NON HO PARLATO. Storia di un carabiniere torturato dai nazisti

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Angelo Ioppi, arruolatosi nell’Arma dei Carabinieri nel 1923, prestò servizio a Selci in Sabina ed a Roma. Al termine del periodo di ferma tornò a Viterbo (sua città di origine) e sposò Ida Micheli, dalla quale ebbe quattro figli (Liliana, Rossana, Fatima, Giancarlo). Nel 1940 venne richiamato in servizio e venne assegnato, con il grado di Brigadiere, alla Compagnia Comando della Legione Lazio di Roma ove rimase sino all’8 settembre 1943 (giorno dell’armistizio ). Per gli atti di eroismo compiuti,gli venne attribuita la più alta onorificenza al valore militare nel 1946. Morì a Roma all’età di ottanta anni. In suo onore e memoria il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri gli ha riservato una teca nel Museo Storico di Piazza Risorgimento e, nel 1991, ha deliberato l’intitolazione a suo nome della Caserma dei Carabinieri di Bomarzo (VT).

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Roma 1943. L’8 settembre ha sconvolto gli animidelpopolo,lohaimprovvisamenterisvegliato da quel torpore cui era abituato. La sicurezza trasmessa e impartita dal Duce non c’è più. Tra coloro, tanti, che si sentono smarriti c’è Angelo Ioppi, brigadiere dei Carabinieri Reali. Dopo l’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, Ioppi entra a far parte del Fronte Clandestino di Resistenza e realizza numerosi sabotaggi contro i tedeschi. Risale presto nella graduatoria dei ricercati, cosa che porta ad un inseguimento implacabile fino alla sua cattura. Rinchiuso nelle famigerate carceri di via Tasso, dove viene sottopostoallepiùsvariateetremendetortureper rivelareinomideisuoicompagnidellaresistenza. Ma dopo novanta giorni, dopo ventotto“sedute”di tortura, Angelo Ioppi non ha parlato. Il lettore scenderà in un inferno, affollato di tanti personaggi,madadoveriemergerà,soltanto,in compagnia di Angelo e di altri eroi.

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In memoria di mio padre


RITRATTI Collana

NON HO PARLATO Angelo Ioppi Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Maria Irene Cimmino Impaginazione: Francesco Zanarini © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Prima edizione 2014 Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-583-9 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


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Al Lettore

Questo libro non vuole essere l’apologia di me stesso, ma la narrazione precisa, accurata e fedele di tutti i giorni da me vissuti dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944, con particolare riguardo a quelli trascorsi, come morituro, nelle prigioni di Via Tasso. Dedico questa pubblicazione a mio figlio Giancarlo di sei anni, unico maschio della mia famiglia, e lascio a lui queste pagine, perché, ricordandomi sempre, rimangano a lui quale eredità spirituale. Conoscerà, attraverso queste povere parole, le sofferenze sopportate da suo padre, al quale, se le torture ne fiaccarono il corpo, non impedirono di ricordare costantemente i suoi cari. L’assillante pensiero delle condizioni della mia famiglia, in balia di se stessa e non certo in condizioni agiate, non mi abbandonò mai e l’angoscia provata per questo era molto più profonda e viva che il dolore provocato dagli staffili tedeschi. Questo sappia Giancarlo e comprendano tutti come ai lamenti e ai gemiti dei martiri, fanno coro, a migliaia, quelli delle vedove, dei bimbi, di tutti i cari. Sapevo che sarei stato fucilato e spesso nei momenti in cui il pensiero dei miei cari si affacciava più veemente, tentavo di soffocarlo in quello personale della fine prossima, augurando talvolta a me stesso di essere ucciso al più presto. Pensavo alla mia Ida che si sarebbe trovata sola a fronteggiare la situazione difficilissima per mantenere la famiglia; pensavo a Liliana, la mia figliuola di 17 anni, della


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quale, dopo il mio arresto, non seppi più nulla, col torturante pensiero che, rimasta nelle grinfie dei miei carnefici, avessero anche abusato di lei; a Rossana di 14 anni, a Fatina di 9, a Giancarlo. Quattro figliuoli, tutti piccoli, che sarebbero rimasti presto senza il loro padre, senza il loro unico sostentamento! Un giorno mi avrebbero ricordato con orgoglio e avrebbero considerato il mio sacrificio giusto, come di un uomo caduto per difendere il suo ideale. Solo questo mi confortava un poco, specie nei riguardi di Giancarlo, che un giorno, fattosi uomo, avrebbe veramente compreso ciò che io ero stato e quello che avevo fatto per la causa del nostro Paese. E, quando l’età glielo avrebbe permesso, sarebbe stato anche lui perfettamente sicuro che il sacrificio di suo padre non era stato vano, ma rappresentava sensibile aggiunta ai tanti piccoli e grandi, noti ed ignorati episodi, tutti convergenti verso la nostra redenzione dal nemico. E se i suoi occhi di bimbo si potevano velare di lacrime di dolore e di disperazione, alla notizia della mia morte, più tardi,nella sua consapevolezza di uomo maturo, sarebbero state lacrime di fierezza e di orgoglio. È questa dunque l’eredità che lascio a mio figlio; impari ad amare tutti gli uomini, ma rimanga inesorabile contro tutti i nemici degli uomini, cioè contro coloro che tradiscono i loro compagni, contro quei carnefici, che, disprezzando ogni legge di onore e di amore, tracciano dei solchi di sangue sull’umanità dolorante. Queste immonde bestie dalla faccia umana, che quotidianamente si coprono d’infamia, massacrando individui, di ogni specie, di ogni paese. Questi non sono episodi di guerra nei quali l’uomo cade, lottando lealmente e apertamente contro il suo nemico, ma una crudele persecuzione, operata contro uomini, donne,


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fanciulli, secondo il sadico principio del terrore e della raffinata crudeltà. Contro questi uomini reagiscono le forze del mondo ancora sano che, raccapricciato da tanta barbarie coprirà, con la voce dei suoi figli chiamati alla riscossa, quella delle mitragliatrici e dei cannoni. E impari, Giancarlo, anche lui, come suo padre, a sentire e a sperare un’epoca nuova; giustizia, pace, operosità, libertà nel mondo! Questa terra troppo dilaniata, troppo provata dai disastri di un periodo funesto, che ha visto distrutte intere generazioni nella lotta immane, vuole assicurare ai popoli una luminosa epoca. Creda, sopratutto, nella causa della nuova Italia, che dovrà risorgere perché il sangue versato dai suoi figli è il migliore prezzo del riscatto.

