia il diritto alla paternità è storicamente poco esercitato. I congedi di paternità sono un fattore centrale nella cultura della condivisione della cura dei figli, favorendo un uso più omogeneo del tempo da dedicare ai nuovi nati all’interno della famiglia. I primi passi in questa direzione, di comune accordo con quanto richiesto dalla Raccomandazione 92/241/CEE, si sono visti con l’approvazione della legge di bilancio 2017 con la proroga nel biennio 2017-2018 delle misure introdotte nel 2013. Nel 2017 il padre lavoratore avrà diritto a due giorni di congedo, che saliranno a quattro nel 2018 (Legge di Bilancio 2017, Art.48 Comma 2)*. Questo piccolo incremento, tuttavia, ci mantiene ancora lontani da quella che è la media OCSE.

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Si sottolinea come questi quattro giorni obbligatori sono gli stessi a cui si fa riferimento nel DEF 2017, quindi, contrariamente ai due facoltativi, questi non sono stati cancellati.

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Viene da chiedersi dunque se è davvero auspicabile sperare in congedi di paternità più lunghi, come avviene nella maggioranza degli altri Paesi. Una prima giustificazione che si può portare è l’accumulazione di capitale umano dei figli: maggiore il tempo che i genitori dedicano ai figli, maggiore l’impatto sul loro capitale umano. Recenti dati Ocse mostrano come, in Italia, i padri italiani di età compresa tra i 25 e i 44 anni dedicano in media due ore in meno alle attività di cura dei bambini rispetto alle donne. Alcune ricerche sullo sviluppo del capitale umano (Heckman 2007) hanno dimostrato come gli investimenti in capitale umano siano essenziali nei primi anni di vita del bambino, in quanto ciò aiuta profondamente il loro sviluppo negli anni a venire. Considerando la normativa attuale, due giorni obbligatori (più due facoltativi), completamente retribuiti, non sono certo sufficienti a riorganizzare gli equilibri all’interno delle famiglie italiane e a favorire l’instaurazione di rapporti padre-figlio più solidi. Secondo Del Boca, il congedo parentale ottimo deve avere tre caratteristiche: individualità, non trasferibilità e buona retribuzione. È chiaro come la normativa in vigore, la “2+2”, non possa soddisfare tali caratteristiche. Sebbene dieci settimane di stipendio riconosciuto interamente, come accade in Norvegia, rappresentino uno scenario lunare, non si può sperare di ottenere risultati significativi con due soli giorni di congedo obbligatorio. In più, appare logico perché le percentuali di padri che beneficiano volontariamente del congedo di paternità siano ancora molto basse (12%), seppur in lieve crescita (dati INPS, aggiornati al 2014). Oltre alla poca incisività della formula due giorni obbligatori più due facoltativi, può esserci anche un’altra spiegazione per queste percentuali così basse. Considerato che in media i padri di famiglia guadagnano più delle madri (Oaxaca 1973), appare chiaro come la scelta su chi debba congedarsi dal proprio posto di lavoro, durante i primi anni di crescita del bambino, tenda a ricadere più frequentemente sulla donna, il cui costo opportunità è più basso se comparato con quello del compagno. Secondo Bygren e Duvander, il fatto che i padri limitino il proprio utilizzo del congedo di paternità può essere imputato ai costi, non necessariamente monetari, che possono essere dovuti all’allontanamento dal posto di lavoro (Bygren e Duvander 2006). Inoltre Berggren e Duvander dimostrano come spesso siano le donne a prendere la decisione finale su come il congedo parentale vada ripartito tra i coniugi (Berggren e Duvander 2003). Ciò, unito alle differenze di genere che si hanno nel mercato del lavoro, porta alla conclusione che, rispetto agli uomini, le donne hanno meno da perdere nel pren-

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dersi un lungo periodo di congedo (Albrecht, Edin, Sundström and Vroman 1999). La conclusione a cui si giunge dunque è che, per avere effetti significativi in termini di crescita del capitale umano dei bambini, si dovrebbe garantire ai padri lavoratori un lasso di tempo maggiore in cui viene riconosciuta una compensazione dello stipendio, almeno pari al costo opportunità. Inoltre, omogeneizzare il numero di giorni di congedo richiesti da entrambi i partner può andare ad evitare cali di produttività dovuti al prolungato assenteismo dal posto di lavoro (Lalive and Zweimüller 2009) e a facilitare l’allocazione del tempo tra lavoro e cura dei bambini nelle famiglie italiane.

Altre riforme contenute nel Jobs Act Altro importante risultato del Jobs Act è stata la concessione ai genitori dei bambini dai 0 a 12 anni - anziché 8, come era in precedenza - di fruire del congedo parentale anche su base giornaliera o oraria, possibilità che non era prevista dalla contrattazione collettiva. Una maggiore flessibilità dell’orario lavorativo è un ausilio fondamentale perché i coniugi, in particolare le donne, possano conciliare in maniera più efficiente le responsabilità del lavoro con le esigenze familiari (Commissione Europea, 2015). Tale diritto, infatti, spetta sia alla madre lavoratrice, una volta trascorso il periodo di assenza obbligatorio, sia al padre lavoratore; in entrambi i casi, come già menzionato, il limite massimo, continuativo o frazionato, ammonta a sei mesi. Nel caso specifico del genitore unico, il limite si estende ai dieci mesi. Nonostante il numero di giorni, specialmente per i padri, sia molto basso, l’idea della flessibilità certamente è un passo in avanti nel favorire una gestione del tempo più efficiente delle famiglie italiane. Infine, altro punto fondamentale è quello dell’indennità per congedo parentale. A seguito delle modifiche apportate dai provvedimenti contenuti nel Jobs Act, il periodo di congedo retribuito è stato esteso dai tre ai sei anni dalla nascita del bambino. L’indennità economica continua ad ammontare al 30% della retribuzione. Nel caso in cui il reddito individuale del lavoratore sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, l’indennità economica è riconosciuta fino all’ottavo anno di età del bambino.

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Conclusioni La valorizzazione del ruolo della donna nel mercato del lavoro è un principio fondamentale per l’Unione Europea, dovuto al suo impatto positivo sul benessere economico delle nazioni, sulle condizioni di lavoro, sugli aspetti decisionali della creazione di una famiglia e sulla demografia. Ci sono vari studi sulla perdita economica dovuta al gender gap, ma ci sembra valga la pena di citare il rapporto del Fondo Monetario Internazionale, “Fair Play: More Equal Laws Boost Female Labor Force Participation”, che stima un aumento del 15% del PIL in Italia laddove il divario fosse sanato (FMI, 2015). Il gender gap (misurato come differenza fra i tassi di occupazione), secondo il Rapporto BES del 2016 pubblicato dall’Istat, è tornato ad aumentare a vantaggio degli uomini nonostante si fosse ridotto durante la crisi, con un divario aumentato a 20 punti percentuali, rispetto ai 19 del 2015. La disparità in termini di mancata partecipazione al lavoro rimane forte: le donne che vorrebbero lavorare ma non vi riescono sono il 26%, contro il 19% degli uomini. Gli occupati in part time involontario sono in aumento a prescindere dal sesso, ma nel caso delle donne parliamo di un fenomeno molto accentuato. In particolare, parliamo del 19,4% contro il 6,4%. Concentrandoci maggiormente sul tema della conciliazione tra lavoro e famiglia, si legge, ancora sul rapporto BES, come pur essendosi verificata una riduzione delle differenze fra i tassi di occupazione delle donne con figli in età prescolare e quelle senza figli, la problematica rimane importante soprattutto per le donne con un basso titolo di studio e le donne immigrate. Si riduce anche l’asimmetria del carico domestico sulla coppia, ma il fenomeno è certamente persistente. L’Italia si trova così ad essere sia un Paese con un basso tasso di fertilità (1.4 nel 2015, secondo la Banca Mondiale), sia con un basso tasso di occupazione femminile, in particolare delle madri (tra le più basse in Europa, con il 55% secondo l’OECD). Eppure, al contempo, in Italia non esiste di fatto un gap in termini di istruzione tra uomini e donne.

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I congedi parentali, in questo quadro, rappresentano uno strumento fondamentale, garantendo ad entrambi i genitori la possibilità di trascorrere più tempo con i propri figli, e giocare un ruolo maggiormente attivo nella loro educazione. Il congedo di paternità, in particolare, permette di riequilibrare la distribuzione del carico domestico all’interno della coppia. Un ringraziamento a Daniela Del Boca e Chiara Daniela Pronzato.

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intervista DANIELA DEL BOCA Daniela Del Boca è una delle maggiori esperte in Italia in economia della famiglia. È professoressa ordinaria all’Università degli Studi di Torino, visiting professor alla New York University, direttrice del CHILD al Collegio Carlo Alberto (di cui è fellow), direttrice del dottorato in Economics Vilfredo Pareto, fellow del CEPR e dell’IZA. Daniela Del Boca è stata ascoltata, insieme a Paola Profeta dell’Università Bocconi, dalla Commissione Lavoro Pubblico e Privato della Camera dei Deputati sul tema della conciliazione tra lavoro e famiglia lo scorso aprile 2015, proprio in occasione della riforma del lavoro.

di Ornella Darova

Università Bocconi & IBL

e Filippo Palomba

Università Bocconi & IGIER

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Il punto più delicato del Jobs Act in materia di conciliazione lavoro-famiglia sembra essere il congedo di paternità. Qual è il benchmark che l’Italia dovrebbe porsi, e quali sono i passi da fare in tal senso? Il Jobs Act ha aggiunto un giorno al congedo obbligatorio di paternità. Ovviamente due giorni sono troppo pochi, ma se non altro questo potrebbe essere il segnale che il problema comincia finalmente ad avere una rilevanza all’interno del dibattito politico. Tuttavia, sarà pressoché impossibile avviare una riforma seria in tal senso se non si rivede prima il costo del lavoro, in particolare dovuto al peso fiscale. Evidentemente, è molto costoso retribuire i padri che hanno un certo stipendio al 100%. Sicuramente i Paesi scandinavi, come la Svezia e la Norvegia, offrono esempi virtuosi in tal senso, e devono rappresentare un modello di riferimento. C’è un’importante letteratura che mostra come in alcune carriere, in particolare dove c’è maggiore cultura maschile del lavoro, ci sia una visione retrograda del padre che usufruisce del congedo parentale.

Diversi studi, alcuni condotti da lei in prima persona, mostrano effetti non lineari dei congedi parentali. In particolare, sembra che congedi troppo lunghi possano essere dannosi per l’occupazione femminile. Può spiegarci meglio quali sono le motivazioni e le raccomandazioni di policy che ne conseguono? Innanzitutto, va evidenziato come per il datore di lavoro, pur non dovendo retribuire il lavoratore che va in congedo, è un costo non poco rilevante dover fare a meno del lavoratore stesso. E questo può giocare certamente a sfavore di periodi di congedo troppo lunghi. L’utilizzo intensivo dei congedi di maternità troppo frequentemente porta la donna fuori dal mercato del lavoro in un momento centrale della sua carriera. Una soluzione è la flessibilizzazione degli orari, ad esempio attraverso il part-time. In Svezia si dà flessibilità oraria per i congedi, e l’Italia ha seguito questo esempio con il Jobs Act. E proprio tale flessibilità può diventare preziosa all’interno della coppia, per garantire un equilibrio nella divisione della cura della famiglia tra marito e moglie. E la flessibilità si traduce anche nel poter diluire i congedi nel tempo; anche in questo il Jobs Act ha fatto un passo avanti. Altro merito, l’allargamento del diritto ai lavoratori autonomi.

INTERVISTA A DANIELA DEL BOCA

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Si può stimare l’effetto dei congedi parentali sulla fertilità? Ci sono fortissime problematiche di endogeneità, tali per cui è molto difficile fare una stima rigorosa di questo impatto. In particolare, per quanto riguarda il Jobs Act sarebbe in ogni caso troppo complesso. Sia perché sono trascorsi soltanto due anni, sia perché in Italia non si fanno mai interventi con una cultura della valutazione di policy, tale per cui sia possibile fare analisi pre- e post- intervento in modo rigoroso. Come sta evolvendo la divisione tra marito e moglie del tempo di cura della famiglia in Italia? Sta migliorando. In particolare, sta migliorando fra le coppie più istruite e quelle più giovani. Tuttavia, la situazione è stabile (e assolutamente in disequilibrio, pesando sulle donne), per le famiglie con genitori anziani e nel Meridione. L’Italia è molto indietro in questo campo, specialmente se paragonata al contesto internazionale. I dati OCSE mostrano chiaramente come l’uomo in Italia dedichi al tempo di cura in media oltre tre ore in meno al giorno rispetto alla donna. La media OCSE si attesta su un gap di 2 ore. Negli anni, il tempo totale dedicato alla cura della famiglia è rimasto stabile, ma è dedicato sempre meno al lavoro domestico e sempre più alla cura dei figli; questo è un ottimo segnale, vista l’importanza per lo sviluppo del loro capitale umano.

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Introduzione Con lavoro accessorio si intendono quelle prestazioni lavorative che non sono riconducibili alle tipologie contrattuali tipiche del lavoro subordinato o autonomo, in quanto caratterizzate da occasionarietà della prestazione lavorativa. La regolamentazione del lavoro accessorio, avviata a partire dal 2003, ha da sempre mantenuto tra le sue caratteristiche distintive un limite economico delle prestazioni, ad oggi di 7.000 euro annuo per lavoratore e con un tetto di 2.000 euro per ciascun committente, posta con il fine di identificare un confine tra il lavoro accessorio e quello subordinato. Il pagamento di questa prestazione avviene tramite l’acquisto da parte del committente di un buono lavoro INPS, più comunemente identificato come voucher. Presa coscienza dell’esistenza nella nostra economia di una molteplicità di piccole prestazioni svolte occasionalmente, spesso anche in contesto familiare, il legislatore aveva introdotto e progressivamente liberalizzato questo istituto dotando così i datori di lavoro di uno strumento snello per regolarizzare questo tipo di attività. I voucher vogliono così raggiungere un fine duplice: da un lato quello di tutelare i lavoratori che svolgono tali prestazioni, che rimarrebbero altrimenti sprovvisti della copertura assicurativa e contributiva, dall’altra far emergere il lavoro nero, che ancora oggi rappresenta un enorme problema strutturale della nostra economia, obiettivo quest’ultimo rivelatosi almeno in parte velleitario. Lo strumento, così come appena descritto, rimarrà disponibile per l’utilizzo da parte dei committenti fino alla fine del 2017.

