Medico e paziente 4 18

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Anno XLIV n. 4 - 2018

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Ca. della vescica Inquadramento epidemiologico e terapeutico insulino-resistenza e Osso Una complessa relazione biologica Rapporto OsMed 2017 Il trend della spesa farmaceutica in Italia Medicina narrativa L’empowerment nel paziente diabetico

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DEMENZE gli interventi non farmacologici sui sintomi comportamentali IPERURICEMIA quali effetti sul rischio cardiovascolare e renale DIABETE DI TIPO 2 le evidenze sul ruolo protettivo del consumo di caffè PSORIASI LIEVE-MODERATA progressi nel trattamento topico

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Periodico di aggiornamento e informazione in collaborazione con

CLINICA

Le Miopatie metaboliche Approccio diagnostico e terapeutico

> Antonio Toscano, Emanuele Barca, Mohammed Aguennouz, Anna Ciranni, Fiammetta Biasini, Olimpia Musumeci

TERAPIA

Profilassi dell’emicrania Principi generali e farmaci

> Domenico D’Amico

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I farmaci in fase avanzata di sviluppo per la SM

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4.2018

sommario

Un fenomeno di cui poco si parla, ma che investe sempre più i medici. Il burnout, dilagante quasi come un’epidemia, racchiude “numeri” molto poco confortanti che fanno riflettere sulla condizione dei professionisti medici: le stime illustrano una prevalenza che addirittura supera il 50 per cento. La sindrome definita come burnout si manifesta con esaurimento emotivo, negatività, cinismo, incapacità di esprimere empatia o dolore. Che cosa comporta tutto ciò? Quali sono le conseguenze nel rapporto con se stessi e con il paziente? Significativamente abbiamo voluto dedicare la copertina di questo numero della nostra rivista alla tematica (assai complessa), cercando, senza pretese di fornire un quadro esaustivo, di portare all’attenzione dei nostri lettori un problema in espansione, che può avere gravi (e grandi) ripercussioni sia a livello professionale che personale

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Letti per voi

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medicina/endocrinologia Insulino-resistenza e osso Una (complessa) associazione biologica L’aumentato rischio di fratture nei pazienti con diabete di tipo 2 è stato confermato in molteplici lavori. In queste pagine, gli Autori illustrano le evidenze attualmente disponibili

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Segnalazioni Le proprietà di Lactobacillus casei Shirota Una revisione della letteratura Silvia Turroni, Elena Biagi, Simone Rampelli

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Segnalazioni

Caterina Conte, Solomon Epstein,

Sindrome del tunnel carpale Neuroprotezione e attività antalgica con L-acetil-carnitina

Nicola Napoli, Camilla Isgrò

A cura di Arturo Zenorini

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Tumore della vescica Inquadramento epidemiologico e terapeutico

Il calcio: una questione di gusto e appetito

sulla relazione, ancora tutta da chiarire, tra metabolismo glucidico e tessuto osseo

medicina/oncologia

Segnalazioni

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Farminforma

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sanità/professione Caro dottore, come stai? sei felice? Riflessioni sul logorio psicofisico ed emotivo che accompagna la professione medica Elisabetta Cofrancesco

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sanità/aifa Rapporto OsMed 2017 Il trend della spesa farmaceutica in Italia A cura di Folco Claudi

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Segnalibro Nadia Lattuada

Negli ultimi anni, la sopravvivenza per neoplasia vescicale, considerati tutti gli stadi di malattia nel loro complesso, è da considerarsi mediamente lunga, anche se al prezzo di terapie spesso mal tollerate Renzo Colombo MEDICO e PAZIENTE | 4.2018 |

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Periodico di formazione e informazione per il Medico di famiglia Numero 4.2018 - anno XLIV

Periodico della M e P Edizioni Medico e Paziente srl Via Dezza, 45 - 20144 Milano Tel. 02 4390952 - Fax 02 56561838 info@medicoepaziente.it

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Direttore editoriale Anastassia Zahova Per le informazioni sugli abbonamenti telefonare allo 024390952 Redazione Folco Claudi, Piera Parpaglioni, Cesare Peccarisi

Registrazione del Tribunale di Milano n. 32 del 4/2/1975 Filiale di Milano. R.O.C. N° 10464. L’IVA sull’abbonamento di questo periodico e sui fascicoli è considerata nel prezzo di vendita ed è assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74, primo comma lettera CDPR 26/10/1972 n. 633. L’importo non è detraibile e pertanto non verrà rilasciata fattura. Stampa: Graphicscalve, Vilminore di Scalve (BG) I dati sono trattati elettronicamente e utilizzati dall’Editore “M e P Edizioni Medico e Paziente” per la spedizione della presente pubblicazione e di altro materiale medico-scientifico. Ai sensi dell’art. 7 D. LGS 196/2003 è possibile in qualsiasi momento e gratuitamente consultare, modificare e cancellare i dati o semplicemente opporsi al loro utilizzo scrivendo a: M e P Edizioni Medico e Paziente, responsabile dati, via Dezza, 45 - 20144 Milano.

Comitato scientifico

Redazione WEB Alessandro Visca Progetto grafico e impaginazione Elda Di Nanno Segreteria di redazione Concetta Accarrino

Prof. Vincenzo Bonavita Professore ordinario di Neurologia, Università “Federico II”, Napoli Dott. Fausto Chiesa Direttore Divisione Chirurgia Cervico-facciale, IEO (Istituto Europeo di Oncologia) Prof. Sergio Coccheri Professore ordinario di Malattie cardiovascolari-Angiologia, Università di Bologna

Direttore Commerciale Carla Tognoni carla.tognoni@medicoepaziente.it Hanno collaborato a questo numero: Elena Biagi, Elisabetta Cofrancesco, Renzo Colombo, Caterina Conte, Solomon Epstein, Camilla Isgrò, Nadia Lattuada, Nicola Napoli, Silvia Turroni, Simone Rampelli, Arturo Zenorini Foto di copertina: 123RF Archivio Fotografico Direttore responsabile Sabina Guancia Scarfoglio

Prof. Giuseppe Mancia Direttore Clinica Medica e Dipartimento di Medicina Clinica Università di Milano - Bicocca Ospedale San Gerardo dei Tintori, Monza (Mi) Dott. Alberto Oliveti Medico di famiglia, Ancona, C.d.A. ENPAM Prof. Rocco Maurizio Zagari Professore associato di Gastroenterologia, Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche (DIMEC), Università di Bologna

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Ipertensione farmacoresistente

Effetti della denervazione renale sulla pressione sanguigna in presenza di farmaci antipertensivi: risultati di efficacia e sicurezza a sei mesi del trial randomizzato sperimentale SPYRAL HTN-ON MED

L

a denervazione renale è un’innovativa terapia mininvasiva per la cura dell’ipertensione resistente ai farmaci. Numerosi studi hanno provato un’iperattivazione del sistema nervoso simpatico a livello renale in corso di malattia ipertensiva: la procedura interrompe i nervi che decorrono sulle arterie renali tramite l’utilizzo di un apposito catetere che rilascia energia a radiofrequenza a basso potenziale. Trattandosi di una tecnica di recente introduzione, gli studi condotti hanno dato finora risultati di efficacia variabili. L’obiettivo del trial denominato SPYRAL HTN-ON MED, internazionale, randomizzato in singolo cieco, sperimentale, era di valutare il profilo di sicurezza e di risposta della pressione sanguigna della denervazione renale rispetto al placebo in pazienti con iperten-

sione non controllata nonostante i farmaci antipertensivi. Sono stati coinvolti 467 pazienti di età compresa tra 20 e 80 anni in 25 centri di Stati Uniti, Germania, Giappone, Regno Unito, Australia, Austria e Grecia. I pazienti eleggibili avevano una pressione sistolica misurata in ambulatorio tra 150 e 180 mmHg e una pressione diastolica di 90 mmHg o più elevata, con i valori medi di pressione sistolica sulle 24 ore tra 140 e 170 mmHg; inoltre, erano in terapia antipertensiva con 1-3 farmaci a dosi stabili da almeno 6 settimane. I pazienti arruolati sono stati sottoposti ad angiografia renale e randomizzati a ricevere una procedura di denervazione renale o un placebo. Il primo endpoint di efficacia era la variazione di pressione rispetto al basale, sulla base di una misurazione ambulatoriale

A

effettuata a 6 mesi. La sicurezza è stata valutata sulla base degli eventi cardiovascolari maggiori. Questa analisi condotta da David Kandzari del Piedmont Heart Institute di Atlanta, in Georgia, e colleghi di una collaborazione internazionale riguarda 80 pazienti, randomizzati alla denervazione renale (n =38) o al placebo (n =42). L’analisi statistica dei dati ha dimostrato una significativa diminuzione dei valori di pressione misurati sulle 24 ore a sei mesi dall’intervento nel braccio trattato con denervazione: -7 mmHg in media per i valori sistolici e -4,3 mmHg per i valori diastolici. Rispetto al placebo, le differenze misurate sono state di -6,8 mmHg e -7,4 mmHg per la pressione sistolica misurata, rispettivamente, in ambulatorio e sulle 24 ore, e di -3,5 mmHg e di -4,1 mmHg per la pressione diastolica misurata, rispettivamente, in ambulatorio e sulle 24 ore. In conclusione, lo studio dimostra che la denervazione renale è in grado di ridurre in modo significativo la pressione sanguigna rispetto al placebo, senza un rischio di eventi cardiovascolari maggiori. ● Kandzari DE, Böhm M et al. Lancet 2018; 391(10137): 2346-55.

lcuni studi hanno dimostrato i benefici dell’aggiunta di tiotropio alla terapia di mantenimento con corticosteroidi per via inalatoria (ICS), con o senza un beta-2 agonista a lunga durata d’azione (LABA) in pazienti con asma sintomatico. Considerato che esiste una significativa componente allergica in una notevole quota di pazienti asmatici, Thomas Casale, dell’Università della South Florida a Tampa, e colleghi di una collaborazione internazionale, hanno voluto verificare se le risposte alla terapia adiuvante con tiotropio Respimat fossero influenzate dallo stato delle citochine infiammatorie T2 dei pazienti. In questo studio esplorativo, hanno considerato i dati di quattro studi clinici di fase III, due dei quali, denominati PrimoTinA-asthma, condotti somministrando 5 μg di tiotropio/ die o placebo in associazione a ICS+LABA e due, denominati MezzoTinA-asthma, condotti somministrando 5 μg o 2,5 μg di tiotropio/die, 50 μg di salmeterolo BID o placebo in associazione a ICS+LABA in pazienti asmatici. Hanno quindi condotto un’analisi per sottogruppi per verificare se gli endpoint primari fossero stati influenzati dai livelli di IgE sierici, dalla conta degli eosinofili e dalla valutazione sull’asma allergico. L’analisi dei dati ha mostrato che il tiotropio era efficace nel migliorare la FEV1 di picco entro 3 ore dalla somministrazione e la trough FEV1, indipendentemente dallo stato T2. Inoltre, il tiotropio ha ridotto in modo significativo il rischio di recidive severe, anche in questo caso indipendentemente dal fenotipo T2.

Allergologia

Tiotropio Respimat in aggiunta alla terapia di fondo standard si mostra efficace nell’asma sintomatico, indipendentemente dal fenotipo T2

● Casale TB, Bateman ED et al. J Allergy Clin Immunol Pract 2018; 6 (3): 923-35.e9

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epidemiologia

L’adozione di uno stile di vita salutare ha un impatto positivo sul rischio cardiovascolare, anche tra i soggetti affetti da diabete di tipo 2

U

no stile di vita “sano” è la prima arma di prevenzione contro le patologie cardiovascolari (CV) nella popolazione generale, ma sembra avere un certo peso anche tra i diabetici, come mostra lo studio qui presentato. L’obiettivo del lavoro era esaminare l’associazione di uno stile di vita complessivamente salutare con il rischio d’insorgenza di malattia CV e di relativa mortalità tra adulti affetti da diabete di tipo 2. A questo scopo, sono stati coinvolti 11.527 soggetti con diagnosi di diabete di tipo 2, per i quali sono stati valutati alcuni parametri quali, la dieta di elevata qualità, l’astensione dal fumo, l’attività fisica da moderata a vigorosa/intensa (almeno 150 minuti alla settimana) e il consumo moderato di alcol (da 5 a 15 grammi al giorno per le donne e da 5 a 30 grammi al giorno per gli uomini). Durante il follow-up, durato in media 13,3 anni, sono stati registrati 2.311 eventi CV e 858 decessi correlati. Dall’analisi multivariata è emerso tra i partecipanti con tre o più fattori di stile di vita a basso rischio, rispetto a coloro che non ne avevano, un hazard ratio di 0,48 per l’incidenza di malattia coronarica, di 0,33 per l’incidenza di ictus e di 0,32 per la mortalità CV (per tutti i valori, p per trend <0,001). Il rischio attribuibile alla popolazione, della scarsa aderenza allo stile di vita comples-

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sivamente salutare (cioè con meno di 3 fattori di basso rischio) era di 40,9 per cento per la mortalità CV. Inoltre, i maggiori miglioramenti nei fattori di vita salutari da prima della diagnosi a dopo la diagnosi sono risultati associati a un minor rischio di eventi e mortalità CV. Per ogni singolo incremento nel numero di fattori “sani”, l’incidenza totale di eventi CV diminuiva del 14 per cento, il rischio di malattia coronarica del 12, il rischio di ictus del 21 e la mortalità CV del 27 per cento. In conclusione, lo studio ha mostrato che tra soggetti adulti con diabete di tipo 2 la maggiore aderenza a uno stile di vita salutare è associato a una sostanziale diminuzione del rischio di eventi CV e delle morti correlate; dunque stimolare i pazienti a mettere in pratica abitudini di vita sane potrebbe rappresentare un utile strumento per contenere quelle che a buon diritto sono ritenute tra le più temibili complicanze della malattia diabetica. ● Liu G, Li Y et al. J Am Coll Cardiol 2018; 71(25): 2867-76

Patologie metaboliche

L’obesità metabolicamente sana non sembra essere un predittore stabile e nemmeno realistico per la stratificazione del rischio CV

M

olti studi in passato hanno analizzato la correlazione tra rischio cardiometabolico e obesità metabolicamente sana, con risultati contraddittori. E la questione resta tuttora aperta. Gli Autori del lavoro sono partiti dall’ipotesi che negli studi l’obesità metabolicamente sana sia in realtà transitoria e che l’eterogeneità nei dati d’incidenza di eventi cardiovascolari (CV) e nella mortalità sia da attribuire alla transizione di questa condizione verso la sindrome metabolica e alla sua durata nel tempo. Hanno analizzato i dati di 6.809 soggetti alla ricerca di una possibile correlazione tra obesità (BMI ≥30 kg/ m2) e sindrome metabolica con la malattia CV e la mortalità correlata per un follow up mediano di 12,2 anni. È emerso che rispetto ai normo-

peso metabolicamente sani, l’obesità metabolicamente sana al basale non era correlata in modo significativo a malattie CV. Tuttavia circa metà dei soggetti considerati obesi e metabolicamente sani hasviluppato sindrome metabolica durante il follow up (OR 1,60, CI 95 per cento 1,14-2,25). Inoltre, la durata della sindrome metabolica è risultata associata in modo significativo e lineare alla malattia CV. In conclusione, l’obesità metabolicamente sana non è un indicatore stabile né affidabile per il futuro rischio di eventi e malattie CV. E secondo gli Autori, la perdita di peso e l’adozione di uno stile di vita virtuoso dovrebbero essere incoraggiati in tutti i pazienti obesi. ● Mongraw-Chaffin M, Foster MC et al. J Am Coll Cardiol 2018; 71(17): 1857-65

I

l programma NutriNet-Santé è uno studio osservazionale di coorte, basato su questionari online, avviato in Francia nel maggio del 2009. Questo articolo, firmato da Céline Phan dell’Università Paris Est Créteil e colleghi di altri istituti francesi, ha utilizzato e analizzato i dati raccolti nel progetto NutriNet-Santé tra aprile e giugno del 2017 per verificare una possibile correlazione dell’aderenza alla dieta mediterranea con l’insorgenza della psoriasi e con la sua gravità (con tre livelli di severità previsti: psoriasi grave, non grave e assente). Su 158.361 soggetti coinvolti, hanno risposto al questionario sulla psoriasi in 35.735 (23 per cento), di cui 3.557 (10 per cento) affetti da psoriasi. Dopo aggiustamento dei dati per controllare i possibili fattori di confondimento (età, sesso, attività fisica, BMI, tabagismo e storia di disturbi cardiovascolari), gli Autori hanno scoperto una correlazione inversa statisticamente significativa tra aderenza alla dieta mediterranea, valutata con l’apposito punteggio MEDI-LITE (che va da 0, corrispondente a nessuna aderenza, fino a 18, corrispondente alla massima aderenza), e gravità di psoriasi: l’odds ratio è risultato di 0,71 per punteggi nel secondo tertile (punteggi tra 8 e 9) e di 0,78 per il terzo terzile (punteggi tra 10 e 18). Secondo le conclusioni degli Autori, i pazienti con psoriasi di grado severo mostravano i minori punteggi di aderenza alla dieta mediterranea, corroborando l’ipotesi che quest’ultima possa rallentare la progressione della psoriasi, grazie al suo effetto in termini di riduzione dell’infiammazione cronica, già in passato correlato a un beneficio per la sindrome metabolica e per il rischio di eventi cardiovascolari. Se questi risultati dovessero essere confermati, l’aderenza alla dieta mediterranea dovrebbe essere inserita nella gestione routinaria della psoriasi nelle forme di gravità da moderata a severa.