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Prefazione

Si può chiedere a un uomo di resistere quando la sua carne è straziata, le sue ossa maciullate, la sua sofferenza portata al limite estremo? E qual è il meccanismo che trasforma in Eroe una persona come tante? Per ventotto volte Angelo Ioppi, brigadiere dell’Arma, passato dopo l’8 settembre 1943 al Fronte Clandestino di Resistenza dei Carabinieri, catturato per via dei suoi coraggiosi e ripetuti sabotaggi, ha conosciuto le torture del famigerato carcere di via Tasso, nella Roma occupata. Volevano strappargli di bocca i nomi dei suoi compagni, per catturare ed uccidere anche loro come i Martiri delle Fosse Ardeatine, come i tanti fucilati di nascosto nel Forte Bravetta. Ma il brigadiere Ioppi, solo di fronte ai suoi aguzzini e solo di fronte alla sua coscienza, sottoposto a interrogatori disumani… NON HA PARLATO. Il suo calvario è stato devastante: per lunghe settimane la moglie Ida e i quattro figli in tenera età lo hanno saputo vivo solo ricevendo, perché potessero lavarla, la sua biancheria insanguinata. Il 4 giugno 1944, con l’arrivo a Roma degli Alleati, è finalmente tornato a casa, segnato però da ferite incancellabili nel corpo e nello spirito. Per anni, a guerra terminata, si è svegliato nel cuore della notte urlando, cercando la pistola per difendersi dalle S.S.


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Non c’è una scuola per diventare Eroi, non c’è una ragione per sopportare il dolore che non sia la propria forza morale, nella ferrea volontà di salvare altre vite. Angelo Ioppi ci consegna la sua esperienza nello straordinario memoriale scritto appena ottenuta la libertà, che oggi vede la pubblicazione grazie all’amato figlio Giancarlo. Un diario dall’inferno per non dimenticare, un esempio al quale guardare, una luce per illuminare il cammino dei più giovani, per questo tempo che di luci ha un bisogno disperato.

Roberto Riccardi


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CAPITOLO I 8 settembre 1943 Giorno d’importanza storica per l’Italia e di incalcolabile significato per Roma. Nessuno poteva supporre che in un giorno come questo, le sorti della nazione si sarebbero capovolte, che tutti gli avvenimenti sarebbero precipitati con un ritmo così incalzante da sconvolgere i destini di un popolo e la vita di ognuno di noi. Ho detto nessuno, ma erravo in questa mia affermazione categorica. “L’uomo della strada“ aveva preveduto questo: i più lo avevano dapprima sussurrato in un orecchio ad un amico, quando si entrò in guerra contro gli alleati franco-inglesi; lo avevano ribadito poi, sempre più convinti, col procedere degli avvenimenti. Moltissimi, fra la titubanza degli altri, fra i tentennamenti dei restii, malgrado la convinzione delle smargiassate propagandistiche italo-tedesche, presentivano questo finale tragico: l’Italia avrebbe perduta la guerra! L’Italia era da considerarsi ormai in braccio alla Germania! Un’alleanza1 non sentita, una guerra ancor sentita meno, avevano portato a questo assurdo: di combattere senza uno scopo. I figli d’Italia cadevano a migliaia sui campi di battaglia, le liste dei prigionieri di guerra e dei dispersi si ingrossavano negli archivi dei vari ministeri militari e si affiancavano, così, ai caduti dell’Africa Orientale quelli della Libia, della Tunisia, della Russia, dei Balcani. Le case del popolo venivano demolite dai bombardamenti aerei


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e alle statistiche dei caduti in guerra, si assommavano, in numero spaventevole, a quelle dei civili, morti per offesa aerea nemica. Un popolo che subiva, nella cerchia ristretta e chiusa di una politica imperialistica, un malgoverno dispotico ed autocratico trovava il suo destino nelle mani di un megalomane qualunque che ne reggeva le sorti. Guerra! Guerra! Queste sole parole sembrava conoscere la propaganda, e queste solamente la dottrina fascista propinava, con sistematica caparbietà, agli italiani, ubriacandoli ed accecandoli con artificiose figurazioni di armamenti poderosi, di gigantesche parate militari. Si era giunti ad un sistema di educazione “standard” per la giovinezza. Si erano convinte l’infanzia, l’adolescenza, tutta la gioventù, che l’espressione più alta degli ideali umani fosse: combattere. “Necessario vincere, più necessario combattere!” Queste frasi con altre centinaia consimili, stavano scritte sopra ogni edificio, ogni scuola ed ogni officina. Nessuno si domandava perché si doveva combattere. Ma per prevenire la domanda, gli zelanti organi della propaganda fascista, i pontificatori di nuove dottrine si diedero a ricercare scrupolosamente e ad impartire lezioni sulle ragioni, sulla necessità della nostra entrata in guerra. Si misero dapprima in ballo delle ragioni di lotta, scaturenti da problemi sociali e di razza2, poi da rivendicazioni territoriali. E qui funzionarono, in maniera prodigiosa, i fantasiosi cervelli dei ricercatori e degli studiosi, aggiogati al carro fascista, i quali garantivano e documentarono, ogni giorno, i nostri diritti di prevalenza, storicamente provati, e la nostra missione duratura nel mondo, sotto l’auspicio