I voucher, dalla Legge Biagi al Jobs Act I voucher, allora definiti carnet di buoni per prestazioni di lavoro accessorio, vennero introdotti nel nostro ordinamento durante il governo Berlusconi III nel contesto della più ampia Legge Biagi, dal Capo secondo del D.lgs 276/2003, che definisce il lavoro accessorio come “attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro”. Una caratteristica introdotta fin da subito risiede nel fatto che l’utilizzo dei voucher non

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determina un cambiamento nello stato occupazionale del prestatore d’opera. Il campo di applicazione risulta inoltre limitato, oltre che dal tetto economico stabilito in euro 3.000, sotto due ulteriori profili: in termini di categorie di soggetti che possono farsi prestatori di lavoro accessorio – le categorie più importanti incluse risultano essere gli studenti, i pensionati, e i disoccupati da oltre un anno – e in termini di tipologia di attività che può essere svolta, con stringenti requisiti di occasionalità. La normativa rimane tuttavia inattuata fino al 2008, quando il governo Prodi, a fine mandato, le dà attuazione con il decreto del 12 marzo del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, avviando la prima sperimentazione dello strumento, inizialmente limitata alle prestazioni lavorative di natura meramente occasionale nell’ambito dell’esecuzione di vendemmie di breve durata. Contemporaneamente, il decreto innalza il limite ai compensi ricevibili da un lavoratore a 5000 euro annui per committente ed elimina il vincolo dei 30 giorni inizialmente previsto dalla Legge Biagi. I soggetti che possono prestare la propria opera rimangono esclusivamente studenti e pensionati. Dopo pochi mesi, con il decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008, vi è una prima parziale liberalizzazione: dapprima vengono infatti rilassati i vincoli oggettivi e soggettivi per le attività agricole svolte in favore di aziende aventi un volume d’affari annuo inferiore a 7.000 euro, e in seguito vengono incluse le attività concernenti il commercio, il turismo e i servizi. I caratteri operativi dei voucher sono quelli che rimarranno, salvo modifiche marginali, immutati fino ad oggi: ogni buono rappresenta un valore nominale di 10 euro, di cui 7,50 euro sono il compenso per il lavoratore, 1,30 euro sono versati come contribuzione, 70 centesimi è il premio a copertura degli infortuni sul lavoro e 50 centesimi pagano il costo di gestione del servizio all’ente concessionario, l’INPS. Nel 2009, due interventi ampliano nuovamente gli ambiti oggettivi e soggettivi previsti, includendo tra l’altro gli enti locali tra i potenziali committenti. Tra i 2010 e il 2012 l’uso dei voucher viene inoltre facilitato grazie all’introduzione di tre nuovi canali di distribuzione: i tabaccai, le Banche Popolari e gli uffici postali, che si vanno ad aggiungere ai due canali inizialmente previsti (la procedura telematica e l’acquisto dei voucher cartacei presso le sedi provinciali INPS).

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Queste prime misure hanno determinato una prima importante fase di crescita dell’utilizzo dei voucher, inquadrabile nel periodo tra il 2009 e il 2012, in cui il fenomeno rimane però ancora in una fase embrionale. Un successivo e importante passo nella direzione della liberalizzazione dello strumento dei voucher si ha con la Legge 28 giugno 2012 n. 92 (la c.d. Riforma del lavoro Fornero). Con la Riforma sono infatti abrogati i vincoli soggettivi ed oggettivi, e viene così ampliata così la platea dei potenziali utilizzatori a tutti i lavoratori e a tutte le tipologie di prestazione di natura occasionale. Come contraltare di questa forte liberalizzazione viene però ristretto il limite economico netto: infatti il tetto di 5.000 euro l’anno non è più da determinare per ogni singolo committente, bensì in relazione alla pluralità dei committenti. Anche l’attuale legislatura, durante il governo Letta, inaugura il capitolo dei voucher all’insegna della liberalizzazione. Con il decreto legge 76/2013 vengono infatti eliminate le parole “di natura meramente occasionale”: le prestazioni di lavoro accessorio risultano quindi definite solamente dal rispetto dei limiti economici, e non anche dal loro carattere occasionale e saltuario. Sarà proprio questa mancanza “di qualsiasi riferimento alla occasionalità della prestazione lavorativa quale requisito strutturale dell’istituto” a determinare l’accoglimento, nell’11 gennaio del 2017, del quesito referendario riguardante l’abolizione dei voucher. Queste misure di liberalizzazione hanno dato il via alla fase di crescita più marcata nell’utilizzo dei voucher, inquadrabile tra il 2012 e la prima metà del 2016. Il Governo Renzi, nell’ambito della più estesa riforma del Jobs Act, interviene sul tema dei voucher con tre novità: la prima è l’estensione del massimale annuo pagabile a voucher a 7.000 euro, pur restando il limite a 2.000 euro per il singolo datore di lavoro; il secondo è il divieto di utilizzo dei voucher negli appalti; il terzo e più importante cambiamento, contenuto nel decreto (D.lgs. 185/2016) correttivo del Jobs Act, è volto a rendere decisamente più stringente la tracciabilità dei voucher, attraverso l’introduzione dell’obbligo per il datore di lavoro di comunicare all’Ispettorato del Lavoro, con un anticipo di almeno 60 minuti rispetto all’inizio della prestazione lavorativa, non solo chi sia il lavoratore interessato ma anche “il luogo, il giorno e l’ora di inizio e di fine della

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prestazione”. Tale comunicazione può avvenire via SMS oppure tramite mail. Questo intervento è stato pensato proprio per limitare l’utilizzo del voucher a copertura del lavoro in nero. Se infatti tra gli obiettivi di questo strumento vi era quello di legalizzare il lavoro accessorio, troppo spesso nella realtà i voucher avevano permesso di coprire il lavoro in nero, dal momento che prima del Jobs Act era sufficiente registrare il lavoratore in un dato periodo e utilizzare un singolo voucher per coprire prestazioni di lavoro in realtà molto più durature. Lo scopo di questa norma è proprio sopprimere questo fenomeno attraverso una stretta tracciabilità, ed è forse proprio l’introduzione di questo vincolo a segnare una fine alla lunga crescita nell’utilizzo di questo istituto, determinando una stabilizzazione, se non una contrazione, nell’utilizzo dei voucher.

Il dibattito politico e la cancellazione Lo strumento dei voucher si è posto negli ultimi anni al centro del feroce dibattito che ha seguito le riforme del lavoro, costituendo uno dei punti di scontro tra Governo e parti sociali ed elevandosi così ad emblema della precarizzazione del lavoro. Da quando le riforme hanno progressivamente liberalizzato l’uso dei voucher, i sindacati dei lavoratori hanno denunciato come l’estensione indiscriminata di questo strumento avrebbe favorito la precarizzazione dei lavoratori e il venir meno delle tutele per questi ultimi, determinando inoltre forti disuguaglianze di trattamento con i lavoratori che svolgono mansioni simili con un contratto di lavoro standard. Nel luglio 2016 la CGIL, il maggior sindacato dei lavoratori italiano, ha depositato 3,3 milioni di firme a sostegno di tre quesiti referendari riguardanti la normativa del mercato del lavoro, e nello specifico le modifiche introdotte all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori dal Jobs Act; la responsabilità verso i lavoratori in sede di appalto e l’abolizione tout-court dei voucher. Le modifiche ai voucher previste dal Jobs Act sono in verità considerate non particolarmente rilevanti, ma la legge che le ha introdotte ha riscritto completamente la normativa che li regolava in precedenza, rendendo quindi possibile cancellare completamente questo strumento, che era stato introdotto da oltre dieci anni, tramite l’abolizione di alcuni articoli del Jobs Act.

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Dei tre quesiti la Consulta, riunitasi l’11 gennaio 2017, ha accolto solamente quelli su appalti e voucher, respingendo il quesito sull’art. 18, che era probabilmente il più importante dei tre. Nonostante ciò, il referendum comunque una minaccia alla fragile stabilità politica del Governo, che si è quindi impegnato a disinnescare questa miccia. Governo e Parlamento hanno infatti giocato d’anticipo rispetto al voto referendario, che era nel frattempo stato programmato per il 28 maggio, abrogando i tre articoli del D.Lgs 81/2015 oggetto del referendum ed eliminando così i voucher. Una cancellazione che avrà però effetto a partire dal 2018: per tutto il 2017 i committenti potranno ancora utilizzare i buoni già acquistati. Questo provvedimento, al di là della sua appropriatezza, ha lasciato indubbiamente un vuoto normativo nella regolamentazione del lavoro accessorio. Il 27 maggio 2017 la Commissione Bilancio ha tuttavia approvato la legislazione riguardante un nuovo strumento per la regolarizzazione del lavoro accessorio. Al momento in cui questo testo è stato terminato, l’emendamento era in attesa di approvazione parlamentare. L’erede del voucher, così come proposto nell’articolo 54bis della manovra correttiva 2017 (“Disciplina delle prestazionali occasionali. Libretto Famiglia”), si distinguerebbe dal vecchio voucher principalmente per due ragioni. La prima è il limite economico annuo, che non sarà più di 7mila euro per il totale dei committenti e di 2mila per il singolo committente, ma di 5mila per la pluralità, di cui al massimo la metà può consistere di prestazioni verso un singolo committente. La seconda e più importante limitazione introdotta riguarda la platea dei possibili committenti. Il vecchio voucher, grazie ai vari interventi liberalizzatori, poteva essere sostanzialmente utilizzato, oltre che dalle famiglie e Pubblica Amministrazione, da qualsiasi tipo di impresa. I nuovi voucher saranno invece fruibili dalle famiglie, attraverso il “Libretto Famiglia” e dalle imprese aventi fino a cinque dipendenti a tempo indeterminato, attraverso il “PrestO” (abbreviazione per “Prestazione Occasionale”). Anche la Pubblica Amministrazione potrà usufruire del nuovo strumento, ma solamente per ben definite esigenze temporanee. La nuova versione dell’istituto, se terminerà positivamente l’iter di approvazione, sanerà quel vuoto creatosi con la cancellazione dei voucher, andando però ad introdurre uno strumento che risulterà avere un’applicazione decisamente meno vasta rispetto al suo predecessore.

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I numeri dei voucher: è vero boom? Alla luce dei numerosi e già descritti interventi legislativi che sono andati a regolamentare nel tempo l’istituto dei buoni lavoro, occorre adesso soffermarsi su quelle che sono state le dinamiche numeriche del fenomeno. La lunga crescita della diffusione di questo strumento può sostanzialmente essere divisa in tre fasi. La prima fase è quella che va dal 2008, anno di effettiva introduzione dei voucher, al 2012. Nel primo anno di introduzione, quando si trattava sostanzialmente di una sperimentazione, i voucher venduti sono stati di poco superiori al mezzo milione (535 mila). Gli anni successivi, che vedono un progressivo allentamento dei vincoli all’uso dei voucher, sono caratterizzati da una lenta ma progressiva diffusione dell’istituto; i tassi di crescita enormi (superiori al 250% per il 2009 e 2010) sono tipici di un fenomeno in fase embrionale e nascondono una dimensione ancora notevolmente ridotta, che interessa nel 2011 solamente 200 mila lavoratori.

La seconda fase si può identificare nel periodo che segue la Riforma Fornero, fino ad arrivare alla prima metà del 2016. In questo periodo, grazie alle sostanziali liberalizzazioni introdotte dalla riforma stessa, si assiste ad un boom nella diffusione dei voucher. Le vendite passano infatti dai 23 milioni del 2012 ai 134 milioni nel 2016.

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L’inizio della terza fase può essere collocata in seguito all’agosto del 2016, fino al provvedimento di cancellazione. Il mese di agosto, così come era successo nell’anno precedente, è stato caratterizzato da una contrazione nella vendita dei voucher. A differenza del 2015, che aveva visto una forte ripresa delle vendite nel periodo settembre-dicembre, nell’autunno del 2016 si è però assistito ad una progressiva diminuzione della vendita voucher. Queste, che avevano toccato un massimo di 13,2 milioni nel luglio 2016, hanno raggiunto nel gennaio del 2017 un valore di 8,8 milioni (una contrazione del 32 %), riportandosi all’incirca ai livelli osservati a gennaio 2016.

La ragione di questo fenomeno sembra essere proprio l’importante novità normativa introdotta con decreto il 24 settembre 2016 e resa effettiva a partire dal 1 ottobre, che ha reso decisamente più stringente la tracciabilità dei voucher. Lo stesso INPS ha infatti riportato che “la forte flessione nella crescita, sempre più marcata a partire da ottobre 2016, può riflettere anche gli effetti del decreto legislativo con cui sono stati introdotti obblighi di comunicazione preventiva in merito all’orario di svolgimento della prestazione lavorativa”. Per capire invece la reale dimensione del boom che aveva preceduto il 2016 occorre analizzare i dati non solo in valore assoluto, ma in relazione alla dimensione complessiva del mercato del lavoro italiano.

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Un primo dato da prendere in considerazione è quello del numero di lavoratori che hanno utilizzato il voucher. Questo dato, che nel 2011 era 216mila (un valore pari allo 0.96% del totale degli occupati in Italia), nel 2015 ha raggiunto 1,3 milioni (6.1% del totale degli occupati). Anche il pensare che i lavoratori a voucher rappresentino oltre il 6% della nostra forza lavoro risulterebbe però fallace e rivelerebbe un fenomeno con una portata superiore a quella reale. Il numero di voucher per lavoratore in un anno è infatti solamente di 63, un valore che è rimasto sostanzialmente stabile nel corso degli ultimi anni, e per questo risulta più appropriato considerare l’evoluzione del rapporto delle ore lavorate con sul totale delle ore lavorate in Italia. Questo dato, che ha effettivamente conosciuto un incremento direttamente riconducibile al boom dei voucher venduti, non ha comunque raggiunto valori particolarmente elevati. Nel 2016 le ore lavorate con voucher no solamente lo 0.35% del totale delle ore lavorate in Italia. È probabilmente questo il dato più indicativo per capire la portata del fenomeno voucher e ridimensionare le preoccupazioni riguardo all’esplosione dell’utilizzo di tale istituto che hanno portato alla sua cancellazione. Se il monitoraggio, la prevenzione degli abusi e la corretta regolamentazione del lavoro accessorio dovevano rimanere punti di riflessione importanti, i voucher – anche presupponendo che vi sia un loro abuso – non no sicuramente la maggiore problematica del mercato del lavoro italiano.

Identikit dei lavoratori Uno dei punti più dibattuti sull’argomento voucher è il loro eventuale utilizzo sostitutivo rispetto a contratti più stabili, ad esempio per retribuire giovani neo-assunti. Usando come fonte i dati ufficiali INPS di fine 2015, cerchiamo di indagare questo fenomeno, innanzitutto andando a vedere quale sia, in ordine decrescente, la distribuzione dell’utilizzo dei voucher a seconda dello stato occupazionale dei lavoratori: OCCUPATI presso imprese private del settore non agricolo: pari a circa il 29% del totale (circa 400.000 lavoratori), sono di gran lunga il gruppo più numeroso;

1.

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SILENTI (ex occupati): attorno al 23%. Di questi il 40% nell’anno 2014 risultava attivo (occupato o indennizzato) e un altro 20% nel 2013;

2.

INDENNIZZATI (in gran parte percettori nel 2015 di Aspi, MiniAspi e Naspi, e, in minima parte, della CIG) sono circa il 18 % (252.000);

3.

4. SOGGETTI MAI OCCUPATI: pari al 14%; essenzialmente giovani con un’età media di 23 anni.

PENSIONATI: costituiscono l’8%; di cui il 75% pensionati di vecchiaia;

5.

ALTRI COMUNQUE OCCUPATI: pari all’8%. Si tratta di lavoratori domestici, parasubordinati, operai agricoli e autonomi.

6.

Per riuscire a fare un’analisi completa dei prestatori di lavoro accessorio occorre inoltre analizzare la relazione storica tra il numero di lavoratori e la loro età media (Fig. 9.4) e la divisione dei lavoratori nelle classi per età (Fig. 9.5) Dai dati sopra rappresentati è facile rilevare come l’enorme aumento del numero dei voucher riscossi sia stato accompagnato da un costante abbassamento dell’età media degli utilizzatori, passando da circa 60 anni ad appena più di 35. Tale fenomeno è apprezzabile anche dalla divisione in classi lavorative: il numero dei pensionati è sceso sotto il 10%, con un netto aumento dei lavoratori tra i 30 e i 50 anni. Questa tendenza è il risultato, come ricordato nei paragrafi precedenti, di continue liberalizzazioni in materia di vincoli sia soggettivi che oggettivi (legge Fornero del 2012), oltre che dei massimali annui pagabili in voucher (Jobs Act 2016), poiché tali provvedimenti legislativi hanno permesso un aumento tra le fasce più giovani dei possibili prestatori di lavoro accessorio. Per analizzare inoltre i possibili abusi nell’utilizzo dei voucher è necessario valutare per prima cosa la quantità di buoni lavoro riscossi da ogni singolo lavoratore e successivamente analizzare la correlazione tra voucher totali e numero di giornate lavorative.

