Educational

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NUMERO // 0 GIUGNO 2013

SEMESTRALE DI ANALISI TRANSAZIONALE IN CAMPO EDUCATIVO E FORMATIVO

Eric Berne (1923-1989)

CESARE FREGOLA pag. 3 UN PROGETTO CHE NASCE DA LONTANO ANNA EMANUELA TANGOLO pag. 8 PERCORSI INNOVATIVI PATRIZIA VINELLA pag. 10 ALLEANZA DIDATTICA: PROSPETTIVE DELLA RELAZIONE EDUCATIVA

TAVOLO EDUCATIVO DEL CONVEGNO PERFORMAT OTTOBRE 2012 pag. 14


NUMERO // 0 GIUGNO 2013 www. PERFORMAT.it www. MATHETICA.it

COMITATO PROMOTORE FABIO BOCCI CESARE FREGOLA DANIELA OLMETTI PEJA ANGELA PIU ANNA EMANUELA TANGOLO PATRIZIA VINELLA CURATORE CESARE FREGOLA

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UN PROGETTO CHE NASCE DA LONTANO di Cesare Fregola

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TAVOLO EDUCATIVO DEL CONVEGNO PERFORMAT Sfida all’ultima carezza // 14 di Daniela Bartolomei Ok-ness: due esperienze a confronto // 24 di Zaira Branchi Intercultura a scuola // 34 di Adele Iozzelli Conflitto comunicativo a scuola: il confine dei ruoli // 38 di Simona Laino La vita è bella a scuola // 46 di Silvia Romana Dare riscontro efficacemente: il debriefing riflessivo // 50 di Alessandro Barelli

PERCORSI INNOVATIVI di Anna Emanuela Tangolo ALLEANZA DIDATTICA: PROSPETTIVE DELLA RELAZIONE EDUCATIVA di Patrizia Vinella

COMITATO DI REDAZIONE DANIELA BARTOLOMEI SIMONA LAINO MICHELA SANDRONI RESPONSABILE REDAZIONALE ALESSANDRA PIERRO I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO ALESSANDRO BARELLI DANIELA BARTOLOMEI ZAIRA BRANCHI ADELE IOZZELLI SIMONA LAINO SILVIA ROMANO PROGETTO GRAFICO WEBMASTER PAOLO GIOVANNELLI PERFORMAT SEDE DI ROMA Mathetica s.r.l. Via Valdinievole, 8 00141 Roma Tel. +39 3457910276 d.bartolomei@performat.it edu@mathetica.it

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UN PROGETTO CHE NASCE DA LONTANO di Cesare Fregola

Con un gruppo di ex studenti della facoltà di Scienze della Formazione, del Corso di Laurea di Scienze della Formazione Primaria dell’Università Roma Tre abbiamo dato vita, nel 2005, al “Master in Didattica della Matematica fra Arte, Scienze e Realtà” (da ora in poi Didamat). (SEGUE A PAG. 4)


Il Master si è rivelato un pretesto che ha consentito di mettere insieme grumi di motivazione per ricercare e sperimentare approcci più vicini alle esigenze dei bambini, alle modalità di partecipazione dei loro genitori al processo educativo e per costruire ambienti di insegnamentoapprendimento a supporto della formazione degli insegnanti

Didamat è diventato così un laboratorio nel quale, insieme alla prof.ssa Daniela Olmetti Peja, Coordinatrice gli aspetti della Pedagogia Sperimentale e Nino Conte il nostro amico matematico, siamo riusciti a dar vita a un modello che ha consentito di sperimentare, ideare, progettare 4.

DIGA DI FERDINANDEA DI STILO La diga può rappresentare: contenimento, riserva ed energia.

e realizzare ambienti ecologici di apprendimento, all’interno dei quali le dimensioni tradizionalmente riferite all’area socio-relazionale, affettiva, cognitiva e meta-cognitiva potessero costituire uno sfondo teorico e metodologico efficace per gli apprendimenti matematici. Via via hanno preso forma prototipi di ambienti di apprendimento che si sono dimostrati validi a prescindere dai contenuti matematici e dai contenuti che appartengono a un sapere e a un saper fare che sono alla base del saper generare competenze di contenuto, di processo e di ruo-


[1]  Laura ci ha lasciati in giovane età per una grave malattia ed è con noi non solo nel ricordo ma in tutte le azioni, i gesti e i comportamenti che ci riportano alle cose dell’organizzazione oltre che della didattica della creatività. [2]  Cfr Fregola C., (2007). “Cambiare segno all’emotività: gestire l’ansia e altro ancora”, in Fregola C., Olmetti Peja D., Superare un esame. Come trasformare ansia, emotività e studio in risorse strategiche, Napoli, EdiSES. [3]

Fregola C., (2010). “Mathematical Calculation

Procedures and Drivers in Action in the Learning

che l’AT poteva essere rivisitata per individuare competenze funzionali alla fondazione di un proficuo ponte comunicativo con alcuni aspetti del modo interno del bambino che apprende, questa è stata ufficialmente messa al vaglio dei Laboratori di Pedagogia Sperimentale e di Didattica Generale, facendola così rientrare, per statuto, nel programma di formazione in didattica della matematica. Da qui il passaggio che ha consentito di individuarne un primo prototipo per la formazione al counselling analitico transazionale del mondo dell’educazione e della formazione. In quello stesso periodo completavo la mia formazione per PTSTA in campo educativo per l’EATA e la mia frequentazione di Performat diventava sempre più coinvolta. L’attenzione di Emanuela Tangolo e di Patrizia Vinella ai miei progetti e alle mie ricerche mi ha fatto da sprone ed è iniziata una collaborazione che ha preso sempre più forma con un’identità nella quale iniziavo a riconoscermi. Questo mi ha persuaso a fare lo strappo con l’Università, dove era già stato autorizzato un nuovo master su “La conduzione della classe nella Scuola della Complessità e dell’Inclusione” nel cui programma l’AT avrebbe avuto uno spazio definito e specifico. Dal confronto con alcuni membri del gruppo è nato il progetto per la prima edizione di un master di Performat in Counselling in campo eduEnvironment” «International journal of transactional analysis research», VOl 1, n° 1. www.ijtar.org.

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lo, con un orientamento che pone la persona al centro del proprio apprendimento. Ciò ha consentito di dare rinnovata intenzionalità alla sperimentazione di buone pratiche e di modelli che danno all’azione didattica un valore una direzione, grazie alle quali chi si occupa di educazione e formazione può trovare un habitat per la migliore espressione di sé nel ruolo che svolge. Su queste basi il gruppo originario[1], oltre ai contenuti e alla metodologia formativa sviluppata in Didamat, ha gestito l’organizzazione, l’amministrazione e i processi di comunicazione nell’alveo dell’Università Roma Tre, che ha accolto il master nella propria offerta formativa. Ha preso forma un’avventura culturale, in parte ingenua e in parte poco consapevole, che si andava delineando come anomalia, in quanto insieme alla didattica della matematica si è posta al centro dell’attenzione soprattutto la relazione fra la persona e il proprio apprendimento all’interno della complessità sociale in cui insegnanti, allievi e genitori si trovano a operare oggi. Le variabili affettive, inizialmente, erano osservate con l’attenzione alla qualità dell’interazione didattica finalizzata a meglio agire le competenze relazionali a supporto del processo costruzione del linguaggio matematico mentre l’AT era lasciata sullo sfondo! Quando - grazie a una ricerca sulle Spinte applicate nella pianificazione e nella gestione dello studio[2] e poi nell’apprendimento delle procedure di calcolo[3] - si è progressivamente scoperto


cativo e formativo (da ora MasterEdu) da ideare, progettare, realizzare, sperimentare presso la sede di Mathetica, dando luogo alla sede periferica di Performat a Roma.

Siamo qui a oggi! Buona parte delle allieve che stanno completando il terzo anno di MasterEdu provengono dal gruppo di Didamat. Nel 2011, durante il primo anno di MasterEdu, abbiamo partecipato al convegno di Performat, prevalentemente come spettatori e abbiamo avuto modo di pensarci in una comunità professionale in via di regolazione, ma con una definizione già chiara nella sua cultura e in una fase specifica del suo proprio sviluppo organizzativo. Nell’ottobre scorso eravamo presenti al convegno con due gruppi del MasterEdu – arrivato frattanto alla seconda edizione – e, oltre che spettatori, siamo stati presenti al tavolo educativo come gruppo che si costruisce. Da quel tavolo nascono le relazioni oggetto di questo primo quaderno del Counselling in Campo Educativo e Formativo che prende forma nella collaborazione fra Performat e Mathetica. Durante quel convegno abbiamo avuto modo di sentirci un po’ più parte di una comunità dove poter esprimere le sinergie in un sistema di valori professionali, etici e scientifici che guidano gli stessi scopi e condividere una mission focalizzata sui processi di apprendimento. Veniamo così a questo lavoro la cui idea originaria prende spunto dalla newsletter di Didamat[4], un numero monografico che ha raccolto le relazioni di uno dei convegni organizzati da quel master e che è il frutto della costruzione sociale di [4]  Il master ha portato a sviluppare, fra le altre, una ricerca sui giochi di simulazione in matematica che è stata pubblicata in America: cfr. Piu A., Fregola C. (Eds.), (2010). Simulation and Gaming for Mathematical Education. Epistemology and Teaching Strategies, Hershey U.S.A., IGI Global.

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conoscenza e della partecipazione a quel gruppo di ricerca che l’ha costruito e che è diventato il gruppo fondante di MasterEdu. L’ordine in cui sono proposte le relazioni è parzialmente casuale, nel senso che si è scelto di presentare i casi proposti per ordine di età, a conferma che l’epistemologia di MasterEdu si fonda sull’apprendimento in tutte le fasi del ciclo di vita. In particolare: Daniela Bartolomei descrive un’esperienza condotta all’interno del proprio ruolo di insegnante di sostegno in una scuola dell’infanzia e riferita ad aspetti delle dinamiche relazionali con un alunno disabile. Attraverso l’analisi degli Stati dell’Io attivati durante le interazioni, le è stato possibile co-costruire un percorso educativo che ha gradualmente condotto il bambino sul sentiero dell’ OK-ness, modulando con intenzionalità un piano di Carezze e promuovendo insieme al bambino stresso la capacità di mettere in relazione il benessere personale e quello della rete di relazioni familiari e sociali di cui fa parte. Zaira Branchi propone due autocasi. Nel primo descrive come può essere applicato il Contratto a tre mani in un contesto socio-culturale specifico, contestualizzato nel Comune di Sulmona all’interno dell’Associazione Giostra Cavalleresca dove è insegnante di tamburino. Nel secondo caso propone una situazione che riguarda lo scambio comunicativo avvenuto tra lei e una bambina affetta da deficit dell’attenzione e iperattività frequentante la quinta elementare, nella quale svolge il ruolo di insegnante di sostegno. Il Codice Etico dell’EATA ha fatto da spunto per svolgere un po’ di ricerca su aspetti che vengono spesso denominati senza entrare nella specificità delle fonti e del lessico. Così, nel proprio lavoro, si trovano riportati alcuni articoli della Dichiarazione dei Diritti Umani ed è interessante poter cogliere le relazioni con il costrutto dell’OK-ness all’interno di un processo educativo che potreb-


Adele Iozzelli introduce così il suo lavoro, svolto presso una scuola media: “Il ruolo d’insegnante è, per sua naturale costituzione, intrinsecamente immerso nella complessità e sottoposto a grandi sfide e pressioni. Una di queste è rappresentata dall’Intercultura, il lavorare all’interno di contesti educativi in cui la presenza di alunni stranieri è elemento di arricchimento culturale ma anche di ulteriore complessità”; è partendo da qui che presenta lo sviluppo un percorso essenziale nel quale si sottolinea il valore della prospettiva dell’empowerment. Simona Laino, con il suo lavoro, indica in modo chiaro la necessità di disporre di strumenti e schemi utili a descrivere il processo relazionale nell’evoluzione dei fenomeni che si sviluppano e che possono essere letti di per sé, seppure senza prescindere dagli aspetti intrapsichici indirettamente osservabili in quanto riconducibili ai costrutti dell’AT. Ha scelto il modello relazionale della Scuola di Palo Alto e lo pone all’interno della dinamica comunicativa fra ruoli, a loro volta interpretati e svolti dalle persone che li abitano. Nel lavoro di Silvia Romano, un po’ più embrionale dal punto di vista delle integrazioni fra l’AT e gli aspetti più propriamente pedagogici, è riportato uno spunto interessante di come si possa progettare un incontro di sensibilizzazione al tema del pregiudizio a partire dal film La vita è bella di Benigni e ritrovare un percorso che consente di individuare quanto il pregiudizio possa influenzare da un lato la relazione fra l’educatore e l’alunno e dall’altra dell’alunno con il proprio apprendimento, tenendo sullo sfondo la prospet-

tiva dell’Autoefficacia e dell’Autonomia. Al tavolo educativo ha preso parte anche Alessandro Barelli, un collega medico, che frequenta la Scuola di Psicologia Clinica di Performat e porta con sé competenze pregiate relative alla formazione degli adulti. La sua presentazione è riferita a un interessante modello di debriefing che supera l’approccio centrato su una protezione apparente fondata

