Il ritorno di Cornelio Gallo

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Finché ci saranno fiaccole ed archi, armi di Cupido, si impareranno i tuoi versi, o raffinato Tibullo; Gallo sarà famoso in Occidente e in Oriente e, insieme con Gallo, sarà famosa la sua Licoride. Perciò, anche se col trascorrere del tempo si consumano le pietre e il dente del duro aratro, la poesia non muore. (Ovid., Amores I 15, 27-32)

PREMESSA Il frammento di rotolo con i versi elegiaci comunemente attribuiti a Gaio Cornelio Gallo fu rinvenuto, come tutti sanno, nel 1978 a Qas\r Ibrîm, nell’Egitto meridionale, da una Missione Archeologica anglo-americana patrocinata dall’Egypt Exploration Society. Il ritrovamento di quello che è legittimamente considerato quanto rimane del libro latino più antico a noi pervenuto costituisce una delle acquisizioni più importanti della Papirologia del secolo scorso ed è una dimostrazione di quanto feconda di risultati possa ancora rivelarsi la ricerca archeologica dei papiri in Egitto: il papiro, di là dalla sua innegabile e variegata problematicità, che non di rado ha provocato interpretazioni abbastanza avventurose e speculative, ha comunque permesso di acquisire alcuni dati certi sulla produzione poetica di Gallo e di dare, perciò, maggiore spessore alla figura, in precedenza forse un poco evanescente, del poeta elegiaco che fu primo prefetto di Egitto e di delineare più nitidamente il ruolo da lui avuto nella storia della poesia latina. Sul «valore» dei versi la critica ha discusso. Se per Giovanni D’Anna il papiro «non aumenta di molto la nostra conoscenza della figura e dell’opera di Cornelio Gallo»1, per David West esso «è più interessante di quanto sembri»2. Secondo Wilfried Stroh, invece, i 9 versi superstiti sono «preziosi» ed è «sorprendente quanto si possa imparare» da essi3. Più equilibrata la posizione di N.B. Crowther, per il quale «i nuovi versi, pur non permettendo di risolvere definitivamente i maggiori problemi connessi con la poesia di Gallo, si aggiungono in maniera sostanziosa alla nostra conoscenza del poeta»4. Tale giudizio richiama, in ultima analisi, quello dato, per così dire, sul versante storico dal Mazzarino5, per il quale i pochi e miseri resti di 5

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D’ANNA 1980, p. 76. WEST 1983, p. 92. STROH 1983, pp. 211 s. CROWTHER 1983, p. 1646. Non diversamente CONTE 1984, p. 37, scrive che «anche se quel che la sorte ci restituisce è oggettivamente poco […] dobbiamo esultare» perché «figurano in questi brandelli di papiro due o tre elementi che autorizzano significative conclusioni». 5 MAZZARINO 1982, p. 330.


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VAN SICKLE 19812, pp. 122 s. GIANGRANDE 1980, p. 152. KENNEDY 1982, p. 371. Sullo stesso piano FANTHAM 2001, p. 187. 9 PINOTTI 2002, p. 66. 10 BARCHIESI 1981, p. 164. Si veda anche SALLES 1992, pp. 261, 263, che parla di «document d’une valeur insigne», anche se il contenuto «est un peu décevant». 11 PINOTTI 2002, p. 66. 12 BARCHIESI 1981, p. 164.

Qas\r Ibrîm, prestandosi «a molte considerazioni», «aprono lo sguardo» sul mondo «delle classi dirigenti romane, che dà origine alle strutture del principato», un mondo «che in parte conoscevamo bene, ma che ha ancora molto da dirci». Significativamente John Van Sickle, che ha a lungo studiato il frammento, ha parlato in proposito di una vera e propria «question of quality»6. A suo avviso, di là dall’importanza paleografica e bibliologica del documento – universalmente riconosciuta – i carmi non si adattano all’idea che noi finora avevamo di Gallo: essi «non sono esattamente quello che noi desideriamo» ed hanno provocato «lamenti» e «lacrime». Ricordo a questo proposito il giudizio di Giangrande7, che ha parlato di versi «singularly ugly»; quello di Kennedy8, per il quale la reputazione di Gallo è stata in qualche modo danneggiata dalla pubblicazione dei nuovi versi; e quello della Pinotti9 secondo la quale tutti e quattro i libri di poesia dedicati da Gallo a Licoride erano «probabilmente brutti». Molto meno impietoso il giudizio del Barchiesi10, per il quale «solo un po’ di delusione “estetica”, potrebbe inquietare la soddisfazione per la scoperta». Sappiamo comunque che anche altre volte le scoperte papirologiche hanno suscitato più o meno illegittimamente la delusione degli studiosi. Van Sickle ha indicato come nel caso del frammento di Qasr\ Ibrîm si possa attenuare questa delusione: prendere atto, grazie soprattutto alle tante reminiscenze dei nuovi versi individuabili nei maggiori poeti augustei, che essi erano ben noti ed imitati e, proprio per questo, dovevano occupare, all’interno del libro di cui facevano parte, una posizione preminente, iniziale o finale. Può valere la pena – scrive Van Sickle – scoprire «cosa Callimaco divenne in Gallo, e quindi cosa Gallo divenne in Virgilio, Properzio ed Ovidio». All’operazione auspicata da Van Sickle non mostra di credere molto la Pinotti, la quale ritiene «fuorviante la tentazione di ricondurre a Gallo ogni particolarità dell’elegia latina»; a suo avviso «separare la sua voce autentica da quella di Virgilio e di Properzio [...] è affare reso […] complesso» sia «dalla predilezione della poesia antica per l’arte allusiva» sia dall’esiguità dei versi di Gallo in nostro possesso. La studiosa, in definitiva, non crede che la poesia di Gallo abbia esercitato «sull’elegia successiva un influsso più determinante dei miracoli di poesia catulliani»11. Per il Barchiesi12 ci si può in qualche modo consolare sia accettando l’idea che, in fondo, anche alla luce del ben noto giudizio di Quintiliano (Inst. Orat. X 1,93), la du6


rezza preaugustea dei versi del forogiuliense «era prevedibile» ed era stata effettivamente prevista. Significativamente lo studioso13 rileva la necessità, di là dalle convalide che il nuovo papiro ci dà in relazione a ipotizzate connessioni fra Gallo e soprattutto Properzio e Tibullo, di resistere «alla tentazione di ricostruire Gallo a specchio dei sui continuatori o, peggio, del genere elegiaco nella sua organizzazione sistematica». Ben presto del frammento di Qas\r Ibrîm, comunque, si persero le tracce, nonostante l’imponente bibliografia che su di esso via via veniva prodotta: solo poche persone ebbero il privilegio di averlo tra le mani e, di quanti lo hanno studiato, solo P.J. Parsons, che con R.D. Anderson e R.G.M. Nisbet ne divulgò il testo nel 1979, poté esaminarlo direttamente; tutti gli altri si sono basati sulle fotografie accluse all’editio princeps. Dopo che, a venticinque anni dalla sua scoperta, il papiro è stato localizzato, recuperato, restaurato ed esposto in una teca all’interno della sala 29 del Museo Egizio del Cairo a cura del nostro Centro, oggi tutti possono ammirarlo e studiarlo. Questo libro espone la vicenda del recupero del frammento ed i risultati di una nuova lettura autoptica, e, al tempo stesso, riesamina alcune delle principali questioni storiche, letterarie e bibliologiche che esso pone. L’amico e collega Radiciotti in un contributo finale ne esamina la fenomenologia grafica. Ho deciso di arricchire il testo di una notevole serie di fotografie ingrandite del papiro (da me eseguite), per dare, tra l’altro, a tutti quanti, finalmente, la possibilità di esaminarne, per dir così, da vicino l’intera superficie e, anche in questo modo, rendersi conto della sua genuinità. Mi è gradito ricordare qui quanti in Egitto mi hanno variamente aiutato a rintracciare e recuperare il papiro, in particolare Ahmed Abd el-Aal, funzionario del Supreme Council of Antiquities; Sayed Hassan, May Trad ed Ibrahim el-Gawad del Museo Egizio del Cairo; ed i miei allievi Clara Cavalieri, Cosimo D. De Luca, Ivana Denuzzo, Livia Manganaro, Natascia Pellé e Gabriella Sansonetti, che hanno agevolato il non facile reperimento dell’ingente materiale bibliografico ed hanno rivisto le prove di stampa; alla Cavalieri si deve anche la cura degli Indici. Ringrazio, infine, Enrico Giorgi, che per me ha eseguito i disegni delle tavv. 10, 75 e 76. Lecce, quattordici giugno duemilatre

M.C. 7

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BARCHIESI 1981, p. 160.


INTRODUZIONE I. Il recupero del papiro di Cornelio Gallo: perché, come, quando e dove. 14 Talora il numero di inventario del papiro non è riportato con esattezza dalla critica, in particolare la sigla LI viene trascritta L 1, cf. ad es. VAN SICKLE 1980, p. 109. Nel presente volume con le sigle MP3 e LDAB ho indicato rispettivamente il Catalogo dei Papiri letterari greci e latini di R.A. Pack aggiornato a cura di P. Mertens e consultabile on-line al sito [http://www. ulg.ac.be/facphl/services/cedopal/MP3/fexp.shtml] ed il Leuven Database of Ancient Books curato da W. Clarysse ed anch’esso consultabile on-line, al sito [http://ldab.arts.kuleuven.ac. be/database.html]. 15 Cf. G. BASTIANINI, Liste dei prefetti d’Egitto dal 30ª al 299p, «ZPE» 17 (1975), p. 267; ID., «ZPE» 38 (1980), p. 75. 16 Zum sogenannten Carmen De Bello Actiaco (P. Herc. 817), «Codices Manuscripti» 22 (1998), pp. 3-10. 17 Cf. M. CAPASSO-P. RADICIOTTI, La falsa falsificazione del De Bello Actiaco (PHerc 817). A proposito di un paradosso ercolanese, «PLup» 8 (1999), pp. 117-135. 18 A favore dell’identificazione di Qasr\ Ibrîm con Primis si esprime H. KEES, RE XXII/2 (1954) , coll. 1993 s.; parere contrario in H. TREIDLER, ibidem, coll. 1976-1993. Cf. anche H.W. HELCK, Primis, KP IV (1972, rist. 1979), col. 1135; R.A. CAMINOS, Qasr Ibrim, LÄ 5 (1984), coll. 4345; A. LOHWASSER, Primis, NP 10 (2001), col. 327. Si veda anche, più avanti, n. 54 ed il contributo di Radiciotti nel presente volume. La prima notizia, per quanto un poco vaga, del rinvenimento è leggibile nel Report di R.D. Anderson in «JEA» 64 (1978), p. 2.

L’idea di andare a rileggere il papiro latino contenente versi elegiaci comunemente attribuiti a Gaio Cornelio Gallo (PQas\r Ibrîm 78-3-11/1 = LI/2; MP3 2924.1; LDAB 0574, d’ora in poi P14), primo prefetto di Alessandria e di Egitto15, è nata da una delle diverse conversazioni che ho avuto con l’amico Paolo Radiciotti a proposito del PHerc 817, contenente resti del così detto Carme Sulla battaglia di Azio. Era appena uscito l’articolo di Franz Brunhölzl su «Codices Manuscripti»16, che, con molta leggerezza ed assai scarsa conoscenza delle vicende della papirologia ercolanese, metteva in dubbio l’autenticità di questo che è uno dei rotoli più studiati dell’intera collezione della Villa attribuita ai Pisoni. L’ipotesi di Brunhölzl è stata da noi analizzata e, crediamo, definitivamente demolita in un articolo apparso nell’ottavo volume dei «Papyrologica Lupiensia»17. Nel corso di quel nostro comune lavoro sul PHerc 817 ci parve opportuno sottoporre ad un esame autoptico P, che aveva in qualche modo tolto, per dir così, a quello ercolanese il privilegio di essere il libro latino più antico a noi pervenuto e la cui autenticità lo stesso Brunhölzl aveva precedentemente messa in dubbio, dando il via ad un dibattito che non si è ancora concluso e che ha visto alcuni schierarsi nettamente per l’autenticità del testo, altri prendere posizione a favore della sua non genuinità ed altri, ancora, mostrare in proposito una sorta di tacito scetticismo. L’esame autoptico di questo testo – che nessuno dopo l’editio princeps aveva più visto con i propri occhi – ci sembrò potesse contribuire una buona volta a chiudere quel dibattito e a risolvere ogni residuo dubbio sulla sua autenticità. La ricerca non è stata facile: ci sono voluti più di due anni per localizzare il papiro ed avere la possibilità di esaminarlo. Esso viene ritrovato da una Missione inglese nei primi mesi del 1978 a Qas\r Ibrîm (identificata con la Primis dell’età classica), una città-fortezza situata su di un massiccio di calcare sulla riva orientale del Nilo, nella Nubia egiziana, a circa 235 chilometri a sud di Assuan (tavv. 1-3)18. La Missione, frutto della cooperazione tra l’Egypt Exploration Society (EES) e l’University of Kentucky, è diretta dall’archeologo W.Y. Adams e dall’e8


pigrafista R. D. Anderson. Nella Campagna del 1978, svoltasi dal 15 gennaio al 30 marzo, la Missione lavora principalmente nell’area delle fortificazioni meridionali del sito ed in particolare del così detto «bastione sud», una costruzione in mattoni crudi che domina l’estremità meridionale della parte alta di Qas\r Ibrîm (tav. 4)19. Il bastione racchiude una precedente torre in pietra. Lo scavo è «molto limitato»20 e non riesce a stabilire cronologia e finalità di queste strutture, che si elevano per almeno 8 m al di sopra della superficie del gebel. Il bastione, probabilmente nella prima età meroitica o tolemaica, fu recintato da un muro circolare in pietra, che si ergeva a ridosso di esso, lasciando tuttavia uno spazio pedonale tra la sua facciata interna e quella esterna del bastione. Col passare del tempo tale spazio fu progressivamente riempito di detriti e rifiuti lanciati dall’alto. Secondo gli studiosi inglesi21, questo deposito – ampio, omogeneo e contenente pochi papiri latini ed un più consistente gruppo di papiri greci assegnabile, su base paleografica, al I sec. a.C. o al primissimo I sec. d.C., nonché, tra l’altro, monete, lucerne, ceramica, sandali di tipo romano – potrebbe essersi verosimilmente formato nel corso dei 5 anni durante i quali i Romani occuparono il sito (25/24-20 a.C.). Il deposito non è «propriamente stratificato», tuttavia, al suo interno, gli archeologi inglesi individuano diversi «livelli». P viene rinvenuto nel livello 3, in stretta connessione con una moneta di 8 dracme coniata da Cleopatra VII ad Alessandria e databile agli anni 44-31 a.C.; per genere ed esecuzione essa è fatta risalire più agli anni 30 che agli anni 40 e se ne esclude comunque la circolazione in un’epoca posteriore al regno augusteo. Dal medesimo livello provengono lucerne databili per tipologia al I sec. a.C., al tardo I sec. a.C.-inizio I sec. d.C. e all’arco di tempo compreso tra il tardo I sec. a.C. ed il 25 d.C. Ancora nel livello 3 ed in quelli successivi, fino al livello 8 – distante dal 3 un metro circa –, sono recuperati alcuni papiri documentari latini ed un cospicuo numero di papiri documentari greci; di questi due gruppi solo per quelli greci è possibile proporre, sul fondamento paleografico, una datazione precisa: I sec. a.C. oppure primissima parte del I sec. d.C., cronologia confermata dalle date leggibili in alcuni di questi papiri, tra cui due lettere private – recuperate nel livello 7 (inv. 78-3-25/1 = GI 44) – datate (e[tou") q, vale a dire nell’anno 9, ed un frammento di un’altra lettera privata (inv. 78-3-27/1), rinvenuto nel livello 8, dove si legge 9

19 Sullo scavo del 1978 cf. ANDERSON-ADAMS et alii 1979, pp. 30-41, sp. 33-35; Anderson, in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, pp. 125 s. Sul «bastione» cf. anche W.H.C. FREND, Some Greek and Latin Papyri of the Period 50 BC to 50 AD from Q’asr Ibrim in Nubia, in Proceed. XIV Int. Congr. of Papyrologists, London 1975, pp. 103-111. Lo scavo inglese in questa località prosegue fruttuosamente, talora col recupero di ulteriore materiale papiraceo, ma per il progressivo innalzamento del livello del lago Nasser il sito viene sempre di più invaso dall’acqua, che distrugge i materiali organici in esso depositati, cf. almeno J.A. ALEXANDER-B. DRISKELL, Qas\r Ibrîm 1984, «JEA» 71 (1985), pp. 12-26; P. ROSE, Qasr Ibrim, 1998, «JEA» 84 (1998), pp. 2022; EAD., Qasr Ibrim, 2000, «JEA» 86 (2000), pp. 18-21; EAD., Evidence for early settlement at Qasr Ibrim, «EA» 17 (Autumn 2000), pp. 3 s.; EAD., Qasr Ibrim, 2000, «JEA» 87 (2001), pp. 21 s. 20 Adams in ANDERSONADAMS et alii 1979, p. 33. Nel 1998 l’intera area delle fortificazioni meridionali risultava già raggiunta dall’acqua del lago: il «bastione sud» in pratica aveva completamente perso il suo rivestimento di mattoni crudi, cf. ROSE, Qasr Ibrim, 1998 cit., p. 20. 21 Cf. Anderson, in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, pp. 125 s.


22 Questo particolare mi è stato riferito dal Parsons in una comunicazione del 28 febbraio 2002. 23 Non «idem 84», come leggiamo in CAVENAILE 1981, p. 127. 24 Cf. ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 126. 25 PARSONS 1980, p. 4. 26 Cf., ex. gr., BISCHOFFBROWN 1985, p. 322; CAVALLO 1989, p. 696 n. 15; PECERE 19902, p. 680; PESANDO 1994, p. 76; PETRUCCI 2000, didascalia alla fig. 2. Correttamente SBORDONE 1982, p. 58, scrive che P si trova nel deposito dell’EES a Saqqara. 27 RAFFAELLI 1984, p. 21. Notizia confermata nell’Indice dei manoscritti e dei documenti d’archivio, all’interno del volume di cui il contributo del Raffaelli fa parte, p. 439. In realtà all’Ashmolean Museum sono i negativi delle foto di P eseguite da Eyre. 28 BALLAIRA 1987, p. 49 n. 3; ID. 1993, p. 31.

(e[tou") q K\a\iv\[saro": le tre lettere, molto verosimilmente, furono scritte nell’anno 9 di Augusto = 22/21 a.C. Dopo il 30 marzo del 1978, giorno in cui la Missione inglese chiude la Campagna di quell’anno, P, al quale è stato dato il nr d’inventario 78-3-11/1 = LI/2, sistemato in una piccola scatola per formaggio22, viene portato a Saqqara e lì rinchiuso in una cassa all’interno del magazzino dell’Egypt Exploration Society; a p. 9 del registro dei materiali di Qasr\ Ibrîm esso è inventariato come «case 7, item 84»23. Un anno dopo, nel marzo del 1979, la cassa viene riaperta, per permettere a Peter J. Parsons di studiare il papiro. Questi restaura, fotografa (con la collaborazione di C.J. Eyre) e legge il frammento. In quella occasione viene riferito al Parsons che la destinazione finale di P è il Museo Egizio del Cairo, notizia che lo studioso registra nella ben nota editio princeps del frammento curata insieme con il ricordato Anderson e R.G.M. Nisbet24. L’anno successivo lo stesso Parsons segnala il papiro come custodito al Cairo25. Da quel momento molti di coloro che, occupandosi di P, ne registrano il luogo di conservazione scrivono che esso è conservato al Museo Egizio26. Qualcuno, addirittura, afferma che è all’Ashmolean Museum di Oxford27. Tuttavia nel gennaio del 1986 il Parsons in una comunicazione privata al Ballaira – che la rende nota l’anno successivo28 – scrive che il papiro è ancora nel magazzino dell’EES a Saqqara ed attende di essere trasferito al Cairo. In realtà il papiro non si muove da Saqqara. Partito il Parsons, infatti, esso viene rinchiuso nuovamente nella cassa, dalla quale è praticamente uscito, per mia iniziativa, solo nell’ottobre del 2001, ben 22 anni e mezzo dopo. Sulla base sia della notizia del Parsons sia di quanto hanno scritto in molti, nel marzo del 1999 comincio a cercare P al Museo Egizio del Cairo. Dopo un’accurata ricerca, durata diversi mesi, Sayed Hassan, responsabile della Sezione dei Papiri Greci – nella quale P avrebbe dovuto essere custodito se fosse stato depositato nel Museo –, nell’ottobre dello stesso anno mi comunica che tra i papiri di Qas\r Ibrîm conservati al Museo il frammento non c’è: io stesso ho la possibilità di constatare che esso non è affatto menzionato nello Special Register della Sezione né si trova nelle buste che custodiscono altri frammenti provenienti dalla medesima località. Eppure un alto funzionario del Supreme Council of Antiquities (SCA) assicura che il papiro era stato effettivamente trasferito in quel Museo. 10


Tornato in Italia, il 21 dicembre di quello stesso anno chiedo notizie sulla collocazione di P a Patricia Spencer, segretaria dell’EES, che alcuni giorni dopo mi comunica quanto risulta a loro: sono ormai alcuni anni che il magazzino della Society a Saqqara è stato svuotato e tutti gli oggetti e le casse in esso originariamente custoditi, compresi i materiali di Qas\r Ibrîm, sono stati trasferiti nei «nuovi magazzini dell’SCA» all’interno della stessa Saqqara: se il papiro non è al Cairo, a suo avviso esso deve trovarsi verosimilmente in una cassa di uno di quei magazzini. Da quel momento concentro la mia ricerca su Saqqara. L’indagine è complicata dal fatto che il registro degli oggetti di Qas\r Ibrîm, che dovrebbe trovarsi al Museo Egizio del Cairo, è invece momentaneamente – almeno così mi viene riferito – depositato presso l’ispettorato di Saqqara e, dunque, a me non accessibile. Grazie ad Ahmed Abd el-Aal Mohammed, direttore delle Antichità del nord Fayyum e rappresentante dell’SCA presso la Missione Archeologica Congiunta delle Università di Bologna e di Lecce a Kom Umm el-Atl (l’antica Bakchias), diretta da me e da Sergio Pernigotti, riesco comunque a sapere che una cassa con i materiali di Qas\r Ibrîm, compresi i papiri, trovati dalla Missione inglese è effettivamente custodita nel magazzino 8 di Saqqara e che in particolare i papiri necessitano di essere restaurati. Il 7 novembre del 2000 presento al Chairman dell’SCA, dr Gaballa Aly Gaballa, la richiesta dell’autorizzazione a restaurare «direttamente a Saqqara oppure nel Museo Egizio del Cairo» il frammento di Cornelio Gallo e gli altri papiri conservati insieme con esso. Non ho alcun riscontro; ripresento perciò la stessa richiesta nella primavera dell’anno successivo; l’autorizzazione, discussa in una seduta del Comitato Permanente dell’SCA, mi viene concessa, ma al mio ritorno in Egitto, alla fine di settembre del 2001, perché l’autorizzazione diventi per così dire effettivamente operativa, debbo comunque ripresentare una terza volta la richiesta, su cui il 9 ottobre il Chairman appone una sorta di visto in qualche modo definitivo, che dovrebbe farmi finalmente accedere al magazzino 8 di Saqqara. Recatomi, sùbito dopo, all’Ispettorato delle Antichità di Saqqara, sono costretto a constatare che la ricerca non è finita. Qualche ispettore, pur trovandosi dinanzi a quel “visto definitivo”, comincia infatti a sollevare obiezioni: il papiro di Cornelio Gallo si 11


trova probabilmente ancora a Qas\r Ibrîm ed è lì che bisogna cercarlo; in ogni caso, a suo dire, l’accesso al registro e l’eventuale apertura del magazzino devono, per ragioni «territoriali», essere autorizzati anche dall’allora direttore delle Antichità di Giza, Zahi Hawass. In realtà mi rendo ben presto conto che il vero problema è costituito proprio dal magazzino 8. Da quando, in un giorno imprecisato degli scorsi anni Ottanta, esso è stato oggetto di un furto da parte di ladri calatisi dal tetto, che hanno portato via, tra l’altro, una falsa porta e diverse centinaia di papiri egiziani, il magazzino è diventato una sorta di tabù, una vera e propria maledizione per gli ispettori di Saqqara: qualcosa da cui tenersi assolutamente alla larga, insomma una fonte di problemi, per cui più lo si lascia sprangato e meglio è per tutti. Su quel furto riesco ad avere da uno degli ispettori, Sabry Farag, responsabile del magazzino, notizie frammentarie: i ladri o non si sono accorti della presenza della cassa con i materiali di Qas\r Ibrîm o non erano interessati ad essi o, anche, non ne conoscevano il valore; fatto è che non l’hanno toccata; grazie all’intervento di Scotland Yard, comunque, sono state recuperate alcune decine di papiri che erano finiti in Inghilterra e che sono stati restituiti all’Egitto. Sicuramente il magazzino è rimasto chiuso per ben 10 anni, dal 1986 al 1996, ed in ogni caso lo si apre il meno possibile: nel momento in cui mi presento a Saqqara sono 4 anni che esso è chiuso, essendo stato aperto l’ultima volta il 16 settembre 1997. Grazie ad Adel Hussein Mohammed, direttore delle Antichità di Saqqara, ogni resistenza viene superata e riesco ad accedere intanto al registro dei materiali di Qas\r Ibrîm, che avrebbe dovuto trovarsi al Museo del Cairo, ma che, come ho detto, è depositato momentaneamente a Saqqara, ed a leggervi, sulla pag. 9 ed in corrispondenza del nr 84, la seguente annotazione relativa al frammento di Gallo: «Position: Outside E. of unit RI, level 3, Latin Poem, 18.8 x 15 cm; Date: Meroitic; Remarks: Provincial work». Per ulteriori difficoltà burocratiche l’apertura del magazzino e della cassa è comunque rinviata a qualche giorno dopo, il 14 ottobre. Difficilmente dimenticherò la cerimonia dell’apertura del magazzino: ad essa prendono parte non meno di 10 persone, tra ispettori, falegnami, guardiani e poliziotti. Ricordo soprattutto la grande tensione ed il nervosismo degli ispettori, in particolare di Sabry Farag, che, se avesse potuto, mi avrebbe vo12


lentieri incenerito. Un po’ meschinamente se la prende col mio assistente egiziano Mahmoud Ahmed, che allontana in malo modo dal magazzino, costringendolo a stare ad almeno cinquanta metri da esso, non essendo il suo nome nell’elenco delle persone autorizzate a restaurare i papiri della cassa. Ma né io né Mahmoud riusciamo a provare antipatia per lui: ci rendiamo perfettamente conto che è più o meno terrorizzato e vorrebbe essere altrove. Sono comunque 4 anni che il magazzino non viene aperto e la circostanza rende particolarmente difficili le operazioni ed esagitati gli animi. Dopo tanto tempo di inattività il catenaccio della prima porta, quella esterna, non risponde alle sollecitazioni della chiave e dopo due ore esatte trascorse in svariati tentativi di far funzionare la chiave e in pittoreschi alterchi tra ispettori e falegnami, comincia ad apparire chiaro a tutti che l’unica possibilità di aprire la porta è nel forzare il catenaccio. Il sole, intanto, è già alto e, come sa bene chi frequenta Saqqara, picchia maledettamente. Sabry Farag si convince dell’ineluttabilità della rottura del catenaccio non appena gli giuro che sarò io a provvedere a pagare quello nuovo. La forzatura deve naturalmente essere autorizzata dal direttore di Saqqara, ma l’autorizzazione arriva dopo una «sola» ora di attesa. Sono passate all’incirca tre ore dal nostro primo arrivo al magazzino, quando, spaccato con dei potenti colpi di martello il catenaccio, superiamo la prima porta. Ce n’è comunque un’altra, in realtà un cancello, la cui apertura non riserva grosse sorprese, a parte tantissima sabbia che, nello spingere all’interno i battenti, vien giù dall’alto, investendoci. La cassa (tav. 5) è lì sulla destra rispetto all’ingresso del magazzino. La felicità che provo nel trovarmela di fronte mi fa apprezzare pochissimo i tanti altri tesori custoditi nel magazzino e accatastati nelle scansie poste lungo i muri: ad essi do appena un’occhiata distratta. L’apertura della cassa richiede pochi minuti. Essa risulta incredibilmente (e pericolosamente) stracolma degli oggetti più disparati trovati dalla Missione inglese a Qas\r Ibrîm in quel fatidico 1978: cestini, tavolette scrittorie, papiri: in tutto almeno diverse centinaia di pezzi. Ma solo sul fondo, dopo 20 minuti lunghi un’eternità – quando ormai qualche strano dubbio comincia ad assalirmi – troviamo la cornice di vetro col papiro di Gallo (tav. 6).

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29 Sul restauro di questi altri papiri rinvio a CAPASSO 20021, pp. 7-16.

II. Il restauro. Peter J. Parsons, secondo quanto egli stesso ha scritto su di una lista dei papiri conservati nella cassa, nel marzo del 1979 aveva ripulito parzialmente il papiro ed appoggiatolo su di una base di cartone lo aveva chiuso tra due lastre di vetro spesse mm 3, larghe cm 29,5 ed alte cm 22. Le due lastre erano state chiuse ermeticamente con nastro adesivo. Coadiuvato dalla mia collaboratrice Flavia Ippolito, ho aperto la cornice, ho provveduto ad una pulitura totale del papiro, compresa la parte non toccata dal Parsons (tav. 7); tanto sul cartone di base quanto sulla lastra anteriore si era formata una patina di impurità prodotta dal materiale: ho eliminato il cartone, peraltro ondulatosi per l’umidità, e messo P tra due nuove lastre, spesse mm 3, larghe ed alte cm 30 (tav. 8). Le due lastre sono state chiuse non ermeticamente, con cornicette mobili di plastica. Ho naturalmente provveduto a documentare fotograficamente le varie fasi di questo trattamento, ed ho fotografato il papiro sia con camera reflex sia con camera digitale. Restauro e riproduzione fotografica sono stati eseguiti nella stanza di Osama el Shimy, capo degli ispettori di Saqqara, che, insieme con gli altri ispettori Abdallah Mahmoud, Mohammed Mohammed Youssef ed il già ricordato Sabry Farag, ha poi grandemente agevolato il mio lavoro.

III. Cornelio Gallo al Cairo. Oltre al papiro di Cornelio Gallo in quella sessione di lavoro a Saqqara (14-27 ottobre 2001) ho restaurato altri 4 papiri (3 greci, 1 latino, più altri piccoli pezzi greci) provenienti anch’essi dallo scavo eseguito dagli inglesi a Qas\r Ibrîm nel 1978 e conservati nella stessa cassa29. Nell’inviare il 27 ottobre la relazione sul lavoro svolto al dr Gaballa, ho chiesto che tutti i materiali della cassa venissero trasferiti dal magazzino 8 di Saqqara definitivamente al Museo Egizio del Cairo, sia per facilitarne lo studio da parte di chiunque sia interessato, sia per consentire ai visitatori del Museo di ammirare, mediante un’opportuna esposizione permanente, il papiro di Cornelio Gallo. Anche grazie al parere favorevole del dr Mamdouh el-Damaty, direttore generale del Museo, il Supreme Council of 14


Antiquities ha accolto la mia richiesta: agli inizi del 2002 la cassa è stata trasferita al Museo del Cairo e dal 12 al 20 febbraio di questo stesso anno ho potuto restaurare altri papiri (tra cui 10 frammenti greci, 1 papiro greco e copto, 1 frammento latino) ed allestire la vetrina destinata ad ospitare il papiro di Gallo30. La vetrina è stata inaugurata il 5 novembre 2002, nella sala 29, dove sono esposti papiri greci ed egiziani e strumenti scrittori: da quel momento il frammento di quello che quasi certamente è il libro latino più antico a noi pervenuto ha adeguata sistemazione e ‘visibilità’; soprattutto, è a disposizione di tutti gli studiosi (tav. 9).

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30 Sul restauro di questi papiri rinvio a CAPASSO, ibidem.


31 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, pp. 126-131. 32 I 5 pezzi sono uniti con piccole strisce di nastro adesivo applicate sul verso; non so se l’assemblaggio sia stato eseguito già a Qas\r Ibrîm. 33 Fraintendendo l’inglese dell’editio princeps, PESANDO 1994, p. 78, scrive che «la sutura tra i due fogli è ottenuta non sovrapponendo i margini destro e sinistro, ma facendo ricorso ad una sottile striscia di papiro (larga cm 1,5) incollata all’estremità dei margini stessi, chiamata in greco kòllesis, che presenta le fibre disposte perpendicolarmente rispetto a quelle del recto, in modo da favorire una maggiore coesione con le pagine sottostanti dopo essere state battute con il martelletto menzionato da Plinio». La sutura tra i due kollemata in P non è eseguita mediante l’utilizzazione di alcuna striscia: sul recto non c’è alcuna porzione di papiro che abbia le fibre correnti in senso perpendicolare alla scrittura. Di altri errori presenti nella descrizione del papiro data da Pesando faccio grazia al lettore.

I. Il papiro. I 1. Il manufatto. Il Parsons nell’editio princeps ha molto puntualmente analizzato, tra l’altro, gli aspetti materiali e bibliologici di P31, tuttavia l’esame diretto mi ha messo in condizione di arricchire la sua descrizione. P fu rinvenuto in 5 pezzi separati che, messi insieme32, ricompongono un frammento di volumen con una larghezza massima di cm 19 ed un’altezza massima di cm 16. Il papiro, definito dal Parsons di «media qualità», è di un colore tra il marrone chiaro ed il giallo scuro; la tessitura appare uniforme e regolare: mettendo il frammento contro luce non appaiono sbavature; la carta ha uno spessore medio. Attualmente esso è, nel complesso, in discrete condizioni; sul margine sinistro la superficie è in alcuni punti sfrangiata; una diffusa presenza di pieghe non compromette la leggibilità della scrittura, che è abbastanza nitida nella parte superiore di P; piuttosto sbiadito è invece l’inchiostro nella parte inferiore, circostanza che rende le lettere parzialmente o difficilmente leggibili. Sul margine destro del frammento – a cm 2,6 ca. dal lembo estremo – è ben visibile una kollesis, che in una porzione della metà superiore appare piuttosto verticale e priva di sbavature, mentre in quella inferiore si inclina e diviene irregolare (tav. 10). La colla con cui fu eseguita la giuntura tra i due fogli contigui ha reagito, facendo cambiare percettibilmente il colore alla parte del foglio di sinistra sovrapposta a quello di destra, un fenomeno che notiamo talora nei papiri ercolanesi. L’area di sovrapposizione oscilla (dall’alto verso il basso) da un minimo di cm 1,1 ad un massimo di cm 1,3. Il rotolo originario fu fabbricato con fogli larghi almeno cm 16,5, misura che rientra tra quelle documentate per i materiali provenienti dall’Egitto33.

I 2. Spazio non scritto e spazio scritto. I 2.1. I margini. P ha scrittura solo sul recto, parallela alle fibre (tav. 11). Il testo è organizzato in due colonne, prima delle quali era comunque necessariamente almeno un’altra colonna, che conteneva il 16


carme il cui ultimo verso costituisce la prima linea della prima colonna e che per comodità chiamerò col. 0. Il margine superiore è l’unico che sicuramente si è conservato per intero: calcolato dalla linea ideale superiore delle lettere della l. 1 della col. I, esso misura cm 3,4; se lo si calcola a partire dal tratto orizzontale della T, prima lettera della linea, più grande rispetto alle altre, esso è di cm 3,1. Il margine inferiore, che, come è noto, nei papiri letterari era più alto di quello superiore, doveva misurare almeno cm 4,5. Si tratta di misure abbastanza notevoli. Il margine sinistro si è parzialmente conservato e, calcolato in corrispondenza di col. I 2, misura cm 1,5: esso è quanto rimane dello spazio lasciato vuoto tra col. 0 e col. I. Lo spazio intercolonnare era comunque maggiore di almeno un centimetro, come possiamo constatare a destra della col. I. Infatti se lo calcoliamo a partire dall’estremità destra di tale colonna (spazio tra col. I 4 ed il corrispondente simbolo di pausa nella col. II, apposto tra col. II 4 e col. II 5), esso misura cm 3,3; ancora più ampio, cm 3,9, risulta se lo calcoliamo tra col. I 5 e col. II 5; lo spazio minimo tra le due colonne, comunque, calcolato tra col. I 4 e col. II 5, è di cm 2,5. Nel PHerc 817 lo spazio tra la col. III e la col. IV è di cm 3. Sùbito dopo le esili tracce dell’ultima linea della col. I (l. 12) il papiro si interrompe. Se il testo continuava direttamente alla colonna successiva, mancherebbe solo il margine inferiore, che, come si è detto, misurava almeno cm 4,5. Ma su questo tornerò più avanti.

I 2.2. Scrittura ed organizzazione del testo. P contiene resti variamente conservati di due colonne di scrittura. Della col. I rimangono complessivamente 12 linee, così distribuite: l. 1: pentametro finale di un epigramma o di un’elegia, che molto verosimilmente cominciava nella parte inferiore della col. 0 (= carme a)34 segni di divisione ll. 2-5: epigramma completo di 4 versi (= epigramma b) segni di divisione ll. 6-9: epigramma completo di 4 versi (= epigramma c) segno di divisione ll. 10-12: resti dei primi tre versi di una nuova poesia (= carme d). 17

34 ÉVRARD 1984, p. 32, si chiede se l’esametro che certamente precedeva il primo pentametro conservato su P si trovasse sulla stessa colonna: in realtà esso doveva sicuramente trovarsi nella colonna precedente, come testimonia indubitabilmente l’ampio margine superiore.