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Come si evince dal grafico (Fig. 9.6), nel periodo 2013-2015 (in cui vi è una sostanziale uniformità legislativa) benché sia il numero dei lavoratori che il numero di buoni riscossi siano più che raddoppiati (+123% i lavoratori e +142% il numero totale di buoni), la distribuzione del numero dei voucher è rimasta pressoché la medesima, con un valore medio di riscossioni in un anno che è passato da 58,8 a 63,8 e un valore modano rimasto praticamente invariato (da 25 a 29). Questi dati possono essere intesi come un primo possibile indicatore di come il boom nell’utilizzo di voucher non abbia portato abusi e/o distorsioni evidenti nel mondo del lavoro accessorio. Perciò è interessante infine andare ad analizzare,

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come prima citato, il numero di voucher annui in relazione alle giornate di lavoro prestate e un approfondimento sui dati relativi all’ultimo anno disponibile (2015). Prima di fare qualsiasi analisi è necessario specificare come i dati siano da utilizzare con molta cautela, poiché la normativa in vigore nel periodo analizzato non obbligava i committenti a dichiarare con precisione il numero previsto di giornate di attività, ma solo il numero di giornate a cui ricondurre i voucher riscossi. In ogni caso si possono dedurre alcuni elementi interessanti. Analizzando la Tabella 1 si può notare come: Nonostante dal 2013 al 2015 vi sia stato un rapido aumento di voucher utilizzati, il numero medio di giornate di lavoro è diminuito (-40%). Ciò è dovuto in parte ad un miglioramento in merito alla tracciabilità delle date effettive di utilizzo ma, guardando il dato in relazione al numero medio di voucher riscossi per lavoratore (il cui dato è rimasto simile), è possibile affermare che tali rilevazioni tendono a smentire un possibile utilizzo del voucher come pagamento di relazioni di lavoro più stabili. A.

D’altro canto è necessario notare come il numero medio di voucher per giornata di attività sia aumentato in maniera considerevole (+ 183%). A una prima analisi questa tendenza potrebbe essere un indicatore di come in molti casi il rapporto di lavoro accessorio maschera prestazioni differenti, come apprendistati di tipo part-time.

B.

Nella prima parte della tabella vi è poi una sorta di fotografia dell’intero settore del lavoro accessorio nel 2015, in cui si possono notare 4 gruppi fondamentali: I prestatori che riscuotono al massimo due voucher a giornata (inoltre per un numero minore o uguale a 29 in un anno), questi sono circa il 33% (439.000) e rappresentano il valore mediano dell’intero insieme dei lavoratori.

1.

Un altro 22% (circa 300.000) viene remunerato con un numero di buoni lavoro compreso tra due e quattro.

2.

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Vi è inoltre un 28% (390.000) che ha percepito tra i 4 e i 10 voucher.

3.

Infine il 18% del numero dei lavoratori (250.000) ha percepito più di 10 voucher per giornata, tra cui 100.000 di essi più di 20.

4.

Tale rappresentazione ci può far comprendere come il settore sia decisamente eterogeneo, con situazioni molto distanti tra loro. Ma alla luce dell’aumento marcato del numero medio di voucher per giornata, è necessario sottolineare la particolarità del gruppo n°4, cioè coloro che ricevono più di 10 voucher per giornata lavorata, poiché tale dato ha un effetto rilevante nella determinazione del dato aggregato (3.3). L’unico modo per poter dare una spiegazione a questa ultima porzione di lavoratori con un valore così distante dal valor medio è che in questi casi viene retribuita per mezzo dei voucher anche una prestazione lavorativa di valore considerevole, probabilmente poiché avvenuta in maniera saltuaria e perché il voucher può rappresentare il modo più pratico sia dal punto di vista logistico che burocratico.

Identikit dei committenti Nel corso degli anni, il numero di aziende che hanno utilizzato i voucher per pagare propri dipendenti è costantemente aumentato. Ciò è dovuto sia alla medesima dinamica di liberalizzazione dello strumento già vista nel paragrafo dedicato ai prestatori, sia ad una modifica dei limiti massimi di utilizzo e ad una maggiore facilità di acquisto – dal 2012 è possibile acquistare i buoni lavoro presso i Tabaccai. Tale andamento è facile da apprezzare nel grafico successivo (Fig. 9.7). Come si può osservare, il numero totale di committenti è aumentato ad un ritmo sostenuto; in particolare tra il 2013 e il 2015 – dove ricordiamo vi è una generale uniformità legislativa – vi è stato un incremento di circa il 100% del numero totale, in linea con il +137% del numero di prestatori e il +142% di voucher utilizzati. Tale tendenza è inoltre apprezzabile nel numero di nuovi ingressi, anche questo dato in netto aumento (+56% tra 2012/2013 che si assesta anche nel confronto tra il 2013 e il 2015, +55%).

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Concentrandosi sull’ultimo anno disponibile (2015) è utile riclassificare i committenti in relazione al numero di lavoratori così pagati e al numero di voucher usati mediamente per ciascun lavoratore; è così possibile individuare 4 sotto-categorie per utilizzo: 1. MARGINALE: Massimo 5 lavoratori e fino a 70 voucher per lavoratore, ne fa parte il 64% dei committenti per il 15% dei voucher venduti nel 2015;

INTENSIVO: Massimo 5 lavoratori e oltre 70 voucher per lavoratore, ne fa parte il 21% dei committenti per il 29% dei voucher venduti nel 2015;

2.

ESTENSIVO: Oltre 5 lavoratori e fino a 70 voucher per lavoratore, ne fa parte l’11% dei committenti, per il 24% dei voucher venduti nel 2015;

3.

RILEVANTE: Oltre 5 lavoratori e oltre 70 voucher per lavoratore, ne fa parte il 3% dei committenti, per il 33% dei voucher venduti nel 2015.

4.

Dalla Tabella 2 è importante sottolineare come nel 2015 il 67% dei voucher impiegati sia stato usato dal 15% dei committenti (sommando i valori delle prime due righe della tab.1). A questo punto, per definire in maniera completa l’insieme dei committenti di lavoro accessorio, è necessario operare un’ulteriore classificazione: in base ai settori economici. Dalla Tabella 3 possiamo vedere come l’utilizzo del voucher sia molto accentuato nel settore alberghiero e della ristorazione, contraddistinti da una domanda di lavoro fortemente stagionalizzato; tale settore è caratterizzato da un numero di lavoratori per committente pagati con voucher più alto della media nazionale (7,7 contro 3,7) e da un numero di voucher per committente più alto (312 contro 186). Sempre in questo settore, troviamo il maggior numero di committenti “intensivi” (401) che potrebbe far pensare ad un utilizzo del voucher come rapporto di lavoro “standard”, elemento dovuto anche al fatto che per molti lavoratori questo rappresenta un secondo impiego. In ogni caso è da rilevare come i committenti più “intensivi”, circa 700, che rappresentano lo 0,15% del totale, utilizzano circa 8 milioni di buoni lavoro, il 9% dell’intero ammontare. È infine interessante notare come il settore pri-

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mario ormai rappresenti solamente il 2% della quota totale dei voucher riscossi, una cifra che si è costantemente abbassata ogni anno dal 22% del 2008, quando ancora molti settori economici non erano stati liberalizzati. Negli altri settori non si notano distorsioni rilevanti, i valori infatti non si discostano di molto dalla media generale.

I voucher e il lavoro nero – Il falso (?) mito della regolarizzazione Tra i temi più dibattuti vi è quello dell’eventuale effetto emersione del lavoro nero, obiettivo dichiarato al momento dell’introduzione. I ricercatori INPS lo definiscono un’“irrealistica aspettativa” e spiegano che più che all’emersione siamo di fronte ad una “regolarizzazione minuscola in grado di occultare la parte più consistente di attività in nero”. La stessa INPS segnala infatti l’esistenza di casi curiosi – oltre 23.000 nel 2015 – di prestatori regolati con un solo voucher, e suggerisce che questi possono essere letti solamente in due prospettive, lasciando al lettore il compito di valutare quale sia l’opzione più probabile: casi estremi di attaccamento alla legalità, oppure evidenti coperture di rapporti in nero.

Effettivamente, prima del Jobs Act, lo strumento si prestava innegabilmente alla copertura del lavoro nero. L’attivazione di un solo voucher era sufficiente per regolarizzare un’intera giorna-

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ta di lavoro, poiché in caso di ispezione sarebbe stato sufficiente dichiarare la presenza del lavoratore solo per quell’ora. Grazie al più stringente obbligo di segnalazione introdotto nel settembre 2016, questo tipo di abuso non è più possibile. Da ultimo, risulta interessante un’analisi di tipo territoriale circa l’intensità dell’utilizzo dei voucher prima dell’introduzione degli obblighi di comunicazione. La scatterplot voucher per abitante (2015) – tasso di irregolarità del lavoro (2013), dati regionali, evidenzia come i voucher abbiano avuto uno sviluppo maggiore in quelle regioni, principalmente al centro-nord, che già tendevano ad avere relazioni di lavoro maggiormente regolari. Sembra quindi che i buoni del lavoro abbiano trovato terreno fertile non tanto laddove il nero e l’irregolare erano più diffusi, come era forse più intuitivo aspettarsi, ma piuttosto in quelle regioni dove l’attività economica è più sviluppata e che forse, essendo caratterizzate da maggiore regolarità, hanno più facilmente recepito questo strumento. Questo dato può essere scomposto in due parti, nelle regioni con un maggior tasso di irregolarità si registrano infatti sia un minor numero di lavoratori coinvolti nell’utilizzo dei voucher (in rapporto alla popolazione), che, come evidenziato nel WorkINPS 2/settembre 2016, un numero medio di voucher per lavoratore inferiore. Quest’ultimo effetto, che sembra essere il più importante dei due, secondo i ricercatori dell’INPS potrebbe indicare un utilizzo dei voucher in supporto, piuttosto che in alternativa, al lavoro sommerso, nelle regioni con un più alto tasso di irregolarità. Grazie alle novità introdotte dal Jobs Act, il problema della copertura del lavoro nero sembrava però essere stato superato. Il punto di discussione principale rispetto ai voucher rimasto, e quindi quello attorno al quale si baseranno le discussioni per delineare lo strumento che dal 2018 dovrà a sostituire i voucher, è quello riguardante la bontà della flessibilità che esso introduce. Infatti, se correttamente regolamentati e distinti dal lavoro subordinato, i voucher non possono che essere un fenomeno positivo, dal momento che vanno a coprire prestazioni di lavoro che altrimenti sarebbero svolte nel sommerso o che addirittura non verrebbero realizzate.

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Occorre infine soffermarsi su quali siano i vantaggi dell’emersione. Per come i voucher erano stati concepiti, e cioè esenti da imposte, da un punto di vista fiscale non vi sono vantaggi per l’erario. Dal punto di vista del lavoratore, il vantaggio principale risulta essere forse quello della copertura assicurativa Inail. Il lavoro con voucher infatti non permette ovviamente di accedere a garanzie sulla stabilità del lavoro, né agli ammortizzatori sociali. Inoltre i lavoratori contribuiscono, mediamente, in maniera piuttosto irrilevante al proprio monte pensionistico. La quota necessaria per farsi riconoscere un mese di contribuzione è infatti di 130 voucher, e solo il 16% dei lavoratori a voucher raggiunge questa soglia. Anche questa osservazione dovrà rappresentare uno spunto di riflessione nel concepimento e nell’introduzione del nuovo strumento per regolare il lavoro accessorio.

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Fonti Il lavoro accessorio 2008-2015, dossier INPS – Veneto Lavoro; WorkINPS 2 – Settembre 2016; Simone Ferro. Come si risolve il problema dei voucher, lavoce. info, 2017; Osservatorio sul precariato, rapporto mensile gennaio – dicembre 2016 Osservatorio sul lavoro occasionale accessorio, INPS Sentenza Corte Costituzionale 28/2017, 11 gennaio 2017 Decreto Legislativo 276/2003 Decreto del 12 marzo 2008 del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale Decreto legislativo 185/2016


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La situazione prima del “Piano Hartz”: la riunificazione tedesca L’unificazione tedesca, avvenuta il 3 ottobre 1990, ha rappresentato un evento di svolta della storia europea, ma anche una notevole sfida per l’economia dell’ex Repubblica Federale Tedesca (RFT) e per la Comunità Economica Europea in generale. La Repubblica Democratica Tedesca (RDT o DDR) era caratterizzata da un tessuto industriale notevolmente arretrato rispetto all’Ovest, da una ricchezza pro-capite esigua e da una moneta decisamente più debole rispetto al Marco della RFT. Ciò portò un rapido processo di de-industrializzazione nella RFT, con un conseguente innalzamento del tasso di disoccupazione oltre il 20% e una costante transizione migratoria verso l’Ovest della neonata Germania. Gli sforzi per lo Stato centrale furono enormi e resi possibili anche grazie a ingenti aiuti provenienti dalla Comunità Europea, quantificabili in circa 1500 miliardi di Euro che servirono per notevoli scopi, tra cui: l’unificazione monetaria – il cui tasso di conversione è una delle cause dell’ancora attuale difetto di competitività della Germania dell’Est –, la privatizzazione delle aziende della RDT e costanti aiuti sociali per la popolazione, che tutt’oggi vengono stanziati ogni anno per recuperare una differenza economica ancora evidente. Vediamo ora alcuni dati che hanno portato il Governo federale a varare una riforma strutturale e profonda del mercato del lavoro. I grafici 10.1 e 10.2 mostrano come la riunificazione abbia rappresentato una sfida importante per il Governo centrale, con un tasso di disoccupazione che è aumentato sia sul valore generale che in relazione alle singole regioni del Paese. È inoltre molto importante analizzare come sia aumentata nei medesimi anni la percentuale di disoccupati di lungo periodo (senza lavoro per più di 12 mesi), indicatore di un mercato del lavoro e di sistemi di ricollocamento inefficienti e non adatti ad affrontare un processo di integrazione di notevoli dimensioni.

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Il “Piano Hartz” All’inizio del 2002 fu istituita dal secondo governo Schroder una commissione formata da quindici esponenti dell’economia tedesca: amministratori delegati, docenti, rappresentanti dei lavoratori, politici e con presidente il responsabile risorse umane di Wolkswagen: Peter Hartz. L’obiettivo di questa equipe era quello di rendere più efficiente il mercato del lavoro, riformando radicalmente il ricollocamento dei disoccupati per evitare un aumento della disoccupazione di lungo periodo. La Commissione finì il suo lavoro in tre mesi e il progetto redatto fu suddiviso in quattro leggi entrate in vigore gradualmente: Hartz I e Hartz II (2003), Hartz III (2004), Hartz IV (2005), con ulteriori revisioni effettuate negli anni successivi. Di seguito alcuni dei punti principali dei pacchetti di riforme.

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Hartz I e Hartz II Rappresentano i pacchetti più corposi della Riforma, entrambi entrati in vigore nel gennaio del 2003. In Hartz I trovano spazio: • Incentivi alla formazione continua del lavoratore e istituzione dei “voucher formativi”. • Modifiche sostanziali delle leggi in merito al lavoro interinale: vengono eliminati diversi divieti che lo differenziavano da quello a tempo indeterminato, tra cui il divieto alla riassunzione e il limite dei due anni del contratto di lavoro; viene inoltre equiparato anche in materia di orario di lavoro, retribuzione e diritto alle ferie, ma rimane la possibilità di prevedere, tra le parti, contratti con deroghe parziali alla norma. • Istituzione di due tipi di prestazione assistenziale: - Indennità di disoccupazione I (ALGI): prestazione assicurativa finanziata con contributi, secondo le stesse caratteristiche del passato. - Sussidio sociale per coloro che sono definiti inabili al lavoro. Fanno parte di Hartz II: • Regolamentazione delle tipologie di impiego di occupazione marginali (i cosiddetti “mini-jobs”): tale riforma entra in vigore da aprile 2013 e rientrano in questa categoria tutti i lavoratori che guadagnano fino a 450 euro al mese (prima 325) per un massimo di 5400 euro annui con il limite di 15 ore settimanali. Sono inoltre caratterizzati da una forte agevolazione in materia fiscale per il datore di lavoro: un importo forfettario per la previdenza sociale che arriva fino al 28% a seconda del tipo di contratto, e tasse pari al 2%. • Nascono le “aziende unipersonali” (Ich-AG): i disoccupati ricevono come incentivo per la registrazione di una Ich-AG tre anni di incentivi, che dipendono dal reddito della Ich-AG. Tali redditi, ai quali devono corrispondere i versamenti contributivi, sono sottoposti a una imposizione fiscale forfettaria del 10 per cento. Il reddito non deve inoltre superare i 25 mila Euro.