Con alcuni membri del gruppo ci siamo confrontati e abbiamo condiviso il progetto di “partire” con la prima edizione del master di performat in counselling in campo educativo e formativo (da ora MasterEdu) da ideare, progettare, realizzare, sperimentare presso la sede di Mathetica, nella prospettiva di dar luogo alla sede periferica di Performat a Roma

sul dare il feedback in modo indiretto, evitando di attivare una critica costruttiva che supporta il processo di Autoefficacia. Prende così avvio il progetto di raccontare due volte l’anno le esperienze salienti di studio, formazione e counselling educativo del nostro master, consapevoli del fatto che si vuole mettere a confronto ogni lavoro con le possibilità di miglioramento e sviluppo che lo caratterizzano. Perché lo scopo non è solo quello di proporre esiti finali ma di aprire stanze di lavoro e di osservare all’interno di questi cantieri l’evoluzione della nostra ricerca e la progressiva definizione del ruolo di counsellor analitico transazionale del campo educativo e formativo. .7

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be appartenere, più che alla formalità del sapere, all’interazione con le conoscenze che rende il sapere un accadimento nel mondo interno che interagisce con il mondo esterno, per la crescita e lo sviluppo personale del singolo e nei contesti di relazione che caratterizzano la propria comunità di appartenenza.


di Anna Emanuela Tangolo

PERCORSI INNOVATIVI

C

ome bene racconta il caro amico Cesare nel suo editoriale, ormai da diversi anni è in atto questa collaborazione virtuosa tra PerFormat e il gruppo di Mathetica, che ha dato vita a uno specifico indirizzo di master triennale orientato a formare counsellor professionisti che operano all’interno del settore educativo e formativo. Il Master, che oggi si chiama “MasterEdu”, rappresenta un’avanguardia evoluta all’interno del panorama nazionale ed è svolto in conformità alla normativa del Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti (CNCP) e agli standard dell’International Transactional Analysis Association (ITAA) e European Association of Transactio8.

nal Analysis (EATA), le due associazioni internazionali che riuniscono i professionisti di Analisi Transazionale. Al termine del percorso i professionisti del settore possiedono competenze di Analisi Transazionale che possono declinare in vari contesti educativi e formativi. La comprensione e la rielaborazione dei processi dell’interazione educativa e formativa, e dei diversi stili di apprendimento nelle varie fasi dell’età evolutiva e in tutto il ciclo di vita, permette loro di progettare percorsi didattici orientati a sviluppare il senso di autoefficacia e di autonomia individuale degli allievi, di leggere il funzionamento organizzativo del “gruppo-aula” e di favorire la comunicazione sociale nei diversi ruoli e contesti


1. per la duttilità dell’Analisi Transazionale che, nello spirito del suo fondatore, Eric Berne, si presta, come approccio flessibile e intuitivo, a costruire ponti relazionali tra gli operatori dei settori dell’educazione e della formazione, le nuove generazioni e l’evoluzione dei contesti sociali e culturali in un contesto economico in “cerca d’autore”; 2. per aiutare a individuare, potenziare e focalizzare le energie e le motivazioni degli allievi, attraverso l’uso di un counselling professionale, nella prospettiva del benessere e della salute all’interno della società della conoscenza e della

complessità ambientale che le innovazioni continue hanno delineato. I risvolti professionali che ne derivano vanno nella direzione della definizione di un ruolo di counsellor che si rivolge alle figure che, direttamente o indirettamente, sono coinvolte nella gestione di processi educativi e di apprendimento con la finalità prioritaria dello sviluppo della propria autostima, della propria autoefficacia personale e sociale e della propria autonomia. Il mio augurio quindi, in qualità di direttore di PerFormat, è che questo semestrale raccolga e diffonda i risultati di un’esperienza così importante per tutti coloro che hanno a cuore il bene della scuola italiana, delle nuove generazioni e dei luoghi nei quali l’apprendimento si possa svolgere in un ambiente sicuro, accogliente e capace di integrare tradizione e innovazione. .9

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in cui essi si trovano ad operare. PerFormat ha integrato con grande interesse all’interno della propria offerta formativa questo tipo di percorso, per due ordini di motivi:


ALLEANZA DIDATTICA

Prospettive della relazione educativa

di Patrizia Vinella

PREMESSA L’intento di questo articolo è di promuovere una riflessione sul significato dell’alleanza didattica in Analisi Transazionale. Partendo dal concetto berniano di alleanza terapeutica, si propongono alcune considerazioni sulle condizioni che possano favorirne lo sviluppo all’interno della relazione educativa, anche in considerazione dei cambiamenti repentini del mondo contemporaneo e di una scuola figlia della società complessa. L’ALLEANZA E L’AT In un breve articolo del 1962, Berne focalizza i punti fondamentali dell’alleanza terapeutica (Berne, 1962). Per Berne l’incontro tra paziente e terapeuta è un incontro simile a una relazione d’amore in cui ciascuno valuta l’altro con il proprio A1 (Piccolo Professore) per decidere se sia un partner adeguato con cui stabilire un 10.

rapporto significativo. L’alleanza è quindi la prima necessaria fase per lo sviluppo di un piano terapeutico rivolto al cambiamento; questo momento così importante dell’incontro terapeutico si sviluppa su due livelli: il livello sociale (A-A) e il livello psicologico (G-B), la competenza del terapeuta sarà quella di rendere coerenti i due livelli. Berne sviluppa il concetto di alleanza sottolineando l’importanza di cogliere, nella richiesta di aiuto del paziente, il livello Adulto (verbale) e quello Bambino (psicologico) e rispondere a entrambi i livelli (verbale psicologico). L’ALLEANZA DIDATTICA Con lo sviluppo delle applicazioni dalla teoria e metodologia AT anche ai campi educativi, si è riscontrato quanto sia necessario, per lo sviluppo di una buona relazione educativa, costruire una alleanza didattica che favorisca la costruzione di


A= Professore sarò promosso quest’anno? I= Dipenderà dal lavoro che faremo insieme.

G

G

A

A

B

B

A: ALUNNO I: INSEGNANTE In questo diagramma si può notare un livello sociale (A-A) e un livello psicologico (B-G/G-B); a livello B-B si sottende il flusso empatico: A = (livello sociale A-A) Professore, sarò promosso quest’anno? / (livello psicologico B-G) Rassicurami! K = (livello sociale A-A) Dipenderà dal lavoro che faremo insieme / (livello psicologico G-B) Ti ascolto e mi prendo cura di te!

LE SFIDE DELL’ALLEANZA NELLA SCUOLA DI OGGI In qualità di docente, oltre che di analista transazionale, ho avuto l’opportunità di sperimentare direttamente la difficile sfida della costruzione dell’alleanza didattica nella scuola di oggi. Quando si è a contatto con ragazzi poco motivati alla relazione educativa (e nella mia esperienza all’interno di un istituto professionale la demotivazione è altissima, così come la dispersione scolastica), l’alleanza va costruita su altre premesse rispetto a quelle berniane in cui si evidenzia la centralità della richiesta d’aiuto da parte del paziente. Molto spesso la rabbia e la noia che i ragazzi manifestano verso la figura del docente è espressione di un transfert pre-costituito negativo che porta a considerare il docente come un nemico, un ostacolo e un limite alla propria libertà, più che una persona a cui chiedere aiuto o un’opportunità di cambiamento, oltre che una guida per il proprio percorso di apprendimento. La rabbia di molti di questi ragazzi è una rabbia contro il docente, ma anche contro la scuola, la famiglia, il sistema, la politica, il mondo intero. Anche quando vi sono alunni che esprimono il bisogno di essere accolti e aiutati, è possibile che la rabbia e il disprezzo degli altri più rumorosi assorba molte delle energie disponibili del docente e ostacoli l’ascolto che meritano. È possibile comprendere quindi come tanti docenti si trincerino e si chiudano assumendo ruoli da Genitore Normativo Negativo o da Bambino Adattato Negativo che allontanano dalla relazione empatica, e sono una forma di protezione dalle forze aggressive difficilmente gestibili. Essi necessitano quindi di sviluppare la propria capacità di gestione del carico di disconferme e/o sadizzazioni, fonte di grave frustrazione e senso di inutilità (ingiunzione “non farcela”) e di capacità di rassicurazione di sé e dell’altro, di contenimento della rabbia, riconoscendo il disagio e orientandolo in esperienze costruttive. COME FACILITARE LA COSTRUZIONE DI UNA EFFICACE ALLEANZA DIDATTICA? Per sviluppare una buona alleanza didattica, è .11

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una relazione d’aiuto finalizzata al cambiamento, all’apprendimento e lo sviluppo della fiducia dell’allievo nelle proprie potenzialità. Per realizzare l’alleanza, è fondamentale che il docente sia in grado di riconoscere e rispondere al messaggio psicologico e quindi non lasciare inascoltato il Bambino dell’allievo, fornendo una chiara disponibilità e accoglienza del livello non verbale della comunicazione, favorendo la percezione e la risposta empatica; l’alleanza è quindi notevolmente influenzata dall’empatia del docente e dalla sua capacità di rispondere con tutti e tre i suoi stati dell’Io alla richiesta di aiuto e di rassicurazione. Si riporta un esempio:


necessario in primis che il docente sia competente non solo sulla sua disciplina ma anche sulle dinamiche relazionali e conosca le caratteristiche e la potenza della comunicazione non verbale. Su questo aspetto ritengo che dagli anni ’90 ad oggi – dopo un lungo periodo in cui la preparazione di un insegnante si misurava esclusivamente sul piano delle conoscenze della propria disciplina – molto si sia fatto: oggi la classe do-

cente (naturalmente con alcune eccezioni) ha molte più consapevolezze sull’importanza del fattore emotivo nella facilitazione dell’apprendimento ed è senz’altro più attenta alle dinamiche relazionali che si sviluppano con i propri alunni. La competenza dell’insegnante, però, può non essere sufficiente se il setting non è adeguato all’obiettivo educativo. Il setting – inteso come l’insieme delle regole che 12.

definiscono una relazione di aiuto in termini di cadenza, durata ecc. – ha un’influenza notevole sullo sviluppo dell’alleanza, nel senso che se gli spazi, i modi e i tempi non sono congrui per costruire quel clima di fiducia reciproca, il rischio di fallimenti può essere notevole. Se ad esempio l’insegnante si ritrova a lavorare in un’aula piccola e angusta, con 28-30 alunni adolescenti e in forte conflitto con l’autorità, le difficoltà a strutturare un’alleanza sono moltissime: l’aggressività si potenzia e spesso si rivolta contro il simbolo di un’istituzione che richiama al dovere, allo studio, alle regole, ed è pertanto rifiutato; in queste condizioni è più difficile che vi sia una qualche richiesta di aiuto e di rassicurazione. Se invece gli spazi sono idonei e il gruppo-classe è di piccole dimensioni, la situazione può cambiare drasticamente: emerge la passione, la curiosità, si possono fare domande anche personali, si può ridere insieme e costruire un clima sereno; diventa possibile, nell’ora di lezione, potersi relazionare sia al gruppo che ai singoli, riconoscendone immediatamente cambi di umore, distrazioni, perplessità, rabbia insorgente. Un altro elemento che facilita la costruzione dell’alleanza è la motivazione. Nella mia esperienza in istituti superiori di tipo tecnico-professionale, sono stata a contatto sia con alunni che insegnanti poco motivati al cambiamento: gli insegnanti vivono un profondo disagio nel riconoscimento del proprio ruolo educativo e gli alunni, più interessati alle attività


Lo sviluppo di una competenza emotiva può fornire una serie di strumenti per comprendere quale sia il momento più adatto ad aprire finestre relazionali e intervenire; queste finestre non sono sempre aperte e, se si forza, si rischia di ritrovarsi all’interno di un gioco psicologico e di allontanarsi ancora di più dall’obiettivo educativo.