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Cf. Parsons in ANDER1979, p. 138; BALLAIRA 1987, p. 49; CAVALLO 1989, pp. 696, 710 s.; ID., Gli usi della cultura scritta nel mondo romano, nel vol. AA.VV., Princeps urbium. Cultura e vita sociale dell’Italia romana, Milano 1991, pp. 196, 246 n. 41; BALLAIRA 1993, pp. 31-42. 36 Sulla scrittura di P rinvio al paragrafo di Radiciotti in questo stesso Album. 37 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 131. 38 CAVALLO 1989, p. 696. Cf. anche PECERE 19901, p. 335. SON-PARSONS-NISBET

La col. II contiene resti veramente esigui di due linee di scrittura ed un segno di divisione; il confronto con la col. I consente comunque di ipotizzare con grande verosimiglianza che essa constasse di almeno 6 linee così distribuite: ll. 1-4: 4 versi di una poesia (= carme e) segno di divisione ll. 5-6: primi 2 versi (verosimilmente un distico elegiaco) di una nuova poesia (un epigramma o un’elegia) (= carme f). Come hanno scritto diversi studiosi35, P è quanto resta di un libro latino di particolare pregio e raffinatezza. Il lavoro di trascrizione ed organizzazione del testo è stato eseguito con una certa cura e sufficiente regolarità, da uno scriba professionista. La scrittura è un’elegante e posata capitale rustica, piccola e dritta, perfettamente bilineare (ad eccezione della Q, la cui coda si proietta ben oltre la linea di base) e manifestamente realizzata da una mano agile e sicura. Sufficientemente regolari il tracciato, la forma e la dimensione delle lettere36. Quelle interne sono larghe cm 0,2/0,3 (ad eccezione di M e Q che hanno un modulo più largo) ed alte cm 0,3 ed appaiono ordinatamente poggiate sul rigo ideale di base: solo nella parte finale di due linee (col. I 4 e 5) esse si sollevano appena percettibilmente. Costante è lo spazio tra le lettere, anche nella parte finale delle linee. Le lettere iniziali di verso sono, in misura tuttavia varia, più grandi, proiettandosi al di sopra (col. I 1) o al di sopra e al di sotto (col. I 2, 3, 4, 5) oppure al di sotto (col. II 5) delle due linee che idealmente racchiudono le lettere normali; queste le loro dimensioni (in centimetri): T (col. I 1): h 0,5; l 0,3; F (col. I 2): h 1; l 0,5; M (col. I 3): h 0,6; l 0,3; P (col. I 4): h 0,5; l 0,2; F (col. I 5): h 0,5; l 0,2; Q (col. II 5): h 0,7; l 0,6. Secondo il Parsons37 e il Cavallo38, le lettere iniziali degli esametri sono più grandi di quelle iniziali dei pentametri; in realtà, come si può notare dallo schema appena riportato, la P di col. I 4 (lettera iniziale del secondo esametro dell’epigramma b) ha le stesse dimensioni della F di col. I 5 (lettera iniziale del secondo pentametro di tale epigramma) ed è addirittura più piccola della M di col. I 3 (lettera iniziale del primo pentametro dello stesso epigramma). Dunque non c’è differenza sostanziale di modulo tra lettere iniziali di esametri e lettere iniziali di penta18


metri (l’autopsia ha confermato dunque il dubbio espresso da Ballaira 1993, p. 34). Giustamente, invece, il Parsons osserva che le dimensioni della Q di col. II 5 (lettera iniziale del carme f) impediscono di ritenere che lo scriba avesse realizzato – come sembrerebbe far pensare l’ampio formato della F di col. I 2 (lettera iniziale dell’epigramma b) – le lettere iniziali di carmi più grandi di tutte le altre: più verosimilmente, a mio avviso, egli sarà stato indotto a delineare una F di notevole formato indirettamente dalla disponibilità di spazio a sua disposizione nella parte alta del foglio. Le lettere iniziali di esametri (col. I 2 e 4) sono seguite da uno spazio di cm 0,3, maggiore di quello solitamente lasciato tra una lettera e l’altra e pari all’ampiezza di una lettera di media grandezza del testo; non evidente lo spazio tra la Q di col. II 5 (lettera iniziale di carme) e la U successiva. Appena più ampio del solito, lo spazio che segue alle lettere iniziali dei pentametri oscilla tra mm 2 e mm 2,5 (si veda in proposito Ballaira 1993, p. 34). Le dimensioni dell’ultimo verso del carme a (col. I 1) corrispondono naturalmente a quelle della linea di scrittura, vale a dire: lunghezza cm 8,5 ed altezza (calcolata dal tratto orizzontale della lettera iniziale T) cm 0,5. L’epigramma b ha una lunghezza massima (calcolata sul secondo esametro = col. I 4) di cm 13,7 e un’altezza, calcolata a partire dalla testa della lettera iniziale F, di cm 3,5 (di cm 2,9 se non si tiene conto delle dimensioni di questa lettera). Lo spazio interlineare in tale epigramma è di cm 0,6 ca. Dell’epigramma c, frammentario, è possibile calcolare solo l’altezza: cm 3,2; tuttavia, tenendo conto del fatto che lo scriba nel precedente epigramma b ha perfettamente allineato le lettere iniziali dei due esametri, dobbiamo ritenere che anche gli altri due esametri di questo epigramma fossero allineati sia tra di loro sia con quei due precedenti; di conseguenza è molto verosimile ipotizzare, per l’epigramma c, una lunghezza di cm 12,5 ca. Lo spazio interlineare si aggira tra cm 0,5 e cm 0,6. In base alle stesse considerazioni, si può fondatamente ritenere che il carme d, naturalmente nell’ipotesi (probabile) che il primo ed il terzo verso, di ciascuno dei quali resta un’esigua porzione dell’ultima lettera, siano stati esametri, era lungo, almeno in questi due versi, tra cm 11,4 e cm 11,5 ca. Lo spazio interlineare è di cm 0,6 ca. L’ampiezza dei carmi della prima colonna oscilla dunque tra un minimo di cm 11,4 ed un massimo di cm 13,7; l’altezza tra un minimo di cm 3,2 ed un massimo di cm 3,5. Lo spazio interlineare è di cm 0,5/0,6. Nel PHerc 817 l’ampiezza della colonna non è 19


39 Sul rapporto spaziale tra esametri e pentametri in P cf. RADICIOTTI, più avanti. 40 Cf. Parsons in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 130, che cita, per il rientro dei pentametri, i più antichi codici elegiaci latini, come il Guelferbitano di Ovidio (V2 sec.) ed il Salmasiano dell’Anthologia Latina (VIII2 sec.); e, per le dimensioni maggiori delle lettere iniziali, il Vindob. Lat. 277 (Marziale, VIII/IX sec.), il Paris. 8071 (Florilegium Thuaneum, IX sec.), ed il Vat. Regin. 1709 (Ovidio, X sec.) 41 Cf. RAFFAELLI 1984, pp. 21-23.

costante: quella della col. IV oscilla da un minimo di cm 19,2 (l. 6) ad un massimo di cm 20,5 (l. 8); quella della col. V va da un minimo di cm 15,5 (l. 7) ad un massimo di cm 18 (l. 4); quella della col. VI va da un minimo di cm 15 (l. 9) ad un massimo di cm 17,5 (l. 3). La distanza tra il carme a e l’epigramma b – non tenendo conto naturalmente dei segni di divisione – oscilla tra cm 1,3 e cm 1,5; quella tra l’epigramma b e l’epigramma c tra cm 1,2 e cm 1,4; quella tra l’epigramma c ed il carme d è di cm 1,5 ca. Dunque nella col. I la distanza tra carmi contigui è più del doppio di quella tra le linee. Lo stacco tra un carme e l’altro è evidenziato dalla presenza al di sotto rispettivamente dell’estremità iniziale e di quella finale dell’ultimo verso di ciascun carme di un segno a forma di H, di cui rimangono complessivamente 6 esemplari (tavv. 6, 24, 27, 65, 73), aventi le seguenti dimensioni: 1. sotto col. I 1, a sinistra: h cm 0,5; l cm 0,7 2. sotto col. I 1, a destra: h cm 0,4; l cm 0,6 3. sotto col. I 5, a sinistra, parzialmente conservato: l almeno cm 0,4 4. sotto col. I 5, a destra: h cm 0,5; l cm 0,7 sotto col. I 9, a sinistra: il segno è caduto 5. sotto col. I 9, a destra: h cm 0,6; l cm 1,1 6. sotto col. II 4, a sinistra, parzialmente conservato: h cm 0,7; l almeno cm 0,5. Lo scriba ha perfettamente allineato a sinistra anche i pentametri dei primi tre carmi della col. I: il loro punto di attacco viene a trovarsi più a destra di cm 2,3 rispetto a quello dell’esametro, uno spazio che potrebbe contenere 6/7 lettere normali del testo39. Se a sinistra c’è un’armoniosa alternanza tra esametri in ekthesis e pentametri, per dir così, “rientrati”, meno ricercato è l’allineamento a destra: in ogni caso lo scriba, pur non variando il modulo delle lettere e lo spazio tra di esse, riesce ad allineare gran parte dei versi (col. I 2, 3, 5, 6, 8 da una parte; col. I 4, 7, 9 dall’altra), dando comunque all’insieme della colonna di scrittura un aspetto armonioso. Sul significato storico della particolare disposizione degli esametri e dei pentametri (“rientro” dei pentametri e lettere iniziali di dimensioni maggiori) si è discusso. Sotto questo aspetto, secondo il Parsons, P dimostra che la presenza di questi due fenomeni grafici in manoscritti medievali ha origini antiche40. Secondo il Raffaelli41, la circostanza vale per il rientro dei penta20


metri («una consuetudine che il mondo occidentale sembra non aver mai del tutto perduto»42), ma non per le lettere iniziali di dimensioni maggiori e staccate dalle altre. Lo studioso ricorda infatti che l’uso di lettere iniziali “maiuscole” al principio di ciascun verso è «tipicamente medievale e si diffonde con larghezza nell’VIII e poi nel IX secolo», per cui, sotto questo aspetto, «c’è un vero e proprio abisso tra il nuovo Gallo e i mss. in minuscola dei sec. VIII e IX, sul quale non si possono gettare ponti a cuor leggero: i copisti degli scriptoria medievali riprendono ciò che conservano della tradizione libraria classica non certo dai papiri ma, ovviamente, dai codici tardo-antichi e sub-antichi, molti dei quali arrivarono direttamente fra le loro mani»43. Lo scriba, secondo un uso ampiamente attestato nei più antichi papiri latini, letterari e documentari44, ha separato le parole con un punto, posto molto spesso a mezza altezza e qualche volta verso l’alto (per es. tra IDEM e TIBI di col. I 8) oppure verso il basso (per es. tra DOMINA e DEICERE di col. I 7); talora, più che un punto, il segno si configura come un breve tratto che scende o in senso obliquo da sinistra verso destra, arrivando a toccare in un caso (tra KATO e IUDICE di col. I 9) il rigo di base o, anche, in senso verticale (per es. tra LYCORI e TUA di col. I 1). Solo in tre casi il segno è posto alla fine della linea: col. I 3 (tratto obliquo), 6 (tratto verticale) e 8 (tratto obliquo). Il Parsons si è chiesto se in questi casi esso avesse una funzione speciale, in relazione forse alla punteggiatura, potendo marcare, in tutti e tre i casi, la fine del colon; ma, dal momento che rimarrebbe inspiegata la sua assenza dopo MEA di I 7, lo studioso ritiene più probabile che i tre segni siano «semplici sviste», del tipo simile a quelle che si riscontrano in PIand V 90 (Cicero, In Verrem II 2, 3-4, I a.C./I d.C. = MP3 2920 = LDAB 0561). L’alto livello grafico del testo conservato in P è confermato anche dall’assenza di errori di trascrizione, ad eccezione – se, come sembra inevitabile pensare, effettivamente si tratta di errore45 – di ERIT di l. 3 che comunemente si ritiene forma errata (originata dalla presenza di PARS immediatamente precedente) per ERIS. A l. 4 la T di POSTQUE, piuttosto compressa e delineata in maniera, se non un poco tremolante, almeno insicura, appare evidentemente inserita, probabilmente dalla prima mano, in un secondo momento nel normale spazio tra la S e la Q, circostanza che, insieme ad un altro probabile intervento di cor21

42 RAFFAELLI 1984, p. 21 n. 47. Secondo lo studioso (n. 48), è lecito addurre, in proposito, anche l’esempio dei codici A e B di Prudenzio (VI sec.), sui quali Parsons (in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 130 n. 39) è incerto. Si veda anche QUESTA 1984, p. 396. 43 Secondo MORELLI 2000, p. 97, l’uso di lettere iniziali allargate è ben attestato in campo epigrafico, sia in àmbito poetico sia in àmbito legale tanto latino quanto greco, e non mancano esempi nel campo librario, come mostrano, a suo avviso, POxy L 3554 (Verg., Aen. XI 371 s. = MP3 2951.1 = LDAB 4142), PHawara 24 (Verg., Aen. II 601, IV 174; Hor., Ars Poet. 78 = MP3 2947 = LDAB 4141) ed alcune iscrizioni dipinte pompeiane di argomento letterario. Il Morelli, sulla scia di C.H. Roberts, è convinto che quest’uso era molto diffuso in àmbito documentario e da esso passò a quello librario, nel quale comunque rimase limitato. 44 Cf. in proposito Parsons in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 131 (con molti esempi). 45 Cf. Parsons-Nisbet in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 141. Si veda anche più avanti.


46 COCKLE 1983, pp. 139141, sp. 139. Lo studioso aveva pubblicato il papiro già in A New Virgilian Writing Exercise from Oxyrhynchus, «S&C» 3 (1979), pp. 55-75. 47 Si tratta del tipo di calamo che E. JOHNSTON, Formal Penmanship and other Papers, London 1971, pp. 71 s., 78, classifica come «calamo orientale», dal momento che esso fu adoperato molto frequentemente nelle scritture ebraiche ed orientali. 48 Secondo la classificazione di JOHNSTON, Formal cit., pp. 83-89. 49 Si veda anche COCKLE, A New Virgilian cit., p. 63 n. 21.

rezione alla l. 6, induce a ritenere che lo scriba ha revisionato il suo lavoro. Mi sembra, nel complesso, di poter condividere quanto, a proposito dell’organizzazione del testo di P, scrive Pecere 19901, p. 335: «Sia gli accorgimenti di carattere estetico sia quelli volti a facilitare la leggibilità e l’intelligenza del testo, attraverso l’individuazione visiva delle singole parole e dei diversi metri, mostrano già fissati i tratti connotanti del modello di presentazione delle opere poetiche che, pur tra le discontinuità che scandiscono lo sviluppo delle tecniche di impaginazione nel passaggio dal rotolo al codice, si conserva per l’intero arco della cultura libraria occidentale».

I 2.3. Il calamo con cui fu scritto il testo. Alcune, puntuali osservazioni sul tipo di calamo utilizzato dallo scriba per delineare il testo su P si devono a W.E.H. Cockle, che nell’edizione del POxy L 355446, un frammento fatto risalire alla seconda metà del I sec. d.C. e vergato in una scrittura per certi aspetti vicina a quella di P, ha integrato la già doviziosa analisi paleografica del documento di Qasr\ Ibrîm fatta dagli editores principes con ulteriori osservazioni scaturite dal confronto con il papiro ossirinchita. Per il Cockle, lo scriba del rotolo di Gallo aveva lavorato con un calamo appuntito e largo, la cui estremità non era squadrata, bensì tagliata a sinistra in senso obliquo47. Lo stesso studioso ha eseguito una serie di prove pratiche, arrivando alla conclusione che solo con un siffatto calamo è possibile delineare tutte le lettere di P senza variare l’impugnatura dello strumento; a suo avviso, inoltre, l’angolo formato dal corpo del calamo e la linea orizzontale di scrittura era di circa 30°, mentre quello tra il taglio obliquo all’estremità e la stessa asta dello strumento era di circa 70°. Considerati i tratti più larghi, il Cockle ritiene che la punta del calamo fosse ampia cm 0,75; il rapporto tra la larghezza della stessa punta e l’altezza delle lettere è, a suo avviso, di 1:4, lo stesso che lo studioso ravvisa in PSI XI 1183 a (dichiarazione di censo; Ossirinco, 47-48 d.C.): si tratta di un dato che consente di classificare48 le scritture dei due papiri come «Medium Writing», mentre il PHawara 24 e il POxy L 3554 mostrano rispettivamente un rapporto di 1:6 e 1:7 («Light Writing»)49. Le osservazioni del Cockle potranno adesso essere verificate ed integrate sulla base del corredo iconografico del presente Album. 22


I 3. La cronologia del papiro. I 3.1. Le due ipotesi del Parsons. Il fatto che in P non si sia conservato il titolo toglie assoluta certezza all’individuazione dell’autore dei versi in esso conservati; tuttavia l’attribuzione a Cornelio Gallo, oggi comunemente accolta da quasi tutti i critici (ad eccezione di Giangrande 1980, pp. 141-153; Id. 1981, pp. 41-44; Id. 19821, pp. 83-93; Id. 19822, pp. 99-108; Id. 1986, pp. 226 s.; Id. 1992, pp. 103-110; e Naughton 1981, pp. 111 s. Qualche dubbio avanza Geraci 1983, p. 98, che pur ritenendo possibile la paternità galliana considera «legittimi» i dubbi espressi da Giangrande), è da considerare altamente probabile; cf. almeno Morelli 1985, pp. 140, 160 s. Appare fondamentale, tra l’altro, la menzione di Licoride, cf. Whitaker 1981, p. 88; si veda anche più avanti § IV. Questa l’interpretazione dei tre epigrammi data da Giangrande: a: il destino di Gallo è stato reso infelice dal comportamento di Licoride. b: il destino dell’ignoto autore diventerà felice per la vittoria di Caesar. c: lo stesso poeta afferma di avere celebrato nei suoi carmi non le vittorie di Caesar, bensì la donna di cui è innamorato, attraverso delle poesie dettategli dalle stesse Muse. Mi sembra che l’interpretazione di Giangrande comporti dei passaggi tra un epigramma all’altro non del tutto convincenti. Quando, inoltre, egli scrive (Id. 19821, p. 85; cf. anche Id. 19822, pp. 100-103; Id. 1992, p. 107), a proposito dei primi due epigrammi, «the text offers a “pointed contrast”, an “emphasis” between the respective two fata of two different persons: since one of these persons is Gallus, and the author of these lines emphatically (by means of mihi mea) contrasts his own fata dulcia with the fata tristia of Gallus, it follows that the author of these lines is not Gallus», ho qualche difficoltà a seguirlo: mi sembra che lo studioso carichi di eccessiva enfasi l’espressione mihi mea, espressione che potrebbe avere il significato che il Giangrande le attribuisce se i primi due versi fossero parte di uno stesso carme, cosa che va esclusa, perché i due versi fanno parte di due epigrammi al massimo connessi tematicamente. In ogni caso rinvio il lettore ai fondati rilievi mossi al Giangrande da Van Sickle 19813, pp. 125-127; Morelli 1984, pp. 152 s. e Nicastri 1995, pp. 175-200, il quale ha obiettivamente e incontestabilmente osservato che mentre sull’opinione del Giangrande è calato «il silenzio […] l’attribuzione 23


50 Sulla vita di Gallo rinvio a M. SCHANZ-C. HOSIUS, Geschichte der Römischen Literatur bis zum Gesetzgebungenswerk des Kaisers Justinian, II, München 1959, pp. 169-172; J.-P. BOUCHER, Caius Cornélius Gallus, Paris 1966; CROWTHER 1983, p. 1623; HAUBEN 1984, pp. 1089-1097; COURTNEY 1993, pp. 259-262 e, soprattutto, MANZONI 1995, pp. 3-55; in particolare sulla discussa definizione di foroiuliensis poeta che di lui dà san Girolamo (Chronicon ab Abr. 1990) e sul connesso problema dell’identificazione della sua città natale si vedano le pp. 4-15. Il Manzoni, sulla scia di F. Bömer, è propenso a credere che alla base della testimonianza geronimiana ci sia «un resoconto alterato dell’iscrizione» dell’obelisco vaticano, dove, come è noto, è detto che Gallo Forum Iulium fecit: in quest’ultima espressione il Manzoni vede un riferimento al grandioso impianto di una piazza monumentale realizzata da Gallo in Alessandria; incerto rimane, a suo avviso, il luogo di nascita del poeta, che, comunque, genericamente sarebbe da porre nella Gallia. Una testa marmorea raffigurante forse Gallo è conservata al Cleveland Museum of Art (inv. 66. 20), per cui cf. G. GRIMM, Zu Marcus Antonius und C. Cornelius Gallus, «Jahrbuch des deutschen Archäol. Inst.» 85 (1970), pp. 158-170 (tav. 12). Non ingiustificate perplessità sull’identificazione esprime, a mio avviso, la Thompson in KOENENTHOMPSON 1984, p. 119 n. 21. 51 Fonti antiche sulle due spedizioni militari che Petronius intraprese negli anni 25-24 e 22 a.C. per fronteggiare e respingere la rivolta degli Etiopi (nel corso della prima delle quali Primis fu occupata) in FGrHist 673 F 163: si veda soprattutto Dio LIV 5, 4-6; Strabo XVII 788 e 819-821; Plin., Nat. Hist.

a Gallo, se si eccettua qualche cenno di dubbio metodico, è unanime» (p. 184). In precedenza non meno perentoria l’affermazione di Amato 1987, p. 322 n. 1: «In realtà contro l’attribuzione a Gallo non esiste alcun argomento veramente cogente». Partendo dall’attribuzione dei versi a Gallo, nato intorno al 70 (o nel 69) e morto nel 26 a.C.50, il Parsons fissa al 50 a.C. ca. il terminus post quem del papiro. Il terminus ante quem è da lui sostanzialmente determinato sul fondamento dei seguenti elementi: 1. Il contesto archeologico. 2. L’occupazione di Qas\r Ibrîm – dagli editores principes identificata senza incertezza con Primis – da parte del prefetto di Egitto C. Petronius (25 o 24 a.C.)51. In generale il deposito da cui proviene P sembra essersi formato in un arco di tempo compreso tra il I a.C. e gli inizi del I d.C.; la ricordata moneta di Cleopatra VII ed il frammento di lettera privata datata verosimilmente al 22-21 a.C. offrono punti di riferimento più specifici. Quanto alla presenza dei Romani sul posto, secondo lo studioso possono essersi verificate due possibilità: a. Essi abbandonarono Primis nel 20 a.C., quando gli Etiopi fecero la pace con i Romani (Strabo XVII 820-821). b. La loro presenza potrebbe essersi in qualche modo protratta ancora per qualche decennio, come rivelano materiali archeologici (lucerne) e papiri rinvenuti sul sito ed assegnabili agli inizi del I sec. d.C. Nel primo caso P non è posteriore al 20 a.C.; nel secondo caso non è posteriore al 25 d.C. ca. Dunque lo si può far risalire ad un arco di tempo compreso tra il 50 a.C. ed il 25 d.C., per quanto, secondo il Parsons, la moneta di Cleopatra VII ed il frammento di lettera privata facciano propendere per la prima datazione (50 a.C.-20 a.C.): verosimilmente, a detta dello studioso, siamo davanti ad un frammento di un libro latino di epoca augustea, forse coevo al suo autore ed arrivato a Qas\r Ibrîm nel bagaglio di un ufficiale romano, al pari di altri papiri omerici rinvenuti nello stesso deposito.

I 3.2. Qualche osservazione. La datazione del Parsons, basata, come si è visto, anche sul contesto archeologico, sostanzialmente è stata accolta dalla critica, almeno da quella che ha ritenuto autentico il frammento. Va detto comunque che per più di un aspetto lo scavo condotto dalla Missione inglese a Qas\r Ibrîm nel 1978 – come del resto al24


tri scavi promossi e condotti dalla pur benemerita EES – può essere considerato manchevole dal punto di vista scientifico. Le descrizioni dei risultati più propriamente archeologici dello scavo, pubblicate in un paio di occasioni dai due direttori, Adams e Anderson52, sono troppo sintetiche e, perciò, insufficienti. Lascia perplessi il fatto che in apertura dell’editio princeps di P la descrizione del contesto archeologico sia stata affidata proprio all’Anderson, che è un epigrafista. Quasi inesistente la documentazione: solo una planimetria, anch’essa sintetica, che riproduce il così detto bastione sud ed il muro di pietra che lo circondava, ma che non ci fa capire l’esatta estensione e la profondità del deposito; nessuna sezione di questo stesso deposito e nessuna fotografia. Particolarmente grave, e dannosa, è la mancata registrazione del punto preciso e della quota di rinvenimento dei vari oggetti, compresi i papiri. Così, solo chi è in grado di andare a controllare in Egitto il ricordato registro dei rinvenimenti di quello scavo può leggere, come si è visto, la notizia, peraltro un po’ criptica, che il frammento di Gallo fu trovato «nella parte esterna orientale dell’unità RI, al livello 3». Ma quanto era profondo questo livello? E quale era l’esatto rapporto tra di esso e gli altri livelli? E in quanti livelli si articolava complessivamente il deposito? Tutto questo non ci viene detto e tale circostanza può rendere scarsamente significative la compresenza della moneta di Cleopatra nel fatidico livello 3 e la presenza, nel livello 8, distante dal 3 «approssimativamente»53 un metro, del frammento di lettera greca datata probabilmente 22/21 a.C., facendone solo dei generici punti di riferimento. Dal momento che l’attribuzione dei versi contenuti in P a Gallo e l’identificazione di Qas\r Ibrîm con Primis possono considerarsi molto fondate54, la cronologia proposta dal Parsons (50 a.C.-25 d.C.) può essere accolta55; tuttavia – e dirlo dispiace – questi scarni rapporti di scavo sono insufficienti56. Non a caso e non infondatamente, come vedremo, più volte la critica ha rilevato la carenza della documentazione prodotta dalla Missione inglese, che per qualcuno ha addirittura rappresentato un motivo per dubitare della genuinità dell’operazione di recupero del frammento di Gallo.

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VI 181 s. Cf. inoltre O. STEIN, Petronius 21, RE XIX (1937), 1197-1199. S. JAMESON, Chronology of the Campaigns of Aelius Gallus and C. Petronius, «JRS» 58 (1968), pp. 71-84; L.P. KIRWAN, Rome beyond the Southern Egyptian Frontier, «Proceed. British Acad.» 63 (1977), pp. 14-31; S.M. BURSTEIN, Cornelius Gallus and Aethiopia, «Anc. Hist. Bull.» 2 (1988), pp. 16-20 (con ulteriore bibliografia). 52 Rispettivamente in ANDERSON-ADAMS et alii 1979, pp. 33-35 e in ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, pp. 125 s. Si veda sopra, Introduzione, I. 53 Così Anderson in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 126. 54 Sull’identificazione di Qas\r Ibrîm con Primis si vedano n. 18 e MORELLI 1988, nonché, più avanti, il contributo di Radiciotti. 55 Secondo SBORDONE 1982, p. 58, il papiro potrebbe essere stato scritto poco prima del 25 a.C., anno in cui i Romani occupano Primis; di conseguenza, a suo avviso, lo si può collocare negli stessi anni del PHerc 817. In realtà, come già rilevato dal Parsons, che il papiro sia di epoca augustea è verosimile, ma non sicuro, dal momento che il contesto archeologico non lascia escludere che esso possa essere stato delineato anche nel primo quarto del I sec. d.C. 56 Insufficienti sono anche i disegni con cui FREND, Some Greek cit., pp. 103-111, illustra i punti di rinvenimento a Qasr\ Ibrîm del materiale papiraceo nel corso della campagna del 1974.


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33-37.

BRUNHÖLZL 1984, pp.

I 4. La tesi di Brunhölzl ed il dibattito sull’autenticità del papiro: un’infinita “querelle”. L’editio princeps del 1979 è stata sùbito seguìta, come era facilmente prevedibile, da un assai intenso lavorio critico, che ha approfondito questioni generali (come per esempio l’attribuzione dei versi a Gallo o il loro contributo alla ricostruzione del ruolo da lui avuto nella storia della poesia latina) o singoli punti del testo. Nel 1984 il filologo tedesco Franz Brunhölzl57 ha preso parte al dibattito con un intervento, che pur non riuscendo, come egli avrebbe voluto, a spegnere il dibattito stesso – in pratica quasi nessuno si è apertamente schierato con lui – ha portato un elemento di sospetto col quale comunque la critica ha dovuto misurarsi e che ha certo “pesato” sulla fortuna moderna del papiro. Pur non avendo mai visto l’originale, il Brunhölzl ha sostenuto che P è un clamoroso e facilmente smascherabile falso, architettato da qualcuno qualche tempo prima che esso venisse rinvenuto nello scavo del 1978. Questi i punti salienti della tesi di Brunhölzl: 1. L’indicazione del luogo dove fu rinvenuto P – come in generale i resoconti degli altri scavi di Qas\r Ibrîm – è troppo vaga: non possiamo essere sicuri del fatto che il punto in cui si asserisce essere stato trovato il frammento non fosse stato indagato in precedenza dalla stessa Missione. 2. La moneta di Cleopatra VII – che rafforzerebbe la datazione di P alla seconda metà del I a.C. –, non essendo stata trovata all’interno di un corredo tombale o di un contesto cultuale, è un punto di riferimento cronologico debole, al massimo un terminus post quem. 3. Altrettanto debole riferimento cronologico sono i frammenti delle epistole greche ritrovati nei pressi di P e databili all’età augustea: l’indicazione della data è integrata e gli stessi frammenti provengono dal livello 8, situato a circa un metro dal 3 (nel quale sarebbe stato recuperato P), circostanza che induce a ritenere il supposto frammento di Gallo notevolmente più recente, forse di secoli, rispetto alle lettere greche. 4. La cronologia proposta dai primi editori di P ha un difetto metodologico di fondo: considera il papiro come un’iscrizione e non come un testo letterario e, in questo senso, trascura il fatto che un manoscritto è molto più recente dell’autore del testo contenuto nel manoscritto stesso. 26


5. È sospetto che P sia stato trovato rotto in 5 pezzi perfettamente “ricomponibili” in un frammento che finisce col restituire un’intera colonna priva di lacune: per un papiro che doveva trovarsi privo di protezione sotto vasi di argilla e cocci questo tipo di conservazione ha del miracoloso. 6. La scrittura contraddice clamorosamente tutto ciò che sappiamo della scrittura antica: a. La disposizione dei distici corrisponde sostanzialmente a quella che tali versi hanno nelle moderne edizioni a stampa. b. Il testo fu trascritto alquanto pedestremente da una persona, che, avendo poca dimestichezza con la scrittura antica, scelse uno spazio interlineare troppo grande in rapporto alle lettere, non riuscendo poi a rispettare il rigo di base e creando evidentissime oscillazioni, che fanno somigliare le linee di scrittura ad un corda mollemente tesa per asciugare il bucato; tali oscillazioni finiscono con il dare l’impressione che la superficie si sia deformata, per il calore e l’umidità, fenomeno che è estraneo al papiro, ma che si riscontra normalmente nella pergamena. c. Anche le lettere sono delineate con notevole irregolarità: la loro grandezza e direzione oscillano di continuo, e di continuo varia anche la distanza tra di esse, distanza che in ogni caso è eccessiva. d. Le lettere iniziali grandi non sono attestate in epoca antica né lo sono i «curiosi»58 segni a forma di H con la funzione di paragraphoi. e. La scrittura, disorganica ed inanimata, è il prodotto di un’accozzaglia di forme di lettere imitate da monumenti diversi, che avrebbero dovuto dare l’impressione di una capitale, ma si rivelano una contraffazione realizzata con particolare insicurezza. 7. Nel delineare il testo, l’ignoto falsario tenne abilmente conto delle fratture del papiro, come mostra il vocativo VISCE di col. I 8 – importante per l’identificazione di Gallo quale autore dei versi –, che fu trascritto con la I parzialmente visibile nella lacuna ed il gruppo SCE «a rispettosa distanza al di sopra del buco che si apre nel papiro»59. 8. Di conseguenza i versi vanno considerati spuri: banali nel contenuto e goffi nella forma, avrebbero dovuto insospettire sia per le stranezze ortografiche (per es. deivitiora) sia perché, molto insolitamente, 5 brandelli di papiro, ricongiungendosi miracolosamente, ci restituiscono tutto quello che si sapeva della vita di Gallo. 9. Il frammento di papiro è comunque antico ed autentico: nel momento in cui fu coperto dalla scrittura, esso aveva già 27

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BRUNHÖLZL 1984, p. 35. BRUNHÖLZL 1984, p. 35.


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BRUNHÖLZL 1984, p. 36. BRUNHÖLZL 1984, p. 36. BISCHOFF-BROWN 1985,

p. 323. 63

BLÄNSDORF 1987, pp.

43-50. 64

BLÄNSDORF 1987, p. 44.

perduto l’originaria levigatezza e questo spiega fenomeni come «immotivate interruzioni di rotondità»60 o incertezza di tratti che, delineati contro la direzione della scrittura, si configurano come dei veri e propri «scarabocchi». 10. Non fu difficile per il falsario procurarsi questo papiro: a Qas\r Ibrîm, nelle Campagne precedenti, era stata trovata una gran quantità di papiro non scritto che, in quanto tale, non doveva certo essere custodito con particolare rigore; scrivervi sopra quei versi (magari adoperando un inchiostro preparato secondo una formula antica), spezzarlo sapientemente in 5 parti e sotterrarlo accanto ad una «non troppo preziosa»61 moneta dell’epoca di Gallo in una località solitaria come Qas\r Ibrîm, in fondo «non fu un’impresa difficile», tanto più che il primo dei frequenti acquazzoni che si abbattono sulla zona dovette sicuramente cancellare per sempre ogni traccia. 11. Non si può escludere che il falsario abbia agito per uno scopo nobile, per verificare, per esempio, fin dove nelle discipline umanistiche i metodi di indagine tradizionali siano destinati a durare, di fronte al progressivo prevalere, in queste stesse discipline, degli strumenti tecnologici. 12. Non essendo il papiro un documento autentico, resta incerta l’identificazione di Qas\r Ibrîm con l’antica Primis occupata dai Romani. Al Brunhölzl – la cui tesi ha sùbito trovato significativa menzione nella lista degli Addenda ai Codices Latini Antiquiores compilata nel 1985 da Bischoff e Brown62 – hanno risposto, tra il 1987 ed il 1988, il Blänsdorf, il Ballaira ed il Morelli, con interventi molto più pacati e metodologicamente più seri del suo. La replica del Blänsdorf63, significativamente intitolata Der Gallus-Papyrus – eine Fälschung?, più che una difesa della genuinità del frammento è una dimostrazione dell’insufficienza delle motivazioni del Brunhölzl. Così essa si articola: 1. Le circostanze del rinvenimento di P potrebbero essere considerate «forse sospette»64, ma su di esse, come sullo stato di conservazione del papiro e sulla ricomposizione del frammento, la valutazione va lasciata agli archeologi ed ai papirologi. 2. Solo un esame al microscopio potrebbe accertare se la scrittura è stata apposta quando il papiro era già vecchio e danneggiato. 28


3. Solo a partire dal II d.C. i libri latini cominciarono ad acquisire una veste grafica dignitosa e solo nel IV sec. essi potettero gareggiare sul piano estetico con analoghi manufatti greci. 4. L’oscillazione nella distanza tra le linee non è un fenomeno raro nei papiri: la si ritrova persino nei PBodmer IV (Menandro, Dyscolos), XXV (Id., Samia), XXVI (Id., Aspis) = MP3 1298 = LDAB 2743. 5. Il confronto con iscrizioni metriche pompeiane ed alcuni papiri latini letterari, come i già ricordati PIand V 90, PHawara 24, PHerc 817, e documentari, come il PVindob Lat. 1, tutti databili al I d.C., mostra che non è affatto vero che lo scriba di P ha scelto uno spazio interlineare eccessivamente ampio. 6. Lo scriba certamente non era espertissimo nella scrittura libraria e questo può spiegare perché, dovendo delineare righi distanti tra di loro, è incorso in oscillazioni o altre imperfezioni come una certa difformità nella grandezza e nella direzione delle lettere e nello spazio tra le lettere iniziali ed il resto delle linee, imperfezioni che comunque possono dare – al pari, del resto, di qualche altro papiro letterario latino a noi pervenuto – al più un’immagine grafica «inquietante» (unruhig)65, ma certo insufficiente a dimostrare con sicurezza l’inautenticità del testo. 7. La variazione nella forma delle lettere rientra nella norma: la scrittura di P somiglia molto a quella del ricordato PSI XI 1183. 8. Il rientro dei pentametri va considerato una consuetudine grafica antica, come mostra una copiosa documentazione epigrafica, metrica e non, in parte già addotta dal Parsons. 9. L’uso di lettere più grandi all’inizio di verso effettivamente non è attestato, tuttavia, almeno a partire dal I d.C., lo è quello di lettere più grandi all’inizio di testo o di singoli capoversi. 10. Non è necessario trovare paralleli per i segni di divisione a forma di H: i segni in sé privi di significato erano prodotti dalla fantasia dei singoli scribi e, per questo, non potevano essere canonizzati. 11. Dalla fotografia pubblicata nell’editio princeps non è possibile accertare se effettivamente la parola VISCE sia stata astutamente scritta intorno al buco nel papiro: anche questa incertezza potrebbe essere chiarita con un esame diretto dell’originale mediante il microscopio; tuttavia appare significativo il fatto che non si sia tentato di colmare alcuni punti in cui la su29

65

BLÄNSDORF 1987, p. 45.


66 67 68

BLÄNSDORF 1987, p. 47. BLÄNSDORF 1987, p. 50. BALLAIRA 1987, pp. 47-54. Si veda anche BALLAIRA 1993, pp. 31-42. 69 BALLAIRA 1987, p. 50. 70 BALLAIRA 1987, p. 51. 71 In COCKLE 1983, pp. 139141. Cf. dello stesso COCKLE, A New Virgilian cit., pp. 55-75.

perficie del papiro è conservata (col. I 6, 8, 9) e in altri si sia rinunciato ad «una facile integrabilità»66. 12. I dubbi sul contenuto, la forma, l’ortografia, la metrica ed i topoi dei versi possono essere agevolmente respinti se si guarda al lavoro di approfondimento critico svolto finora dagli studiosi: la scarsa qualità complessiva dei carmi potrà deludere, ma non può provare la loro inautenticità. 13. Non è esatto sostenere che nei pochi versi di P sia racchiuso quanto già sapevamo di Gallo; da essi si apprende, invece, una serie di dati sinora ignoti: egli fu autore di epigrammi; compose carmi panegirici su Cesare (oppure Ottaviano), di critica letteraria o polemici; fu in rapporti con Valerio Catone e con uno dei Visci menzionati da Orazio (Sat. I 9, 22; I 10, 83; II 8, 20). 14. L’ortografia del frammento non è, come pensa il Brunhölzl, un’imitazione di quella delle iscrizioni sepolcrali degli Scipioni, bensì quella ancora invalsa nell’epoca tardo-repubblicana; documentati sono i fenomeni di dittongamento di vocali lunghe e brevi e di oscillazioni tra grafia antica e grafia classica. Di conseguenza, secondo il Blänsdorf67, «nessuna delle argomentazioni di Brunhölzl» riesce ad essere persuasiva ed una «dimostrazione dell’inautenticità» del papiro «dovrebbe essere condotta su nuove basi». Più deciso nella difesa della genuinità di P l’intervento del Ballaira68, del quale elenco i punti salienti: 1. Non desta sospetto il fatto che P ci sia pervenuto rotto in 5 pezzi: «un papiro antico può spezzarsi facilmente»69. 2. La scrittura di P ad un tempo documenta la prima fase della progressiva canonizzazione della capitale rustica, che, da scrittura «usuale», libera e mutevole, gradualmente, a partire dal I a.C., prese ad isterilirsi «in forme irrigidite e manierate»70, e conserva non pochi elementi di «vitalità e spontaneità che si traducono in molte piccole incoerenze, nel ductus e nella forma delle lettere», ampiamente esaminate da W. Cockle71 e da lui messe a confronto con la scrittura di altri papiri (PVindob Lat. 1 b, PSI XI 1183 a, PHawara 24, POxy L 3554). 3. La disposizione grafica dei distici con i pentametri “rientrati” non può essere considerata estranea al mondo antico, se la si ritrova in codici pergamenacei del V d.C. contenenti testi letterari. 30


4. Lo stesso vale per l’uso di far cominciare i versi con una lettera più grande, attestato almeno a partire dalla fine del I d.C. (PHawara 24). 5. Per analogia con i codici Vaticano, Archivio di San Pietro, D. 182 (in semionciale, fine V/inizi VI d.C.) e Paris, Bibl. Nat. lat. 8084 (in capitale rustica, inizi sec. VI), nei quali le omissioni sono segnalate con la sigla HD nel testo, mentre le parole da integrare sono apposte sul margine e seguite dalla sigla HS – sigle che, come per primo sostenne W.M. Lindsay, vanno sciolte rispettivamente in h(ic) d(esunt) e h(ic) s(unt)72 –, si può interpretare l’H divisoria come un’abbreviazione; la prima, a sinistra, vale h(ic desinit) ed indica il punto in cui il carme termina; la seconda, sulla destra, vale h(ic incipit) e segnala il punto a partire dal quale comincia il nuovo carme. All’articolo del Brunhölzl ha dedicato nello stesso 1987 poche righe il Graf73, per evidenziare l’inverosimiglianza delle sue argomentazioni, che a suo avviso non possono nel modo più assoluto gettare ombra sull’autenticità del papiro e, implicitamente, sull’onestà degli archeologi inglesi. Pacatamente esaminati gli argomenti del Brunhölzl, l’anno successivo il Morelli74, come il Blänsdorf, arriva alla conclusione che resta ancora «valida la presunzione di genuinità del frammento»75. Ma è utile ricapitolare qui anche la sua disamina: 1. L’identificazione di Qas\r Ibrîm con Primis è resa assai verosimile dalla serie di papiri latini rinvenuti sul sito dagli inglesi; particolare importanza riveste in proposito una lettera del I a.C., che tratta di alcune questioni di carattere militare e fu recuperata nello stesso deposito nel corso della Campagna del 1978: sconosciuta al Brunhölzl e resa nota dal Parsons nel 198376, «costituisce un nuovo e forse decisivo elemento di prova per la datazione» di P77. 2. Se effettivamente – come afferma il Brunhölzl – la moneta di Cleopatra VII può fornire al massimo un terminus post quem (ma «probabilmente si può sostenere che essa valga come contesto»78), è d’altra parte inaccettabile il pensare che il frammento di lettera greca datata al 22/21 a.C., per essere stato ritrovato circa un metro al di sotto rispetto a P, sia anteriore forse di secoli. 3. Non si specifica nei vari Reports se il deposito dove fu rinvenuto P sia stato oggetto di precedenti scavi, ma questo è un 31

72 Per un’altra spiegazione delle sigle HD ed HS cf. E.A. LOWE, The Oldest Omission Signs in Latin Manuscripts, ora in Palaeographical Papers 1907-1965, ed. by L. BIELER, II, Oxford 1972, pp. 349-380, secondo il quale esse starebbero rispettivamente per hoc deorsum e hoc sursum, ad indicare la collocazione di determinate pericopi testuali. 73 Cf. GRAF 1987, p. 177. 74 MORELLI 1988, pp. 104119. 75 MORELLI 1988, p. 118. 76 Cf. P.J. PARSONS, Latin Letter, in Festschrift zum 100 jährigen bestehen der Papyrussammlung der österreichischen Nationalbibliothek, Papyrus Erzherzog Rainer (P. Rainer Cent.), Wien 1983, pp. 483-489. Il papiro è stato ripubblicato da T. DORANDI in A. BRUCKNER-R. MARICHAL (edd.), Chartae Latinae Antiquiores. FacsimileEdition of the Latin Charters prior to Ninth Century, XLII, Egypt II, publ. by T. D., Dietikon-Zurich 1994, nr 1238, pp. 87-89. Su questo papiro, da me restaurato nell’ottobre del 2001 insieme con il frammento di Gallo ed altri materiali recuperati a Qasr\ Ibrîm nel corso della Campagna del 1978 (cf. CAPASSO 20021, pp. 10-13, 16), si veda anche il contributo di Radiciotti. 77 MORELLI 1988, p. 107. 78 MORELLI 1988, p. 108.


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MORELLI 1988, p. 109. MORELLI 1988, p. 110. MORELLI 1988, pp. 115 s.

«particolare non molto significativo, nonostante l’importanza che sembra annettergli Brunhölzl»79. 4. L’esame paleografico di P risulta molto disagevole, considerato il fatto che esso fornisce, forse col PHerc 817 (De bello Actiaco), l’unico esempio di papiro in capitale rustica del I a.C.; eppure non si può prescindere, come pure fa il Brunhölzl, da un’analisi minuta e complessiva della fenomenologia grafica del frammento: sulla scia del Parsons e del Cockle, si può ritenere che la scrittura di P testimoni «una fase precoce nella storia della capitale libraria»80 e questo spiega caratteristiche come il modulo piccolo e la disomogeneità nell’ornamentazione e nel tratteggio e l’assenza di «sontuosi effetti chiaroscurali»: aspetti che non troviamo né nei papiri ercolanesi latini più eleganti (PHerc 1059, 1457) né in quelli dove è più evidente l’influsso di contemporanee scritture corsive (PHerc 153, 217, 1057) e che scompariranno quando si completerà il processo di canonizzazione di questa scrittura. In ogni caso nessuna delle lettere di P, come rivelano le analisi di Parsons e di Cockle, appare essere una falsificazione. 5. Essendo il papiro un unicum, non esistono parametri di confronto che possano indurre a ritenere eccessiva la distanza tra le linee né, per lo stesso motivo, si può dubitare della genuinità dei segni diacritici, della disposizione grafica dei distici e dell’uso di lettere iniziali di modulo più ampio. In particolare, il “rientro” dei pentametri è frequentemente attestato in iscrizioni in distici del II-I a.C., mentre una ricca messe di materiali epigrafici e papiracei prova che la lettera iniziale ingrandita, a partire dal I a.C., era usuale nella prassi scrittoria documentaria «e, forse, in seguito, anche in libri di minor pregio»; venne poi abbandonata dal canone della capitale libraria. 6. Il fatto che P sia ricostruito con l’assemblaggio di 5 pezzi non ha nulla di miracoloso: in papirologia è un fenomeno del tutto frequente. 7. Nella valutazione di eventuali irregolarità della scrittura (e di pretese astuzie del falsario, come il VISCE di col. I 8, che comunque egli avrebbe potuto anche trascrivere «più in basso […] senza pregiudicarne la leggibilità»81) va tenuto conto del pessimo stato di conservazione di P. 8. Come ha mostrato il Parsons, le incongruenze ortografiche vanno spiegate col fatto che lo scriba operò in un periodo di transizione; le pretese banalità del contenuto sono state ampiamente 32


spiegate dalla critica: in particolare la menzione nel giro di pochi versi di Licoride, Cesare, Visco e forse Catone «si giustifica solo supponendo che questi carmi occupassero una posizione di rilievo all’interno del liber galliano […], come farebbe pensare anche il gran numero di riprese in poeti di età augustea». 9. Lavorando solo sulle fotografie – dalle quali egli ricava non «prove documentate», bensì «indizi, suggestioni, impressioni»82 – il Brunhölzl avrebbe dovuto al più esprimere dubbi e non un’assoluta certezza sulla non genuinità di P. 10. La questione dell’autenticità del documento potrebbe essere risolta definitivamente dall’analisi chimica dell’inchiostro o, come opportunamente suggerito dal Blänsdorf, dall’esame microscopico della superficie. Negli anni successivi quasi nessuno, che io sappia, si è espresso in maniera esplicita contro l’autenticità di P. Forse l’esitazione maggiore è espressa da Fedeli 1989, p. 154: «C’è […] chi pensa addirittura – con argomenti in verità non trascurabili – a una falsificazione moderna. In attesa di serie prove chimiche sul materiale scrittorio dei frammenti papiracei (e c’è da stupirsi e da chiedersi perché mai ciò non si realizzi), è destinato a perdurare il disaccordo dei critici». Nessun dubbio sull’autenticità di P esprime invece Pecere 19901, pp. 334-336, in un successivo volume della stessa opera a cui appartiene il saggio di Fedeli. Alcuni hanno portato ulteriori elementi a favore della genuinità del frammento. Nel 1987 e nel 1990 rispettivamente il Lieberg ed il Merriam hanno respinto alcune delle riserve avanzate dal Brunhölzl su ortografia, lingua e metrica del frammento, cf. Lieberg 1987, pp. 543 s. e Merriam 1990, sp. pp. 444 s. All’obiezione del Brunhölzl che il dittongo -ei- nel comparativo devitiora non è mai attestato, il Lieberg ha ribattuto citando il cognomen Deivitis in CIL I2 1591. Quanto alla palese forma errata eris di v. 3, per lo studioso potrebbe averla molto comprensibilmente delineata un copista e non un falsificatore. Il Merriam ha tra l’altro osservato che la mancata elisione in tum erunt di col. I 2, giudicata dal Brunhölzl un’aberrazione, che nessun poeta romano avrebbe potuto permettersi senza cadere nel ridicolo, è «uno dei più forti argomenti a favore dell’autenticità del papiro», dal momento che un falsario che si rispetti, nell’inventarsi dei versi, si attiene alle norme convenzionali della poesia latina, evitando tutto ciò che possa far sorgere sospetti. Secondo il Lieberg, 33

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MORELLI 1988, p. 117.