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• Vengono creati i “jobcenter”: trasformazione degli uffici del lavoro, cui si è obbligati a registrarsi non appena ha inizio un processo di licenziamento. Nel caso la registrazione non venisse effettuata o fosse soggetta a ritardi, vi è una riduzione forfettaria dell’indennità di disoccupazione per ogni giorno di ritardo. Questi centri del lavoro hanno il compito di prendere in considerazione l’intera famiglia e di creare un’intermediazione più rapida per ridurre il periodo di disoccupazione, anche grazie a un contatto più stretto con le aziende. In caso di giovani disoccupati è inoltre facoltà del “jobcenter” concedere un finanziamento per un apprendistato, al fine di facilitare il reinserimento. Hartz IV: Mentre nel piano Hartz III non trovano posto misure particolarmente innovative e incisive, Hartz IV rappresenta la parte della Riforma più controversa, che ha creato le maggiori proteste nella società civile. L’indennità di disoccupazione e il sussidio sociale vengono accorpati nell’indennità di disoccupazione II (ALGII). Le prestazioni del vecchio sussidio erano inferiori alla nuova ALGII, ma spesso vi erano contributi aggiuntivi, ora scomparsi, che permettevano di superare il nuovo valore. La nuova ALGII viene istituita con un contributo di 345€ nell’Ovest e 331€ nell’Est. Inoltre, vi è il pagamento da parte dello Stato di una cifra aggiuntiva per i figli (a seconda dell’età) e di una cifra per pagare affitto e riscaldamento. In cambio, per chi riceve l’ALGII, ogni offerta di lavoro è da considerarsi accettabile, pena la perdita del sussidio; e questo anche se la retribuzione è pari a uno o due euro l’ora (i cosiddetti “lavori da un euro”). Gli interventi, come abbiamo potuto notare, sono stati molteplici, come anche le persone coinvolte in questi piani di aiuto. In particolare, è interessante fare un paragone tra alcuni Paesi europei in merito al numero di persone che sono rientrate in un piano di aiuto per disoccupazione e relativo reintegro. Tra i tre Paesi più grandi della UE, la Germania è l’unica in cui, nonostante la crisi, il numero di interventi necessari sia in costante diminuzione.

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La crescita tedesca: gli effetti del “Piano Hartz” Dopo aver provato a riassumere le novità più importanti introdotte dal Piano Hartz è necessario andare ad analizzare gli effetti sui dati macroeconomici a partire dai due dati presentati all’inizio: tasso di disoccupazione generale e di disoccupazione di lungo termine. Partiremo con il considerare i dati dal 2005, momento in cui gran parte della Riforma era già entrata in vigore, e li confronteremo con gli analoghi dati di altri Paesi per valutare gli effetti della crisi economica.

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I dati raccolti in questi ultimi due grafici, confrontati con i due di inizio capitolo, rappresentano senza dubbio un netto miglioramento del mercato del lavoro. Partendo dal grafico del tasso di disoccupazione generale (10.3), è interessante notare come in Germania questo sia sceso in maniera costante (-6% in 10 anni), non risentendo nemmeno della crisi dei Subprime del 2009 e della crisi del debito nel 2011. Questo andamento è riscontrabile anche nei dati specifici al tasso di disoccupazione della Germania Est, passato dal 18,7% del 2005 all’8.5% del 2016 (-10%). Tendenza diversa negli Stati Uniti, dove vi è stata un’impennata tra il 2008 e il 2009, coincidente con il fallimento di Lehman Brothers. In Italia, il trend è stato praticamente speculare con un tasso di disoccupazione in crescita costante, elemento caratterizzato probabilmente anche da un mercato del lavoro che non era più adatto alle sfide del momento. Quanto all’altro obiettivo del governo Schroder, quello di abbassare la disoccupazione superiore a 12 mesi (grafico 10.4), possiamo affermare che sia stato in parte raggiunto: diminuito del 20%, si è assestato a valori paragonabili a quelli francesi (44,3%). Percentuale a prima vista elevata, ma in linea con il mercato del lavoro “europeo”, meno flessibile di quello americano, dove i dati sono decisamente più bassi. Dopo aver osservato i dati più generali relativi al mercato del lavoro, è opportuno analizzare l’andamento economico generale, osservando alcuni indicatori relativi al PIL tedesco.

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I dati presentati confermano una crescita del PIL costante – tralasciando la forte recessione frutto della crisi subprime – che si avvicina ai valori statunitensi e che stacca gli altri Paesi europei (nel 2015 +1,7% contro il +1,3% della Francia e il +0,8% dell’Italia). Ancor più interessante analizzare un dato meno noto: PIL generato per ogni ora lavorata, indicatore importante della produttività del lavoro in relazione al capitale impiegato. Nel grafico 11.6 possiamo vedere come la Germania sia lo stato del G7 con la performance migliore, con una forte crescita dal 2010 ad oggi (+7%), frutto di una capacità di produzione importante e di un capitale umano altamente qualificato. A questo punto, dopo aver considerato il dato del “PIL per ora lavorata”, è opportuno andare ad analizzare altri indicatori più specifici riguardanti la produttività del lavoro e la retribuzione. I dati OECD ci possono far apprezzare un miglioramento significativo sia nella retribuzione per ora lavorata e sia, probabilmente anche come conseguenza del primo dato, nel costo di ogni singola unità di lavoro. Questo aumento è imputabile alla netta diminuzione del tasso di disoccupazione e a una estensione dei sussidi e delle indennità di disoccupazione (ALGII in vigore dal 2006) che ha causato una diminuzione della offerta di lavoro, con un conseguente aumento del salario offerto. È inoltre da sottolineare come la manodopera tedesca, rispetto alla media UE, sia da considerarsi come più specializzata e maggiormente impiegata in produzione di precisione, e ciò comporta retribuzioni in media più alte rispetto a quelle di una forza lavoro meno qualificata. Un’ulteriore analisi è possibile effettuarla andando ad analizzare la struttura degli orari di lavoro tedeschi, compiendo in questo caso un paragone con il mercato del lavoro italiano, per trarre anche degli spunti di intervento sul mercato del lavoro del nostro Paese, oltre a quelli già effettuati tramite il Jobs Act. Per fare questa comparazione, useremo sia il numero totale di ore lavorate in relazione alla variazione delle ore lavorate per singolo lavoratore e alla variazione della produttività totale. I dati che possiamo rilevare sono molto interessanti per alcuni spunti di analisi. Il primo è che in Germania il numero di ore lavorate per occupato è decisamente più basso rispetto alla media del G7 (circa il 20% in meno) e si colloca come uno dei dati più bassi tra tutti i paesi analizzati dall’OCSE. Inoltre, è da rilevare una tendenza a un’ulteriore diminuzione, poiché nel 2016 le ore lavorate per singolo occupato sono scese ancora dello 0.8% (una

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tendenza opposta rispetto ai dati statunitensi e italiani). Questo andamento sarebbe incompatibile con una delle crescite del PIL più forti di Europa e dell’intero G7, ma per riuscire a far coesistere i due aspetti è necessario considerare anche il dato della produttività del lavoro; e qui la Germania è una delle nazioni più forti, con il dato 2016 che è il più alto tra i paesi del G7.

Le possibili critiche: “mini-jobs” e part-time Una possibile argomentazione che oscuri in parte tale scenario positivo potrebbe essere il fatto che in Germania vi sia un uso generalizzato di contratti ad orario ridotto, al fine di ridurre i salari medi e determinare un abbassamento artificiale del tasso di disoccupazione. In parte ciò può essere corretto: difatti negli ultimi anni vi è stata una crescita robusta dei cosiddetti “mini-jobs”. Questi sono strumenti a tassazione agevolata creati dal Piano Hartz al fine di far emergere e ridurre la quota di lavoro nero (problema che in Italia aveva trovato una soluzione parziale con i “voucher”). Ve ne sono di tre tipi con diverse tassazioni a carico del datore di lavoro: Per il settore commerciale, per il quale il datore di lavoro è chiamato a versare il 28% per previdenza sociale (15% a fine pensionistico e 13% come assicurazione per malattia);

1.

Per i servizi domestici: qui il datore di lavoro versa il 10% a fini previdenziali (5% per la pensione e il 5% per assicurazione);

2.

3. Di breve durata: in questo caso il datore di lavoro non è tenuto a versare alcuna somma.

Anche il lavoratore è chiamato a versare una parte dell’ammontare a fini pensionistici: il 3,9% di base, che diventa il 13,9% nel caso di lavori domestici presso privati. È molto importante sottolineare che svolgere un’attività lavorativa attraverso un “mini-jobs” non comporta la perdita dello status di disoccupato, ma solamente una riduzione dell’indennità nel caso il reddito da lavoro superi determinati massimali.

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Il numero di “mini-jobbers”, dalla loro istituzione, si è attestato su questi valori:

Il dato è oggettivamente elevato, ma bisogna rilevare che negli ultimi 6 anni il numero è rimasto praticamente costante, con un tasso di disoccupazione che nello stesso periodo si è dimezzato (dal 9% al 4,5%) smentendo l’ipotesi che questa diminuzione sia stata possibile tramite un abuso di “mini-jobs”. La criticità dei “mini-jobs” risiede nella scarsità dell’entità dei versamenti pensionistici, che in casi di un uso scorretto (per periodi troppo lunghi o in momenti centrali dell’attività lavorativa) può creare gravi problemi al fine dell’ottenimento di una pensione di valore consono al mantenimento della persona. Ma tale problema non risulta essere rilevante nei dati poiché la maggior parte dei lavoratori con tali contratti sono pensionati e giovani (molti dei quali studenti), i primi alla ricerca di una piccola integrazione alla pensione e i secondi per piccole spese personali. Tra gli utilizzatori troviamo anche donne e madri – che li usano come forma di conciliazione tra vita e lavoro – e disoccupati in attesa di un lavoro “standard”. Inoltre, non risulta neppure un abuso dell’utilizzo da parte dei datori di lavoro poiché il 77% dei datori di lavoro usa al massimo 3 “mini-jobbers” (il 45% solo un’unità) e anche nelle durate i dati sono in linea con le aspettative: il 41% dei “mini-jobs” commerciali (43% nei servizi ai privati) ha una durata massima di un anno e il 24% (19% quelli di tipo privato) tra uno e due anni. Dopo l’analisi del fenomeno “mini-jobs” è quindi necessario analizzare il settore dei contratti di lavoro a tempo parziale attraverso due dati importanti: le percentuali di contratti part-time sul totale dei contratti di lavoro e la quota dei cosiddetti “part-time involontari” cioè coloro che pur di non perdere il lavoro hanno accettato una riduzione degli orari di lavoro e delle rispettive contribuzioni.

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Dai due grafici (Fig. 10.12 e 10.13) possiamo desumere come i contratti di lavoro part-time in Germania siano sopra la media rispetto a due Paesi economicamente simili come la Francia e l’Italia, arrivando a rappresentare circa un quinto dei contratti di lavoro totali. Ma il secondo grafico ci permette di delineare un quadro decisamente diverso: in Germania la quantità di contratti part-time definibili come “involontari” è pari a circa l’11%, con una tendenza del dato in diminuzione, discorso opposto rispetto al 39,2% della Francia e al triste 59,6% dell’Italia. In questi due paesi, oltretutto, la tendenza del dato è in netta crescita, indicatore di un mercato del lavoro che stenta a ripartire dalla crisi economica, obbligando una consistente fetta di lavoratori ad accettare orari e paghe ridotti pur di mantenere il proprio posto di lavoro.

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Conclusione: è vera gloria? Sicuramente permangono alcuni elementi che potrebbero essere migliorati come la legislazione e il controllo dell’uso dei “mini-jobs” – che in alcuni casi potrebbero essere usati al fine di non firmare contratti di lavoro più stabili – e in merito alla relazione tra indennità di disoccupazione (ALGII) e “lavori da un euro”. Ma risulta evidente da tutti i dati analizzati come il mercato del lavoro in Germania sia migliorato sotto molteplici punti di vista: il numero degli occupati, la retribuzione e le ore lavorate in relazione alla produttività sono tutti indicatori di un settore in crescita, in cui rimangono delle diversità tra Est e Ovest, in ogni caso in via di miglioramento. È inoltre da sottolineare, risultando una fonte di ispirazione per una futura legge italiana in materia di lavoro accessorio, l’uso dei “mini-jobs”, rivisto in alcune particolarità, come strumento per l’emersione del mercato nero (soprattutto dopo l’abolizione dei voucher). Infine, si evidenzia un fenomeno importante nel mercato del lavoro tedesco in netto contrasto con il mercato italiano: lavorare di più non è sinonimo di crescita dell’economia, è necessario concentrare molti più sforzi sulla produttività, grande tallone d’Achille del nostro Paese.

Fonti Banche dati: OECD.org, ec.europa.eu, destatis.de, istat.it. “La riforma Hartz” di Franco Salvatori, 2005, ADAPT. “Le criticità del salario minimo e dei mini-jobs in Germania” di S. Spattini, 2014, ADAPT.

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Introduzione Storicamente, il mercato del lavoro francese viene considerato strettamente normato, burocratizzato e caratterizzato da una scarsa fiducia fra i gruppi sociali che lo costituiscono. Nel Paese si registra inoltre un tasso di disoccupazione maggiore della media europea: dal 1990 questo dato è stato in media attorno al 9%, superiore quindi a Paesi come il Regno Unito o la Germania, e più simile a paesi mediterranei come l’Italia. Particolarmente alto è poi il tasso di disoccupazione giovanile, che ha conosciuto un forte rialzo in seguito alla crisi. Secondo le considerazioni di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE, la persistenza di alti livelli di disoccupazione indica che non si tratta di un fenomeno ciclico, ma strutturale – rappresentato nel grafico dal tasso di disoccupazione naturale, il NAIRU. Le possibili cause che hanno portato la disoccupazione strutturale a livelli così alti sono molteplici. In prima battuta, è possibile che la forte e perdurante crisi economica abbia dato origine, oltre che a fenomeni di incertezza, ad effetti di isteresi, che si verificano quando il tasso di disoccupazione post-crisi rimane a livelli più elevati di quello che la precedevano: il tasso naturale di disoccupazione, come un cane che si morde la coda, è infatti influenzato dall’andamento degli stessi livelli di disoccupazione. Una prolungata fase di depressione economica crea quindi un circolo vizioso per cui i lavoratori che perdono il proprio posto incontreranno difficoltà a trovarne uno nuovo, e le loro probabilità di reimpiego diminuiranno a mano a mano che il periodo di disoccupazione si prolunga. Questo fenomeno ha determinato inoltre un raddoppio del tasso di disoccupazione di lunga durata (superiore ad un anno), il quale è passato dal livello pre-crisi del 2.4%, al 4.20% attuale – un valore comunque ben al di sotto del 6.3% italiano. Un’altra spiegazione degli alti livelli di disoccupazione strutturale può essere individuata nella rigidità dei salari. L’introduzione delle 35 ore settimanali, resa effettiva nel 2002, non è stata infatti accompagnata da una riduzione del salario minimo, che ricopre un ruolo molto rilevante nelle dinamiche salariali francesi.