Oggi la classe docente (naturalmente con alcune eccezioni) ha molte più consapevolezze sull’importanza del fattore emotivo nella facilitazione dell’apprendimento ed è senz’altro più attenta alle dinamiche relazionali che si sviluppano con i propri alunni. ”

L’alleanza didattica è spesso una scommessa quotidiana che passa anche dal combattere ogni giorno quegli agenti distraenti come social network, smartphone ecc. (forze centrifughe alla classe e al gruppo) e fornire una relazione significativa e competente che riconosca la molteplicità delle offerte alternative di curiosità e apprendimento proposte dalla rete esterna alla scuola e si ponga come alternativa moderna, credibile e soprattutto presente e umana. BIBLIOGRAFIA Berne E., (1962) “In treatment”, Transactional Analysis Bullettin, 1, p.2, 1962. Berne E. (1961). Analisi transazionale e psicoterapia. Astrolabio, Roma, 1971. De Martino M., Novellino M., Vicinanza A. (1990), L’alleanza nella relazione didattica, Liguori. Napoli. Vinella P. (2000). “La comunicazione empatica in analisi transazionale, counselling in ambito educativo e psicopedagogico”, in A. Miglionico, Manuale di Comunicazione e Counselling, Centro Scientifico Editore, Torino. Vinella P. (1998). “Il setting nel Counselling” in Novellino M. L’approccio clinico dell’analisi transazionale. FrancoAngeli Editore, Milano.

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pratico-professionali, spesso svalutano in partenza le proposte educative degli insegnanti di discipline teoriche. Per i docenti è fondamentale ritrovare la motivazione e il senso del proprio ruolo professionale, nonostante le continue svalutazioni anche istituzionali e sociali e le richieste sempre più capillari e complesse dell’istituzione, anch’essa allo sbando per carenza di fondi, strumenti, aule, spazi. Va ricordato infine che la filosofia berniana è di tipo contrattuale e si basa sul principio che ognuno ha la capacità di autodeterminarsi ed è artefice del proprio cambiamento; anche l’alleanza quindi è un processo bilaterale che dipende dal lavoro di entrambe le parti coinvolte nel processo di cambiamento (insegnante-alunno). Pertanto se manca una sincera motivazione da parte sia del docente che dell’allievo, è poco probabile che si possa strutturare una alleanza di lavoro. Il tema della motivazione all’apprendimento condiziona molto la capacità del docente di costruire un’alleanza intesa come base per un contratto di cambiamento. Per ritrovare la motivazione e favorire così l’alleanza si potrebbe intervenire a diversi livelli. WW A livello istituzionale: favorire un setting idoneo e migliorativo. I ragazzi più difficili necessitano di più strumenti e di più spazi, oltre che degli insegnanti più qualificati e di un rapporto inferiore tra il numero di alunni e i docenti. WW A livello di consiglio di classe: favorire un clima di scambio sano tra colleghi per potersi sostenere nelle situazioni complesse, contribuendo alla ricerca di strategie comunicative e didattiche migliorative. WW A livello personale del docente: in una prospettiva di rispetto dell’altro, riconoscere anche che non è possibile andare a genio a tutti gli alunni e che non tutti sono disponibili a richiedere aiuto a ciascun insegnante. Bisogna essere consapevoli che, se nessuno può cambiare gli altri, può però facilitare le capacità di risolvere i problemi.


’esperienza condotta in una scuola dell’infanzia mi ha permesso di riconsiderare alla luce dell’approccio analitico-transazionale alcuni aspetti delle dinamiche relazionali tra docente e alunno. Nella fattispecie ho potuto mettere in relazione alcuni di questi aspetti con la mia identità personale e professionale, nonché rivisitare le mie convinzioni sull’apprendimento inteso come processo. Attraverso l’analisi degli Stati dell’Io attivati durante le interazioni con l’alunno, ho avuto modo di sperimentare strategie che consentissero di limitare la negatività relazionale, co-costruendo con il bambino un percorso educativo che lo conducesse gradualmente sul sentiero dell’OK-ness, promuovendo insieme a lui capacità legate al suo benessere personale e sociale.

14.


SFIDA ALL’ULTIMA CAREZZA Un’esperienza-caso nella scuola dell’infanzia

L’ alunno, che chiameremo Marco per ragioni di riservatezza, è un bambino di cinque anni, inserito per il terzo anno nella sezione “N” della scuola dell’infanzia in cui svolgo la funzione di insegnante di sostegno. Secondo l’unica certificazione esistente, il bambino è affetto da ritardo psicomotorio, sebbene i problemi maggiori siano da riferirsi principalmente all’ambito affettivo-relazionale. Marco fino all’età di 18 mesi è vissuto in un orfanotrofio dove, in base a quanto riferito dai genitori adottivi e dall’équipe socio-sanitaria che lo ha preso in carico, non

riceveva le adeguate cure e le attenzioni allo scambio relazionale necessarie a un bambino di quella età. Il bambino seguiva la programmazione di sezione con un percorso di apprendimento diversificato nelle strategie adottate e, al pari dei propri compagni, partecipava a tutte le attività previste dai progetti di sezione. Dall’analisi delle osservazioni svolte in classe è emerso che, al momento dell’inserimento a scuola, Marco presentava importanti difficoltà relazionali sia verso i compagni sia verso le figure di riferimento: con i primi aveva delle difficoltà .15

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di Daniela Bartolomei


ERIC BERNE

individua, fra i diversi bisogni comuni a tutti gli esseri umani, quello di stimoli, che è strettamente legato al bisogno di riconoscimento. In tale ottica la carezza è definita come l’unità di riconoscimento che attesta l’avvenuto contatto tra le parti di un processo relazionale. A tal proposito, Berne rimandava all’indagine condotta da Spitz su alcuni neonati allevati in un orfanotrofio, i quali, pur essendo ben nutriti e accuditi, manifestavano problemi emotivi e fisici più frequenti rispetto ai bambini seguiti personalmente dalla madre o da un’altra figura di riferimento. Ciò che mancava ai primi era la stimolazione che deriva dal rapporto diretto con un’altra persona; sostanzialmente erano stati privati di tutta la serie di moine che i neonati sono soliti ricevere. La mancanza di contatto fisco e di un’adeguata stimolazione erano quindi le cause principali del graduale impoverimento della psiche dei bambini. La scelta del termine “carezza” rimanda dunque al bisogno infantile di riconoscimento attraverso il contatto fisico e, dal punto di vista relazionale di un adulto, può trovare anche forme di espressione simboliche: una frase, un gesto, o più in generale attraverso un qualsiasi segno che denoti il riconoscimento.

nell’instaurare rapporti, mostrando sovente una condotta sociale non corretta e un comportamento aggressivo (pizzichi, morsi, calci ecc.); nei confronti dei secondi, le figure di riferimento, manifestava un’ostilità persistente che si esprimeva nel mancato rispetto delle regole, a cui si aggiungeva una sorta di resistenza verbale, con frasi quali «Marco non vuole...». Molto spesso compiva intenzionalmente atti che gli erano stati proibiti e, se rimproverato, mostrava noncuranza. Il bambino manifestava fenomeni di pianto incontrollato che, deduttivamente, ho imputato alla paura e all’ansia nel dover affrontare situazioni nuove, nell’udire rumori forti come grida, canzoncine o il suono del fischietto, nell’avvertire movimenti veloci da parte dei compagni o degli insegnanti, nel veder tracciare righe su un foglio o palloncini gonfiati. Nell’ambito delle normali attività didattiche, molto spesso si rifiutava di svolgere le consegne richieste e manifestava il proprio dissenso sdraiandosi a terra; nei momenti di ascolto delle storie, rifiutava di prendere parte al circle time e pretendeva di sedersi nel mezzo del cerchio ar16.

recando intenzionalmente fastidio ai compagni. Si rifiutava inoltre di ascoltare o cantare le canzoncine proposte dalle insegnanti né gradiva che gli altri lo facessero. Dalle osservazioni svolte in classe, oltre ai comportamenti descritti, ho potuto tuttavia rilevare anche molti punti di forza (una buona memoria, una buona coordinazione dinamica generale, un linguaggio creativo e la sua viva curiosità), sui quali costruire un piano educativo individualizzato che rispondesse adeguatamente ai reali fabbisogni di Marco[1]. [1]  Il Piano Educativo Individualizzato di Marco è stato costruito sulla specifica situazione di funzionamento dell’alunno, con i suoi punti di forza e di debolezza. Sulla base del modello bio-psico-sociale dell’ICF-CY (Classificazione

Internazionale

del

Funzionamento),

utilizzato per descrivere la situazione globale di una persona - funzioni corporee, strutture corporee, attività personali e partecipazione sociale, fattori contestuali ambientali e personali - è stato costruito un percorso educativo individualizzato sull’alunno, sul contesto e sulle risorse disponibili.


ma di esplorazione del bambino[3]. Il comportamento dei diversi bambini nella Strange Situation Procedure è stato catalogato in quattro categorie: Insicuro Evitante (A), Sicuro (B), Insicuro Ambivalente (C) e Disorientato/Disorganizzato (D)[4]. La valutazione del legame di attaccamento è molto importante perché quest’ultimo determina e influenza la formazione dei paradigmi comportamentali che il bambino impiegherà nel futuro rapporto con il mondo circostante. Il bambino, infatti, in fase di sviluppo costruisce una certa quantità di modelli di sé basati su pattern ripetuti di esperienze interattive (Modelli Operativi Interni), che includono sia la rappresentazione del mondo e degli altri sia di se stesso. Tali modelli rappresentazionali sono relativamente fissi, stabili e duraturi e sono usati dal bambino per fare previsioni sulle future esperienze relazionali, ma possono subire forti modificazioni in misura della qualità e significatività delle nuove relazioni che instaura con le altre figure di riferimento. Tornando all’analisi del caso, i comportamenti [3]  Studiando psicologia generale e psicologia dello sviluppo nel mio percorso di studi in Scienze della formazione primaria, più volte mi sono chiesta quali implicazioni

potessero

avere

alcune

conoscenze

nell’esercizio del futuro ruolo di insegnante. Oggi che mi trovo sul campo, grazie all’ AT ho potuto prima intuire, e poi osservare intenzionalmente, come alcuni saperi possono essere rielaborati con una finalità didattica nella quale si sintetizzano gli sguardi disciplinari con la migliore espressione del sé personale e professionale. In particolare, con riferimento al presente lavoro, ho ripensato al mio percorso per diventare counsellor, agli incontri sul tema dell’Attaccamento con la Dott.ssa Anna Massi e a quelli sulla pedagogia sperimentale con la Prof.ssa Olmetti Peja, e compreso che un’azione pedagogica efficace deve essere guidata non solo da una conoscenza consapevole, ma anche da un’ intenzionalità formativa, che è cosa ben diversa dalla semplice conoscenza teorica.

[2]  Bowlby J., Una base sicura, Raffaello Cortina Editore,

[4]  Appunti dalla lezione della Dott.ssa Anna Massi su AT

Milano, 1988, p. 10

e Teoria dell’Attaccamento.

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LEGAME DI ATTACCAMENTO E POSIZIONI DI VITA Come ho già detto, Marco ha vissuto fino all’età di 18 mesi in un orfanotrofio. Non avendo maggiori dettagli circa le condizioni di vita che ne hanno caratterizzato la prima fase dello sviluppo, e potendomi basare solo sui dati raccolti durante la frequenza scolastica, ho potuto ipotizzare che in quel periodo Marco abbia sperimentato una relazione disfunzionale con la/le figura/e di riferimento. Come è noto, secondo Bowlby un neonato è predisposto biologicamente a ricercare sensazioni di vicinanza e sicurezza, nell’ambiente umano che lo accoglie, attraverso dei comportamenti di attaccamento. Nei primi mesi di vita, infatti, il bambino si trova in uno stato di assoluta dipendenza dall’ambiente esterno, sia per quanto riguarda il soddisfacimento dei bisogni fisiologici sia per quanto riguarda il suo bisogno primario di riconoscimento. Rilevanza fondamentale assume quindi la relazione che instaura con la genitrice e questo legame è denominato “legame di attaccamento.” L’attaccamento alla figura materna serve come “una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi al mondo esterno, e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato”[2] (Bowlby, 1988, p.10). Nella teoria dell’attaccamento Bowlby individua tre sistemi di controllo che guidano il comportamento infantile: quello esplorativo, quello adibito alla gestione della paura e quello relativo al senso di appartenenza. Il tipo di attaccamento che il bambino sviluppa può essere verificato attraverso la procedura sperimentale denominata Strange Situation Procedure, ideata da Ainsworth, attraverso la quale è possibile individuare l’organizzazione dell’attaccamento dai 12 ai 24 mesi e valutare l’equilibrio tra il sistema di attaccamento e il siste-


osservati in Marco sembravano evidenziare prevalentemente un modello di attaccamento di tipo ansioso, caratterizzato da comportamenti aggressivi nelle relazioni con i compagni, da ostilità persistente verso le figure di riferimento e da disturbi emotivi che si manifestavano in fenomeni di paura incontrollata. Il Modello Operativo Interno (MOI) di Marco rifletteva la visione che il bambino aveva di sé: una persona inadeguata, non degna di amore, che percepiva gli altri come desiderabili ma irraggiungibili. Per questo, ho potuto ipotizzare, le sue reazioni emotive e i suoi stati d’animo oscillavano tra rabbia, diffidenza e disperazione. In termini di Analisi Transazionale, i MOI, che si sviluppano da un legame di attaccamento, possono essere espressi nei termini delle quattro posizioni di vita che una persona può assumere nell’arco della propria esistenza: Io sono OK-Tu sei OK, Io non sono OK-Tu sei OK, Io sono OK-Tu non sei OK, Io non sono OK-Tu non sei OK. La posizione di vita può essere definita come l’insieme delle “convinzioni fondamentali di una persona su di sé e sugli altri, utilizzate per giustificare le proprie 18.