Dermatologia

Nei pazienti con psoriasi, una maggiore aderenza alla dieta mediterranea potrebbe rallentare la progressione della malattia: i risultati della coorte francese NutriNet-Santé

● Phan C, Touvier M et al. JAMA Dermatol 2018; doi: 10.1001/jamadermatol.2018.2127. [Epub ahead of print]

8 | MEDICO e PAZIENTE | 4.2018


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medicina

Endocrinologia

Insulino-resistenza e osso Una (complessa) associazione biologica L’aumentato rischio di fratture nei pazienti con diabete di tipo 2 è stato confermato in molteplici lavori. In queste pagine, gli Autori illustrano le evidenze attualmente disponibili sulla relazione, ancora tutta da chiarire, tra metabolismo glucidico e tessuto osseo Caterina Conte1, Solomon Epstein2, Nicola Napoli3,4, Camilla Isgrò3 1. Unità di Trapianto Clinico, Divisione di Immunologia, Trapianti e Malattie Infettive, IRCCS San Raffaele Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, Milano; 2.Dipartimento di Endocrinologia, Mount Sinai School of Medicine, New York, NY (USA); 3. Dipartimento di Endocrinologia e Diabetologia, Università Campus Bio-Medico di Roma, Roma; 4. Dipartimento di Bone and Mineral Diseases, Washington University in St Louis, MO, (USA).

N

egli ultimi decenni, diversi lavori hanno confermato un’associazione tra aumentato rischio di fratture e diabete mellito di tipo 2 (T2D) [1]. Dai dati ottenuti da grandi studi eseguiti su soggetti anziani, la densità minerale ossea (BMD) misurata a livello del collo del femore e il FRAX score (Fracture Risk Assessment Tool) sono risultati correlati sia con frattura all’anca che con fratture non vertebrali in individui diabetici. L’aumentato rischio di fratture in caso di T2D si verifica nonostante l’evidenza di valori di BMD normali o elevati. Tuttavia, la patogenesi della fragilità ossea in caso di T2D non è stata ancora chiaramente delucidata. Alcuni studi che hanno valutato la microarchitettura ossea in vivo utilizzando la HR-pQCT, supportano l’ipotesi che la fragilità ossea nei pazienti diabetici sia associata a un’aumentata porosità corticale [2], sebbene non tutti i lavori puntino verso questa direzione [3].

Insulino-resistenza L’insulino-resistenza, ovvero la compromissione dell’azione insulinica a livello dei tessuti bersaglio (muscolo, fegato, tessuto adiposo) coinvolta nella regolazione del metabolismo glucidico, gioca un ruolo centrale nello sviluppo del T2D. La sua fisiopatologia è complessa e uno dei meccanismi principali è l’accumulo di lipidi ectopici nel fegato e nel muscolo scheletrico, insieme alla disfunzione degli adipociti. Tali alterazioni sono fortemente associate con eccesso calorico e vita sedentaria, portando allo sviluppo di una condizione di obesità, considerata “lo stato di insulino-resistenza per eccellenza”. Per far fronte alla riduzione dell’insulino-sensibilità, le cellule β

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del pancreas aumentano la loro capacità di secrezione insulinica, sfociando in un’iperinsulinemia (Figura 1). Un’inadeguata risposta delle incretine prodotte nel tratto gastrointestinale nel periodo postprandiale, risulta in un eccessivo rilascio di glucagone da parte delle cellule α pancreatiche, contribuendo ulteriormente allo sviluppo dell’iperinsulinemia. La cellula β non riesce a far fronte all’anormale carico di lavoro necessario a mantenere i livelli di glucosio fisiologici tramite l’iperinsulinemia compensatoria, e si manifesta così l’iperglicemia [4].

Effetto dell’insulina e dell’insulinoresistenza sul metabolismo osseo Il signaling insulinico regola sia la formazione che il riassorbimento osseo. Infatti, sia gli osteoblasti che gli osteoclasti esprimono il recettore insulinico (IR) sulla loro superficie. Evidenze sperimentali confermano che l’IR negli osteoblasti sia richiesto per la loro proliferazione, sopravvivenza e differenziazione. In vitro, è stato dimostrato che concentrazioni fisiologiche di insulina aumentano il tasso di proliferazione degli osteoblasti, la sintesi di collagene, la produzione di fosfatasi alcalina e l’uptake di glucosio, oltre a inibire l’attività osteoclastica, sottolineando l’azione anabolica di tale ormone sull’osso [5]. Grandi studi epidemiologici hanno dimostrato che individui con diabete mellito di tipo 1 (T1D) presentano una bassa BMD e un elevato rischio di frattura comparati con i controlli non diabetici [6]. Gli osteociti potrebbero essere cruciali nella resistenza al carico e alla frattura nell’osteopatia diabetica dietro la secrezione di ormoni ossei come la sclerostina, antagonista del Wnt Pathway


canonico, che promuove la formazione ossea tramite stimolazione della differenziazione e maturazione degli osteoblasti, e la riduzione del riassorbimento osseo tramite inibizione dell’osteoclastogenesi [7]. Studi effettuati su modelli murini suggeriscono che l’iperinsulinemia e l’insulino-resistenza, in assenza di iperglicemia, potrebbero contribuire alla riduzione del turnover osseo. Nonostante la riduzione di tale turnover possa aumentare l’areal BMD, potrebbe anche contribuire alla fragilità ossea tramite un aumento della porosità corticale o altri deficit nella microarchitettura [8]. Nel loro studio in vitro, Li et al. hanno dimostrato che l’uptake di glucosio stimolato dall’insulina e la sua ossidazione a livello degli osteoblasti maturi dipende dal trasportatore del glucosio insulino-dipendente GLUT4 e che l’eliminazione della sua espressione attenua la mineralizzazione ossea nei topi. Topi deficienti in GLUT4 a livello di osteoblasti e osteociti, sviluppavano adiposità viscerale e iperinsulinemia, ipertrofia delle cellule β e marcata insulino-resistenza [9]. Tali scoperte indeboliscono la credenza tradizionale che l’osso sia metabolicamente inerte, e suggeriscono che le richieste metaboliche dell’osso rappresentino una componente significativa dello smaltimento e dell’utilizzazione dell’energia derivante dal glucosio.

Figura 1 meccanismi dell’insulino-resistenza

w Dati clinici Studi osservazionali Quasi tutti i dati clinici sulla relazione tra osso e insulino-resistenza derivano da studi osservazionali. I livelli di insulina a digiuno correlano con la BMD in diversi studi, e valori più elevati di BMD sono stati riportati in condizioni note per essere associate con l’insulino-resistenza, come la sindrome dell’ovaio policistico [10]. Nel Rotterdam Study, un’elevata massa ossea era associata con elevati livelli di glucosio e insulina post-carico, così come con l’aumentato rapporto circonferenza vita/circonferenza fianchi e il BMI, supportando l’esistenza di un’associazione positiva tra aumentati livelli di insulina e valori di BMD [11]. Dallo studio SWAN, è emerso che una maggiore insulino-resistenza, stimata con l’HOMA-IR, è associata con una maggiore BMD volumetrica e una microarchitettura ossea per lo più positiva, in donne caucasiche non diabetiche in età postmenopausale. Inoltre, l’HOMA IR tendeva a essere inversamente correlata con la porosità corticale [12]. Infine, Dennison et al. hanno misurato una mag-

Fonte: Samuel et al., 2016

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medicina

Endocrinologia

Figura 2 Rappresentazione schematica della relazione tra osso e metabolismo glucidico

giore BMD in uomini e donne di mezza età con nuova diagnosi di T2D vs. individui non diabetici. L’aggiustamento per il BMI ha indebolito tale associazione, suggerendo che l’iperinsulinemia possa influenzare indirettamente la BMD tramite il BMI [13]. Studi meccanicistici Vi è evidenza per cui l’intake di vari nutrienti risulti in una soppressione acuta del turnover osseo. Tuttavia, in che modo l’iperinsulinemia indotta dal pasto sia responsabile di tale effetto, non è ben noto [14]. Clowes et al. non sono riusciti a dimostrare un effetto acuto dell’iperinsulinemia sul turnover osseo durante un clamp iperinsulinemico euglicemico (HEC) in uomini sani, mentre i markers del turnover osseo (BTMs) venivano soppressi durante un clamp iperinsulinemico ipoglicemico nel quale erano stati registrati livelli di insulina simili [15]. Utilizzando un’infusione di insulina a gradini durante l’HEC e un’infusione di somatostatina insieme a infusioni sostitutive di ormone della crescita (GH) e glucagone (che hanno permesso di isolare i possibili effetti dell’insulina sul metabolismo osseo indipendentemente dalle variazioni dei livelli di glucosio, GH o glucagone), Basu et al. hanno dimostrato che le variazioni nei livelli di insulina attraverso il range fisiologico (sia a digiuno che postprandiale) non riescono ad alterare i livelli di BTMs e di osteocalcina non carbossilata (ucOC) sia in individui diabetici che non [16]. Tali scoperte suggeriscono che mediatori diversi dall’insulina potrebbero spiegare la diminuzione acuta del turnover osseo osservata dopo l’assunzione orale di nutrienti. Per discriminare se fosse l’incremento dell’adiposità stessa, piuttosto che l’insulino-resistenza associata all’obesità, la responsabile del ridotto turnover osseo negli individui obesi, recentemente Tonks et al. hanno comparato i BTMs durante le condizioni basali e un HEC, di individui magri, obesi insulino-sensibili, obesi insulino-resistenti e diabetici. Dal loro studio emerge che le funzioni di osteoblasti e osteoclasti venivano meno nei soggetti

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obesi insulino-resistenti, che presentavano livelli di insulina a digiuno doppi rispetto agli individui magri. Non sono state osservate ulteriori soppressioni dell’OC quando venivano aumentate le concentrazioni di insulina durante l’HEC, indicando che i livelli di OC erano già stati massimamente soppressi da quelli di insulina a digiuno dei pazienti obesi insulino-resistenti [17]. Inoltre, uno scarso controllo metabolico potrebbe influenzare negativamente il metabolismo osseo, giacché la concentrazione sierica di OC totale risulta essere inversamente correlata con i valori di HbA1c nei pazienti con T1D di vecchia diagnosi [18]. Di recente, Westberg-Rasmussen et al. hanno dimostrato, utilizzando sia un OGTT che un’infusione di glucosio intravenosa isoglicemica (IIGI), un effetto incretinico sui BTMs. L’effetto incretinico è quell’effetto in virtù del quale un carico orale di glucosio produce una risposta insulinica maggiore di quella stimolata da un’infusione di glucosio intravenosa isoglicemica. Esso dipende principalmente da due ormoni intestinali, GIP e GLP-1, secreti in risposta al pasto, che aumentano la secrezione di insulina stimolata dal glucosio, inibiscono la secrezione di glucagone e controllano appetito e peso corporeo. Un terzo ormone, GLP-2, promuove la crescita e la funzionalità della mucosa intestinale. Gli Autori hanno osservato che, nonostante i livelli simili di glucosio durante OGTT e IIGI, il declino del marker di riassorbimento osseo CTx era maggiore durante l’OGTT nei soggetti sani. Non sono stati osservati effetti significativi del glucosio sul marker di formazione ossea P1NP, suggerendo che il riassorbimento osseo era ridotto, mentre la formazione ossea rimaneva inalterata in seguito al carico di glucosio. Le concentrazioni plasmatiche degli ormoni intestinali GIP, GLP-1

• Diversi lavori hanno confermato nel corso degli ultimi anni un’associazione tra aumentato rischio di fratture e diabete di tipo 2. • Tale rischio si verifica nonostante l’evidenza di valori di densità minerale ossea normali o elevati. • Quale sia il meccanismo patogenetico che sta alla base della fragilità ossea in caso di T2D non è stato completamente chiarito. • Nel complesso, emerge una relazione bidirezionale in cui l’insulino-resistenza può influenzare il metabolismo osseo, e viceversa.


e GLP-2 risultavano superiori sotto l’OGTT che durante l’IIGI; era inoltre presente una correlazione tra diminuzione del CTx e GIP, indicando che gli ormoni incretinici potrebbero avere un effetto acuto non accoppiato sul turnover osseo, che risulta in un decremento del riassorbimento osseo senza alterarne la formazione [19]. Infine, un modo per determinare l’effetto dell’insulino-resistenza sull’osso è valutare l’effetto degli interventi noti per apportare un miglioramento dell’insulino-sensibilità. La restrizione calorica migliora l’insulino-sensibilità, e una modesta, ma persistente perdita di peso può ritardare la progressione da prediabete a T2D. Un piccolo studio condotto su giovani donne sane ha dimostrato che i marker di formazione ossea venivano soppressi da una moderata restrizione calorica e deficit calorici più marcati causavano un aumento del riassorbimento osseo [20]. Anche altri studi hanno mostrato che la perdita di peso è accompagnata da una significativa perdita ossea, ma essa potrebbe però essere prevenuta con l’esercizio fisico [21].