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La combinazione di questo fenomeno con la mancanza di flessibilità nella contrattazione potrebbe aver causato una perdita di competitività dagli anni 2000 ad oggi, oltre che una minore reattività dei salari alle modifiche del tasso di disoccupazione. Non va dimenticato, infine, l’effetto dei contratti a tempo determinato (CDD), che hanno costituito una percentuale sempre maggiore dei contratti totali. I CDD di durata inferiore ad un mese sono raddoppiati tra il 2000 ed il 2014, indicando la tendenza ad alternare brevi periodi di impiego a brevi periodi di inattività. La creazione di un alto numero di lavoratori che vengono registrati periodicamente come disoccupati ha comportato l’innalzamento complessivo della disoccupazione registrata. In situazioni come quella descritta, si comprende la necessità di adottare riforme strutturali, che accrescano la produttività nel medio periodo e che, grazie ad un aumentata fiducia da parte di consumatori ed imprese, stimolino la domanda aggregata nel breve.

Gli interventi precedenti la riforma La crisi economica che ha seguito il 2008 e che si è riacutizzata nel biennio 2011/2012 ha spinto la presidenza francese a cercare di rendere più dinamico e flessibile il mercato del lavoro tramite una serie di interventi normativi. Tra questi vanno ricordati il “Pacte de responsabilité et de solidarité” del 2013 (Governo J.M. Ayrault II), consistente in una serie di norme per la riduzione della tassazione del lavoro e per l’aumento della competitività delle aziende, con misure quali il “CICE” – un credito d’imposta per le aziende. Volta ad aumentare

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la produttività e la competitività è la legge n° 2015-990, detta “Loi Macron” (Governo M. Valls II), la quale introduce liberalizzazioni in materia di giorni lavorativi, trasporti e professioni regolamentate; sempre nello stesso periodo, la legge n° 2015-994, relativa al dialogo sociale, pone le basi per un’ulteriore revisione delle dinamiche aziendali. Questi interventi non hanno però risolto tutte le problematiche insite nel mercato del lavoro francese: in primis la forte disparità di tutela tra le due principali tipologie di contratto, a tempo indeterminato e determinato o, nell’ordinamento francese, CDI e CDD; ma anche la rigidità dell’orario di lavoro, ancorato per legge alle 35 ore settimanali, e della retribuzione degli straordinari, anch’essa fissata per legge. Inoltre, i licenziamenti economici sono difficili da portare a termine e le cause legali ad essi connesse hanno spesso esiti incerti. In questa cornice, il dialogo sindacati-patronati rimane molto conflittuale. La legge n° 2016-1088 dell’8 agosto 2016, “relativa al lavoro, alla modernizzazione del dialogo sociale e alla salvaguardia dei percorsi professionali”, detta anche “Loi Travail” o “Loi El Khomri”, dal nome del ministro del lavoro, si pone, in questo contesto, l’obiettivo di concludere il ciclo di riforme sopra menzionato. L’iter e l’approvazione della legge sono stati segnati da aspri scontri all’interno della maggioranza e da diverse manifestazioni che ne chiedevano l’abrogazione.

Il processo di discussione della riforma Diversi economisti, come Jean Tirole, Philippe Aghion, Hélène Rey e Pierre-Olivier Gourinchas, hanno apertamente sostenuto la riforma, da considerarsi inoltre in linea con alcune indicazioni arrivate dall’UE e dal FMI. Questa ricezione rappresenta un segnale di stabilità e continuità verso i partner europei ed i mercati: pareri favorevoli sono infatti giunti anche da A. Nahles, ministro tedesco del lavoro SPD e da Angela Merkel, anch’essa alle prese con una revisione del mercato del lavoro, in particolare con riferimento al CPA – un “conto personale delle attività” del lavoratore di cui parleremo in seguito. Il Medef, associazione di imprenditori francesi, è sempre stato favorevole alla legge, pur con alcune riserve sulle indennità per il licenziamento economico. Molte però anche le critiche al disegno di legge, arrivate persino dall’interno dello stesso partito di governo, il PS. Fra i critici, il futuro candidato alle presidenziali Benoit Hamon ed ex

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ministri come M. Aubry e D. Cohn-Bendit. Anche alcuni economisti sono scettici sul reale impatto di questa riforma; tra questi Thomas Piketty e Daniel Cohen. Le principali preoccupazioni che avvertono riguardano la riduzione della protezione per le categorie svantaggiate, l’aumento del precariato e i conseguenti effetti su consumi ed ammortizzatori sociali.  I sindacati, durante tutta la contrattazione con il Governo prima e durante l’iter parlamentare dopo, hanno organizzato grandi manifestazioni di protesta, a volte supportati anche da membri del PS. Da notare che la situazione dei sindacati in Francia è particolare: hanno una notevole forza di mobilitazione e di contrattazione, nonostante la partecipazione sindacale sia relativamente bassa.

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La riforma Licenziamenti I licenziamenti economici erano già presenti nell’ordinamento francese, ma la loro definizione viene ora estesa e comprende anche, ad esempio, casi come la riduzione delle commesse e la situazione sui mercati internazionali; inoltre, la definizione è più precisa e sarà meno soggetta all’interpretazione del giudice. L’indennità prevista per un licenziamento economico è proporzionale all’anzianità ed ha un minimo per i neoassunti. La Francia vantava già un sistema a tutele crescenti fra i più importanti d’Europa (un esempio nel grafico in caso di disoccupazione) che tutelava meno, in proporzione, gli assunti da poco tempo.

In caso di ingiustificato licenziamento economico la legge non prevede più la riassunzione – se non in alcuni gravi casi; al suo posto un’indennità compensativa, di cui non vengono indicati né minimi né massimi, ma semplicemente un riferimento quantitativo, non vincolante per poterla calcolare. Questo non dovrebbe creare un’eccessiva incertezza se si parte dal presupposto che, comunque, l’azienda licenzi un lavoratore per motivi economici fondati.

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Tempo di lavoro Se già con la “Loi Macron” le ore di lavoro erano più flessibili rispetto alla normativa pre-esistente, ora si ha la possibilità di superare le 35 ore settimanali e di prevedere giornate lavorative più lunghe, nei termini da contrattare a livello aziendale. La retribuzione di base tendenzialmente rimarrà stabile, mentre la retribuzione degli straordinari sarà svincolata dagli accordi collettivi nazionali e dipenderà quindi da accordi aziendali. Gli straordinari precedentemente erano pagati con un più 25% dello stipendio normale nelle prime 8 ore e con un più 50% per le successive; ora potranno essere rinegoziate fino ad un minimo del 10% e il loro pagamento potrà essere dilazionato su tre anni.

Contrattazione aziendale e contratti Viene introdotta la priorità della contrattazione aziendale/locale su quella di settore a livello nazionale in diversi ambiti, come il tempo di lavoro e la remunerazione. I contratti a tempo indeterminato e determinato vengono riformati: si cerca di rendere il CDD più tutelato, riducendo leggermente i vantaggi percepiti dopo parecchi anni di anzianità dai CDI, incentivando così l’assunzione e la conversione in CDI. Vengono formalizzati i contratti di “préservation de l’emploi” (riduzione ore di lavoro e di stipendio) da concordare a livello aziendale, con l’approvazione della maggioranza dei lavoratori tramite votazione. Per essere applicabili e sostituire quindi i contratti originari, la situazione economica aziendale deve essere compromessa. Se approvato dalla maggioranza, il singolo lavoratore può rifiutare il contratto e verrà licenziato per motivazioni economiche, con relativo indennizzo.

Nuovi diritti per il lavoratore Al fine di riconoscere l’importanza della funzione sindacale in azienda ed in relazione alle nuove disposizioni/obblighi in materia di contrattazione aziendale, vengono aumentate del 20% le ore di permesso per i delegati sindacali di ogni fascia.

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Si introduce, per il lavoratore, il diritto alla “déconnexion”: l’azienda non può chiedergli di svolgere attività lavorativa fuori dall’orario d’ufficio, se non esplicitamente previsto nel contratto. Viene istituito il CPA (Compte Personnel d’Activité), che incorpora il diritto alla prevenzione da lavoro usurante e il diritto alla formazione, a cui si aggiunge la registrazione delle attività svolte con relative skills acquisite e le agevolazioni/contributi maturati a cui si ha diritto. Questo “conto personale delle attività” viene mantenuto lungo la carriera professionale e comprende anche le ore di formazione/aggiornamento professionale maturate, assieme ad i “punti” assegnati per lo svolgimento di lavori usuranti. L’applicazione del CPA, se da un lato sarà una semplice questione burocratica – si tratta di rinominare strumenti preesistenti – dall’altra potrebbe rivelarsi complessa: in fase di cambiamenti di lavoro, ad esempio, il nuovo datore di lavoro non vorrà/potrà garantire i livelli salariali ed agevolazioni maturate dal lavoratore nella precedente attività. I decreti applicativi determineranno l’attuabilità di questa norma.

Gli effetti Le riforme del mercato del lavoro possono avere riscontrabili effetti positivi sulla produzione e sull’occupazione nel medio periodo, mentre nel breve il loro impatto appare strettamente connesso alla tipologia della riforma ed al ciclo economico. L’introduzione di questa riforma andrà ad incidere su due delle diverse cause dell’elevato tasso di disoccupazione strutturale: la rigidità dei salari, per via del superamento delle 35 ore, e la presenza di CDD, in seguito alle modifiche delle norme riguardanti i contratti. Le prime simulazioni della Loi Travail (Worksim model) mostrano che l’impatto sulla disoccupazione totale sarà limitato. Tuttavia, avrà un’incidenza maggiore sulla disoccupazione giovanile e incoraggerà l’utilizzo di CDI, stabilizzando le posizioni di molti lavoratori. Da queste prime analisi sembrerebbe quindi che il mercato del lavoro francese beneficerà del processo riformatore.

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Il contesto italiano: un confronto Nel dibattito politico italiano, la Loi Travail è stata spesso identificata come il Jobs Act francese, associandola quindi al processo riformatore messo in atto dall’ex premier Matteo Renzi. In effetti, l’iter delle due riforme è simile: entrambe sono un’idea portata avanti dall’ala riformista del centrosinistra, hanno causato diverse spaccature nella maggioranza, sono state approvate con l’appoggio di parte della destra ed hanno portato ad un irrigidimento del rapporto tra il Governo ed i sindacati. Oltre al modo con cui sono state introdotte, vi sono diversi punti in comune anche sul fronte dei contenuti, per esempio riguardo la diminuzione della difficoltà di licenziamento per motivi economici. Un grande obiettivo del Jobs Act, poi, era quello di ridurre il dualismo presente sul mercato del lavoro, favorendo l’adozione del contratto a tempo indeterminato (a tutele crescenti) per i neoassunti, in maniera da aumentare la stabilità dell’impiego e incentivare le aziende ad investire su nuovi dipendenti. Anche qui è possibile individuare un tratto in comune con la riforma francese, che ha tra i suoi obiettivi propri l’incentivo ad un maggior utilizzo dei CDI riformati. La riforma degli ammortizzatori sociali è stata invece una caratteristica della sola legge italiana: la controparte francese non ha introdotto grandi modifiche in tal senso. La Loi Travail, d’altro canto, è invece intervenuta sulla contrattazione, aspetto non interessato dal Jobs Act. Se è quindi vero che le somiglianze esistono, è altrettanto vero che le due leggi presentano differenze rilevanti.

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Fonti Commissione Europea, Winter 2017 Economic Forecast – France International Monetary Fund Country Report No. 16/228 International Monetary Fund Working Paper 16/7, From Containment to Rationalization: Increasing Public Expenditure Efficiency in France International Monetary Fund, World Economic Outlook, April 2016 Goudet, Kant and Ballot, ”WorkSim - a calibrated agent-based model of the labor market accounting for workers’ stocks and gross flows” Texte adopté n° 807, session extraordinaire de 2015-2016, April 21, 2016 Gouvernement.fr, sezione Loi Travail Camera dei Deputati, temi dell’attività parlamentare, Commissione Lavoro Ce que contient la Loi Travail, Le Monde, 2016 France: les pour et les contre la Loi El Khomri, RFI Economie, 2016 Insee - National Institute of Statistics and Economic Studies France Stratégie, note d’analyse n°30

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Una panoramica generale La Spagna è forse il Paese che più di altri in Europa ha attirato l’attenzione della cronaca italiana per la sua capacità di riprendersi da una crisi economica che l’ha vessata in maniera repentina e profonda. Difatti, insieme alla Grecia, il Paese iberico è probabilmente quello che nell’Eurozona ha patito le maggiori sofferenze, principalmente a causa di un’economia fortemente polarizzata e con evidenti carenze strutturali. Inoltre, lo scoppio di una importante bolla immobiliare ha aggravato la situazione determinando gravi conseguenze sul settore bancario. A questi elementi economici si affianca poi una situazione politica particolare: la democrazia spagnola è infatti rimasta orfana per oltre dieci mesi di un Governo, fino a quando, il 29 Ottobre 2016, il conservatore Mariano Rajoy ha ottenuto la fiducia del Parlamento grazie all’appoggio dei liberali di Ciudadanos e all’astensione dei socialisti del Psoe. Il confronto con la situazione italiana è continuo, sia perché i due Paesi sono parte di quel blocco “mediterraneo” considerato da molti, al di sopra delle Alpi, l’anello debole dell’Europa “a più velocità”, sia perché accomunati da continue crisi di Governo – in Spagna accentuate dalla spinosa questione catalana – che minano la fiducia necessaria per costruire un clima sereno nelle istituzioni europee e nella grande casa del mercato globale. Ma ciò che davvero salta all’occhio anche dell’osservatore meno avvezzo a questo tipo di cronache, è stata la “reattività” con cui la ricetta spagnola ha sembrato dare i suoi frutti. Questo tuttavia non ci deve indurre nell’errore di attribuire al processo riformatore tutti i meriti dei recenti miglioramenti: si tratterebbe difatti di un’inferenza eccessivamente frettolosa, che non terrebbe conto delle sfaccettature e delle ‘pieghe’ che una riforma del lavoro possiede una volta che prende vita nel tessuto sociale. Una delle componenti fondamentali di questo piccolo “miracolo” spagnolo è sicuramente la riforma del mercato del lavoro, la cui importanza, oltre che contenutistica, risiede nel contesto storico in cui essa va collocata, e che pertanto non può essere ignorato. L’incidenza e spesso la riuscita a lungo termine di una riforma del lavoro, oltre che da fattori economici, dipende infatti soprattutto da dinamiche esterne alla riforma stessa, quali la sua

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applicazione all’interno del quadro giuridico e amministrativo dello Stato e la sua articolazione in riferimento alle singole dinamiche locali. Il mercato del lavoro spagnolo contiene elementi peculiari che lo contraddistinguono rispetto a mercati più omogenei come quello tedesco. Prima della crisi il settore edilizio, per esempio, esercitava un peso maggiore, se non eccessivo, rispetto agli altri settori produttivi (questo sbilanciamento fu uno dei maggiori fattori dell’acuirsi della crisi a partire dal 2008); inoltre, il Paese vanta sia un debito pubblico notoriamente più basso rispetto a quello italiano (99,2% nel 2015), che un tasso di inflazione al 3% (dato di gennaio 2017). E quest’ultimo dato, in un periodo di generica stagnazione o comunque di lentissima risalita dell’inflazione a livello europeo, costituisce un unicum più che una rarità.