decisioni e il proprio comportamento”[5]. Berne afferma che la posizione “viene assunta agli inizi dell’infanzia (dai 3 ai 7 anni) al fine di giustificare una decisione basata sulle prime esperienze”[6]. Per Steiner, invece, tutti gli esseri umani alla nascita si trovano nella prima posizione e l’unica causa di transizione verso la posizione Io non sono OK o Tu non sei OK, o verso entrambe, è data dall’interruzione del rapporto tipico della relazione tra madre e neonato, basato sulla protezione e sulla mutualità che in un primo momento – quanto meno in utero – venivano offerte incondizionatamente. Secondo Steiner la posizione Io sono OK-Tu sei OK può essere paragonata alla posizione di fiducia di base descritta da Erikson come derivante da “uno stato di cose in cui il neonato sente di essere una cosa sola con il mondo e che tutto è

[5]  Stewart I., Joines V., L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Milano, 2011, p.158. [6]  Ivi, p.157.


pevolezza mi ha condotta a riconsiderare che la finalità di facilitare la riconquista della posizione Io sono Ok, Tu sei OK, intesa come vissuto serenamente obbiettivo delle capacità e dei limiti propri ed altrui”[8] può entrare a far parte delle finalità educative del progetto individualizzato oltre che della conduzione della classe. Dall’analisi delle interazioni con Marco, ho compreso che dietro i suoi comportamenti disfunzionali si celava in realtà il bisogno di essere riconosciuto. Ciò mi ha consentito di capire che la posizione di vita assunta dal bambino in quelle situazioni era doppiamente negativa: “Io non sono Ok-Tu non sei Ok”, e che la sua risposta in quel momento non faceva altro che restituirgli il riconoscimento in termini di carezze negative. Dal punto di vista del processo relazionale, la carezza certifica l’avvenuto contatto e quindi il soddisfacimento del bisogno di riconoscimento che ne consegue, [8]  Moiso C., Novellino M., Stati dell’Io. Le basi teoriche

[7]  Steiner C. M., Copioni di vita. Analisi Transazionale

dell’Analisi Transazionale Integrata, Astrolabio, Roma,

dei copioni esistenziali, La Vita Felice, Milano, 2011, p.73.

1982, p.68.

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una cosa sola con lui”[7], rispecchiando in pieno la reciproca interdipendenza tra l’infante e la madre. Questa posizione di vita deriva proprio da un legame di attaccamento di tipo sicuro (Modello B). Viceversa, leggendo con lo stesso sguardo della Teoria dell’Attaccamento, l’insicurezza scaturita da una situazione incerta e condizionata da elementi a lui sconosciuti, porta il bambino a concludere o che lui non è OK, o che la mamma non è OK, o che non lo è nessuno dei due, passando quindi dallo stato di fiducia di base a una sfiducia di base. È importante sottolineare che una posizione esistenziale non caratterizza l’intera vita dell’individuo, in quanto si passa da una posizione a un’altra a seconda delle situazioni e/o dell’interlocutore. Il risvolto che ho potuto constatare è che la tendenza a privilegiare una posizione rispetto a un’altra può essere vista sia come frutto della storia personale sia come reazione a momenti particolarmente stressanti. Questa consa-


mentre dal punto di vista del contenuto è il messaggio che esprime lo stato di Ok-ness o non Okness dell’altro. Se è vero che “senza carezze, non si cammina a petto in fuori”[9] proprio perché il bisogno relazionale è connaturato all’essere umano, è vero anche che “quando una persona non riesce a procurarsi carezze positive si accontenterà di carezze negative perché anch’esse, seppur non piacevoli, sono vitali”[10]; in entrambi i casi, per dirla con parole di Berne, qualsiasi tipo di carezza è meglio di nessuna carezza. L’impossibilità di ottenere carezze positive, come nel caso dei bambini osservati da Spitz o probabilmente come nel caso di Marco, induce le persone a ricercarne un surrogato. Nella vita umana quindi, e a maggior ragione nel processo evolutivo del bambino, il bisogno di carezze è ben più importante della loro tipologia. Il bisogno di riconoscimento è così forte che spinge le persone ad accontentarsi di modalità relazionali fondate su carezze negative, quindi su messaggi che possono danneggiare l’autostima e la sicurezza di un individuo, confermando lo stato di non OK-ness. La posizione di vita, in questo senso, ha un rapporto biunivoco con il processo di ricerca delle carezze: da un lato, il paradigma comportamentale che si sviluppa in seguito al rapporto di attaccamento induce il bambino alla ricerca di una determinata tipologia di carezze, dall’altro questa ricerca rinforza il modello comportamentale dal quale scaturisce. Nei processi relazionali, quindi, la posizione di vita ha un ruolo importante nel determinare le modalità di rapporto con le carezze: la persona che chiede le carezze in una posizione Io sono Ok-Tu sei Ok lo fa in modo assai diverso dalla persona che è convinta di non essere OK.

[9]  Berne E., A che gioco giochiamo, Bompiani, Milano, 2010, p.15. [10]  Steiner C. M., Copioni di vita, op. cit., p.106.

20.

Alla luce di ciò, uno dei miei obiettivi è stato quindi quello di mostrare a Marco una strada nuova per soddisfare il bisogno di riconoscimento che sino ad allora esprimeva in modo distorto, ambiguo e finanche aggressivo. MARCO E LE CAREZZE Per trasformare le modalità con le quali Marco esprimeva il suo naturale bisogno di riconoscimento, ho pertanto impiegato lo strumento delle carezze, compatibilmente con le situazioni, dosandole con attenzione. Nel rapporto con Marco ho usato le carezze in modo funzionale allo scopo educativo che mi ero prefissata, concentrandomi sul comportamento che il bambino aveva sviluppato nella sua ricerca delle carezze. Oltre alla polarità positiva/negativa, l’intervento educativo condotto ha tenuto conto anche delle altre caratteristiche che Berne riscontrava nelle carezze, che possono quindi essere verbali o non verbali, positive o negative, condizionate o incondizionate. In relazione alla modalità, ho adottato carezze positive di tipo incondizionato per trasmettere al bambino la consapevolezza di essere amato per ciò che è, e carezze di tipo condizionato, e pertanto legate alle consegne didattiche. Ciò mi ha consentito di agire tanto sulla sfera dell’essere che su quella del fare. Nella sfera dell’essere ho impiegato le carezze positive espresse dal mio Stato dell’Io Bambino dando così a Marco un rinforzo positivo incondizionato che gratificava il suo ego con gratuità[11] e non come controparte di un compito o di un patto. Tali carezze hanno favorito l’intimità e l’empatia contribuendo a creare un ambiente disteso in cui lavorare piacevolmente. Nella sfera del fare, ho privilegiato l’uso di carezze positive e negative provenienti dal mio Stato dell’Io Adulto che, corredate da opportune motivazioni e informazioni, hanno fornito un adegua[11]  Restrepo L. C, Il diritto alla tenerezza, Psicoguide, Cittadella Editrice, Assisi, 2001.


sua autonomia. Ciò ha portato un cambiamento nella qualità degli scambi comunicativi che avvenivano con Marco. In linea con la mia funzione di docente di sostegno e con il mio futuro ruolo di counsellor nel campo educativo, ho guidato i processi di cambiamento del bambino, favorendo la consapevolezza dei problemi e il potenziamento delle risorse, promuovendo e facilitando la costruzione insieme a lui di competenze da mettere in relazione al suo benessere e al suo ben-stare con gli altri. Prendendo consapevolezza degli Stati dell’Io attivati durante le interazioni con Marco ho cercato di impiegare strategie che le consentissero di limitare la negatività relazionale conducendo il bambino sul sentiero dell’OK-ness. Negli schemi di sintesi che seguono riporto alcuni esempi di come la diagrammazione sia stata utilizzata per leggere le interazioni e per prendere decisioni pedagogiche integrate con i saperi analitico transazionali che mi hanno consentito di lavorare sulla relazione fra me stessa e il mio apprendimento[13]. Il lavoro svolto, infine, è stato parallelo al mio processo di apprendimento: la co-costruzione del percorso educativo con il bambino mi ha indotto a riflettere e a riconsiderare i sentimenti e le emozioni che entrano in gioco nella dinamica insegnante-alunno.

[13]  Fregola C., “Analisi Transazionale e processi educativi. Esplorazioni per curiosare nel Campo Educativo nella complessità sociale e culturale del nostro tempo”, in Tangolo E., Vinella P. (a cura di), Professione Counsellor.

[12]  Montuschi F., Vita affettiva e percorsi dell’intelligenza,

Competenze e prospettiva nel counselling analitico

Editrice La Scuola, Brescia, 1983.

transazionale, Felice Editore, Pisa, 2011.

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EDUCATIONAL // NUMERO.0 // WWW.MATHETICA.IT // WWW.PERFORMAT.IT

to sostegno psicologico ai fini dell’apprendimento e comportato un aumento dell’autostima nel bambino che, grazie al rinforzo generato dalla carezza positiva e quindi dell’approvazione, ha compreso di essere all’altezza dei compiti a lui assegnati. Nell’uso delle carezze, lo Stato dell’Io Genitore è intervenuto nelle situazioni in cui era necessario dare al bambino rinforzi positivi, ad esempio in seguito al regolare svolgimento di una consegna o in seguito a un comportamento corretto, ma anche carezze negative in casi contingenti, a esempio per sedare un litigio. Le carezze sono state impiegate per lavorare sui comportamenti del bambino: le prime per rinforzarne alcuni tipi, le seconde per scoraggiarne altri. In un contesto di tipo fattuale infatti, anche la carezza negativa condizionata ha un valore funzionale, in quanto mostra al destinatario che i suoi comportamenti non sono apprezzati, inducendolo pertanto a cercarne di diversi che suscitino negli altri reazioni positive. Come sostiene il Prof. Montuschi (1983, p.152) “Ogni volta che il rapporto affettività-intelligenza è dominato dalla paura (di non riuscire, di essere sopraffatti, di essere ingannati, di non essere capiti, di non farcela,…) si può assistere al blocco improduttivo delle capacità razionali, della capacità di decidere e di prendere iniziative: la persona sembra agire automaticamente e comportarsi, in quella circostanza, secondo schemi abituali, familiari, ma poveri e incongruenti rispetto alla situazione e rispetto alle proprie risorse”[12]. L’approccio analitico transazionale utilizzato è stato funzionale alla fondazione di un proficuo ponte comunicativo con il bambino attraverso la consapevolezza di nuovi elementi nella dinamica educativa. Questa nuova relazione instauratasi fra me e Marco, basata sul rispetto reciproco, l’empatia, la congruenza, il calore e l’apertura, ha promosso il potenziamento delle risorse del bambino e la


PRIMA Nonostante le buone capacità cognitive, i comportamenti disfunzionali attuati da Marco portavano ripercussioni nella strutturazione sia delle interazioni bambino-insegnanti sia bambino-bambini, e ciò si rifletteva inevitabilmente anche nel processo di apprendimento A: INSEGNANTE / B: MARCO

GN

GA

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A

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B

A questo punto il dialogo era compromesso. L’insegnante, cadeva nella trappola della sfida e dava inizio al pericoloso meccanismo che va incontro a quel bisogno di riconoscimento e di accettazione che caratterizza l’aspettativa “nascosta” dello sfidante

A

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A

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B

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GA

A (girando tra i banchi dell’aula) – Allora bambini, adesso prendiamo i fogli e iniziamo a disegnare una sequenza della storia appena ascoltata (Genitore Normativo Positivo che si rivolge al Bambino Adattato Positivo) B (restando sdraiato in terra e senza alzare lo sguardo) – Non voglio disegnare! (Bambino Ribelle che si rivolge al Genitore Normativo)

A (con le mani poste sui fianchi e le sopracciglia aggrottate) – E allora io voglio gonfiare i palloncini!* (Dal punto di vista sociale è il Bambino Ribelle che si rivolge al Bambino Ribelle, dal punto di vista psicologico è il Genitore Normativo Negativo che si rivolge al Bambino Adattato) B (alzandosi velocemente da terra per dirigersi verso il posto) – No, i palloncini no! (Bambino Adattato che si rivolge al Genitore Normativo) Scambi comunicativi di questo genere, anche se consentivano di ristabilire un apparente equilibrio all’interno della classe, contribuivano in realtà a far emergere la parte peggiore sia della personalità dell’adulto che del bambino: quella più distruttiva

*Occorre precisare che in precedenza al bambino era stato spiegato che in classe ci sono delle regole da rispettare e nel momento in cui egli volontariamente ne infrangeva una, automaticamente anche le insegnanti non erano più tenute a rispettare la regola in base alla quale in classe non si gonfiano i palloncini (facendo leva sulla sua paura dei palloncini).