Potenziale ruolo dell’osso nella patogenesi dell’insulino-resistenza w Effetto dell’OCN sul metabolismo glucidico Una volta ritenuto come un sistema inerte con mere funzioni strutturali, oggi lo scheletro è considerato un vero e proprio organo endocrino che partecipa al controllo dei processi metabolici. L’OC, proteina γ-carbossilata prodotta dagli osteoblasti durante la formazione ossea, sembra giocare un ruolo importante nel metabolismo del glucosio. Lee et al. hanno dimostrato che l’addizione di ucOC (forma attiva) aumentava, in vitro, la proliferazione delle cellule β e l’espressione di insulina e APN a tale livello e negli adipociti [22]. Nello studio di Ferron et al., topi carenti di OC mostravano iperglicemia e intolleranza al glucosio, ridotta secrezione insulinica, ridotta insulino-sensibilità ed espressione di APN, nonché aumento della massa grassa e dei livelli sierici di trigliceridi. Una somministrazione intermittente di OC potrebbe migliorare la glucosio tolleranza e l’insulino-sensibilità, aumentare il numero di mitocondri nel muscolo scheletrico (aumentando la spesa energetica), e conferire protezione contro l’obesità indotta dalla dieta [23]. Bilotta et al. hanno dimostrato che sia un’elevata glicemia che l’insulino-resistenza influenzano negativamente l’espressione del gene umano codificante per l’OC durante la differenziazione osteogenica, probabilmente andandone a inibire il promotore [24]. L’ucOC potrebbe anche stimolare indirettamente la secrezione insulinica tramite aumento della secrezione del GLP-1. Mizokami et al. hanno riportato che una somministrazione di ucOC induceva la secrezione del GLP-1 e quindi quella di insulina nei topi [25]. Tali scoperte indicano dunque un ruolo degli osteoblasti e dell’OC nella regolazione del metabolismo glucidico. Tuttavia, potrebbero esserci altri mediatori di derivazione ossea tramite i quali l’osso regola il metabolismo glucidico e i depositi di grasso corporeo, come il pathway Wnt/β-catenina [26].

w Dati clinici Studi osservazionali Molti [27, 28] ma non tutti [29] gli studi supportano una correlazione tra livelli di OC, insulino-sensibilità e composizione corporea. Kunutsor et al. hanno scoperto che un aumento unitario dei livelli sierici di OC totale era associato a un significativo aumento medio della funzione delle cellule β pancreatiche e a una riduzione media dell’HbA1c, con significative riduzioni medie anche nei livelli di glucosio plasmatico a digiuno, insulinoresistenza e BMI [30]. Studi meccanicistici Uno studio randomizzato controllato ha mostrato che riducendo l’ucOC tramite supplementazione con vitamina K non si verificava un aumento di grasso nell’arco di 3 anni in donne e uomini anziani [31]. In un trial simile, aumentando l’OC carbossilata con una supplementazione di vitamina K si otteneva un impatto favorevole sulla massa grassa e sulla sua distribuzione, sebbene non sia stato osservato alcun effetto sul metabolismo glucidico [32]. Centi et al. nel loro studio hanno somministrato una dieta o dieta più moderata/intensa attività fisica a 112 donne sedentarie in età postmenopausale sovrappeso/obese. A seguito di una perdita di peso media del 12,5 per cento, non sono stati osservati cambiamenti nei livelli dell’ucOC [33]. Al contrario, un trial randomizzato su 107 anziani obesi cui è stata somministrata dieta, dieta più attività fisica o nessun intervento, ha mostrato che il miglioramento della secrezione insulinica associata con la perdita di peso indotta dalla dieta potrebbe essere mediata da un aumento dell’ucOC [34].

Conclusioni La relazione tra insulino-resistenza e osso appare complessa e non ancora completamente compresa. I dati preclinici suggeriscono una relazione bidirezionale, nella quale l’insulino-resistenza può influenzare il metabolismo osseo e viceversa, l’osso quello glucidico (Figura 2) [8, 9, 22]. Sembra pertanto che l’insulina abbia un effetto anabolico sull’osso, tuttavia, in uno stato di insulinoresistenza e iperinsulinemia, tale eccesso sembra essere associato a un ridotto turnover osseo [17]. Inoltre, altri ormoni sono coinvolti nella regolazione del metabolismo glucidico e sono alterati in caso di insulino resistenza, come l’IGF-1, l’APN e le incretine, contribuendo agli effetti che l’insulinoresistenza esercita sull’osso [19].

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medicina

Endocrinologia

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medicina

Oncologia

Tumore della vescica Inquadramento epidemiologico e terapeutico Negli ultimi anni, la sopravvivenza per neoplasia vescicale, considerati tutti gli stadi di malattia nel loro complesso, è da considerarsi mediamente lunga, anche se al prezzo di terapie spesso mal tollerate Renzo Colombo Dipartimento di Urologia, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano

S

econdo i dati AIRTUM (Associazione Italiana Registro Tumori) (1) nel 2017 sono stati registrati circa 27.000 nuovi casi di tumore della vescica, 21.700 tra gli uomini e 5.300 tra le donne (11 e 3 per cento di tutti i tumori incidenti, rispettivamente) (Tabella 1).

Dati di incidenza e prevalenza in Italia Il tumore della vescica rappresenta il quarto tumore più frequente nei maschi, con un incremento di incidenza con l’aumentare dell’età. Nelle donne la neoplasia è meno frequente, ma è responsabile del 4 per cento di tutti i tumori femminili sopra i 70 anni. Il rischio di sviluppare un tumore della vescica è significativamente più alto negli uomini rispetto alle donne (1 su 14 e 1 su 77, rispettivamente). Negli ultimi 10 anni il trend di incidenza appare in diminuzione, statisticamente significativa, negli uomini (-1,1 per cento per anno, Figura 1) e in lieve aumento, pur non significativo, nelle donne (+0,3 per cento per anno, Figura 2). L’incidenza negli uomini mostra i valori più elevati nelle regioni del Sud (83,2 per 100.000) rispetto al Nord e Centro Italia (78,6 e 68,3 per 100.000, rispettivamente). Oltre il 60 per cento dei casi prevalenti ha affrontato la diagnosi da oltre 5 anni. Questo dato indica che la sopravvivenza per neoplasia vescicale, considerati tutti gli stadi di malattia nel loro complesso, è da considerarsi mediamente lunga, anche se al prezzo di terapie spesso mal tollerate. Piemonte, Campania, Lombardia e Isole sono le aree geografiche a maggior incidenza. Tra le possibili ragioni rientrano l’elevata età media della popolazione e il maggior rischio di esposizione professionale.

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Fattori di rischio L’identificazione dei fattori alla base della elevata incidenza relativa per area geografica è difficile soprattutto in considerazione del fatto che il rapporto causa/effetto è spesso multifattoriale e riscontrabile solo a distanza di molti anni dall’esposizione al fattore cancerogeno. Fumo. Tra tutti i Paesi della area Europea, l’Italia si colloca ai primissimi posti insieme con Malta e Spagna sia per incidenza standardizzata per età che per mortalità correlata al carcinoma vescicale. In questi Paesi, il fumo e l’esposizione a sostanze chimiche cancerogene sembrano giocare un ruolo patogenetico determinante (2,3). Mentre tutti sono consapevoli che il fumo rappresenti il fattore di rischio più importante per lo sviluppo del cancro del polmone, pochi sono a conoscenza del fatto che, subito dopo il polmone, l’organo su cui il fumo esercita il suo effetto cancerogeno è la vescica. Il fumo di sigaretta contiene circa 3.200 composti con potenzialità cancerogena tra cui gli idrocarburi ciclici aromatici (PAH), le amine aromatiche (tra cui il 4-aminibifenile) e le aldeidi insature. Molte di queste sostanze chimiche vengono eliminate come tali o metabolizzate con le urine e agiscono quindi anche per contatto diretto con la parete della vescica. Indagini epidemiologiche su larga scala indicano che il rischio dei fumatori di sviluppare un carcinoma vescicale è fino a 3,8 volte superiore a quello dei non fumatori ed è direttamente proporzionale all’entità del consumo. Questo rischio si riduce del 30 per cento dopo 4 anni dalla sospensione del fumo, ma è bene sapere che anche dopo 25 anni il rischio non raggiunge mai quello dei non fumatori. In Italia l’elevato consumo di sigarette (>15/dì), che si riscontra in


Tabella 1. Epidemiologia delle neoplasie vescicali Incidenza

Nel 2017 erano attesi circa 27.000 nuovi casi di tumore della vescica, 21.700 tra gli uomini e 5.300 tra le donne (11% e 3% di tutti i tumori incidenti, rispettivamente)

Mortalità

Nel 2014 sono stati 5.610 i decessi per tumore della vescica (4.369 uomini e 1.241 donne) in Italia

Sopravvivenza a 5 anni

La sopravvivenza a 5 anni dei tumori della vescica in Italia è pari al 79,4%.

Sopravvivenza a 10 anni

La sopravvivenza a 10 anni dalla diagnosi è pari al 71%

Fattori di rischio

Fumo di sigaretta ed esposizione occupazionale sono i più importanti. Al tabacco sono attribuiti i 2/3 del rischio complessivo nei maschi e 1/3 nelle femmine, alle esposizioni lavorative circa il 25% dei casi.

Fonte: AIRTUM – AIOM. I numeri del cancro in Italia. Ed. Il Pensiero Scientifico 2017

oltre il 50 per cento dei pazienti con diagnosi di cancro della vescica, nonostante le campagne di sensibilizzazione alla sospensione, non è sostanzialmente diminuito negli ultimi 10 anni. Contrariamente alle previsioni, si osserva un lieve incremento della prevalenza di fumatori di entrambi i sessi: gli uomini passano dal 25,1 del 2015 al 27,3 per cento del 2016, le donne dal 16,9 del 2015 al 17,2 per cento del 2016. Nel 2016, i fumatori in Italia sono stati 11,5 milioni, il 22,0 per cento della popolazione: 6,9 milioni di uomini (il 27,3 per cento) e 4,6 milioni di donne (17,2 per cento). La prevalenza maggiore di fumatori di entrambi i sessi si riscontra nella fascia di età compresa tra i 25 e 44 anni (24,1 per cento delle donne e 31,9 per cento degli uomini). Esposizione professionale. Anche in Italia, come in altri Paesi dell’area comunitaria, un aumento statisticamente significativo del rischio di cancro della vescica è stato segnalato negli operai di certe industrie, quali quelle preposte alla produzione e lavorazione della gomma e dell’alluminio, dei solventi e coloranti oltre che nei soggetti direttamente esposti a specifiche sostanze chimiche quali ammine aromatiche, IPA, arsenico. Tuttavia, in aggiunta a questi fattori di rischio noti da tempo, stanno emergendo nuovi agenti potenzialmente cancerogeni prevalentemente correlati con lo sviluppo dell’agricoltura estensiva (4). L’uso di pesticidi in agricoltura ha registrato negli ultimi decenni un incremento notevole e sono state introdotte sul mercato diverse centinaia di molecole per molte delle quali

il controllo di sicurezza in termini di salute pubblica rimane ancora da definire. Un’inversione di tendenza si sta tuttavia registrando negli ultimi anni con lo spostamento di alcune produzioni agricole verso la coltivazione biologica, le filiere corte e le pratiche agricole biosostenibili basate sulla minimizzazione del consumo di pesticidi e diserbanti. Attualmente l’Italia rappresenta il Paese con il più alto tasso di coltivazioni biologiche di tutta la comunità europea costituendo in questo senso un esempio positivo di prevenzione dei tumori a riconosciuta oncogenesi multifattoriale inclusa quella alimentare.

Categorie cliniche di rischio w Neoplasie non muscolo invasive Analogamente a quanto accade nella maggior a parte dei Paesi socialmente avanzati, anche in Italia nel 75 per cento dei casi, la neoplasia della vescica alla prima osservazione è confinata alla tonaca sottomucosa (stadi Ta/T1/Cis) (5). Per questi stadi della malattia, il trattamento di elezione è rappresentato dalla resezione endoscopica della neoplasia seguita da uno o più cicli di instillazioni endovescicali con farmaci chemioterapici o immunoterapici in rapporto alla categoria clinica di rischio di recidiva e di progressione. Analogamente ad altri Paesi europei, anche in Italia la resezione endoscopica di vescica rappresenta uno degli interventi più frequenti di tutta la chirurgia e, in assoluto, il più frequente intervento urologico con una media di 35.000 procedure/anno. Le neoplasie vescicali

Il rischio di sviluppare un tumore alla vescica è più elevato negli uomini rispetto alle donne. Il trend negli ultimi 10 anni tuttavia, mostra un significativo calo tra gli uomini, e un lieve ma non significativo incremento nel sesso femminile. Tra i fattori di rischio principali rientrano il fumo di sigaretta e l’esposizione professionale a particolari sostanze chimiche. Esistono differenti approcci terapeutici, a seconda dello stadio di malattia. Attualmente l’immunoterapia sta allargando le frontiere terapeutiche delle neoplasie vescicali in forma localmente avanzata o metastatica. MEDICO e PAZIENTE | 4.2018 |

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Oncologia

Figura 1. Tumore della vescica negli uomini: trend (stime) di incidenza e mortalità nel periodo 2003-2017

rimane comunque estremamente elevata (6) (tra il 30 e il 60 per cento dei casi entro due anni dalla resezione endoscopica) e richiede un monitoraggio periodico mediante esami citologici, cistoscopie, ecografie e/o TC addominali con mezzo di contrasto di durata non inferiore a 5 anni. Questi esami, per quanto effettuati prevalentemente in regime ambulatoriale incidono pesantemente sia sulla qualità di vita dei pazienti che sul costo sociale. Nel complesso il costo delle resezioni endoscopiche e delle instillazioni endovescicali rappresenta una delle voci più importanti della spesa sanitaria globale (6-7 per cento).

w Neoplasie muscolo invasive Nel restante 25 per cento dei casi, la neoplasia viene diagnosticata a uno stadio già caratterizzato dall’infiltrazione della tonaca muscolare (stadio ≥T2) al momento della prima diagnosi. In aggiunta, dal 12 al 18 per cento dei tumori esorditi senza invasione muscolare evolve a questi stadi della malattia rimangono di esclusiva pertinenza verso una forma invasiva nel corso delle recidive. In un quarto urologica e possiamo ritenere che tutti i centri di Urologia in circa dei casi con invasione della tonaca muscolare, la TAC o la Italia siano attualmente in grado di gestirle adeguatamente RM documentano una concomitante diffusione della malattia ai nel rispetto delle raccomandazioni delle linee guida. Anche le linfonodi regionali o agli organi viscerali (polmone, fegato, ossa). instillazioni di chemio (mitomycin C, epirubicina) o immunoterapici (BCG) a scopo di profilassi delle recidive possono essere A differenza di quanto accadeva in passato, oggi il trattamento effettuate in tutte le strutture sanitarie pubbliche o accreditate, delle neoplasie muscolo invasive include numerose opzioni e il costo dei farmaci è supportato interamente del Sistema terapeutiche tra cui la cistectomia radicale, la chemioterapia sanitario nazionale (Fascia Q). La frequenza delle recidive sistemica pre e post-operatoria, il trattamento trimodale conservativo d’organo (seconda resezione endoscopia e regime integrato di chemioFigura 2. Tumore della vescica nelle donne: trend radioterapia), l’approccio palliativo strut(stime) di incidenza e mortalità nel periodo 2003-2017 turato e l’inserimento nei trials clinici registrati. Di conseguenza, il risultato a lungo termine del trattamento oncologico appare sempre più strettamente correlato non solo alle caratteristiche della neoplasia (stadio, grado, estensione, localizzazione), ma anche alle caratteristiche cliniche del singolo paziente. Oggi, l’ottimizzazione del trattamento si identifica sempre più nella personalizzazione dello stesso attraverso un approccio multidisciplinare al paziente. La costituzione e la formalizzazione di team di specialisti appartenenti a varie discipline, dedicati alla diagnosi e alla terapia delle neoplasie vescicali infiltranti Note. APC, Annual Percent Change (variazione percentuale media annua); rappresenta uno degli obiettivi più urgenti I, incidenza; M, mortalità e imprescindibili del programma di tutela Fonte. AIRTUM: stima dei trend tumorali di incidenza e mortalità 2003-2017. della salute in Italia come nel resto della Tassi standardizzati nuova popolazione europea 2013. Comunità Europea. Note. APC, Annual Percent Change (variazione percentuale media annua); I, incidenza; M, mortalità Fonte. AIRTUM: stima dei trend tumorali di incidenza e mortalità 2003-2017. Tassi standardizzati nuova popolazione europea 2013.