Il quadro storico A fronte di questa panoramica, un discorso a parte merita lo sviluppo storico del “sistema lavoro” spagnolo, sviluppatosi in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, nell’immediato post-franchismo. Questa dinamica temporale ha comportato il perdurare di una forte impronta statalista, con un rigido inquadramento legislativo ed un pressante intervento della Pubblica Amministrazione nella regolamentazione dei rapporti di lavoro individuali e collettivi. Questa prima fase di centralizzazione, di poco diversa rispetto alla precedente esperienza fascista, è stata abbandonata negli anni seguenti, quando l’intero assetto giurisprudenziale spagnolo ha goduto di una positiva osmosi con gli altri sistemi

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europei, compreso quello italiano. In questa cornice, nel 1980, nasce un primo testo che possa definirsi compiutamente organico rispetto ad un’apertura in materia di diritti di lavoro, contrattazione collettiva ed organizzazione sindacale: l’Estatuto de los Trabajadores – l’equivalente linguistico del nostro Statuto dei Lavoratori. Tuttavia, la Pubblica Amministrazione ha continuato a mantenere una funzione direttiva rispetto al funzionamento della contrattazione delle dinamiche sindacali, e nel tempo ciò ha determinato un irrigidimento eccessivo del sistema e la necessità di rivederlo correggendone le più pressanti distorsioni.

Criticità del mercato del lavoro Il mercato del lavoro spagnolo è stato da sempre oggetto di numerosi richiami da parte degli organismi internazionali per la sua rigidità e per la discrasia riguardante le regole di tutela di numerosi gruppi di lavoratori: come mostra l’OECD, gli indicatori che riguardano il grado di “protezione legale” (fattore che è considerato come determinante in termini di rigidità) del mercato del lavoro spagnolo sono fra i più alti d’Europa, insieme con quelli italiani.

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Il dato non va confuso però con la marcata volatilità che caratterizza questo mercato del lavoro, dovuta principalmente, come prima accennato, al peso eccessivo esercitato dal settore delle costruzioni nel comparto produttivo. Ciò comporta, come prima conseguenza, il fatto che il mercato del lavoro conosca un incremento molto forte degli occupati nei periodi di maggiore espansione economica – anche superiore ad economie storicamente più solide da questo punto di vista – ed un picco negativo altrettanto significativo nei periodi di contrazione. Ecco perché la rigidità del mercato è stata usata, storicamente, per compensare il crollo degli occupati nei periodi di crisi: si è cercato di tutelare quanto più i posti di lavoro già esistenti. Questo fenomeno emerge dai dati relativi alle oscillazioni riguardanti l’occupazione e la disoccupazione, dagli albori della crisi fino al 2013, prima che la riforma del mercato del lavoro di Rajoy producesse i suoi primi frutti (Fig.12.3). Si passa così da un tasso di disoccupazione dell’8% all’inizio della crisi ad un picco del 27,1% nel 2013, con un’incidenza più marcata fra donne e giovani con bassa scolarizzazione (55%). L’occupazione crolla del 16,3% in cinque anni, tre volte il calo del PIL, ampliando di molto la forbice sociale. Le misure adottate, con il primo decreto legge del 2011 e con la riforma Rajoy del 2012, sono state ispirate dal principio, comunemente usato come indicazione orientativa dalle istituzioni europee, della flexicurity: combinare una maggiore facilità di assunzione e di licenziamento, per il datore di lavoro, con consistenti ammortizzatori sociali per i lavoratori dipendenti.

L’impatto della crisi economica e la necessità di un ripensamento generale del mercato del lavoro La crisi economica in Spagna e la seguente imposizione di misure correttive da parte dell’Unione Europea hanno contribuito, e non marginalmente, all’indebolimento progressivo delle forze sindacali, il cui riflesso pratico più evidente è stato il blocco delle dinamiche salariali rispetto ai livelli d’inflazione che, a partire dal

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2012, hanno subito un costante, anche se più graduale, indebolimento. È evidente, già da allora ma soprattutto a posteriori, come la direzione presa dal Governo a partire dal biennio 2011/2012 fosse orientata ad una maggiore flessibilità, in linea con le indicazioni espresse dalle istituzioni europee e dalla stessa Banca Centrale Spagnola. Un primo intervento di rilievo è stata la riduzione a un anno del periodo di ultrattività dei contratti collettivi (ovvero di quel principio secondo cui il lavoratore ha diritto a beneficiare del trattamento acquisito in caso di mancato rinnovo alla scadenza contrattuale). Questo principio era parte integrante della tradizione sindacale spagnola, da noi già superato dopo la fine del regime fascista e del periodo corporativo. Come primo effetto, la misura ha comportato una riduzione del tasso di copertura dei contratti nazionali e il conseguente decentramento contrattuale: ad oggi, nella gran parte delle piccole imprese spagnole, il sindacato non è presente o, comunque, non è chiamato a prender parte attiva nelle contrattazioni aziendali. Un altro importante intervento, previsto prima dal Governo socialista di Zapatero (real decreto-ley n.7/2011) e poi perfezionato dal primo Governo Rajoy (real decreto-ley n. 3/2012) fu il tentativo di superare il tradizionale principio del favore, da sempre cardine della gerarchia contrattuale, secondo cui le condizioni negoziate a livello nazionale – specie in materia salariale – potevano essere modificate a livello locale soltanto in presenza di migliorie per il lavoratore, con l’intento di impedire quindi qualsiasi compromesso al ribasso. È comunque importante notare una singola ma marcata differenza fra la misura adottata nel 2011 e quella dell’anno successivo: se il decreto legge del 2011 permetteva alle parti sociali, a livello nazionale, di stipulare accordi che avessero la priorità rispetto a quelli concordati a livello decentrato, nel 2012 si decise di premiare la contrattazione aziendale, permettendo inoltre alle imprese di svincolarsi dalla contrattazione nazionale (optout) qualora avessero registrato un periodo di contrazione dei profitti per 6 mesi consecutivi. Le seguenti critiche ed azioni intraprese dalle parti sociali non sono mai state accolte dalla Corte

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Costituzionale iberica, che ha invece confermato la legittimità delle misure.

L’evoluzione del mercato del lavoro: uno sguardo nel dettaglio Più nel dettaglio, le prime novità sostanziali nella legislazione del lavoro spagnolo post crisi risalgono al 2010, quando furono introdotte misure all’insegna della flessibilità e della riduzione dei costi di fine rapporto da parte del governo socialista di José Luis Zapatero. La riduzione dei costi fu avviata con l’accorciamento del periodo di preavviso da un mese a due settimane (real decreto-ley n.10/2010) e con la diminuzione progressiva dell’indennità di fine rapporto per i contratti temporanei, calcolata in base alla durata e che, ad oggi, è di 12 giorni per anno di sevizio. Quanto ai contratti a tempo indeterminato, la normativa spagnola non ha mai avuto un equivalente del nostro “articolo 18”, riconoscendo l’indennità solo nei casi di licenziamenti discriminatori. Per questi motivi, le riforme spagnole si sono concentrate maggiormente sul costo del licenziamento. Che sia individuale o collettivo, in caso di licenziamento è prevista un’indennità che va da un minimo di 20 giorni di salario per anno di servizio ad un massimo di 12 mesi. In caso di licenziamento ingiustificato, l’indennità massima varia tra i 33 giorni e i 24 mesi per anno di servizio. Aumenta, inoltre, la possibilità di ricorso al lavoro interinale, ma viene mantenuto, almeno fino alla prima riforma del 2011, l’intervento autorizzativo dell’ispettorato del lavoro nel caso di licenziamenti collettivi (poi del tutto abolito dalla riforma del Partito Popolare del 2012). Nella stessa direzione si muove l’intervento del legislatore volto a sfoltire la matassa delle motivazioni necessarie per procedere ai licenziamenti collettivi e la progressiva riduzione delle indennità nei casi dei suddetti licenziamenti, quando essi siano stati eseguiti prescindendo dall’iter legale, con una riduzione stimata intorno al 27%.

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La riforma del 2012 Flessibilità Con il decreto legge del 2012, oltre alla già citata introduzione della possibilità per le aziende di svincolarsi dalla contrattazione nazionale, furono adottate nuove misure volte ad incrementare la flessibilità interna, con l’intento di limitare gli esuberi. La flessibilità toccò soprattutto la gestione delle ore lavorative, introducendo la possibilità, da parte del datore di lavoro, di distribuire le ore lavorative e quelle non, a seconda delle sue esigenze, durante tutto l’arco dell’anno, sia per i contratti full-time che part-time. Il modello a cui Rajoy dichiarò di ispirarsi era quello del Kurzarbeit tedesco ma, in mancanza di un capillare sistema di ammortizzatori sociali come quello, in Spagna si è assistito, almeno nell’immediato, ad una riduzione del periodo fruibile di disoccupazione, con conseguente calo del tasso di copertura della tutela in caso di perdita del lavoro stimato intorno al 25%. In termini assoluti, oltre 3 milioni di inoccupati si ritrovarono senza indennità di disoccupazione. Ma, nonostante ciò, questo aspetto della riforma fu giudicato complessivamente positivo dalle istituzioni spagnole e internazionali, poiché rientrava nell’ottica di fornire alle aziende uno strumento in più per fronteggiare eventuali shock esterni, variando il modo in cui il personale viene impiegato piuttosto che ricorrere alla riduzione della manodopera. Le stesse valutazioni attribuiscono inoltre principalmente a questo tipo di misure i segnali di ripresa, non solo in termini di occupazione ma anche di produttività, dell’intero comparto produttivo spagnolo. Il PIL nel 2015 è cresciuto del 3,2%, la disoccupazione si è attestata al 20,9%, mentre nel 2016 il PIL ha sostenuto un ritmo di crescita sempre intorno al 3,3% con la disoccupazione scesa al 18,6%.

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Dualismo del mercato del lavoro L’obiettivo dichiarato da Rajoy nel presentare la riforma del 2012 era quello di eliminare il dualismo del mercato del lavoro, da sempre caratteristica saliente del sistema lavorativo del Paese iberico. Il legislatore decise così di intervenire anche sul fronte dell’impiego a tempo indeterminato. Il nuovo contratto (contrato de apoyo a emprendedores) ha una portata più circoscritta del nostro contratto a tutele crescenti, perché riservato ad imprese con meno di 50 dipendenti. Questo tipo di contratto si differenzia da quello ordinario per il periodo di prova allungato di un anno, con l’intento di dare al datore di lavoro più tempo per capire quale figura professionale stabilizzare. Il tutto è stato accompagnato da poderose agevolazioni fiscali e contributive. La riforma del 2011 andò a toccare, inoltre, un’altra area molto delicata del mercato del lavoro spagnolo: il lavoro parasubordinato; in particolare quelle forme caratterizzate da debolezze contrattuali che spesso le fanno sembrare, a tutti gli effetti, situazioni di lavoro dipendente. La ley n. 36/2011 introduceva una rigida regolamentazione di questa tipologia lavorativa, che da un lato viene fatta rientrare nell’alveo del lavoro autonomo, ma dall’altro è coperta da una serie di tutele simili a quelle storicamente proprie del lavoro subordinato.

Gli strumenti per l’impiego Uno degli aspetti solitamente meno analizzati delle riforme del mercato è quello riguardante le misure che vengono adottate per favorire, promuovere e regolamentare l’inserimento nel mercato del lavoro stesso. In Spagna, su questo fronte, si è cercato di venire incontro alle direttive europee in materia di sicurezza del lavoro e impiegabilità della manodopera disponibile. Il proposito del legislatore spagnolo è stato principalmente quello di promuovere l’inserimento dei disoccupati nel mercato del lavoro o, comunque, favorire la loro ricollocazione. A questo scopo il real decreto-ley del 2012 ha previsto un piano annuale di

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politiche per l’occupazione che impegnasse le amministrazioni a livello centrale e locale. L’idea fu quella di vincolare i finanziamenti delle attività alle performance in termini di risultati raccolti. Furono per questo previste forme di collaborazione fra agenzie pubbliche per l’impiego e strutture private (che da allora sono cresciute di numero in maniera esponenziale). Sul risultato di questa politica, numerosi sono stati i pareri scettici sia nel Paese iberico, sia da parte di istituzioni internazionali. In particolare, l’OECD rileva la scarsa disponibilità di forza lavoro e di finanziamenti previsti per i centri del pubblico impiego, che si sono quindi ritrovati a dover fronteggiare un gran numero di domande senza l’adeguata preparazione e strumentazione consona. A ciò si aggiunga che i livelli di espletamento di questo servizio sono molto eterogenei nelle varie regioni, a seconda del tasso di densità della popolazione e di distribuzione della ricchezza sul territorio. Ad ogni modo, prescindendo da queste criticità, particolare attenzione fu posta sulla ricollocazione dei lavoratori in esubero: le aziende che avrebbero previsto più di 50 licenziamenti al loro interno, avrebbero dovuto anche redigere un piano di ricollocazione delle unità ”liberate”, comprensivo delle spese di formazione e delle misure necessarie per favorirne il reinserimento.

Formazione e occupazione giovanile Un dato interessante è quello che riguarda proprio l’importanza che la riforma spagnola riserva alla formazione del lavoratore come strumento per favorirne l’inserimento nel mercato e, a lungo termine, migliorare anche la competitività delle imprese (soprattutto, ricordiamo, il tessuto maggioritario delle piccole e medie). La maggiore novità riguarda il fatto che gli enti di formazione pubblici sono messi in competizione fra di loro nell’ottica di favorire una migliore gestione delle risorse pubbliche a loro destinate. I risultati ottenuti sembrano dare ragione al legislatore: come rileva il Ministero del Lavoro spagnolo, le gare sono raddoppiate, quintuplicate nel caso della formazione giovanile, mentre il costo orario delle prestazioni è calato del 27%.

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Stessa considerazione positiva è riservata alla riforma dell’apprendistato, il cui ricorso è aumentato del 22% a seguito dell’azzeramento dei contributi sociali nel primo anno di applicazione della legge, e addirittura del 64% nella prima metà del 2013. Più pacate le considerazioni dell’OECD, il quale sottolinea che resta troppo alto rispetto alla media europea il livello di bassa scolarizzazione dei disoccupati. A fronte di un intervento che, almeno in prima istanza, è risultato positivo sul fronte della formazione, meno incoraggiante è il quadro concernente l’occupazione giovanile. C’è da premettere, comunque, che il governo spagnolo ha dato grande importanza al programma europeo Youth Guarantee, con numerose misure tra cui, per incidenza e portata, ne spiccano due: la riduzione fino al 100% dei contributi sociali per aziende che assumono giovani disoccupati e una forte riduzione contributiva per i giovani che decidono di lavorare in proprio o, a loro volta, di aprire un’attività.

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Fonti J. Cruz Villalòn, Mercado de trabajo y reformas de la legislacion laboral en España, 2015. OECD, Economic Surveys. Spain, 2014. Panzeri, A e Di Nardo, F. Nuovi lavori, flexicuruty e rappresentanza politica, Jaca Book, Milano, 2008. V. Gòmez, Spain. Growth with jobs. Studies on growth with equity, 2014. V. Gòmez, El legado de la reforma laboral de 2012. Una perspectiva economica, 2015.