22.


DOPO La nuova relazione instauratasi tra me e Marco, basata sul rispetto reciproco, l’empatia, la congruenza, il calore e l’apertura, ha promosso il potenziamento delle risorse del bambino e la sua autonomia. Ciò ha portato un cambiamento nella qualità degli scambi comunicativi che avvengono tra me e il bambino

G

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A (Tendendo la mano verso Marco) – Facciamo un patto: se tu durante la recita canti senza piangere io ti faccio buttare i palloncini che sono nell’armadio B (Stringendo la mano dell’insegnante) – Va bene! In questo caso, a livello sociale l’obiettivo dell’alleanza era stipulare un contratto con uno scambio Adulto – Adulto per il conseguimento di un obiettivo misurabile e osservabile mentre a livello psicologico c’è stato uno scambio tra Bambino (Ma tu mi aiuti?) e Genitore (Si!) e un flusso empatico tra Bambino e Bambino.

B

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Milano, 1988.


OK-NESS Due esperienze a confronto

di Zaira Branchi

PREMESSA Uno degli assunti filosofici che si situa alla base dell’Analisi Transazionale, com’è noto, è il principio dell’Ok-ness, secondo il quale ogni persona è Ok, va riconosciuta e rispettata in quanto tale, anche se a volte non se ne condividono alcuni comportamenti. In tale prospettiva, lo sguardo è rivolto innanzitutto all’essere della persona, alla quale si riconosce la capacità di pensare, di autodeterminarsi e di cambiare non nell’essere, ma nelle strategie relazionali e nelle decisioni di vita, qualora non risultino più funzionali. La complessità del mondo in cui viviamo ci spinge ogni giorno di più a instaurare relazioni articolate, in contesti di confronto altamente interattivi e dinamici. L’incontro con l’altro è occasione di scoperta di se stessi e di ciò che ci circonda, un momento che attiva repertori di emozioni e un’opportunità di crescita; tuttavia, può anche generare situazioni di svalutazione se le persone che entrano in relazione si pongono in posizione dominante rispetto all’interlocutore, piuttosto che partecipare a giochi psicologici. Acquisire consapevolezza della propria Ok-ness consente di diminuire questi rischi. Per esemplificare questi concetti riporto di seguito un confronto tra due situazioni 24.


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da me vissute in contesti educativi che mi hanno emotivamente coinvolta. Lo scopo che mi prefiggo è quello di mostrare come le dinamiche relazionali instaurate e i processi emotivi sviluppati possano essere letti in chiave di Stati dell’Io. L’obiettivo è quello di riflettere sull’accaduto, per acquisire cognizione delle mie personali modalità di relazione e sviluppare una consapevolezza che potrei utilizzare per una crescita personale e per la costruzione del mio ruolo professionale di counsellor analitico- transazionale in Campo Educativo e Formativo. La finalità è quella di tracciare il percorso formativo di un counsellor che costruisce un nuovo ruolo da abitare con professionalità e autenticità rinnovata attraverso gli studi, le scoperte, le riflessioni, le competenze già acquisite e le proprie esperienze, rileggendoli con gli strumenti dell’AT.

Cavalleresca di Sulmona. Il gruppo a cui faccio riferimento è formato da 10 bambini di quarta elementare. In questa situazione si evince un contratto a più mani in cui sono coinvolta personalmente (Fig. 1). Il progetto “La Cordesca”, rievocazione storica dedicata esclusivamente ai ragazzi, si contestualizza nel comune di Sulmona e nasce da un’associazione culturale che, attraverso la partecipazione dei bambini e dei ragazzi dagli 8 ai 14 anni alla storica manifestazione, desidera tramandare e mantenere viva nelle nuove generazioni la storia del territorio. Il progetto consiste nell’insegnare a suonare uno strumento musicale antico come il tamburo o la chiarina, a danzare secondo la tradizione rinascimentale, a destreggiarsi con le bandiere. Le attività vengono presentate ai dirigenti scolastici dall’associazione che mi individua, tramite il responsabile delle scuole, per la loro messa in opera. Le scuole che aderiscono nominano un referente interno con il quale mi relaziono per l’aspetto organizzativo. Nella parte operativa del contratto ci sono io nel ruolo di esperto nell’insegnamento di tamburo e ci sono gli alunni a cui l’intervento è rivolto. Entrando in relazione con i bambini automaticamente en-

I DUE AUTOCASI Il primo episodio che intendo condividere è accaduto in una scuola primaria di Sulmona, cittadina della provincia dell’Aquila, nella quale ho tenuto un corso per insegnare ai bambini come suonare il tamburo storico rinascimentale, attività finalizzata alla rievocazione storica della Giostra

Comune di Sulmona

Resp. scuole Ass. Giostra Cavalleresca

Ass. Cult. Giostra Cavalleresca

Ins.te referente progetto

Dirigente Scolastico

Figura 1 - Il contratto triangolare multiplo della prima situazione

26.

Famiglie

Io, insegnante esperto di tamburino

Bambino


Ministero della Pubblica Istruzione

Ufficio Scolastico Provinciale

Dirigente Scolastico

Gruppo classe

Ins.te referente sostegno

Famiglie

Io, insegnante di sostegno

Bambino con certificazione A.S.L.

Figura 2 - Il contratto triangolare multiplo della seconda situazione

tro in rapporto con le loro famiglie, che nutrono aspettative ben precise nei miei confronti e nel progetto. Il secondo episodio che intendo considerare riguarda uno scambio comunicativo avvenuto tra me e una bambina affetta da deficit dell’attenzione e iperattività frequentante la

quinta elementare, classe in cui ho avuto il ruolo di insegnante di sostegno. Il contratto multiplo in cui sono stata inserita è descritto in Figura 2. Dal momento in cui si lavora nella scuola, si entra a far parte di un contratto organizzativo, relazionale, formativo e sociale articolato, che non

L

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’analista transazionale Fanita English è la prima a parlare di contratti triangolari multipli, sottolineando la complessità degli accordi formali a tre o più vie, condizione in cui ruoli e obiettivi legati a contesti diversi si incontrano, anche se non sempre direttamente, per un fine comune.[1] L’immagine del labirinto rende bene l’idea della situazione e dunque della complessità dei contesti sociali, in questo caso in particolare dei contesti educativi. Per uscire da un possibile labirinto non resta che comprendere i bisogni di ogni ruolo al fine di chiarire gli obiettivi, valutarli in termini di raggiungibilità e progettare il piano d’azione che permette di conseguirli, definendo i compiti e i confini operativi di ciascuno. Il contratto invita all’abbandono della passività, costringe a rivisitare le aspettative magiche nei confronti dei vari ruoli attraverso la collaborazione di tutti i partecipanti all’accordo, in un contesto di rete. In realtà, nonostante l’elevato numero possibile di relazioni esistenti in un contratto, generalmente è il rapporto tra due ruoli a essere fondamentale per la sua determinazione operativa. Per questo risulta necessario ancor di più attivare processi comunicativi per definire i ruoli, i compiti, le funzioni e le responsabilità rispetto al compito e agli obiettivi, in modo da aumentare le opzioni per gestire più consapevolmente la complessità. [1]  ENGLISH F., I contratti triangolari multipli, «Neopsiche», n° 17-18, 1992, p.22.

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riguarda più soltanto due interlocutori, ma molteplici soggetti che desiderano raggiungere una meta. Le variabili che intervengono in una situazione sono numerose, le relazioni che si instaurano sono molteplici e interconnesse, le aspettative sono variegate. GLI EPISODI Durante uno degli incontri di musica, noto la tendenza di una bambina a eseguire il brano più velocemente rispetto al tempo dato come riferimento alla classe. Interrompo il lavoro di gruppo e mi soffermo su di lei, avendo come obiettivo il farle comprendere la corretta modalità di esecuzione. Nel momento in cui la mia presenza fisica è costante nel guidarla, la bambina riesce nell’attività, ma non appena le chiedo di fare da sola, ripete gli stessi errori. Dopo ripetuti tentativi falliti mi innervosisco e avviene il seguente scambio: (fig. 3 e 4). Insegnante: «Mi stai prendendo in giro? Così non mi sta bene più!» Bambina: fa l’offesa e smette di suonare. Riprendo l’attività con il gruppo fino a quando avviene una nuova interruzione. Bambina: «Ma avete saltato una strofa!» Insegnante: «Stai suonando tu? No! E allora fatti gli affari tuoi!» Bambina: si risente, si ammutolisce e continua a non suonare. Considerando gli aspetti osservati nel comportamento, dunque attraverso una diagnosi comportamentale e sociale, si possono rilevare gli Stati delll’Io intervenuti nelle transazioni[1]. [1]  Per riconoscere gli Stati dell’Io che intervengono in

Anche nel secondo episodio analizzato rispondo con lo stato dell’Io del Bambino spontaneo e scocciato quando, dopo numerosi inviti ad affrontare il compito, non ottengo dall’alunna un comportamento collaborativo.

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Figura 3 - Diagramma della prima transazione

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Figura 4 - Diagramma della seconda transazione

una transazione si possono adottare quattro modalità. La diagnosi comportamentale esamina parole, toni di voce, gesti, atteggiamenti del corpo ed espressioni facciali, tiene dunque

lo Stato dell’Io con il quale gli altri mi rispondono, posso avere

conto dei comportamenti osservabili. La diagnosi sociale

conferma dello Stato attivo in me. La diagnosi storica esamina sia

considera la complementarità degli Stati dell’Io durante uno

il processo che il contenuto degli Stati dell’Io, si attua porgendo

scambio comunicativo. Nella maggior parte dei casi, se l’approccio

domande sulla storia personale e passata del soggetto osservato.

iniziale parte dall’Adulto, la risposta sarà Adulta; se ci si rivolge

La diagnosi fenomenologica invita a esperire il passato oltre che

all’altro con lo Stato dell’Io Genitore, presumibilmente si otterrà

ricordarlo, proponendo di rivivere con l’immaginazione, ma con

una risposta dal Bambino e viceversa. Pertanto, riconoscendo

lo stesso pathos, una situazione vissuta.

28.


A: Insegnante B: Bambina

Prima transazione A: «MI STAI PRENDENDO IN GIRO? COSÌ NON MI STA BENE PIÙ!» TONO DELLA VOCE Severo, deciso, scocciato

GESTI Indice puntato

ESPRESSIONI FACCIALI Sopracciglia aggrottate, fronte corrugata

ATT. DEL CORPO Testa inclinata verso la bambina

B: FA L’OFFESA E SMETTE DI SUONARE TONO DELLA VOCE

GESTI

ESPRESSIONI FACCIALI

/

/

Sopracciglia aggrottate, fronte corrugata

ATT. DEL CORPO Braccia incrociate sul banco e testa abbasssata

Riprendo l’attività con il gruppo fino a quando avviene una nuova interruzione

Seconda transazione B: «MA AVETE SALTATO UNA STROFA!»