83 GRIFFITH 1988, pp. 6469, sp. p. 69. 84 Nel 1989 Eisenhut, nel porre in dubbio la damnatio memoriae cui sarebbe stato condannato il nome di Gallo, si limita a ricordare sia che Giangrande nega a Gallo la paternità dei versi di P sia che il Brunhölzl nega la genuinità del documento, cf. EISENHUT 1989, p. 117. 85 CAVALLO 1989, p. 696 n. 15. 86 COURTNEY 1993, p. 264. 87 VON ALBRECHT 1994, p. 590 = trad. it., II, p. 748. Significativamente anche uno studioso che ammira moltissimo il Brunhölzl, come il Suerbaum, in due occasioni ha scritto che i sostenitori dell’autenticità di P hanno «convincentemente» respinto la tesi della falsificazione, cf. SUERBAUM 1992, p. 159 n. 13; ID. 1994, p. 1 n. 1. Cf. anche AMATO 1987, p. 322 n. 1.

lo iato si giustifica alla luce della voluta correlazione tra l’avv. tum e la cong. cum: elidendo il primo dinanzi ad erunt, scomparirebbe «per l’orecchio questa correlazione importante per il senso». Per Merriam, le oscillazioni nell’ortografia di P lasciano supporre che lo scriba che eseguì la copia in nostro possesso si sia trovato «tra due onde ortografiche e le abbia cavalcate entrambe» (p. 445). Notevole il contributo alla dimostrazione dell’autenticità del frammento dato da Force 1993, pp. 102-106 (figg. 39, 42-43), che ha demolito quella che era forse fino a quel momento l’unica motivazione del Brunhölzl rimasta in qualche modo in piedi, connessa con il segno divisorio a forma di H, non pochi esempi del quale Force ha rinvenuto in alcuni carmi epigrafici del mausoleo dei Flavi di Casserina, in Tunisia (CIL VIII 211-216, sp. 212-213: tav. 13), con funzione separatoria tra le varie parti del carme A e tra il carme A e il carme B (II sec. d.C.). Mi piace riportare la seguente considerazione che fa il Force 1993, p. 106 n. 35, a proposito del presunto falsario del papiro di Qasr\ Ibrîm: «Si le faux est ancien, on peut croire que le faussaire connaissait ces signes, proches de signes habituellement utilisés, même s’ils sont actuellement un hapax en matière de paléographie. Mais si le faussaire est moderne, il faudrait admettre qu’il ait utilisé un dessin que nous ne connaissons actuellement que par l’inscription de Cillium et l’ordination dessinée sur papyrus qu’elle suppose; un faussaire qui serait allé, jumelles en main, se promener autour du mausolée de Cillium …». Si veda in proposito, anche Morelli 2000, p. 97 e, più avanti, il contributo di Radiciotti. Ricordo che il Koenen (in Koenen-Thompson 1984, p. 144 n. 81), a proposito delle paragraphoi di P, richiama i disegni decorativi presenti nel Codex Mani (PColon inv. 4780) sotto l’ultima linea di ciascuno dei testi manichei in esso contenuti e l’uso di apporre nei papiri documentari uno o due tratti orizzontali alla fine del testo o anche quello di lasciare uno spazio vuoto tra il testo del documento e le firme. In ogni caso, a suo avviso, i segni nel papiro di Qasr\ Ibrîm «do certainly not diminish the force of the spacing». Nel 1988 J.G. Griffith83 ha osservato che il «tempo» e la replica di Blänsdorf si sono sbarazzati della «bizzarra fantasia» del Brunhölzl84; nel 1989 il Cavallo85 ha scritto che il papiro è sicuramente autentico; nel 1993 il Courtney ha ritenuto l’ipotesi della falsificazione degna appena di una rapida menzione86; il von Albrecht87 nel 1994 ha scritto che «è difficile dubitare dell’autenticità» del documento ed ha praticamente liquidato la questione, osservando, non senza eleganza, che «il gusto» del Brunhölzl «è 34


migliore dei suoi argomenti». Ancora più decisamente, l’anno successivo, il Manzoni, in una monografia sulla figura di Cornelio Gallo, ha dato per certa la genuinità di P88. Diversa la posizione espressa nel 1999 da D. Gall in un volume sui rapporti tra Gallo, Virgilio e la pseudovirgiliana Ciris: ella difende la genuinità del frammento, anche se le sue motivazioni, a mio avviso, non sempre convincono del tutto; in ogni caso non è in grado di considerare scontata l’autenticità del papiro89. Queste le sue considerazioni principali: 1. Le argomentazioni di Brunhölzl sono state indebolite dalle repliche di Blänsdorf, Ballaira e Morelli in relazione all’assetto grafico dei versi di P. 2. Potrebbe insospettire non poco il fatto che in appena 9 versi ci siano sia il nome della donna amata da Gallo sia quello di Cesare; ma se questi versi appartengono effettivamente a degli epigrammi, la circostanza si spiega agevolmente, perché tale tipo di composizione è caratterizzato da brevità e precisione a proposito di dedicatario e scopo. La presenza del nome di Licoride può spiegarsi col fatto che Gallo le abbia dedicato un gran numero di epigrammi, mentre quello di Cesare potrebbe essersi conservato per caso, trovandosi verosimilmente all’inizio o alla fine della raccolta. Se invece i versi appartengono ad un’elegia, la presenza dei due nomi è sì vistosa, ma non difficile da spiegare. Properzio nel suo Monobiblos menziona Cynthia 28 volte in 732 versi, quindi la possibilità che in un gruppo qualsiasi di 9 versi egli faccia il suo nome non è certo bassa; ancora più significativa è la frequenza (38 %) con la quale il nome di Cynthia compare nei 9 versi iniziali e nei 9 finali delle 22 elegie del I libro. Di conseguenza l’accumulo dei nomi nel frammento di Qas\r Ibrîm può essere considerato senza sospetto, «ma restringe (pur non in maniera cogente) la posizione dei testi all’interno del liber». 3. La qualità stilistica e metrico-linguistica dei versi, obiettivamente non eccelsa (si pensi alla pesante clausola quom tu ed allo iato tum erunt del v. 2 ed alla serie di iperbati del v. 5), può essere addotta sia per negare l’autenticità (Gallo non può avere scritto versi così maldestri) sia per difenderla (nessun falsario architetterebbe versi così maldestri): si tratta comunque di fenomeni non isolati, i quali confermano che Gallo occupò una posizione intermedia tra i primi neoteroi e la poesia augustea. 35

88 MANZONI 1995, p. 59. Lo studioso non rinuncia comunque a soffermarsi sull’«apparente inconseguenza» dell’uso delle grafie -ei- ed -i- da parte dello scriba, «elemento aggiuntivo, anche se marginale, della tesi» del Brunhölzl (p. 60). Il Manzoni condivide la posizione del Parsons (in ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, pp. 132-134), secondo il quale: a. al tempo di Gallo e dello scriba che ne ha trascritto i versi la grafia -ei- è «perfettamente normale»; b. il poeta o il suo scriba scelsero la grafia -ei- per la i lunga, ma in modo non sistematico, come mostrano mihi (I 2), fixa (I 5) e digna (I 7); c. gli ultimi due esempi sembrano indicare che in sillaba chiusa (vale a dire prima di una consonante doppia) si evitava di scrivere -ei-, mentre mihi potrebbe spiegarsi col fatto che l’ultima sillaba – originariamente lunga e tale rimasta in poesia – era ormai comunemente valutata come breve. Il Manzoni (non so quanto fondatamente, v. anche TRAINA 1999, p. 338) considera chiusa anche l’ultima sillaba di mihi. Condivido quanto scrive MORELLI 1999, p. 70 n. 17, per il quale, invece, sarebbe più opportuno «parlare di tendenza a non porre -EI- a – rappresentare [i ] nel corpo della parola se seguono due consonanti: in tutti gli altri casi, nel corpo o in fine di parola, sarà stata adottata nel papiro la grafia EI». Per mihi di v. 2 può essere accolta la ricordata spiegazione del Parsons. Secondo la GALL 1999, p. 220, l’ortografia di P non obbedisce ad alcun principio comune. 89 GALL 1999, pp. 219-245, sp. 226-235; su cui cf. l’espressione di MORELLI 1999, p. 74.


90 Cf. RADICIOTTI 2000, p. 361 e la sua precedente espressione in ID. 1998, p. 367 n. 41. 91 PETRUCCI 2002, p. 108. Rilevo che il dubbio compare anche nella manualistica scolastica, cf., per esempio, C. SALEMME, Scrittori e testi di Roma antica, Napoli s. d., p. 488; G.B. CONTE, Letteratura latina, Firenze 2002, p. 280. Si veda però dello stesso CONTE, Lettura della decima bucolica, in M. GIGANTE (ed.), Lecturae Vergilianae, I: Le Bucoliche, Napoli 19882, p. 369. 92 MORELLI 1999, p. 69. 93 MORELLI 1999, p. 74.

4. Tanto in Virgilio (compresa anche la Ciris) quanto in Properzio ci sono passi – tra di essi variamente legati – che richiamano più o meno da vicino versi di P. Emblematico il caso di Prop. II 13, elegia che, strettamente connessa con la Sesta Ecloga, ha alcune chiare allusioni ai carmi del papiro, tra cui l’espressione domina iudice tutus ero di v. 14 (che richiama i vv. 7 e 9 di P, con domina e iudice nella stessa posizione metrica) ed il nesso non ego di v. 9 (che è al v. 8 di P). È oltremodo inverosimile che un falsario moderno «nella sua manovra ingannevole sia giunto a Properzio per la via traversa di Virgilio». 5. La menzione di Licoride – diversamente da quanto ritenuto dagli editores principes – non può essere considerata sufficiente per una sicura attribuzione dei versi a Gallo: in effetti, come sostenuto da Giangrande, la domina potrebbe essere apostrofata da un altro poeta, ma questa possibilità porta ad una doppia frattura tematica (Gallo infelice per l’infedeltà di Licoride/l’autore felice col trionfo di Cesare; amore/politica) assai poco plausibile. 6. In ogni caso, fino a quando non sarà esaminato con sicurezza l’inchiostro con cui sono delineati i versi di P, il dubbio che siamo in presenza di una falsificazione potrà sempre insinuarsi nella critica, anche se non potrà mai essere tale da indurre ad ignorare del tutto il frammento. I sospetti avanzati dal Brunhölzl hanno continuato, in qualche misura, ad agire. Mentre il Radiciotti nel 2000 ha scritto che «la genuinità di questo antichissimo papiro letterario latino può dirsi ormai ragionevolmente assodata»90, nel recentissimo libro di A. Petrucci, Prima lezione di paleografia, apparso nell’aprile del 2002, a proposito del naufragio di tanta parte della letteratura greca e latina leggiamo che di Cornelio Gallo «avevamo perso tutto, fino a quando le sabbie d’Egitto non ci hanno restituito miracolosamente un frammento delle sue liriche d’amore (peraltro contestato come possibile falsificazione moderna)»91. Significativamente il Morelli, tornando nel 1999 sul problema dell’autenticità del documento, ha ribadito92 la necessità di un esame scientifico del materiale e, pur mantenendo la propria opinione sulla «presunzione» della sua genuinità, ha ritenuto di non poter condividere «la perentorietà di quanti danno per già risolto positivamente il problema», aggiungendo93 che «pur nella convergenza di un sempre maggior numero di pareri favorevoli alla ge36


nuinità davvero dirimente per la questione risulterebbe un esame microscopico del papiro; dati nuovi potrebbero venire anche semplicemente da una nuova autopsia, che, a mia conoscenza, nessuno studioso (Brunhölzl incluso!) ha compiuto dall’epoca della pubblicazione del reperto. Un altro dei curiosi aspetti di questa infinita “querelle”»94.

I 5. Il papiro è autentico. L’autopsia di P, come previsto dal Morelli, mi ha consentito di accertarne, una volta per tutte, l’autenticità. Prima di illustrare i risultati della mia analisi del frammento, vorrei fare due osservazioni. Già nel 1998, replicando al Brunhölzl, il quale aveva scritto che il PHerc 817 era un falso ottocentesco, avevo osservato95 che se solo avesse dato un’occhiata diretta a questo papiro, egli si sarebbe sicuramente astenuto dall’avanzare un’ipotesi assurdamente costruita con motivazioni fantasiose e grottesche e sulla base di una vecchia foto di una sola colonna; e che un’accusa di falso è comunque cosa troppo seria perché possa essere fondata sull’esame di una riproduzione fotografica. Anche per il papiro di Gallo debbo lamentare, sulla scia, come si è visto, del Morelli, questo grave difetto di fondo della metodologia del Brunhölzl. Vorrei anche rilevare che in papirologia (come, penso, in filologia, in archeologia ed in altre discipline connesse) tutto ciò che appare isolato e, almeno apparentemente, privo di confronto e magari, in quanto tale, estraneo alle nostre convinzioni ed alle nostre certezze, non può “automaticamente” essere messo in discussione, fino al punto di essere ritenuto qualcosa di diverso da quello che esso effettivamente è o, addirittura, il frutto di una falsificazione; ma va, senza forzature, “accettato” e, nei limiti del possibile, spiegato e inserito nel suo possibile contesto storico. Gli articoli di Brunhölzl rendono meno scontate di quanto sembri tali considerazioni. Ecco le più significative acquisizioni rese possibili dall’esame del papiro: 1. Il frammento è effettivamente costituito da 5 pezzi ricomposti. Ha ragione il Morelli nell’affermare che si tratta di una circostanza del tutto normale in papirologia. Per parte mia vorrei rilevare che lo è tanto più in considerazione del luogo in cui esso fu trovato, vale a dire in una discarica: qualcuno, ad un cer37

94 Acriticamente difesa la tesi di Brunhölzl in SILAGI 2001, pp. 694 s., su cui cf. CAPASSO 20022, pp. 249-251. Sconcertante e certo non divertente lo pseudo-paignion escogitato dallo stesso Silagi, convinto e assai poco convincente difensore d’ufficio delle acrobazie di Brunhölzl, nell’articolo Definitives zu Gallus, «Rechtshistorisches Journal» 18 (1999), pp. 357-373. Invece di prendere, obiettivamente e forse anche onestamente, atto del naufragio della provocazione del Brunhölzl sulla falsificazione del papiro di Qas\r Ibrîm, o magari di difenderla con argomentazioni, se non fondate, almeno serie, egli ci costringe a leggere diciassette pagine diciassette e cinque tavole cinque, insulse e stucchevoli nel loro autocompiacimento, in un tentativo (forse) di sollevare un polverone. Peccato che nel far questo si abbandoni a della ironia, un po’ greve e, soprattutto, “a buon mercato”, nei confronti di qualche studioso che ha avuto il torto (molto grave, ce ne rendiamo conto) di non accettare le tesi di Brunhölzl. Dispiace e, ripeto, sconcerta il fatto che in questa operazione egli abbia potuto avvalersi dell’appoggio di una rivista intitolata «Rechtshistorisches Journal», che col papiro di Cornelio Gallo ha a che fare come la luna coi gamberi e che forse vorrebbe, e certo dovrebbe e potrebbe, essere una rivista seria. Evidentemente si ritiene che un dibattito scientifico possa progredire anche attraverso atteggiamenti di dubbio gusto. 95 Cf. Capasso, in CAPASSORADICIOTTI, La falsa falsificazione cit., sp. p. 122.


96 Mi limito a ricordare il caso del PBakchias 137, contenente una dichiarazione di censimento del 217 d.C.: fu trovato dalla nostra Missione strappato in più pezzi, poi accartocciati, nella discarica all’esterno dei due templi principali di Bakchias, dove qualcuno li gettò nel momento in cui il tempio fu spogliato dalle sue suppellettili (fine III-inizio IV d.C.): ricomponendo i pezzi sono riuscito in pratica a ricostituire il documento nella sua interezza, cf. M. CAPASSO, Una kat∆oijkivan ajpografhv del 217 d.C. da Bakchias (PBakchias 137), in S. PERNIGOTTI-M. CAPASSO-P. DAVOLI, Bakchias VI. Rapporto Preliminare della Campagna di Scavo del 1998, Pisa-Roma 1999, pp. 107-115.

to punto, forse non essendo più interessato al volumen con i versi di Gallo, lo strappò in più pezzi, che furono quindi gettati tra i rifiuti: niente di strano se si è potuto ricomporre un’intera colonna semplicemente accostando i pezzi96. 2. Quando, nell’ottobre del 2001, ebbi tra le mani la cornice col papiro, mi accorsi che nel momento in cui esso era stato messo tra due vetri l’operazione di distensione del frammento era stata fatta in modo non del tutto adeguato e corretto, soprattutto nella parte sinistra (rispetto a chi guarda): in pratica in questa zona la superficie del papiro era stesa in maniera irregolare e questo finiva con il falsare l’originale andamento delle linee di scrittura; il papiro fu fotografato, in questo assetto per così dire non genuino, da C.J. Eyre e le sue foto corredarono l’editio princeps (Pls. IV-VI) dando un’impressione sicuramente errata del lavoro dello scriba; in particolare, come si può agevolmente constatare nelle prime due (Pls. IV-V: tavv. 14-15), la parte iniziale delle ll. 2-5 della col. I appare inclinata da sinistra verso destra (sensibilmente quella delle ll. 2, 3 e 5, meno quella della l. 4), il che conferisce alle stesse linee un andamento, per dir così, atipico: le ll. 2, 3 e 5 hanno un’accentuata curvatura centrale, la 4 ha un percorso vagamente zigzagante. Le fotografie hanno indotto in errore il Brunhölzl (che in proposito, come si è visto, ha parlato, piuttosto insensibilmente, di linee di scrittura come corde stese per asciugare il bucato al sole) e quanti hanno cercato di variamente giustificare il lavoro dello scriba. Ho risistemato, nei limiti del possibile, il papiro, ripristinando il “normale” andamento della parte sinistra: come si può agevolmente constatare sia dalla tav. 6, che riproduce il papiro nel suo complesso, sia da altre, in cui sono visibili particolari di tale area dopo il mio intervento, le stesse linee hanno riacquistato un andamento molto più regolare. Qualche esempio significativo: nella Pl. V la prima A di FATA è nettamente sollevata rispetto alla ultima I di MIHI (col. I 2), mentre nella tav. 29 vediamo che, avendo entrambe riacquistato la loro posizione originaria, esse sono perfettamente allineate. La stessa cosa vale rispettivamente per la prima A di MAXIMA e l’ultima A di ROMANAE (col. I 3) e la I di FIXA e la S finale di SPOLIEIS (col. I 5). Quanto all’andamento zigzagante della l. 4, esso risulta abbastanza sensibilmente ridotto; come mostra, per esempio, il fatto che prima il punto di attacco della O di POSTQUE era più in alto di quello della O di MULTORUM, mentre adesso le due lettere cominciano più o meno 38


alla stessa altezza. D’altra parte va anche considerato che la disidratazione del papiro, corrugando la superficie, ha alterato sia pure in lieve misura l’originale andamento delle linee, un fenomeno che possiamo riscontrare anche nel PHerc 817, nel quale lo spazio interlineare oscilla da cm 0,3 a cm 0,5. 3. I versi non sono assolutamente scritti su di un papiro già vecchio, consunto e raggrinzito: a. Se così fosse stato, in più punti i tratti sarebbero apparsi “tremolanti”, caratteristica che è del tutto assente, tranne che in col. I 4 dove la T di POSTQUE ha l’asta verticale con andamento lievemente irregolare, ma l’incertezza qui è dovuta al fatto che la lettera, omessa in un primo momento, fu aggiunta successivamente, nel ristretto spazio lasciato tra S e Q (tav. 37). Dove siano le «immotivate interruzioni di rotondità» dei tratti di cui parla il Brunhölzl97 non sono riuscito a capire. b. Esaminando da vicino la superficie di P si può agevolmente constatare che il deterioramento delle fibre si è verificato contemporaneamente a quello dell’inchiostro: in non pochi punti ci sono striature orizzontali – prodottesi evidentemente nel corso dei secoli – che hanno portato via sia fibre, o parti di fibre o, ancora, minime porzioni di superficie papiracea, sia inchiostro: si vedano, per esempio, i gruppi A.MIHI di col. I 2 (tav. 30), MANA di col. I 3 (tav. 32), SPOL di col. I 5 (tav. 41), IVIT di col. I 5 (tav. 48), ATVR.IDEM.TIBI.NON di col. I 8 (tavv. 59-62); se il testo fosse stato delineato su di un papiro già vecchio, l’inchiostro si sarebbe sovrapposto a queste striature, senza interrompersi proprio in corrispondenza di esse. c. Nella zona inferiore sinistra (per chi guarda) di P, in corrispondenza della parte iniziale delle ll. 6-9 della col. I, l’inchiostro è in generale più sbiadito e, di conseguenza, il testo meno leggibile che altrove; la cosa si spiega col fatto che qui la superficie si è alquanto deteriorata e tale deterioramento non può essersi prodotto prima di quello dell’inchiostro: impossibile ottenere “artificialmente” uno sbiadimento simile su di una superficie papiracea già particolarmente consunta. d. Non c’è la minima traccia, né in VISCE di col. I 8 (tav. 64) né altrove, di astuzie di un presunto falsario: le lacune non sono né “evitate” né “aggirate” né, tanto meno, “cercate”. 4. La visione diretta di P permette di respingere anche l’accusa relativa all’irregolarità delle dimensioni delle lettere e della distanza tra di esse: soprattutto quest’ultima risulta costante e non eccessiva. 39

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BRUNHÖLZL 1984, p. 36.


98 99

BRUNHÖLZL 1984, p. 35. Si vedano in particolare le ricordate repliche di Blänsdorf, Ballaira e Morelli (sopra I 4) ed il contributo di Radiciotti in questo stesso Album. 100 Anche in questo caso rinvio a quanto da me esposto sopra in I 4. 101 Tale reazione sarebbe stata auspicabile e comprensibile anche alla luce delle orgogliose parole con le quali Anderson, Parsons e Nisbet, in chiusura della loro edizione, rivendicano (giustamente) la scoperta del papiro all’EES.

Fin qui i risultati dell’autopsia di P. Le argomentazioni del Brunhölzl a proposito della «gracile insicurezza» della scrittura, che darebbe l’impressione di un qualcosa che “cade a pezzi”98, e delle presunte stranezze nell’organizzazione grafica del versi sono state totalmente demolite dagli studiosi99, così come del tutto fugati dalla critica sono stati i dubbi da lui avanzati su ortografia, metrica e contenuto dei carmi100. È ora, dunque, di liberare, una volta per tutte, il frammento di Qas\r Ibrîm da ogni ombra residua di sospetto, auspicando che mai più si arrivi ad esprimere certezze sulla falsità di documenti antichi sulla base di considerazioni così approssimative. Sia consentita un’ultima riflessione. Il Brunhölzl, come ha fatto anche a proposito del PHerc 817, pur di completare la sua ricostruzione della presunta falsificazione, non ha esitato a propinarci un racconto fantasioso, per niente attento alle nozioni fondamentali della disciplina papirologica e, alla luce delle rigide norme burocratiche che regolano il lavoro delle Missioni archeologiche in Egitto, assai poco verosimile: ve lo immaginate uno studioso esperto di paleografia e di poesia latina, che, facendo tutto da solo, ruba un papiro antico non scritto, vi delinea sapientemente dei versi, altrettanto sapientemente lo spezza in più parti, fa un buco profondo almeno diversi metri in un’area dove sicuramente arriverà lo scavo ufficiale, seppellisce i frammenti insieme ad una moneta di Cleopatra VII, richiude il buco e poi cancella ogni traccia grazie ad un provvidenziale acquazzone? Soprattutto, il Brunhölzl non ha esitato ad accusare più o meno direttamente (mi pare di poter dire) la Missione inglese della presunta falsificazione: una pronta reazione dell’EES non solo sarebbe stata legittima, ma avrebbe anche potuto imprimere all’intera vicenda un corso in qualche misura diverso101.

40


II. Trascrizione del papiro. La lettura di P eseguita dal Parsons fu eccellente. L’autopsia di P mi ha comunque consentito qualche lieve miglioramento, forse non del tutto privo di valore, per cui ritengo utile qui riportare una nuova trascrizione del testo.

Col. I margine

Col. II

TRISTIA [.]NEQVIT[. . . . .]A\ . LYCORI . TVA

1]

[

1 [

2] 3] 4] 5]

F ATA . MIHI . CAESAR . TVM . ERVNT . MEA . DVLCIA . QVOM . TV MAXIMA . ROMANAE . PARS . ERIT. HISTORIAE . P OSTQVE . TVVM . REDITVM . MVLTORM . TEMPLA . DEORVM FIXA . LEGAM . SPOLIEIS . DEIVITIORA . TVEIS

. . . . . . . . . .] . . . I \ . TANDEM FECERVNT C . . MINA MVSAE

7

] Q\ V\A\E . POSSEM . DOMINA . DEICERE . DIGNA . MEA

8 9

10 11 12

4

[

6

]. ] . . S\YRIA ].

41

[

5

. . . . . . . . . . . ] M\ PLAKATO IVDICE TE VEREOR

–––

3

QVI . [

. . . . . . . . . . . . . . . . . . ] . A\TVR IDEM TIBI NON EGO VISCE

] ]...[ ]...[

..[

[

] 6

2


Come ha già notato il Parsons, nel margine superiore di P ci sono molti punti di inchiostro, che appaiono essere stati apposti casualmente, risultato, evidentemente, di disattenzione dello scriba (tavv. 16, 18), come lo sono sicuramente i due più corposi “sbaffi” ben visibili al di sotto della R di TRISTIA (tav. 19). Col. I 1 TRISTIA: Secondo il Parsons, non ci sarebbe alcuna traccia del tratto trasversale della A; in realtà, come si può constatare anche nelle tavv. 19-20, esso è ancora ben visibile. NEQVIT[ : prima della E visibili, come scrive il Parsons, la parte inferiore di un tratto verticale seguìto dalla parte inferiore di un tratto obliquo; secondo lo studioso, le «tenui tracce» che si scorgono sùbito dopo sul margine dello strappo «possono essere casuali»; tuttavia, per quanto le tracce di N siano «anomale», col Nisbet egli scrive n\equit\[ia, che considera «lettura inevitabile». In realtà, come si può notare nella tav. 20, del primo tratto verticale si conserva anche una porzione superiore, e le ultime tracce sulla destra prima della E non sono affatto casuali: si tratta del secondo tratto verticale di N, che è dunque conservata per intero e non è affatto anomala. Fra TRISTIA e NEQVIT c’è lo spazio per ipotizzare la caduta del punto intermedio. ] : tra la lacuna ed il punto intermedio è visibile la parte finale di un tratto obliquo che scende da sinistra verso destra: per il Parsons potrebbe trattarsi di una delle seguenti lettere: A, K, M ?, R, X. In realtà K, secondo quanto mostra l’unico esemplare di questa lettera superstite in P (col. I 9), sembra proprio da escludere, così come escluderei X: potrebbe, perciò, trattarsi di A, M oppure, ma meno verosimilmente, R: più probabile, anche per ragioni metriche, che si tratti di A. 2 QVOM: al di sotto di VO è un lungo tratto orizzontale (mm 4), sfuggito al Parsons (tav. 35), che non mi pare proprio possa essere considerato un prolungamento in senso orizzontale del tratto obliquo di Q, dal quale è visibilmente staccato: esso potrebbe in qualche modo rilevare la grafia arcaica rispetto a CVM. 3 MAXIMA: dopo la I si scorge un punto intermedio e la M pare essere stata delineata su una precedente A; lo scriba potrebbe avere corretto un precedente errore di trascrizione. Dopo RS il punto intermedio, contrariamente a quanto scrive il Parsons, c’è, sia pure un po’ sbiadito, cf. tav. 34. 42


4 POSTQVE: come già notato altre volte, la T appare essere stata aggiunta in maniera un poco incerta nel ristretto spazio lasciato tra la S e la Q; come ha rilevato il Parsons, l’aggiunta risale verosimilmente alla prima mano. 5 SPOLIEIS: il frego, apparentemente privo di significato, notato dal Parsons al di sopra della O, in realtà è tra la P e la O. Tra questa parola e la successiva DEIVITIORA dopo il punto intermedio si scorge un punto in basso poco prima della D. 6 Nell’ipotizzare il numero di lettere cadute nella parte iniziale di questa linea (5/6) si possono avere come punto di riferimento le ll. 2 e 4. ] . . . I \ . . (] . . . . . . Parsons): l’inchiostro qui è piuttosto sbiadito e questo non lascia assolutamente definire le tracce residue. La prima lettera caduta, come già rilevato dal Parsons, potrebbe essere stata una I oppure una L, dal momento che si intravede un tratto verticale con l’apice superiore rivolto a sinistra; seguono due tenui tracce a mezza altezza e, in basso, in corrispondenza della seconda, forse un’ulteriore traccia: la prima potrebbe essere un punto intermedio dopo la lettera incerta identificabile come I o L, le altre due appartengono verosimilmente ad una stessa lettera; successivamente si scorgono due tracce, di cui una nella parte alta del rigo e l’altra, in basso, in corrispondenza della prima: potrebbero appartenere ad un unico tratto verticale. Successivamente si fa abbastanza evidente un tratto verticale, che potrebbe appartenere ad una I; le tracce successive sono molto confuse: secondo Parsons e Nisbet, c’è forse «an oblique sloping down from left to right. To right of this, and higher up, anomalous traces suggesting the left-hand half of an oval, the top arc extended to the right, a horizontal cross-bar half way down». Io ho intravisto (cf. tav. 50) un tratto obliquo, discendente forse da sinistra a destra, a ridosso del quale sono alcuni segni indistinti, uno dei quali è delineato, sia pure di poco, al di sopra della linea superiore della scrittura. TANDEM: su T ed A due macchie di inchiostro probabilmente prive di significato; la N, della quale il Parsons vedeva solo due tratti, è visibile per intero. Dopo FECERVNT il punto intermedio, per quanto sbiadito, si intravede; subito dopo, la C è sicura. 7 Q\V\A\E: delle prime due lettere si è conservata la parte superiore; il Parsons scorge della seconda solo la porzione superiore di un tratto discendente con un vistoso apice verso sinistra; a suo 43


parere, la lettera può forse essere identificata solo con la V; in realtà è ben visibile, sùbito a destra, anche la parte superiore di un altro tratto, che comincia più in basso rispetto al primo: pochi dubbi sul fatto che la lettera sia effettivamente una V. Della terza lettera il Parsons scorge l’estremità superiore ed il piede di un tratto obliquo discendente da sinistra a destra: a suo parere potrebbe trattarsi di A o di M, in realtà per la M non c’è assolutamente spazio. 8 Nell’ipotizzare il numero delle lettere cadute nella parte iniziale della linea si possono avere come punto di riferimento le ll. 2 e 4. ] . A\TVR: il Parsons esclude che prima della A incerta possano essere viste con sicurezza tracce di inchiostro; in realtà alcune macchie ci sono (cf. tav. 58), rapportabili in qualche modo ad un tratto verticale; della A si scorge il tratto obliquo di destra e, secondo il Parsons, esso potrebbe appartenere anche ad una M: se quelle che precedono questa lettera sono effettivamente tracce di inchiostro, per la M, già esclusa dal contesto, non ci sarebbe spazio. Della T è visibile non solo parte del tratto orizzontale e di quello verticale, come scrive il Parsons, ma anche l’apice alla base. IDEM: per il Parsons c’è qualche incertezza per la D, considerata la minima parte del tratto curvo che egli è riuscito a scorgere; in realtà di esso sono visibili la metà superiore e parte di quella inferiore (cf. tav. 59); le tracce successive sono rapportabili, come ben nota la studioso, ad una E (base e porzione superiore del tratto orizzontale): notevole il tratto obliquo discendente da sinistra a destra nella parte alta della lettera che dà all’arco superiore una conformazione ad angolo, che troviamo solo nella O; per il Parsons, tale tratto obliquo potrebbe essere non inchiostro, bensì fango, ma non mi pare. NON. : secondo il Parsons, il punto intermedio è incerto, in realtà ne è rimasta una minima parte. VISCE: al centro della V è un breve tratto verticale superfluo, forse, come scrive il Parsons, dovuto ad una precedente lettera o parte di lettera su cui lo scriba ha poi delineato la V. Lo stesso studioso scorge, della lettera seguente, «un breve tratto orizzontale, in linea con la parte alta delle lettere, sopra una lacuna larga abbastanza solo per le lettere più strette (E, I)». In realtà, come si vede nella tav. 64, di questa lettera è visibile anche la parte centrale del tratto verticale, al quale non è attaccato alcun tratto orizzontale: è escluso, dunque, contrariamente a quello che ritiene il Parsons, che essa possa essere una E. 44


9 Naturalmente il numero delle lettere cadute all’inizio della linea è ipotizzato sulla base del confronto con la l. 7. ] M\ . PLAKATO : qui il Parsons legge . . ] . . . . . . . . L\ . ; a suo avviso, le prime 5 tracce sono irrimediabilmente danneggiate; la sesta è in apparenza un breve tratto obliquo discendente da sinistra a destra, leggermente al di sopra della linea di base, che potrebbe essere un punto intermedio o il lato destro di una delle seguenti lettere: A, G, K, M, R, X; la settima potrebbe essere una L danneggiata, seguìta da un punto intermedio o parte di un tratto verticale, che lo studioso esclude sia I, perché questa verrebbe a trovarsi troppo a ridosso della presunta L precedente: se si “cumula” quest’ultima col tratto successivo si può anche pensare, a suo avviso, che la settima lettera sia una V. L’ottava lettera sarebbe una P, ma il Parsons non esclude del tutto che possa trattarsi anche di una D, per quanto l’incontro, alla sommità della lettera, tra il tratto verticale e l’arco formi un angolo acuto non riscontrabile negli altri esemplari della lettera in P. La nona lettera potrebbe essere, a suo avviso, una L, danneggiata nell’apice superiore e seguìta da tre punti allineati verticalmente e, subito dopo, da un breve tratto obliquo, discendente da sinistra a destra, lievemente al di sopra della linea di base. Quest’ultimo somiglia per forma e per posizione al punto intermedio posto dopo KATO e, per Parsons-Nisbet, se effettivamente è un punto intermedio, la lettera che lo precede deve essere stata necessariamente stretta (E oppure I); se non lo è, i tre punti allineati verticalmente ed il successivo tratto obliquo, combinati, potrebbero far pensare alla lettera A, per quanto «insolitamente stretta». In questo caso, a loro dire, si potrebbe ipotizzare l’originaria presenza di un punto intermedio più in alto nel rigo, là dove la superficie appare danneggiata. I due studiosi ammettono, d’altra parte, anche la «forte possibilità» che l’ottava lettera non sia né P né D, ma una L nei pressi della sommità della quale ci sarebbe una macchia di inchiostro accidentale o del fango che finisce con l’ingannare il lettore; di conseguenza a loro avviso potrebbe anche leggersi la sequela ] . VLLA[ . ]. Sulle prime cinque tracce, che non sono riuscito ad individuare (la situazione è estremamente confusa e quello che può sembrare inchiostro potrebbero essere residui di fango o di polvere, cf. tavv. 58-59), non è possibile esprimersi. Della lettera successiva si scorge, oltre al tratto obliquo (che non può essere considerato un punto intermedio), anche, alla sua sinistra, la 45


parte finale di un tratto verticale: le due tracce potrebbero far pensare ad R oppure a K, la prima delle quali potrebbe sembrare preferibile alla luce di una certa somiglianza tra le tracce residue e la R di CAESAR in col. I 2, sebbene lo scriba di solito prolunghi alquanto verso il basso e poi verso destra il tratto obliquo di questa lettera, circostanza che qui, comunque, non si riscontrerebbe. In realtà non si tratta né di R né di K, sia perché nell’uno e nell’altro caso la lettera verrebbe a trovarsi a ridosso di quella successiva sia perché, come si nota nella fotografia ingrandita, questo tratto obliquo ad un certo punto gira verso l’alto e verso destra, fino a toccare il tratto successivo. Quest’ultimo tratto e quello seguente non sembrano affatto compatibili con una V: tale lettera, infatti, è normalmente realizzata in due tempi, con un primo tratto che scende giù dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra per poi curvare dolcemente verso destra, allungarsi sul rigo di base, talora sollevarsi leggermente, ed infine incontrarsi con la base di un secondo tratto per lo più verticale o leggermente inclinato da destra verso sinistra (a volte il primo tratto incontra il secondo senza prolungarsi sul rigo di base, in modo da formare con esso un angolo acuto); in questo caso avremmo un primo tratto che invece di piegare verso destra, va prima a sinistra e quindi bruscamente verso il basso e verso destra; la seconda traccia è ben isolata nel mezzo del rigo e non sembra affatto la parte residua di un tratto originariamente più consistente e, in ogni caso, molto poco essa richiama il tratto di destra di una V, dal momento che dà l’idea di dirigersi, nella sua parte alta, verso l’esterno, allontanandosi, per dir così, dal primo tratto, cosa che non si verifica mai negli altri esemplari della lettera; insomma dovremmo immaginare che lo scriba qui ha delineato una V del tutto diversa dalle altre. Inammissibile anche l’alternativa prospettata da Parsons-Nisbet, che le due tracce possano essere interpretate come una L danneggiata, seguìta da un punto intermedio, dal momento che di solito la L ha il primo tratto verticale ed il secondo più o meno orizzontale sul rigo di base, a formare con esso un angolo retto, mentre avremmo qui un primo tratto con andamento sinusoidale e tendente, alla fine, verso il basso. In realtà, come ho detto prima, la traccia interpretata dai primi editori come parte sinistra della V o una L danneggiata è l’ultimo tratto a destra di una lettera a cui appartengono anche le due precedenti tracce: si tratta molto verosimilmente di una M, conservatasi praticamente quasi per intero, 46


che richiama la M di TVVM (col. I 4) e di MVSAE di col. I 6; nel punto in cui si incontrano il terzo ed il quarto tratto è ben visibile anche la traccia di inchiostro dovuta al lieve “sforamento” dell’uno sull’altro tratto, che si può notare anche nella M di ROMANAE (di col. I 3). La M è seguìta da un punto intermedio, che, come ho detto, è ben conservato ed isolato al centro del rigo. Le due lettere che seguono sono sicuramente P ed L (è assolutamente escluso che possano essere due L), seguite certamente non da una E (non ci sono affatto tracce dei tre tratti orizzontali di tale lettera e comunque essa verrebbe a fondersi col tratto più a destra) ma da una A; Parsons-Nisbet ritengono verosimile quest’ultima possibilità, per quanto, a loro parere, si tratterebbe di una A eccessivamente stretta. Le loro perplessità possono essere superate; infatti se si osserva la superficie del papiro al di sotto di questa lettera, si può notare che c’è un’interruzione nelle fibre, dovuta ad una piegatura o una rottura verticale, che finisce con il falsare l’ampiezza della lettera. Successivamente non c’è alcuna traccia del punto intermedio prima di KATO: c’è una piega sulla superficie del papiro nella parte alta del rigo, che potrebbe anche far pensare ad un danneggiamento che ha portato via il punto, tuttavia la piega è ad un’altezza decisamente maggiore rispetto a quella in cui dovrebbe essersi trovato il punto ed inoltre, se questo fosse stato effettivamente delineato, un qualche residuo sarebbe rimasto. IVDICE: il Parsons nota che la I appare più alta delle altre lettere, «come se fosse I-longa»; a suo avviso, la cosa è dovuta ad uno spostamento delle fibre, che ha separato la parte alta dal resto della lettera portandola più in alto. In realtà non c’è stato alcuno spostamento delle fibre, che in questo punto sono intatte (cf. tav. 61): effettivamente c’è una brevissima interruzione del tratto verticale, ma è dovuta alla scomparsa dell’inchiostro; l’altezza della lettera non va considerata per niente abnorme: a ben guardare è la stessa della D e della E nella medesima parola, e del resto non di rado lo scriba, all’interno di un stessa parola, realizza lettere più alte delle altre, cf. la A di TVA (col. I 1), la D e la A di DVLCIA (col. I 2), la M di QVOM (col. I 2), la L e la M di LEGAM (col. I 5), la D e la A di DIGNA (col. I 7). Nello spazio tra l. 9 e l. 10, poco al di sotto della K di KATO c’è sicuramente una macchia di inchiostro, evidentemente accidentale. 10 ] . . . [ : situazione molto incerta; come afferma il Parsons, la seconda di queste tre lettere potrebbe essere N. 47


Alla fine della linea il lungo tratto orizzontale e la lievissima macchia di inchiostro al di sotto di esso potrebbero appartenere, come pensa il Parsons, ad una T; il brevissimo tratto che si scorge ancora più a destra potrebbe essere un punto finale di linea. 11 ] . . . [ : anche qui la situazione è molto poco chiara; della seconda lettera sembra rimanere la parte destra di un tratto curvo (O ?). \ RIA : secondo il Parsons, che scrive ] . . TY \ RIA, sù] . . SY bito dopo la lacuna è la parte finale di tratto obliquo discendente da sinistra verso destra, che si appiattisce sulla linea di base ed è seguìto da un punto intermedio in posizione alta; a suo parere, la lettera potrebbe essere stata una delle seguenti: A, G, K, M, R, X. In alternativa egli pensa che la parte finale del tratto obliquo possa essere il vero punto intermedio e la traccia di inchiostro, che segue a destra più in alto, appartenere alla successiva T, per quanto essa verrebbe a trovarsi nettamente troppo in basso rispetto a questa lettera. Osservo innanzitutto (cf. tavv. 69-70) che il tratto discendente da sinistra a destra, per così dire appiattito sulla linea di base, è continuo e dunque va considerato, nel suo insieme, parte di una lettera (da identificare con una di quelle elencate dal Parsons, ma escluderei la G); il punto che segue a destra, isolato e ben staccato dalla lettera successiva, è, senza ombra di dubbio, il punto intermedio. Della T di TYRIA lo studioso vede chiaramente solo il tratto verticale, essendo il resto andato perduto nella rottura del papiro; a suo avviso la lettera non può essere una S, perché il tratto verticale è troppo diritto e la sua parte alta troppo prolungata verso sinistra. Secondo me la lettera è più verosimilmente S che T. Innanzitutto il tratto verticale non è diritto, ma nella sua parte alta piega verso sinistra, come piega verso sinistra il tratto che forma il corpo centrale della S, per esempio, di TRISTIA (col. I 1), di CAESAR (col. I 2) o di POSTQVE (col. I 4); la T, inoltre, alla base ha sempre un breve tratto ornamentale che sporge, per così dire, a sinistra e a destra rispetto al tratto verticale oppure (ma più raramente, si veda TEMPLA, in col. I 4, o PLAKATO e TE in col. I 9) solo a destra: qui stranamente il tratto sporgerebbe solo a sinistra; inoltre alla fine esso si prolunga lievemente, ma sicuramente, verso l’alto, assumendo una configurazione che nella T non si nota mai e che invece si riscontra nella S (cf. CAESAR in col. I 2). Quanto al tratto orizzontale di T, non solo di esso non c’è alcuna traccia, ma sicuramente non c’è nemmeno spazio per 48


poterne ipotizzare la caduta, dal momento che verrebbe a sovrapporsi all’estremità superiore del primo tratto obliquo della successiva Y; al suo posto si nota invece chiaramente, nonostante la frattura del papiro, un ispessimento circolare del tratto, che riscontriamo nella sommità della ricordata S di CAESAR. 12 ] . : la traccia residua (parte finale di un tratto orizzontale superiore di una lettera, delineato da sinistra verso destra) è rapportata dal Parsons ad una S, una T o, meno verosimilmente, ad una I o una V. Queste due ultime ipotesi mi sembrano comunque alquanto difficili. Col. II 3 . . [ : c’è innanzitutto (cf. tav. 72) la parte finale di un tratto verticale che si estende al di là della linea di base e termina con un piede verso sinistra; il Parsons ritiene che potrebbe essere quanto rimane di una I o di una P, ma non esclude che il tratto arcuato (discendente da sinistra verso destra e poggiato sulla linea di base), che segue sùbito dopo, faccia parte della stessa lettera, che potrebbe, a suo avviso, essere una R oppure, più probabilmente, una A; considero l’ipotesi della R la più verosimile. C’è una terza traccia, anch’essa poggiata sulla linea di base, che lo studioso, pur non escludendo che possa essere l’estremità del tratto curvo inferiore della stessa R (ma questo non è assolutamente possibile, perché tale traccia è sicuramente staccata dalla precedente), considera, insieme con una quarta traccia visibile a destra, prima della rottura del papiro (forse l’estremità di un tratto obliquo che discende da sinistra verso destra), quanto rimane di una delle seguenti lettere: A, K, R, X; a mio avviso A e X sono verosimilmente da escludere e le due tracce potrebbero anche appartenere a due lettere diverse. 5 . [ : prima della lacuna (cf. tav. 74) è visibile un sottile tratto verticale, alla cui sommità c’è o un apice oppure il segno dell’attacco con un altro tratto, mentre alla base c’è un punto di attacco. Col Parsons anch’io ritengo possa trattarsi di una delle seguenti lettere: D, I, L, N, P, R.

49


III. Testo e traduzione. Col. I

1

Col. II

tristia nequit[ia . . .]a\, Lycori, tua.

[

1

[ 2 3 4 5

Fata mihi, Caesar, tum erunt mea dulcia, quom tu maxima Romanae pars eris historiae postque tuum reditum multorum templa deorum fixa legam spolieis deivitiora tueis.