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dell’antica Roma. Tutta la politica estera fu, quindi, improntata sulle basi di un’arrogante presunzione. Si volle, insomma, far capire, con le buone e con le cattive che noi dovevamo chiedere terre: “dovevamo avere posti al sole”. E queste richieste venivano avallate, malgrado la dimostrazione di un nostro palese pacifismo, con l’artificiosa documentazione delle nostre strabilianti possibilità militari. Con questo sistema l’Italia fu tratta ad un patto di alleanza con la Germania del III Reich, dove un altro megalomane, saturo di deismo e di superomismo, di tinta particolarmente teutonica, cantava e ricantava presso a poco le stesse strofe. Era questa la Germania, che ancora memore di una disastrosa disfatta e con la spasmodica volontà di prendersi una rivincita, si stava preparando da lunga pezza, arrotando le sue armi, per scagliarsi, al momento opportuno, sulla preda più vicina ed inerme. Imbaldanziti dalle loro stesse parole, questi nostri cari alleati credettero fermamente che il mondo fosse destinato a divenire una caserma e che era una questione di tempo per stringerlo completamente in pugno. Il signor Mussolini si appoggiò, quindi, ad una potenza militare di primo ordine e, tenendo conto della situazione storica in cui veniva a trovarsi l’Europa, era facile immaginare quello che sarebbe capitato, da un momento all’altro, a questo povero mondo che dormiva sonni molto agitati. E la guerra venne. La Polonia cadde nel primo mese di guerra3, la Francia, dopo un anno di “notti calme sull’insieme del fronte”, fu praticamente liquidata in 45 giorni4. Tutto ciò non fece che rafforzare nelle menti degli invasori che si trattasse veramente di predestinazione o che fosse, come si


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suole spesso esprimere Hitler: “Un segno della Provvidenza”. Non starò qui certo a ricordare e a narrare gli avvenimenti e gli episodi più salienti di questa guerra, che già si conoscono e che sono tanto vicini a noi. Mussolini dichiarò guerra nel giugno 1940, quando tutto faceva credere, almeno nelle previsioni ottimistiche dei fautori della guerra lampo, che tutto sarebbe finito molto presto, considerando, soprattutto, la situazione, non certo florida, dell’Inghilterra, impegnata a ritirare da Dunkerque le divisioni scese sul suolo di Francia. L’isola britannica sarebbe stata liquidata in poco tempo e noi saremmo entrati giusto in tempo per sederci da vincitori, al tavolo della pace. Le cose, però, andarono diversamente, con un ritmo completamente opposto a quello avuto fino allora. L’Inghilterra, rinchiusa ed asserragliata nella sua isola, con le navi sorveglianti le coste di casa, si prepara alla ripresa definitiva5. L’America entrerà in guerra dopo essere stata cobelligerante della Gran Bretagna, in maniera manifesta, anche nel periodo precedente. La Germania aggredirà la Russia, contando qui su dei risultati facili, ma, disgraziatamente per i tedeschi, l’U.R.S.S. si manifesta sensibilmente diversa da quella descritta6. Tutto questo contribuirà a far sì che, giunti ormai all’epilogo di questa seconda guerra mondiale, vediamo una Germania vinta e non librantesi orgogliosa per il mondo, o come voleva il Bismarck, spaziante addirittura verso la luna. E noi? Noi abbiamo combattuto senza ragione, senza motivo, sacrificando morti, feriti, prigionieri, dispersi. Il fiore della nostra


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giovinezza si è spento nei lontani campi marmarici, nelle steppe russe o nelle montagne aspre e gelide dei Balcani. Le città italiane sono state quasi tutte colpite dalle offensive aeree alleate. Tutte le voci, cosi dette tendenziose, di quelli perseguitati e condannati sotto il nome roboante di “disfattisti” incominciarono ad avere dei proseliti in numero sempre maggiore. Le persone, valutando alla luce dei fatti l’incolmabile disastro causato da un errore, si convincevano dell’inutilità di continuare a sacrificarsi e a combattere e abbandonare, perciò, qualsiasi resistenza ad oltranza, che si sarebbe manifestata completamente inutile e pazzesca. L’8 settembre del 19437 l’Italia chiese all’America, all’Inghilterra e alla Russia, con le quali era in stato di guerra, le condizioni di armistizio. L’annuncio venne dato per radio la sera del detto giorno dal Maresciallo Badoglio (Primo Ministro di Stato, carica assunta dopo la caduta del fascismo ed il conseguente allontanamento di Mussolini dal governo avvenuto il 25 luglio). Tutti ricordano che il disco, recante incisa la voce di Badoglio, che annunciava la storica decisione, fu trasmesso più volte alla radio, nella sera dell’8, durante gli intervalli dei vari programmi. Non si può parlare di entusiasmo completo, né la decisione giungeva inaspettata, ma aveva un sapore di liberazione dall’incubo che opprimeva il popolo: sia il civile, per i bombardamenti continui, che il militare, ormai stanco di combattere e sfiduciato, ansioso solo di ritornare a casa per impugnare la vanga e il badile per la ricostruzione del Paese. Dopo un primo fremito gigantesco che percorse