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Individualizzazione della terapia per il Ca. vescicale in Italia w Approccio conservativo combinato Un approccio terapeutico curativo mirato alla conservazione della vescica può essere proposto anche in casi selezionati di neoplasia vescicale muscolo invasiva (stadi T2-T3a). Esso include una resezione endoscopica estesa in profondità seguita da un trattamento chemio-radioterapico concomitante o sequenziale. Pur in assenza di ampi studi randomizzati, sulla base di diversi protocolli del Radiation Therapy Oncology Group (RTOG) e di numerosi studi clinici di singole istituzioni europee e nordamericane (7,8), questo trattamento ha dimostrato di essere un’alternativa sicura ed efficace alla cistectomia radicale per pazienti che rispondano a ben definiti criteri di inclusione. Le linee guida delle maggiori organizzazioni e società scientifiche (NCCN, ESMO, EAU) includono la preservazione della vescica tra le opzioni terapeutiche, in casi particolari di neoplasia muscolo invasiva. Ciononostante, in Italia il protocollo di trattamento conservativo è utilizzato solo sporadicamente (2-5 per cento dei casi). Una ragione della limitata diffusione di questo approccio è sicuramente correlata alla necessità di una stretta collaborazione tra urologi, oncologi medici e oncologi radioterapisti, ancora poco diffusa in Italia e all’auspicabile adozione di un Protocollo terapeutico condiviso. w Chemioterapia preoperatoria Le linee guida internazionali raccomandano fortemente la chemioterapia basata sull’uso del cisplatino (cisplatino-gemcitabina o M-VAC) prima della cistectomia radicale, sia negli stadi di malattia ancora organo-confinata (T2-T3), sia negli stadi localmente avanzati (T4) o metastatici (N+, M+) della malattia (9-12). Ciononostante, in Italia il tasso dei pazienti effettivamente avviati alla chemioterapia preoperatoria rimane uno dei più bassi d’Europa (inferiore al 20 per cento anche in centri di riferimento). Le motivazioni di questo ridotto ricorso alla chemioterapia sistemica sono molteplici e includono: - la non idoneità del paziente all’assunzione del cisplatino (unico farmaco raccomandato per questo trattamento singolarmente o in combinazione) a causa di cardiopatie o nefropatie, - la preoccupazione che la chemioterapia possa dilazionare eccessivamente l’intervento chirurgico e incrementare il rischio di complicanze postoperatorie, - la distanza tra il domicilio del paziente e il Centro cui fa riferimento, - la mancanza di una Oncologia medica locale realmente operativa e - la limitata collaborazione tra i vari specialisti. È auspicabile che nell’immediato futuro, l’approccio alla malattia in team multidisciplinare (13-15) favorisca la diffusione ottimizzata sul singolo paziente sia del trattamento multimodale conservativo, che della chemioterapia preoperatoria, quantomeno in riconosciuti centri di riferimento nazionale.

w La cistectomia radicale La cistectomia radicale costituisce l’opzione chirurgica di scelta per le neoplasie muscolo invasive sia nel maschio che nella femmina. Rappresenta a tutt’oggi uno degli interventi chirurgici di maggiore complessità in assoluto di tutta la chirurgia e, come tale, è gravato da un tasso di complicanze peri- e postoperatorie tra i più elevati. Anche in Italia, sebbene il tasso di mortalità sia relativamente basso (0,8-3 per cento), le complicanze precoci sono state documentate nel 45-64 per cento dei pazienti (16,17). Mediamente in Italia vengono eseguiti circa 5.200 interventi di cistectomia radicale ogni anno, la maggior parte dei quali (circa 4.000) in soggetti di sesso maschile. In base ai dati AGENAS relativi all’anno 2014 i centri che effettuano cistectomie radicali in Italia sono 470, ma di essi meno di 10 eseguono più di 50 cistectomie/anno, circa 80 ne eseguono più di 20, ma oltre 220 centri ne eseguono meno di 5 all’anno (18,19). La distribuzione dei centri per volume chirurgico è estremamente variegata nelle diverse regioni italiane potendosi individuare regioni con più centri ad alto volume e regioni dove nessun centro raggiunge un volume chirurgico soddisfacente. Questo dato può almeno in parte rendere ragione dei flussi di spostamento dei pazienti da una regione all’altra, generalmente dalle regioni del Sud a quelle del Nord. Sulla base dei dati della letteratura nazionale e internazionale i centri a maggior volume chirurgico sono in grado di offrire al paziente un complesso di misure assistenziali decisamente superiore a quello che può essere offerto dai centri che eseguono poche cistectomie radicali. In particolare i centri che eseguono più di 20 cistectomie/anno registrano un minore tasso di complicanze e di mortalità perioperatoria, utilizzano più frequentemente i protocolli di assistenza multimodale (come i protocolli ERAS) (20), eseguono più spesso interventi ricostruttivi (neovesciche urinarie ortotopiche) o minimamente invasivi (con risparmio della potenza sessuale o condotti per via robot-assistita) e dispongono frequentemente di un database aggiornato. L’istituzionalizzazione di centri di riferimento per la cistectomia radicale costituisce già una realtà in molti Paesi dell’area comunitaria. La definizione dei requisiti minimi strutturali e di volume dei centri di riferimento per questo intervento costituisce quindi una necessità inderogabile strettamente correlata con la definizione e l’istituzionalizzazione dei team multidisciplinari per il carcinoma vescicale. w Trattamento palliativo I pazienti con carcinoma vescicale avanzato, metastatico o intrattabile per severe comorbidità dovrebbero poter essere affidati a un programma strutturato di terapia palliativa. Come terapia palliativa o Best Supportive Care (BSC) (21) si considera l’insieme degli interventi diagnostici, terapeutici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti nei quali il tumore non risponde più ai trattamenti oncologici convenzionali. La BSC è quindi il complesso risultato di una decisione, basata su evidenze scientifiche, che una terapia MEDICO e PAZIENTE | 4.2018 |

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medicina

Oncologia

quelle in arrivo sono in varie fasi di sperimentazione in trials clinici randomizzati Figura 3. Meccanismo d’azione dell’immunità mediata multicentrici, multinazionali di confronto dai recettori PD-1 (Programmed Death Ligand-1) e degli con la chemioterapia convenzionale o inibitori anti-programmed death ligand (PDL-1) placebo. A seguito della pubblicazione dei risultati di alcuni di questi studi di fase I-II, alcuni checkpoint inhibitors come atezolizumab, nivolumab, pembrolizumab hanno già ottenuto la registrazione all’uso clinico per i tumori vescicali selezionati da parte della FDA americana e di EMA per l’Europa. In particolare, pembrolizumab è approvato da EMA per l’uso in monoterapia per il trattamento del carcinoma uroteliale localmente avanzato o metastatico di pazienti adulti in progressione dopo una precedente chemioterapia contenente platino e di adulti non eleggibili alla chemioterapia convenzionale (25-28). Lo studio di fase tre Keynote-045 (29) ha messo a confronto l’efficacia dell’imNote. cellula presentante l’antigene; Ag, antigene; TCR, recettore T-cell; MHC, munoterapia con pembrolizumab con complesso maggiore di istocompatibilità; TAM, macrofagi associati al tumore; la chemioterapia basata sul cisplatino. I MDSC, cellule soppressorie di derivazione mieloide; ECM, matrice extracellulare. risultati hanno dimostrato che la sopravFonte: Alsaab HO et al. Front Pharmacol 2017; 8: 561 vivenza mediana dei pazienti trattati con pembrolizumab è di 10,3 mesi rispetto ai 7,4 mesi dopo chemioterapia. Pembrolizumab ha dimostrato “conservativa” sia migliore, sotto alcuni aspetti, di una terapia un maggiore numero di risposte cliniche complete rispetto alla aggressiva avendo come end point la sopravvivenza coniugata chemioterapia (21 per cento rispetto a 11 per cento) con un con la migliore qualità di vita possibile (22). profilo di tollerabilità nettamente a favore del nuovo farmaco Ciononostante, il concetto di terapia palliativa in Italia non è (61 per cento di effetti collaterali rispetto a 90 per cento). ancora entrato a far parte integrante dei percorsi diagnosticoL’avvento dei nuovi farmaci apre tuttavia due importanti proterapeutici e non rappresenta nella pratica clinica una strutturata opzione terapeutica, come dovrebbe essere. La carenza blematiche, ovvero la possibilità di accesso a queste cure dei è documentata dalla mancanza di oncologi medici specialisti pazienti (oggi molto variabile da un Paese all’altro) e il costo palliativisti e dalla limitata assistenza domiciliare in numerose sociale estremamente elevato. Anche per questo si attende con realtà locali italiane. impazienza l’esito dei numerosi studi di fase III appena iniziati È quindi fortemente auspicabile la formalizzazione di corsi o già completati per definire efficacia e tollerabilità dei nuovi universitari di specializzazione per oncologi palliativisti e farmaci sia in monoterapia che in schemi di combinazione personale infermieristico laureato che possano attuare la loro con altri agenti immunoterapici o chemioterapici. Consideesperienza professionale sia nei centri di ricovero che nelle rata l’estrema eterogeneità dell’espressione dei biomarkers varie realtà territoriali. immunitari, l’obiettivo clinico più urgente è costituito dalla definizione dei setting clinici più appropriati per l’uso di questi w Trials clinici e nuovi farmaci farmaci e l’identificazione dei fattori predittivi ovvero di quegli Gli studi clinici rappresentano la tappa finale di un lungo elementi in grado di selezione uno specifico farmaco per uno processo che inizia nei laboratori di ricerca in tutto il mondo. specifico paziente. Molti degli studi clinici più recenti e promettenti nel trattaBibliografia mento delle neoplasie vescicali riguardano farmaci in grado di potenziare o disinibire le cellule del corredo immunitario 1. Epidemiologia delle neoplasie vescicali. Fonte: AIRTUM – deputate a riconoscere e combattere le cellule tumorali. In AIOM. I numeri del cancro in Italia. Ed. Il Pensiero Scientifico particolare, i farmaci chiamati checkpoint inhibitors del sistema 2017 immunitario PDL-1 o PD-1 (Figura 3) stanno rivoluzionan2. International Agency for Research on Cancer. IARC Monodo l’approccio terapeutico alle neoplasie vescicali in stadio graphs on the evaluation of carcinogenic risk to humans. Tobacco localmente avanzato o metastatico (23,24) smoke and involuntary smoking. IARC Press, Lyon, 2004. A oggi, quasi dieci nuove molecole tra quelle già disponibili e 3. Puente D, Hartge P, Greiser E et al. A pooled analysis of

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Segnalazioni

Le proprietà di Lactobacillus casei Shirota Una revisione della letteratura Silvia Turroni, Elena Biagi, Simone Rampelli Unità di Ecologia Microbica della Salute, Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie, Università di Bologna

utti conoscono il significato della denominazione “batteri probiotici”, ma pochi sono consapevoli della lunga storia che ha condotto la scienza a comprendere l’importanza che rivestono alcuni batteri per il mantenimento della salute umana. Basti pensare che più di un secolo fa, Henry Tissier osservò che i batteri intestinali di neonati allattati al seno erano prevalentemente di forma bifida (denominati per questo bifidobatteri) e che tali microrganismi erano totalmente assenti in bambini affetti da diarrea intestinale e che assumevano latte artificiale [1]. Da allora, una serie molto ampia di studi ha permesso di approfondire e meglio comprendere l’associazione esistente tra alcuni ceppi batterici intestinali e la salute dell’uomo, tanto da definire con un elevato grado di sicurezza quali batteri possono essere classificati come “probiotici” in base a comprovati effetti benefici sulla salute dell’ospite [2] e a una quantità minima di almeno 109 cellule vive per giorno [3]. I probiotici, secondo la definizione ufficiale FAO/WHO, ripresa dalle Linee Guida su Probiotici e Prebiotici del Ministero della Salute italiano (Revisione Marzo 2018) [3], sono “microrganismi vivi che, somministrati in adeguate quantità, apportano un beneficio alla salute dell’ospite” [2]. Negli ultimi anni, si è assistito a una forte evoluzione della ricerca scientifica, anche alla luce delle nuove acquisizioni basate sul sequenziamento del genoma dei vari ceppi batterici, con un conseguente aumento della consapevolezza del pubblico sulla centralità che il microbiota intestinale ha per il benessere dell’organismo. Tra i principali effetti benefici associati al consumo di latti fermentati con probiotici è possibile annoverare la riduzione dei disturbi intestinali, quali costipazione

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e diarrea [4,5], e il miglioramento dei sintomi legati all’intolleranza al lattosio (vantaggio quest’ultimo offerto anche dal consumo di yogurt, grazie al riversamento nel latte dell’enzima beta-galattosidasi di origine batterica che scinde il lattosio in glucosio e galattosio). Tuttavia, oggi, l’uso dei probiotici non è più consigliato solo come trattamento coadiuvante i disturbi legati al nostro intestino, ma anche in tutta una serie di complicanze legate a uno stato di immunocompromissione dell’ospite, come quelle associate a immunodeficienze e terapie antitumorali, in cui è importante l’effetto di immunomodulazione dei probiotici, al fine di mantenere il delicato equilibrio tra tolleranza nei confronti di batteri commensali e antagonismo verso possibili microrganismi patogeni [6,7].

I lattobacilli Attualmente, insieme ai bifidobatteri, i lattobacilli rappresentano le principali specie batteriche a cui appartengono i più noti e sperimentati ceppi probiotici. A questo gruppo batterico appartengono più di 200 specie e sottospecie che sono state isolate da un’ampia gamma di risorse [8]. In particolare, i lattobacilli sono abili nel fermentare una grande quantità di substrati che includono latte, carne e piante (es. yogurt, kefir, salame, crauti, etc.) [9], e rappresentano anche uno dei componenti principali della maggior parte dei prodotti attualmente in commercio contenenti probiotici. Il Lactobacillus casei Shirota è uno dei ceppi probiotici più studiati dalla comunità scientifica e oggetto di un’ampia letteratura che evidenzia l’efficacia e la sicurezza della sua somministrazione.