6 7 8 9

. . . . .] . . . i \ . tandem fecerunt c[ar]mina Musae q\u\a\e possem domina deicere digna mea. . . . . . . . . . . . .] . a\tur idem tibi, non ego, Visce . . . . . . .]m\ plakato iudice te vereor.

10 11 12

]...[ ]...[

..[ [

Qui . [ [

2 3 4

5 6

]. ] . S\yria ].

–––

(a) . . . tristi a causa della tua riprovevole condotta, o Licoride. (b) . . . i miei destini, o Cesare, mi diventeranno dolci nel momento in cui tu la parte più grande della storia di Roma sarai ed io leggerò che i santuari di innumerevoli divinità dopo il tuo ritorno sono divenuti più ricchi, perché ricoperti dei tuoi trofei. (c) . . . finalmente le Muse hanno composto poesie che io possa declamare perché degne della mia signora. . . . lo stesso a te, non io, o Visco, . . . ho da temere, una volta che tu, giudice, ti sia mitigato. (d) . . . Siria . . .

50


IV. Note di commento. Col. I 1 Come è noto, la presenza del nome di Licoride (Volumnia/Cytheris102) è uno degli elementi fondamentali che inducono ad attribuire a Gallo i versi del papiro. Sottoscrivo, a questo proposito, quanto si legge in Manzoni 1995, p. 26, che così sintetizza analoghe considerazioni di precedenti studiosi103: «È vero che il nome di Licoride compare una volta in un altro autore, in un contesto non legato a Gallo, ma è altrettanto vero che solo Gallo può essere immaginato nell’atto di rivolgersi a Licoride direttamente». Negano invece, come già si è detto104, che a rivolgersi alla donna sia Gallo Giangrande 1980, pp. 141-153; Id. 1981, pp. 41-44; Id. 19821, pp. 83-93; Id. 19822, pp. 99-108; Naughton 1981, pp. 111 s.; Giangrande 1992, pp. 106 s. Da Parsons e Nisbet in poi si è giustamente osservato che il termine nequitia, che ben si attaglia al comportamente riprovevole tenuto da Licoride nei confronti di Gallo, ricorre solo in Properzio (riferito alla “dissoluta” Cynthia: I 15, 38; II 5, 2; III 10, 24; 19, 10). Il Nicastri 1984, p. 15 e n. 3, basandosi proprio su quest’uso properziano, ha ritenuto che si possa specificare meglio, rispetto ad altre generiche traduzioni (in particolare «misbehaviour» di Parsons-Nisbet) il valore del termine, che, guardando al «contesto verosimilmente erotico-patetico del primo epigramma» egli rende con «infedeltà». Mi permetto di osservare che non conosciamo esattamente il contesto dell’epigramma a: il termine designa in Prop. I 15, 38 la «colpa» commessa dalla donna nei confronti del poeta, in II 5, 2 l’«abiezione» in cui ella si trascina dopo di averlo tradìto, in III 10, 24 e 19, 10 la sua «dissolutezza»: analogamente Gallo con nequitia potrebbe riferirsi al tradimento della sua donna o alla lussuria che lo ha generato o nella quale lei vive; la determinazione proposta dal Nicastri potrebbe perciò non essere precisa. Sul significato del termine hanno discusso Giangrande 1992, p. 106 e Nicastri 1995, pp. 188 s. Non inopportunamente D’Anna 1981, pp. 291 s., lo richiama, per ribadire quanto fosse diversa l’idea che da un lato Gallo, Properzio ed in genere i poeti elegiaci e dall’altro Virgilio bucolico avevano dell’amore, che per i primi era uno stato di servitium, talora anche molto duro, intimamente accettato quale ragione di vita, e per il secondo una condizione di tormento che il contatto con la natura agreste doveva e poteva aiutare a supe51

102 Sulla mima amata da Gallo cf. almeno MAZZARINO 1980-1981, pp. 3-20; TRAINA 1994, pp. 95-122; MANZONI 1995, pp. 25-38. 103 Per es. di Nisbet in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 148 e MERRIAM 1990, p. 446. 104 Cf. sopra, I 3.1.


105 Cf. in proposito MOREL1985, p. 141, che scrive tra l’altro: «Fa un po’ sorridere che si voglia vedere qui nelle imprese di Cesare un motivo di consolazione per le pene d’amore di Gallo [. . . ] ciò è inaudito nella successiva poesia elegiaca». Cf. anche quanto osserva HEYWORTH 1984, p. 64. LI

rare. Secondo il Traina 1994, pp. 106 s., 115, la nequitia di Licoride cui si riferisce Gallo «era una funzione poetica» vale a dire una condotta riprovevole «più immaginaria che reale, e rendeva conto più alle leggi del genere elegiaco che non al reale carattere della mima», la quale, proprio per la sua professione, che veniva considerata infamante, più o meno come quella di una prostituta, non avrebbe potuto indipendentemente scegliersi gli amanti. Fortunamente, comunque, lo studioso ammette che, finzione poetica a parte, «Gallo dovette soffrire qualche pena d’amore per Licoride». Diverse le proposte di integrazione di questo e del verso precedente. Parsons e Nisbet tendono ad escludere che nella lacuna del v. 1 sia caduto un epiteto di Licoride; più verosimile essi considerano la presenza di un nome correlato con tristia (per esempio [fat]a, che comunque giudicano troppo corto per la lacuna, anche se non del tutto da escludere, considerata l’irregolarità dell’ampiezza delle lettere e degli spazi) oppure un participio ancora concordato con tristia (per esempio [fact]a, che, a loro avviso, meglio si adatterebbe all’ampiezza della lacuna ed alla grammatica; una possibile ricostruzione del v. 1 e di quello precedente sarebbe allora, secondo i due editori, [tempora sic nostrae perierunt grata iuventae] / tristia nequit[ia fact]a Lycori tua. Il Lee 1980, pp. 45 s., ha suggerito: [dulcia sunt alieis eheu mea sed mihi fata] / tristia nequit[ia fact]a Lycori tua: la tristezza di Gallo, abbandonato da Licoride, si contrappone, al momento, alla soddisfazione degli altri, che, avendo goduto dei favori della donna, gioiscono del suo dolore, ma essa, in futuro, si trasformerà in grande letizia grazie alla vittoria di Caesar. Diversi, legittimi rilievi sono stati mossi alla proposta di Lee105; estremamente fragile, a mio avviso, resta la convinzione su cui lo studioso basa la sua ricostruzione, vale a dire che i versi superstiti appartengano ad un’unica elegia, circostanza che possiamo tranquillamente escludere. Ricordo la proposta di Newman 1980, p. 94: [nunc ego fata pati despecto cogor amore] / tristia nequit[ia fact]a Lycori tua (linguisticamente non inverosimile) e quella di Mazzarino 1982, p. 325 (v. anche \ dur?]a LycoId. 1980-1981, p. 23 n. 43): ]t\r\isti\a\. [n]equit [ia, ri, tua, basata sul confronto con Verg., Ecl. X 47, dove Gallo si rivolge a Lycoris chiamandola dura (Alpinas, a dura nives . . . ); lo studioso ricorda anche gli epiteti audax nimium e no52


stro dolitura periclo, che Properzio attribuisce a Cynthia (I 15, 27) e ritiene che in un epigramma vicino alla fine dell’opera sarebbe verosimile che il poeta si esprimesse in toni duri nei confronti dell’amata e definisse tristia i suoi carmina, parola, quest’ultima, che a suo avviso poteva trovarsi nel verso precedente, circostanza che richiamerebbe Ov., Am. II 8, 22; cf. anche Gall 1999, p. 221. Meritano di essere ricordate anche le due proposte, avanzate, ex. gr., da Nicastri 1984, pp. 79 s.: [tot mala perpessus fateor mihi tempora vitae ] / tristia nequitia [facta] Lycori tua oppure [. . . fateor mihi taedia vitae] / tristia nequitia [nata] Lycori tua, basandosi sul sostegno «impressionante» di Lygdam. 2, 7 s. Quest’ultimo confronto è giudicato da Morelli 1985, p. 142, «in effetti il più calzante», ma, a suo avviso, l’ipotesi del Nicastri «appare qui persino ovvia, rispondente com’è all’ethos del poeta elegiaco»; il Morelli, in considerazione della tendenza di Gallo – riscontrata da Van Sickle 19812, p. 116-121, tanto nei frammenti di P, quanto nell’unico altro verso conservatoci (fr. 1 Morel) e nell’iscrizione trilingue di File (CIL III 141475 = ILS II 2, 8995 = IPhilae 128 = OGIS II 654)106 – al «mannerism in word-pair separation and placement», ritiene che al v. 1 vada integrata una parola correlata con tristia, che comunque deve terminare con una a breve, «appena leggibile dopo la lacuna e prima di Lycori». L’integrazione [fat]a, scartata da Graf 1982, p. 24, perché renderebbe il pentametro «troppo pesante», viene respinta anche dal Morelli, perché troppo breve rispetto all’ampiezza dalla lacuna; per lo stesso motivo è da respingere, a suo avviso, la congettura [nat]a; preferibile, per il Morelli, l’ipotesi [fact]a107. L’ispezione dell’originale ha permesso, da un lato, di confermare, a l. 1, la presenza della parte destra della lettera A prima di LYCORI, e, dall’altro, di accertare che tra la T di NEQVIT e questa stessa A sono cadute più probabilmente 5 lettere, per cui la parola caduta al centro del verso potrebbe essere stata complessivamente proprio di 4 lettere. 2 L’esame dell’originale non ha portato a novità di lettura in questo verso, peraltro molto ben conservato. A proposito di dulcia, Van Sickle 19812, p. 117, ha finemente osservato che la «dolcezza» è un tema consueto nell’epigramma erotico e nella poesia bucolica, tuttavia essa ha uno strano suono, in compagnia di Caesar e di fata, ma il contrasto è notevole perché è proprio Caesar la fonte della dolcezza contrapposta alla tristezza provocata da Licoride. 53

106 Sull’iscrizione, conservata al Museo Egizio del Cairo (CG 9295), c’è un’imponente bibliografia; cf. almeno BOUCHER, Caius Cornélius Gallus cit., pp. 38-47; S. CURTO, Nubia. Storia di una civiltà favolosa, Novara 1966, pp. 66 s.; H. HAUBEN, On the Gallus Inscription at Philae, «ZPE» 22 (1922), pp. 189 s.; BURSTEIN, Cornelius Gallus cit., pp. 16-20; KOENEN-THOMPSON 1984, pp. 132-142; CRESCI MARRONE 1993, pp. 143-163; F. COSTABILE, Le Res Gestae di C. Cornelius Gallus nella trilingue di Philae. Nuove letture e interpretazioni, «Minima Epigraphica et Papyrologica» 4 (2001), pp. 297-330 (con ulteriore bibliografia). 107 Anche SBORDONE 1982, p. 58 e STROH 1983, p. 212 n. 23 accolgono l’integrazione [fact]a. NOONAN 1991, p. 123, accetta invece fata.


108 Addirittura Lyne nell’editio princeps (p. 141) propone di risolvere il “problema” scrivendo: tum, Caesar, erunt, ma, come rilevano opportunamente Parsons e Nisbet, all’epoca di Gallo lo iato poteva essere ammesso. 109 «L’epigramma a Cesare si apre con un ritmo epico la cui promessa di grandiosità è rapidamente delusa dalle parole mea e dulcia» (VERDUCCI 1984, p. 132). 110 Cf. in proposito anche MILLER 1981, pp. 175 s. Sulla recusatio si veda anche MAGRINI 1981, pp. 7-14; GIANGRANDE 1992, pp. 109 s. e NICASTRI 1995, pp. 195-198. 111 Secondo Naughton siamo in presenza di una frase «perfectly correct Latin». 112 Impreciso SBORDONE 1982, p. 60, che, pur accogliendo la correzione dell’editio princeps, scrive er<i>s. Ha certamente ragione GIANGRANDE 1992, p. 105, a rilevare che eri<s> stampato dagli editores principes sia in qualche modo fuorviante, dal momento che in papirologia le parentesi uncinate racchiudono lettere omesse dallo scriba e dunque il lettore potrebbe essere indotto in errore, come in effetti è capitato a Büchner, il quale nella sua edizione dei Frag. Poet. Lat. del 1982, p. 217, ritenne che il papiro avesse eri; tuttavia va detto che la trascrizione critica del testo nell’editio princeps è preceduta da quella diplomatica, dove è scritto ERIT; non solo, ma nel commento (p. 141) si legge: «eris: an emendation; the scribe certainly wrote erit, by assimilation to the predicate pars». Si veda anche NICASTRI 1995, p. 187.

Sul dibattito prodotto dalla mancata sinalefe tra tum ed erunt (che molto, ma a torto, ha insospettito il Brunhölzl108), dall’iperbato fata . . . me, dal supposto contrasto tra tristia e dulcia e dall’«intreccio tematico Io-Tu» che connota questo e gli altri versi dell’epigramma b, rinvio a Morelli 1985, pp. 143-145. Sulla «enfatica giustapposizione» dei pronomi di prima e seconda persona e degli aggettivi possessivi presente nell’epigramma si veda in particolare Verducci 1984, pp. 130-135109: si tratta di un motivo stilistico che diventerà tipico del tema della recusatio110, tema di cui l’epigramma di Gallo sarebbe una prima «tacita» testimonianza; evidenti allusioni in numerosi brani, di argomento “programmatico”, sia di Virgilio sia di altri poeti augustei (Prop. II 1; III 4; Ovid., Am. I 1; I 2; I 15; I 18; III 1; Tib. I 7; II 1; II 5; Hor., Carm. I 6; II 12; III 3; IV 2 e molti altri), a motivi presenti nei nuovi frammenti di Qas\r Ibrîm rivelano, per Verducci, che l’adattamento alla realtà romana della poetica callimachea, in particolare della «rappresentazione programmatica di sé» e delle proprie scelte estetiche e letterarie, operato da Gallo, ebbe un certo seguito, specie in connessione col motivo del trionfo. Per il Courtney 1993, p. 264, l’espressione fata mea richiama «the melancholy life of the persona of the elegiac lover». Secondo il Newman 1984, p. 22, l’espressione fata dulcia costituisce «un potente ossimoro, che sembra essere unico in latino»; mentre negli altri elegiaci è un netto contrasto tra le gioie dell’amore e della pace, da un lato, e la durezza della guerra, dall’altro (contrasto che si risolve sempre a favore delle prime), Gallo in qualche modo supera l’antitesi, affermando che il cattivo comportamento della donna amata può essere compensato dall’ostentazione della pubblica vittoria. eris: i margini di difesa della lezione del papiro erit sono estremamente esili, per cui anch’io ritengo praticamente necessaria la correzione eris; sulla discussione intorno alla lezione di P, difesa da Giangrande 1980, pp. 141 s.; Lee 1980, p. 45; Id. 1982, p. 19; Giangrande 19822, pp. 99-103; Naughton 1981, pp. 111 s.111; Giangrande 1992, p. 105, cf. almeno Barchiesi 1981, p. 154; Mayer 1981, p. 157; Graf 1982, p. 24 e n. 6; Stroh 1983, p. 212 n. 24; Morelli 1985, pp. 145 s.; Nicastri 1995, p. 186, che così chiude la questione: «in tutta quanta la latinità non c’è un solo caso in cui la copula (o verbo copulativo) sia modificata dal nome del predicato quanto alla persona grammaticale»112. Con una buona dose di coraggio (?) Noonan 1991, pp. 118 n. 2, 123 n. 10, 54


preso atto dell’impossibilità di difendere grammaticalmente la lezione erit, ha proposto di spiegarla come il risultato di una sorta di espediente, per cui ad un certo punto, per evitare che gli ascoltatori fossero ingannati dalla recita del v. 3, che alle loro orecchie avrebbe suonato maxime, Romanae parseris historiae («when you will have spared the Roman record, greatest Caesar»), frase che avrebbe potuto involontariamente e maliziosamente alludere ai continui trionfi di Giulio Cesare che i suoi oppositori consideravano essere ottenuti su cittadini romani e non su nemici stranieri, eris sarebbe stato trasformato in erit. L’ipotesi di Noonan è forse il punto di arrivo più grottesco dell’indimostrata e non necessaria tesi della Fairweather, secondo la quale l’epigramma b è animato da una propaganda anticesariana, tesi che fa dire a Noonan anche che nel 46 a.C. qualcuno poteva cogliere un’allusione polemica alle razzie cesariane nella frase non ego . . . quadrupla . . . vereor intendendola come «non ho paura del quadruplice bottino». «Several possibilities – scrive perentoriamente Noonan113 – for anti-Caesarean humor in the lines have yet to be examined fully». historia: «Sebbene la parola abbia un’origine greca» – ha osservato Van Sickle 19812, p. 118 – qui è pienamente appropriata a Roma». Si è molto discusso sul significato del termine, che è stato inteso sostanzialmente in due modi diversi: a. «storia» come «storiografia» (Parsons-Nisbet ed altri); b. «storia» come «eventi storici» (Putnam ed altri). Per Stroh 1983, p. 212 n. 25, i due significati del termine «trapassano certo metonimicamente l’uno nell’altro»; lo studioso ricorda il brano di Cic., De fin. V 2, 5: quacumque enim ingredimur, in aliqua historia vestigium ponimus; e pensa che nel verso di Gallo la parola indichi più esattamente una «storia ancora da scrivere», come nel passo dove Properzio (III 4, 10) imita chiaramente Gallo: ite et Romanae consulite historiae. Secondo lo Stroh, scorgere in historia l’opera storiografica finita di scrivere significa spostare la gioia del poeta in una lontananza difficilmente tollerabile. A mio avviso, questa specificazione può non essere necessaria: secondo il poeta, la futura vittoria dà il posto principale a Cesare in tutta la storia di Roma, vista nella sua universalità, vale a dire passata, presente e futura. Sul dibattito suscitato da historia e dalla sua supposta connessione con legam si veda Morelli 1985, pp. 146 s., e più avanti, comm. al v. 5 e cap. VI. Sulla presenza nella letteratura precedente e contemporanea del legame tra il proprio destino e quello del sovrano e tra la 55

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n. 2.

NOONAN 1991, p. 118


114 Sulla lettura che il Nicastri dà dell’epigramma b, sganciandolo dall’àmbito elegiaco ed inserendolo in quello dell’encomio, si vedano le perplessità espresse da GRAF 1987, pp. 176 s. 115 Sulla tendenza alla rima interna, all’allitterazione ed alla disposizione vistosamente incrociata dei nuovi versi di Gallo rinvio a GALL 1999, pp. 220 s., la quale ha rilevato che esse sono tratti caratteristici anche della Ciris, che perciò, a suo avviso, va considerata stilisticamente affine a tali versi.

propria felicità e quella dell’amata rinvio a Nicastri 1984, pp. 113-116114. maxima: Verducci 1984, p. 135, sulla scia di Van Sickle, ritiene che questa parola, al pari di multorum (v. 4) e deivitiora (v. 5), abbia una valenza «più formale che semantica»: in una tradizione estetica nella quale magnus insieme con ingens e grandis designa le pretese degne di ridicolo, l’uso di questi termini da parte di Gallo sarebbe una virtù e non un vizio «lessicale», dal momento che essi imiterebbero la «tumida imprecisione» alla quale gli Alessandrini ed i neoterici attribuivano l’immortale moda dell’epica. A proposito della particolare disposizione dei termini nel v. 3 Évrard 1984, p. 34, richiama il triplice chiasmo (ll. 6 s.) Thebaide-subacta dell’iscrizione galliana di File. 4 Si è molto discusso sulle assonanze, sul ritmo, sulla scelta delle parole e sulla loro posizione in questo verso. Per il Newman 1980, p. 85, l’omeoteleuto tuum reditum «potius religiosum sapit»; sulla «patina arcaica» del passo cf. Morelli 1985, pp. 147 s.; si vedano anche Putnam 1980, p. 51; Barchiesi 1981, p. 154; Van Sickle 19812, p. 118 e n. 16; Graf 1982, p. 24 e n. 7; Tandoi 1982-1983, p. 28 n. 41. Il Whitaker 1981, p. 88, ha osservato che, alle ll. 2-4, la particolare sonorità delle vocali (fata, Caesar, maxima, Romanae, historiae, multorum deorum) e «l’insistita assonanza» delle u e delle m in tum, erunt, dulcia, quom tu e in tuum reditum multorum templa deorum creano un tono solenne, degno di Cesare115. Per Schoonhoven 1983, pp. 75 s., l’espressione postque tuum reditum, di là dal cambio di soggetto tu (v. 2): legam (v. 5), è da intendere ajpo; koinou~ col v. 3 e il v. 4, ma non mi sembra un’interpretazione necessaria: l’espressione «dopo il tuo ritorno» è funzionale solamente per indicare che il poeta potrà leggere le iscrizioni sulle spoglie depositate nei templi appunto dopo il ritorno di Caesar: fin quando il vincitore non tornerà, questa lettura risulterà impossibile, mentre basterà di per sé la vittoria che egli conseguirà sul nemico a farne il protagonista principale della storia di Roma, indipendentemente dai tempi e dai modi del suo ritorno. 5 La «sorprendente ipallage» templa …/ fixa spolieis è stata compiutamente ed eccellentemente commentata da Morelli 1984, p. 157; Id. 1985, pp. 148-153, che ha rilevato come qui il verbo figo sia usato con la stessa costruzione di Lucr. V 1204 s.: . . . cum suspicimus magni caelestia mundi / templa super stel56


lisque micantibus aethera fixum, che richiama il verso enniano caelum suspexit stellis fulgentibus aptum (Ann. 159 V.2): come il cielo di Lucrezio è trapunto di stelle, così i templi di Gallo sono ricoperti di trofei; in entrambi l’ipallage comunica un senso di «grandiosità e splendore». L’artificio stilistico, «che doveva essere un vezzo di Gallo», di collocare in due versi susseguenti qualificante e qualificato (templa … fixa), sulla base del confronto con una serie di versi della decima Ecloga, è considerato da Puccioni 1981, pp. 311-313, un omaggio di Virgilio al poeta amico. Si è molto discusso sul significato del verbo lego; condivido l’affermazione del Morelli 1985, p. 150, secondo il quale, di là dai problemi posti dall’interpretazione del verbo, legam comunque va considerata lezione esatta e va quindi respinto l’emendamento – per niente convincente e troppo generosamente definito «immetodico» dal Morelli – tegam, suggerito da F. Della Corte alla Senis 1982, p. 61, sulla base del confronto con Verg., Georg. III 13-15; «accogliendo – scrive la Senis – tegam, l’ablativo strumentale spolieis tueis sarebbe riferito per triplice ajpo; koinou~ a tegam (“coprirò di spoglie”) a templa fixa (“i templi affissi di spoglie”) e a templa deivitiora (“i templi resi più ricchi grazie alle spoglie” [. . .] il poeta con i suoi versi potrà ricoprire – e quindi arricchire – i templa multorum deorum con spoglie che, d’altra parte, non sono altro che la materializzazione stessa della poesia»116. Delle tre interpretazioni date al verbo legere (1. «lettura di opere storiografiche»: Parsons e Nisbet in Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 142; Giangrande 1980, p. 147; Id. 1981, pp. 42 s.; Graf 1982, p. 24; Nicastri 1984, pp. 102-107, 116131; Verducci 1984, pp. 133-135; 2. «to scan, survey», vale a dire «passare in rassegna con lo sguardo», «osservare»: Putnam 1980, pp. 49-56; Van Sickle 19812, p. 120 n. 23; Petersmann 1980, p. 1651; Stroh 1983, p. 213 e n. 26; 3. «lettura delle epigrafi apposte sugli spolia»: Mazzarino 1980, pp. 33-50; Newman 1980, p. 86; Barchiesi 1981, p. 154; Whitaker 1981, pp. 89 s.; Sbordone 1982, p. 63; Geraci 1983, p. 99; Schoonhoven 1983, pp. 76-78; Danesi Marioni 1984, pp. 93-98; Morelli 1985, pp. 151-153; Courtney 1993, pp. 265 s.; Cresci Marrone 1993, pp. 142 s.; Pallarès 1995, pp. 169-174) l’ultima appare la più verosimile, alla luce del confronto con passi come Prop. III 4, 15 s.: inque sinu carae nixus spectare puellae / incipiam et titulis oppida capta legam; ed Ovid., Tr. IV 2, 19 s.: ergo omnis populus poterit spectare triumphos, / cumque ducum titulis oppida capta leget117. 57

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Cf. l’espressione di MO1985, p. 150 n. 13 e di DANESI MARIONI 1984, p. 93 n. 21. Oscuro il modo in cui la SENIS 1982, p. 59 indica il Carme De bello Actiaco: «Rep. Herc. 817». 117 Secondo VERDUCCI 1984, pp. 133-135, con historia Gallo allude ad una versione in versi delle res gestae Caesaris: il senso dell’intero epigramma b sarebbe, a suo avviso, il seguente: «Sarò felicissimo di leggere della tua conquista al massimo grado presagibile, dopo che il tuo ritorno trionfale a Roma ispirerà non meno presagibili commemorazioni di essa; ma, per parte mia, io non scriverò intorno alla tua conquista, e anche se desiderassi comporre un carme in tuo onore, non potrei farlo adeguatamente, dal momento che la mia domina come mi ha sconvolto il cuore, così ha corrotto il mio linguaggio poetico». Col successivo, terzo epigramma il poeta aggiungerebbe un’ulteriore sfumatura: «Del resto ciò che io ho scritto è una storia poetica della mia sconfitta d’amore; è la mia domina il mio tema». Mi chiedo, tuttavia, se Gallo abbia effettivamente voluto dire tutto questo. Non convince LUTHER 2002, pp. 3335, secondo il quale Gallo direbbe che leggerà «(in epistole o simili) che sono stati costruiti templi di molti dèi, arricchiti delle spoglie» conquistate da Caesar. Non si giustificherebbe, in questo caso, a mio avviso, deivitiora, cf., a questo proposito, le perplessità di Parsons-Nisbet, in ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 142. RELLI


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Cf. anche SCHOONHO1983, pp. 73-78. Secondo VAN SICKLE 1980, p. 109; ID. 19812, pp. 119-121, l’epigramma b richiamerebbe da vicino Call., Epigr. 14 PF., per una serie di paralleli semantici e strutturali; la dimostrazione dello studioso, tuttavia, non mi sembra del tutto convincente. 119 Secondo la PINOTTI 2002, p. 63, l’epigramma b «costituisce un assaggio del rapporto fra poesia e potere che diventerà un problema centrale per gli elegiaci augustei» anche se «la posizione di Gallo si configura come un tentativo di conciliazione fra negotium e otium elegiaco». Per la studiosa Gallo è «un erede di quegli uomini d’azione come Lutazio Catulo e Calvo che non disdegnavano di alternare attività pubbliche a ozi poetici privati». Per la MAGRINI 1981, p. 7, «forse Augusto voleva fare di lui [i.e. Gallo] il cantore delle sue gesta o forse Gallo stesso se ne sentiva in dovere per i favori ricevuti. Ma il poeta rifiuta questo incarico» perché si ritiene più adatto a scrivere poesia amorosa. Mi sembra sicuramente eccessivo parlare, sia pure in via ipotetica, di «incarico», in relazione al quale non disponiamo di alcun indizio. Nel tentativo di connettere strettamente l’epigramma a con l’epigramma b finisce con l’incartarsi la SALLES 1992, p. 263. VEN

Lo Stroh 1983, p. 214 e n. 34, ha opportunamente osservato che nell’epigramma b Gallo assume per la prima volta la veste – estranea alla poesia greca – di «profeta», veste che poi assumeranno Virgilio nella Ecloga IV; Orazio nel XVI Epodo; Properzio in III 4; II 10, IV 6; Ovidio nell’Ars amandi I 177-228 e nelle Epist. ex Ponto II 1, 55-68; III 4, 89-114. Per la Danesi Marioni 1984, pp. 88-98, l’epigramma «è un primo, fuggevole richiamo al motivo del trionfo», nel quale «è già possibile cogliere il significato politico-religioso dell’istituzione in rapporto con il culto imperiale», motivo che tornerà poi negli elegiaci successivi, specialmente Properzio, Ovidio e l’autore della Consolatio ad Liviam, il quale, come sottolineato già in precedenza da Mazzarino, al v. 267 richiama i vv. 2-5 di P: (Drusus) pars erit historiae totoque legetur in aevo118. Diversamente, invece, Merriam 1990, pp. 448 s., vede nell’epigramma soprattutto il desiderio di Gallo di vivere in pace: a suo avviso, come Properzio (IV 6; III 4), Tibullo (I 10) e Virgilio (Ecl. IV), egli sogna una sorta di età dell’oro caratterizzata dall’assenza di guerre; per Merriam, il legame tra i versi di Gallo e l’Ecloga virgiliana sarebbe dimostrato anche dall’importanza che nel vagheggiato futuro di pace assumerebbe l’azione della lettura: il forogiuliense leggerà nei libri la storia della vittoria di Caesar; in Virgilio il puer leggerà delle eroiche gesta del padre e degli altri eroi (vv. 26-30: At simul heroum laudes et facta parentis / iam legere et quae sit poteris cognoscere virtus, / molli paulatim flavescet campus arista / incultisque rubens pendebit sentibus uva / et durae quercus sudabunt roscida mella.). Per la verità niente nell’epigramma di Gallo fa pensare al desiderio che le guerre finiscano e cominci un periodo di pace: il poeta è tutto proteso verso l’esaltazione del significato che la futura vittoria avrà per Caesar: il suo destino diventerà dolce quando questi diventerà protagonista della storia di Roma. È certamente possibile che anche un uomo d’armi come Gallo desiderasse, come pensa Merriam, la fine delle guerre e l’inizio di un periodo di pace per godersi la compagnia della sua donna; tuttavia non mi pare questo il sentimento dominante dell’epigramma119. Inoltre che il poeta leggerà i libri di storia o le dediche votive sulle spoglie tolte ai nemici (quale che sia la giusta interpretazione da dare a legam di v. 5) mi sembra cosa diversa dal fatto che il puer leggerà le gesta del genitore e degli eroi: nel primo caso si tratta del momento in cui la felicità del poeta si realizzerà pienamente di fronte alla concreta 58


testimonianza della grandezza del vincitore; nel secondo la lettura contrassegna un momento dello sviluppo del puer verso l’età adulta. Opportuna l’affermazione di Tandoi 1982-1983, p. 14, secondo il quale in questo epigramma si coglie un mutato atteggiamento nei confronti del potere politico rispetto a Cat. 93 (Nil nimium studeo …), un cambiamento che è «il maggior indizio da ‘Weltanschauung’ neoterica». 6 . . . . .] . . . i \ . : le tracce residue sono alquanto sbiadite e, immediatamente prima della T di tandem, molto confuse. La proposta migliore di Parsons-Nisbet, haec] Latiae, è paleograficamente poco probabile, dal momento che, come essi ammettono, a parte la difficoltà della presenza di una E di piccolo formato e corsiva scritta a ridosso della A (correzione verosimilmente di una seconda mano), questa stessa A sarebbe troppo a ridosso della I e la traccia residua sùbito dopo la lacuna «è troppo stretta» per essere l’estremità superiore della L; inoltre, se la linea cominciava alla medesima altezza della l. 2, lo spazio residuo, come essi stessi ammettono, sarebbe eccessivo per l’ipotesi haec. Rileverei, da parte mia, che anche lo spazio tra la L e la T non sarebbe sufficiente per una A120. Più sostenibile, almeno paleograficamente, la lettura suggerita ai due editori da P.G. McC. Brown: haec mih]i \ vi\ x\ \ (oppure en mih]i \ vi\ x\ \): nella confusa massa di inchiostro a sinistra della T di tandem potrebbe nascondersi una X, ma anche questa lettera verrebbe a trovarsi troppo legata alla precedente I. Sulla base del fatto che all’inizio del verso «eine Form von mihi scheint nötig», Graf 1982, p. 24, ha apprezzato la proposta haec mih]i vix121, che, tuttavia, secondo Morelli 1985, p. 154, «se ha dalla sua parte l’accenno al ben noto canone alessandrino, catulliano e neoterico del labor limae [. . . ] non è ben commisurata all’ampiezza della lacuna del papiro (per colmare la quale occorre un numero minore di lettere) e stride con l’ambizioso vanto del non vereor al verso successivo, pur di fronte a giudici severi»122. Quest’ultima obiezione potrebbe non essere insormontabile; quanto all’ampiezza della lacuna, essa, come ho già osservato, doveva originariamente contenere dalle 5 alle 6 lettere: che ne siano cadute 7 è meno probabile, ma non impossibile. Il Morelli esclude per ragioni di stile qualsiasi ricostruzione che «preveda monosillabi interiettivi, parole brevi e slegate dal resto della frase» e, perciò, respinge ipotesi come 59

120 Non convince la lettura di NOONAN 1991, pp. 121 s. [pauca deae] tandem fecerunt carmina Musae («the addition of pauca not only makes an appropriate, elegiac response to the laudatory, epic words such as maxima, multorum, and diuitiora». In realtà l’integrazione va contro le tracce residue ed inoltre è assai fragilmente fondata sull’interpretazione dei due epigrammi come canti amebei. 121 Il Graf trova interessante anche l’ipotesi Mi gracil]eis di LEE 1980, p. 45 (fondata su Prop. II 13, 3), ma riconosce che essa non rispetta le tracce di P. Di questa situazione è comunque consapevole il Lee, che in alternativa propone anche nam mih]i vix. La congettura Mi gracil]eis è giudicata interessante da LIEBERG 1987, p. 527. Da ricordare la proposta di LUPPE 1990, p. 47: [Haece mi]h\i\ tandem fecerunt c[ar]mina Musae, fondata sull’esame delle fotografie di P contenute nell’editio princeps. A suo avviso, Haece avrebbe il pregio di accennare in maniera più precisa ai carmina, che altrimenti rischiano di restare poco determinati. 122 Anche il Morelli trova poco verosimile sul piano paleografico Mi gracileis di Lee.


123 Suggerita da Parsons e Nisbet; cf. HINDS 1984, p. 49. Tale integrazione è accolta da SBORDONE 1982, p. 66. 124 MORELLI 1985, p. 153. 125 Appena da ricordare la proposta di NEWMAN 1980, p. 94: Interea haec, giudicata dal MORELLI 1985, p. 155, troppo lunga per l’ampiezza della lacuna e viziata dalla tendenza a considerare i versi del papiro come un unico carme. 126 Sul problema della datazione dell’epigramma b cf., più avanti, il cap. VI. 127 In ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 143. Anche per il MORELLI 1985, p. 153, «d’un attributo che precisi il carattere dei carmina non si sente il bisogno».

en mihi iam123 oppure en mihi vix, che configurerebbero un verso nel quale nessun termine sarebbe concordato con un altro, «trascuratezza inammissibile per un poeta [. . .] sempre vigile nella tecnica dell’ordo verborum ad incastro». Per il Morelli124, in definitiva, nessun tentativo di restauro della parte iniziale di questo verso «si impone nettamente», per quanto egli sia convinto che per la sua ricostruzione ci sia «spazio solo per alcune poche ipotesi, tra le quali la più interessante è quella che prevede un epiteto atto a qualificare il forse troppo generico Musae di fine verso»; decisamente preferibile, per lo studioso, una delle ipotesi avanzate dai due primi editori, Casta]liae, a favore della quale egli ricorda, tra l’altro, Prop. III 3, 13, dove Apollo dalla fonte Castalia richiama Properzio alla tenue poesia d’amore. Resta l’inverosimiglianza paleografica125. In ultima analisi mi pare di poter dire che l’esame dell’originale confermi l’opinione di Parsons e Nisbet, secondo i quali lo scriba, o un correttore, potrebbe essere intervenuto sull’ultima lettera della parola prima di tandem, apportando un cambiamento che adesso non si riesce assolutamente ad individuare. Non del tutto da escludere la possibilità che con questo intervento di correzione si sia voluto eliminare la lettera scritta precedentemente, cosa che spiegherebbe l’ammasso confuso di inchiostro che si nota nell’ingrandimento fotografico; se così fosse, acquisterebbe una qualche verosimiglianza l’integrazione, proposta da Mazzarino 1982, pp. 328 s., [cuncta mihi] tandem, che, ammessa la correzione prima di tandem, non violerebbe le tracce; andrebbe comunque scritta [cuncta m]ihi. Per il Mazzarino, cuncta insieme con il tandem indicherebbe che «le Muse, finalmente, han dato conclusione a una serie di carmi», degni di Licoride, dopo «un lungo periodo di operosità poetica»: le due espressioni confermerebbero che i carmi del papiro sono tra quelli finali degli Amores di Gallo, come già pensavano i primi editori; in particolare esse confermerebbero la datazione al 32 a.C. proposta dallo stesso studioso per l’epigramma b, che invece Parsons-Nisbet fanno risalire agli anni 45-44 a.C.; il Morelli 1985, p. 181, ha tuttavia obiettato che il linguaggio dell’epigramma c «mal si attaglierebbe al Gallo maturo»126. Al di là del problema della datazione degli epigrammi, l’integrazione [cuncta m]ihi, se si ipotizza la presenza di una correzione sùbito dopo, potrebbe essere presa in considerazione, sebbene i primi due editori scrivano che qui «an epithet is unnecessary and perhaps undesiderable when quae possem characterizes the poems»127. 60


Il Nisbet128, sul fondamento di Prop. II 1, 3 s. (non haec Calliope, non haec mihi cantat Apollo. / Ingenium nobis ipsa puella facit) e Mart. VIII 73, 6 (ingenium Galli pulchra Lycoris erat) ed alla luce della connessione tra il nome Lycoris con Lycoreia (luogo del Parnaso) e Lycoreus (epiteto di Apollo), ritiene che Gallo possa aver considerato la propria domina fonte di ispirazione poetica non meno delle Muse, una vera e propria «nuova Musa del Parnaso». Il D’Anna129 ha però osservato che il fatto che al v. 6 Gallo affermi che sono state le Muse a fare per lui i versi contraddice un tale atteggiamento: a suo avviso è perciò possibile, analogamente allo stesso Properzio (III 3; IV 1, 132-142) e a Catullo (65, 3-4; 68, 41-46), che Gallo nell’àmbito della propria opera poetica abbia configurato il suo rapporto con le Muse in modo diverso. Secondo Parsons e Nisbet130, in un contesto centrato sul concetto che “le Muse danno al poeta abilità tecnica ed ispirazione” l’espressione fecerunt non è usuale; Keefe 1982, pp. 237 s. e Manzoni 1995, p. 76 hanno però richiamato l’attenzione sul verso di Euforione (fr. 118 Powell): Mou~sai ejpoihvsanto kai; ajprotivmasto" ”Omhro", che, al di là di come continuasse131, potrebbe testimoniare un’allusione di Gallo ad Euforione; secondo Keefe, il verso è un ulteriore esempio, comunque, dell’insolita relazione tra le Muse ed il poeta: «cooperazione piuttosto che ispirazione», rintracciabile anche in altri poeti132. Perplessità sulla validità del confronto con Euforione proposto da Keefe ha espresso Courtney 1993, p. 266133, per il quale di solito sono le Muse che ispirano il poeta, ma è il poeta che compone poesia: a suo avviso, la difficoltà può essere superata se si integra il verso nel modo seguente: condere me tandem fecerunt carmina Musae: «The Muses have effected that at last I compose poetry worthy of Lycoris»; ma, a parte il fatto che le tracce residue sul papiro non consentono una tale ricostruzione (in ogni caso suggerita da Courtney exempli gratia), non è forse necessario separare fecerunt da carmina: «che le Muse stesse ‘facciano’, compongano i carmina del poeta elegiaco è una autoesaltazione comprensibile», secondo il Mazzarino 1980-1981, p. 23 n. 44, che ricorda Hor., Carm. IV 3, 21-24; Epist. II 2, 91 s. Sul motivo delle Muse non più ispiratrici, ma addirittura autrici del componimento poetico, che il poeta a sua volta recita, si vedano almeno Lieberg 1987, pp. 527-544 (il quale ha ben dimostrato che si tratta di una concezione propria della poesia ellenistica e romana134) e, con un’analisi della precedente bibliografia, Manzoni 1995, pp. 74-79. 61

128 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, pp. 148, 151. 129 D’ANNA 1980, pp. 77-79. 130 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 144. 131 Keefe suggerisce, ex. gr., ajoidhvn. B.A. VAN GRONINGEN, Euphorion, Amsterdam 1977, p. 189, pensa a qualcosa come to;n dei~na kleinovn. 132 Cf. in proposito, oltre a KEEFE 1982, p. 238, HOLLIS 1980, pp. 541 s. 133 Per il fatto che non conosciamo quale fosse l’oggetto di ejpoihvsanto. Non esclude che Gallo abbia voluto imitare l’espressione di Euforione NOONAN 1991, p. 119 n. 5. 134 Molto finemente LIEBERG 1987, p. 543, osserva che nei vv. 6-7 di P i due termini più importanti sono i sostantivi Musae (che hanno composto i carmi del poeta assicurando ad essi la perfezione) e domina (che col suo giudizio conferma tale perfezione): mentre la loro importanza è sottolineata dalla loro posizione enfatica nell’esametro e nel pentametro, il ruolo secondario del poeta (che si limita a recitare i carmi) viene più discretamente affidato a possem (forma verbale significativamente chiusa tra i sostantivi Musae e domina) e a mea, aggettivo, quest’ultimo, che comunque fa ancora avvertire la presenza della domina, la quale, d’altra parte, attraverso l’allitterazione della d in domina, deicere e digna «domina tutto il verso». Lo stesso Lieberg (pp. 539 s.) ritiene che la concezione della poesia come prodotto delle Muse, che il poeta si limita a recitare, si rinviene anche in Catalepton IX 7-8, dove di Messalla autore di carmi greci si dice che è degno di declamare i canti delle Muse: Nec minus idcirco vestros expromere cantus / maximus et sanctos dignus inire choros. Per lo studioso, è possibile che l’autore del Catalepton alluda ai versi del papiro.


135 Il fenomeno è presente anche nell’altro pentametro a noi pervenuto di Gallo (fr. 1 MOREL). 136 Anche COURTNEY 1993, p. 267, preferisce intendere deicere digna «call worthy»; a suo avviso Virgilio, quando scrive in Ecl. X 2 s. pauca meo Gallo, sed quae legat ipsa Lycoris, / carmina sunt dicenda, può avere avuto in mente il brano di Gallo, ma l’espressione dicere digna resta a suo avviso banale e, contrariamente a quanto affermato da HINDS 1983, pp. 43-54 (che parla di una stretta relazione tra l’espressione carmina digna di Gallo e quella identica adoperata da Ovid., Am. I 3, 19 s. e Met. V 344 s.), egli non ritiene si debba dare eccessivo peso al fatto che ricorra in altri poeti augustei. Non convince per niente la tesi, molto speculativa, se non vagamente cervellotica, di MORGAN 1995, pp. 79-85, che spiega la grafia deicere sostenendo che con essa il poeta ha inteso conseguire un determinato effetto artistico: «Quando Gallo afferma che ora possiede carmi che egli può deicere in quanto degni della sua signora, mette furtivamente in relazione la sua produzione di poesia amorosa» con i miti di Milanione e Acontio, che, lanciando loro dei pomi vinsero la resistenza delle due donne da essi amate. Saremmo in presenza di un «gioco di parole», basato sull’uso di una grafia che contemporaneamente dà al verbo il valore di «dire» (dicere) e quello di «gettare, lasciar cadere giù» (de-icere), a richiamare, con quest’ultimo, l’azione dei due corteggiatori ai quali in qualche modo Gallo si paragonerebbe. Sulla tesi di Morgan, cf. l’espressione di GALL 1999, p. 220 n. 2.