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le masse in tutta Italia, sorse spontanea la domanda che prevedeva una risposta non molto edificante: i tedeschi, come avrebbero presa la cosa? Era ormai di dominio pubblico che le forze tedesche, dilagate nella penisola, accampate dappertutto con depositi, magazzini e comandi, rappresentano una minaccia diretta e interna. Dopo la dichiarazione di Roma ”Città aperta”8, i tedeschi si erano premurati di accamparsi nelle immediate vicinanze della città, mascherando alla men peggio i loro depositi e i loro comandi nel centro dell’Urbe. Era facilmente intuibile che, qualora da parte del governo italiano, fosse stata presa la decisione di chiedere l’armistizio, si sarebbe passati automaticamente sotto la dominazione tedesca, dominazione già pienamente in atto, in quanto tutti i nostri piani strategici, le nostre possibilità militari e logistiche e le nostre organizzazioni, erano di perfetta conoscenza dei generali di Berlino. La frase finale dell’appello badogliano: “Le truppe cessano da questo momento di impugnare le armi contro gli eserciti anglo-americani, ma si difenderanno tuttavia contro qualsiasi attacco che venga portato da altre parti”, non faceva che sanzionare il dubbio di tutti: “i tedeschi non se la sarebbero mandata dietro le spalle”. La notte dall’8 al 9, soprattutto la sera, passò ancora con qualche schiamazzo di allegria e qualche segno di giubilo per la fine della guerra, poiché tutti speravamo di “finire” la guerra, nel senso più vasto del termine, cioè non combattere più contro i nemici di ieri verso i quali erano state ingiustamente rivolte


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le armi. E, per difendere questo diritto a finirla, erano pronti a rivoltare le stesse contro gli pseudo-amici di ieri, che, in nome di una alleanza, spadroneggiavano sulla nostra terra e che avevano usato i nostri uomini come carne da macello in molti frangenti della guerra attuale, per assicurarsi le spalle nelle non poche “ritirate strategiche”. E il volto del popolo italiano, volutamente coperto fino allora dalla maschera dell’accettazione passiva, s’illuminò improvvisamente e la massa fu pronta a scattare contro l’odiato tedesco, contro quegli stessi che molti di noi avevano inseguiti e battuti sull’altipiano di Gorizia, che avevano procurato i 600 mila morti delle Alpi Venete. Ebbene, il popolo era lo stesso di allora, i suoi sentimenti erano quelli di vent’anni fa, per atavica tradizione di sangue e di pensiero aveva ancora nell’animo l’impeto istintivo e rivoluzionario lasciatogli in retaggio dagli eroi del nostro Risorgimento, verso chiunque biascicasse una lingua tedesca o tedescheggiante. Quelli erano ancora i nostri nemici ed i nemici dell’umanità! Gli stessi avvenimenti che seguirono, e che tutt’ora seguitano nell’Italia non liberata, non fanno che convalidare questa asserzione. I militari stessi si sentirono pronti a difendersi e a rintuzzare qualsiasi tentativo di disarmo da parte tedesca, e la maggioranza degli uomini, che vestivano ancora il grigio-verde, non avrebbe esitato a rivolgere il proprio fucile contro qualsiasi fantoccio dall’elmetto con la croce uncinata. Il fenomeno del fascismo, però, ha avuto ed ha ancora una forte importanza ed è necessario sottoporlo ad una valutazione e ad una analisi non indifferenti.


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E, qualora sia vagliato, discusso e spiegato alla luce di un’ampia disamina, ci paleserà delle conseguenze ineluttabili. Ci spiegherà perché, per venti anni, un popolo è rimasto inchiodato da un potere autoritario, perché doveva essere senza libertà di parola o di opinione o di stampa, ma doveva pensare, sentire, volere, secondo i dettami di una dottrina delineata in precedenza da una persona preoccupata soltanto di strozzare il pensiero del popolo. Questo, probabilmente, aveva provocato una specie di deterioramento fisico dovuto ad atteggiamenti di gente, così entusiasticamente fiduciosa in una idea, della quale non avrebbe mai osato dubitare. Una pletora di inimicizie, di discordie, di dissensi esisteva fra ufficiali e ufficiali, specie nei gradi superiori, senza contare l’aperto contrasto con gli altri esibizionisti, caporioni della milizia di Mussolini. Disparità di trattamento economico, ambizioni non soddisfatte, avevano fatto sì che anche in queste organizzazioni militari, come erano l’esercito, la marina, l’ aeronautica in genere, fosse dato ampio posto agli sfacciati favoritismi verso elementi di dubbia capacità e che purtroppo attraverso incensamenti gerarchici avevano raggiunto gradi elevatissimi. Non c’è quindi da stupirsi per quello che è avvenuto in seguito alla dichiarazione di armistizio e per l’atteggiamento assunto da alcuni responsabili militari che abbandonarono le truppe in balia di se stesse o le consegnarono direttamente nelle mani del tedesco. Non fu certo questo il principale e solo fattore che contribuì a spianare la via alle esigue forze tedesche stanziate in tutta l’Italia, che si trovarono certamente