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L’Unione europea e il diritto del lavoro: un inquadramento Definire i diritti e i doveri dei lavoratori è obiettivo dell’UE sin dalla sua nascita. È chiaro, infatti, che nel momento in cui gli Stati espressero la volontà di creare un mercato unico attraverso l’eliminazione delle barriere esistenti per lasciare che beni, capitali, servizi e lavoratori potessero circolare liberamente al suo interno, il diritto del lavoro sia da subito risultato uno dei pilastri fondamentali di tale processo. Se guardiamo al Trattato di Lisbona ora in vigore, nel Preambolo del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”) gli Stati membri dichiarano esplicitamente di assegnare “ai loro sforzi per scopo essenziale il miglioramento costante delle condizioni di vita e di occupazione dei loro popoli”, al fine di assicurare mediante un’azione comune il progresso economico e sociale dei loro Stati stessi. Il garantire la libera circolazione dei lavoratori è forse da sempre una delle più grandi sfide se paragonata alle altre libertà fondamentali, in quanto vigeva (e vige per molti aspetti ancora oggi) una profonda differenza nella tutela dei lavoratori tra gli Stati Membri. La sfida è poi diventata ancora più grande quando, negli anni ’90, l’Unione Europea ha accolto quel blocco di Stati facenti parte dell’ex Unione Sovietica. Lo sforzo costante che l’UE sta continuando a compiere è quello di dettare, proprio alla luce di contesti nazionali così diversi, principi comuni che non solo vengano applicati uniformemente, ma che allo stesso tempo innalzino i livelli di tutela e mantengano le economie europee competitive. Questo obiettivo viene definito come “armonizzazione”. La base normativa attraverso cui l’UE esercita la sua competenza in materia si trova nell’articolo 153 TFEU, il quale stabilisce che l’Unione completa e sostiene l’azione degli Stati Membri in due particolari ambiti, attraverso l’attribuzione di una competenza concorrente: da una parte condizioni di lavoro e impiego, dall’altra informazione e consultazione dei lavoratori. Lo strumento giuridico disposto a tal fine è la direttiva, la quale pone degli obblighi nei confronti degli Stati, che sono infatti giuridicamente tenuti a recepire questi requisiti nei loro diritti interni, restando però liberi di stabilire livelli di tutela più elevati. Questo per quanto concerne la cosiddetta “hard law”, cioè il ricorso a strumenti giuridici vincolanti. Essi, se pur estrema-

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mente importanti, sono stati però da sempre ritenuti insufficienti per realizzare in maniera efficiente gli obiettivi di cui sopra. In particolare, la diversità estrema di modelli a livello nazionale ha da sempre spinto l’UE a non limitarsi solo a questo piano, ma ad adottare in aggiunta un approccio “integrativo” ai problemi della crescita e qualità dell’occupazione. L’UE ha quindi sostanzialmente cercato di superare questo suo limite intrinseco attraverso il coinvolgimento diretto delle parti sociali. La conciliazione tra obiettivi diversi e in qualche modo contrastanti è avvenuta su un piano di soft law, inteso come un sistema di linee guida proposte dalla Commissione ed approvate dal Consiglio europeo, Piani nazionali di azione e rapporti successivi di valutazione e raccomandazioni della Commissione. In questa cornice, la Strategia di Lisbona ha stabilito il cosiddetto metodo aperto di coordinamento al fine di garantire la “flexicurity”, la quale sarà oggetto di trattazione del prossimo paragrafo.

La strategia di Lisbona tra flessibilità e sicurezza del mercato del lavoro: il modello della flexicurity La necessità di riformare il mercato del lavoro non è di certo nata con la crisi del 2009. Già a partire dagli anni ’90, infatti, i mercati del lavoro nazionali attraversavano una profonda crisi come conseguenza degli importanti cambiamenti economici, sociali e finanziari determinati dalla globalizzazione dei mercati e dalle innovazioni tecnologiche. Ciò che la più recente crisi ha reso evidente è stata la necessità impellente di porre in atto alcune riforme. A livello di UE, alla fine degli anni ’90, una volta intrapreso l’ambizioso progetto di un’Unione economica e monetaria con il Trattato di Maastricht, fu evidente che il rigore fiscale che era stato imposto al fine di introdurre l’euro come moneta unica non poteva andare a discapito della crescita economica. In aggiunta, la globalizzazione che si imponeva già allora a livello mondiale spinse l’Unione a porsi obiettivi più ambiziosi sul piano sociale. Nel 2000 si decise allora di procedere su un piano di coordinamento delle politiche degli Stati membri lanciando la cosiddetta “Strategia di Lisbona”. Tale strategia era finalizzata a creare i presupposti affinché l’Unione Europea potesse diventare, entro il 2020, l’area più competitiva del Mondo. In questa prospettiva nacque l’obiettivo di sostenere l’occupazione, le riforme economiche e i riequilibri di bilancio.

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Il metodo che venne scelto per perseguirli fu il “metodo aperto di coordinamento”. Questo implica un processo decisionale volto alla cooperazione tra i Paesi europei le cui politiche nazionali possono essere indirizzate verso obiettivi comuni. In tal senso si parte dagli obiettivi e, procedendo a ritroso, vengono individuati i problemi e selezionate le possibili soluzioni, garantendo la partecipazione degli attori coinvolti. In questa cornice, l’UE facilita il coordinamento e l’apprendimento reciproco tra i vari Stati membri, senza alcun tentativo formale di controllare l’applicazione da parte dei Governi dei principi generali e degli obiettivi definiti congiuntamente a livello europeo. Da un punto di vista pratico, l’applicazione del metodo si concretizza attraverso tre tipi di azioni. La prima definisce le linee guida a livello europeo con tabelle di marcia in grado di definire le tempistiche a disposizione dei Paesi membri per raggiungere gli obiettivi; la seconda definisce in ambito UE i livelli qualitativi e quantitativi e i benchmark, calibrati sulle migliori performance mondiali e adattati alle diverse necessità degli Stati Membri; infine ricopre un’importanza chiave il monitoraggio e la valutazione delle politiche nazionali rispetto ai benchmark unitariamente definiti e il comparare i diversi contesti nazionali stabilendo “buone prassi”, con l’obbligo degli Stati di redigere report in modo da condividere il proprio processo di implementazione. L’aspetto cruciale della strategia, in particolare in materia di occupazione, è che gli obiettivi di flessibilità e sicurezza non vengono considerati in contraddizione, ma complementari, e l’obiettivo degli Stati non è dunque ritenuto quello di trovare il giusto trade-off tra questi diversi obiettivi, ma, al contrario, quello di perseguire contemporaneamente la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza dei lavoratori. Il Consiglio europeo di Lisbona decise di agire su un piano di soft law quale strumento ormai privilegiato del moderno ius mercatorum, dotato di regole a vocazione universalistica ma con un alto grado di specialità. Il termine per raggiungere questi obiettivi era il 2010. Tuttavia, in fase di applicazione, la Strategia incontrò numerose difficoltà: i principi e gli obiettivi risultavano troppo generici e i mezzi per realizzarli poco adeguati. L’ambizione era stata troppo grande, in particolare alla luce delle differenze tra i blocchi di paesi dell’Ovest e quelli dell’Est. Già nel 2005 se ne

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dovette quindi dichiarare il fallimento. Gli Stati provvidero allora ad un rilancio contenente una nuova riformulazione del progetto, alla luce di due prospettive: la crescita economica e l’occupazione. Vennero presi in considerazione aspetti più marcatamente sociali e non solo economici, e le procedure stabilite furono più graduali e volte ad una maggiore azione sul piano nazionale più che su quello sovranazionale.

La nuova strategia di “Europa 2020” La fase conclusiva della strategia di Lisbona coincise con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009 e con la crisi finanziaria. Si rese a quel punto ancora più necessario, se non indispensabile, il coordinamento tra politiche nazionali per fronteggiare la crisi e per poter gestire, in una seconda fase, il ritiro delle misure straordinarie senza compromettere la ripresa economica. Si posero quindi le premesse per costruire una prospettiva per il dopo Lisbona, che prese il nome di “Europa 2020”. La crisi aveva messo in luce problematiche che non potevano essere ignorate, prima fra tutte l’allarmante ripercussione che la bassa crescita aveva avuto sulle condizioni dei giovani nel mercato del lavoro. Con la nuova strategia si posero maggiori obiettivi di breve e medio termine per rispondere alla grave crisi, piuttosto che guardare, come era stato con Lisbona, a obiettivi troppo lontani nel tempo e in molti casi eccessivamente astratti. “Europa 2020” tiene così maggiormente conto del principio di differenziazione, garantendo un maggiore coinvolgimento delle Regioni, in un contesto in cui ogni Stato è chiamato ad attuare politiche e riforme che rispecchino la propria condizione e il relativo livello di ambizione. La crescita ne è il principale pilastro sotto tre aspetti: una crescita intelligente basata su conoscenza e innovazione, una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale ed energetico, ed infine, la più rilevante ai fini della nostra trattazione, una crescita inclusiva attraverso la promozione di un’economia con un alto tasso di occupazione, in grado di favorire la coesione sociale e territoriale. Al fine di raggiungere questi obiettivi vengono definiti indicatori concreti che stabiliscono traguardi nazionali che gli Stati sono chiamati a raggiungere sulla base delle loro situazioni di partenza: tra questi, per esempio, l’importante obiettivo che il 75% delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni abbia un lavoro.

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Ciò che occorre sottolineare, alla luce del susseguirsi delle diverse strategie, è il fatto che non si è mai abbandonato il principio secondo cui aumentare la flessibilità del lavoro sia la miglior ricetta per migliorare la performance del mercato. In particolare, la serie di interventi proposta è molto ampia in quanto coinvolge gli orari, i salari, i costi del lavoro, la riduzione dei “costi di licenziamento” attraverso una deregolamentazione del mercato del lavoro, il rafforzamento delle politiche attive del lavoro grazie alla trasformazione dei servizi per l’impiego, la riforma dei sussidi di disoccupazione e il miglioramento delle competenze delle persone in cerca di lavoro. Ancora nel 2010 la Commissione ha reiterato la considerazione che le politiche di flexicurity sono il miglior strumento per modernizzare il mercato del lavoro; occorre certamente rivisitarle ed adattarle ad un contesto post-crisi e agire in maniera più incisiva sul piano delle riforme, ridurre la frammentazione del mercato, l’eguaglianza di genere e rendere vantaggioso il passaggio. Da questa affermazione è nata l’idea, perseguita negli Stati membri, che riformare il mercato del lavoro risulti la migliore risposta alla crisi.

L’attuazione nei diversi Stati membri: uno sguardo ai diversi contesti nazionali Prima di analizzare il nostro contesto nazionale alla luce dei principi e dei meccanismi considerati finora, è necessario analizzare brevemente come i diversi Stati Membri abbiano recepito, adottato e attuato questi principi e linee guida di natura sovranazionale. La prima considerazione è che il miglioramento nei mercati del lavoro è risultato, a livello europeo, fortemente disomogeneo. Alcuni Stati sono infatti riusciti, a discapito della crisi, a ritornare ai livelli di occupazione precedenti: si tratta di Germania, Svezia e Regno Unito. Altri hanno attuato profonde riforme strutturali dei loro mercati del lavoro, ma continuano a dover fronteggiare una elevata disoccupazione a lungo termine. Si tratta in particolare dei paesi del sud Europa quali Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Il resto degli Stati Membri si trova in una situazione intermedia tra i due opposti. Occorre sottolineare che, al momento dello scoppio della crisi, due risultavano i problemi condivisi in tutti gli Stati

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membri: la disoccupazione giovanile e la crescita della disoccupazione a lungo termine. Nel sud Europa la crisi ha poi comportato l’esplosione delle forme contrattuali atipiche. In Italia ciò è avvenuto attraverso il ricorso a forme di lavoro cosiddetto para subordinato – al fine di mascherare rapporti di lavoro che invece sono piuttosto stabili – e a forme di lavoro part-time. Le riforme attuate in Europa si sono mosse su tre principali fronti: quello delle politiche attive del lavoro, una maggiore protezione dei lavoratori sul piano giuridico e misure rivolte alla disoccupazione. Il trend che è possibile riconoscere è tuttavia rivolto ad una riduzione delle garanzie previste in materia contrattualistica, in particolare per quanto riguarda i mezzi di ricorso contro il licenziamento. Molti Stati, come Spagna, Italia e Regno Unito, hanno riformato la disciplina del licenziamento (sia individuale che collettivo) limitando il diritto alla riassunzione in caso di licenziamento illegittimo e riformulando la disciplina della compensazione. Un forte incentivo è stato inoltre dato per il ricorso a mezzi extragiudiziali di risoluzione delle controversie in materia giuslavoristica. Sul piano delle misure rivolte alla disoccupazione, tutti gli Stati hanno attuato misure incentivanti l’assunzione di lavoratori a tempo indeterminato, in modo da sfavorire il ricorso abusivo delle forme contrattuali atipiche, come i mini jobs in Germania e i contratti a zero ore in Inghilterra. Portogallo e Irlanda hanno per esempio introdotto o riformato la disciplina del salario minimo, altri sono intervenuti sul piano di incentivi fiscali concessi ai datori di lavoro che assumono con contratti a tempo indeterminato o attuano il passaggio del lavoratore dalla forma contrattuale atipica a quella permanente, come in Italia, Svezia e Spagna.

Il Jobs Act in un’ottica europea In Italia la realizzazione del modello della flexicurity si è sostanziato in interventi contro la disoccupazione e nell’incremento degli elementi di sicurezza come la protezione sociale. Con il Jobs Act si è chiaramente espressa la volontà di eliminare, attraverso l’introduzione del contratto unico a tutele crescenti, la varietà di forme contrattuali flessibili che hanno causato precarietà, ma si sono allo stesso tempo diminuire le tutele nei confronti dei la-

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voratori. Il governo Renzi ha dichiarato la riforma come uno dei pilastri della sua azione contro la crisi. Nei primi tre anni si prevede la possibilità di interruzione del rapporto di lavoro secondo tutele diverse rispetto alla normativa vigente. Sul piano contributivo, il contratto unico offre nei primi tre anni contributi e diritti inferiori rispetto al contratto a tempo indeterminato. Alla luce di queste considerazioni, il Jobs Act si presenta certamente come il primo tentativo concreto di recepimento a livello nazionale del modello europeo della flexicurity dopo una lunga discussione iniziata negli anni ’90. La flessibilità del lavoro in entrata sembra essere il pilastro di questo recente intervento legislativo. Quella in uscita infatti lo era già stata nella precedente riforma del 2012. Va tuttavia evidenziato che l’Italia si è discostata da altri paesi europei che sì hanno agito sul piano della flessibilità in entrata e in uscita, ma hanno bilanciato con maggior forza attraverso l’altro obiettivo chiave del modello, che è la sicurezza dei lavoratori. Molti Paesi che hanno attuato riforme sul modello della flexicurity, come per esempio Danimarca e Svezia, hanno infatti allo stesso tempo stanziato ingenti risorse in spese sociali per l’occupazione e per le politiche del lavoro. In Italia questo fenomeno si è solo parzialmente verificato. Inoltre ad oggi l’Italia costituisce sia uno dei Paesi in cui il lavoro è maggiormente flessibile, sia uno di quelli in cui il livello di disoccupazione rimane particolarmente allarmante, soprattutto per quanto riguarda la disoccupazione giovanile. L’Italia si presenta con un livello estremamente basso di politiche attive e passive. Inutile sottolineare come ciò influisca tanto sui livelli di occupazione, quanto sul piano dei consumi, in un Paese che continua ad avere livelli allarmanti di iniquità nella distribuzione della ricchezza.