Questo studioso rileva che anche nelle due ultime ecloghe virgiliane le Muse sono ispiratrici e protettrici della poesia; a suo avviso l’origine del motivo sarebbe in Teocr., Id. VIII 37-41, al quale, più che a Gallo, si rifarebbe il Mantovano: Gallo, secondo il Manzoni, innoverebbe il motivo «nel momento in cui attribuisce alle Muse la creazione poetica diretta e quando aggiunge la precisisazione che i carmina devono essere degni della domina» (p. 78); Licoride, «donna sacra ad Apollo e alle Muse ha evidentemente criteri raffinati di giudizio, nella valutazione di un’ars esibita dal poeta, pena il diniego o il mancato proseguimento nella lettura dei carmina» (p. 79). Secondo il Morelli 1999, p. 72, l’antico motivo della poesia prodotta dalle Muse «in epoca augustea [. . .] diviene espediente per identificare e connettere il momento creativo [. . .] e quello legato alla ricezione e circolazione del libro»; e vi si ricorre «per esaltare il prestigio culturale della committenza e dei dedicatari». In particolare Gallo, per il Morelli, intende sottolineare che il lavoro delle Muse serve sia a celebrare degnamente l’amata sia a nobilitare la vera e propria recita dei versi, vale a dire «la “performance” del poeta di fronte a lei, come un tempo dinanzi ai sovrani ellenistici». 7 Nel verso non c’erano significative incertezze di lettura; comunque l’autopsia dell’originale ha prodotto qualche lievissimo progresso. Anche in questo pentametro, come negli altri quattro del papiro, prevale la predilezione prettamente neoterica di Gallo per la disposizione alternata, secondo lo schema “abab”, di due coppie di parole concordate, una delle quali ha un elemento alla fine di ciascun emistichio135; cf. in proposito almeno Van Sickle 19812, p. 117 n. 8; Morelli 1985, pp. 155 s. Sulla patina arcaica conferita all’espressione dalla già ricordata triplice allitterazione domina deicere digna rinvio allo stesso Morelli 1985, p. 156. Parsons e Nisbet ritengono, a mio avviso giustamente, che l’espressione deicere digna non può significare «call worthy», dal momento che un tale significato implicherebbe un’eccessiva limitazione del ruolo del poeta (le Muse hanno composto i versi e Gallo si limita a considerarli «degni»), ma «utter as worthy», vale a dire «esprimere come degni»; non convince Whitaker 1981, p. 90, per il quale una tale interpretazione non necessariamente ridurrebbe la dignità del poeta, dal momento che Gallo non distinguerebbe nettamente l’attività delle Muse e la sua propria136. Poco persuasivo riesce, ancora, il Whitaker (ibidem, p. 90), quando scrive che digna ha un valore, non, come 62


ritengono Parsons e Nisbet, generico, bensì specifico: il poeta, avendo glorificato Caesar, riterrebbe che a questo punto i suoi versi sono veramente degni della propria amata. Secondo lo Stroh 1983, p. 235, l’espressione potrebbe avere in sé due significati, tali da non necessariamente escludersi: a. i carmi sono degni della domina, se le rendono giustizia (analogamente in Ovid., Amores I 3, 19 s.: Te mihi materiem felicem in carmina praebe: / provenient causa carmina digna sua.); b. i carmi sono degni della domina, se corrispondono al di lei particolare senso dell’arte (analogamente in Culex 8-10: Posterius graviore sono tibi musa loquetur / nostra, dabunt cum securos mihi tempora fructus, / ut tibi digna tuo poliantur carmina sensu.); per lo studioso, i due significati rientrano agevolmente nella sfera della poesia elegiaca, anche se il secondo può agganciarsi al fatto che, nella realtà storica, Licoride fosse attrice e cantante e, perciò, dotata di sensibilità artistica. Giangrande 19821, pp. 92 s., in polemica con Van Sickle 19813, p. 126, ha insistito sul fatto che Gallo non avrebbe potuto chiamare mea una donna che non gli apparteneva più, circostanza che a suo avviso confermerebbe che l’autore dei versi non è il poeta forogiuliense. A mio avviso, di là dalla condotta di Licoride, che gli ha reso triste l’esistenza, Gallo può ben chiamare mea la donna di cui comunque è innamorato e che elegiacamente considera ancora sua137. Per il riecheggiamento dell’epigramma b e dei primi due versi dell’epigramma c in Properzio II 1 e III 4 rinvio a Nisbet in Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 152; Putnam 1980, pp. 4956; Miller 1981, pp. 173-176; D’Anna 1986, p. 53; Tränkle 1986, pp. 159 s. Sul tema del servitium amoris, presupposto dall’espressione domina di I 7, quale condizione esistenziale in cui assolutamente totalizzante è il ruolo dell’amata, contrapposto all’estrema debolezza dell’amante, rinvio a R.O.A.M. Lyne, Servitium amoris, «CQ» N.S. 29 (1979), pp. 117-130; Conte 1984, pp. 19-38; Stroh 1983, pp. 227 s.; Garbarino 1987, pp. 169-193138; P. Militerni Della Morte, L’elegia II 4 di Tibullo e il servitium amoris, «Boll. St. Lat.» 18 (1988), pp. 3-18; Courtney 1993, p. 267 e Manzoni 1995, pp. 80-84, che ne rileva «le attestazioni maggiori e più esplicite» in Tibullo (III 19, 19-23) e Properzio (I 5, 19-22). Il Manzoni non condivide del tutto la tesi di Lyne, secondo cui il motivo del servitium amoris ha un’origine latina ed in particolare properzia63

137 Non necessaria la spiegazione che GRIFFITH 1991, p. 69, scova per giustificare il contrasto tra il tono del v. 1 e quello del v. 7. 138 Incomprensibilmente la Garbarino (pp. 170 n. 4, 176 n. 23) chiama frammenti i singoli versi del papiro.


139 F. JACOBY, Zur Entstehung der römischen Elegie, «RhM» 60 (1905) pp. 67-81. Cf. anche MAGRINI 1981, pp. 1-14; CONTE 1984, pp. 37 s. ed ÉVRARD 1984, p. 35. Si veda altresì l’espressione di DIMUNDO 1996, p. 145. Secondo NEWMAN 1984, pp. 19-29, la poesia di Gallo quale appare da P è soprattutto di ispirazione politica; cf. in proposito GALL 1999, p. 235 n. 57. 140 Su questa lettura cf. BARCHIESI 1981, p. 155. Sul problema si veda anche WHITAKER 1981, pp. 87-96; ID. 1983, pp. 55-60. 141 LEE 1980, pp. 45 s. propone ipsa modo fateatur. Cf. MORELLI 1985, pp. 157 s. Sulla proposta di ricostruzione dei vv. 8-9 avanzata da MAZZARINO 1982, pp. 325, 327 n. 23, si veda più avanti.

na, e ritiene che esso sia «riconducibile alla poesia alessandrina per l’idea della servitù all’amore, ma […] innovato nella produzione latina per l’aggiunta del concetto di servitù nei confronti della persona amata»; per il Manzoni tanto la denuncia della nequitia di Licoride quanto l’appellativo di domina dimostrano che già in Gallo sono presenti «gli elementi strutturali del codice elegiaco», circostanza che, secondo lo stesso Manzoni e lo Stroh, consente di considerare inequivocabilmente che è Gallo il «capostipite» dell’elegia erotica augustea, secondo la vecchia intuizione di F. Jacoby139. A proposito del servitium amoris Newman 1999, p. 194, ha osservato che la presenza del termine domina in Gallo è «interessante», tuttavia a suo avviso ci sono delle testimonianze dell’esistenza di questo motivo già nella letteratura greca, come Isocr., Enc. Hel. 57; Menand., Dis Ex. 24; Dysc. 3, 568 s.; lo studioso lascia intendere che Properzio potrebbe avere attinto il tema proprio da Menandro e si chiede se Gallo conoscesse il commediografo. Ma anche ammesso che il motivo sia nato in Grecia, è certo che a Roma esso diviene elemento principale della poesia erotica. Non ritiene che si possa parlare con sicurezza del tema del servitium amoris in Gallo la Pinotti 2002, p. 64. 8 . . . . . . . . . . . .] . a\tur: Parsons-Nisbet propongono due possibili letture: quodsei iam vid]eatur140 idem tibi oppure quae si iam tes]tatur (o confit]eatur) idem tibi, con una preferenza per la seconda. Rilevo che se la traccia prima della A è, come sembra, inchiostro (e non fango), essa è compatibile più con una E che con una T (cf. tavv. 58-59); di conseguenza sarebbe paleograficamente preferibile l’integrazione videatur o confiteatur, ma quest’ultima porterebbe ad una linea eccessivamente lunga. A mio avviso anche il contesto lascia preferire la lettura quodsei iam vid]eatur idem tibi141. Infatti, come ben rileva il Morelli 1985, pp. 157 s. in relazione all’ipotesi quae si iam tes]tatur (o confit]eatur) idem tibi, non convince – nonostante la spiegazione del Lee – l’idea di una Licoride che dovrebbe attestare la validità dei carmi di Gallo presso il critico Visco, circostanza mai riscontrata nell’elegia. Visce: come ho già detto nell’apparato paleografico, l’autopsia di P mi ha portato ad escludere con sicurezza la lettura vesce, non del tutto esclusa da Parsons-Nisbet. Vere e proprie aberrazioni le proposte del Newman 1980, pp. 92 s., che suggerisce, tra l’altro, di apporre la crux accanto a visce (o vesce) o, ad64


dirittura, di correggere visce in disce e di restituire nel seguente, improbabile modo i vv. 8-9: Si Caesar, videatur idem tibi, non ego (disce!)/ Ne legat illa Cato, iudice te, vereor142. Anche sulla V di VISCE non possono esserci dubbi143. Si tratta certamente di uno dei due fratelli Visci, poeti ed influenti critici letterari menzionati da Orazio, Sat. I 10, 83144, verso il 35 a.C. o poco dopo145. Lo pseudo-Acrone commentando il passo ricorda che erano figli di Vibio Visco, appartenente all’ordine dei cavalieri e legato da vincoli di amicizia con Augusto. La famiglia era probabilmente originaria della Gallia Cisalpina; il padre è ricordato dallo stesso Orazio, Sat. I 9, 22-23146. 9 ]m\ plakato: è uno dei luoghi di P che hanno fatto più discutere. Le varie ricostruzioni proposte da Parsons-Nisbet partono dalla presenza “sicura” del vocativo Kato, nel quale essi individuano P. Valerio Catone, poeta originario probabilmente della Gallia Cisalpina e, soprattutto, critico letterario, particolarmente influente nella Roma della I metà del I sec. a.C. ed ammirato dai rappresentanti del movimento neoterico (cf. in particolare Suet., Gramm. 11 e Parsons-Nisbet, in AndersonParsons-Nisbet 1979, pp. 146 s.)147. Per i due editori, la sua presenza nel papiro di Gallo conferma quanto in passato una parte della critica aveva già sostenuto, vale a dire che Catone può essere considerato «the moving spirit behind the whole neoteric movement». La lettura che Parsons-Nisbet considerano più rispettosa delle tracce residue, non quad]rupla, Kato, iudice te vereor («non ho paura, essendo tu il iudice, o Catone, delle quadruplici penalità»: Gallo dichiara di non aver paura di incorrere in sanzioni per eventuali accuse di plagio, una volta che venga riconosciuto che ad ispirarlo sono state le Muse), come essi stessi rilevano, lascia perplessi sia per il doppio allungamento in positio debilis sia perché il riferimento alla sfera tecnico-giuridica, per quanto in qualche modo spiegabile, «rimane oscuro»148. Ancora più improbabile i due studiosi ritengono giustamente la ricostruzione [non, quad]ruple Kato, iudice te, vereor (anche se a loro avviso la -e finale è forse paleograficamente più verosimile della -a), dove quadruplus potrebbe riferirsi al grammatico visto “quattro volte” più severo di Catone il Censore149. La lettura ] . VLLA[·] delle tracce a sinistra di KATO, non esclusa dai due editori, permetterebbe, a loro avviso, ipotesi come [non vetera] ulla, Kato; [non Graeca] ulla, Kato; oppure, ma meno verosimilmente, [non scripta] ulla, Kato : «ideally – scrivono Parsons e 65

142 Cf. anche NEWMAN 1984, pp. 27 s., dove si insiste sulla necessità di integrare a v. 8 sei Caesar, dal momento che «no one is really good enough to fill the bill, and Caesar is certainly invoked as iudex of literature by both Horace and Ovid». 143 Sull’emendamento proposto da Newman cf. l’espressione di MORELLI 1985, p. 160 e MANZONI 1995, p. 87. Perplessità esprime in proposito anche la MAGRINI 1981, p. 13 n. 15, la quale ritiene comunque che il Newman abbia «efficacemente» ricostruito ed interpretato i versi di P. 144 Cf. Parsons e Nisbet in A NDERSON -PARSONS -N ISBET 1979, p. 145; WHITAKER 1983, pp. 55-60; NICASTRI 1984, p. 16 n. 4; VERDUCCI 1984, p. 127 n. 16; MANZONI 1995, pp. 89 s. 145 Cf. MAZZARINO 1982, p. 327 n. 23. 146 Cf. anche MANZONI 1995, p. 89. 147 Su Gallo e Valerio Catone cf. WHITAKER 1983, pp. 55-60. 148 Perplessità anche in STROH 1983, p. 236. 149 VERDUCCI 1984, p. 123, suggerisce di accogliere l’integrazione quadruple Kato riferendo l’espressione «quattro volte Catone» allo stesso Visco: «If it (idem) now also seems to you (Viscus) that these poems are worthy of Lycoris, then I do not fear (i.e. for my reputation as a poet) even were you – fourfold Cato though you are – the judge of my poems». Ma, come osserva giustamente il MORELLI 1985, p. 159, seguendo tale ipotesi, «assai problematico diventa il restauro complessivo». Ricordo anche la proposta di NOONAN 1991, pp. 122 s.: [dicere, si vide]atur idem tibi, non ego, Visce / [nunc quadr]upla, Cato, iudice te uereor. Noonan traduce «now I am not afraid to set fourfold penalties/to recite


four times as many songs, Viscus, if the same (course of action) should seem right to you, as long as you are the judge, Cato». A suo avviso, infatti, dicere di v. 8 è ambiguo: se significa «recitare» allora quadrupla si riferisce al precedente carmina (recitare quattro volte i carmi oppure tanti carmi); se significa «prescrivere» una regola o un punizione, quadrupla vale «quadruplice penalità». Mi domando che senso abbia proporre un’integrazione di per sé non univoca. 150 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 146. 151 Parsons e Nisbet, ibidem. 152 Cf. Parsons in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, pp. 134 e n. 77, 146. Si veda anche GRIFFITH 1988, p. 67. 153 «If she [Lycoris] tells Viscus and Cato in person (ipsa) her presence and her literary expertise will bowl these severe critics over and they will unable to make any adverse criticism» (LEE, ibidem, p. 46). 154 Sulla ricostruzione di Nicastri, accolta anche da AMATO 1987, p. 327, cf. MORELLI 1985, p. 158, il quale ribadisce quanto, sulla scia di Parsons e Nisbet, da lui già affermato insieme col Tandoi (MORELLITANDOI 1984, pp. 102 s. e n. 5; MORELLI 1984, p. 155), vale a dire che non ego «quasi certamente» ricorre in inizio di frase; cf. anche l’espressione di GRAF 1982, p. 24; ID. 1987, p. 176 e PINOTTI 2002, p. 64. 155 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, pp. 144-146. I due studiosi, come si è già detto, propongono anche [quodsei iam vide]atur idem tibi, non ego, Visce, / [non Graeca] ulla, Kato, iudice te vereor.

Nisbet150 – would like a reference to a rival poetry-book»; in qualche modo possibile, secondo loro, anche l’integrazione non Serp]ulla, Kato: le piante di timo sarebbero «a humorous allusion to the homeliness of the Bucolics (2.11: alia serpyllumque herbas contundit olentis), or even the title of Vergil’s earliest collection, indicating rusticity, fragrance, humilitas, and inconsequentiality (from serpere)»151. «Molto ingegnosa» Parsons e Nisbet considerano l’alternativa, loro suggerita da G.O. Hutchinson, di scrivere plakato iudice te, a cui tuttavia essi oppongono difficoltà non tanto di tipo ortografico (la forma -ka- «è in sé perfettamente possibile», come mostrano le testimonianze raccolte in Dessau, ILS III 2, p. 823: il ricorso alla K prima della A continuò fino al II d.C. almeno nei nomi propri e in un limitato numero di parole di uso comune152) quanto relative all’ordine delle tre parole, che, a loro avviso, non potendo andare insieme, potrebbero suggerire solo una ricostruzione del tipo sei Caesar testatur idem tibi, non ego, Visce, / Caesare plakato iudice, te vereor, ma sarebbe «molto artificiale» separare te da iudice e, inoltre, plakato non si accorderebbe bene con la funzione di arbitro dello iudex. Altre proposte, pur saldamente centrate sulla presenza del nome Kato, si sono ancorate alla lettura ] . VLLA[·], per esempio: [ipsa modo fate]atur idem tibi non ego Visce / [non theta] ulla Kato iudice te vereor, Lee 1980, p. 45, che traduce «Only let herself confess the same you, (and) I do not, Viscus, I do not, Cato, fear any thetas, though you are judge»153; [quodsi nunc vide]atur idem tibi, non ego, Visce, / [scribere] iam nulla Kato, iudice te vereor; oppure [quodsi nunc vide]atur idem tibi, non ego, Visce, / [scribere] nulla, Kato, iudice te vereor (Sbordone 1982, p. 66, che traduce: «che se ora lo stesso sembra a te, o Visco, o Catone, nulla temerò di scrivere di fronte al vostro giudizio» e ritiene che scribere «si giustifica come contrapposto a dicere: dire i versi in onore della domina di cui sono degni è azione analoga, di fronte ai critici come interlocutori, al metterli per iscritto e sottoporli al loro giudizio»); [quae mihi si test]atur idem, tibi non ego, Visce / [cedam, n]ulla, Kato, iudice te vereor (Nicastri 1984, p. 95, che traduce «E se ella attesta a me la stessa cosa, i.e. che i miei carmi sono degni di lei, davanti a te io, o Visco non mi ritirerò, nulla, o Catone, ho da temere se sei tu a giudicare»)154; [quodsei iam vide]atur idem tibi, non ego, Visce, / [non vetera] ulla, Kato, iudice te vereor, suggerita da Parsons-Nisbet155; [quodsei iam vide]atur idem tibi, non ego, Visce, / [non veterum] ulla, Kato, iudice te vereor (Tandoi 1985, p. 115 e n. 10, con riferimento ai 66


veteres auctores di cui in Hor., Sat. II 6, 61; Epist. II 1, 37 ecc.156); \ tur idem tibi, non ego, Visce, / [non (ego), – ∪] [Si, Caesar, vid]ea Kato, iudice te vereor di Luppe 1990, p. 47. Luppe non ritiene che l’epigramma sia indirizzato ai due critici letterari, perché tra l’altro tibi è troppo distante da Visce, e perciò aggiunge ai vv. 8-9 un terzo vocativo: Caesar, il destinatario dell’epigramma b, al quale anche il carme c sarebbe dedicato, circostanza possibile, data l’evidente connessione tra i tre epigrammi superstiti (c’è però da chiedersi se sia legittimo vedere nel Caesar un giudice di poesia amorosa e se tre vocativi non “affollino” troppo il terzo carme). Da ricordare anche tre integrazioni che, considerando Kato nominativo, evitano la difficoltà del doppio vocativo e del riferimento di tibi a Visce e a Kato: la prima è [quae volt d]upla Kato, Hollis 1980, pp. 541 s., che ripropone col concetto della «duplice penalità» l’aggancio alla sfera tecnico-giuridica: a suo dire, Kato potrebbe essere identificato con il Censore o il padre dell’Uticense. Quest’ultima integrazione non ha avuto molta fortuna, cf. Graf 1982, p. 25 («das geht paläographisch gut, zieht ausserdem an dadurch, dass das folgende te nicht zu sehr belastet wird»); Stroh 1983, p. 236; Morelli-Tandoi 1984, p. 106 n. 13; Nicastri 1984, p. 95 n. 15; Morelli 1985, p. 159 («tentativo ingegnoso, ma per simile metafora mancano in realtà paralleli validi»). Lievemente possibilisti Petersmann 1983, p. 1650, per il quale, comunque, è difficilmente possibile integrare i vv. 8-9 in maniera soddisfacente, e Koenen in KoenenThompson 1984, p. 143 n. 79. «Che Gallo potesse alludere all’ormai defunto Catone Uticense, suicida nel 46 a.C.» è opinione di Traina 1994, p. 117, per il quale Gallo, «evocando la sua resistenza contro i nuovi gruppi politici che usavano la luxuria, simboleggiata dalla spudoratezza delle mime in teatro», avrebbe irriso «la morale “benpensante” di Catone, avversario autorevole ma impotente di un mondo in cui una semplice mima poteva, sia pure nel gioco delle parti dell’elegia erotica, trasformarsi in una domina». Traina ricorda la ricostruzione dei vv. 8-9 proposta da Nicastri. Ma poteva Gallo rivolgersi direttamente ad un defunto e dirgli che non temeva il suo giudizio? Queste le altre due integrazioni: [quodsi iam vide]atur idem tibi, non ego, Visce, / [quae canit] ulla (carmina) Kato, iudice te vereor («If you, Viscus, agree with my judgement of the quality now at last attained by my poetry, then I need not fear comparison with that of Cato» (Courtney 1993, p. 268); [quodsei iam vide]atur idem tibi, non ego, Visce, / [ne legat illa] Kato, iudice te vereor (L. Gamberale157). Non rinuncia al doppio vocativo 67

156 Il Tandoi considera questa integrazione oppure l’altra proposta da Parsons-Nisbet, non vetera, le più verosimili; altre, come non Graeca, non lyrica a suo avviso vanno escluse, perché «suonerebbero sfida troppo spavalda, coinvolgendo maestri greci». Secondo lo studioso, nel suo disprezzo nei confronti dei veteres Gallo «sembra ben consapevole di portare avanti istanze dei neoterici, di aver raggiunto il massimo traguardo che secondo la loro estetica era possibile prefiggersi»; egli «avrà inteso sollecitare in primis il confronto con Lucilio, nella piena consapevolezza di tener fede, superandolo, a dettami della nuova arte propugnata da Valerio Catone»; in definitiva, proprio questi due versi ci mettono «in grado di valutare ancor meglio la portata della rivoluzione neoterica». Sull’integrazione del Tandoi cf. MORELLI 1985, p. 157 n. 18 («ipotesi degna di attenzione»). Su Gallo quale «intermediario tra movimento neoterico e poesia elegiaca» insiste MAGRINI 1981, pp. 1-14. 157 In MORELLI 1999, p. 70, che definisce questa ricostruzione «nettamente superiore a tutte quelle finora affacciate».


158 Cf. L. ALFONSI, Codro, in EV, I, Roma 1984, pp. 838 s. 159 Nel complesso la proposta del Mazzarino non persuade sul piano linguistico, né lo studioso convince quando spiega perché, dei due critici ricordati da Gallo, solo Catone avrebbe l’epiteto di amplus, circostanza che «può esser solo casuale; o può anche non esserlo». Cf. ID. 1980-1981, p. 23 n. 44.

Griffith 1988, pp. 66-68, nel proporre: [Codrum, sei vide]at\ u \ r idem tibi, non ego, Visce, / [non, qua es lau]de\ \ Kato, iudice te, vereor, «If the sympathetic critics Viscus and Valerius Cato agree that at long last (tandem, line 6) Gallus’ verses are worthy of his girlfriend, he can be unmoved by adverse criticism levelled at his work by the spiteful Codrus»; la menzione di Codro, pastore e cantore che compare in Verg., Ecl. V 11 e VII 21-24 e nel quale è da identificare un poeta contemporaneo del giovane Virgilio, seguace dell’indirizzo neoterico, non mi sembra saldamente motivata: è sicuro che chi si nascondesse sotto questo nome godeva, almeno nell’Ecl. VII, delle simpatie di Virgilio158, circostanza che forse potrebbe non perfettamente coerire con il presupposto atteggiamento non positivo di Gallo nei suoi confronti. Rilevo, inoltre, che la proposta laude di v. 9 non è suffragata dalle tracce superstiti. Nella proposta di Mazzarino 1982, pp. 325, 327 n. 23, di ricostruire i vv. 8-9 [ne non hoc vide?]atur idem tibi, non ego, Visce, / [nec vero? am]pl[e] Kato, iudice te, vereor, interessante è l’integrazione am]pl[e] – che non è, comunque, come ritiene lo studioso, «l’unica possibile» –, perché evidentemente basata sulla convinzione che in qualche modo le tracce prima della P siano compatibili con una M, anche se la stessa integrazione non rispetta le altre tracce dell’originale159. Non molta fortuna ha avuto la lettura plakato, proposta una seconda volta con ulteriori argomenti da Hutchinson 1981, pp. 3742, sp. 41 s. A suo avviso: 1. Il papiro, al v. 9, sembra avere ]E · PLAKATO e non ]PLA [·]KATO o ]PLE · KATO o, ancora, ]LLA[·] KATO. 2. Le letture pla · e ple · pongono, come ammettono gli stessi Parsons e Nisbet, «gravi problemi». 3. Il riferire tibi e iudice te sia a Visco sia a Catone produce un effetto di «compressione» eccessivamente sgradevole. 4. Che Gallo si rivolga nello stesso momento al veterano Valerio Catone e al suo contemporaneo Visco lascia forse perplessi. 5. Ipotizzare la menzione del Censore è assai poco produttivo. 6. Tutto questo può indurre a prendere in «seria considerazione» la lettura plakato iudice te. 7. Alla luce sia delle «contorsioni» nell’ordine delle parole nei vv. 4-5 sia di confronti con, per esempio, Caes., BG II 13 (obsidibus acceptis primis civitatis) e Sen., Phoen. 64 s. (quo vis utere / duce me) l’ordine in queste tre parole può essere considerato, a differenza di quanto hanno sostenuto Parsons-Nisbet, possibile. 8. Il confronto con Cic., De Or. II 74 (placatis eorum animis, in riferimento a veri e propri giudici) mostra – anche in questo caso con68


trariamente a quanto ritenuto dai due editori – che placato può ben riferirsi a iudice. 9. L’intero v. 9 potrebbe essere così integrato: [haec dar]e placato iudice te vereor, dove dare avrebbe lo stesso valore che in Ovid., Pont. I 1, 16: invenies . . . / non minus hoc illo triste quod ante dedi. Barchiesi 1981, p. 155, pur ammettendo che il critico Catone ed il poeta Visco «non sembrano del tutto omogenei fra di loro», ritiene che la lettura plakato «non conduce a una chiara, sia pure ipotetica, ricostruzione del senso complessivo»; illuminante, a suo avviso, resta il richiamo, fatto dai due primi editori, a Verg., Ecl. II 26 s.: non ego Daphnim / iudice te metuam, si numquam fallit imago, confronto che, secondo lui, induce a ritenere che il v. 9 avesse il seguente schema: «io non temo x se tu mi sei giudice, o Catone», ma la critica «non ha ancora prodotto un’integrazione decisiva». Lo Stroh 1983, pp. 236 s., come vedremo anche più avanti, ha accolto in parte la ricostruzione di Hutchinson, respingendo giustamente la lettura [haec dar]e, alla luce del fatto che dare non può che significare «inviare»: la soddisfazione di Visco dovrebbe essere il risultato e non il presupposto dell’invio dei versi di Gallo. A differenza del Barchiesi, Morelli 1985, p. 159, ammette che la ricostruzione dei vv. 8-9 di Hutchinson un senso soddisfacente potrebbe averlo, vale a dire «“se anche a te sembra così, o Visco, una volta ottenuto il tuo favore, non avrò più timore di nessuno”; è vero tuttavia che rimarrebbe problema aperto una completa integrazione del v. 9, su cui non convince Hutchinson». Inoltre, secondo il Morelli, mentre le «contorsioni» nell’ordine delle parole ai vv. 4-5 hanno una funzione stilistica, «ora avremmo una più rozza e inutile pesantezza, con te, o iudice, vero pleonasmo». Per Morelli-Tandoi 1984, p. 106 n. 13, se la lettura plakato fosse giusta, «si avrebbe una prova in più riguardo all’ostilità del “iudex” nei confronti di Gallo e oltretutto così si potrebbe superare la difficoltà posta dal fatto che Gallo si rivolge ad un suo interlocutore alla seconda persona singolare […], mentre invece due sono i vocativi […], il che ha scarsi riscontri nella poesia latina». Continuano ad ostacolare, comunque, a loro avviso, la lettura di Hutchinson la difficoltà stilistica (che essi reputano, comunque, non insormontabile) e, soprattutto, quella paleografica, rappresentata dalla presenza della kappa. La ricostruzione di Hutchinson160, per Graf 1982, p. 24, ha il vantaggio di consentire di non riferire te a due persone e rispetta di più le tracce del papiro, ma non porterebbe ad alcuna soddisfacente integrazione. Secondo lo stesso Graf 1982, p. 30, Gallo 69

160 Da ricordare l’integrazione [quamvis non vide]atur idem tibi, non ego, Visce, / [hoc modo pla]cato iudice te vereor, proposta, in qualche misura nell’orma di Hutchinson, da LIEBERG 1987, pp. 533 s., per il quale lo iudex dei carmi sarebbe Licoride ed il te del v. 9 si riferirebbe a Visce. MORELLI 1999, p. 71 n. 20, mostra, a mio avviso giustamente, perplessità dinanzi a tale proposta, sia alla luce del «pesante costrutto» al v. 9, con il pronome personale te non concordato con l’immediatamente vicino iudice, sia perché essa contraddice l’innegabile confronto con Verg., Ecl. II 26 s.


161 Il Manzoni (p. 85) osserva, tra l’altro, che in Properzio ricorre ben tre volte (I 2, 25; I 6, 1; I 19, 1) la formula non ego . . . vereor, «tanto che si può ragionevolmente ipotizzare, a questo proposito, che si tratti della ripresa di un motivo galliano».

anteporrebbe il giudizio dell’amata a quello di Visco, nel senso che direbbe: «Se tu, o Visco, non condividi tale giudizio (cioè che i miei versi sono degni di colei che amo), la cosa mi lascia indifferente»; lo studioso si basa su domina iudice tutus ero di Prop. II 13, 14. Secondo la Gall 1999, pp. 233 s., il fatto che per Properzio valesse prima di ogni altra cosa il giudizio artistico di Cynthia non necessariamente significa che per Gallo valesse altrettanto quello di Licoride, tanto più che Properzio, nell’assumere motivi della poesia di Gallo, si distacca, forse anche polemicamente, da lui: Properzio, riconoscendo in Cynthia l’unica autorità artistica, potrebbe essersi volutamente differenziato da Gallo, che distingue tra la domina a cui i carmi sono dedicati ed il critico d’arte. Un esame delle diverse ricostruzioni dei due versi proposte dagli studiosi è leggibile in Manzoni 1995, pp. 84-87, secondo il quale si tratta comunque di integrazioni «in nessun caso risolutive»; a suo dire, un certo apprezzamento merita la proposta [quae mihi si test]atur idem, tibi non ego, Visce / [cedam, n]ulla, Kato, iudice te vereor del Nicastri, mentre molto più convincenti appaiono la lettura [quodsei iam vide]atur idem tibi, non ego Visce / [non vetera] ulla, Kato, iudice te vereor di ParsonsNisbet, accolta da Morelli-Tandoi, e soprattutto quella, lievemente diversa, del Tandoi [quodsei iam vide]atur idem tibi, non ego Visce / [non veterum] ulla, Kato, iudice te vereor, che per il Manzoni si fonda sulla «probabile» presenza di non ego all’inizio di frase161 e soprattutto sull’innegabile confronto con Verg., Ecl. II 26-27. Secondo il Manzoni, se effettivamente Gallo si dichiara sicuro di superare il confronto con gli altri poeti (veteres), risulta confermato il «carattere fortemente tecnico e letterario dell’epigramma c, insieme all’indicazione di una precisa scelta di campo poetico [. . .] una importante testimonianza del dibattito letterario a Roma, ovviamente negli anni tra il 45 e il 40» (p. 86). L’esame di P, con la lettura di ]M\ ·PLAKATO, consente di respingere con certezza le ricostruzioni del v. 9 fondate rispettivamente sulle sequele VLLA, ILLA, RVPLA, RVPLE, DVPLA e recupera in pieno la lettura di Hutchinson plakato iudice te vereor, che, di là dalla non insormontabile durezza nell’ordine delle parole (penso agli esempi ricordati da Hutchinson), elimina le difficoltà legate ai due vocativi e, come ha riconosciuto lo stesso Morelli, dà un senso soddisfacente ai due versi finali dell’epigramma, che potrebbero così essere ricostruiti: quodsei iam vid]eatur idem tibi, non ego, Visce, / [quemqua]m plakato iudice 70


te vereor. «Se anche a te sembra la stessa cosa (vale a dire il fatto che io abbia composto dei versi degni della mia signora), allora, Visco, essendoti tu, giudice, mitigato, non temo nessuno», che è esattamente uno dei significati che, come si è visto, secondo il Morelli, i due versi potrebbero avere e al quale, a ben vedere, già Parsons-Nisbet e Barchiesi, tra gli altri, avevano in qualche modo pensato162. Certamente questa ricostruzione, tra le tante proposte, è quella che più rispetta le tracce del papiro163. Ad essa ha pensato anche lo Stroh 1983, pp. 236-240, il quale, tuttavia, pur ritenendola «abbastanza sensata», la esclude, perché: 1. l’espressione plakato iudice te dopo la proposizione condizionale sarebbe pleonastica; 2. non avrebbe senso che all’esclamazione di felicità prodotta dal potere disporre finalmente di carmi degni della propria donna seguisse la richiesta del giudizio anche di un critico letterario. Sul fondamento del confronto con i noti versi di Properzio (II 13, 11-16), dove Cinzia è giudice dell’arte del poeta innamorato ed il suo giudizio positivo condizione decisiva per il successo dei carmi di lui e della sua assoluta serenità, che nemmeno lo sdegno di Giove può scalfire (me iuvet in gremio doctae legisse puellae, / auribus et puris scripta probasse mea. / Haec ubi contigerint, populi confusa valeto / fabula: nam domina iudice tutus ero. / Quae si forte bonas ad pacem verterit auris, possum inimicitias tunc ego ferre Iovis.)164, lo Stroh dà la seguente ricostruzione dei vv. 89, in cui iudice, che, come in Properzio, è all’ablativo ed occupa la terzultima posizione all’interno del verso, è riferito non a Visco, bensì a Licoride: [quod si non vid]eatur165 idem tibi: non ego, Visce, / [ho]c modo plakato iudice te vereor, che così intende: «Se tu, mio caro Visco, fossi di diverso parere, io non ti temerei, se solo io abbia questo giudice a me benignamente disposto». Secondo lo studioso, questa ricostruzione è, sul piano linguistico e contenutistico, la più convincente tra quelle finora avanzate e permette di recuperare nell’epigramma galliano i due concetti di “soddisfazione” e di “pace” (plakato) presenti nel brano di Properzio. Purtroppo lo Stroh ha dimenticato che oltre a dare ai due versi un contenuto plausibile ed un andamento linguistico corretto, è necessario anche rispettare le tracce dell’originale, che al v. 9 escludono nel modo più assoluto la lettura [ho]c modo. Considero, d’altra parte, le due obiezioni che Stroh fa alla ricostruzione da lui stesso proposta quodsi iam vid]eatur idem tibi, non ego, Visce, / [quemqua]m166 plakato iudice te vereor, facilmente sormontabili: 1. l’espressione plakato iudice te non è affatto pleonastica: una volta che Visco ac71

162 Per i due editori inglesi (in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 145) era possibile che vereor potesse reggere come complemento oggetto caduto nella parte iniziale del v. 9 «the works or a work of a rival poet, or the poet himself». Sulla loro scia, come si è già visto, il Barchiesi, sulla base di Verg., Ecl. II 26 s. 163 La lettura plakato conferma una certa oscillazione dello scriba dinanzi all’uso del ka (Caesar, carmina, plakato), cf. l’espressione di MORELLI 1985, p. 159 n. 19. 164 Su una stretta connessione tra l’epigramma c e il passo di Properzio insiste anche NICASTRI 1984, sp. pp. 89-96 («la struttura concettuale del contesto, quale abbiamo cercato di chiarire nel confronto con Properzio, postula un’argomentazione che, per essere efficace, anzi per avere senso, deve distinguere e contrapporre al giudizio dei critici autorevoli un altro e diverso consenso, quello della domina»). 165 Lo studioso (p. 238 n. 129) propone al v. 8 anche si iam non videatur oppure (come domanda) quid si non videatur idem tibi? o, ancora, la proposta di Parsons-Nisbet quae si iam testatur idem tibi. 166 In alternativa a quemquam lo studioso (p. 237 n. 123) vedrebbe anche plebem («il giudizio della plebe»); tuttavia la parola è troppo corta in relazione all’ampiezza della lacuna.


167 Su iudex termine tecnico della critica letteraria rinvio a MANZONI 1995, p. 87. 168 Si vedano M ANZONI 1995, p. 86 e MORELLI 1999, p. 70. 169 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 144.

cetti l’idea che i carmina siano effettivamente degni della sua domina, egli sarà un giudice benevolo del suo libro di poesie e, come tale, infonderà nel poeta la massima sicurezza; 2. non c’è nulla di strano se Gallo, pur convinto del valore dei propri versi, sente la necessità di avere il giudizio positivo di un noto critico letterario, tanto più se, come è verosimile e come ritiene lo stesso Stroh, con i propri carmi d’amore sta percorrendo strade nuove. Del resto lo studioso, tornando per un attimo alla sua prima ricostruzione, ammette esplicitamente che Gallo potrebbe avere attribuito un significato anche al giudizio di Visco, che, a suo avviso, verrebbe solo ad aggiungersi a quello della domina. Egli ritiene, comunque, – e qui condivido senz’altro la sua posizione – che Gallo nell’introdurre il concetto che i carmi debbano piacere alla domina ed essere degni della sua sensibilità artistica, si distacchi nettamente da Catullo, dove l’aspetto letterario pertiene alla cerchia di amici e non a Lesbia, priva di quella sensibilità. A mio avviso, la ricostruzione avanzata ed in qualche modo ripudiata dallo Stroh, ma avvalorata dall’autopsia del papiro, conferma l’importanza letteraria dell’epigramma167 e l’inserimento di Gallo nell’àmbito della seconda generazione dei neoteroi, proposto, tra gli altri, dal Morelli e dal Manzoni168. Secondo Parsons e Nisbet169, tra Gallo e Virgilio, è forse il primo che imita il secondo, come inducono a ritenere sia il ritmo di espressioni come non ego, iudice te e vereor, «caratteristico» delle Bucoliche (Ecl. VII 7: atque ego Daphnim; VIII 102: his ego Daphnim; e soprattutto II 26 s.) sia la triplice connessione in Virgilio di ego con il nome Daphnis; se così fosse, a loro avviso avremmo qui un dato che ci consente di precisare meglio la discussa cronologia della seconda ecloga. L’opinione dei due editori è accolta da Courtney 1993, p. 275, il quale rileva che Virgilio può essere stato a sua volta ispirato da Theocr., Id. VI 37: wJ" par jejmi;n kevkritai. Per lo studioso, dal momento che l’ecloga fu composta nel o intorno al 42 a.C., i vv. 6-9 di Gallo potrebbero essere stati scritti dai 2 ai 5 anni dopo, dunque tra il 40 ed il 37, circostanza che confermerebbe che il papiro contenesse un’antologia. A mio avviso, il fatto che sia Gallo ad imitare Virgilio rimane molto incerto; anzi resta più verosimile il contrario, come è parso ad alcuni studiosi, in particolare Morelli-Tandoi 1984, pp. 101-116. Essi ritengono, secondo me giustamente, che l’epigramma c sia stato composto prima del 40 a.C., anno nel quale Virgilio compose «con ogni verisimiglianza» la seconda Ecloga. Sull’ipotesi che 72


nel rotolo di Qas\r Ibrîm fosse delineata un’antologia si veda più avanti. Secondo Parsons-Nisbet170, vereor può sia esprimere la verecundia per le poesie di rivali sia riferirsi, al pari di timeo, ad una punizione. Verducci 1984, p. 127 n. 17, ha osservato che vereor non è mai usato da Tibullo e ricorre raramente in Properzio, che preferisce metuo e, molto più frequentemente, timeo, mentre Virgilio nell’imitare Gallo traforma vereor in metuo; a suo avviso, nel papiro il verbo, più adatto ad un soldato e ad un uomo di stato che ad un innamorato, ha un’accezione che ricorda da vicino quella che esso ha in Giulio Cesare, nel quale esprime, tra l’altro, rifiuto della paura e al tempo stesso fiducia nella propria razionalità e consapevolezza di ciò che può limitare la propria autonomia. Nell’epigramma c, secondo Verducci 1984, pp. 129, 135 s., il poeta appare esplicitamente e totalmente fuso con l’innamorato, una condizione che contrassegna la poesia elegiaca amorosa latina differenziandola dai generi precedenti: Gallo, nel dar vita ad una «programmatica rappresentazione della sua vocazione e dei suoi valori», sarebbe il primo a realizzare, a Roma, questa fusione e a combinare insieme motivi propriamente callimachei (fedeltà allo stile elegiaco e sua identificazione col soggetto erotico). 11. Delle due letture Tyria e Syria i primi editori ritengono più verosimile la prima, pur non escludendo la seconda. Essi ricordano che Tyrius è comune negli elegiaci, per quanto non ricorra mai in fine di pentametri, nel significato per lo più di «purpureo» e connota l’abbigliamento femminile pregiato (Prop. III 14, 27; Tib. I 7, 47)171 oppure la purpura del trionfatore (Verg., Georg. III 17); Parsons e Nisbet tendono ad escludere riferimenti a Licoride. Sulla loro scia anche Nicastri 1984, p. 16 n. 5, il quale, dal momento che i primi tre epigrammi sono dedicati alternativamente a Licoride / Cesare / Licoride, pensa che il quarto fosse dedicato ancora a Cesare ed al suo trionfo. Newman 1984, p. 28, osserva che, nel momento in cui Gallo scrive, la porpora tiria potrebbe essere nota non da lungo tempo a Roma; lo studioso ricorda Plin., N.H. IX 137, dove è detto che, secondo Cornelio Nepote, P. Lentulo Spintere, edile curule nel 63 a.C., fu il primo ad usare la dibapha Tyria (porpora tinta due volte, particolarmente lussuosa) per la sua praetexta, e Cic., Pro Flacco 70 e Cat. 61, 171, nei quali Tyrius designa la «porpora» pregiata: dal momento che a detta dello stesso Plinio (IX 136) la trabea di 73

170 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 147. 171 Il confronto con questi due passi fa dire al MORELLI 1985, p. 160, che l’aggettivo Tyria «rimanda forse ad un contesto di poesia galante, dal ricercato colore esotico», ma lo studioso non esclude la connessione col tema del trionfo. Di «fine clothing» parla anche HEYWORTH 1984, p. 64.


172 Lo studioso ricorda Aen. VII 612. 173 Newman ricorda Hor., Od . IV 5, 3 s. 174 Cf. G. GAGGERO, Siria, EO I (1996), p. 569. 175 AMATO 1987, p. 335 n. 37. 176 Una traduzione polacca ed un rapido esame dei maggiori problemi posti da P si possono leggere in WOJCIK 1988, pp. 29-33. Sulla poesia di Gallo ed il contesto culturale in cui essa si sviluppò utile il volume di D.O. ROSS JR., Backgrounds to Augustan Poetry: Gallus, Elegy, and Rome, Cambridge 1975, che comunque non poteva conoscere P; sul volume vd. E.A. SCHMIDT, «Gnomon» 51 (1979), pp. 432-435.