Le proprietà di Lactobacillus casei Shirota Il Lactobacillus casei Shirota (LcS) è il ceppo isolato dal Dottor Minoru Shirota, presso l’Università di Kyoto negli anni ‘30, noto per essere resistente al succo gastrico e agli acidi biliari, e capace di raggiungere intatto l’intestino in seguito all'assunzione orale (Figura 1). La sopravvivenza di LcS al passaggio lungo il tratto gastrointestinale è stata dimostrata in diverse popolazioni, sia in adulti sia in bambini [10-14]. Il ceppo è sensibile alla maggior parte degli antibiotici, con la sola eccezione di gentamicina, pefloxacina e sulfometoxazolo+trimetoprim [15]. È stato, inoltre, dimostrato che la simultanea somministrazione di LcS e antinfiammatori non steroidei (es. ibuprofene, naproxene sodico, acido acetilsalicilico, paracetamolo) non influenza la biodisponibilità di questi ultimi; al contrario, ibuprofene e naproxene potrebbero compromettere la vitalità del ceppo [15]. LcS ha mostrato un alto profilo di sicurezza, anche in soggetti immunocompromessi e vulnerabili, come malati critici pediatrici [16]. A livello intestinale, LcS ha dimostrato di avere un effetto benefico sulla composizione dell’ecosistema microbico locale, il cosiddetto “microbiota intestinale”, promuovendo la crescita di batteri noti per essere associati alla salute dell’ospite, in primis Bifidobacterium e Lactobacillus [10,13,17-23], e inibendo la proliferazione di patobionti, ovvero di potenziali patogeni opportunisti, come Clostridium difficile, Clostridium perfringens, Pseudomonas, Enterococcus, o batteri appartenenti alla famiglia Enterobacteriaceae [10,13,2125]. In un recente studio volto a monitorare gli effetti del probiotico sui sintomi gastrointestinali correlati a situazioni di stress, è stato dimostrato anche un incremento della biodiversità del microbiota, ovvero del numero di specie presenti, parametro ritenuto un possibile marker di salute [26]. Parallelamente, in alcuni lavori è stato rilevato un aumento della concentrazione fecale di acidi grassi a corta catena (SCFA), come: acetato, butirrato e propionato [19-21]. Si tratta di metaboliti microbici, prodotti attraverso la fermentazione di polisaccaridi complessi a opera di membri del microbiota intestinale promotori della salute, che giocano un ruolo chiave e

FIGURA 1. Lactobacillus casei Shirota multifattoriale nella fisiologia umana, contribuendo al mantenimento dell’omeostasi metabolica e immunologica [27]. La lunga storia di utilizzo di LcS (oltre 80 anni) nell’essere umano ha consentito di evidenziare come la sua assunzione sia correlata a effetti significativi sul piano clinico in diversi contesti patologici, sia nell’adulto sia nell’anziano. In particolare, l’effetto positivo di LcS in situazioni di stipsi e condizioni correlate (feci dure, lento transito intestinale, emorroidi nel post-parto) è stato ripetutamente confermato [17,18,28-32]. LcS è stato sperimentato con successo anche in caso di alvo irregolare negli anziani [33]. In questi ultimi, “trattamenti” prolungati con LcS hanno mostrato un effetto significativo anche nella prevenzione di infezioni stagionali come gastroenteriti e infezioni delle alte vie respiratorie [21,25,34]. Il ruolo di LcS è stato studiato anche in studi clinici volti a valutarne l’effetto preventivo nei confronti della diarrea associata alla terapia antibiotica (AAD) e all’infezione da Clostridium difficile (CDAD) [35,36]. In particolare, in uno studio randomizzato che ha coinvolto 678 pazienti sottoposti a terapia antibiotica, è stata osservata una riduzione del rischio relativo di sviluppare AAD e CDAD nei soggetti che hanno ricevuto LcS e terapia antibiotica, rispetto al gruppo di controllo [37]. Per quanto riguarda specificamente le infezioni da C. difficile, quattro reparti di geriatria, in due ospedali della Gran Bretagna, hanno introdotto nuove

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Segnalazioni

strategie preventive nei confronti di questo patogeno: ai pazienti è stata offerta quotidianamente una bevanda di latte scremato fermentato contenente il ceppo LcS (6,5X109 UFC per porzione). L’efficacia di queste strategie è stata controllata misurando gli episodi di diarrea e rilevando le infezioni causate da C. difficile. Gli Autori hanno osservato che l’introduzione di LcS nell’alimentazione giornaliera di tutti i pazienti anziani contribuiva alla riduzione significativa (90 per cento) delle infezioni causate dal patogeno C. difficile [38]. LcS ha mostrato inoltre un interessante potenziale per il trattamento dello stress fisico e psicologico (come quello correlato alla sindrome da affaticamento cronico, legato a impegni accademici o a disturbi del sonno), con miglioramento dell’umore, e riduzione di stati d’ansia e di sintomi gastrointestinali, verosimilmente attraverso molteplici interazioni lungo il gutbrain-axis [26,39-42]. Allo stesso modo, LcS potrebbe contribuire a migliorare situazioni di iperglicemia e insulino-resistenza, come dimostrato in modelli murini e in soggetti obesi, a rischio di sviluppare diabete [43]. Gli Autori ipotizzano che LcS promuova un aumento della funzionalità delle cellule beta pancreatiche e una generale attività antinfiammatoria, con riduzione dei livelli plasmatici di lipopolisaccaride e ridotta permeabilità intestinale, sia direttamente sia indirettamente,

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attraverso pressioni selettive sul microbiota intestinale. Inoltre, come già osservato per altri ceppi probiotici, anche LcS ha mostrato un effetto ipocolesterolemizzante, verosimilmente legato a meccanismi di riduzione dell’assorbimento del colesterolo alimentare tramite binding diretto e/o assimilazione di steroli [43]. LcS potrebbe pertanto giocare un ruolo nella prevenzione di disordini metabolici correlati all’alimentazione, come il diabete di tipo 2, così come di ipertensione e disordini cardiovascolari. In particolare, in un recente studio osservazionale è emerso che il rischio di sviluppare ipertensione è sostanzialmente inferiore nel gruppo di soggetti anziani che hanno consumato un latte fermentato con LcS almeno 3 volte a settimana [44]. In modelli di ratti ipertesi, inoltre, è stato osservato che un estratto di lisato di LcS contenente componenti della parete cellulare, comportava una riduzione della pressione sanguigna, probabilmente come risultato di un’aumentata biosintesi della prostanglandina I2 con conseguente riduzione della resistenza vascolare periferica [45]. Grazie alle sue proprietà antinfiammatorie, LcS si è mostrato in grado di esercitare effetti benefici anche a livello orale, riducendo episodi di sanguinamento gengivale e migliorando complessivamente la salute parodontale [46,47].

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La somministrazione di LcS potrebbe altresì essere utile nel controllare i livelli ammoniacali a seguito di intenso esercizio fisico [48]. Con specifico riferimento alla modulazione del sistema immunitario, gli studi sono coerenti nel dimostrare un aumento dell’attività delle cellule natural killer (NK) a seguito della somministrazione di LcS in diverse coorti di soggetti, adulti e anziani, inclusi fumatori abituali, per i quali è nota un’associazione inversa tra attività delle cellule NK e numero di sigarette fumate [49-52]. Le cellule NK sono di fondamentale importanza nei meccanismi di immunosorveglianza fisiologica, coinvolte nel controllo ed eliminazione, ad esempio, di cellule infettate da virus così come di cellule tumorali. Inoltre, è stato dimostrato che LcS influenza la funzionalità di macrofagi, cellule dendritiche e cellule T, così come il pattern di citochine da essi prodotte, promuovendo un generale profilo antinfiammatorio. Verosimilmente, LcS agisce direttamente, sia a livello luminale che nelle placche di Peyer nella lamina propria al di sotto della mucosa epiteliale, ma anche indirettamente, mediante modulazione del microbiota intestinale [50]. Sulla base delle innumerevoli proprietà immunomodulanti, la somministrazione di LcS è stata proposta come strategia per il supporto della funzione immunitaria in individui sieropositivi, inclusi bambini [53,54].

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considerazioni conclusive Complessivamente, sulla base delle numerose ricerche scientifiche disponibili, si può concludere che Lactobacillus casei Shirota è un ceppo ben caratterizzato, con ampie applicazioni in diversi contesti, patologici e non. Dettagliate caratterizzazioni delle attività di batteri probiotici sono necessarie per poter indirizzare la scelta non solo del consumatore, ma anche del clinico, verso una selezione più consapevole del prodotto da assumere/consigliare. Tali caratterizzazioni non possono prescindere dalla valutazione della capacità di modulazione del microbiota intestinale, partner simbiotico dell’organismo umano, coinvolto in numerose attività fondamentali per la nostra fisiologia.

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Sindrome del tunnel carpale

Neuroprotezione e attività antalgica con L-acetil-carnitina A cura di Arturo Zenorini ra le neuropatie più diagnosticate, riveste particolare rilevanza la sindrome del tunnel carpale (CTS) che riguarda il 3,8 per cento della popolazione e colpisce prevalentemente le donne. Come è noto la causa risiede nella compressione del nervo mediano nel suo passaggio attraverso il canale carpale e i sintomi includono dolore neuropatico, parestesia, disestesie e disabilità motoria funzionale. Se l’intervento chirurgico – che consiste nell’incisione del legamento trasverso del carpo, in grado di alleviare la compressione stessa – rimane il trattamento risolutivo nei casi più severi, è anche vero che questa opzione non deve essere riservata a tutti i pazienti e spesso una terapia medica, specie nelle fasi iniziali o con sintomatologia moderata, è sempre più di frequente ritenuta l’approccio di prima scelta. Occorre dire che le opzioni terapeutiche per molte neuropatie sono state supportate da un numero importante di studi clinici mentre i potenziali trattamenti per la forma compressiva risultano decisamente trascurati dalla letteratura. Un’importante eccezione in questo senso viene da un recente studio clinico coordinato da Giorgio Cruccu, dell’Università Sapienza di Roma (Cruccu G et al. CNS Drugs, 2017 Dec;31(12):1103-11). Dallo studio è emerso come la L-acetil-carnitina (LAC) abbia evidenziato un effetto neuroprotettivo in pazienti con varie neuropatie periferiche, inclusa la CTS, e studi recenti su piccoli mammiferi hanno dimostrato l'azione centrale della LAC in modelli sperimentali di dolore, sia neuropatico che infiammatorio. Tali premesse hanno portato i ricercatori a testare l'efficacia della LAC su conduzione nervosa, dolore e funzionalità delle mani in pazienti con CTS da lieve a moderata. A questo scopo è stato condotto uno studio multicentrico, in cieco, clinico e neurofisiologico della durata di 4 mesi su 82 pazienti (120 mani) con CTS. Nei primi 10 giorni i partecipanti sono stati trattati con iniezioni intramuscolari di LAC 500 mg due volte al giorno (BID) e nei successivi 110 giorni con somministrazione per os di una compressa di LAC da 500 mg BID. I pazienti - valutati al basale e dopo 10, 60 e 120 giorni - sono stati tutti sottoposti a uno studio di conduzione del nervo mediano e ai questionari BCTQ (Boston Carpal Tunnel Questionnaire) e NPSI (Neuropathic Pain Symptom Inventory).

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L'endpoint primario era la velocità di conduzione sensoriale (SCV) del nervo mediano. Al termine dei 4 mesi di valutazione clinica è stato riscontrato un miglioramento significativo sia dell’SCV (p <0,0001) sia di tutte le misure neurofisiologiche sensoriali. Inoltre, i punteggi sintomatologici BCTQ sono diminuiti del 39 per cento mentre quelli funzionali del 18 per cento (entrambi p <0,0001), con riduzione evidente dei sintomi già dopo 10 giorni di trattamento. Nel corso dei 4 mesi di trattamento tutti i tipi di dolore si sono ridotti in modo significativo (p <0,0001), a eccezione del dolore lancinante. La dimensione dell'effetto variava dal 38 al 56 per cento, con il massimo sollievo nel caso di dolori da stretta e pressorio spontanei e nel dolore pressorio evocato (p <0,0001). Durante la sperimentazione non si sono verificati eventi avversi gravi e si è rilevata solo una modesta quota di eventi di entità lieve-moderata non correlati al trattamento. Il miglioramento lineare delle variabili sensoriali NCS (Nerve Conduction Study) supporta l'effetto neuroprotettivo della LAC, probabilmente mediato da vari meccanismi che, in ultimo, si fondano sul ripristino dell'attività mitocondriale dei neuroni. Anche se i risultati NPSI basati sulla percezione del dolore da parte dei pazienti non forniscono prove affidabili sull'origine del dolore, sia esso nocicettivo o neuropatico, secondo gli Autori supportano comunque l'attività anti-nocicettiva del farmaco. I meccanismi coinvolti potrebbero essere diversi, come l’induzione dell’espressione dei recettori mGlu2 che, nel midollo spinale, regolano negativamente il rilascio di glutammato, oppure l'interessamento delle vie colinergiche. In conclusione, lo studio supporta questo tipo di approccio farmacologico nei pazienti con CTS. Infatti, il trattamento con la LAC ha dimostrato un’azione neuroprotettiva e un impatto positivo sulla funzione sensoriale e sul dolore. In particolare, nella CTS di entità lieve-moderata la LAC: ha migliorato la velocità di conduzione sensoriale del nervo mediano e le altre misure neurofisiologiche sensoriali; ha ridotto in modo significativo tutti i tipi di dolore, probabilmente a causa sia della sua azione neuroprotettiva che delle sue proprietà anti-nocicettive centrali; si è dimostrata un trattamento ben tollerato e non sono stati riferiti eventi avversi gravi.


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Il calcio: una questione di gusto e appetito La scarsa efficienza di assorbimento del calcio, secondo le evidenze antropologiche, pone le sue radici nelle condizioni di vita dell’uomo del Paleolitico che aveva a disposizione una dieta così ricca di calcio da non avere subìto una pressione selettiva che ne favorisse un assorbimento più efficiente. Ne deriva che se l’assunzione alimentare di calcio non è così elevata, il bilancio può diventare negativo e si perde calcio dalle ossa. A questo punto ci si potrebbe chiedere: perché gli uomini assumono meno calcio del necessario? Vi sono due possibili risposte: o l’uomo è incapace di riconoscerne il bisogno, oppure sente il bisogno di assumere lo ione, ma è incapace di riconoscerne la presenza nel cibo e/o non è sufficientemente motivato per ricercarla. L’esistenza di una qualità di gusto specifico per il calcio è controversa. La lingua riconosce livelli di calcio dell’ordine del micromolare, e tendenzialmente il suo sapore è individuato come amaro e aspro: basse concentrazioni sono considerate più piacevoli dell’acqua, mentre valori più elevati sono riconosciuti come spiacevoli. È tuttavia una questione aperta se nel cibo assunto dall’uomo il gusto del calcio venga effettivamente percepito. La maggior parte degli ingredienti maschera il calcio libero, e l’incapacità di individuarlo rappresenta naturalmente un problema per il riconoscimento, per quanto, in presenza di specifici segnali, non sia impossibile. La maggior parte delle evidenze sull’appetito per il calcio deriva da studi su animali, che sono dotati della cosiddetta saggezza nutrizionale, ovvero della capacità di regolare le loro scelte dietetiche al fine di soddisfare i propri bisogni fisiologici. Nell’uomo, tale comportamento si verificherebbe solo in seguito a perturbazioni fisiologiche imponenti, che, naturalmente, non sono eticamente riproducibili a scopo di ricerca. Nell’uomo, pertanto, le indicazioni disponibili sull’appetito per il calcio derivano da osservazioni in condizioni naturali di deprivazione dello ione o in condizioni patologiche.