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in condizioni di inferiorità rispetto al maggior numero delle truppe italiane in efficienza e quindi impossibilitate a resistere ad una eventuale nostra decisa reazione. In virtù dei fattori accennati e di altre cause, che mi limito ad esporre in seguito, malgrado sia questo un lavoro molto difficoltoso, resta dimostrato come poterono i soldati di Hitler rendersi padroni della situazione in pochi giorni di lotta ed in quale situazione si trovasse l’Italia dopo l’8 settembre. Mancarono anzitutto degli ordini precisi. Forse molti credettero che la frase di Badoglio, che ordinava di difendersi contro ogni attacco pervenuto da qualsiasi altra parte, la quale, se pur non lasciava dubbio sulla identità di “quella qualsiasi altra parte” doveva restare completata di disposizioni successive, che dovevano, a loro volta avere tale grado di efficienza da non lasciare dubbi sulla loro applicazione, nonché sul tempo e sulla maniera della loro scrupolosa esecuzione. Si verificò, invece, per mancanza di ordini, una defezione negli alti gradi dell’esercito, nello Stato Maggiore, dove i comandanti non vollero probabilmente prendere delle iniziative individuali, né assumersi delle responsabilità di condurre azioni personali. Stando così le cose, accadde che, nel momento più cruciale della risoluzione, quando occorreva la nostra netta e precisa presa di posizione contro il tedesco, si ebbero invece un periodo di assoluto disorientamento e giorni di esitazione, che raggiunsero anche delle forme ridicolmente assurde (si pensi infatti che, in molte località, interi reparti tedeschi furono disarmati e poi, per ordini superiori rilasciati e riarmati e trasformati in carcerieri delle nostre truppe!). Si può immaginare,


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quindi, quale caos regnasse nei comandi e di conseguenza fra le truppe che, ignare del proprio destino, si lasciavano guidare dall’istinto e soprattutto, dato il panico e lo smarrimento, dalle voci disparate, che arrivavano da ignote fonti e producevano un sempre maggiore senso deleterio di sbigottimento. I tedeschi, questa è la verità, erano in numero esiguo di fronte alle nostre forze effettive dislocate nella penisola e nei Balcani9 e avevano creduto che fosse venuta veramente l’ora di essere presi in trappola. Ricevettero, infatti, l’ordine di ritirarsi precipitosamente verso il nord e le divisioni, che minacciate di annientamento in Sicilia, si ritiravano a spron battuto dalla Calabria, furono sollecitate dal timore che lo sbarco alleato, effettuatosi il 9 settembre a Salerno10, avesse potuto tagliarle nettamente fuori. Vista l’incertezza delle truppe e soprattutto questo sistema rapido di successo delle voci tendenziose e disfattistiche, che, sotto il nome di V colonna elargiva a piene mani notizie contraddittorie ed allarmistiche in seno ai ranghi del nostro esercito, in ogni arma ed in ogni campo, i tedeschi presero immediatamente l’iniziativa, e con audace colpo di mano, stroncarono ogni possibilità di reazione da parte dei soldati italiani, spesso costretti alla fuga sotto lo spauracchio dell’invadente valanga delle “ Panzer “ hitleriane. E conoscitori dei luoghi, dei punti nevralgici, piombarono là dove credettero più opportuno di sfruttare la situazione e di neutralizzare presto ed in maniera definitiva e sicura qualunque tentativo, sia pure sporadico, di possibile resistenza. Di quello che riguarda più da vicino Roma, nei giorni che seguirono l’8 settembre, riferisco ora le mie


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testimonianze oculari. La mattina del 9 settembre si diffusero le prime notizie di combattimenti in corso a S. Paolo e, per essere più esatti, nella località della Cecchignola dove erano accampati il I° Reggimento Granatieri di Sardegna, di stanza a Roma, e reparti aggregati del Genio, Artiglieria, ecc. Alcuni reparti di battaglioni “M”“ corazzati, pure accampati alla Cecchignola ed ai quali erano stati consegnati dai tedeschi carri armati “Tigre”, nella notte dall’8 al 9, fecero un rapido voltafaccia e presero l’iniziativa di sparare con l’artiglieria a zero, contro i reparti di granatieri, con l’evidente intento di ricongiungersi con le truppe tedesche stanziate al Lido di Roma. Per tutta la notte i combattimenti si protrassero accanitamente sulle piccole alture soprastanti la zona destinata all’E ’42. I Granatieri fecero prodigi di valore, riuscendo a tener testa e a ricacciare i tedeschi che, irrompendo dalla via del Mare, tentavano, ad ogni costo, di attraversare Roma, giustificando questo loro tentativo con la necessità di sfuggire all’accerchiamento, che gli alleati avrebbero potuto effettuare a danno delle loro truppe, con eventuali sbarchi a nord della città. Tutto il giorno 9 continuarono accaniti ed ostinati combattimenti nella zona di S. Paolo, ma purtroppo i soldati agivano per sola iniziativa di alcuni ufficiali rimasti al loro posto. Mancarono quasi subito le munizioni e quelle che furono rifornite, non poterono essere adoperate perché, per difetto di pronta organizzazione o per sabotaggio, venivano inviati caricatori di un calibro diverso di quelli delle bocche da fuoco. I cannoni da 100/17 in dotazione al 13° Regg. Artiglieria Divi-


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sionale, con deposito in Roma, vennero allineati su due file parallele lungo le vie di comunicazione con il fronte provvisorio ma purtroppo non avevano munizioni! I carri armati leggeri, che partivano di rincalzo dalla caserma di deposito del 4° Reggimento carristi, avevano solo poche ore di autonomia e dovevano fermarsi in attesa di rifornimento del carburante che…. non arrivò mai! Dei vari reggimenti di stanza a Roma si poteva contare sulle seguenti forze: I e II Granatieri di Sardegna, II Regg. Bersaglieri, 13° Deposito di Artiglieria Divisionale, 81° e 82° Reggimento Fanteria Divisionale, 4° Carristi, 4° Regg. Genova Cavalleria, 8° Reggimento Genio con servizi, 8° Centro Automobilistico e in più alcuni reparti dell’Aeronautica, della Marina, dei Carabinieri, della P.A.I11. e della Pubblica Sicurezza. Come si vede non era una forza indifferente anzi, elevatissima, specie se si pensa che, oltre queste forze, esistevano nelle immediate vicinanze di Roma, e cioè a Tivoli, Monterotondo e Manziana, due divisioni corazzate fra le migliori e più equipaggiate: l’ Ariete e la Centauro. Mentre, con alcuni rinforzi, si teneva testa ai tedeschi a S. Paolo per tutto il giorno 9, anche negli altri settori, nelle vicinanze di Roma, si era in un primo tempo raggiunto qualche successo, ma a favore dei tedeschi stava l’occupazione degli aeroporti effettuata da divisioni paracadutiste, con la immediata e progressiva cattura dello Stato Maggiore. Isolando completamente Roma da ogni comunicazione con altre città, sia a mezzo del telefono che del telegrafo, evitarono qualsiasi diramazione o ricezione