Il semestre europeo 2016: le raccomandazioni della Commissione all’Italia In questo ultimo paragrafo, l’analisi viene nuovamente rivolta al contesto sovranazionale. In particolare, l’Unione europea ha

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istituito un ciclo annuale di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri chiamato “semestre europeo”. Questo si incardina nella strategia di Europa 2020 in quanto la Commissione europea ambisce a partecipare e a contribuire al perseguimento degli obiettivi della Strategia. Il semestre europeo si concretizza in una serie di raccomandazioni che riguardano sia la zona euro in generale, che i singoli Stati membri; queste ultime sono basati su report che i governi nazionali inviano alla Commissione, riguardanti le riforme strutturali messe in atto e i piani per il budget. Le raccomandazioni cercano di influenzare lo sviluppo delle politiche nazionali per i successivi 12-18 mesi e evidenziano inoltre le cosiddette best practices. Nel report nazionale per l’anno 2016 inviato dal Governo alla Commissione, l’attuazione del Jobs Act risulta aver prodotto considerevoli risultati positivi sul piano della disoccupazione. Terminata l’implementazione della riforma con l’ultimo decreto attuativo, il Governo dichiara che procederà presto con la riforma delle Politiche Attive del Lavoro e dell’Ispettorato del Lavoro, il quale condurrà i necessari controlli previsti dal diritto del lavoro. Politiche apposite verranno messe in atto per i giovani attraverso il cosiddetto “superbonus”, un particolare incentivo per i datori di lavoro che assumeranno giovani coinvolti in uno stage extracurriculare al termine del contratto di stage. Il Ministro Padoan, firmatario del report, conclude l’analisi dedicata al mercato del lavoro dichiarando che le prossime riforme si concentreranno sui contratti aziendali al fine di rendere la loro implementazione più efficace. Alla luce di questo report inviato dal governo, il 18 maggio 2016 la Commissione europea ha pubblicato le raccomandazioni del Consiglio dell’Unione europea sul programma nazionale di riforma del 2016. All’Italia è stata concessa nel 2015 una misura di deviazione temporanea dal percorso di avvicinamento all’obiettivo di bilancio a medio termine richiesto per tenere conto di significative riforme strutturali con ricadute positive sulla sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche. Nel 2016 l’Italia ha avanzato la medesima richiesta al fine di tenere conto di altre riforme strutturali. Il Consiglio riconosce che, se attuate, queste riforme avranno un impatto positivo sulla sostenibilità delle finanze pubbliche. Tuttavia, alla luce delle previsioni di primavera della Commissione, il Consiglio ritiene che il rischio che l’Italia non ottem-

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peri alle disposizioni del patto di stabilità e crescita è molto alto. Infatti, il Consiglio sottolinea che, nonostante siano in corso iniziative per riformare il quadro di bilancio, finora sono stati realizzati interventi limitati ad assicurare che l’esercizio di revisione della spesa pubblica contribuisca al risanamento di bilancio. Per quanto riguarda il Jobs Act occorre guardare al testo stesso della raccomandazione: “Nel 2015 l’Italia ha riformato in profondità le istituzioni del mercato del lavoro con il cosiddetto “Jobs Act”. Per attivare le persone più distanti dal mercato del lavoro, in particolare disoccupati di lunga durata e giovani, è fondamentale attuare la riforma delle politiche attive del mercato del lavoro. Attualmente l’Italia si trova di fronte a una serie di sfide amministrative, politiche e collegate alle risorse, per superare le quali dovrà, in particolare, potenziare i servizi pubblici per l’impiego e monitorare attentamente l’erogazione del servizio. È stato riformato il sistema dei contratti di apprendistato per estenderlo agli adulti collocati in esubero, ma l’attuazione è ancora in corso. In Italia la contrattazione di secondo livello non è ancora sviluppata a sufficienza: risulta quindi ostacolata l’adozione a livello di impresa di soluzioni innovative in grado di aumentare la produttività e di rapportare meglio la retribuzione alla situazione del mercato del lavoro. In questo settore gli interventi devono essere effettuati in consultazione con le parti sociali e nel rispetto delle prassi nazionali. Le parti sociali non hanno ancora trovato un accordo sulla riforma della contrattazione collettiva. Secondo il programma nazionale di riforma, tale riforma è attesa entro fine 2016. Il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fra i più bassi dell’UE. La presenza femminile è preponderante nei lavori atipici e precari; le donne costituiscono la maggioranza dei lavoratori atipici e sono particolarmente interessate dall’economia informale. L’effetto combinato del sistema tributario e del sistema assistenziale scoraggia dal lavorare le persone che costituirebbero la seconda fonte di reddito, problema che la nuova legge sul lavoro (Jobs Act) non affronta efficacemente. Anche la penuria di servizi di assistenza alla persona a prezzi accessibili ostacola la partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne che si prendono cura di figli o parenti anziani. I livelli di povertà sono elevati (oltre un quarto degli italiani è a rischio di povertà o di esclusione sociale) e la prestazione di assistenza

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sociale resta carente e frammentaria. L’adozione e attuazione della strategia nazionale di lotta contro la povertà e una razionalizzazione della spesa sociale potrebbero segnare i primi passi verso la progressiva introduzione di un sistema di reddito minimo a livello nazionale che non produca effetti sostanziali sul bilancio. Per quanto riguarda la riforma dell’istruzione i progressi sono stati considerevoli: la riforma della scuola è stata adottata a luglio 2015, mentre i decreti attuativi dovranno essere adottati entro gennaio 2017.” Alla luce di queste riforme, viene raccomandato all’Italia di procedere alla riforma delle politiche attive del mercato del lavoro, in particolare rafforzando l’efficacia dei servizi per l’impiego e ponendo in essere misure per la lotta alla povertà, fortemente collegata al mercato del lavoro. Inoltre, si invita a procedere rapidamente per adottare una nuova legge sulla concorrenza e intervenire in maniera più specifica sulle professioni regolamentate al fine di renderle più competitive. In conclusione, possiamo dire che il Jobs Act ha certamente rappresentato un ragguardevole e decisivo passo verso il modello europeo della flexicurity, ma va tuttavia considerato come un primo passo, in quanto la flessibilità del mercato del lavoro deve essere accompagnata anche dal perseguimento della sicurezza dei lavoratori stessi, un traguardo che in Italia non è ancora totalmente raggiunto.

Fonti A. Moreira, A. Dominiquez, C. Antunes, M. Karamessini,M. Raitano, M. Glatzer. Conseil d’Orientation pour l’Emploi, “Labour Markets Reforms in Europe, Executive Summary”, 5th November 2015.

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Commissione europea COM (2016)332 final del 18.05.2016, Raccomandazione del Consiglio sul programma di riforma 2016 dell’Italia. Commissione europea, “Crescita ed Occupazione: Lavorare Insieme per il Futuro dell’Europa. Il Rilancio della Strategia di Lisbona” (2005). Commissione Europea (2010) An Agenda for new skills and jobs. European Commission, “Labour Market and Wage Developments in Europe”, (ISSN 2443-6771), 2015 E. Pedersini, “Flessibilità e Politiche del Lavoro in Europa fra Mercato e Regolazione Congiunta”, Dipartimento di Studi Sociali e Politici, Università degli Studi di Milano, Working paper 06/09, (2009) G. Allulli, “Dalla Strategia di Lisbona a Europa 2020, CNOSFAB e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, (2015). M. Fana, D. Guarascio, V. Cirillo, “Labour Markets Reforms in Italy: Evaluating the Effects of the Jobs Act”, 5/2015 Dicembre Working Paper (2015). M. Decaro, “Dalla Strategia di Lisbona a Europa 2020”, Fondazione Adriano Olivetti (2011). Ministero dell’Economia e delle Finanze, Economic and Financial Document 2016. P. Tridico, “Riforme del Lavoro, Occupazione e Produttività: un Confronto tra l’Italia e l’Europa”, Sindacalismo 28, ottobre-dicembre (2014). S. Clauwaert and I. Schomann, “The Crisis and National Labour Law Reforms”, ETUI News and Background, 19 (1), (2013). W. Eichhorst, P. Marx, C. Wehner, “Labor Market Reforms in Europe: Towards More Flexicure Labor Markets?”, IZA DP No. 9863 (2016).

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Francesco Beraldi Studia Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Torino ed è Allievo del Collegio Carlo Alberto. Durante l’ultimo semestre del triennio è stato in Exchange presso la Lisbon School of Economics and Management; prevede proseguire gli studi con un MSc in Economics. Autore di Neos Magazine e membro del Consiglio direttivo del CEST - Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari, collabora inoltre con la rivista Quadrante Futuro del Centro di Ricerca Luigi Einaudi. Recentemente, è stato selezionato per partecipare, durante l’estate 2017, al programma di Research internship presso il CEMFI di Madrid e ha vinto una borsa della Fondazione Unicredit & Universities per partecipare alla summer school presso la London School of Economics.

Ivan Lagrosa Studente di Economic and Social Sciences presso l’Università Bocconi e visiting student presso l’Innocenzo Gasparini Institute for Economic Research (IGIER, Bocconi), si è laureato con lode in Economia e Commercio all’Università degli Studi di Torino con una tesi sulla Jobless recovery nel mercato del lavoro statunitense e diplomato, con distinction, al Collegio Carlo Alberto (Allievi Honors Program). Ha collaborato con il Quotidiano La Stampa e collabora attualmente con la rivista Quadrante Futuro del Centro di Ricerca Luigi Einaudi, dove coltiva il suo interesse per temi legati al mercato del lavoro. È inoltre membro del Consiglio direttivo del CEST - Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari.

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Mariachiara Bo Frequenta il secondo anno di Matematica per la Finanza e l’Assicurazione ed è Allieva presso il Collegio Carlo Alberto. Nel 2014 è stata membro del Parlamento Europeo degli Studenti di Torino. Coniuga una passione per l’arte e la letteratura affinata durante gli anni di liceo Classico, con l’interesse per l’economia e la finanza. Nel 2013 e nel 2014 ha partecipato a stage di fisica e neuroscienze rispettivamente in collaborazione con l’INFN e il NICO, e ha tenuto un science talk in occasione dell’ultima edizione del progetto Alfaclass 2016.

Federico Boscaino È iscritto al secondo anno del corso di laurea in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Torino; dal 2016 è Allievo presso il Collegio Carlo Alberto. Da sempre appassionato di economia e politica, cerca di approfondire queste tematiche partecipando a numerosi progetti, summer school e attraverso la lettura di quotidiani e saggi. Spera di coltivare questa passione continuando gli studi con un dottorato in politica economica e lavorando nel mondo della ricerca.

Damiano Campini Studente del primo anno di Matematica per la Finanza e l’Assicurazione all’Università degli Studi di Torino, dal 2016 è Allievo presso il Collegio Carlo Alberto. Oltre al campo matematico-finanziario, è anche interessato ad approfondire tematiche socio-economiche, da cui una passata esperienza al Parlamento Europeo degli studenti. Recentemente eletto rappresentante per il Dipartimento di Matematica, da alcuni mesi è autore per Neos.

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Ornella Darova Laureata con lode in Economia e Statistica all’Università degli Studi di Torino e in Economics al Collegio Carlo Alberto, la sua tesi è stata premiata dal Consorzio Asti Studi Superiori e dal Jo Cox Prize per Studi Europei. Nell’estate seguente alla laurea è stata market analyst per Western Union ed è stata selezionata dal programma Mentors4U. Oggi è studentessa del MSc in Economic and Social Sciences all’Università Bocconi. È stata research assistant alla LUISS Guido Carli ed è stata chiamata dal Centro di Ricerca italo-tedesco per l’Eccellenza europea Villa Vigoni a redarre il Rome Manifesto. Ha continuato la sua attività di ricerca all’Istituto Bruno Leoni. Tra i fondatori di Neos, ha anche aderito alla Economic Society in Bocconi ed è stata selezionata dall’hub di Milano dei Global Shapers del World Economic Forum.

Ilaria Fevola Ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Torino nel settembre del 2016 con un percorso incentrato sul diritto internazionale e dell’Unione europea. Da giugno 2016 a marzo 2017, ha svolto ricerca legale presso WAN-IFRA (World Association of Newspapers and News publishers) in materia di protezione dei dati personali, diritto d’autore, diritto della concorrenza ed aiuti di Stato.

AUTORI

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Giuseppe Grossi Attualmente studente magistrale di Filosofia all’Università degli Studi di Torino, da sempre nutre la passione per tutto ciò che concerne i macrocontesti geopolitici ed economici globali. Da un anno è Local Coordinator di Torino per l’organizzazione no-profit Students for Liberty, migliore sbocco per la sua sensibilità verso le battaglie per la libertà. Gli piacerebbe restare all’interno del mondo accademico e, per questo motivo, dopo la laurea pensa di intraprendere un Dottorato in Filosofia della Mente, in cui si sta specializzando.

Cedomir Malgieri Studia Economia e Commercio all’Università degli Studi di Torino ed è Allievo presso il Collegio Carlo Alberto. Laureando a settembre, proseguirà il suo percorso di studi con una laurea magistrale in Economics. Gli studi intrapresi, insieme ad un’esperienza lavorativa nel settore della consulenza e ad una partecipata avventura nel mondo della rappresentanza universitaria, gli hanno permesso di sviluppare una discreta capacità di analisi di problemi reali con spirito critico.

Davide Maramotti Frequenta il corso di laurea triennale in Scienze Internazionali all’Università degli Studi di Torino, in precedenza si è diplomato con maturità scientifica ed ha ottenuto una specializzazione come Tecnico Marketing. Dal primo giorno di università è membro del network internazionale Students For Liberty di cui è Local Coordinator per Torino e membro del Marketing Team europeo. Da inizio 2017 scrive anche per il magazine online “The Fielder” di ispirazione libertaria. In futuro, vorrebbe specializzarsi nel commercio internazionale.

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Alessio Mitra Dopo aver frequentato il Liceo Scientifico Tecnologico, si laurea in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Torino con tesi sul ruolo dell’intervento pubblico tra Economia del benessere, teoria della Public choice ed Economia comportamentale. Durante gli anni di studio a Torino ha co-fondato ed è in seguito divenuto Vice-Presidente dell’associazione culturale Ideificio Torinese. Finiti gli studi triennali si trasferisce in Inghilterra dove lavora come volontario internazionale per Oxfam. Di recente ammesso al MSc in Applied Economics with Public Policy della University of Bath, proseguirà nel Regno Unito gli studi magistrali.

Francesco Mosetto Diplomato al Liceo Classico Europeo, attualmente frequenta il IV anno di Giurisprudenza presso l’Università di Torino. È stato premiato dalla Commissione europea nel 2011 come miglior giovane traduttore italiano e nel 2015 ha ricevuto la menzione come miglior delegato al Consiglio dell’UE nell’EU-Model dell’Università di Torino. Ha partecipato come panelist a conferenze internazionali, da ultimo il Demokratiekongress 2017 a Berlino.

AUTORI

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Filippo Palomba Dopo il liceo scientifico, ha conseguito la Laurea Triennale in Economia e Management presso l’Università degli Studi di Padova nel Luglio 2016. Attualmente frequenta il corso di Economic and Social Sciences presso l’Università Bocconi di Milano ed è visiting student presso l’Innocenzo Gasparini Institute for Economic Research (IGIER). È da sempre appassionato di politica, macroeconomia e statistica; da alcuni mese è autore per Neos.

Tommaso Portaluri Studia Statistics al Politecnico di Zurigo (ETH Zürich). Si è laureato in Economia e statistica all’Università di Torino e al Collegio Carlo Alberto. Negli ultimi anni, ha lavorato su progetti europei di finanziamento alla ricerca per ONG e centri di ricerca (per il CERN, in Svizzera, e per il CNR, in Italia). Nel 2011 ha ricevuto l’onorificenza di Alfiere della Repubblica; dal 2013 è Presidente del CEST - Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari.

Adele Ravagnani Studentessa di fisica presso l’Università degli Studi di Torino e Allieva presso il Collegio Carlo Alberto. A diciotto anni ha la sua prima esperienza lavorativa, svolgendo la funzione di Customer services assistant per due mesi, in Inghilterra, presso Moto Hospitality Burger King. È stata membro della Nazionale giovanile di judo, campionessa italiana e medaglia di bronzo ai Campionati europei. La letteratura è la sua passione dall’infanzia, il giornalismo dall’adolescenza.

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Umberto Rogna Maggi Dopo il liceo scientifico, si è iscritto alla facoltà di Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Torino, dove si è laureato nel marzo 2017. Da sempre interessato alle tematiche politiche ed economica, durante il periodo universitario ha collaborato con diverse associazioni culturali torinesi e alla fondazione del Magazine online Neos. Per il futuro prevede di proseguire gli studi, rimanendo nell’ambito economico.

Raffaele Tranchitella Laureato con lode in Finanza presso l’Università di Pisa nel 2011 con una tesi in econometria finanziaria dal titolo “Il Credit Default Swap: caratteristiche operative del contrato derivato su credito”. Dopo varie esperienze in Italia e all’estero, si è specializzato con un M. Phil. in Quantitative Finance presso il Collegio Carlo Alberto di Torino. I suoi interessi sono rivolti principalmente alla politica economica e alla finanza. Attualmente svolge la professione di Dottore Commercialista e Revisore Legale.

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