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Da alcune esperienze condotte in passato è emerso per esempio che il consumo di olio di fegato di merluzzo, fonte naturale di vitamina D, sia una forma di auto-medicazione guidata dal bisogno di calcio dell’organismo. L’assunzione di calcio inoltre, sembra essere naturalmente più elevata durante particolari fasi della vita, quali la gravidanza e l’allattamento. Da esperimenti in laboratorio è emerso anche come ratti in dieta ipocalcemica aumentino il consumo di sale, plausibilmente per aumentare la quantità di calcio ionizzato in breve tempo. Tuttavia, come è noto, il sale aumenta l'escrezione urinaria di calcio e quindi il sollievo è solo temporaneo e il rapporto calcio-sale diventa un circolo vizioso. È difficile verificare quanto questa preferenza possa essere valida anche nell’uomo; tuttavia anche in questo caso alcune prove, benché indirette, vi sono. Per esempio donne in gravidanza o in allattamento mostrano preferenza per cibi ricchi di sale e altrettanto fanno i bambini. I dati raccolti sull’uomo non sono però, al momento, sufficienti per comprendere perché gli esseri umani non assumano abbastanza calcio in modo da prevenire le malattie croniche. L’appetito per il calcio è stato dimostrato in molti animali e, quindi, ragionevolmente un appetito analogo potrebbe esistere anche nell’uomo. Gli esseri umani presentano condizionamenti sociali e culturali molto più forti, oltre ad avere a disposizione una scelta di alimenti molto più ampia. In un mondo così complesso è difficile capire anche solo come identificare l’appetito per il calcio; una possibilità è che questo si presenti solo in casi di richiesta calcica elevata come, per esempio, nel caso di denutrizione, allattamento o malattia; altrimenti potrebbe sempre essere presente, ma mai espresso. Inoltre come già accennato, l’esigenza di calcio può tradursi anche in una preferenza per quegli alimenti che promuovono il metabolismo dello ione stesso, per esempio aumentandone l’assorbimento gastrointestinale o rallentandone il transito nell’intestino. Ci si può chiedere anche se l’uomo raggiunga mai livelli di carenza così elevati da attivare l’appetito. Nel caso dell'osteoporosi, la perdita di questo minerale dalle riserve ossee può verificarsi senza ipocalcemia conclamata e quindi senza l’attivazione di meccanismi fisiologici e comportamentali legati all'appetito per il calcio. Riferimento bibliografico Question Time Tabloid integratore in Medicina generale 2018; n. 3. Pacini Editore Srl Pisa


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Disponibile un sistema in grado di rilevare in anticipo il rischio di episodi di scompenso cardiaco

Boston Scientific

I frequenti ricoveri rappresentano una delle maggiori sfide nella gestione dello scompenso cardiaco sia dal punto di vista clinico che sociale ed economico

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tando ai dati, dopo un ricovero per scompenso quasi la metà dei pazienti va incontro a una successiva riospedalizzazione entro 60 giorni. E proprio in virtù di questi dati, lo scompenso cardiaco rappresenta in Italia la prima causa di ricovero ospedaliero. In questo scenario poco confortante, merita di essere segnalata la disponibilità anche nel nostro Paese di un sistema in grado di prevedere in anticipo gli episodi di scompenso. Il sistema diagnostico HeartLogic™ consente di monitorare costantemente i pazienti cardiopatici portatori di defibrillatori, di trasmettere informazioni al centro ospedaliero che ha in cura il paziente e di segnalare

con largo anticipo l’eventualità che si verifichi un episodio di scompenso cardiaco, con necessità di ricovero. Basato su un algoritmo, il sistema è già “incorporato” nella famiglia di dispositivi impiantabili per defibrillazione di Boston Scientific “Resonate™. La rilevazione viene effettuata combinando i dati provenienti da sensori multipli che controllano i toni cardiaci, la frequenza respiratoria e il volume corrente o di ogni inspirazione, l’impedenza toracica, la frequenza cardiaca e l’attività fisica. Le informazioni fornite dai sensori vengono aggregate in un “trend numerico” che indica lo stato di progressione della malattia. Qualora si verifichino variazioni “ano-

Il vento della trasformazione digitale investe la sanità europea Medica 2018

S

i rinnova l’appuntamento autunnale con la più importante fiera medica in ambito internazionale. Dal 12 al 15 novembre prossimi infatti, oltre 5mila espositori di tutto il mondo saranno presenti a Düsseldorf in occasione di MEDICA 2018, per accogliere i visitatori provenienti da oltre 70 Paesi. La trasformazione digitale che sta investendo l’economia sanitaria è il fil rouge della manifestazione, e accomuna sia le innovazioni presentate dagli espositori sia le tematiche affrontate nell’ambito delle diverse occasioni di dibattito e discussione. Il programma è denso di conferenze e forum. Tra questi possiamo segnalare il Forum dedicato ai temi informatici come big data, intelligenza artificiale e sicurezza informatica, il Forum che affronta le soluzioni hardware e sof-

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male” rispetto ai valori standard, tipiche del graduale peggioramento dell’insufficienza cardiaca, il sistema le segnala immediatamente, consentendo ai medici di intervenire tempestivamente, prima che la situazione clinica possa precipitare. L’efficacia del sistema è stata valutata nell’ambito di uno studio clinico, denominato MultiSENSE, da cui è emerso che con HeartLogic™ è possibile rilevare preventivamente il 70 per cento degli eventi di scompenso, con un anticipo medio di ben 34 giorni, portando così a meno di 2 gli “allarmi” per episodi di destabilizzazione della malattia che, complessivamente, potrebbero verificarsi nell’arco di un anno.

tware per la sanità connessa e la Conferenza su medicina e sport che fa il punto sui dispositivi indossabili, utilizzati per il monitoraggio dei segni vitali. Un punto di forza di MEDICA è non limitarsi a presentare in un unico luogo e in pochi giorni soluzioni per le singole discipline mediche specialistiche, ma di affrontare l’intero ciclo di trattamento di un paziente. I singoli punti di interesse sono strutturati in base al padiglione e comprendono elettromedicina e tecnologia medica (circa 2.500 espositori), tecnologia di laboratorio, diagnostica, fisioterapia, tecnologia ortopedica, materiali di consumo, tecnologia informativa e di comunicazione, arredamento medico e mobili specialistici per ospedali e studi medici. In parallelo a MEDICA, si terrà anche quest’anno la fiera COMPAMED che oggi rappresenta un punto focale per le soluzioni tecnologiche complesse come materiali innovativi, microtecnologie e nanotecnologie. La sinergia MEDICACOMPAMED offre la possibilità di entrare in contatto con l’intero processo della sanità digitale e con una gamma completa di prodotti, apparecchi e strumenti medicali.


Malattia di Crohn, con l’anticorpo monoclonale ustekinumab nuove opportunità di terapia

Janssen

N

uove speranze di cura per i pazienti affetti dalla malattia di Crohn arrivano con la recentissima approvazione da parte di AIFA dell’anticorpo monoclonale ustekinumab, che va a colmare un “gap” nella gestione di questi pazienti. Il farmaco, un inibitore dell’interleuchina 12 e 23, infatti possiede una duplice azione ovvero agisce rapidamente durante le fasi acute e allo stesso tempo garantisce una lunga remissione. Se ne è discusso alla conferenza di presentazione che si è tenuta lo scorso 17 settembre a Milano. “Oggi il più grande bisogno ancora non soddisfatto delle persone affette da malattia di Crohn” ha spiegato Silvio Danese, dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano (MI) “è combinare un miglioramento repentino, che possa risolvere la fase dolorosa, con l’efficacia mantenuta nel lungo periodo, per permettere al paziente di stare bene negli anni senza dover affrontare ricadute e cambi di terapia. Questa nuova opzione terapeutica apre per la prima volta un

Sanofi Via

L

ampio orizzonte finora inesplorato, quello del più lungo periodo libero da malattia mai osservato”. A 2 anni nel 75 per cento dei pazienti trattati, la malattia è risultata in remissione. Attualmente, gli agenti antiTNFalfa rappresentano lo standard di terapia, tuttavia una quota significativa che oscilla tra il 25 e il 30 per cento di pazienti non risponde al trattamento già dopo 12-16 settimane dall’avvio. “Tra questi”, ha illustrato Ambrogio Orlando, dell’AO Ospedali Riuniti “Villa Sofia-Cervello” di Palermo “si va incontro a un secondo fallimento nel medio lungo periodo in una frazione cha varia tra il 20 e il 45 per cento dei pazienti. Se consideriamo le caratteristiche della patologia da un lato e lo stato attuale dello standard terapeutico dall’altro, abbiamo una situazione in cui la risposta più importante da dare al paziente è quella di un farmaco che sia sicuro ed efficace nell’immediato e al tempo stesso mantenga la risposta nel tempo, che significa evitare i fallimenti delle

attuali terapie e soprattutto ridare una prospettiva di normalità alla vita di queste persone”. Quest’ultimo aspetto è centrale, in relazione al fatto che la malattia di Crohn colpisce prevalentemente soggetti giovani (anche molti adolescenti) tra i 20 e i 30 anni e ha un impatto enorme sulla vita sociale e lavorativa, specialmente durante gli episodi acuti. Un ulteriore vantaggio offerto da ustekinumab è lo schema di somministrazione che prevede una prima induzione ev presso un centro ospedaliero e poi la terapia di mantenimento ogni 3 mesi per via sc ovvero 4 iniezioni all’anno che il paziente può somministrarsi da solo a casa. Ustekinumab (già impiegato in altre patologie reumatologiche e dermatologiche autoimmuni) è indicato in adulti con malattia di Crohn attiva moderata-severa che hanno avuto una risposta inadeguata o sono risultati intolleranti alla terapia convenzionale o a un antagonista del TNF alfa o che hanno controindicazioni per tali terapie.

libera dall’AIFA per dupilumab nella dermatite atopica

a dermatite atopica è una patologia altamente disabilitante, soprattutto in relazione alla sua manifestazione: lesioni estese della cute, spesso accompagnate da secchezza, ferite essudanti e prurito intenso e persistente. E proprio per queste sue manifestazioni, la dermatite atopica compromette pesantemente la qualità di vita dei pazienti, con disturbi del sonno e un aumento di sintomi di ansia e depressione. Sebbene il quadro epidemiologico sia un po’ sfumato, una recente indagine sui centri di dermatologia nazionali ha individuato circa 30mila pazienti seguiti, di cui circa 8mila affetti dalla forma grave. Tenere sotto controllo i sintomi della dermatite atopica rappresenta da tempo un bisogno insoddisfatto dei pazienti, che la ricerca però ha provveduto a colmare.

L’Agenzia del farmaco ha concesso infatti, l’autorizzazione all’immissione in commercio di dupilumab, il primo farmaco biologico indicato per il trattamento di pazienti adulti con dermatite atopica da moderata a grave, idonei alla terapia sistemica. Dupilumab è un anticorpo monoclonale studiato per inibire contemporaneamente la segnalazione di due importanti proteine, l’interleuchina-4 e l’interleuchina-13, che contribuiscono alla persistente infiammazione di tipo 2, tipica delle patologie di origine atopica. La molecola è stata inserita dall’AIFA nell’elenco dei farmaci innovativi: si tratta del primo biologico indicato per una patologia dermatologica non oncologica a rispondere ai criteri di innovatività dell’Agenzia.

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Leucemia mieloide cronica, arriva la prima terapia mirata

Novartis

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a leucemia mieloide cronica (LMA) rappresenta circa un quarto di tutti i casi di leucemia nell’adulto e in Italia registra un’incidenza di 3.200 nuovi casi ogni anno. Le prospettive di cura sono attualmente scarse, con un tasso di sopravvivenza molto basso. È per questo che è stata accolta con favore l’approvazione e l’ammissione al regime di rimborsabilità di midostaurina, prima e unica terapia mirata per questa forma di leucemia. Il farmaco è indicato per pazienti che esprimono la mutazione della tirosin chinasi 3 FMS-simile (FLT3), cioè circa il 30 per cento dei soggetti colpiti da LMA. “L’introduzione di midostaurina nel nostro Paese rappresenta un notevole passo avanti: fino al 2017 la terapia per LMA è sempre stata costituita dalla chemioterapia e dal trapianto di midollo osseo, mentre ora possiamo usufruire del primo farmaco che lavora specificatamente solo sulle cellule leucemiche di questo tumore particolarmente aggressivo”, ha spiegato Giuseppe Rossi, degli Spedali Civili di Brescia, nel corso della conferenza stampa in cui è stata resa pubblica l’approvazione del farmaco. “I benefici clinici della midostaurina, in aggiunta alla chemioterapia, sono evidenti soprattutto per i pazienti la cui leucemia è caratterizzata dalla mutazione del gene FLT3, contro la quale midostaurina è selettivamente diretta”. Decisivi per il via libera dell’AIFA i risultati pubblicati sul New England Journal of Medicine dello studio clinico denominato RATIFY, il più vasto condotto finora su pazienti leucemici con mutazione di FLT3. Dal trial, randomizzato, controllato con placebo e condotto su 717 pazienti di età compresa tra 18 e 59 anni, è emersa una durata me-

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diana di vita di 74,7 mesi nel braccio trattato con midostaurina, contro i 25,6 mesi del gruppo placebo, con una riduzione del rischio di morte del 23 per cento. Tra le caratteristiche più nefaste della leucemia mieloide acuta, vi è la rapidissima progressione. Per questo motivo, è fondamentale che le terapie vengano somministrate con la massima tempestività, procedendo a esami ematici molto sofisticati in grado di confermare la diagnosi nel più breve tempo possibile. In questo, è di ausilio la rete LabNet, frutto della collaborazione tra laboratori di biologia sul territorio italiano e

il Gruppo Italiano malattie Ematologiche dell’adulto (GIMEMA), con il supporto di Novartis. “Il ruolo di LabNet è essenziale e di grande valore al fine di rendere uniforme e omogenea per i nostri pazienti la diagnosi, secondo criteri accettati a livello internazionale”, ha concluso Francesco Lo Coco, dell’Università Tor Vergata di Roma. “Ciò significa che non ci sono disparità di approccio e che tutti i pazienti con LMA nel nostro Paese potranno avere una diagnosi moderna e avanzata che, a sua volta, consente di individuare in modo più preciso la terapia personalizzata”.

Medtronic “TAVI è vita”: una campagna informativa sulla stenosi aortica

TAVI è vita”: è questo il nome scelto per un progetto di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, delle istituzioni e della classe medica, in particolare di quella che opera sul territorio. I temi sono la stenosi aortica e l’opportunità terapeutica fornita dall’impianto transcaterere di valvola aortica (Transcatheter Aortic Valve Implantation, TAVI). Ne sono promotori Medtronic, la Società italiana di cardiologia interventistica, la Società italiana di Cardiologia e la Società italiana di chirurgia cardiaca. Si tratta di una patologia dai larghi numeri: si stima che vi siano un milione di persone colpite nel nostro Paese, il 10 per cento circa della popolazione over 65. Per la stenosi di grado severo le opzioni chirurgiche sono due. La prima è la sostituzione chirurgica tradizionale, con incisione del torace, anestesia generale, cuore fermo e circolazione extracorporea. La seconda è la TAVI, un intervento mininvasivo, che prevede l’impianto della nuova valvola utilizzando come via di accesso l’arteria femorale e non richiede generalmente l’anestesia generale. Questa seconda procedura è stata introdotta nel 2007 per trattare i pazienti ad alto rischio, non eleggibili alla chirurgia tradizionale, ma si è presto diffusa anche su casi a rischio medio, tanto che gli interventi annui sono aumentati dai 98 iniziali agli attuali 5.500. Si tratta di un’innovazione in grado di fornire diversi vantaggi, in termini di costi, d’invasività e di recupero post-operatorio. La TAVI però, nonostante i vantaggi è ancora sottoutilizzata, complice anche la scarsa conoscenza di Medici di medicina generale e cardiologi, documentata da un’indagine Doxa presentata insieme con l’avvio del progetto “TAVI è vita” che si articolerà con una serie di iniziative sul territorio con weekend informativi rivolti alla popolazione generale, a partire dal Piemonte. Sempre in questa regione sarà avviato un tavolo di lavoro che metterà a confronto i principali attori della cardiologia interventistica piemontese, per arrivare a un documento condiviso che indicherà alla Regione le necessità del settore.