Alto, critico

GESTI

ESPRESSIONI FACCIALI

Braccio destro disteso in Occhi spalancati avanti, mano aperta

ATT. DEL CORPO Proteso in avanti

A: «STAI SUONANDO TU? NO! E ALLORA FATTI GLI AFFARI TUOI!» TONO DELLA VOCE Forte

GESTI Bacchetta che possedevo puntata

ESPRESSIONI FACCIALI Sopracciglia sollevate

ATT. DEL CORPO Lieve scuotimento di testa, movimento di braccia

B: SI RISENTE, SI AMMUTOLISCE E CONTINUA A NON SUONARE TONO DELLA VOCE

GESTI

/

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ESPRESSIONI FACCIALI Alza le sopracciglia

ATT. DEL CORPO Scuote la testa e alza le spalle

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TONO DELLA VOCE


Prima transazione A: «DAI, MARTINA, SE NON PROVI NON IMPARI MAI» TONO DELLA VOCE Dolce, affettuoso, incoraggiante

GESTI Mano aperta che invita ad agire

ESPRESSIONI FACCIALI Serena

ATT. DEL CORPO Busto proteso in avanti verso la bambina

B: «NON LO VOGLIO FARE, NON MI VIENE» TONO DELLA VOCE Piagnucoloso

GESTI Si morde le unghie, si sposta i capelli dal viso nervosamente

ESPRESSIONI FACCIALI Fronte corrugata, occhi socchiusi

ATT. DEL CORPO Muove velocemente e nervosamente la gamba, sbatte i piedi a terra

Seconda transazione A: «E ALLORA NON FACCIAMO PIÙ NIENTE» TONO DELLA VOCE Forte, scocciato

GESTI Mano che dal busto si muove verso l’esterno

ESPRESSIONI FACCIALI Occhi spalancati

ATT. DEL CORPO Mi siedo su una panca, accavallo le gambe e incrocio le braccia

B: «E VA BEH DAI...» TONO DELLA VOCE Rassegnato

GESTI Scuotimento della testa

Le viene richiesto di saltare la corda ma, consapevole delle sue difficoltà e timorosa del giudizio dei compagni, la bambina si rifiuta di provare, mettendo in atto comportamenti verbali e non verbali di autosvalutazione (fig. 5 e 6). Insegnante: «Dai Martina se non provi non impari mai» Bambina: «Non lo voglio fare, non mi viene» Insegnante: «E allora non facciamo più niente» Bambina: «E va beh dai...» Le sensazioni provate durante questi scambi sono state l’insicurezza, l’impotenza, il fallimen30.

ESPRESSIONI FACCIALI Sopracciglia alzate

ATT. DEL CORPO Movimento veloce e nervoso della gamba

G

G

s A

B

r

A

B

Figura 5 - Diagramma della prima transazione


G

s A

B

A

r

B

Figura 6 - Diagramma della seconda transazione

to, la frustrazione, la svalutazione di me stessa. Il messaggio psicologico, il vero sé che ho sentito interiormente affermava: «Non è in questo modo impulsivo che una maestra deve rispondere a un alunno», «Chissà cosa penserebbero di me i genitori e l’insegnante referente se sapessero come ho risposto?», «Non posso essere corretta da una bambina», «Per favore non dirmi che non ti piaccio», «Non so più cosa fare», «Ho sbagliato vero?!». Tutti questi pensieri sintetizzano la percezione non Ok che ho sentito su di me. CONCLUSIONI Ho compreso che vivere sensazioni negative non è un male, ciò che è importante è interrogarsi sul perché di quel sentire. L’AT è stato un valido strumento in tal senso, mi ha permesso di comprendere meglio la forza vincente e trasformatrice dell’Ok-ness la quale consente di gestire la complessità con la guida dell’Adulto e di maturare il pensiero che si può uscire da una convinzione, sviluppando la consapevolezza che non esistono azioni e strategie giuste o sbagliate, quanto funzionali o non funzionali a seconda del contesto, dei ruoli, delle persone che abitano i ruoli, delle transazioni,

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G

degli Stati dell’Io che in dati momenti si attivano più di altri. Proprio la dimensione pedagogica del mio intervento mi ha fatto pensare e sentire che siamo ok anche se a volte non siamo efficaci, se commettiamo degli errori, se non piacciamo a qualcuno e se non otteniamo i risultati desiderati. Non siamo salvatori del mondo: il cambiamento dell’altro e il processo di empowerment non prescindono dal contratto con l’interlocutore nella relazione di aiuto che come insegnante comunque metto in atto. Ho potuto fare l’ipotesi che riconoscere l’Okness in se stessi è fondamentale per poterla restituire agli altri nella prospettiva dell’autonomia e dell’autoefficacia. È una modalità d’approccio a chi si ha di fronte e può divenire un obiettivo del contratto di counselling. Restituire l’Ok-ness vuol dire riconoscere all’altro la capacità decisionale e la potenzialità di cambiamento che possiede, motore necessario per la crescita personale, nel rispetto dei valori quali la dignità degli esseri umani (Art. 1, 2, 3, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani) e l’autodeterminazione di ciascuno (Art. 18, 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani) a cui il Codice Etico dell’EATA fa riferimento. Conoscere l’AT è utile per capirsi, acquisire consapevolezza, individuare gli Stati dell’Io e le transazioni che avvengono, intervenire in modo efficace, migliorarsi nei ruoli che si abitano e che si intrecciano tra sfera privata, organizzativa e professionale, come ricorda Rosemary Napper, tendere all’adulto integrato ovvero rimanere ancorati al dato del qui-e-ora, lasciando all’Io Bambino lo spazio di esprimere i suoi bisogni e le sue emozioni con spontaneità, permettendo al Genitore di essere Normativo al momento giusto per defire limiti e confini delle proprie azioni, ma anche di essere Affettivo per incoraggiarsi e premiarsi all’occorrenza. Tutto risulta utile e finalizzato alla costruzione della professione di counsellor che si forma con autenticità rinnovata.


BIBLIOGRAFIA Assemblea Generale

delle

Nazioni Unite, Dichiarazione

universale dei diritti dell’uomo, 1948. Berne E., Analisi Transazionale e psicoterapia. Un sistema di psichiatria sociale e individuale, Astrolabio, Roma, 1970. EATA, Codice Etico, (ultima revisione dopo la riunione del Consiglio), Santiago de Compostela, 2006.

ART. 1 Tutti gli esseri umani nascono liberi e eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. ART. 2 A ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico internazionale del paese o del territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità. ART. 3 Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. ART. 18 Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti. ART. 19 Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere. 32.

English F., I contratti triangolari multipli, «Neopsiche», n°17-18, 1992 Napper R., Il genio di Berne e l’ampiezza della portata dell’AT: esplorazione del quadro culturale e del contesto del setting, «IAT News», Roma, luglio 2011. Stewart I., Joines V., L’analisi transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Milano, 2000.

BIBLIOGRAFIA PSICOPEDAGOGICA Castoldi M., Valutare le competenze. Percorsi e strumenti, Carocci editore, 2009. Celi F., Psicopatologia dello sviluppo. Storie di bambini, McGraw-Hill, 2002. Fiorin I., La buona scuola. Processi di riforma e nuovi orientamenti didattici, Editrice La Scuola, 2008. Fonzi A., Manuale di psicologia dello sviluppo, Giunti, 2001. Minervini R., Esperienze di psicologia educativa applicata, Samiztat, 2004. Trisciuzzi L., Manuale di didattica in classe, edizioni ETS, 1999. Trisciuzzi L., Manuale di didattica per l’handicap, editori Laterza, 2009.


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INTERCULTURA A

SCUOLA

di Adele Iozzelli

Il ruolo di insegnanti è, per sua naturale costituzione, intrinsecamente immerso nella complessità e sottoposto a grandi sfide e pressioni. Una di queste è rappresentata dall’intercultura 34.


L

a presenza di alunni stranieri all’interno di contesti educativi è elemento di arricchimento culturale, ma anche di complessità ulteriore. Spesso alunni e insegnanti hanno la sensazione di essere smarriti in un labirinto in cui sembra impossibile trovare l’uscita: gli uni per via del nuovo contesto di riferimento socio-culturale e linguistico, gli altri a causa della burocrazia. Oggetto di questo lavoro è analizzare come l’Analisi Transazionale possa fornire strumenti e risorse che permettano di trasformare questo labirinto in una rete che accolga e sia contenitiva e protettiva per docenti e alunni, che permetta cioè di gestire con consapevolezza la complessità all’interno di un contesto educativo, rendendolo funzionale ed efficace allo sviluppo del sé e della comunità di appartenenza. In questo lavoro verrà analizzato un caso tratto dalla mia esperienza personale in

cui l’analisi di Posizioni Esistenziali e Stati dell’Io si è rivelata fondamentali nella relazione, in particolare, con uno dei miei studenti. Lavorando in situazioni multiculturali, in quanto insegnanti, è necessario mettere in atto comportamenti coerenti e opportuni nel rapporto con gli studenti stranieri. Infatti, come educatori AT, abbiamo la responsabilità etica di agire nel rispetto di culture diverse. Il Codice Etico dell’EATA ci ricorda che dobbiamo “comportarci in maniera rispettosa verso se stessi e gli altri, inclusa la consapevolezza e la sensibilità per i diversi quadri di riferimento, culture e norme sociali”[1]. È cruciale, inoltre, operare in un’ottica di Ok-ness autentica. Basare la relazione educativa sul principio di Ok-ness ha implicazioni preziose: non soltanto è eticamen[1]  Il codice etico completo è disponibile nel sito web dell’EATA www.eatanews.org.

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Dal labirinto a una rete che accoglie


te corretto verso gli studenti, ma si rivela anche strumento di benessere e maggior efficienza per gli insegnanti. La filosofia dell’Ok-ness ci chiama alla congruenza all’interno del ruolo di educatori, a un’accettazione sincera della dignità degli studenti, ci permette di affrancarci da una prospettiva di impotenza e di sviluppare una prospettiva di autentico empowerment. Personalmente ho riscontrato che le due posizioni più diffuse nel rapporto fra insegnanti e studenti sono Io sono

È innegabile che, in quanto portatori di diversità culturale, gli alunni stranieri introducano un ulteriore elemento di complessità nel contesto educativo... Ok-Tu non sei Ok e Io non sono Ok-Tu non sei Ok, che portano alla formulazione di operazioni del tipo Mi libero di o Niente da fare con. Per quanto riguarda gli alunni stranieri, l’atteggiamento maggiormente riscontrato è di tolleranza, più raramente di accettazione; quasi mai, tuttavia, si attiva un processo di accoglienza e raccolta di informazioni sui diversi bisogni degli studenti appartenenti ad altre culture che entrano a far parte di una nuova realtà. È innegabile che, in quanto portatori di diversità culturale, gli alunni stranieri introducano un ulteriore elemento di complessità nel contesto educativo e una corretta cornice di Ok-ness implica anche accogliere come legittime le difficoltà – tanto le proprie quanto quelle espresse dai colleghi – che si incontrano quando si opera in contesti interculturali. Negare la delicatezza, e quindi la difficoltà intrinseca di un tale compito, equivarrebbe a cedere ad un delirio di onnipotenza e sarebbe pertanto un atteggiamento estraneo alla filosofia di Ok-ness. Tenendo ben presente questo importante criterio: ciò che non può essere legittimato è un atteggiamento negligente. Il liquidare i fenomeni che non capiamo e di fronte ai quali ci sen36.

tiamo impotenti con operazioni del tipo Niente da fare con, – senza interrogarci sulle risorse che possiamo attivare per integrare coerentemente questa complessità – non costituisce solamente espressione di un atteggiamento di non Ok-ness nei confronti dell’altro, ma contravviene anche all’etica di accoglienza a cui un insegnante è chiamato. ANDARE AVANTI CON: L’AT NEI CONTESTI EDUCATIVI UN CASO

Una classe di diciotto studenti, terzo anno di scuola media. Alcune settimane dopo l’inizio della scuola, A., un alunno proveniente dall’Albania, all’improvviso si rifiuta di leggere ad alta voce in classe. Ho potuto osservare due diverse reazioni: 1. Insegnante di Italiano: «Non capisco perché di punto in bianco ti rifiuti di leggere, ma non mi importa. O leggi o io segno sul registro che ti rifiuti e poi ne terrò conto in sede di valutazione». (Posizione Io sono Ok-Tu non sei Ok, Mi libero di) 2. Insegnante di Francese (parlando con una collega in sala professori): «È troppo difficile con questi studenti stranieri, non ce la faccio, non so dove mettere le mani». (Posizione Io non sono Ok-Tu non sei Ok, Niente da fare con). In seguito all’osservazione di queste reazioni ho potuto elaborare un approccio basato sull’Okness: Io: «A., ho notato che ultimamente è sorto un problema. Quando ti chiedo di leggere ad alta voce un esercizio, ti rifiuti di farlo. Se mi spieghi dov’è il problema, possiamo cercare una soluzione, perché la tua partecipazione in classe è importante sia per te, per imparare meglio, che per tutto il gruppo». A: «D. e M. mi prendono in giro quando parlo perché dicono che l’accento della zona dell’Albania da cui vengo è da femmine, mentre l’alba-


BIBLIOGRAFIA ANALITICO TRANSAZIONALE Berne E., Analisi Transazionale e psicoterapia. Un sistema di psichiatria sociale e individuale, Astrolabio, Roma, 1961. Eata, Manuale di training ed esami, 2008. Pennac D., Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008. Stewart I., Joines V., L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Milano, 2010

BIBLIOGRAFIA PSICOPEDAGOGICA Ferrarotti F., Oltre il razzismo verso la società multirazziale e multiculturale, Armando Editore, Roma, 1988. Fiorucci M., Gli altri siamo noi. La formazione interculturale degli operatori dell’educazione, Armando Editore, Roma, 2011. Lanternari V., Identità e differenza, percorsi storicoantropologici, Liguori, Napoli, 1986. Le Goff J., Storia e memoria, Einaudi 1982 Todorov T., Noi e l’altro. Scritti e interviste, Datanews, Roma, 2007 Susi F., L’interculturalità possibile. L’inserimento scolastico degli stranieri, Anicia, Roma, 2002.