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di ordini. I tedeschi, infatti, si erano preoccupati soprattutto di questo e inoltre, non conoscendo le truppe italiane da quale parte gli ordini provenissero, esitarono sotto la influenza nefasta delle voci tendenziose della alacre quinta colonna creata ed operante con premeditata azione di sbigottimento e con studiata esagerazione delle proporzioni dei fatti e degli avvenimenti. Allo Stato maggiore nessuno si volle prendere la responsabilità di iniziativa nel comando, ma si ricorse al consueto sistema di scaricare quella responsabilità, tranne qualche eccezione, furono solamente gli ufficiali inferiori che si imposero alle loro compagnie e ai loro plotoni, riuscendo a non farli scompaginare, per resistere fino all’estremo, ma ormai questo senso di defezione era dilagato nei ranghi e soprattutto in quei ranghi i cui reggitori avevano dato l’esempio di abbandonare la resistenza e la lotta. Un complesso di cause contribuì, assieme a quelle accennate, a questa tragica conclusione e, riepilogando, si possono elencare grosso modo: stanchezza delle truppe, perché sottoposte ad una rigida disciplina e perché non sentivano questa necessità di combattere contrariamente ai loro sentimenti; smarrimenti causati per l’avvenuta mancanza di precisi ordini da parte dell’Alto Comando; funzionamento completo della quinta colonna, la quale trovò nei ranghi un fertilissimo terreno per affrettare l’epilogo della crisi. Nel centro della città i cittadini erano in preda ad uno sbigottimento senza precedenti. Dall’alba del giorno 9 il cannone tuonava vicinissimo, ad intervalli, e già alcuni colpi erano caduti nelle vie centrali dell’Urbe. Seppure a lunga distanza, i tedeschi aveva-


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no iniziato un bombardamento in piena regola con i pochi mezzi a loro disposizione, con lo scopo di seminare il panico presso la popolazione. La gente girava per le vie in preda allo smarrimento più completo e, smaniosa di notizie, si raggruppava in capannelli intorno a qualche soldato, che, impolverato, proveniva dalla zona di combattimento. Altre volte erano dei portaordini in motocicletta a fornire notizie disparate o vaghe ed imprecise, certo non molto consolanti. La mattina del 9, fu reso noto a mezzo radio, che fino ad allora aveva taciuto, che secondo gli accordi presi fra l’ottantatreenne gen. Caviglia ed il comando tedesco, si era addivenuti alla determinazione di permettere la sistemazione delle truppe germaniche ai margini della città di Roma ed il transito attraverso le vie della città, solo per la dislocazione verso il nord. Il comunicato fu accolto con stupore e nessuno si lasciò convincere dalle parole del generale Stahel. Durante la notte dell’8, un apparecchio sconosciuto gettò alcune bombe sulla periferia di Roma, con l’evidente scopo di colpire un raggruppamento di reclute dell’8° Reggimento Autieri stanziato in località Pineta Sacchetti. Intanto alla stazione e nelle vie adiacenti, soprattutto in via Cavour, dove sorge una zona di edifici alberghieri, avvenivano delle sparatorie contro le finestre dei caseggiati, nei quali si erano asserragliati i funzionari e i dipendenti tedeschi di vari comandi e depositi di Roma. Vidi io personalmente uomini e giovani borghesi gareggiare con i soldati alla ricerca dei franchi tiratori appostati dietro le persiane. Le


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sparatorie continuarono in molte vie della città, dove parte della popolazione partecipava spontaneamente a questa guerriglia che si pensava portasse alla definitiva liberazione dal teutone. In molte strade dei carri armati tedeschi furono inchiodati da lanci di bombe a mano contro i cingoli e fatti numerosi prigionieri. L’esempio più vivo, più chiaramente manifesto del grido lanciato dal popolo romano contro i soldati di Hitler fu dato dai quartieri popolari S.Paolo e Testaccio che venivano a trovarsi nell’ambito della linea di combattimento. Colà tutti, dico tutti, giovani e vecchi, ragazzi e donne, gareggiavano nella difesa e contrastavano coi denti ogni lembo di strada. Delle barricate furono apprestate lì per lì e insieme coi soldati, rimasti fedeli ai loro posti di combattimento, il popolo si ostinò a difendersi sino all’esaurimento. Si videro bambini correre porgendo bombe a mano ai giovani più grandi, donne che ricaricavano i moschetti o porgevano i proiettili per l’artiglieria. Ben presto, alla cifra dei granatieri caduti alla Cecchignola e a tutti gli altri soldati caduti a S. Paolo e sulla via del Mare, si aggiunsero i caduti del popolo. Caddero così i primi “patrioti”. Questa parola incominciò ad avere un valore nuovo ed una significazione profonda, che tutti gli eventi successivi, spiegheranno ed illustreranno meglio di quello ch’io non sappia fare. Tra i tanti episodi uno ne rimane abbastanza significativo. Verso la sera del 9, un reparto di reclute giovanissime del 1° Regg. Granatieri si ritirava da scontri sostenuti sulla via del Mare e si dirigeva verso il suo deposito quando, transitando in piazza Zanardelli, dai tetti e dalle finestre di un palazzo prospiciente la


