Gomorra

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persone, e puntano i fucili in faccia a ragazzini. L'unica scena che riesco a vedere è un carabiniere che urla a un ragazzino che gli punta contro un coltello: "Butta a terra! Butta a terra! Subito! Subito! Buttalo a terra!" Il ragazzino lascia cadere. Il carabiniere allontana il coltello con un calcio e questo rimbalzando contro un battiscopa fa rientrare la sua lama nel manico. È di plastica, un coltello delle tartarughe ninja. I militari intanto presidiano, fotografano, si muovono ovunque. Decine di fortini vengono abbattuti. Sventrati muri di cemento armato edificati nei sottoscala dei palazzi per creare depositi di droga, sfondati i cancelli che andavano a chiudere intere porzioni di strade per organizzare i magazzini di droga. Centinaia di donne scendono per strada, bruciano cassonetti, lanciano oggetti contro le volanti. Stanno arrestando i 107

loro figli, nipoti, vicini di casa. I loro datori di lavoro. Eppure non riuscivo a vedere su quei visi, in quelle parole di rabbia, in quelle cosce fasciate da tute così attillate che sembrano sul punto di esplodere, non riuscivo a vedere solo una solidarietà criminale. Il mercato della droga è fonte di sostentamento, un sostentamento minimo che per la parte maggiore della gente di Secondigliano non ha alcun valore d'arricchimento. Gli imprenditori dei clan sono gli unici ad averne un vantaggio esponenziale. Tutti quelli che lavorano nell'indotto di smercio, deposito, nascondiglio, presidio, non ricevono che stipendi ordinari a fronte di arresti, mesi e anni in carcere. Quei visi avevano maschere di rabbia. Una rabbia che sa di succo gastrico. Una rabbia che è sia difesa del proprio territorio, sia un'accusa contro chi quel luogo l'ha sempre considerato inesistente, perduto, da dimenticare. Questo gigantesco dispiegamento di forze dell'ordine che arriva all'improvviso solo dopo decine di morti, solo dopo il corpo bruciato e torturato di una ragazza del quartiere, sembra una messa in scena. Le donne di qui sentono puzza di presa in giro. Gli arresti, le ruspe, sembrano qualcosa che non va a modificare lo stato di cose, ma solo un'operazione a favore di chi ora ha necessità di arrestare e buttare giù pareti. Come se d'improvviso qualcuno cambiasse le categorie d'interpretazione e dicesse che la loro vita è sbagliata. Lo sapevano benissimo che lì era tutto sbagliato, non dovevano arrivare elicotteri e blindati a ricordarlo, ma sino ad allora quell'errore era la loro forma prima di vita, la loro forza di sopravvivenza. In più nessuno, dopo quell'irruzione che la complicava e basta, avrebbe davvero cercato di cambiarla in meglio. E allora quelle donne volevano gelosamente custodire l'oblio di quell'isolamento, di quell'errore di vita e cacciare chi d'improvviso s'è accorto del buio. I giornalisti erano appostati nelle loro macchine. Ma soltanto dopo aver lasciato fare e non aver intralciato gli stivali dei carabinieri iniziarono a riprendere il blitz. Alla fine dell'operazione ammanettarono cinquantatré persone, il più giovane era 108

dell'85. Erano tutti cresciuti nella Napoli del Rinascimento, nel percorso nuovo che avrebbe dovuto mutare il destino degli individui. Mentre entrano nei cellulari della polizia, mentre vengono ammanettati dai carabinieri, tutti sanno cosa fare: chiamare questo o quell'avvocato, aspettare che il 28 del mese a casa arrivi lo stipendio del clan, i pacchi di pasta per mogli o madri. I più preoccupati sono gli uomini che


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