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Marcello Carrozzo addio a un grande partigiano della foto
SULL’ELICOTTERO
Marcello aveva lavorato anche sui mezzi militari della Guardia di finanza
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In basso, il selfie a Kiev con Mastrogiovanni

«Una fotografia ha molto da raccontare». Questa la massima che ha accompagnato la vita del fotoreporter Marcello Carrozzo, scomparso il 16 marzo scorso all’età di 73 anni, dopo un ictus che lo aveva colpito alcune settimane prima. Una doccia fredda, anzi ghiacciata, per gli studenti e i colleghi docenti del master in Giornalismo di Bari, dove il professionista dell’obiettivo teneva il suo laboratorio di fotografia. Una passione, quella per i soggetti e le inquadrature, che lo accompagnava da sempre e nei luoghi più remoti e più pericolosi del pianeta.
Sul campo di guerra
A Kiev per raccontare la vita sotto le bombe
Acerrimo nemico del comfort, non viaggiava per riposarsi. Girava il mondo per raccontarlo nel linguaggio a cui più era abituato: quello dello “scatto”.
Era nato nel 1950 a Ostuni, dove viveva. Come ogni suo soggetto, anche lui era stato catturato dall’obiettivo, ma per stare dall’altra parte della macchina. Si era trasferito a Milano dopo i 20 anni per frequentare l’Istituto di Ottica e Scienze Optometriche. Al centro delle sue opere fotografiche c’erano soprattutto gli ultimi, gli emarginati e gli invisibili. Ed era lui a mostrare quei volti sorri- denti, anche se provati dall’isolamento, dai soprusi e dalle sofferenze.
Una guerra in atto. C’è chi soffre, chi resta senza casa. C’è un Paese invaso e c’è un invasore. C’è tanto da fotografare e altrettanto da denunciare. Per lui, Marcello, sarebbe stato impossibile non volare nella capitale dell’Ucraina, a Kiev, per raccontare quei luoghi, quegli sguardi e quei silenzi. Ci è andato con la giornalista Marilù Mastrogiovanni, che del collega fotoreporter porta con sé diversi ricordi. «Marcello aveva un taccuino, vezzosamente Moleskine, dove appuntava tutto. Nomi, luoghi, dichiarazioni, suggestioni - racconta Marilù - Un giorno devi farmeli vedere i tuoi block notes e dobbiamo fare un libro insieme, gli ho detto». Entrambi avevano già pensato a un titolo: “Appunti di un fotoreporter”. «Ci divertivamo a sognare. Ma mica tanto, poi - aggiunge la giornalista - Come quando in Ucraina, nel bunker antiaereo, abbiamo immaginato una rubrica, che doveva diventare un libro. Foto sue, poesie mie. Anche questi lavori, nel cassetto. E abbiamo progettato di ritornare in Ucraina per un secondo reportage, che non siamo riusciti a realizzare». (C.Z.)
Grazie alla sua inseparabile amica – la macchina fotografica – aveva realizzato reportage in Siria, Libano, Giordania, Iraq, Kenya, Congo, Thailandia, Vietnam, India, Argentina, Mongolia e nella striscia di Gaza. Il suo impegno lo aveva portato fino agli Stati indiani di Karnataka, Uttar Pradesh, Andrha Pradesh, Maharastra, Jharkhand. In più di un’occasione aveva esposto i suoi lavori al pubblico, organizzando mostre fotografiche sempre molto apprezzate. Alcune di esse hanno anche visto il patrocinio dell’Onu o del Ministero degli Esteri. Sempre a Milano era stato docente di "Personal Security Management" e "Media & Communication" per l’ISPI (l’Istituto per gli studi di politica internazionale). Per l’Ordine dei Giornalisti, inoltre, aveva svolto diversi corsi di formazione. Negli gli ultimi anni, invece, si era dedicato ai migranti e alla narrazione, sempre in chiave fotografica, delle loro condizioni. Nel 2009, la FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) lo aveva insignito dell’onorificenza di “Artista della fotografia italiana”, un riconoscimento di cui andava fiero. La sua voglia di schierarsi sempre dalla parte degli ultimi e dei perseguitati lo aveva portato a definirsi un “partigiano” della fotografia. «Le ingiustizie iniziano a renderti le notti insonni e, a quel punto, scegli da che parte stare e in che maniera», diceva con il tono si-