Romolo era di porpora e la trabea in Virgilio è una veste importante, propria delle occasioni solenni172, Gallo potrebbe avere alluso alla trabea di Romolo nell’àmbito di un’equazione Romolo / Ottaviano; i due avrebbero in comune sia il motivo del reditus173 sia il legame col Palatino. In presenza di scarni frammenti o, come in questo caso, di una sola parola residua il tentare una spiegazione è legittimo, ma non è legittimo avventurarsi, come mi sembra faccia il Newman, in disagevoli sentieri speculativi. In realtà, come ho già detto sopra, più verosimile lettura è Syria. Naturalmente, considerata la condizione del papiro, non riesce agevole ipotizzare un’accettabile motivazione della presenza di questo termine e, di conseguenza, non siamo in grado di valutare il significato del riferimento, diretto o indiretto che fosse, a questa regione orientale che divenne provincia romana nel 64 in séguito alla vittoria di Pompeo Magno su Mitridate. Ovviamente non sappiamo se siamo dinanzi ad un sostantivo o ad un aggettivo. Virgilio e Orazio non usano mai il sostantivo, ma solo l’aggettivo nella forma Syrius (Verg., Georg. II 88; Hor., Carm. I 31, 12; Sat. I 6, 38)174. Come osserva Amato175, l’esotismo non era infrequente nella poesia erotica; lo studioso fa questa considerazione a proposito della lettura Tyria, ma essa può ben valere anche per Syria, cf. Lygdam. 4, 28: Stillabat Syrio myrtea rore coma. È altresì vero che, se fossimo sicuri che tra gli epigrammi c e d c’era una qualche connessione tematica, potremmo anche essere indotti a pensare che il richiamo alla Syria rientrasse nell’àmbito della celebrazione della vittoria e della gloria del Caesar, ma non mi pare il caso di proporre fragilissime ipotesi. 12. Sulla lacuna che seguiva questa linea cf. il prossimo capitolo. Col. II 1-4 Sul tipo di versi contenuti in queste linee e sul possibile rapporto tra di esse ed i versi della precedente colonna cf. il prossimo capitolo176.

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V. Come si articolava il testo prima e dopo i versi superstiti e che tipo di libro il rotolo conteneva? È forse possibile tentare almeno una (non inverosimile) ricostruzione grafica delle parti del testo andate perdute a sinistra, al di sotto e a destra della prima colonna. Secondo il Nisbet177, l’epigramma (o elegia) a e gli epigrammi b e c mostrano «connessioni tematiche» ed appaiono essere stati composti «come una successione che tratta a turno delle passioni predominanti e delle preminenti personalità della vita» di Cornelio Gallo178. La disposizione grafica dei versi (spazi e segni divisori) impedisce, tuttavia, a suo avviso, di considerarli come «sezioni di un unico, complesso poema»; d’altra parte «l’aspetto fisico del papiro non dà alcuna indicazione della posizione del frammento all’interno del rotolo, ma il contenuto suggerisce che esso era vicino alla fine», dal momento che «c contiene elementi adatti ad una sphraghis, la dichiarazione personale che chiude un carme o una raccolta di carmi», anche se sicuramente seguivano altri epigrammi, come mostrano le ll. 3-4 della col. II; queste, secondo gli editori, di sicuro contenevano un esametro ed un pentametro e presumibilmente seguivano ad un altro distico contenuto nelle ll. 12; d’altra parte nemmeno è da escludere, a loro dire, che le ll. 1-2 contenessero un titolo seguìto da un singolo distico alle ll. 3-4. Per il Nisbet è possibile che il libro finisse nella parte inferiore, oggi perduta, della col. I, anche se egli riconosce che contrastano una tale ipotesi sia «il presupposto naturale» che la fine del libro coincida con la fine del rotolo sia la mancanza di spazio per un titolo (di una nuova sezione del libro) nel margine superiore della col. II, a meno che il carme immediatamente successivo constasse unicamente di due versi. Sul problema si è soffermato anche il Van Sickle179, per il quale: 1. I tre epigrammi superstiti di P costituiscono, come ritiene Nisbet, una sequenza. 2. Il confronto con carmi di apertura e chiusura in Meleagro e Catullo consente di poter dire che essa si configura come una sorta di sphraghis, che occupava una posizione preminente, in apertura o chiusura, di un libro di poesie. 3. Non è possibile stabilire se essa fosse all’inizio o alla fine. Nel primo caso, resterebbe difficile immaginare il contenuto della colonna che precede la col. I: essa avrebbe comunque do75

177 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, pp. 149 s. 178 Per VERDUCCI 1984, pp. 119-136, sp. 119-132, in questa successione di epigrammi connessi profondamente con la vita e le passioni di Gallo è da vedere una «selezione preferenziale e programmatica» di un poeta erotico romano consapevolmente impegnato ad adattare all’ambiente romano modelli estetici alessandrini ed in particolare callimachei: Gallo riprenderebbe e innoverebbe tratti tipici della poetica callimachea, come la programmatica rappresentazione di sé, della propria vocazione poetica e dei propri modelli estetici, arricchendoli, tra l’altro, del «tema panegirico nazionale» e finendo con l’influenzare profondamente sia l’elegia erotica romana sia i generi coltivati da Orazio e Virgilio. 179 VAN SICKLE 19811, pp. 74 s.


180 Van Sickle come esempio di rotolo contenente due diversi libri poetici, impaginati in maniera che il primo finisse alla fine di una colonna e l’altro cominciasse alla sommità della colonna successiva ricorda il PLitLond 27 = MP3 998 = LDAB 2283 (Ilias XXIII 179, 402-897, XXIV 1-759). 181 Cf. sopra I 2. 2 e I 4. 182 Si veda in proposito anche l’espressione di PETERSMANN 1983, p. 1652.

vuto contenere per lo meno un titolo e la prima parte di un carme «sull’infelicità dell’amore per Licoride». Certo il fatto che dopo l’epigramma c il testo continui crea, come rileva il Nisbet, qualche problema all’ipotesi che la sequenza sia in chiusura di libro; tuttavia il terzo epigramma potrebbe essere stato seguìto, più che da altri epigrammi, da due carmi più lunghi, il primo dei quali avrebbe potuto snodarsi tra la parte finale della col. I (circa 4-15 versi) e la parte superiore della col. II; il secondo potrebbe essere stato delineato sùbito dopo il segno che separa le ll. 14 dalle ll. 5-6. Nel caso in cui si fosse trattato di epigrammi, sarebbe plausibile una delle due seguenti ipotesi: o sarebbero stati carmi miscellanei aggiunti (analogamente alle poesie aggiunte dopo i carmi 50 o 51 nel corpus catulliano) dopo l’epigramma finale c oppure l’epigramma finale sarebbe stato l’epigramma d, che, come avviene in Meleagro e Catullo, potrebbe avere contenuto un riferimento «alla forma fisica del libro o alla sua impaginazione»; in questo caso, la col. II potrebbe essersi aperta con un titolo ed uno spazio verticale (col. II 1-2), seguìti da un distico (II 3-4) e successivamente da un segno di divisione e da ulteriori versi (II 5-6): il frammento deriverebbe allora dalla parte centrale del rotolo originario «at the point where one book ended and another began»180. Come si vede, i dati in nostro possesso sono pochi, ma qualche considerazione, a mio avviso, essi permettono di fare: 1. Le connessioni tematiche tra a, b e c, anche al di là dell’ipotesi, comunemente accolta, che essi siano stati composti da Cornelio Gallo, sono indiscutibili. 2. I segni divisori – che, come abbiamo visto, oggi siamo in grado di considerare innegabilmente delle paragraphoi181 – impediscono, tuttavia, di pensare che ci troviamo dinanzi ad un’unica composizione poetica articolata in sezioni: questo dato di fatto di natura bibliologica, ben evidenziato da Parsons e Nisbet182, è stato variamente trascurato da parte di alcuni studiosi. Che gli spazi tra un epigramma e l’altro indichino divisioni evidenziate dai segni a forma di H è stato ben rilevato da Heyworth 1984, p. 64, secondo cui gli uni e gli altri impediscono di guardare ai versi come ad una composizione unitaria. Heyworth non esclude del tutto che i segni a forma di H possano segnalare «l’omissione di materiale». Davvero aberrante l’interpretazione della Fairweather 1984, pp. 167-174, secondo la quale saremmo in presenza di un carme amebeo, dove i segni di divisione distingue76


rebbero il cambio di interlocutore; la studiosa cita il seguente passo dell’Enchiridion di Efestione (p. 75, 5 ss. Consbruch): th/~ de; paragravfw/ (sc. crwvmeqa) h[toi kata; provswpa ajmoibai`a e[n te toi`" ijambikoi`" kai; toi`" corikoi`", < h] > metaxu; th~" te strofh~" kai; th~" ajntistrovfou. Ma la paragraphos cui si riferisce Efestione non è certo il segno graficamente elaborato e seguìto dagli ampi spazi del nostro papiro. Per la Fairweather, non sarebbe sorprendente l’assenza dei nomi degli interlocutori, dal momento che nei papiri di Teocrito il cambio di interlocutore non è affatto segnalato o lo è da tratti orizzontali interlineari: caratteristiche, per la verità, del tutto assenti in P. Secondo la studiosa, una volta ammesso che i versi del papiro appartengano ad un «singing poem», l’attribuzione a Gallo rimane altamente probabile, alla luce soprattutto dei celebri versi programmatici con i quali lo stesso Gallo nella decima ecloga virgiliana (50-54) annuncia la trasformazione in senso teocriteo della sua poesia finora basata sull’imitazione di Euforione. La tesi della Fairweather è stata ribadita da O’Hara 1989, pp. 561 s., che ha visto in Properzio I 10, 10 (dove il poeta afferma di avere origliato alternas voces di Gallo e della sua amata), un’allusione ad un carme amebeo dello stesso Gallo, ed accolta da Noonan 1991, pp. 118-123. Per altre legittime critiche a questa interpretazione rinvio a Morelli 1985, p. 171. Si veda anche l’espressione di Koenen in Koenen-Thompson 1984, p. 143 n. 80 e Courtney 1993, p. 264. Contro i sostenitori della tesi “unitaria” (tra gli altri D’Anna183, Lee184, Magrini186, Miller187, Graf188, Évrard189, Newman185, Whitaker190), altre considerazioni di tipo contenutistico molto probanti sono state suggerite specialmente dal Morelli191. Il Whitaker, in particolare, ritiene che, in fondo, gli spazi tra i vari epigrammi, confrontati con gli ampi margini superiori e gli altrettanto ampi spazi interlineari, non sarebbero così notevoli come pensa il Parsons, per cui è possibile che con i segni a forma di H lo scriba abbia voluto marcare separazioni non tra singoli carmi ma tra paragrafi di un singolo carme. A questo argomento bibliologico lo studioso aggiunge una serie di indicazioni circa «a whole web of balances and contrasts between himself and Lycoris, himself and Caesar, himself and the critics, which it is difficult not to view as forming a unity». L’osservazione relativa ai diversi spazi francamente è molto debole: di là dall’ormai accertato valore dei segni a forma di H e dall’ampiezza degli altri spazi del papiro, l’intervallo tra un epigramma e l’altro è oggettivamente notevole e, in quanto tale, segna un forte distacco, che di 77

183 184 185 186 187 188 189 190 191

D’ANNA 1980, p. 77. LEE 1980, pp. 45 s. NEWMAN 1980, pp. 83-94. MAGRINI 1981, pp. 7-14. MILLER 1981, pp. 174 s. GRAF 1982, pp. 31-33. ÉVRARD 1984, p. 34. WHITAKER 1981, pp. 94 s. MORELLI 1985, pp. 168171. Lapidaria e assolutamente condivisibile l’espressione di TANDOI 1982-1983, p. 14: «Invano si tenterà di ridurre ad un continuum elegiaco la sequenza dei frammenti, che anche nella tecnica formale sono assai più vicini alla terza parte del canzoniere di Catullo che ad elegie di poeti augustei». Cf. anche Koenen in KOENEN-THOMPSON 1984, p. 143. Forse lievemente contraddittoria la GALL 1999, pp. 223 s., per la quale la mancanza di confronti con materiali analoghi non permette di dare eccessivo peso ai segni a forma di H, che comunque, a suo avviso, potrebbero rispecchiare una tradizione grafica secondo cui gruppi di versi venivano regolarmente distanziati gli uni dagli altri. Tuttavia la studiosa si aggancia proprio a tali segni per scartare la pur «seducente» tesi di Fairweather-O’Hara, dal momento che essi non sono mai usati per registrare il cambio di interlocutore nella poesia amebea e nel genere drammatico. Per la Gall, l’individuazione del tipo di componimento cui siamo davanti rimane un problema aperto; la studiosa non esclude che possa trattarsi di un’antologia di versi di Gallo, realizzata da qualcuno che ha tralasciato brani intermedi, e ritiene che la tendenza a separare nettamente la poesia elegiaca dalla poesia epigrammatica – che in realtà si influenzavano a vicenda – possa essere solo il risultato dell’«aspirazione sistematizzante» della critica moderna.


192 Mi riferisco in particolare alla proposta di ricostruzione del v. 1 e di quello immediatamente caduto prima di esso avanzata da Lee o di quella relativa al v. 6 fatta da Newman, per le quali rinvio al commento a tali versi. 193 Cf., per esempio, NICASTRI 1984, p. 17 e PETERSMANN 1980, pp. 76 s.; ID., 1983, pp. 16531655. Quest’ultimo vede nei versi superstiti un evidente carattere di sphragis, che richiamerebbe da vicino i due epigrammi finali del primo libro di Properzio, cf. più avanti. 194 VAN SICKLE 19811, p. 74. 195 Cf. in proposito MORELLI 1985, p. 172, che trova possibili entrambe le ipotesi. La GALL 1999, pp. 225 s., non crede che qui ci troviamo dinanzi alla conclusione del libro, sia perché una sphraghis dovrebbe contenere il nome proprio di Gallo sia perché carmi, in cui l’autore fa riferimento alla prestazione delle Muse e si rivolge ai critici, di solito introducono una raccolta; d’altra parte è pure usuale che un poeta si soffermi sui risultati raggiunti in qualsiasi punto della propria raccolta.

per sé fa pensare alla separazione tra singole poesie. Si veda, a questo proposito, anche Koenen in Koenen-Thompson 1984, p. 144 n. 81. 3. Qualsiasi interpretazione che non tenga conto di questo dato di fatto si rivela debole e, nel tentativo di connettere strettamente i vari carmi, finisce, tra l’altro, col produrre, come si è visto, proposte integrative piuttosto singolari ed artificiose192. 4. Che l’orgogliosa «dichiarazione personale» contenuta nell’epigramma c possa chiudere un carme o una raccolta di carmi, come pensano il Nisbet ed altri193 (ipotesi a), è possibile, ma è altrettanto possibile, come sostenuto con buoni argomenti da Van Sickle194, che essa potesse trovarsi ad inizio di raccolta195 (ipotesi b). 5. L’ipotesi a trova naturalmente un ostacolo nel fatto che l’epigramma c non è sicuramente l’ultimo del volumen, essendo seguìto da altri carmi, come mostrano i resti delle 3 linee alla fine della col. I (carme d) e quelli delle 2 alla col. II (carmi e-f); il carme d impedisce anche di pensare che c fosse delineato in chiusura di un singolo libro contenuto, insieme con altri, all’interno del medesimo volumen. 6. Il Nisbet, non rinunciando a collocare l’epigramma c in una posizione di “chiusura” e non potendo trovare alcuna indicazione in proposito nella «physical form» del papiro, mi sembra prospetti due possibilità: (a1) l’intero frammento, compreso l’epigramma c, era originariamente vicino alla fine del rotolo; (a2) il titolo poteva essere delineato nella parte perduta della col. I. Cerchiamo di analizzare queste due possibilità. Possibilità (a1). Nisbet non lo dice, ma evidentemente egli pensa che nel primo caso il volumen avrebbe contenuto originariamente tutta la raccolta di Gallo o, comunque, un suo libro; mentre nel secondo caso il rotolo avrebbe contenuto più libri della stessa raccolta. Effettivamente non sappiamo da quale parte del rotolo originario provenga il frammento superstite; ho esaminato attentamente la superficie e non ho assolutamente trovato traccia delle piegature verticali che, come è universalmente noto, molto spesso, specie in corrispondenza della parte finale dei rotoli (o comunque non lontano da essa) si formano per l’effetto di sollecitazioni esterne cui sono soggetti quando sono chiusi: se questo dato può avere un significato (ma potrebbe anche darsi che il rotolo non abbia subìto alcuna pressione per il tempo in cui fu chiuso), dovremmo ritenere che non siamo nelle immediate vicinanze della fine del volumen. In ogni caso sarebbe imprudente fare troppo 78


affidamento su questo particolare. La possibilità (a1) è ammissibile: il titolo finale dell’opera di Gallo poteva trovarsi al di sotto del carme f, nella metà inferiore del foglio, oppure, più verosimilmente, a destra della col. II, nella parte superiore del foglio. Possibilità (a2). È vero che la fine di un libro coincide «naturalmente» con la fine del rotolo, ma nei rotoli contenenti testi poetici la corrispondenza non è sistematicamente univoca196: non possiamo escludere, almeno in linea teorica, che dopo il carme d cominciasse un altro libro dell’opera di Gallo. Al di sotto della col. I potrebbe esserci stato spazio per un titolo finale; e alla col. II potrebbe cominciare un altro libro, preceduto verosimilmente da un nuovo titolo197. L’assai scarsa documentazione sui titoli nei papiri letterari latini dell’epoca repubblicana e della prima età imperiale ci costringe a guardare al contemporaneo libro greco per cercare di ipotizzare l’assetto dell’eventuale titolo, o degli eventuali titoli, in P, operazione sicuramente legittima198. Qui la documentazione è certo più ricca, ma comunque non univoca; astraendo dai papiri omerici, che possono rappresentare un caso particolare, sembra lecito ritenere che nei rotoli greci contenenti una serie di sezioni testuali «ciascuna completa in sé ma costituente parte di una serie definita», come, per esempio, rotoli contenenti mimi, biografie, carmi, commentari ed epitomi199, il titolo di una sezione è scritto su di una linea a sé stante all’inizio della stessa sezione e la fine di essa è indicata dal titolo della sezione successiva200. Quindi dobbiamo supporre che nel nostro papiro almeno il passaggio ad un eventuale nuovo libro dovesse essere segnalato. Ma come e dove? In un rotolo sicuramente raffinato come era quello di cui P è la parte residua, nel quale le lettere iniziali dei versi sono rilevate con l’ingrandimento del modulo e un differenziato distacco dal resto della linea e gli epigrammi vengono distanziati uno dall’altro da uno spazio notevole, dobbiamo immaginarci titoli (iniziali, intermedi o finali che siano) delineati in uno spazio adeguato ed in forme grafiche sicuramente notevoli rispetto al resto del testo ed impreziositi da motivi ornamentali; fenomeni, questi, che riscontriamo molto spesso nei papiri ercolanesi, in particolare in quelli di Filodemo, scritti sicuramente in àmbito italico201. Significativa la testimonianza del PHerc 817, nel quale lo scriba ha lasciato un ampio margine bianco sotto l’ultima colonna (VIII) e ha delineato una coronide sotto l’inizio dell’ultima linea202. Queste considerazioni inducono a ritenere scarsamente possibile che almeno un titolo 79

196 Cf. in proposito l’espressione di G. CAVALLO, Libri scritture scribi a Ercolano, Primo Supplemento a «CErc» 13, Napoli 1983, p. 14. 197 Ad un passaggio da un libro ad un altro ha pensato pure, come si è visto, VAN SICKLE 19811, pp. 74 s. 198 Cf. in proposito R.P. OLIVER, The First Medicean MS of Tacitus and the Titulature of Ancient Books, «TAPA» 82 (1951), pp. 241-243. 199 Cf. OLIVER, ibidem, p. 247. 200 Qui mi limito a ricordare POxy 1800 (II-III d.C., miscellanea di biografie, MP3 2070 = LDAB 5102); come esempio di papiro latino si può tenere presente POxy 668 (epitome di Tito Livio XXXVIIXL, XLVIII-LV, III d.C., MP3 2927 = LDAB 2574). 201 Cf. M. CAPASSO, Carneisco, Il secondo libro del Filista (PHerc. 1027), Ed., trad. e comm., Napoli 1988, pp. 147-149; ID., Volumen. Aspetti della tipologia del rotolo librario antico, Napoli 1995, pp. 119-137; ID., I titoli nei papiri ercolanesi. IV: altri tre esempi di titoli iniziali, in M. CAPASSO (ed.), Da Ercolano all’Egitto. Ricerche varie di Papirologia, «PLup» 7 (1998), pp. 41-73; F. IPPOLITO, Alcune considerazioni sul titolo finale del PHerc 873 (Filodemo, La conversazione), ibidem, pp. 91-100. 202 Cf. R. IMMARCO, Breve nota sulla coronide del PHerc. 817, in M. CAPASSO (ed.), Il rotolo librario: fabbricazione, restauro, organizzazione interna, «PLup» 3 (1994), pp. 253-258.


203

Cf. in proposito G. BATipologie dei rotoli e problemi di ricostruzione, in Atti del V Seminario Internazionale di Papirologia, a c. di M. CAPASSO, «PLup» 4 (1995), pp. 26 s. 204 MORELLI 1985, p. 172. 205 Che le ll. 10-11 costituissero un altro distico è opinione comune, cf., ex. gr., oltre a Parsons-Nisbet in ANDERSONPARSONS-NISBET 1979, p. 147, GRAF 1982, p. 32; HEYWORTH 1984, p. 64. STIANINI,

(intermedio ?) fosse delineato nella parte alta della col. II, dove a mio avviso lo spazio sarebbe stato comunque troppo esiguo, anche volendo ipotizzare, con il Nisbet, la presenza, sùbito dopo, di un carme di due soli versi. Infatti, se così fosse, il primo carme della col. II verrebbe a trovarsi, stranamente ed inelegantemente, troppo a ridosso di tale titolo. Né possiamo ritenere verosimile la presenza di questo stesso titolo nella parte alta del foglio nel margine superiore, prima della col. II. Conosciamo 4 casi di papiri letterari greci, databili ad un arco di tempo compreso tra il III a.C. ed il IV d.C., in cui il titolo iniziale sembra posto nel margine superiore della prima colonna203, e molti altri in cui un titolo di sezione si trova in questa stessa posizione all’interno di un rotolo; ma è molto poco verosimile che lo scriba dopo aver lasciato l’ampio margine superiore l’abbia poi, in questo punto, impegnato per scriverci un titolo. Resta la possibilità che il titolo del nuovo libro fosse stato apposto nello spazio al di sotto del carme d. Ma, anche ammesso che si trattasse di una posizione esteticamente e bibliologicamente legittima, questo stesso spazio, disponibile prima del necessario, ampio margine inferiore, avrebbe potuto essere sufficiente? 7. L’ipotesi b crea meno problemi di natura bibliologica. Un titolo iniziale, avrebbe potuto trovarsi a sinistra della col. I, nella parte alta del foglio. «Qualora fossimo in apertura di liber», ha giustamente osservato Morelli204, «si può immaginare [. . .] che il poeta si intrattenesse prima più a lungo sulla nequitia di Licoride». 8. Resta molto verosimile, a mio avviso, che tra la prima e la seconda colonna non ci fossero né titoli né interruzioni di testo. Se, come pensano Parsons e Nisbet, le ll. 1-4 di col. II contenevano quasi certamente due distici, potrebbe essere verosimile che essi costituissero un altro epigramma (epigramma e); non meno probabilmente altri due epigrammi potrebbero essere stati contenuti rispettivamente nelle ll. 10-[13] della col. I (epigramma d)205 e nelle ll. 5-[8] della col. II (epigramma f). Una tale ipotesi, considerate l’altezza media delle linee di scrittura (cm 0,3), l’usuale ampiezza dello spazio interlineare (cm 0,5/0,6), e quella probabile del margine inferiore (cm 4,5), ci porterebbe a concludere che nella parte inferiore del papiro, al di sotto di col. I, si siano persi cm 5,3/5,4 ca. e che dunque il volumen fosse originariamente alto cm 21,3/21,4 ca. Nel caso in cui al di sotto di d ci fosse stato un altro epigramma (epigramma d1: col. I, ll. [1417]), tenuto conto che la distanza tra gli epigrammi contigui è di cm 1,2/1,5 ca. e che un epigramma è mediamente alto cm 3,2/3,5 80


ca., alla base di P si sarebbero persi cm 9,7/10,4 ca. e dunque il volumen sarebbe stato alto cm 25,7/26,4. Per una ricostruzione grafica di queste due possibili ipotesi, nella quale sono rappresentati anche i primi tre versi del carme a (che pure va verosimilmente considerato un epigramma)206 alla base della col. 0, e gli epigrammi e ed f nella prima metà della col. II, rinvio alle tavv. 75-76. Il Nisbet207, sul fondamento del contenuto (in particolare la menzione di Licoride), della metrica (propria di un poeta vissuto tra Catullo e Properzio) e dello stile (scelta di termini prosaici, arcaismi, antitesi, rime interne, ordine delle parole artificioso) dei 9 versi del papiro, non dubita che essi vadano attribuiti alle elegie di amore scritte da Gallo per Licoride e ben note ai poeti augustei e a quelli successivi208; tuttavia per spiegare la «sorprendente» presenza di «parecchi epigrammi consecutivi» in un libro di elegie, egli ricorda il composito libro di Catullo, al quale tuttavia mancherebbe la dichiarazione in qualche modo “unificante” di col. I 6 (fecerunt carmina Musae)209; la raccolta di tetrastici del poeta Macer, vissuto in epoca augustea (Quint., Inst. VI 3, 96); i Tetrasticha de Caesaribus di Ausonio; oppure il Dittochaeon in esametri attribuito a Prudenzio, che comunque «erano delle opere autonome». Più stringente, per quanto non decisiva, secondo lo studioso, è l’analogia col I libro di Properzio, che termina con due carmi (21-22) di dieci versi di contenuto autobiografico210. Questo confronto è stato riproposto ed enfatizzato da Petersmann211, secondo il quale è possibile che, come i due epigrammi finali del libro properziano segnano il passaggio, da parte dell’autore, dalla finzione della poesia, racchiusa nelle precedenti elegie, alla realtà storica, così nei vv. 2 ss. del papiro l’io lirico, espresso nelle precedenti elegie (il v. 1 sarebbe il pentametro finale di un’elegia «soggettivo-erotica»), si trasforma in io reale; tanto in Gallo quanto in Properzio, che evidentemente imita il primo, il legame tra i due àmbiti sarebbe realizzato attraverso una terza persona, che in Gallo è Cesare, in Properzio è, nell’ep. 21, il soldato morto insepolto e, nell’ep. 22, il dedicatario Tullo; in particolare nell’epigramma c del papiro il legame tra il l’io poetico e la realtà storica, per il Petersmann, verrebbe riproposto attraverso il riferimento alla critica letteraria, della quale Gallo cerca di acquisire la benevolenza, così come nell’epigramma b ha cercato di guadagnare quella di Cesare. Saremmo in presenza, secondo lo studioso, di un libro poetico giovanile di Gallo, come 81

206 Cf. in proposito l’espressione di MERRIAM 1990, p. 446. 207 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, pp. 148-149. 208 A parte la X Ecloga di Virgilio, cf. Prop. II 34, 91; Ov., Am. I 15, 30; A.A. III 537; Trist. II 445; Mart. VIII 73, 6. 209 Anche MAZZARINO 19801981, pp. 24-26; ID. 1982, pp. 312337, sp. 324-333, come vedremo più avanti, ricorda, per il carattere composito della raccolta di Gallo, sia il libellus di Catullo contenente, oltre a poesie d’amore, altri carmi di contenuto diverso, tra cui alcuni di argomento politico (c. 24, c. 54, c. 57), sia l’elegia ‘etiologica’ a contenuto di rilevanza politica IV 6 presente nella silloge properziana. I due richiami, specie quello a Catullo, mi sembrano legittimi. 210 Sul primo libro di Properzio ed in particolare sulla problematica connessa con l’interpretazione dei due carmi finali rinvio a P. FEDELI-R. DIMUNDO, Properzio, Il libro di Cinzia (Elegie I), trad. di A. TONELLI, Venezia 1994 (con ulteriore bibliografia). 211 Cf. PETERSMANN 1980, pp. 76 s.; ID., 1983, pp. 1653-1655.


212 GIANGRANDE 1980, pp. 141-153, sp. 151. Cf. anche ID. 19821, pp. 83-93. 213 TANDOI 1982-1983, p. 14. 214 HEYWORTH 1984, p. 64. 215 NICASTRI 1984, p. 17. 216 COURTNEY 1993, pp. 264, 266. 217 GRAF 1982, pp. 32 s. Sui nessi tematici tra i tre carmi superstiti insiste LUPPE 1990, pp. 47 s., per il quale il primo potrebbe chiudere la serie delle poesie per Licoride e gli altri due, entrambi dedicati a Caesar, suo amico e protettore, costituirebbero una chiusa delle elegie amorose: nel primo Gallo annullerebbe l’amarezza per l’infelice rapporto con Licoride nella gioia per i futuri successi militari dell’altro; nel secondo il poeta raccomanderebbe fiducioso i suoi versi al giudizio critico di questo stesso amico. Secondo il Luppe, quando Gallo afferma che il proprio destino gli sorriderà nel momento in cui l’altro diventerà il massimo protagonista della storia di Roma, in realtà scherza. A me pare che non ci siano elementi per pensare ad un «tono scherzoso» nelle parole di Gallo; e comunque, se anche la ricostruzione di Luppe fosse giusta, bisognerebbe pensare a cosa contenessero l’epigramma d e i versi delineati nella col. II. 218 STROH 1983, p. 241. 219 GRAF 1982, p. 32 n. 41.

lasciano intuire sia il v. 6 (dove sarebbe espresso non il sollievo del poeta che ha finalmente portato a termine il suo libro poetico, come «banalmente» ritengono gli editores principes, bensì la sua soddisfazione per il fatto che finalmente le parole, attraverso la poesia, sono degne dell’amata) sia il timore, nell’epigramma c, del giudizio dei critici, comprensibile in un giovane poeta che sa di presentarsi al pubblico romano con un nuovo genere letterario, che a qualcuno potrebbe apparire artisticamente inferiore: il Caesar dell’epigramma b sarebbe perciò verosimilmente Giulio Cesare alla vigilia della spedizione partica. Il confronto col libro properziano non ha convinto tutti. Qualcuno ha parlato di antologia: così Giangrande, che ha pensato ad «una raccolta di epigrammi tematicamente connessi» (ma non composti da Gallo)212; Tandoi, per il quale potremmo trovarci di fronte ad un’antologia della «produzione giovanile» di Gallo, anteriore ai quattro libri di Amores213; Heyworth, che, enfatizzando una diversità di contenuto e di lingua tra i sei distici superstiti ha affermato che P conteneva un’antologia di distici elegiaci di Gallo compilata da qualcuno che guardava ai temi di maggiore interesse del poeta oppure ai nomi da lui menzionati214; Nicastri, che ha scritto di una possibile «scelta di brani emblematici di diverse elegie»215; Courtney216, che, escludendo l’ipotesi di una serie di epigrammi distinti, ritiene più verosimile che il papiro contenga «selezioni» di carmi, per quanto egli rilevi che non c’è niente nel papiro che induca a ritenere fondatamente che esso contenga «extracts». Per il Graf l’ipotesi antologia trova ostacoli tanto nel fatto che l’epigramma b non appaia un carme in sé concluso quanto nei nessi tematici tra i tre carmi residui217: l’uno e gli altri farebbero piuttosto pensare, a suo dire, ad «i resti di una sola elegia, l’elegia conclusiva di un libro, la quale era sufficientemente importante, perché i poeti successivi, soprattutto Properzio, potessero richiamarsi ad essa riecheggiandola». Abbiamo già visto, tuttavia, che la visione “unitaria” dei versi di P è per diversi motivi improponibile. Ne è convinto anche lo Stroh218, che non esclude la possibilità (a suo avviso comunque non dimostrabile) che siamo dinanzi ad una piccola antologia. Credo invece che abbia sicuramente ragione il Graf, quando sostiene che nel caso di Gallo non vada evidenziata una contrapposizione tra epigramma ed elegia, contrapposizione, a suo avviso, non ammessa né dalla teoria né dalla prassi antica219. 82


Ad una produzione epigrammatica giovanile di Gallo, anteriore agli Amores, non è propenso a credere il Morelli220, per quanto egli non la escluda del tutto. A suo dire, di giovanile in essi «potrebbe forse esserci soltanto l’aderenza, nei vv. 6-7, ad una concezione delle muse ancora di stampo tradizionale, alessandrino: lo specifico degli Amores potrebbe essere stato piuttosto, come è noto, il subentrare di Licoride stessa alle Muse, quale suprema ispiratrice del poeta»; per il resto, secondo lo studioso, tutto farebbe pensare proprio agli Amores, l’opera più famosa di Gallo: lo stile; l’arcaicità; la stessa cronologia che comunemente viene data ai versi (45 a.C.)221, se, come sembra, la vicenda sentimentale tra Gallo e Licoride, cominciata nel 47, dovette durare pochi anni222; il «numero enorme di echi», infine, che gli stessi versi hanno nella poesia augustea. Sulla scia di quanto osservato dal Graf, il Morelli ritiene ammissibile che gli Amores contenessero anche epigrammi. Dubbi sul fatto che i vv. 2-5 e 6-9 costituiscano degli epigrammi sono stati espressi, a mio avviso ingiustificatamente, dal D’Anna223, per il quale il primo gruppo di versi potrebbe essere «un brano di una più vasta elegia» ed in ogni caso «una produzione epigrammatica di Gallo finora ci era ignota» e almeno a lui non pare dimostrata dal papiro di Qas\r Ibrîm224. Basandosi soprattutto sull’imitazione che dei versi galliani farebbe Virgilio nelle Ecloghe II, IV, VI, X, Amato225 ritiene che i carmi di P siano «brevi componimenti – elegie in questo caso – appartenenti a momenti diversi, ma non distanti nel tempo e organizzati in un contesto abbastanza unitario, all’interno del quale sembrano avere una correlazione». Secondo lo studioso, siamo dinanzi ad un esemplare degli Amores di Gallo, opera già famosa quando Virgilio nel 42-41 a.C. compone le Ecloghe in cui allude alle poesie dell’amico: il Mantovano molto difficilmente si sarebbe riferito a composizioni sconosciute dell’altro. A mio avviso, non c’è necessità di pensare né ad una raccolta di composizioni giovanili di Gallo, né ad una scelta di distici “slegati” dalle sue elegie226, né a qualcosa di diverso dagli Amores, opera alla quale i 9 versi del papiro, di là dal loro articolarsi in epigrammi, possono essere fondatamente attribuiti, come ha mostrato il Nisbet ed ha ribadito lo stesso Morelli227. A quale parte degli Amores essi vadano riferiti e, di conseguenza, quale parte di questa stessa raccolta, se tutta quanta oppure un singolo libro, fosse contenuta nel rotolo di Qas\r Ibrîm, allo stato 83

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MORELLI 1985, p. 173. Sulla datazione dei versi del papiro cf. più avanti VI. 222 Sulla durata di questa vicenda cf. Nisbet in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, pp. 152-155. TRAINA 1994, p. 116, ritiene che la relazione risalga «ad una data approssimativa fra il 43 e il 41 a.C.». 223 D’ANNA 1980, pp. 76 s. 224 Anche per TRAINA 1994, p. 95, i versi di P sono «frammenti di elegie erotiche». Per CUGUSI 1982, pp. 5-10, il papiro «può costituire piccola parte di una raccolta antologica di componimenti di vario genere, dovuti o tutti a Gallo o a diversi poeti»; a suo avviso, i vv. 2-5 e 6-9 contengono sicuramente due epigrammi di Gallo: il primo con l’espressione maxima Romanae pars erit historiae ricorderebbe altre analoghe presenti in componimenti epigrammatici; il secondo con la sua tematica letteraria richiamerebbe la copiosa produzione di epigrammi di critica letteraria propria delle età cesariana e primo-augustea. 225 AMATO 1987, pp. 332-336. Sul rapporto tra Gallo e Virgilio cf. P. GAGLIARDI, Le Talisie teocritee nell’ecl. 6 di Virgilio, in U. CRISCUOLO (ed.), Mnemosynon. Studi di letteratura e di umanità in memoria di Donato Gagliardi, Napoli 2001, pp. 237-258. 226 Che gli epigrammi b e c siano carmi in sé conclusi è stato giustamente ribadito, contro Heyworth, da MORELLI 1985, p. 169 e n. 29. Secondo FANTHAM 2001, p. 187 n. 11, i versi di P non sono né elegie né epigrammi, bensì «extended incipits […] or excerpts chosen by the writer of papyrus for a commonplace book». Ignoti i motivi di questa convinzione. 227 Cf. l’espressione di NICASTRI 1984, p. 17: «Forse conviene non moltiplicare le ipotesi, attenersi all’evidenza epigrammatica e riconoscere che


dai nuovi frammenti [. . . ] non si può ricavare nulla di certo sulla struttura compositiva degli Amores». 228 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 149. 229 GIANGRANDE 1980, p. 142. 230 TANDOI 1982-1983, pp. 14 s. 231 VAN SICKLE 19811, pp. 73 s. 232 MORELLI 1985, pp. 170 s. 233 Anche CROWTHER 1983, p. 1646, vede particolare somiglianza tra i carmi di P (che considera appartenenti ai quattro libri degli Amores) e gli epigrammi di Catullo, in considerazione della loro brevità.

attuale delle nostre conoscenze, come abbiamo visto sopra, non credo possa essere stabilito. Meno incerto è forse il criterio seguìto dallo stesso Gallo o da colui che ha curato quest’edizione delle sue poesie. Già il Nisbet228, notando che i tre epigrammi superstiti trattano «alternativamente» delle passioni e delle personalità che hanno maggiormente segnato l’esistenza del poeta, a mio avviso ha tracciato la strada da seguire; il Giangrande229 ha parlato di raccolta di epigrammi aventi «una sequenza tematica [. . .] alla maniera ellenistica»; il Tandoi230, avvicinando i 9 versi ai carmi epigrafici di Tiburtino (CIL IV 4966-4973), ha ritenuto che i carmi di Gallo (che a suo avviso, come si è detto, apparterrebbero alla produzione giovanile del poeta) siano stati disposti, se non dall’autore poeta, da un antologista, in una successione che consentisse di cogliere tra l’uno e l’altro qualche nesso, anche kat∆ajntivfrasin, esistente già nella raccolta completa; il Tandoi fa l’esempio, tra l’altro, dei carmi 75 e 87, 85 e 92 di Catullo e ricorda gli epigrammi attribuiti a Seneca, articolati «in cicli autobiografici, sull’esilio, l’amore e gli amici, il fascino di Catone Uticense o l’incubo delle guerre civili». Per il Van Sickle231 gli epigrammi del papiro richiamano i carmi 43-51 di Catullo, che a suo dire chiudevano una sezione della raccolta e riprendono una serie di temi già svolti in precedenza. «Analogia più significativa» il Morelli232 vede nei carmi 92-95 del poeta veronese, che esprimono rispettivamente la disperazione dell’amore per Lesbia (92), l’indifferenza per Cesare (93), lo scherno per il cesariano Mamurra (94), l’entusiasmo per “l’uscita” della Zmyrna di Cinna (95) contrapposta agli Annali di Volusio. Non convince del tutto l’affinità che, come si è visto, il Petersmann vede tra i carmi del papiro e i due epigrammi finali del I libro di Properzio: osservo che gli epigrammi b e c sicuramente non sono gli ultimi del papiro e forse del libro e non sappiamo cosa venisse dopo. Credo, in definitiva, che si possa accettare la posizione del Morelli, che ha indicato nella poikiliva il criterio ispiratore della disposizione dei carmi tanto nel liber di Catullo quanto nella raccolta di Gallo: un ordinamento teso «a far trasparire, l’uno accanto all’altro, i vari temi rilevanti del “Gedichtbuch”, senza però che si debba cercare nell’insieme qualcosa di troppo unitario e stringente»233. Questa interpretazione ha, tra l’altro, il non trascurabile merito di tenere conto della situazione materiale del papiro. 84


VI. Quando scrisse Gallo questi versi?

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È molto verosimile, come abbiamo già visto, che l’epigramma c, imitato da Virgilio nella seconda Ecloga, da lui composta nel 40 a.C., sia stato scritto da Gallo qualche tempo prima di questa data. Ma è soprattutto l’epigramma b (elogio di Caesar) che può offrire elementi per un aggancio ad avvenimenti storici e, dunque, per una possibile datazione. L’identificazione del Caesar (Giulio oppure Ottaviano?) e della sua prossima campagna ha comunque fatto molto discutere. Il dibattito si è sostanzialmente incentrato su otto ipotesi: 1. Giulio Cesare nel pieno delle guerre civili e alla vigilia di Munda (45 a.C.). 2. Giulio Cesare dopo Munda ed alla vigilia della spedizione partica (45-44 a.C). 3. Ottaviano alla vigilia del suo ritorno a Roma, dopo la vittoria su Sesto Pompeo (36 a.C.). 4. Ottaviano alla vigilia della spedizione in Illiria (35-33 a.C.). 5. Ottaviano alla vigilia di Azio (32 a.C.). 6. Ottaviano sùbito dopo Azio e prima del trionfo (30-29 a.C.). 7. Ottaviano dopo Azio, alla vigilia di una possibile spedizione contro i Parti (verso il 30 a.C.). 8. Ottaviano dopo Azio, prima della definitiva conquista dell’Egitto e della vittoria nel grandioso scontro con Antonio e Cleopatra. Va condiviso quanto in proposito ha scritto il Nicastri234: «È un problema molto delicato, perché nella comparazione tra i due poli dell’alternativa, Giulio Cesare e Ottaviano, non si riscontrano elementi decisivi per escludere immediatamente l’uno o l’altro, anzi al contrario risalta l’analogia tra alcune ‘prove’ attraverso le quali i due personaggi sono passati nella loro carriera di protagonisti: l’eliminazione di un avversario politico nella lotta per il dominio di Roma, la questione partica, decisiva, all’epoca, della reale compiutezza di ogni disegno ecumenico». L’ipotesi 1 è stata giustamente esclusa dal Nisbet235: la campagna sarà condotta contro un nemico straniero, non certo contro Romani, le cui spoglie sono destinate ad arricchire i templi di Roma. Tale motivazione è parsa insufficiente, sul fondamento di analoghe considerazioni, al Nicastri – «i trionfi relativi a 85

NICASTRI 1984, p. 132. In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, pp. 151 s.