SITOGRAFIA www.eatanews.org www.istitutodianalisitransazionale.it www.meltingpot.org (Sportello di informazione per immigrati) http://www.migrare.it (Viaggio nel mondo dell’immigrazione per cittadini e

G

G

operatori) www.stranieriinitalia.com (Tutte le informazioni utili per entrare, vivere e studiare in Italia)

A

A

http://www.bdp.it/intercultura/index.php (Biblioteca di documentazione pedagogica di Firenze: portale per l’educazione interculturale, percorsi tematici, scaffale degli strumenti, opportunità per le scuole, risorse

B

B

sul territorio) http://www.ipbz.it. (Portale

dell’Istituto

Pedagogico,

area

educazione

interculturale e alla cittadinanza) Figura 1

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nese che parlano loro è da uomini veri. Per me è importante essere considerato un maschio. In Albania se non sei maschio non conti niente». Ho così diagrammato la transazione tra me e A (fig.1): A livello sociale, lo scambio è stato Adulto-Adulto, ma a livello psicologico la transazione è stata tra il mio GA+ e il suo BA+ . A livello psicologico lo scambio è stato: Insegnante: «Mi interessa quello che ti sta succedendo. Mi prendo cura di te» Alunno: «Rassicurami e aiutami perché sono in difficoltà» La posizione Ok-Ok ha reso la transazione efficace, in quanto ha permesso di dimostrare interesse per l’alunno, per il problema contingente e per le conseguenze sull’apprendimento e sui rapporti con il gruppo classe. Ciò è avvenuto riconoscendogli le capacità di identificare e descrivere il problema, senza svalutarne la dignità o sottovalutandone l’importanza. Ha inoltre reso possibile un contatto empatico autentico Bambino-Bambino. Questo caso mostra l’efficacia del contributo di elementi AT nei contesti educativi, e come questo promuova l’autenticità, dando l’opportunità a insegnanti e studenti di sperimentare benessere e crescita personale, in un’ottica di empowerment.


CONFLITTO COMUNICATIVO A SCUOLA: IL CONFINE DEI RUOLI

di Simona Laino

38.


La gestione del conflitto nella relazione comunicativa per promuovere collaborazione, benessere e comunicazione

E

ssere insegnanti specializzati di sostegno significa, come è noto, essere persone in grado di tessere e sostenere nel tempo reti di relazioni collaborative e significative, sul piano professionale, con i colleghi, con le famiglie e con gli operatori sociali e sanitari. Ciò comporta la messa in atto di variegati repertori di competenze che mettono in atto il saper fare, attingono a un insieme di capacità che mettono in contatto il proprio mondo interno con quello esterno e, anche e soprattutto, con il mondo interno di persone che abitano altri ruoli[1] fra

loro complementari nella gestione delle attività didattiche e dei servizi educativi[2]. Il coinvolgimento e la gestione di relazioni collaborative negli ambienti professionali non è sempre facile, dal momento che si innescano modelli gerarchico-informali e formali fra i ruoli che van-

e l’ampiezza della portata dell’AT: esplorazione del quadro culturale e del contesto del setting”, «IAT News», Roma, luglio 2011. [2]  Fregola C., “I modelli di intervento dal micro al macro contesto”, in Migani C., Vivoli V., (a cura di), Promuovere

[1]  L’espressione “abitare il ruolo” è qui utilizzata

il benessere nelle scuole: esperienze e prassi a confronto,

nell’accezione di Napper; cfr. Napper R., “Il genio di Berne

Carocci, Roma, 2007.

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L’insegnante di sostegno è un insegnante specializzato, previsto dalla Legge n. 517/77, assegnato alla classe in cui è inserito l’alunno portatore di handicap, in piena contitolarità con gli altri docenti, per svolgere “forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicap”e “realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni”. La Legge n. 104/92, detta legge quadro, esplicita ulteriormente che “gli insegnanti di sostegno assumono la contitolarità delle sezioni e delle classi in cui operano, partecipano alla programmazione educativa e didattica e alla elaborazione e verifica delle attività di competenza dei consigli di interclasse, dei consigli di classe e dei collegi dei docenti”.


no a strutturarsi in reti di fatto, i cui costituenti[3] appartengono a più organizzazioni[4] (Fig.1). In questa complessità, che si può definire strutturale, l’Analisi Transazionale può fornire risorse e strumenti che possono consentire una gestione più consapevole della comunicazione e della relazione con i colleghi all’interno del contesto professionale, rendendo funzionale ed efficace il lavoro nelle situazioni che caratterizzano le interazioni professionali. In particolare, in questo lavoro, mi riferisco alle interazioni fra due ruoli chiave della relazione educativa che possono influenzare la qualità del servizio e l’integrazione in una prospettiva inclusiva: la compresenza in classe dell’insegnante di classe e dell’insegnante di sostegno. Nella mia esperienza di insegnante di sostegno ho osservato che spesso la relazione tra insegnante di classe e insegnante di sostegno può assumere caratteristiche di conflittualità derivante dal contrasto fra i sistemi delle convinzioni di chi abita questi ruoli. DESCRIZIONE DEL CONFLITTO Classe II in una scuola primaria di Roma. Gli alunni, seduti dopo la ricreazione, riprendono [3]  Il termine “rete” può essere inteso come: insieme di persone che si conoscono, sono unite e condividono una cultura comune; strutturazione e organizzazione tra servizi; strumento del metodo di generazione di servizi che richiedono un apporto di risorse professionali appartenenti a più ambiti e a diverse organizzazioni e istituzioni. [4]  Un esempio di gruppo formale è rappresentato dal GLH, ovvero un’équipe di lavoro, composta dal dirigente scolastico, da almeno un rappresentante degli insegnanti

il lavoro con l’insegnante di sostegno. Rientra in aula l’insegnante di classe dopo un’assenza di quindici minuti e disapprova l’iniziativa di aver ripreso la lezione. Inizia il seguente scambio comunicativo: Insegnante di classe: «Perché i bambini sono già seduti?» Insegnante di sostegno: «Perché la ricreazione è già finita». Insegnante di classe: «Avresti dovuto aspettarmi». Insegnante di sostegno: «Tu non tornavi più. Sai bene a che ora finisce la pausa…» Insegnante di classe: «Sì, ma adesso devi interrompere, devo spiegare una lezione importante». Insegnante di sostegno: «Che argomenti intendi presentare?» Insegnante di classe: «Gli invertebrati, a pagina 10». Per leggere alcuni fenomeni di questa relazione comunicativa tra persone che hanno lo stesso ruolo all’interno di una classe, ma che svolgono funzioni specifiche e differenti, ho utilizzato nello sfondo teorico il Modello Sistemico e il Modello dell’Analisi Transazionale. MODELLO SISTEMICO In uno dei cinque assiomi che rappresentano questo modello, noto anche come pragmatico-relazionale di Watzlawick (1971), gli autori si soffermano sul concetto di relazione simmetrica, riferita alle situazioni in cui due interlocutori si pongono sullo stesso livello comunicativo, in una relazione complementare caratterizzata dal fatto che il comportamento di uno degli interlocutori tende a differenziarsi, ponendosi in posizione altra rispetto a quella dell’altro[5].

di classe, dall’insegnante specializzato sul sostegno, dall’assistente educatore eventualmente presente, dagli

[5]  La funzionalità delle due forme di comunicazione

operatori della ASL che si occupano del caso, dai genitori

dipende da un insieme di fattori rispetto ai quali il

o dai facenti funzione. Il gruppo elabora il Profilo Dinamico

contenuto, le dinamiche di potere relative ai ruoli sociali

Funzionale, il Piano Educativo Individualizzato o almeno

e alla posizioni organizzative, il contesto e la situazione

individua e coordina le linee di fondo del PEI, verifica in

specifica ne definiscono i presupposti relazionali e l’esito

itinere i risultati e, se necessario, modifica il PEI e/o il PDF.

dell’interazione.

40.


RETI COMPLESSE INSEGNANTE LOGOPEDISTA

INSEGNANTE DI SOSTEGNO

NEURO... PEDIATRA PSICHIATRA

PSICOLOGO

EDUCATORE

PSICOPEDAGOGISTA

Lo scambio comunicativo iniziale ha un approccio basato sulla relazione complementare Up/ Down in cui l’insegnante di classe è in posizione Up e l’insegnante di sostegno in posizione Down per cui non vi è parità fra le parti. Nel processo di comunicazione che si sviluppa, la relazione, complementare, non va a buon fine poiché l’insegnante di sostegno non accetta la subordinazione. Di fatto nessuna delle due interlocutrici accetta la proposizione dell’altra e si può osservare come questo possa provocare un conflitto di potere che provoca una escalation simmetrica. La caratteristica di questo tipo di relazione comunicativa è quella di continuare all’infinito, fin quando una delle parti non decide di abbandonare il conflitto.

Figura 2 - A e B sono i due interlocutori dell’interazione definita da livelli Up/ Down. Da un punto di vista formale i ruoli dovrebbero essere partitari, ma nella relazione l’insegnante di classe si pone come se fosse presente una relazione di natura gerarchico-formale

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Figura 1. Un esempio di rete complessa


Figura 3 - La differenza tra formale e funzionale può essere considerata una della cause più rilevanti dell’avviarsi di una Escalation Simmetrica che viene rappresentata con il tentativo di entrambi gli interlocutori di acquisire una posizione Up

Figura 4 - Le possibili mosse dell’interazione relazionale

42.


MODELLO TEORICO ANALITICO TRANSAZIONALE Il modello sistemico ha fornito elementi rilevanti per leggere e studiare il processo relazionale, ma non fornisce elementi per studiare gli aspetti intrapsichici che sono alla base dei comportamenti osservabili. A tale scopo l’AT ci ha consentito di analizzare le Transazioni dello scambio comunicativo e, pur senza entrare nelle specificità strutturali, è stato possibile cogliere elementi utili per lo sviluppo e l’utilizzo consapevole e intenzionale di competenze che integrano e meglio definiscono il proprio repertorio di opzioni relazionali. In particolare, nel caso che si sta trattando, emerge che il dialogo inizia con due transazioni duplici ulteriori. La prima transazione duplice contiene un messaggio sociale A-A: «Perché i bambini sono già seduti?» «Perché la ricreazione è già finita» ma nasconde un messaggio psicologico ulteriore G-B: «Non avresti dovuto riprendere la lezione in mia assenza!» «Che ci posso fare io se la ricreazione è finita!» (fig. 5). Nella seconda transazione duplice il messaggio sociale è G-B: «Avresti dovuto aspettarmi» - «Tu non tornavi più…», ma il messaggio psicologico è B-G:«Uffa, ma la maestra sono io!» «Tu sei in ritardo!» (fig. 6). A interrompere il dialogo “muro contro muro” è la transazione incrociata in cui lo Stato dell’Io verso il quale ci si rivolge non è quello che risponde «Sai bene a che ora finisce la pausa» da G verso B «Sì, ma adesso devi interrompere, devo spiegare una lezione importante» da G verso B.

G

G

A

A

B

B

Figura 5 - (In alto) La prima transazione duplice contiene un messaggio sociale A-A, ma nasconde un messaggio psicologico ulteriore.

Figura 6 - (In basso) Nella seconda transazione duplice il messaggio sociale è G-B, ma quello psicologico è B-G.

G

G

A

A

B

B

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Nel caso specifico è l’insegnante di sostegno ad abbandonare il conflitto ponendo la domanda «Che argomento intendi presentare?». Così facendo la comunicazione si sposta su un piano operativo.

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Perdendosi la caratteristica del parallelismo fra i vettori, in quel tipo di comunicazione i vettori si incrociano e quella comunicazione, appunto, non può più proseguire (fig. 7). Nell’ultima transazione parallela A-A «Che argomento intendi presentare?» - «Gli invertebrati, a pagina 10», l’attivazione dello Stato dell’Io Adulto

G

G

A

A

B

B

Figura 7 - (In alto) A interrompere il dialogo “muro contro muro” è la transazione incrociata da G verso B e da G verso B.