piazza e dall’Albergo Genio partirono d’improvviso dei colpi di arma da fuoco seguiti da lancio di bombe a mano. Il gruppo per così dire di retroguardia, colpito in pieno a tradimento, lamentò otto morti, uno dei quali fu ritrovato la mattina dopo in un portone dove aveva tentato di trascinarsi. Riorganizzate le fila, i soldati circondarono i palazzi e cominciarono a rintuzzare con colpi di fucile e di mitragliatrici le raffiche dei franchi tiratori, i quali, dopo qualche altra scaramuccia si ritirarono con il favore delle tenebre e quegli elementi, che proditoriamente avevano organizzata la vile imboscata approfittarono per svignarsela di tetto in tetto fino a mettersi in salvo e non furono più trovati. Il giornale”Il lavoro italiano”, uscito in una edizione di fortuna, chiamò il popolo romano alle armi, incitando a resistere ad oltranza e garantendo inoltre che gli alleati, secondo ultime notizie pervenute, erano sbarcati in massa e si trovavano ora già nelle prossimità di Cisterna di Littoria, al termine cioè della fettuccia di strada costiera, e che avrebbero al più presto raggiunto Roma. La notizia risultò poi priva di fondamento. Ormai la situazione precipitava irreparabilmente. I superstiti elementi dell’esercito vagavano per le campagne, stracciati, affamati e stanchi. Quasi tutti avevano gettato le armi e lo zaino, e si dirigevano scarni alla cieca in cerca di un alloggio e di pane. Era questa l’espressione terrificante di un esercito in completa disfatta, un esercito al quale era stato inferto un colpo mortale e definitivo, malgrado non si potesse parlare di una disfatta militare nel vero senso della parola, bensì di un disgregamento morale, che si era ripercosso nella defezione dei reparti. Fu una triste pagina nella storia del nostro esercito, scrit-


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ta per la responsabilità di pochi elementi inetti e incapaci, che abbandonarono al completo collasso delle intere armate, senza colpo ferire. Credo che gli stessi tedeschi non immaginassero tale facilità di manovra, né tale dovizia di risultati, che furono certamente superiori a qualsiasi loro ottimistica previsione. Dopo solo tre giorni di lotta, Roma passava completamente sotto il dominio tedesco e all’alba del 10 settembre12 i primi reparti germanici iniziarono, ubbidientissimi al trattato stipulato, “l’invasione della città”, trasportando in essa truppe e carriaggi e rifornimenti, materiale questo, che fino allora era distribuito nelle vicine campagne. Entrarono essi da conquistatori, consci però di entrare in una città che non li vedeva di buon occhio, a giudicare dalla vigile e zelante cura messa nell’innestare i caricatori nelle mitragliere e nelle armi automatiche fissate sui carri cingolati delle autocolonne corazzate. Fu un’entrata che volle essere un’esposizione di forza, che aveva per scopo l’intenzione di dimostrare come i tedeschi avessero forze tali da poter abbracciare completamente l’Urbe e si divertirono un mondo perciò ad effettuare il giro della città per ore ed ore sempre con gli stessi automezzi. Ma l’accoglienza fu molto seria e serenamente ostile; nessuno si commosse allo spettacolo di forze, ma c’era nei volti di tutti l’esacerbata amarezza di non averli potuti cacciare. Per tutti i romani fu quella una notte triste, la prima notte sotto il dominio nazista, il cui opprimente imperio non si faceva ancora sentire, ma ognuno sperava che tutto ciò dovesse finire al più presto con il precipitare degli eventi, confidando soprattutto sullo sbarco


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a Salerno e su altri probabili sbarchi. I Manifesti multicolori, che fin dal giorno dopo infestarono i muri delle vie e delle piazze di Roma, emananti tutti quel caratteristico tanfo del dispotismo hitleriano, fatti a base di “Ordino” e”Dispongo” e firmati dal comandante delle truppe tedesche del sud o della città aperta di Roma (che suonava come una derisione) diedero subito da pensare ai pacifici cittadini che non era venuto certo un periodo molto felice per la loro città già duramente provata da crisi alimentari ed economiche. In tal modo, dal 10 settembre 1943 si iniziò per l’Urbe, per la Città Santa, il dominio tedesco che l’avvolse per 10 mesi continui, i quali diedero modo però ad una dimostrazione di sacrificio e di fierezza divenuto vanto di questa città. E il calvario di Roma mise alla prova del fuoco molti dei suoi figli i quali risposero concordi e fiduciosi all’appello, al quale erano stati richiamati per un avviamento alla riscossa e per procedere sulla strada della libertà. Vorrei perciò che tutti si immedesimassero nella nostra vita di questi 10 mesi. Vissuta chi più e chi meno, con sofferenze morali e fisiche; famiglie in ansia per la sorte dei loro figli; gente costretta a fuggire ai bandi di arruolamento militare e del lavoro obbligatorio13; giovani uomini di tutte le età, costretti a celarsi come dei volgari malviventi, a causa delle persecuzioni e delle retate effettuate dalle S.S. germaniche, affiancate da elementi italiani rinnegati. Così, la cappa di piombo del terrore nazista, che tentò di mascherarsi sotto l’ipocrita forma del legale e del giusto, fu per tutti i romani un’angoscia costante, tutti si sottomisero spontaneamente a qualsiasi sacri-