236 NICASTRI 1984, pp. 132 s. Si veda in proposito anche l’espressione di PETERSMANN 1983, p. 1652. 237 STROH 1983, pp. 215 s. 238 Il Nicastri si riferisce, come lo Stroh, alla ricordata testimonianza dell’orazione Pro Marcello. 239 Trad. D. Magnino. 240 Non condivido quanto scrive in proposito NICASTRI 1984, p. 133, secondo il quale, quella di Plutarco «sarebbe una considerazione a posteriori; non solo, ma la reazione riportata da Plutarco è chiaramente indizio di un atteggiamento critico ben determinato, che potrebbe risalire alla sua fonte». 241 MORELLI 1985, p. 166 n. 26 («L’enfatico v. 3 sarebbe sproporzionato all’episodio di Munda, che rimase in fondo marginale»).

guerre civili, celebrati sia da Cesare che da Ottaviano, non furono mai presentati come tali, bensì come ottenuti per guerre esterne: così era stato dei quattro celebrati da Cesare nell’agosto-settembre del 46 (dopo Tapso) e cioè il Gallico, l’Alessandrino, il Pontico, l’Africano [. . .] e così fu del quinto (autunno 45)»236 – ed allo Stroh (la guerra civile procurò a Cesare da parte del senato «incredibili» onori e indusse lo stesso Cicerone, già nel 46, a definirlo nel Pro Marc. 2, 5; 3, 9; 9, 28 s., «il più grande generale di tutti i tempi»237). Se, tuttavia, il Nicastri, pur non escludendo del tutto l’ipotesi 1 («l’eliminazione dei figli di Pompeo rappresentava l’atto finale ancora mancante alla vittoria di Cesare, e come tale era stata già caldeggiata da Cicerone238, in termini molto vicini alla formulazione galliana»), propende decisamente, come vedremo più avanti, per l’ipotesi 2, lo Stroh ritiene più verosimile che Gallo si riferisca proprio alla vittoria di Cesare nella guerra civile. A mio avviso, il richiamo ai brani dell’orazione ciceroniana Pro Marcello può avere una sua validità: mi riferisco soprattutto a 9, 29: Erit inter eos etiam qui nascentur, sicut inter nos fuit, magna dissensio, cum alii laudibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii fortasse aliquid requirent, idque vel maximum, nisi belli civilis incendium salute patriae restinxeris, ma le testimonianze di Plutarco (Caes. 56: «Questa fu l’ultima guerra che Cesare combatté: il trionfo che ne celebrò turbò i Romani come nessun altro. Non era una bella cosa che egli, che non aveva sconfitto capi stranieri o re barbari, ma aveva completamente distrutto i figli e la stirpe del più forte e sventurato dei Romani, celebrasse un trionfo sulle sventure della patria, vantandosi di un’azione la cui unica giustificazione di fronte agli dèi e agli uomini era di essere stata compiuta per necessità»239) e di Appiano, B.C. II 106, molto severe nei confronti del trionfo celebrato da Cesare dopo Munda e degli onori a lui tributati, mi paiono significative240. La validità dell’obiezione del Nisbet all’ipotesi 1 è stata comunque ribadita dal Morelli241. L’ipotesi 3, proposta da Newman (il ritorno trionfale di Ottaviano dalla Sicilia segnò l’inizio della sua «auctoritas»: col sostegno della testimonianza di un nummus aureus, sul quale è l’immagine di un tempio che ha sulla facciata l’iscrizione Imp. Caesar, relativa alla sua vittoria del 36 a.C., si può interpretare legere templa dei vv. 4-5, non «leggere dei templi» su libri di storia, bensì «leggere sui templi» le iscrizioni relative alla vittoria, in stretta connessione con l’espressione titulis oppida capta le86


gere usata da Properzio in III 4, 16, un’elegia che ha molti punti di contatto con i versi di Gallo; non c’è motivo di pensare che nel distico si alluda ad un’assenza di quest’ultimo da Roma; si avverte nel carme di Gallo un atteggiamento adulatorio e al tempo stesso una sorta di religiosità, sottolineata dal riferimento ai templa)242, non mi sembra abbia trovato séguito243: per la verità essa è piuttosto debole, dal momento che la riconquista della Sicilia nel 36 a.C., per quanto importante nella vicenda delle guerre civili, segnò solo una tappa nella carriera politica di Ottaviano: nemmeno un adulatore entusiasta avrebbe potuto considerarlo in quel momento maxima pars della storia di Roma; sicuramente di maggior rilievo l’interpretazione alternativa di legere templa, che, come vedremo più avanti, è stata indipendentemente avanzata anche dal Mazzarino e dal Whitaker ed ha avuto una certa fortuna. L’ipotesi 4, esclusa dallo stesso Nisbet (le campagne dell’Illiria non sembrano proporzionate all’importanza che il poeta attribuisce al prossimo evento nella carriera del futuro vincitore), è stata riproposta poco persuasivamente da Hutchinson244 (la datazione intorno al 35 sarebbe sostenuta dalla menzione al v. 8 di Visco, che come critico letterario fu attivo in quel periodo; l’attribuzione del titolo di maxima pars Romanae historiae a Cesare dopo la progettata campagna partica, sostenuta dal Nisbet, significherebbe che il poeta poco verosimilmente gli nega questo stesso titolo dopo le guerre gallica e civile, vale a dire quando Cesare è già “grandissimo”, mentre si adatterebbe di più al giovane Ottaviano; la calda familiarità di un’espressione come Fata mihi Caesar tum erunt mea dulcia quom tu del v. 2 si giustifica solo se si ammette che essa fosse indirizzata ad un «intimo amico» di Gallo, quale sicuramente fu Ottaviano e molto probabilmente non fu Cesare; nei versi di Gallo vanno enfatizzati non tanto «realismo e praticità» quanto l’intenzione encomiastica); definita ammissibile dal Barchiesi245 a patto che si rinunci «a prendere troppo alla lettera l’enfatico v. 3 (che probabilmente, in effetti, non intende stabilire una precisa graduatoria di importanza storica)» è stata respinta una prima volta da MorelliTandoi246 ed una seconda volta dallo stesso Morelli247 (l’enfasi del v. 3 e l’«opulenza» che traspare dai vv. 4-5 mal si adattano alla modesta campagna illirica)248. L’ipotesi 5, scartata dal Nisbet (alla vigilia di Azio Gallo si aspetterebbe di partecipare direttamente al trionfo di Ottavia87

242

NEWMAN 1980, sp. pp.

85-88. 243 Essa è stata riproposta dallo stesso NEWMAN 1984, pp. 19-29; ma anche in questo caso la sua dimostrazione è molto debole. Cf. AMATO 1987, pp. 324 s. 244 HUTCHINSON 1981, pp. 37-41. 245 BARCHIESI 1981, p. 159. 246 TANDOI 1982-1983, p. 28 n. 41; MORELLI-TANDOI 1984, p. 114 e n. 33. 247 MORELLI 1985, p. 166. 248 Cf. anche le riserve di NICASTRI 1984, p. 108 n. 335 ed AMATO 1987, p. 324.


249

MAZZARINO 1980, pp.

7-50. 250 PETERSMANN 1983, pp. 1650-1652. 251 Il Petersmann, comunque, considera più verosimile l’ipotesi 2, avanzata dagli editores principes. 252 NICASTRI 1984, pp. 104107. 253 BARCHIESI 1981, p. 159.

no e non di leggere di esso da lontano) e ripresentata, organicamente formulata, dal Mazzarino249 (il v. 3 si addice non ad un uomo già al massimo della sua potenza quale è Cesare, bensì ad Ottaviano, che si appresta ad uno scontro capace di fargli acquistare un ruolo grandissimo nella storia di Roma; Gallo, che si appresta a partecipare alla battaglia di Azio col ruolo di praefectus fabrum, si aspetta proprio di partecipare al trionfo, circostanza che è da vedere nell’espressione legere templa fixa spoliis tuis dei vv. 4-5, la quale non va intesa nel senso che Gallo leggerà dei trionfi del vincitore in un libro di storia – come intendono Parsons-Nisbet ed altri –, ma leggerà le epigrafi votive del bottino affisse nei templi), ha avuto alterna fortuna: il Petersmann250 l’ha ritenuta in qualche misura possibile, sottolineando come non si debba trarre dal motivo, prettamente lirico, della recusatio conclusioni relative alla biografia di un autore: la spedizione militare cui si riferisce Gallo, di là dal fatto che egli lasci intendere che non vi parteciperà, può ben essere quella di Azio251; il Nicastri252 ha prospettato difficoltà di tipo linguistico-grammaticale (considerare templa oggetto di legere è inammissibile; in tutte le testimonianze relative alla “lettura epigrafica” l’atto del legere è specificato da termini come tituli, tabellae, nomen, che nei versi di Gallo mancano: legere regge una proposizione oggettiva e va inteso in senso storiografico) e stilistico (l’enfasi dell’epigramma si giustifica per la previsione di una vittoria di respiro universale, contro un nemico esterno, quale una vittoria ad Azio non può considerarsi); il Barchiesi non l’ha esclusa del tutto (l’obiezione che per il suo stretto legame con Ottaviano «difficilmente Gallo poteva raffigurare se stesso in posizione di “attesa contemplativa”» potrebbe superarsi presupponendo che il poeta volutamente riduca il proprio ruolo, «per non intaccare in nulla la centralità di Ottaviano». Rimarrebbe, comunque, «imbarazzante» la presenza di un encomio ad Ottaviano alla vigilia di Azio in un libro di poesie d’amore dedicate all’ex amante di Antonio Volumnia / Cytheris)253; il Susini l’ha accolta senza riserve («non mi pare sormontabile l’obiezione del Mazzarino agli editori del papiro che ravvisavano in Caesar Giulio Cesare prima della progettata impresa partica, poiché a nessun titolo si sarebbe potuto dire di lui, o rivolgersi a lui, come se già non fosse maxima pars della storiografia romana»; «il clima che può giustificare il contenuto e lo spirito» dell’epigramma di Gallo rispecchia la situazione politica dell’Italia nell’anno che precede 88


Azio, caratterizzata da riserve e resistenze nei confronti di Ottaviano che, dunque, non era ancora la maxima pars della storia di Roma)254; essa è stata invece respinta dallo Zecchini (la poesia contemporanea prova che non immediatamente fu còlta l’importanza della vittoria di Azio e non bastava vincere una guerra civile per diventare maxima pars della storia di Roma, dal momento che anche Cesare ne aveva vinta una)255; dal Graf (per la spedizione in Oriente da parte di Ottaviano «ist der Papyrus zu früh»)256; dal Tandoi e dal Morelli (nella propaganda ottavianea pre-aziaca il futuro Augusto si presenta come il restauratore della moralità dello Stato e l’artefice della pace, per cui esaltarlo come possibile vincitore e conquistatore di spolia in una guerra che l’Italia, ancora divisa tra i due schieramenti, sentiva come ‘civile’ sarebbe stato «inaudito» e tale da provocare indignazione)257. Il Mazzarino in due ulteriori contributi ha confermato la datazione del 32 a.C. Nel primo258 egli ha tra l’altro cercato di fissare le tappe più importanti del rapporto tra Gallo e Licoride, che a suo avviso sarebbe cominciato verso il 43 a.C. e si sarebbe interrotto nell’inverno del 41/40 a.C., alla vigilia della guerra di Perugia; dal momento che l’epigramma b sarebbe stato composto verso il 32 a.C., quando da tempo egli aveva scritto e pubblicato i carmi d’amore per l’amata, egli ritiene che il papiro di Qas\r Ibrîm contenesse la parte finale di una seconda edizione degli Amores. In questa ai carmi già scritti sarebbero stati aggiunti dei nuovi, forse a contenuto politico, tra i quali quello in onore di Caesar, un inserimento che non avrebbe snaturato il tratto essenziale di quella raccolta di poesie erotiche, ma che ricorderebbe l’esempio del libellus catulliano (dove, accanto a diversi componimenti poetici, ci sono poesie di argomento politico) o la raccolta di Properzio, nella quale all’elegia ‘etiologica’ di IV 6 segue le rievocazione della donna amata in IV 7. Il Mazzarino non esclude che nella seconda edizione fossero compresi anche carmi scritti da Gallo per Licoride dopo la rottura del loro rapporto; in caso contrario l’epigramma c, che «avvia verso la chiusura l’opera», sarebbe stato comunque scritto molto tempo dopo le vere e proprie elegie d’amore, comunque non prima dell’epigramma b. Nel secondo contributo259 lo studioso ribadisce che i carmi di P, verosimilmente ordinati cronologicamente, sono stati composti negli anni di «piena maturità» del poeta Gallo (l’epigramma b verso il 32/31 a.C.; gli altri in epoca non molto lontana) e in 89

254 SUSINI 1981, pp. 393400. L’ipotesi del Mazzarino ha avuto entusiastica accoglienza in E. MALCOVATI, «Athenaeum» 68 (1980), p. 515. Essa è stata accolta anche da MAGRINI 1981, p. 13 n. 16, la quale, comunque, non segue in tutto e per tutto il Mazzarino. 255 ZECCHINI 1980, p. 148. 256 GRAF 1982, p. 26. Lo studioso, comunque, non conosce il contributo del Mazzarino. 257 Cf. TANDOI 1982-1983, p. 28 n. 41; MORELLI-TANDOI 1984, pp. 114 s.; MORELLI 1985, pp. 164 s. 258 MAZZARINO 1980-1981, pp. 3-26. 259 MAZZARINO 1982, pp. 312-337, sp. 324-333.


260 261

MORELLI 1985, p. 181 n. Sull’ipotesi di Mazzarino cf. anche GALL 1999, p. 242 e AMATO 1987, pp. 326 s. Secondo CROWTHER 1983, p. 1646, la menzione di Visco al v. 8 di P «may point to the possibility that Caesar was Octavian and to a time around the battle of Actium». Agli anni «before and shortly after Actium» pensa anche GRIFFITH 1988, p. 65. 262 WEST 1983, pp. 92 s. 263 MORELLI 1985, p. 165 n. 25. A tale obiezione non dà peso LUTHER 2002, pp. 35-37, per il quale legam e spolia fanno pensare rispettivamente ad una lontananza di Gallo dall’Italia e ad una vittoria ottenuta su un nemico straniero: dal momento che non sappiamo nulla dei rapporti tra G. Cesare e Gallo, l’epigramma non può che riferirsi al momento in cui il poeta si trova in Egitto (30-27 a.C.) ed Ottaviano, già vittorioso su Cleopatra, si accinge a tornare a Roma: Gallo, secondo quello che doveva essere «il punto di vista ufficiale» espresso anche da Velleio Patercolo (II 89: Nihil deinde optare a dis homines, nihil dii hominibus praestare possunt, nihil voto concipi, nihil felicitate consummari, quod non Augustus post reditum in urbem rei publicae populoque Romano terrarumque orbi repraesentaverit.), afferma che solo con l’effettivo ritorno in città Caesar diventerà il protagonista della storia di Roma, in occasione del quale completerà il progetto di costruzione di «templi di molte divinità», già avviato prima di Azio. Osservo che nel passo di Velleio si pongono unicamente in rilievo tutti i benefici che Ottaviano, dopo il suo ritorno, apportò al popolo romano e al mondo intero, ma niente impedisce di pensare che la gente lo considerasse maxima pars della propria storia già in séguito alla presa di Alessandria: continua a rimanere inaccettabile l’idea che

quanto tali vanno considerati tra i carmi finali del IV libro degli Amores, alla fine di «un lungo periodo di operosità poetica», come indicherebbe il tandem dell’epigramma c (col. I 6), che, secondo il Mazzarino, la menzione di Visco induce a collocare intorno al 32 a.C. o sùbito dopo. Il Morelli260 ha tuttavia rilevato che il linguaggio dell’epigramma c non può essere riferito al Gallo maturo e, di là dalla sua collocazione all’interno degli Amores, non può avere una datazione molto bassa; inoltre, che il papiro avesse contenuto una seconda edizione della raccolta di Gallo è, per il Morelli, un’ipotesi cui il Mazzarino è in qualche modo costretto dalla sua convinzione che esso sia stato scritto nel 32/31 a.C. Nemmeno a me questa ipotesi sembra necessaria261. L’ipotesi 6 ha avuto due diverse formulazioni. La prima, dovuta al West262 (Gallo, rimasto in Egitto come praefectus, non parteciperà all’imminente trionfo di Ottaviano, ma ne riceverà notizie scritte da Roma), era già stata giustamente scartata dal Nisbet, con argomentazioni riproposte dal Morelli263 (l’ipotesi spiegherebbe la «puzzling absence» di Gallo alla cerimonia del trionfo, ma implicherebbe in modo piuttosto «indelicato» che la vittoria in sé non ha ancora reso felice il poeta). La seconda, più organica e certo più interessante, è stata avanzata da Koenen (in Koenen-Thompson 1984, pp. 144-150), secondo il quale 1. se si ammette che Gallo intende affermare che dopo il ritorno di Caesar a Roma ammirerà i templi arricchiti delle spoglie dei nemici, rimane strano che egli non accenni ad una sua partecipazione al trionfo e dunque affermi che l’altro possa diventare maxima pars della storia romana semplicemente in connessione con l’arricchimento dei templi e senza un trionfo formale (in Properzio, III 4, la lettura dei nomi delle città sconfitte è strettamente collegata alla processione trionfale). 2. L’apparente stranezza si spiega perfettamente, se si data l’epigramma b agli anni 30-29 a.C. e si pensa che Gallo l’abbia composto quando era in Alto Egitto e risenta in esso di situazioni ed atmosfere egiziane: come già i Greci prima di lui, Gallo accoglie «il punto di vista egiziano», secondo il quale le vittorie sui nemici e l’arricchimento dei templi sono due aspetti del ruolo del faraone visto come «restauratore del proprio paese dal chaos», e, perciò, guarda ad Ottaviano come al sovrano, protagonista della storia romana, che in futuro, tornando in città, arricchirà i templi e si configurerà come «un faraone nel ruolo del dio sole» (ed in effetti i ritorni di Augusto furono contrassegnati da un’attenzione particolare per gli aspetti religiosi delle celebrazioni). 3. Sotto questo 90


aspetto l’epigramma è “spiritualmente” vicino sia all’iscrizione di File sia alla celebre Tazza Farnese, nella quale può essere visto Gallo che, novello Horo-Trittolemo, interpreta «il ruolo del re egiziano in una versione ellenizzata». 4. Se, come ha sostenuto il Mazzarino, l’epigramma è stato inserito in una seconda edizione dei carmi di Gallo, il fatto che sia venuto a trovarsi accanto a poesie composte dall’autore nei suoi anni giovanili, conferisce ai versi il tono di una ispirata profezia. Per quanto organicamente formulata, l’ipotesi di Koenen (su cui vd. Stickler 2002, pp. 39-43) mi lascia perplesso: non mi pare si possa enfatizzare eccessivamente la mancata menzione della processione trionfale nei versi di Gallo: l’evento del trionfo è insito nei concetti del ritorno e delle spoglie. L’ipotesi 7 è dovuta allo Zecchini264 (con l’epigramma c, che sarà poi strettamente imitato da Properzio nell’elegia III 4, scritta nel 23 a.C. in relazione ai progetti di una spedizione partica per vendicare la disfatta di Carre, Gallo, rimasto in Egitto come prefetto, rivolge «un augurio e un’esortazione» ad Ottaviano affinché, chiusa la fase delle guerre civili, muova guerra ai Parti e, dopo l’onta di Carre, con una grande vittoria recuperi prigionieri, insegne e più in generale l’onore delle armi e, al tempo stesso, annulli nella gente di Roma il tradizionale metus Parthicus, di cui testimonia la poesia contemporanea265; l’appello di Gallo, lungi dall’essere «espressione ufficiale della propaganda di regime», è un’esortazione sincera, che rivela l’esistenza, dopo Azio, di due tendenze nei vincitori: da un lato i «pacifisti», tra cui Ottaviano, e dall’altro gli «espansionisti», tra cui Gallo, il quale sottolinea che solo dopo il ritorno vittorioso dalla guerra partica l’altro diventerà maxima pars della storia di Roma: una considerazione che Ottaviano non deve aver molto gradito e che lascia ipotizzare «un’opposizione crescente» del prefetto alla politica imperiale, un dissenso che insieme con il comportamento da lui tenuto in Egitto può aver portato alla rottura con Ottaviano; l’espansionismo di Gallo richiama quello di Ovidio, che nell’Ars amandi I 177-228 rimprovera l’accordo di pace coi Parti stipulato da Ottaviano nel 20 a.C. ed esprime, polemicamente, la grande fiducia riposta da coloro che dissentivano dalla politica imperiale nella missione in Oriente di G. Cesare del 2 d.C.; Gallo e Ovidio furono vittime della reazione risentita di Augusto). Il Nisbet266 aveva già escluso la possibilità che Gallo si riferisca ad una campagna partica di Ottaviano (in relazione 91

Gallo possa, per dir così, rinviare la propria gioia al futuro reditus. 264 ZECCHINI 1980, pp. 138148. 265 Verg., Georg. I 509, II 170-172, III 30-31, IV 560-562; Hor., Carm. I 2, 51-52; I 12, 5354; I 35, 29-32; III 5, 3-4. 266 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 152 n. 133.


267 «Obiezioni di scarso peso» ha definito questi rilievi lo ZECCHINI 1980, p. 141, il quale ha osservato che esse si basano tra l’altro sul presupposto indimostrato che Gallo fosse d’accordo con Ottaviano sul modo di risolvere la questione partica. 268 NICASTRI 1984, p. 107 n. 35. 269 NICASTRI 1984, pp. 138 s. 270 MORELLI-TANDOI 1984, pp. 114 s. n. 34. Le argomentazioni di Nicastri sono pienamente condivise da MORELLI 1985, pp. 165 s. 271 GERACI 1983, pp. 95100. Che il Caesar sia Ottaviano è opinione anche di CRESCI MARRONE 1993, p. 142, per la quale «incertezza permane circa l’obiettivo della campagna militare di portata epocale in cui il principe risulterebbe impegnato». 272 GERACI 1983, p. 99.

ad un’impresa del genere il poeta sarebbe più concretamente informato rispetto ad un Orazio o un Properzio ed è improbabile che egli minimizzi le attuali conquiste dell’altro)267, ma l’ipotesi dello Zecchini è stata in séguito successivamente, e convincentemente, rigettata da Nicastri (che Properzio in III 4 si rivolga ad Ottaviano non significa necessariamente che anche Gallo lo faccia nel suo epigramma: «proprio la sostanziale diversità di atteggiamento poetico dovrebbe ingenerare il legittimo sospetto che diversi possano essere anche i referenti costituiti dai personaggi e dai nessi storici»268; Ottaviano non progettò mai una spedizione contro i Parti e presupporre, in proposito, una sorta di pressione su di lui da parte di Gallo costituirebbe «una notevole forzatura del testo, che parla piuttosto di un’aspettativa gioiosa del poeta, animata e legittimata dalla sua totale condivisione dei progressi del destinatario»; se il messaggio di Gallo fosse stato dedicato ad una questione suscettibile di soluzioni diverse come quella partica, il poeta avrebbe indicato espressamente il nome del nemico: il fatto che non lo nomini vuol dire che si sta riferendo ad un’impresa che il Caesar conosce bene e, dunque, ha già deciso di realizzare269) e da Morelli-Tandoi, i quali hanno ribadito che non ci sono prove di un contrasto sulla questione partica tra Ottaviano e Gallo270. L’ipotesi 8 è stata avanzata da Geraci271, per il quale «difficilmente [. . .] può essere confutata l’obiezione che nel 45 a.C. non si potesse dire a Cesare che sarebbe stato maxima Romanae pars historiae soltanto se avesse condotto a buon termine l’impresa alla quale si allude nell’epigramma». Lo studioso ritiene che la rilevanza della spedizione in Illiria sia troppo modesta per giustificare il tono del carme, mentre un riferimento ad una futura campagna contro i Parti finirebbe con il tradursi in una ingiustificata svalutazione della presa di Alessandria che, a differenza dello scontro di Azio, fu sùbito vista dai contemporanei come la vittoria decisiva contro il gravissimo attacco portato dal nemico egiziano al cuore di Roma. «Il tono dei versi» – secondo Geraci – trova «più naturale collocazione all’indomani di Azio, subito avvertita come vittoria non del tutto risolutiva, ma tale comunque da far sperare in un rovesciamento delle sorti del conflitto – in precedenza assai indecise – in favore di Ottaviano, proiettato, pur tra permanenti difficoltà, verso il definitivo successo sui suoi avversari»272. Per Geraci, tale ipotesi spiegherebbe l’«impressione di lontananza tra il Cesare e il poeta», che 92


molti hanno còlto nell’epigramma: Gallo, impegnato nelle ultime fasi della guerra sul fronte africano e cirenaico, non avrebbe potuto seguire direttamente Ottaviano nella sua marcia di avvicinamento all’Egitto e poteva ben augurarsi di leggere (secondo il suggerimento del Mazzarino) le epigrafi sulle spoglie della vittoria nei templi di Roma. L’ipotesi 2 è quella che sostanzialmente ha avuto più consensi. Essa è stata così formulata dal Nisbet: 1. Concreti ed ambiziosi preparativi di una campagna contro i Parti furono fatti dopo il ritorno di Giulio Cesare dalla Spagna nel 45 a.C. 2. Le inclinazioni letterarie di Cesare e i panegirici delle sue guerre galliche composti da Furio Bibaculo e Varrone Atacino rendono «naturale» l’allusione di Gallo. 3. Cesare fu assassinato tre giorni prima dell’inizio della spedizione, ma Gallo doveva già avere pubblicato il suo libro di poesie. 4. La vittoria contro i Parti gli avrebbe assicurato indiscutibilmente il ruolo di protagonista nella storia di Roma. 5. Impossessarsi degli spolia dei Parti, che a lungo avevano tenuto le insegne dei Romani, doveva essere considerata una punizione esemplare. 6. «Particolarmente importante» il confronto con l’elegia III 4 di Properzio, dove sembrano cogliersi diversi motivi dell’epigramma di Gallo. 7. La relazione tra quest’ultimo e Licoride può essere iniziata nel 47 a.C.; più difficile risulta stabilire quando essa sia finita: di solito la spedizione alla quale la donna partecipa per seguire l’ufficiale di cui è innamorata per le Alpinas nives et frigora Rheni (Verg., Ecl. X 46-47), viene identificata con quella di Agrippa nel 39/38 a.C., ma l’ecloga virgiliana difficilmente può essere stata scritta più tardi del 39 a.C., perciò potrebbe anche essersi trattato di una operazione anteriore; contemporaneamente il poeta potrebbe essere impegnato nella guerra di Perugia (inverno del 41-40 a.C.). 8. Se non solo l’epigramma b, ma anche gli altri carmi del papiro furono scritti alla fine del 45 a.C., bisogna presupporre che per due anni Gallo abbia celebrato il suo amore per Licoride. 9. Il fatto che egli preveda di non assistere direttamente al trionfo per la futura vittoria contro i Parti, ma di leggerne nei libri di storia, può spiegarsi con una sua prolungata assenza dall’Italia, forse connessa con un suo impegno nell’organizzazione delle colonie in Spagna o nella Gallia Narbonese273. 10. È incerto se Licoride sia tornata in séguito da Gallo; una serie di considerazioni induce ad escludere che i carmi del papiro siano scritti tardi, vale a dire verso il 30 a.C.: egli, impegnato sempre di più 93

273 Alcuni studiosi, tra cui ÉVRARD 1984, p. 33, negano che si possa cogliere all’interno di un componimento letterario, quale è quello elegiaco, dove vige la convenzione secondo la quale il poeta si dichiara estraneo ad ogni attività diversa da quella amorosa, un riflesso della realtà storica: a loro avviso, perciò, il fatto che Gallo dichiari che sarà solo spettatore del trionfo di Cesare non indica che effettivamente egli intenda non prendervi parte.


274 275 276

ZECCHINI 1980, pp. 140 s. D’ANNA 1980, p. 77. PUTNAM 1980, p. 49 e

n. 2. 277 GRAF 1982, p. 26, il quale ha rilevato come la vittoria sui Parti avrebbe consentito a Cesare di estendere la sovranità di Roma su tutto il mondo abitato entro l’Oceano, secondo un motivo topico che ritroviamo tra l’altro in Plut., Caes. 58, 6-7. 278 SBORDONE 1982, p. 61. 279 TANDOI 1982-1983, p. 28 n. 41. 280 WHITAKER 1983, p. 55. 281 PETERSMANN 1983, p. 1655. Si veda anche sopra, V. 282 FAIRWEATHER 1984, pp. 173 s. 283 COURTNEY 1993, p. 265, secondo il quale non abbiamo prove del fatto che Gallo, dopo la pubblicazione delle Bucoliche virgiliane nei primi anni 30, avesse continuato a comporre poesie, dal momento che verosimilmente egli fu assorbito dalla sua carriera militare e politica. 284 Cf. VON ALBRECHT 1994, p. 590 = trad. it., II, p. 748: «l’allocuzione a (Valerius) Kato fa pensare piuttosto a Cesare, per ragioni cronologiche. È possibile che Gallo abbia composto i suoi carmi negli anni Quaranta». 285 Cf. PINOTTI 2002, p. 63. 286 Da notare che il PARSONS 19801, pp. 9 s., esprime qualche dubbio sulle motivazioni sulle quali il Nisbet basa la sua ipotesi – «Nisbet opts for the early date, on the ground that by the Twenties Gallus was too grand to write verse, and Lycoris too old to be written about (one might doubt the first argument, and indeed the second: Lycoris, like Propertius’s Cynthia, may have remained a symbol long after she ceased to be a siren» – e prende in considerazione la possibilità che il Caesar sia Ottaviano. 287 NICASTRI 1984, sp. pp. 134-152. Ulteriori argomentazioni a favore dell’ipotesi del Ni-

nella sua carriera politica, ad un certo punto potrebbe avere abbandonato del tutto la poesia; verso il 30 a.C. Licoride deve avere avuto oltre quarant’anni, ma il contrasto tra tristia e dulcia rispettivamente del primo e del secondo carme di P fa pensare che la nequitia della donna sia recente e, del resto, sarebbe sconveniente per un uomo pubblico come Gallo lamentarsi della condotta morale di una donna che, tra l’altro, tempo prima era stata l’amante di Antonio: quale prefetto d’Egitto, egli molto difficilmente può avere pubblicato un libro di elegie amorose. Le considerazioni del Nisbet sono state naturalmente contestate, in tutto o in parte, da coloro che hanno datato diversamente l’epigramma b. Zecchini274 ha rilevato che la menzione in col. I 8 di Visco colloca l’epigramma c più agli anni 35/30 a.C. che al 45 a.C.; niente prova che Gallo verso il 45/44 a.C. fosse assente dall’Italia ed impossibilitato a prendere parte alla spedizione partica progettata da Cesare; non c’è motivo di anticipare la data, tradizionalmente accolta, della spedizione transalpina cui partecipa Licoride (39/38 a.C.) e di ritenere che ella rompa con Gallo già nel 45 a.C. Hutchinson ha obiettato, come già si è detto, che nel 45-44 a.C. Cesare era già all’apice della sua potenza; a suo dire, inoltre, Gallo, contrariamente a quello che ritiene il Nisbet, potrebbe ancora essere attratto da una Licoride non più giovanissima e scrivere di lei negli anni 35-33. Anche il Mazzarino ha tra l’altro insistito, come si è visto, sul fatto che Cesare prima della spedizione partica era già “grandissimo”. Il D’Anna275, pur non escludendo che il poeta alluda alla spedizione partica progettata da Cesare, ritiene «più prudente» pensare ad Ottaviano, «sotto il quale Gallo compì tutta la sua brillante carriera politica, mentre non abbiamo testimonianze sicure e dirette di un rapporto del poeta col dittatore». Accolta, sul fondamento di riflessioni diverse, da Putnam276, Graf277, Sbordone278, Tandoi279, Whitaker280, Petersmann281, Fairweather282, Courtney283, von Albrecht284; e Pinotti285, l’ipotesi del Nisbet286 è stata ulteriormente rafforzata dal Nicastri287, il quale, basandosi sul «confronto con altre testimonianze letterarie pertinenti, nelle quali si trovino formalizzati sia i caratteri psicologici dei personaggi in questione, sia le attese storiche da essi suscitate», ha dimostrato che: 1. C’è «una sostanziale estraneità» tra l’epigramma b e i motivi di fondo della storia letteraria pre-aziaca, caratterizzata tra l’altro dall’immagine di Ottaviano quale restauratore politico e 94


morale dello Stato ed artefice della pace in una situazione di drammatico sconvolgimento. 2. Si colgono, nell’atteggiamento di Gallo, una «devozione» ed un «legame esistenziale» nei confronti di Giulio Cesare che ricordano molto da vicino l’estrema dedizione che legava a lui i suoi soldati. 3. La passionalità dell’augurio di Gallo si armonizza perfettamente con l’immagine di Cesare consapevolmente ed ambiziosamente teso, specie con la progettata spedizione partica, ad acquisire gloria e dominio assoluto, restituitaci dalle fonti letterarie, in particolare le Historiae di Asinio Pollione, il patronus di Gallo, e ricostruibile attraverso la Vita di Cesare di Plutarco e le Guerre Civili di Appiano, che hanno utilizzato l’opera di Asinio. Se quest’ultimo, e quelli del suo ambiente, potevano considerare, con qualche preoccupazione moralistica, la spedizione partica e la naturale conseguenza della regalità di Cesare come «il compimento di quel binomio ambizione-fortuna che caratterizzava» ai loro occhi la figura di Cesare, la sincerità e lo slancio dell’augurio di Gallo sono totali. Ulteriori considerazioni a favore della datazione del 45-44 a.C. sono state fatte dal Morelli288, secondo il quale, come dieci anni prima la vigilia della spedizione cesariana in Britannia era stata vissuta con interesse ed entusiasmo dal popolo per la prospettiva di grandi ricchezze, così l’impresa partica doveva apparire agli occhi dei cesariani fonte di un bottino straordinariamente ricco, un’aspettazione che si coglie nell’accenno ai templi sontuosamente ornati dalle spoglie del nemico nei vv. 4-5 di Gallo. Secondo lo studioso, inoltre, Gallo non avrebbe potuto, verso il 30 a.C. «o addirittura dopo», quando già erano state pubblicate le prime grandi opere di Virgilio ed Orazio, scrivere in una «lingua ancora così diseguale, influenzato nel contempo da movenze arcaizzanti e neoteriche»: il suo stile testimonia un momento intermedio tra neoteroi ed augustei e non può spiegarsi col tradizionale richiamo alla durities di Gallo; l’imitazione, molto verosimile, dei vv. 8-9 di Gallo da parte di Virgilio in Ecl. II 26 s. (non ego Daphnim / iudice te metuam, si numquam fallit imago)289 porta a supporre che i carmi del papiro siano stati scritti prima delle Ecloghe del Mantovano. Alla stessa conclusione, secondo il Barchiesi290, si perviene guardando alla sesta ed alla decima ecloga, che presuppongono che i carmi di Gallo già siano stati scritti e pubblicati; per lo studioso, la datazione del Nisbet «è quella che meglio si adatta a quanto già sapevamo 95

sbet porta WHITAKER 1981, p. 91, secondo il quale una datazione dell’epigramma al 31/30 oppure al 35/33 a.C. implicherebbe che il rapporto di amore tra Gallo e Licoride, iniziato verso il 4645, sarebbe inverosimilmente durato almeno dieci anni. Per il Whitaker, se effettivamente la datazione prospettata dal Nisbet è esatta, nei versi di Gallo andrebbero legittimamente individuati alcuni aspetti che avrebbero in séguito caratterizzato il rapporto tra i poeti augustei e personalità pubbliche e politiche, soprattutto l’esaltazione delle gesta di una figura pubblica ancorata alla propria esperienza privata. «It would seem – scrive lo studioso (p. 93) – that Gallus had already faced and solved the same problem that would confront the Augustans, the problem of how to integrate historical and political material into genres which were not specifically designed for it». Si veda anche MORELLI 1984, pp. 153155. Non ritiene si possa prendere posizione sull’identificazione del Caesar HAUBEN 1984, p. 1091 n. 44. 288 MORELLI 1985, pp. 166168. 289 Si veda in proposito MORELLI-TANDOI 1984, pp. 101-116. 290 BARCHIESI 1981, p. 160.


291 Anche MICHEL 1990, p. 61 n. 5, accoglie la datazione del Nisbet, per quanto lo studioso scrivendo «Les fragments découverts récemment dans un papyrus de Qasr Ibrîm (POxy 2820)» confonda il nostro papiro con un frammento greco ossirinchita che contiene una non meglio identificata opera storica relativa all’Egitto che alcuni studiosi hanno connesso con Cornelio Gallo, cf. almeno HAUBEN 1984, pp. 1085-1097 e STICKLER 2002, pp. 28-42. La svista di Michel era già stata notata, anche se non spiegata, da BALLAIRA 1993, p. 42. 292 AMATO 1987, pp. 322-336. 293 GALL 1999, pp. 237-243.

della carriera letteraria di Cornelio Gallo», che nessuna testimonianza colloca negli anni successivi alle Ecloghe291. Secondo Amato292, la datazione proposta per l’epigramma b non solo è plausibile, ma è anche proponibile per gli altri versi del papiro. A suo avviso, infatti, 1. l’epigramma c, di là dalle diverse possibili integrazioni delle parti frammentarie, risale sicuramente ad un’epoca in cui l’autore, agli inizi della propria attività poetica, non è ancora affermato e, dunque, ha bisogno di poter contare sul giudizio favorevole di Valerio Catone oppure di Catone e di Visco, per mettersi al riparo dalla critica di avversari malevoli, una circostanza che consente di poter datare l’epigramma almeno al 45 a.C. 2. L’epigramma a, centrato sulla nequitia di Licoride, sia che questa ancora fosse legata al poeta, sia invece che l’avesse già lasciato per seguire nelle Gallie verosimilmente M. Antonio nel 44-43 a.C., è da collocarsi tra il 45 e il 44-43 a.C., «con preferenza per la data alta, dovendosi forse il fr. riferire non al discidium, ma probabilmente a un momento difficile della relazione di Gallo con Licoride». 3. Dal momento che P contiene presumibilmente una serie di epigrammi non solo composti più o meno nello stesso arco di tempo, ma anche ordinati cronologicamente, l’epigramma b deve essere riferito all’incirca alla stessa epoca degli altri due: quest’ultimo carme deve quindi essere stato composto nel 45 o nei primi mesi del 44 a.C.; il Caesar, allora, non può che essere Giulio Cesare. 4. Tale ricostruzione spiegherebbe sia l’assenza del poeta, ancora giovane, al trionfo sia il tono lievemente adulatorio nei confronti del massimo protagonista della storia di Roma, poco spiegabile nel 33-31 a.C., quando Gallo era uno dei maggiori esponenti della cerchia di Ottaviano. Secondo la Gall293, non è possibile individuare con certezza il Caesar, ma l’ipotesi del Nisbet è la più verosimile. Ecco le principali considerazioni della studiosa: 1. Lo stretto legame tra la felicità del poeta e quella di Caesar potrebbe richiamare il rapporto personale tra Gallo ed Augusto, ma non può costituire un argomento solido a favore dell’individuazione di Ottaviano nel Caesar: il silenzio delle fonti sull’importanza di Gallo nella cerchia di Cesare non significa che egli non sia stato in stretti rapporti con lui. 2. Il contesto di amore, riflessione letteraria e panegirico del sovrano è usuale in connessione con Ottaviano, ma Gallo nel rivolgersi a Giulio Cesare potrebbe avere proposto per gli augustei un modello da essi accolto e “applicato” alla figura di Ottaviano. 96


3. La vittoria sui Parti può legittimamente essere vista come coronamento dell’azione politica di Cesare: l’onta di Carre aveva causato profondo disagio nei Romani e la grande soddisfazione di essersi riprese le insegne si coglie nettamente in Orazio, Carm. IV 15, 4-8. 4. La datazione dell’epigramma ad un’epoca anteriore al 44 a.C. è coerente col fatto che Gallo nel 40, quando Virgilio completa le Bucoliche, doveva essere già famoso. 5. Non c’è alcuna necessità di eliminare – come hanno fatto diversi studiosi ed in particolare il Putnam294 – l’evidente relazione semantica tra historia di v. 3 e legam di v. 5, che vanno rispettivamente intesi come res gestae e «leggere», nel senso di vedere eternata negli annali della storia romana la gloria di Cesare; di conseguenza l’epigramma va così parafrasato: «Il mio destino sarà felice quando tu, Cesare, sarai diventato la figura più significativa della storia di Roma ed io potrò leggere del modo in cui i templi furono arricchiti delle tue spoglie». Altresì inammissibile è vedere nel legam, come fanno taluni295, l’espressione di una dolorosa rinuncia alla partecipazione personale al trionfo, dovuta all’impegno della prefettura egiziana. 6. Inesatto è pure vedere, come fa il Graf296, nel legam l’inizio dell’atteggiamento tipico degli elegiaci augustei, che contrappongono la loro vita, dedicata esclusivamente all’amore, alla carriera politica e militare: il vero contrasto è quello tra la sofferenza causata da Licoride e la felicità prodotta da Cesare; la partecipazione del poeta alle gesta di Cesare non è esclusa, ma solo non menzionata. 7. La consapevole distinzione tra lo scrivere del proprio amore per Licoride ed il volere solo leggere ciò che gli altri scriveranno di Cesare può comunque avere influenzato i poeti augustei. 8. I dati biografici relativi a Licoride in nostro possesso aiutano poco a stabilire la cronologia dei carmi di P. La convinzione del Nisbet, secondo il quale la relazione tra i due iniziò «fin dal 47 a.C.»297, non è agganciata ad alcun dato sicuro, dal momento che essa presuppone che per Licoride dovesse esserci un legame esclusivo o che Gallo non potesse corteggiare la donna di Antonio. 9. Un qualche aggancio cronologico per i versi di Qas\r Ibrîm può venire da passi delle Bucoliche di Virgilio ad essi vicini. Nella X la preghiera ad Aretusa di concedere al poeta carmi 97

294 295

PUTNAM 1980, p. 53. Per esempio WEST 1983,

pp. 92 s. 296 297

GRAF 1982, p. 27. In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 153.


298 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 144. 299 MORELLI-TANDOI 1984, pp. 101-116. 300 Sulla relazione tra Volumnia / Licoride e Gallo rinvio alla bibliogafia citata sopra, alla n. 102. Secondo MANZONI 1995, pp. 25-38, il rapporto sarebbe finito nel 40, dal momento che soprattutto i vv. 44-51 della X Ecloga virgiliana farebbero pensare «a una separazione recente, ancora lacerante, non a un episodio ormai remoto» (p. 31). 301 STROH 1983, pp. 215-246.

quae legat ipsa Lycoris (vv. 1 s.) e l’apostrofe alle Muse: vos haec facietis maxima Gallo (v. 72) richiamano i vv. 6 s. di P (con facietis che è metricamente identico a fecerunt del v. 7 di Gallo). Nella IX Ecloga (vv. 32-36) il cantore bucolico Licida espone i limiti della sua arte, richiamandosi alla testimonianza dei pastori, così come Gallo (vv. 6-9) si richiama a quella di Visco: tra i due luoghi vi sono analogie anche lessicali, ma è Virgilio verosimilmente che allude ai versi di Gallo rendendo omaggio all’amico. Significativa è la ripresa virgiliana sia del nesso non ego (v. 8) in Ecl. II 26 (non ego Daphnim) e, con qualche lieve variante, in Ecl. VII 7 e VIII 102 (in tutti e tre i passi esso è connesso con la figura di Daphnis ed occupa la medesima posizione che ha nel frammento di Gallo, posizione che in genere quel nesso occupa raramente) sia dell’espressione iudice te vereor (v. 9) nella stessa Ecl. II 27 (iudice te metuam): diversamente da quanto ritengono Parsons-Nisbet298 e come hanno ben visto Morelli e Tandoi299, è Virgilio che nella seconda Ecloga imita Gallo, che egli qui ed altrove associa alla figura di Dafni. 10. Se la cronologia delle Bucoliche virgiliane data da Servio e Donato è degna di fede, la seconda è stata composta nel 42 o nel 41; perciò i versi di Qas\r Ibrîm potrebbero essere stati composti in uno di questi due anni oppure prima, circostanza che naturalmente esclude che Gallo si riferisca alla spedizione di Ottaviano in Illiria o al trionfo di Azio. Alla luce del dibattito sopra sintetizzato a me sembra che la datazione dell’epigramma b al 45-44 a.C. sia, se non sicura, altamente probabile e che i vari tentativi di dare ad esso una più bassa cronologia creino più problemi di quanti ne risolvano. Né, credo, ci sono motivi per dubitare che anche gli altri epigrammi del papiro siano stati composti più o meno nella stessa epoca, come lasciano supporre soprattutto lo stile e la lingua dei versi; l’imitazione da parte del Virgilio delle Ecloghe; l’iniziale contrasto tra dulcia e tristia, che mi sembra inevitabilmente rinvii ad una ferita recente e che mal si adatta ad una donna che abbia oltre quarant’anni300; il bisogno di poter contare sul giudizio favorevole di una certa parte della critica letteraria. Una datazione alta (prima metà degli anni 40) sia (come si è visto) all’epigramma b sia agli altri carmi del papiro sia, più in generale, alle elegie degli Amores viene data, sul fondamento di procedimenti talora indiziari, dallo Stroh301, per il quale Gallo, inventore dell’elegia erotica romana, cominciò a comporre poesia amorosa già in età 98


giovanile: per lo studioso Gallo, cronologicamente è più vicino a Catullo che ai suoi epigoni Properzio e Tibullo.