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sanità

professione

A cura di Elisabetta Cofrancesco

Caro dottore, come stai? sei felice? Riflessioni sul logorio psicofisico ed emotivo che accompagna la professione medica Pubblichiamo in questo spazio una sintesi della relazione che Elisabetta Cofrancesco ha presentato nell’ambito del Festival di Bioetica che si è tenuto di recente a Santa Margherita Ligure (27-28 agosto 2018). La dottoressa Cofrancesco è ematologo clinico e cardiologo, psicoterapeuta, già docente e ricercatore presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano, presidente dell’Associazione no profit REF (Ricerca, Educazione e Formazione per la Qualità della Vita dell’Ammalato, Milano) e componente del comitato ordinatore dell’Istituto Italiano di Bioetica, Sezione Lombardia

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a letteratura internazionale riporta dati allarmanti sulla salute dei medici (1,2). Più della metà dei medici statunitensi presenta sintomi significativi di esaurimento e burnout: le tre D (Drugs, Drink and Depression), ovvero depressione, dipendenza da alcol, farmaci e sostanze sono frequenti tra i medici (fino al 50 per cento). I suicidi e i pensieri di suicidio (6-12 per cento) hanno un tasso più che doppio rispetto a quello dei professionisti di altri settori, e tra le donne medico tre volte più frequenti rispetto ai colleghi maschi. Frequenti sono anche i conflitti in famiglia. E in Europa le cose non vanno meglio (3): uno studio condotto dall’European Society for Medical Oncology (ESMO) che ha visto coinvolti 737 oncologi di 41 Paesi europei, ha mostrato che, soprattutto negli oncologi di età inferiore ai 40 anni, vi è una forte prevalenza di burnout (71 per cento degli intervistati). Oltre agli oncologi, le categorie più a rischio sono neurologi, cardiologi, medici del pronto soccorso e della medicina d’urgenza, anestesisti e rianimatori. E il problema inizia presto: gli studenti di medicina, gli specializzandi e i giovani medici, infatti, avrebbero tassi di stress e burnout più alti rispetto a quelli di laureati provenienti da altri corsi di studio (4). Alcuni fattori della cultura medica concorrerebbero al drammatico fenomeno. Pranay Sinha, medico al primo anno di specializzazione in medicina interna presso la Yale School of Medicine, del New Haven Hospital, parla di una for-

ma di machismo che pervade la classe medica: “infallibilità, onnipotenza, assenza di dubbi” che spesso mascherano, soprattutto nei medici alle prime armi, un enorme senso di inadeguatezza (5). A ciò si aggiunga una forte competitività e una sorta di addestramento - del tutto inconsapevole! - per diventare insensibili alle emozioni più forti: rabbia, sofferenza, dolore, paura… fino all’“indurimento del cuore” (6). Gli studenti di medicina iniziano gli studi universitari con entusiasmo ed empatia, con un reale desiderio di aiutare gli altri… tuttavia, durante il percorso essi imparano a mascherare i loro sentimenti, o peggio ancora a negarli (7).

Burnout: che cosa significa e qual è il suo impatto sul medico e sul paziente Il burnout è una sindrome caratterizzata da esaurimento emotivo e spersonalizzazione (che include negatività, cinismo e incapacità di esprimere empatia o dolore), riduzione della motivazione e dell’efficacia operativa, difficoltà a stabilire una buona relazione di cura e ha gravissime conseguenze in termini sia di costo umano che di inefficienza del sistema. Non solo la vita dei medici sarebbe a rischio, ma anche la sicurezza del paziente. Dal punto di vista del medico, si riducono la motivazione e l’impegno, si verifica una progressiva perdita di energia che porta sempre di più a esaurimento fi-


sico ed emotivo, e scarsa realizzazione professionale. Aumentano gli episodi di malasanità e di medicina difensiva; aumenta il numero di errori medici - fino al doppio! (8); aumenta l’onere delle assicurazioni professionali. Dal punto di vista del paziente, aumentano insoddisfazione, diffidenza, reclami e aggressività: sono ormai fin troppo numerosi i casi (quasi quotidiani!) di violenza e aggressione fisica nei confronti dei medici. Non dimentichiamo che in questa attuale medicina, high tech e molto poco high touch, un motivo per cui i pazienti si rivolgono sempre più spesso alle medicine non convenzionali è perché trovano più facilmente medici accoglienti, relazioni umane e personalizzazione delle cure!.. Dal punto di vista organizzativo e istituzionale si registra perdita di efficienza e di produttività, maggiori costi, e aumento del contenzioso medico-legale e dei casi di medicina difensiva. Significativa è questa lettera aperta di un giovane medico (9): “Viviamo una medicina in cui ogni mattina ti alzi per andare in reparto con la paura che quell’uomo in giacca, cravatta e ventiquattrore davanti all’ingresso dell’ospedale offra alla figlia del tuo paziente di 94 anni malato di scompenso cardiaco una causa a #costozero #rischiozero #paghisolosevinci. Non importa se hai fatto le umane e le divine cose per rianimarlo, non importa se nonostante i tuoi sforzi e i tuoi turni massacranti, il cuore debole di quella persona di 94 anni ha smesso di battere fregandosene dell’atropina e del defi-

brillatore, non importa se le persone ad una certa età muoiono. Tu, medico in un periodo difficile, sarai sempre davanti alla canna del fucile. Come può un medico mettere in pratica serenamente la scienza appresa sui libri e nelle corsie dei reparti? Come può farlo in queste condizioni? Circondato dalle penne degli avvocati, dalle linee guida internazionali che contrastano con la spending review, dalle minacce dei familiari, dai santoni e dai ciarlatani che sottraggono i malati più deboli e suggestionabili alle cure necessarie… Eppure, seppur nato sotto una cattiva stella, il mio amore per la medicina è sempre forte, e si nutre ogni giorno del sorriso dei pazienti che vedo migliorare nei reparti”. … Eppure, nonostante tutto, secondo un’indagine pubblicata su La Stampa il 28 marzo 2017 (10), l’81 per cento dei medici intervistati dichiara che avendo la possibilità di tornare indietro rifarebbe la stessa scelta professionale e il 66 per cento la consiglierebbe ai propri figli. Quali sono i motivi di tale determinazione? Passione (41 per cento), possibilità di aiutare gli altri (18 per cento), contatto con le persone (8 per cento), ricevere gratitudine dai propri pazienti (44 per cento), realizzazione professionale (14 per cento): tutti aspetti relazionali e umani della professione medica. Numerosi sono i fattori esterni che concorrono a determinare il burnout dei medici: eccesso di burocrazia, problemi organizzativi, scarso personale, orari e carichi di lavoro eccessivi, tensioni lavorative con i colleghi, bassi stipendi e conseguente

calo motivazionale. Purtroppo il medico sta perdendo sempre più autorevolezza in un clima generale di disistima e sfiducia da parte del cittadino che tende ad attribuire al medico la responsabilità di ritardi, disfunzioni e limitazioni del sistema sanitario. Il medico è spesso costretto a lavorare in condizioni generali inaccettabili: se manca il personale, se non ci sono posti letto, se il medico è costretto a un enorme carico di burocrazia e non ha abbastanza tempo per la visita, se, sovraccaricato com’è dal punto di vista psico-fisico, si trova in una situazione di stress/burnout, l’emergenza sanitaria si può trasformare in un dramma che scatena facilmente la reazione violenta del cittadino. Si spiegano così molti degli ormai troppo frequenti episodi di aggressione nei confronti dei sanitari… Anche il tipo di malattia del paziente ha il suo peso: più colpiti sono l’internista e gli specialisti che si occupano di malattie ad alto rischio di morte o invalidità – neurologi, cardiologi, oncologi, medici di unità di emergenza, rianimatori. Ma esistono anche fattori personali: scarsa/nessuna educazione alla cura di sé e al riconoscimento dei propri bisogni, inefficiente gestione delle proprie energie psico-fisiche, conflitti casa-famiglia, motivazione affievolita, inadeguate capacità comunicative e relazionali (gli attuali percorsi formativi universitari e post-universitari sono molto carenti da questo punto di vista!). Ora, se è vero che l’intervento sulle istituzioni e sull’organizzazione del lavoro richiede pianificazione, risorse e tempi che per il momento non sono quantizzabili, è anche vero che si può fin da subito intervenire parallelamente su due obiettivi fondamentali: 1. Aiutare il medico a “conoscere” e a “riconoscer-si” il problema, fornendogli informazioni e sostegno. Per quanto riguarda il riconoscimento del problema è interessante constatare che molti medici non sanno neppure di star male e, se lo sanno, tendono a ignorarlo e non si curano. Il problema è così diffuso tra i medici italiani che, recentissimamente (agosto 2018 – ancora in corso), la FNOMCeO (Federazione Nazionale Ordini

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sanità

professione

Medici Chirurghi e Odontoiatri), al fine di inquadrare i fenomeni di violenza e i contesti in cui questi si presentano, ha inviato a tutti i medici un questionario anonimo strutturato in modo da delineare la condizione personale spesso a rischio di burnout in cui i medici si trovano a esercitare, denominato “Violenza sugli operatori sanitari e burnout” (11). Quanto al sostegno, sarebbe un ottimo aiuto offrire, all’interno delle strutture ospedaliere, uno sportello di counseling o gruppi di counseling per consentire agli operatori di condividere le proprie esperienze e confrontarsi nei momenti più difficili. Scrive Pranay Sinha (5): “Dobbiamo poter dare voce a dubbi e paure. Dobbiamo poter parlare della tristezza profonda che ci ingenera firmare il nostro primo certificato di morte, della mortificazione che ci causa la prima prescrizione sbagliata che abbiamo firmato, dell’imbarazzo di non sapere la risposta a una domanda a cui qualunque studente di medicina saprebbe invece rispondere. Una cultura medica che ci incoraggiasse a condividere le nostre vulnerabilità ci potrebbe far capire che non siamo soli”. 2. Promuovere interventi di formazione al fine di potenziare le capacità persona-

Bisogna amare la gente per fare il medico. Se non sai ascoltare il malato, se non ti chiedi di cosa ha paura e cosa desidera, sei poco più di un bravo tecnocrate Umberto Veronesi

li di resilienza (12) e migliorare le capacità relazionali e di comunicazione con il paziente, i familiari e gli altri operatori. Tutto ciò significa integrare le competenze tecnico-scientifiche con la crescita personale e il lavoro su di sé, accettando i propri limiti e la propria vulnerabilità; significa sviluppare sensibilità e gentilezza (in primis verso se stessi), rispettando il proprio corpo e i suoi bisogni e quindi, dedicando il giusto tempo al sonno e al

riposo; significa recuperare il proprio “sentire”, sviluppando consapevolezza e padronanza delle proprie (e altrui!) emozioni. Significa continuare a coltivare la spinta motivazionale, l’impegno, la crescita, la propria realizzazione sia personale che professionale. “Portare la propria umanità in prima linea, costruire fiducia e complicità con il malato, sentirsi in una relazione socialmente utile e giusta … che cosa è se non quel ‘camminare accanto’ [ethalekh in ebraico = camminerò] da cui deriva la parola placebo, “io ti piacerò”? Il medico che si fa ‘placebo’ riceverà dai suoi pazienti fiducia, compliance, riconoscimento, gratitudine, e, anziché logorato dal prendersi cura, si sentirà ri-energizzato emotivamente e affettivamente e percepirà la sua vita professionale ricca di significato e di finalità. Qualcuno chiama questo stato di “benessere”, di sentirsi bene con se stesso nel dedicarsi agli altri con il termine di “felicità relazionale”: uno stato in cui sono pienamente valorizzati i rapporti interumani, i legami affettivi e di comunicazione, l’intelligenza relazionale e la sana gestione delle emozioni, la solidarietà, la cura e il rispetto della persona (a partire da se stessi!)” (13).

bibliografia

1. Dzau V.J. et al. To Care Is Human — Collectively Confronting the Clinician-Burnout Crisis. N Engl J Med 2018; 378:312-314. http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp1715127. 2. Wright A.A. et al. Beyond Burnout — Redesigning Care to Restore Meaning and Sanity for Physicians. N Engl J Med 2018; 378: 309-311 http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/ NEJMp1716845?query=recirc_curatedRelated_article. 3. ESMO 2014 Congress: More Than 70% of Young Oncologists in Europe Suffer Symptoms of Burnout, http://www.esmo.org/ Conferences/Past-Conferences/ESMO-2014-Congress/PressMedia/More-Than-70-of-Young-Oncologists-in-Europe-SufferSymptoms-of-Burnout. 4. Rotenstein L. et al. Prevalence of Depression, Depressive Symptoms, and Suicidal Ideation among Medical Students. A Systematic Review and meta-Analysis. JAMA 2016; 316: 22142236. 5. Pranay Sinha. Why Do Doctors Commit Suicide? The New York Times, 4 settembre 2014. 6. Newton B.W. et al. Is there hardening of the heart during Medical School? Acad Med 2008; 83: 244-49.