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ficio, affrontarono rinunce pur di non servire neppure minimamente i soldati di Hitler in qualsiasi maniera. Se la resistenza passiva che la popolazione romana contrappose o per disposizioni o di propria iniziativa ebbe risultati non indifferenti, nelle pagine descritte in appresso sarà dimostrato come quella attiva fosse organizzata, sorretta, e dovunque portata a termine a rischio della vita di molti uomini. Uomini stanchi per l’inattività dell’attesa, tagliati per l’azione, fecero massa per l’attacco diretto, sistematico e cruento verso i dominatori e questi patrioti, agenti in tutti i quartieri di Roma, senza distinzione, senza titubanza, non diedero tregua alle schiere hitleriane. Riguardo all’Arma dei carabinieri, essa seguì la sorte, un po’ in ritardo rispetto alle altre Armi dell’esercito. Passati i primi giorni di sbigottimento, i carabinieri furono lasciati indisturbati, ma oramai era più che evidente che venissero tollerati a malincuore per ovvie ragioni. Erano stati infatti dei reparti di allievi carabinieri che avevano combattuto strenuamente nelle vie di accesso a Roma contro i tedeschi ed i fascisti e oltretutto era palese che il corpo dei carabinieri vantava un attaccamento totale e illuminato al dovere ed alla tradizione e che quindi per gli avvenimenti precedenti era necessariamente inviso ai nostri ex alleati. Molti, illudendosi probabilmente di essere lasciati in qualità di forze di polizia, si fidarono a restare nelle caserme e a seguitare il servizio di ordine pubblico. Intanto con l’andare del tempo, non essendo il comandante tedesco molto convinto sulla fiducia da riporre in questi battaglioni armati di stanza a Roma e


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nella provincia, si riservava la decisione di disarmarli e farli prigionieri. Questa sorte era spettata alle unità della divisione “Piave” che, sotto il comando del Conte Calvi di Bergolo, eletto in un primo momento Comandante delle Forze di Polizia della Città Aperta, si era raggruppata entro Villa Borghese completamente equipaggiata e munizionata. Una mattina, dopo aver richiamato gli ufficiali in città per impartire ordini, i tedeschi fecero accerchiare le truppe con dei gruppi di paracadutisti e queste, colte di sorpresa, senza i loro ufficiali, vennero fatte prigioniere e tradotte prima ad Ostia e poi direttamente in Germania, seguendo la sorte di altre migliaia di uomini colà deportati da tutte le zone d’Italia e della Balcania. Per i carabinieri venne il loro turno il 7 ottobre14, quando, all’alba di quel giorno, si videro tutte le vie adiacenti alle caserme bloccate da mitragliatrici a terra e da gruppi di soldati delle S.S. armati fino ai denti. Molti carabinieri, fiutando il prevedibile, non dormivano nei vari raggruppamenti o caserme, riuscendo con una scusa o con l’altra, come del resto feci io, ad evitare la permanenza nelle stazioni. Io, che ero rimasto in precedenza ferito ad una gamba, sfruttai questa situazione e per un po’ di giorni mi astenni dal riprendere il servizio e, quando dovevo assolutamente rientrare, mi diedi nuovamente ammalato. In tal modo il 7 ottobre non mi colse in servizio, altrimenti, con molta probabilità, avrei seguito la sorte di migliaia di carabinieri tradotti in Germania su carri bestiame. Precedentemente, con tattica scaltrissima, con la scusa cioè di una riunione di tutti gli alti ufficiali dell’Arma, i tedeschi avevano tesa un’imboscata


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ai convenuti, che furono regolarmente arrestati e che rappresentavano in un certo qual modo lo Stato Maggiore dei carabinieri di Roma. Anche in questa occasione, quindi, mancando degli ordini precisi e cominciando a circolare le solite voci, incerte ed allarmistiche, si generò del caos. Gli ufficiali, combattuti tra il dovere e la mancanza di disposizioni in via gerarchica, si videro costretti ad impedire qualsiasi fuga dei loro subalterni. Alla caserma Podgora, mentre i tedeschi accerchiavano questa anche dal versante del Gianicolo per evitare qualsiasi probabile fuga da ogni parte, alcune S.S. irruppero nell’interno. Il telefonista che tentava di avvertire altri comandi ed altre stazioni, fu freddato al suo posto da una raffica di mitragliera. Molti tentarono di fuggire e si rifugiarono provvisoriamente al vicino Bosco Parraso, dove però, poi, furono catturati. Alcuni, calandosi dalle finestre o sgattaiolando dalle inferriate, precedentemente segate, approfittarono della confusione per rifugiarsi nel cuore di Trastevere dove il popolo gareggiò nell’aiutare e nel soccorrere in tutti i modi questi ragazzi, fornendoli soprattutto di abiti borghesi per evitarne il riconoscimento. Le stesse scene si ripetevano contemporaneamente in tutte le altre parti di Roma, dove erano dislocate altre truppe dell’Arma. Ho conosciuto delle famiglie in Trastevere che si sono prese la responsabilità, nonché l’onere, di ospitare per interi mesi, e qualcuno per tutto il periodo della dominazione tedesca, dei carabinieri fuggiaschi. La sera del 7 ottobre così l’Arma dei Carabinieri che contava secoli di tradizione, veniva, almeno per


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la città di Roma considerata sciolta. Ma quelli che sfuggirono alla deportazione in Germania si unirono nel movimento clandestino resistendo attivamente o passivamente secondo le loro possibilità, consapevoli di servire una causa che comportava la salvezza della loro dignità e dell’onore del Corpo. Roma, quindi, ebbe i suoi martiri che scrissero il risveglio per un’Italia nuova, che distrutta moralmente e minata spiritualmente, affogata nel disonore di una sconfitta, si leva ora sotto il vessillo della lotta e della vittoria. E tutte le altre regioni ancora sotto il tallone teutonico, nell’ansiosa attesa di tornare in braccio alla loro patria, sono lambite da questo vento novello di riscossa, che grida l’indipendenza da qualsiasi schiavismo straniero e da qualsiasi tirannia interna.


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