VII. Chi, da dove, quando, come e perché portò il rotolo con le poesie di Gallo a Primis? Che la presenza del rotolo con i carmi di Gallo a Primis sia da mettere in connessione con la conquista di questo fortilizio da parte dei Romani (25/24 a.C.) e con la loro successiva permanenza sul posto (fino al 20 a.C.) non può essere messo in dubbio; è con ogni probabilità anche da escludere, per motivi facilmente intuibili, che esso fosse stato trascritto a Primis: qualcuno deve avercelo portato o deve esserselo fatto mandare. Conviene forse riportare quanto scrive il Crisci302: «Per tutto il periodo ellenistico-romano [. . .] la Nubia – pur risentendo in vario modo dell’influenza politica, economica e culturale del mondo greco-mediterraneo, e pur non essendo estranea a fenomeni di concreta presenza e circolazione di testi greci (si pensi, per esempio, alla versione greca dell’epigrafe di Cornelio Gallo, ovvero ai documenti che, verosimilmente, dovevano accompagnare le relazioni economiche e diplomatiche con il mondo ellenistico-romano), rimase tuttavia area marginale rispetto allo spazio grafico greco e non seppe probabilmente elaborare – poiché mai vi si determinarono le condizioni culturali e sociali favorevoli alla diffusione vasta e capillare della lingua greca – forme di cultura autonome, o comunque diversamente caratterizzate rispetto ai modelli greco-egizi». Se questo è vero per lo spazio grafico greco, lo è a maggior ragione per quello latino303. Quando i Romani occupano Primis, devono essere passati circa venti anni dal momento in cui Gallo ha scritto quei versi e la vicenda personale dell’antico collaboratore di Ottaviano si è infelicemente conclusa: non più tardi di un anno prima, travolto dal risentimento di Augusto, egli si è suicidato304. Ma sicuramente le sue poesie continuano a circolare: oltre un secolo dopo Quintiliano (Inst. Orat. X 1, 93)305 ancora le legge. Col Nisbet306 va osservato che la presenza del rotolo a Primis prova che non ci fu, comunque, un’«immediata censura» degli scritti di Gallo307. Per Amato, è improbabile che esso fosse stato trascritto dopo il 27 a.C., anno in cui Gallo cade in disgrazia308. 99

302 Cf. E. CRISCI, Scrivere greco fuori d’Egitto. Ricerche sui manoscritti greco-orientali di origine non egiziana dal IV secolo a.C. all’VIII d.C., Firenze 1996, p. 114. 303 Cf. anche PECERE 19901, p. 335. 304 Sull’esperienza egiziana di Gallo e sulle vicende che portarono al suo suicidio si veda almeno MANZONI 1995, pp. 49-55. 305 Elegia quoque Graecos provocamus, cuius mihi tersus atque elegans maxime videtur auctor Tibullus. Sunt qui Propertium malint. Ovidius utroque lascivior, sicut durior Gallus. Non mi convincono le traduzioni che di durior vengono date in Marco Fabio Quintiliano, L’istituzione oratoria, a c. di R. FARANDA-P. PECCHIURA, Torino 19792, p. 429: «meno disinvolto», e in M.F. Q., La formazione dell’oratore, trad. e note di C.M. CALCANTE, Milano 1997, p. 1691: «più severo». Migliore e più precisa quella di A.M. Milazzo, in Quintiliano, Institutio oratoria, II, ed. a c. di A. PENNACINI, II, p. 463: «più aspro». Rilevo comunque l’imprecisione dello stesso Milazzo che nella nota a pp. 928 s. fa risalire il ritrovamento del papiro al 1979, piuttosto che al 1978. 306 In ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, p. 155. 307 Non tutti concordano sulla damnatio memoriae di Gallo; qualche dubbio esprimono BOUCHER, Caius Cornélius Gallus cit., pp. 56 s.; e soprattutto EISENHUT 1989, pp. 117124, le cui argomentazioni non paiono del tutto infondate. Comunque di solito il papiro di Qas\r Ibrîm viene considerato come la testimonianza del fatto che la damnatio memoriae non significò la distruzione assoluta del nome e dell’opera di Gallo, cf., ex. gr., KOSTER 1990, p. 103. 308 AMATO 1987, p. 323 n. 2. Cf. anche RADICIOTTI 2000, p. 361 n. 5.


309 In ANDERSON-PARSONSNISBET 1979, p. 155. 310 COURTNEY 1993, p. 263. 311 MORGAN 2000, p. 336. Si veda anche Koenen in KOENENTHOMPSON 1984, p. 142. 312 Cf. I. GUALANDRI, Per una geografia della letteratura latina, in G. CAVALLO-P. FEDELI-A. GIARDINA (edd.), Lo spazio letterario di Roma antica, II: La circolazione del testo, Roma 1989, p. 471, che ricorda la soddisfazione con cui Marziale (XI 3, 3 s.) scrive che i suoi epigrammi sono letti «dal duro centurione accampato nel freddo paese dei Geti presso le insegne di guerra» (trad. G. Norcio) ed il caso di Giulio Trifoniano Sabino, addetto alla custodia dell’imperatore nel 402 d.C., il quale, prestando servizio a Barcellona e a Tolosa, amava nel tempo libero leggere ed emendare il suo manoscritto di Persio e forse anche di Giovenale. 313 Cf. M.E. WEINSTEINE.G. TURNER, Greek and Latin Papyri from Qasr\ Ibrîm, «JEA» 62 (1976), pp. 115-130; CRISCI, Scrivere greco fuori d’Egitto cit., pp. 109-114; T. DORANDI, in BRUCKNER-MARICHAL, Chartae Latinae Antiquiores cit., pp. 7289; A. BRUCKNER-R. MARICHAL (edd.), Chartae Latinae Antiquiores. Facsimile-Edition of the Latin Charters prior to Ninth Century, XLVIII, Corrigenda, publ. by T. DORANDI-J.-O. TJÄDER, Dietikon-Zurich 1997, p. 116. Si vedano anche le notizie preliminari date da FREND, Some Greek cit., pp. 103-111, nonché CAPASSO 20021, pp. 7-16.

Secondo il Nisbet309, se i comites rispettivamente di Memmio (Fabullo e Veranio: Cat. 28 e 47) e Tiberio (Hor., Epist. I 3, 6 s.) avevano interessi letterari e i Romani portarono con sé nei loro zaini a Carre i racconti milesii (Plut., Crass. 32, 3), è lecito pensare che ad un «malinconico ufficiale» possano essere state a cuore le romantiche elegie di amore e di guerra scritte in gioventù dal prefetto di quella provincia, tanto da portarle con sé. La considerazione può essere accolta, a patto, forse, che non ci limitiamo ad immaginarci, a mio avviso poco convincentemente, un singolo, rude ancorché malinconico soldato che legge poesie d’amore. È, questa, un’immagine che è molto piaciuta, per limitarmi a due soli esempi, a Edward Courtney, per il quale il papiro «was a more respectable item in the baggage of a Roman officer than the Milesian Tales»310 e a Llewelyn Morgan311, che ha accostato il papiro di Gallo al carme Iter che Giulio Cesare compose durante il viaggio da lui effettuato verso la fine del 46, per raggiungere la Spagna meridionale, alla vigilia del cruento scontro di Munda: entrambi ci darebbero un’«immagine viva» del «posto centrale» occupato dalla letteratura nella cultura romana. «Vediamo qui – scrive Morgan – due romani fare una cosa tipicamente romana, combattere e scrivere e leggere poesia nello stesso tempo. È un poco paradossale immaginare quel soldato mentre in un accampamento militare situato al di là delle più remote distese dell’impero srotola con un certo impaccio il suo “libro” (un lungo rotolo di papiro) e legge ad alta voce [ . . . ] i tormenti e le tribolazioni di Gallo per la sua innamorata a Roma». A parte il fatto che anche in un accampamento romano srotolare un rotolo di papiro non doveva essere un’operazione particolarmente scomoda, è comunque innegabile che, come scrive la Gualandri, «la letteratura accompagna il cammino degli eserciti, di pari passo con la conquista delle province e la loro progressiva latinizzazione»312; mi sembra in ogni caso non inopportuno collegare quel rotolo agli altri testi trovati nella stessa Primis: frammenti di libri greci (frr. Weinstein-Turner 1, Iliade VIII 273-276; 2, Odissea II 72-100, 107-108, 110-111, 120, 122-125; 3, Odissea V 122-133, 135-141, 165-171, databili al I sec. a.C.); frammenti di documenti greci (frr. WeinsteinTurner 4, lista di provviste, I sec. a.C.; 5, forse una lettera di affari, I sec. a.C.; 6, lettera privata, I sec. a.C./ I sec. d.C.; 7, lettera privata, I sec. a.C.; 8, lettera, I sec. a.C./I sec. d.C.; 9, lettera, I sec. a.C.; 10, forse lettera, I sec. a.C./I sec. d.C.; 11, forse lettera, II/I sec. a.C.; 12, documento menzionante un beneficiarius, I sec. a.C.); frammenti di documenti latini risalenti al I sec. a.C./I sec. d.C.313: 100


testimonianza della presenza di un’élite politico-culturale romana, non necessariamente o non esclusivamente militare, comunque caratterizzata dal bilinguismo e da elevati interessi culturali314. Non siamo in grado di dire da dove esattamente provenisse il rotolo. Il Mazzarino315 inquadra la scoperta del papiro di Qas\r Ibrîm nell’àmbito della politica attuata dallo stesso Gallo in Egitto: in pratica sarebbe stato l’autore a divulgare quei carmi, uno dei quali, scritto, secondo il Mazzarino, come si è detto316, nell’imminenza della battaglia di Azio, avrebbe testimoniato la sua convinta fedeltà nei confronti di Ottaviano. Se così fosse, il rotolo potrebbe essere stato commissionato proprio da Gallo e realizzato in Egitto317. Abbiamo visto, tuttavia, che, sùbito prima della battaglia di Azio e soprattutto dopo, più verosimilmente Gallo non si dedicava più alla poesia e forse in qualche misura il ricordo del suo rapporto con Licoride avrebbe potuto essere per lui anche scomodo. Non abbiamo, d’altra parte, testimonianza del fatto che egli avesse rinnegato quelle elegie scritte da giovane e nemmeno siamo autorizzati a slegare del tutto la vicenda del papiro dalla presenza in Egitto dell’autore dei carmi in esso contenuti318. Il papiro di Gallo, come osserva il Pecere319, alla luce di una serie di indizi, quali la mancata correzione di ERIT alla l. 3, l’alternarsi di forme arcaiche e diverse oscillazioni grafiche, può legittimamente essere considerato «un esemplare per il commercio», che, di là dall’eventuale condanna imperiale, obbedisce alla logica di un mercato che appare ancora favorevole agli scritti del forogiuliense. Quando poi il fortilizio viene abbandonato, il rotolo, fatto a pezzi, è gettato via tra i rifiuti, essendo Gallo, a quel punto, scrive il Nisbet, «da buttar via». Ma questo quando potrebbe essere accaduto? Secondo il Parsons, come si è detto, non è sicuro che i Romani abbiano abbandonato Primis all’epoca della stipula del trattato con gli Etiopi (20 a.C.): il ritiro potrebbe risalire ad un’epoca successiva, non posteriore, comunque, al 25 d.C., come sembra indicare il contesto archeologico320. Per la Gall321, nel caso in cui i Romani si siano ritirati dopo l’accordo con gli Etiopi, il papiro potrebbe essere arrivato sul posto nel corso dell’ultimo terzo del I sec. a.C. o comunque non dopo il 50 d.C., come sembra indicare la presenza di ceramica nello stesso strato dove fu rinvenuto il papiro, risalente ad un arco di tempo compreso tra il 50 a.C. e il 50 d.C. ca. In realtà in quello strato furono trovate 101

314 Cf. in proposito, più avanti, il contributo di Radiciotti. 315 MAZZARINO 1982, sp. pp. 324 s. 316 Cf., sopra, VI. 317 Sulla scia del Mazzarino è in qualche modo TRAINA 1994, p. 96, che scrive: «Gallo, del resto, era stato il primo prefetto d’Egitto, e la diffusione dei suoi versi in aree da lui controllate non è certo casuale: per quanto volta alla sua esaltazione personale, si trattava pur sempre di una forma di romanizzazione». 318 Su Gallo in Egitto cf. almeno BOUCHER, Caius Cornélius Gallus cit., pp. 33-47. 319 PECERE 19901, pp. 335. 320 Cf. Parsons, in ANDERSON-PARSONS-NISBET 1979, pp. 127 s.; sopra, Introduzione, I; e I 3.1. Si discute sulla data del ritiro militare dei Romani da Primis, cf. più avanti, n. 324. 321 GALL 1999, p. 236.


322

Cf. Anderson, in AN1979,

DERSON-PARSONS-NISBET

p. 126. 323 324

LUTHER 2002, pp. 31 s. Cf. soprattutto W.Y. ADAMS, Nubia. Corridor to Africa, London 1977, pp. 340 s.; ID., Primis and the “Aethiopian” Frontier, «Journ. Am. Research Center in Egypt» 20 (1983) pp. 93-104; ID., The 1980 Excavations at Qasr Ibrim: Implications for the History of Kush, in F. VON HINTZE (ed.), Meroitische Forschungen 1980, Berlin 1984, pp. 415-420; ID., Ptolemaic and Roman Occupation at Qasr Ibrim, in AA. VV., Mélanges offerts à Jean Vercoutter, Paris 1985, pp. 917. Di avviso diverso L. TÖRÖK, The Historical Background: Meroe, North and South, in AA. VV., Nubian Culture. Past and Present, Main Papers Presented at the Sixth International Conference for Nubian Studies in Uppsala (11-16 August 1986), Stockholm 1987, pp. 162-166. Sulla Nubia in epoca greco-romana si veda inoltre CURTO, Nubia cit., pp. 64-73; W.Y. ADAMS, Post Pharaonic Nubia in the Light of Archaeology. I, «JEA» 50 (1964), pp. 102-120; ID., Qasr Ibrîm: An Archaeological Conspectus, in J.M. PLUMLEY (ed.), Nubian Studies. Proceedings of the Symposium for Nubian Studies, Warminster 1982, pp. 25-33. 325 Secondo PESANDO 1994, p. 77, la distruzione del papiro al momento dell’evacuazione di Primis «ci segnala che la censura augustea riuscì a cancellare per sempre l’opera del poeta». A suo avviso (p. 78), l’«oblio» a cui furono condannate la vita e l’opera di Gallo smentisce «la ben nota profezia di Ovidio», che in Am. I 15, 27-32 aveva tra l’altro definito immortale ed universale la fama di Gallo e del suo amore per Licoride. In realtà a me pare che il frammento di Qasr\ Ibrîm in qualche modo confermi la «profezia» ovidiana.

lucerne databili ad un periodo compreso tra il I a.C. ed il primo venticinquennio del I d.C.322: il 50 d.C. come terminus ante quem forse è troppo alto. Recentemente, comunque, Luther323 ha ricordato che gli archeologi non hanno ancora raggiunto una posizione univoca sulla permanenza dei Romani a Primis e che secondo alcuni324 essi, dopo il 20 a.C., rimasero in questa località per un altro secolo o ancora più a lungo; di conseguenza, a suo avviso, P può essere arrivato sul posto anche dopo il 20 a.C. e, comunque, nel caso in cui lo abbia portato un soldato romano, non prima del 29 a.C., anno nel quale, come sappiamo dall’iscrizione di File, Gallo combatteva nella regione nord-etiopica dove si trovava anche Primis. È un fatto che la connessione tra l’evacuazione di Primis da parte dell’esercito romano e la distruzione del volumen è molto verosimile, ma non proprio inevitabile: esso potrebbe essere rimasto per qualche tempo ancora sul posto e, comunque, se è stato distrutto contestualmente all’abbandono del forte, questo non significa necessariamente che i suoi carmi fossero considerati in ogni caso «da buttare»325: quel libro, per quanto raffinato ed elegante, indipendentemente dal valore attribuito al testo in esso contenuto, potrebbe non essere rientrato, per qualche motivo che a noi sfugge, tra gli oggetti da portar via.

102


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110










a

b Tav. 1. a. Qas\r IbrĂŽm in un disegno di D. Roberts (XIX sec.). b. Qas\r IbrĂŽm oggi (da J. Gohary, Guide to the Nubian Monuments on Lake Nasser, Cairo 1998, III rist. 1999). 119


5M 0

Tav. 2. La Bassa Nubia in epoca romana. La linea tratteggiata indica il probabile confine tra l’impero romano ed il territorio etiopico dopo il 20 a.C. (da Anderson-Parsons-Nisbet 1979, p. 128). 120


Tav. 3. Un’immagine della Campagna di Scavo condotta dalla Missione inglese nel 1974 a Qas\r Ibrîm (da T. Säve-Söderbergh, Temples and Tombes of Ancient Nubia, London 1987, Pl. 32).

Tav. 4. Qas\r Ibrîm: il «bastione sud» con le fortificazioni adiacenti (da Anderson-Adams et alii 1979, Fig. 2). 121


Tav. 5. Particolare del coperchio della cassa con i materiali rinvenuti nel corso della Campagna del 1978 a Qas\r IbrĂŽm.

122


Tav. 6. Il PQas\r Ibrîm 78-3-11/1.

123


Tav. 7. Un momento del restauro del papiro.

Tav. 8. Il papiro nella nuova cornice di vetro. 124


a

b Tav. 9. La vetrina con il papiro di Cornelio Gallo nella Sala 29 del Museo Egizio del Cairo. 125


Tav. 10. Esemplificazione grafica del papiro con l’indicazione della kollesis e della relativa area di sovrapposizione (disegno di E. Giorgi).

126


Tav. 11. Il verso del papiro.

127


Tav. 12. La testa marmorea raffigurante forse Cornelio Gallo (Cleveland Museum of Art).

Tav. 13. Un particolare dell’iscrizione CIL VIII 212 di Casserina, con il segno separatorio a forma di H (da Force 1993, Fig. 42). 128


Tav. 14. La Pl. IV dell’editio princeps del papiro.

Tav. 15. La Pl. V dell’editio princeps del papiro.

129


Tav. 16. Particolare della parte destra del margine superiore del papiro con piccole macchie di inchiostro.

Tav. 17. Particolare della parte sinistra del margine superiore del papiro con piccole macchie di inchiostro. 130


Tav. 18. Particolare della parte sinistra del margine superiore del papiro con piccole macchie di inchiostro.

Tav. 19. Parte iniziale di col. I 1. 131


Tav. 20. Particolare di col. I 1.

Tav. 21. Particolare di col. I 1. 132


Tav. 22. Particolare di col. I 1.

Tav. 23. Parte finale di col. I 1. 133


Tav. 24. Parte finale di col. I 1 col segno di separazione di destra tra il carme a e l’epigramma b.

Tav. 25. Parte finale di col. I 1 e particolare della parte destra del margine superiore. 134


Tav. 26. Il segno di separazione di destra tra il carme a e l’epigramma b e particolare dell’area di sovrapposizione tra i due kollemata contigui di cui è formato il frammento.

Tav. 27. Il segno di separazione di sinistra tra il carme a e l’epigramma b. 135


Tav. 28. Parte iniziale di col. I 2.

Tav. 29. Parte iniziale di col. I 2. 136


Tav. 30. Particolare di col. I 2 e parte iniziale di col. I 3.

Tav. 31. Particolare di col. I 2-4. 137


Tav. 32. Particolare di col. I 2-3.

Tav. 33. Particolare di col. I 2-3. 138


Tav. 34. Particolare di col. I 2-3.

Tav. 35. Parte finale di col. I 2-3. 139


Tav. 36. Parte iniziale di col. I 4.

Tav. 37. Parte iniziale di col. I 4-5. 140


Tav. 38. Parte iniziale di col. I 3 e particolare di col. I 2 e 4.

Tav. 39. Particolare di col. I 2-4. 141


Tav. 40. Particolare di col. I 3-5.

Tav. 41. Particolare di col. I 4-5. 142


Tav. 42. Particolare di col. I 4-5.

Tav. 43. Particolare di col. I 4-5. 143


Tav. 44. Parte finale di col. I 2-3 e particolare di col. I 4.

Tav. 45. Parte finale di col. I 3-4. 144


Tav. 46. Particolare di col. I 4 e parte iniziale di col. I 5.

Tav. 47. Particolare di col. I 4-5. 145


Tav. 48. Particolare di col. I 4-5.

Tav. 49. Particolare di col. I 3-4 e parte finale di col. I 5. 146


Tav. 50. Particolare di col. I 6 e parte iniziale di col. I 7.

Tav. 51. Particolare di col. I 6-7. 147


Tav. 52. Particolare di col. I 6-7.

Tav. 53. Particolare di col. 6-7. 148


Tav. 54. Particolare di col. I 7 e parte finale di col. I 8.

Tav. 55. Particolare di col. I 6-8. 149


Tav. 56. Parte finale di col. I 6-8.

Tav. 57. Parte finale di col. I 7 e particolare dell’area di sovrapposizione tra i due kollemata contigui di cui è formato il frammento. 150


Tav. 58. Particolare di col. I 8-9.

Tav. 59. Particolare di col. I 8-9. 151


Tav. 60. Particolare di col. I 8-9.

Tav. 61. Particolare di col. I 8-9. 152


Tav. 62. Particolare di col. I 8-9.

Tav. 63. Particolare di col. I 8-9. 153


Tav. 64. Parte finale di col. I 8-9.

Tav. 65. Parte finale di col. I 9 col segno di separazione di destra tra l’epigramma c ed il carme d e parte finale di col. I 10. 154


Tav. 66. Particolare di col. I 8-9 e dello spazio tra l’epigramma c ed il carme d. 155


Tav. 67. Particolare di col. I 10-11. 156


Tav. 68. Particolare dello spazio tra l’epigramma c ed il carme d e parte finale di col. I 10.

157


Tav. 69. Particolare del segno di separazione di destra tra l’epigramma c ed il carme d, parte finale di col. I 10 e particolare di col. I 11. 158


a

b

Tav. 70. a. Parte finale di col. I 10-12. b. Particolare. 159


Tav. 71. Particolare del segno di separazione di destra tra l’epigramma c ed il carme d, parte finale di col. I 11 e particolare dell’area di sovrapposizione tra i due kollemata contigui di cui è formato il frammento. 160


Tav. 72. Parte iniziale di col. II 3.

Tav. 73. Il segno di separazione di destra tra il carme e ed il carme f. 161


Tav. 74. Parte iniziale di col. II 5.

162


col. 0

col. I

col. II

163 Tav. 75. Esemplificazione grafica della disposizione dei carmi tra la col. 0 e la col. II nell’ipotesi che essi fossero stati 6 epigrammi (disegno di E. Giorgi).


col. 0

col. I

col. II

164 Tav. 76. Esemplificazione grafica della disposizione dei carmi tra la col. 0 e la col. II nell’ipotesi che essi fossero stati 7 epigrammi (disegno di E. Giorgi).


Indici (a cura di Maria Clara Cavalieri)

165


I. INDICE DEI LUOGHI ANTICHI

Appendix Vergiliana Catalepton IX 7-8

61 n.

Ciris

35, 36, 56 n.

Culex 8-10

63

Appiano Bella Civilia II 106

95 86

Callimaco Epigrammata 14 Pfeiffer

58 n.

Catullo 24 28 36 43-51 47 50 54 57 61, 171 65, 3-4 68, 41-46 75 85 87 92 93 94 95

81 n. 100 118 n. 84 100 118 n. 81 n. 81 n. 73 61 61 84 84 84 84 59, 84 84 84, 118 n.

167


Cesare Bellum Gallicum II 13

68

Cicerone De finibus bonorum et malorum V 2, 5

55

De Oratore II 74

68

In Verrem II 2, 3-4

21

Pro Flacco 70

73

Pro Marcello 2, 5 3, 9 9, 28 s. 9, 29

86 86 86 86

Consolatio ad Liviam 267

Dione Cassio LIV 5, 4-6

58

24 n.

Efestione Enchiridion p. 75, 5 ss. Consbruch

77

Ennio Annales 159 Vahlen2 Euforione fr. 118 Powell 168

57

61


C. Gallo fr. 1 Morel

53, 62 n.

Girolamo Chronicon ab Abr. 1990

24 n.

Isocrate Enc. Hel. 57

64

Ligdamo 2, 7 s. 4, 28

53 74

Lucrezio V 1204 s.

56

Marziale VIII 73, 6 XI 3, 3 s.

61, 81 n. 100 n.

Menandro Aspis

29

Dis Exapaton 24

64

Dyscolos 3, 568 s.

29 64

Samia

29

Omero Ilias VIII 273-276 XXIII 1-79 XXIII 402-897 XXIV 1-759

100 76 n. 76 n. 76 n. 169


Odyssea II 72-100 II 107-108 II 110-111 II 120 II 122-125 V 122-133 V 135-141 V 165-171

100 100 100 100 100 100 100 100

Orazio Ars poetica 78

21 n.

Carmina I 2, 51-52 I6 I 12, 53-54 I 31, 12 I 35, 29-32 II 12 III 3 III 5, 3-4 IV 2 IV 3, 21-24 IV 5, 3 s. IV 15, 4-8

91 n. 54 91 n. 74 91 n. 54 54 91 n. 54 61 74 n. 97

Epistulae I 3, 6 s. II 1, 37 II 2, 91 s.

100 67 61

Epodi XVI Saturae I 6, 38 I 9, 22 I 9, 22-23 I 10, 83 170

58

74 30 65 30, 65


II 6, 61 II 8, 20

67 30

Ovidio Amores I1 I2 I 3, 19 s. I 15 I 15, 27-32 I 15, 30 I 18 II 8, 22 III 1

54 54 62 n., 63 54 5, 102 n. 81 n. 54 53 54

Ars amandi I 177-228 III 537

58, 91 81 n.

Epistulae ex Ponto I 1, 16 II 1, 55-68 III 4, 89-114

69 58 58

Metamorphoses V 344 s.

62 n.

Tristia II 445 IV 2, 19 s.

81 n. 57

Plinio il Vecchio Naturalis historia VI 181 s. IX 136 IX 137

25 n. 73 73

Plutarco Vita Caesaris 56 58, 6-7

95 86 94 n. 171


Vita Crassi 32, 3 Properzio I I 2, 25 I 5, 19-22 I 6, 1 I 10, 10 I 15, 27 I 15, 38 I 19, 1 I 21-22 II 1 II 1, 3 s. II 5, 2 II 10 II 13 II 13, 3 II 13, 11-16 II 13, 14 II 34, 91 III 3 III 3, 13 III 4 III 4, 10 III 4, 15 s. III 4, 16 III 10, 24 III 14, 27 III 19, 10 IV 1, 132-142 IV 6 IV 7 Ps.-Acrone Schol. Hor., Sat. I 10, 83

172

100

35, 78 n., 81 e n., 84 70 n. 63 70 n. 77 53 51 70 n. 81 54, 63 61 51 58 36 59 n. 71 36, 70 81 n. 61 60 54, 58, 63, 90, 91, 92, 93 55 57 87 51 73 51 61 58, 81 n., 89 89

65


Quintiliano Institutio Oratoria VI 3, 96 X 1, 93 Seneca Phoenissae 64 s.

81 6, 99 e n. 68

Strabone XVII 788 XVII 819-821 XVII 820-821

24 n. 24 n. 24

Svetonio De grammaticis et rhetoribus 11

65

Teocrito Idyllia VI 37 VIII 37-41

72 62

Tibullo I7 I 7, 47 I 10 II 1 II 5 III 19, 19-23

54 73 58 54 54 63

Velleio Patercolo II 89 Virgilio Aeneis II 601 IV 174 VI VII 612 XI 371 s. Eclogae

90 n.

21 n. 21 n. 36, 95 74 n. 21 n. 72, 83, 94 n., 95, 96, 97, 98 173


II II 11 II 26 s. IV IV 26-30 V 11 VI VII VII 7 VII 21-24 VIII 102 IX 32-36 X X 1 s. X 2 s. X 44-51 X 46 X 47 X 50-54 X 72 Georgica I 509 II 88 II 170-172 III 13-15 III 17 III 30-31 IV 560-562

174

83, 85, 98 66 69 e n., 70, 71 n., 72, 95, 98 58, 83 58 68 36, 83, 95 68 72, 98 68 72, 98 98 57, 81 n., 83, 95 98 62 n. 98 n. 93 52, 93 77 98

91 74 91 57 73 91 91


II. INDICE DELLE ISCRIZIONI

CIL CIL

CIL CIL CIL CIL CIL ILS

33 I2 1591 5 III 14147 (= ILS II 2, 8995 = IPhilae 128 = OGIS II 654) 53 e n., 91, 102, 116 e n. 5 56 III 14147 6 s. IV 4966-4973 84 VIII 211-216 34, 113 e n. VIII 212 128 VIII 212-213 34 III 2, p. 823 66

III. INDICE DEI MANOSCRITTI

Milano, Bibl. Ambros., D 36 sup.

21 n.

Paris, Bibl. Nat., Lat. 8071

20 n.

Paris, Bibl. Nat., Lat. 8084

21 n., 31

Paris, Bibl. Nat., Lat. 10318

20 n.

PBakchias

137

38 n.

PBodmer

IV XXV XXVI

29 29 29

PColon inv. 4780 PHawara PHerc 153 217 817

24

34 21 n., 22, 29, 30, 31 32 32 8, 17, 19, 25 n., 29, 32, 37, 39, 40, 57 n., 79, 111 e n. 175


1057 1059 1457 PIand V 90 PLitLond

32 32 32 21, 29, 113 n. 27

76 n.

POxy IV 668 XV 1800 XXXVII 2820 L 3554

79 n. 79 n. 96 n. 21 n., 22, 30, 112 n.

PQas\r Ibrîm 78-3-21/24 (= ChLA XLII 1238) 31 e n., 115 e n. 78-3-21/24, 1 115 78-3-21/24 , 7 115 78-3-21/24, 18 115 78-3-25/1 9 78-3-27/1 9, 24, 25, 31 nr 1 Weinstein-Turner 100 2 100 3 100 4 100 5 100 6 100 7 100 8 100 9 100 10 100 11 100 12 100 34 (= ChLA XLII 1231) 115 e n. 37 (= ChLA XLII 1234) 115 n.

PSI

II 142 XI 1183 XI 1183 a

113 n. 29 22, 30

PVindob Lat.1 Pvindob Lat. 1 b

29 30

176


Vat. Arch. S.Pietro, D. 182 Vat. Regin.

31

1709

20 n.

Vindob. Lat. 277 Wolfenb端ttel, Herzog-AugustBibl., Aug. 4o 13. 11

20 n. 20 n.

177


IV. INDICE DEI NOMI MODERNI

Abdallah Mahmoud Adams W.Y. Adel Hussein Mohammed Ahmed Abd el-Aal Mohammed von Albrecht M. Alexander J.A. Alfonsi L. Amato S.

14 8, 9 n., 25 e n., 102 n., 103, 121 12

7, 11 34 e n., 94 e n., 103 9 n., 115 n. 68 n. 24, 34 n., 66 n., 74 e n., 83 e n., 87 n., 90 n., 96 e n., 99 e n., 103 7, 8 n., 9 e n., 10 e n., 16 n., 18 n., 20 n., 21 n., 25 e n., 35 n., 40 n., 51 n., 57 e n., 60 n., 61 n., 63, 65 e n., 66 n., 71 n., 72 n., 73 n., 75 n., 80 n., 81 n., 83 n., 84 n., 85 n., 91 n., 97 n., 98 n., 99 n., 100 n., 101 n., 102 n., 103, 113 n., 120, 121

Anderson R.D.

Ballaira G.

10 e n., 18 n., 19, 28, 30 e n., 35, 40 n., 96 n., 103, 113 e n. Barchiesi A. 6 e n., 7 n., 54, 56, 57, 64 n., 69, 71 e n., 87 e n., 88 e n., 95 e n., 103 Barker-Benfield B.C. 108 Bastianini G. 8 n., 80 n. Bernand É. 116 n. Bieler L. 31 n. Bischoff B. 10 n., 28 e n., 103, 117 n. Blänsdorf J. 28 e n., 29 n., 30 e n., 31, 33, 34, 35, 40 n., 103, 117 n. Bömer F. 24 n. Boucher J.-P. 24 n., 53 n., 99 n., 101 n. Bresciani E. 109 Bricmont J. 117 n. Brown V. 10 n., 28 e n., 103, 117 n. Bruckner A. 31 n., 100 n., 115 n. Brunhölzl F. 8, 26 e n., 27 n., 28 e n., 30, 31, 32, 33, 34 e n., 35 e n., 36, 37 e n., 38, 39 e n., 40 e n., 54, 103, 111 e n., 112 n., 116, 117 n. 178


Büchner C. Bürker C. Burstein S.M. Cairns F. Calabi Limentani I. Calcante C.M. Caminos R.A. Canali L. Capasso M. Cavalieri M.C. Cavallo G. Cavenaile R. Clarysse W. Cockle W.E.H. Consbruch M. Conte G.B. Costabile F. Courtney E. Cresci Marrone G. Crisci E. Criscuolo U. Crowther N.B. Cugusi P. Curto S.

54 n., 103 106 25 n., 53 n. 106, 110 113 n. 99 n. 8 n. 106 8 n., 14 n., 15 n., 31 n., 37 n., 38 n., 79 n., 80 n., 100 n., 103, 111 e n., 117 n. 7 10 n., 18 e n., 34 e n., 79 n., 100 n., 103, 105, 108, 114 n., 117 n. 10 n., 103 8 n. 22 e n., 30 e n., 32, 103, 112 n. 77 5 n., 36 n., 63, 64 n., 104 53 n. 24 n., 34 e n., 54, 57, 61, 62 n., 63, 67, 72, 77, 82 e n., 94 e n., 100 e n., 104 53 n., 57, 92 n., 104 99 e n., 100 n., 116 n. 83 n. 5 e n., 24 n., 84 n., 90 n., 104 83 n., 104 53 n., 102 n.

D’Anna G. 5 e n., 51, 61 e n., 63, 77 e n., 83 e n., 94 e n., 104 Dahlheim W. 104 Danesi Marioni G. 57 e n., 58, 104 Daris S. 104 Davoli P. 38 n. De Luca C.D. 7 Degrassi A. 114 n. Della Corte F. 57 Demicheli A.M. 116 n. Denuzzo I. 7 Desanges J. 116 n. Dessau H. 66 179


Dimundo R. Donderer M. Dorandi T. Driskell B.

64 n., 81 n., 104 106 31 n., 100 n., 115 n., 118 n. 9 n., 115 n.

Eide T. Eisenhut W. Évrard É. Eyre C.J.

116 n. 34 n., 99 n., 104 17 n., 56, 64 n., 77 e n., 93 n., 104 10 e n., 38

Fairweather J. Fantham E. Faranda R. Fedeli P. Force P. Fraschetti A. Frend W.H.C. Fried J.

55, 76, 77 e n., 94 e n., 104 6 n., 83 n., 104 99 n. 33, 81 n., 100 n., 105, 108 34, 105, 113 n., 128 110 9 n., 25 n., 100 n. 109

Gaballa Aly Gaballa Gaggero G. Gagliardi P. Gall D. Gamberale L. Garbarino G. Geraci G. Giangrande G. Giardina A. Gigante M. Giorgi E. Gohary J. Graf F.

Griffith J.G. Grimm G. van Groningen B.A. Gualandri I.

180

11, 14 74 n. 83 n. 35 e n., 53, 56 n., 62 n., 64 n., 70, 77 n., 78 n., 90 n., 96 e n., 101 e n., 105 67 63 e n., 105 23, 57, 92 e n., 105, 109 6 e n., 23, 34 n., 36, 51, 54 e n., 57, 63, 82 e n., 84 e n., 105, 107 100 n., 105, 108, 114 n. 36 n., 107 7, 126, 163, 164 119 31 e n., 53, 54, 56 e n., 57, 59 e n., 66 n., 67, 69, 77 e n., 80 n., 82 e n., 83, 89 e n., 94 e n., 97 e n., 105 34 e n., 63 n., 66 n., 68, 90 n., 105 24 n. 61 n. 100 e n.


Hägg T. Hauben H. Helck H.W. Heyworth S. Hinds S. von Hintze F. Hollis A.S. Holton Pierce R. Hornblower S. Hosius C. Hutchinson G.O.

116 n. 24 n., 53 n., 95 n., 96 n., 106 8 n. 52 n., 73 n., 76, 80 n., 82 e n., 83 n., 106 60 n., 62 n., 106 102 n. 61 n., 67, 106 116 n. 104 24 n. 66, 68, 69 e n., 70, 87 e n., 94, 106

Ibrahim el-Gawad Immarco R. Ippolito F.

7 79 n. 14, 79 n.

Jacoby F. Jameson S. Johnston E.

64 e n. 25 n. 22 n.

Keefe D.E. Kees H. Kennedy D.F. Kirwan L.P. Koenen L. Koster S.

61 e n., 106 8 n. 6 e n., 106 25 n. 24 n., 34, 53 n., 67, 77 e n., 78, 90, 91, 100 n., 106 99 n., 106

La Penna A. Lassère J.-M. Lee G. Lieberg G. Lindsay W.M. Lohwasser A. Lowe E.A. Luppe W. Luther A.

106 113 n. 52, 54, 59 n., 64 e n., 66 e n., 77 e n., 78 n., 106 33, 59 n., 61 e n., 69 n., 106 31 8 n. 31 n. 59 n., 67, 82 n., 106 57 n., 90 n., 102 e n., 106

Magnino D. 86 n. Magrini P. 54 n., 58 n., 64 n., 65 n., 67 n., 77 e n., 89 n., 106 Mahmoud Ahmed 13 Malcovati E. 89 n. 181


Mallon J. 114 e n. Mamdouh el-Damaty 14 Manganaro L. 7 Manzoni G.E. 24 n., 35 e n., 51 e n., 61, 62, 63, 64, 65 n., 70 e n., 72 e n., 98 n., 99 n., 104, 106, 107, 110 de la Mare A.C. 108 Marichal R. 31 n., 100 n., 115 n. May Trad 7 Mayer R. 54, 106 Mazzarino S. 5 e n., 51 n., 52, 57, 58, 60, 61, 64 n., 65 n., 68 e n., 81 n., 87, 88 e n., 89 e n., 90 e n., 91, 93, 94, 101 e n., 106, 107, 115 e n., 116 n. McC. Brown P.G. 59 Merriam C.U. 33, 34, 51 n., 58, 81 n., 107 Mertens P. 8 e n., 21 e n., 29, 76 n., 79 n. Michel A. 96 n., 107 Milazzo A.M. 99 n. Militerni Della Morte P. 63 Miller J.F. 54 n., 63, 77 e n., 107 Mohammed Mohammed Youssef 14 Morel W. 53, 62 n., 103 Morelli A.M. 21 n., 23, 25 n., 28, 31 e n., 32 n., 33 n., 34, 35 e n., 36 e n., 37, 40 n., 52 n., 53, 54, 55, 56, 57 e n., 59 e n., 60 e n., 62, 64 e n., 65 n., 66 n., 67 e n., 69 e n., 70, 71 e n., 72 e n., 73 n., 77 e n., 78 n., 80 e n., 83 e n., 84 e n., 86 e n., 87 e n., 89 e n., 90 e n., 92 e n., 95 e n., 98 e n., 107, 113 n. Morgan L. 62 n., 100 e n., 107 Naughton S. Newman J.K.

23, 51, 54 e n., 107 52, 54, 56, 57, 60 n., 64 e n., 65 n., 73, 74 e n., 77 e n., 78 n., 86, 87 n., 107 Nicastri L. 23, 51, 53, 54 e n., 56 e n., 57, 65 n., 66 e n., 67, 70, 71 n., 73, 78 n., 82 e n., 83 n., 85 e n., 86 e n., 87 n., 88 e n., 92 e n., 94 e n., 105, 107, 108 Nisbet R.G.M. 7, 9 n., 10 e n., 16 n., 18 n., 20 n., 21 n., 25 n., 35 n., 40 n., 42, 43, 45, 46, 47, 51 e n., 52, 54 n., 55, 57 e n., 59, 60 e n., 61 e n., 62, 63, 64, 65 e n., 66 e n., 67 n., 68, 70, 71 e n., 72 e n., 73 e n., 75 e n., 76, 78, 80 e n., 81 e n., 83 e n., 84 e n., 85 e n., 86, 87, 88, 90, 91 e n., 93, 94 e n., 95 e n., 96 e n., 182


Noonan J.D. Norcio G.

97 e n., 98 e n., 99 e n., 100 e n., 101 e n., 102 n., 103, 113 n., 120 53 n., 54, 55 e n., 59 n., 61 n., 65 n., 77, 108 100 n.

O’Hara J. Oliver R.P. Osama el Shimy Pack R.A. Pallarès J.G. Parsons P.J.

Pascucci G. Pecchiura P. Pecere O. Pellé N. Pennacini A. Pernigotti S. Pesando F. Petersmann G. Petrucci A. Pfeiffer R. Pinotti P. Plumley J.M. Powell J.U. Puccioni G. Pulbrook M. Putnam M.C.J.

77 e n., 108 79 n. 14 8 e n., 21 e n., 29, 76 n., 79 n. 57, 108 7, 9 n., 10 e n., 14, 16 e n., 18 e n., 19, 20 e n., 21 e n., 23, 24, 25 e n., 29, 31 e n., 32, 35 n., 40 n., 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 51 e n., 52, 54 n., 55, 57 e n., 59, 60 e n., 61 e n., 62, 63, 64, 65 e n., 66 e n., 67 n., 68, 70, 71 e n., 72 e n., 73 e n., 75 n., 76, 77, 80 e n., 81 n., 83 n., 84 n., 85 n., 88, 91 n., 94 n., 97 n., 98 e n., 99 n., 100 n., 101 e n., 102 n., 103, 108, 113 n., 120 108 99 n. 10 n., 18 n., 22, 33, 99 n., 101 e n., 108 7 99 n. 11, 38 n., 110 10 n., 16 n., 102 n., 108 57, 67, 76 n., 78 n., 81 e n., 84, 86 n., 88 e n., 94 e n., 108 10 n., 36 e n., 108 58 n. 6 e n., 58 n., 64, 66 n., 94 e n., 108 102 n. 61 57, 108 108 55, 56, 57, 63, 94 e n., 97 e n., 109

Questa C. Radiciotti P.

21 n., 109 7, 8 e n., 18 n., 20 n., 25 n., 31 n., 34, 183


36 e n., 37 n., 40 n., 99 n., 101 n., 109, 111 n., 114 n., 115 n., 117 n. 10 n., 20 e n., 21 n., 109 21 n. 119 9 n., 115 n. 74 n.

Raffaelli R. Roberts C.H. Roberts D. Rose P. Ross D.O. Jr.

Sabry Farag 12, 13, 14 Säve-Söderbergh T. 121 Salemme C. 36 n. Salles C. 6 n., 58 n., 109 Sansonetti G. 7 Sayed Hassan 7, 10 Sbordone F. 10 n., 25 n., 53 n., 54 n., 57, 60 n., 66, 94 e n., 109 Scarcia R. 106 Schanz M. 24 n. Schiavone A. 103 Schieffer R. 109 Schmidt E.A. 74 n. Schoonhoven H. 56, 57, 58 n., 109 Schuller W. 104 Senis G. 57 e n., 109 Silagi G. 37 n., 109 Sokal A. 117 n. Spawforth A. 104 Spencer P. 11 Stein O. 25 n. Stickler T. 91, 96 n., 109 Stroh W. 5 e n., 53 n., 54, 55, 57, 58, 63, 64, 65 n., 67, 69, 71, 72, 82 e n., 86 e n., 98 e n., 109 Suerbaum W. 34 n., 109 Susini G. 88, 89 n., 110 Tandoi V.

56, 59, 66 e n., 67 e n., 69, 70, 72, 77 n., 82 e n., 84 e n., 87 e n., 89 e n., 92 e n., 94 e n., 95 n., 98 e n., 104, 107, 110 107 116 n. 24 n., 34, 53 n., 67, 77 e n., 78, 90, 100 n., 106 100 n., 115 n.

Taplin O. Temporini H. Thompson D.B. Tjäder J.-O. 184


Tonelli A. Török L. Traina A. Traina G. Tränkle H. Treidler H. Turner E.G.

81 n. 102 n., 116 n. 35 n., 110 51 n., 52, 67, 83 n., 101 n., 110 63, 110 8 n. 100 e n., 116 e n.

Uglione R. von Ungern-Sternberg J. Vahlen J. Van Sickle J. Verducci F. Weinstein M.E. West D. Whitaker R. Wojcik A. Zahi Hawass Zecchini G.

105 104

57 6 e n., 8 n., 23, 53, 55, 56, 57, 58 n., 62, 63, 75 e n., 76 n., 78 e n., 79 n., 84 e n., 110 54 e n., 56, 57 e n., 65 n., 73, 75 n., 110 100 e n., 116 e n. 5 e n., 90 e n., 97 n., 110 23, 56, 57, 62, 64 n., 65 n., 77 e n., 87, 94 e n., 95 n., 110 74 n., 110 12 89 e n., 91 e n., 92 e n., 94 e n., 110

185


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