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A cura della redazione (Folco Claudi)

Rapporto OsMed 2017 Il trend della spesa farmaceutica in Italia Un’istantanea dell’assistenza farmaceutica nella sua interezza, erogata in ambito sia ospedaliero sia territoriale nel nostro paese: è quanto offre il nuovo rapporto nazionale OsMED sull’uso dei farmaci in Italia redatto da AIFA, giunto quest’anno alla sua quarta edizione

i grande rilievo sicuramente i dati complessivi. Nel 2017 la spesa farmaceutica complessiva, pubblica e privata, è arrivata a 29,8 miliardi di euro (Tabella 1), e per tre quarti è stata rimborsata dal Sistema sanitario nazionale. Pro capite, si tratta di 492 euro. Di questi quasi 30 miliardi complessivi, 2,17 miliardi riguardano la spesa territoriale complessiva, pubblica e privata, con un calo dell’1,4 per cento rispetto allo scorso anno (Figura 1). Scendendo ancora più in dettaglio, 1,29 miliardi sono di spesa territoriale pub-

blica, dovuta cioè ai farmaci erogati in regime di assistenza convenzionata e in distribuzione diretta in classe A, con una riduzione del 6,5 per cento rispetto al 2016 (Tabella 2). In controtendenza rispetto a questi dati in calo rispetto allo scorso anno è la spesa a carico dei cittadini, che comprende la quota dovuta a spesa per compartecipazione, per i medicinali di fascia A acquistati privatamente e per i prodotti di fascia C: l’aumento è stato del 7,1 per cento su base annua (Tabella 3). Interessanti anche i dati di prevalenza

Tabella 1 Composizione della spesa farmaceutica: confronto 2017-2016 Spesa

%

Var % 17-16

10.495

35

-1,3

Distribuzione diretta e per conto di fascia A

4.793

16

-13,7

Classe A privata‡

1.317

4

0,6

Classe C con ricetta

2.874

10

8,8

Automedicazione

2.732

9

12,4

333

1

10,8

7.267

24

10,3

29.811

100

1,2

Spesa convenzionata lorda§

Esercizi commerciali ASL, Aziende Ospedaliere, RSA e penitenziari* Totale

Note: § Comprensiva della spesa per vaccini (248.734 euro) e per l’ossigeno (51,4 milioni) e dei farmaci di classe C rimborsata ai sensi della legge n.203 del 19 luglio 2000 (24 milioni) ‡ Stimata sulla base della serie storica 2013-2016 * Comprensivo della spesa per i vaccini (487,4 milioni di euro) e dell’ossigeno (270,8 milioni). Non comprende la spesa per i farmaci di classe A erogati in distribuzione diretta e per conto

40 | MEDICO e PAZIENTE | 4.2018


d’uso dei farmaci per genere e soprattutto per fasce di età. La spesa complessiva si deve per il 70,2 per cento ad assistiti di sesso femminile e per il 61,8 per cento ai pazienti di sesso maschile; per il 50 per cento è assorbita dai cittadini fino a 54 anni di età e per oltre il 95 per cento dagli anziani oltre i 74 anni. Com’è facile prevedere, le quote di spesa seguono a ruota la prevalenza d’uso: per gli over 65 la spesa pro capite a carico del SSN supera di sei volte quella degli under 65. Oltre la soglia dei 65 anni, la popolazione assorbe una media di 3.000 dosi, contro le 400 dosi nella fascia di età tra i 40 e i 50 anni. Se si guarda ai dati disaggregati per classi terapeutiche, dal rapporto OsMed 2017 emerge che la più grossa quota di spesa farmaceutica pubblica nel nostro Paese è dovuta ai farmaci antineoplastici e immunomodulatori, con 5 miliardi di

figura 1 Spesa farmaceutica nel periodo 1985 – 2017

euro (Tabella 4); seguono staccati i farmaci dell’area cardiovascolare, con 3,5 miliardi di euro (Tabella 5). La più

grossa voce di spesa per le strutture sanitarie pubbliche è rappresentata dagli anticorpi monoclonali.

Tabella 2 Spesa farmaceutica territoriale: confronto 2013-2017 2013 milioni

2014 milioni

2015 milioni

2016 milioni

2017 milioni

Δ% 14/13

Δ% 15/14

Δ% 16/15

Δ% 17/16

11.226

10.988

10.863

10.638

10.495

-2,1

-1,1

-2,1

-1,3

1.436

1.500

1.521

1.540

1.549

4,5

1,4

1,2

0,6

Spesa 1+2+3+4 convenzionata

lorda 1+2

Compartecipazione del cittadino

1

Ticket fisso

558

546

524

518

499

-2,0

-4,1

-1,2

-3,7

2

Quota prezzo di riferimento

878

954

997

1.022

1.050

8,6

4,5

2,5

2,8

3

Sconto§

927

889

865

845

829

-4,1

-2,7

-2,4

-1,8

4

Spesa convenzionata netta

8.863

8.598

8.477

8.254

8.116

-3,0

-1,4

-2,6

-1,7

5

Distr. diretta e per conto di fascia A°

3.003

3.250

4.921

5.556

4.793

8,2

51,4

12,9

-13,7

Spesa territoriale pubblica

11.866

11.848

13.398

13.810

12.909

-0,2

13,1

3,1

-6,5

4+5

Note: § comprendente lo sconto per fasce di prezzo posto a carico delle farmacie; l’extrasconto da Determinazione AIFA 15 giugno 2012 e da art. 15, comma 2 della L. 135/2012 e, a carico dell’industria, sia lo sconto da Determinazione AIFA 30 dicembre 2005, che il pay-back sulla convenzionata da art. 11, comma 6, della L. 122/2010, temporaneamente modificato dalla L. 135/2012 ° spesa distribuzione diretta e per conto di fascia A, comprensiva – nel caso di Regioni con dati mancanti – del valore del 40% della spesa farmaceutica non convenzionata rilevata attraverso il flusso della “Tracciabilità del farmaco”, ai sensi della L. 222/2007. Tale condizione non è stata applicata nel 2017 ad alcuna Regione. Fonte: elaborazione OsMed su dati NSIS

MEDICO e PAZIENTE | 4.2018 |

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sanità

aifa

Tabella 3 Spesa per l’assistenza farmaceutica territoriale pubblica e privata: confronto 2013-2017 2013 milioni

2014 milioni

2015 milioni

2016 milioni

2017 milioni

Δ% 14/13

Δ% 15/14

Δ% 16/15

Δ% 17/16

1

Spesa convenzionata netta

8.863

8.598

8.477

8.254

8.116

-3,0

-1,4

-2,6

-1,7

2

Distrib. diretta e per conto di fascia A

3.003

3.250

4.921

5.556

4.793

8,2

51,4

12,9

-13,7

1+2

Totale spesa pubblica

11.866

11.848

13.398

13.810

12.909

-0,2

13,1

3,1

-6,5

3

Compartecipazione del cittadino

1.436

1.500

1.521

1.540

1.549

4,5

1,4

1,2

0,6

4

Acquisto privato di fascia A*

1.468

1.442

1.487

1.309

1.317

-1,8

3,1

-11,9

0,6

5

Classe C con ricetta

2.985

2.937

2.997

2.642

2.874

-1,6

2,1

-11,8

8,8

6

Automedicazione (SOP e OTC)

2.278

2.269

2.375

2.429

2.732

-0,4

4,7

2,3

12,4

7

Esercizi commerciali

301

333

10,8

3+4+5+6+7

Totale spesa privata

8.168

8.148

8.380

8.221

8.806

-0,2

2,9

-1,9

7,1

Totale spesa farmaceutica

20.035

19.996

21.778

22.030

21.715

-0,2

8,9

1,2

-1,4

Quota a carico SSN (%)

59,2

59,3

61,5

62,7

59,4

Note: * Il dato relativo alla spesa privata di farmaci rimborsabili dal SSN è stato stimato sulla base della serie storica 2013-2016. Fonte: elaborazione OsMed su dati Tracciabilità del Farmaco (per i dati di spesa privata). Elaborazione sui dati IMS Health per la stima della spesa privata per gli anni precedenti al 2016.

Tabella 4 I cinque gruppi di farmaci a maggior prescrizione nel 2017 Classe farmacologica

Spesa totale (in mil)

% su spesa SSN

Spesa pro capite

Δ% 17/16

DDD/1000 ab die

Δ% 17/16

Farmaci oncologici

2.935,1

13,2

48,44

11,4

9,5

2,8

Farmaci per l’ipertensione e lo scompenso

2.0,31,6

9,1

33,53

-6,1

370,5

-0,3

Immunosoppressori e immunomodulatori

1.644,2

7,4

27,14

10,8

4,5

8,7

Ipolipemizzanti

1.091,1

4,9

18,01

5,2

88,8

4,8

Antiaggreganti e anticoagulanti

1.027,7

4,6

16,96

7,9

92,3

1,7

42 | MEDICO e PAZIENTE | 4.2018


Tabella 5. Spesa e consumi in regime di assistenza convenzionata 2017 di classe A-SSN: principi attivi pĂš prescritti in ambito cardiovascolare Categoria terapeutica Farmaci cardiovascolari

Spesa lorda pro capite

%

53,63

Δ% 17-16

DDD/1000 ab die

-2,9

466,8

%

Δ% 7-16

Costo medio DDD

0,3

0,31

rosuvastatina

4,04

7,5

-3,3

12,0

2,6

-2,6

0,93

atorvastatina

3,87

7,2

7,8

41,1

8,8

9,3

0,26

ezetimibe/simvastatina

3,08

5,7

6,5

4,1

0,9

6,8

2,07

bisoprololo

2,15

4,0

7,3

9,9

2,1

7,1

0,60

ramipril

2,02

3,8

0,2

61,4

13,2

0,5

0,09

ezetimibe

1,88

3,5

25,3

2,9

0,6

25,7

1,76

omega 3

1,85

3,5

5,9

3,9

0,8

7,2

1,29

simvastatina

1,71

3,2

-2,7

14,3

3,1

-2,4

0,33

amlodipina

1,55

2,9

-1,4

26,4

5,6

-1,0

0,16

olmesartan/amlodipina

1,53

2,9

8,4

4,8

1,0

13,4

0,88

nebivololo

1,37

2,6

1,9

14,6

3,1

2,7

0,26

olmesartan

1,36

2,5

-43,3

8,6

1,8

7,0

0,43

doxazosin

1,21

2,3

-1,5

7,4

1,6

-1,2

0,45

olmesartan/idroclorotiazide

1,18

2,2

-45,5

7,2

1,6

2,1

0,45

valsartan/idroclorotiazide

1,08

2,0

-4,2

10,1

2,2

-3,7

0,29

valsartan

0,91

1,7

-0,1

14,6

3,1

0,1

0,17

barnidipina

0,87

1,6

-0,9

4,7

1,0

-0,1

0,50

perindopril/amlodipina

0,84

1,6

-10,2

5,0

1,1

0,3

0,47

nitroglicerina

0,82

1,5

-13,9

6,9

1,5

-13,9

0,33

losartan

0,80

1,5

-2,5

7,5

1,6

-1,6

0,29

lercanidipina

0,76

1,4

-1,2

9,2

2,0

-0,7

0,23

furosemide

0,73

1,4

-0,5

24,5

5,3

-0,3

0,08

irbesartan/idroclorotiazide

0,70

1,3

-5,3

5,9

1,3

-4,4

0,32

flecainide acetato

0,69

1,3

7,9

2,2

0,5

10,2

0,85

irbesartan

0,67

1,3

-3,4

8,2

1,8

-2,7

0,22

ramipril/idroclorotiazide

0,64

1,2

-3,9

7,2

1,5

-2,9

0,24

zofenopril/idroclorotiazide

0,63

1,2

-5,6

4,0

0,8

1,6

0,44

carvedilolo

0,61

1,1

-5,9

3,4

0,7

-5,1

0,49

enalapril/lercanidipina

0,60

1,1

-1,8

3,2

0,7

2,8

0,51

losartan/idroclorotiazide

0,58

1,1

-5,7

5,1

1,1

-5,1

0,31

MEDICO e PAZIENTE | 4.2018 |

43


DESTINI INCROCIATI Empowerment e cronicità Da tempo in Italia si parla di medicina narrativa evidenziando l’importanza della centralità della persona, non solo paziente, nella relazione di cura. La gran parte degli interventi formativi volti a sensibilizzare verso modalità relazionali efficaci, viene indirizzata al personale medico-sanitario. Esiste anche un modo diverso per guardare la relazione medicopaziente, che rende protagonista centrale e attivo il paziente. L’empowerment ha la finalità di rendere consapevole la persona delle risorse interne a cui può attingere per gestire al meglio la sua patologia e la relazione con il curante. Un paziente che si abbandona totalmente al medico, che non legge neppure il “bugiardino” dei medicinali che gli vengono proposti, che rifiuta o segue in modo discontinuo il piano terapeutico è un paziente passivo che ricorrerà al medico in continuazione sperando nella medicina miracolosa che non c’è, e andrà ad alimentare il fenomeno del nomadismo, cioè la ricerca continua di un nuovo medico risolutore “di tutti i mali”. La diagnosi di una patologia, ancor più cronica, rappresenta il punto di partenza di un percorso che attraverso tappe psicologiche ben note porta le persone dall’iniziale negazione e rabbia a diverse possibili destinazioni. L’empowerment supporta il paziente in tutte le fasi favorendo l’autoconsapevolezza che permette l’accettazione e la presa in carico della propria malattia. Lungo questo percorso anche i gruppi di auto-aiuto possono servire, ma hanno il limite di concentrarsi solo sulla patologia e la condivisione dei sintomi, e possono determinare un’involuzione negativa, oltre che diventare bacino di

44 | MEDICO e PAZIENTE | 4.2018

diffusione di informazioni mediche, e non solo, non corrette se non addirittura falsate. Ben venga il confronto tra pazienti, ma a patto che sia guidato e monitorato e che porti verso obiettivi costruttivi e positivi. L’empowerment basa la sua essenza proprio sul concetto di scambio guidato in piccolo gruppo, e permette al paziente di prendere coscienza che deve essere medico di se stesso, imparando ad accettare la malattia, a riconoscere le emozioni a essa collegate e a gestirle. Questa consapevolezza facilita il consolidamento di una relazione maggiormente lineare, serena e collaborativa con i sanitari, medici curanti in primis. Il libro Destini incrociati è il risultato di un laboratorio di empowerment del paziente diabetico che si è tenuto presso l’ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano e che ha visto coinvolti i pazienti aderenti all’Associazione Amici del Diabetico. La metodologia utilizzata è stata interattiva: partendo dalla nostra esperienza trentennale di formatori, utilizzando gli strumenti classici della formazione degli adulti uniti al metodo autobiografico acquisito alla LUA (Libera Università dell’Autobiografia - Anghiari) e a tecniche di Feldenkrais, i partecipanti sono stati accompagnati in un percorso di consapevolezza mentale e corporea. Nei diversi incontri abbiamo lavorato sui ricordi, sui traguardi di vita raggiunti, sul rapporto con il proprio corpo, sull’importanza delle emozioni. Stimoli visivi, scritti e video hanno permesso la riflessione, la scrittura sul Diario di Bordo e la successiva condivisione con il gruppo. Per diverse sessioni non si è parlato di diabete,

ma come ha testimoniato più di un partecipante “il diabete era lì, ci accomunava ma in aula c’erano splendide persone con belle storie di vita”. Quando abbiamo affrontato il diabete l’abbiamo fatto partendo dalla lezione sulle emozioni, e per molti è stato illuminante riuscire a dare un nome all’emozione a esso collegata: vergogna, rabbia verso se stessi per non essere riusciti a controllare l’alimentazione… Lo stimolo alla scrittura sul Diario di Bordo ha permesso di affrontare un argomento fondamentale: il diario alimentare che, l’esperienza insegna, tante resistenze suscita nei pazienti. La riflessione corale scaturita ha fatto emergere quanto esso venga rifiutato dalla maggior parte delle persone perché percepito come un’imposizione. “Ci trattano come bambini!” si è sentito nell’aula… e tutti hanno annuito e ammesso che, come i bambini nonostante la presunta saggezza data dall’età, si ribellano e non accettano l’imposizione, attuando comportamenti distonici, primo fra tutti la compilazione frettolosa solo il giorno prima della visita. Il momento di condivisione ha dato voce al non detto e ha avviato in ogni partecipante, come previsto, un’evoluzione positiva: alla lezione successiva tutti sono arrivati con il diario alimentare della settimana, compilato nei modi e tempi corretti e corredato anche da un’analisi critica che evidenziava nessi tra alimenti assunti, tempistica, rilevazioni della glicemia e azioni correttive attivate. Nadia Lattuada Neurobiologa Formatrice

I risultati confermano quindi che, se correttamente guidato lungo un percorso appositamente studiato, il paziente è in grado di attivare le energie interne per arrivare all’obiettivo che, nel nostro caso, riguarda la relazione con il curante e la gestione giornaliera della patologia.


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