Figura 8 - (In basso) L’attivazione dello Stato dell’Io Adulto ha permesso di riprendere il dialogo spostando la comunicazione su un piano professionale legato al qui-e-ora.

44.

G

G

A

A

B

B

ha permesso di riprendere il dialogo spostando la comunicazione su un piano professionale legato al qui- e- ora (fig. 8). IL PERCHÉ DEL CONFLITTO Ho ritenuto opportuno valutare gli elementi del conflitto considerandoli dal mio punto di vista e dal punto di vista della collega di classe. Da un’analisi attenta ho supposto che all’interno del conflitto fossero presenti vari elementi: WW la mancanza di informazioni sulla funzione dei ruoli; WW il pregiudizio verso il ruolo dell’insegnante di sostegno e un diffuso stereotipo culturale secondo cui una persona giovane non può ancora aver acquisito sufficienti competenze professionali. Esaminando la situazione nell’ottica della collega, ho potuto supporre che si fosse sentita scavalcata nel suo ruolo di insegnante di classe e che, oltretutto, questa invasione di campo le aveva sottratto tempo per la sua attività didattica. Gli elementi teorici analitico-transazionali appresi fino a questo punto del mio percorso di studi mi hanno fornito una lente di ingrandimento attraverso la quale leggere la relazione comunicativa con la collega senza sentirmi svalutata nel mio ruolo. L’analisi degli Stati dell’Io mi ha consentito di valutare con l’Adulto la situazione nel qui-e-ora potendo valutare quale Stato dell’Io attivare in base alla situazione. La filosofia dell’Ok-ness (nella posizione Io sono Ok - Tu sei Ok) ha guidato pensieri e comportamenti in una prospettiva di fiducia nelle proprie capacità, pur conoscendo i propri limiti, e di fiducia verso gli altri, con i quali è possibile – e positivo – instaurare un rapporto paritetico. L’obiettivo futuro sarà quello di instaurare con i colleghi una modalità contrattuale nella relazione che consenta un’area di condivisione e di crescita comune, chiara e osservabile, che faciliti la collaborazione professionale e promuova il benessere all’interno del team.


Un pensiero che ho avuto modo di elaborare è che il confine tra le aspettative, i desideri e la risposta ai bisogni e ai bisogni speciali, spesso propone una pluralità di opzioni che non sempre trovano una sintesi formalizzata in cui ci siano regole già scritte sui livelli di responsabilità funzionale fra un ruolo e l’altro pur operando, questi, nella stessa classe.

BIBLIOGRAFIA Berne E., Analisi Transazionale e psicoterapia. Un sistema di psichiatria sociale e individuale, Astrolabio, Roma, 1971. Fregola C., Riunioni efficaci a scuola. Ridefinire i luoghi della comunicazione scolastica, Erickson, Roma 2003. Migani C., Vivoli V. (a cura di), Promuovere il benessere nelle scuole: esperienze e prassi a confronto, Carocci, Roma, 2007.

[6]  A riguardo si cfr. Codice Etico EATA consultabile nel

Napper R., “Il genio di Berne e l’ampiezza della portata dell’AT: esplorazione del quadro culturale e del contesto del setting”, «IAT News», Roma, luglio 2011. Schmidt E., Comunicare nelle organizzazioni, Unicopli, Milano, 1990. Stwewart I., Joines V., L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Varese, 2011. Watzlawick P., Beavin J.H., Jackson, D.D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971. Woollams S., Brown M., Analisi Transazionale, Cittadella Editrice, Assisi, 1985.

La filosofia dell’Ok-ness (nella posizione Io sono Ok - Tu sei Ok) ha guidato pensieri e comportamenti in una prospettiva di fiducia nelle proprie capacità, pur conoscendo i propri limiti, e di fiducia verso gli altri, con i quali è possibile – e positivo – instaurare un rapporto paritetico”

sito www. eatanews.org.

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CONCLUSIONI Per leggere e interpretare il ruolo che si svolge, può essere necessario porre al centro la persona e il proprio empowerment[6], insieme al Sistema di Riferimento di cui ciascuno è portatore. Nella scuola, per quanto diffusa sia l’aspettativa che la comunicazione possa essere ricondotta ai sistemi lineari, di fatto, le dinamiche del contesto in cui essa è immersa ridisegnano continuamente il confine fra i ruoli e i livelli di responsabilità e di partecipazione e tutto questo riconduce al paradigma della complessità che richiede e la rivisitazione continua delle aspettative e del proprio apprendimento. I ruoli educativi sono caratterizzati da mutevoli forme di responsabilità che si possono rileggere all’interno dell’evoluzione dei processi organizzativi derivata sia dalle innovazioni tecnologiche sia da un sistema normativo ancora in via di ridefinizione.


LA VITA È BELLA A SCUOLA

Decontaminare e decontaminarsi dal pregiudizio sociale, per un apprendimento efficace e consapevole

L

a vita è bella a scuola? Forse dovrebbe, potrebbe. Capita spesso di cadere nella trappola del pregiudizio e la scelta di dare avvio a una ipotetica esperienza di formazione in AT nella scuola reale, a partire dalla visione di una scena del film di Roberto Benigni, nasce dall’esigenza di rendere esplicito ciò che avviene nella vita di tutti i giorni quando si ha a che fare con un pregiudizio. Nello specifico, si vuole evidenziare come tutto ciò sia insito nei comportamenti di molte persone che spesso manifestano in maniera automatica, e non del tutto intenzionale, le conseguenze che il pregiudizio ha nel mondo interno e nelle manifestazioni sociali della comunicazione quotidiana.

46.

di Silvia Romano


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I

l film La vita è bella pone l’attenzione principalmente sul pregiudizio razziale, stimolando una molteplicità di emozioni. Nello stesso tempo ci dà l’opportunità di constatare altri pregiudizi diffusi a scuola: quelli riconoscibili attraverso le etichette assegnate agli alunni, cosa che accade sia sotto l’influsso di un pregiudizio sociale e culturale, sia rispetto alla dinamica relazionale. Le etichette vanno a definire profili comportamentali che sono sotto gli occhi di tutti e spesso convincono anche gli stessi alunni di essere come l’etichetta prescrive: essere sempre “i soliti disturbatori”, “quelli che non sanno fare nulla”, “i secchioni”, piuttosto che “quelli che non capiscono niente”. La scelta di affrontare questo argomento non è casuale, perché a molti insegnanti spesso capita di trovarsi sotto l’influsso di un pregiudizio, così da rendere poco proficuo ed efficace il compito di apprendimento nonché le relazioni con lo specifico alunno, fra gli alunni e con i colleghi. Il fatto è che alcune volte il pregiudizio è il risultato di fenomeni che riguardano processi interni di cui non si è consapevoli; altre volte, invece, pur non avendo consapevolezza di questi fenomeni, si è consapevoli dei loro effetti. È proprio su questi effetti che il counsellor AT del Campo Educativo può disporre di valide lenti per osservare e intervenire, all’interno dei propri confini, per migliorare il processo di comunicazione sociale nella scuola e il processo di apprendimento del singolo alunno e della classe. L’ipox, attraverso i quali è possibile sperimentare azioni educative che, oltre a rientrare nell’ambito della pedagogia interculturale, sono guidate dalla consapevolezza dell’effetto che questi possono ottenere sul sistema delle convinzioni di chi abita ruoli scolastici[1]. [1]  “Abitare il ruolo”, è utilizzato nell’accezione di Napper.

Le relazioni comunicative e l’apprendimento si sviluppano, infatti, in un ambiente socio-culturale che sempre di più si è trasformato, rinviando l’etnocentrismo a un confronto con un contesto multietnico in cui l’alterità può produrre xenofobia per gli adulti e influenzare la formazione del Sistema di Riferimento Interno dei nativi in terra straniera. La potenza del sistema di competenze metodologico-didattiche dell’insegnante, integrate con quelle dell’AT, può consistere nella strutturazione di un contratto che renda espliciti gli obiettivi, le modalità dello stare insieme, che tenga conto della dichiarazione implicita nell’accoglienza dell’alterità, avviando a scuola processi di scambio che producano una comunità in cui il senso di appartenenza sia sempre più vicino alle caratteristiche di ridefinizione[2] dell’identità. Come aiutare l’insegnante a maturare consapevolezza, a tenere conto dal pregiudizio per migliorare la relazione comunicativa con l’alunno? L’esperienza del master ci ha portati a osservare come il solo aver sperimentato il riconoscimento degli Stati dell’Io, la condivisione di semplici strumenti di osservazione e di rilevazione delle transazioni, la competenza nel fare ipotesi sugli effetti delle contaminazioni abbiano consentito di intercettare e lavorare sul pregiudizio in un’ottica educativa. Come è noto agli addetti ai lavori, il pregiudizio in AT è descritto come una contaminazione dello stato dell’Io Genitore sullo stato dell’Io Adulto. I risultati ottenuti si riconducono a una prima operazione che è stata quella di energizzare lo stato dell’Io Adulto attraverso la consapevolezza che nasce nell’insegnante di essere portatore di un pregiudizio o comunque di essere immersa in un ambiente culturale in cui il pregiudizio si manifesta sia per influenza del Genitore Culturale, sia per influenza delle convinzioni genitoriali sull’essere e sul fare dei bambini. Il pregiudizio

Cfr. Napper R., “Il genio di Berne e l’ampiezza della portata dell’AT. Esplorazione del quadro culturale e del contesto

[2]  Il temine ridefiniti è utilizzato in accezione pedagogi-

del setting”, «IAT News», Roma, 2011.

ca. Cfr. Fregola C., 2011

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Ci siamo chiesti quali sono le finalità e gli obiettivi che l’insegnante potrà definire nell’attivare un processo di “decontaminazione” rispetto a un pregiudizio.

contattare i dati di realtà nel qui e ora, in quanto è influenzato da un insieme di norme, di regole e condizioni che appartengono al Sistema di Riferimento, cioè a quell’insieme di posizioni che determinano la concezione di sé, dell’altro e del mondo. Nell’azione educativa che è iniziata con la proiezione di alcune scene del film di Benigni, si è sperimentata la possibilità di stare nel qui e ora riportando l’attenzione sull’alunno e sulle sue difficoltà di apprendimento piuttosto che sulla sua persona che è stata “etichettata” dai compagni, dai genitori o dall’insegnante stesso. Nello specifico si è rivelato importante cercare di capire le difficoltà dell’alunno attivando una comunicazione proficua ed efficace che ha tenuto conto delle sue emozioni, dei suoi stati d’animo e dei suoi pensieri rispetto al suo essere l’etichetta che gli è stata assegnata. Ci siamo chiesti quali sono le finalità e gli obiettivi che l’insegnante potrà definire nell’attivare un processo di “decontaminazione” rispetto a un pregiudizio. Grazie alle azioni intenzionali che metterà in campo l’insegnante è stato possibile individuare quanto il pregiudizio influenzi la propria relazione con l’alunno e con l’apprendimento; individuare una contaminazione attiva; individuare e

distinguere gli stati dell’Io; individuare e riconoscere le transazioni semplici che si attivano sotto l’influsso del pregiudizio; migliorare lo scambio comunicativo;intervenire nel progetto di sviluppo dell’autonomia e dell’autoefficacia di ogni singolo alunno. La potenza dell’intervento è consistita nel mettere insieme il compito di apprendimento con modalità che ci consentono di gestire fenomeni intrapsichici in un ambiente protetto, facilitando il processo di comunicazione e di efficacia dell’azione che gli insegnanti vanno a svolgere.

BIBLIOGRAFIA Berne E., Analisi Transazionale e psicoterapia. Un sistema di psichiatria sociale e individuale, Astrolabio, Roma, 1970. Berne E., Principi di terapia di gruppo, Astrolabio, Roma, 1986. Berne E., The structure and dynamics of organizations and groups, Grove Press, New York, 1966. Drego P., The Cultural Parent, «TAJ», n°13, 1983. Fregola C., Riunioni efficaci a scuola. Ridefinire i luoghi della comunicazione scolastica, Erickson, Roma, 2003. Fregola C., Analisi Transazionale e processi educativi. Esplorazioni per curiosare nel Campo Educativo nella complessità sociale e culturale del nostro tempo, in Tangolo E. Vinella P., (a cura di), Professione counsellor. Competenze e prospettiva nel counselling analitico transazionale, Felice Editore, Pisa, 2011. Moiso C., Novellino M., Stati dell’Io. Le basi integrate dell’Analisi Transazionale, Astrolabio, Roma, 1982. Napper, R., “Il genio di Berne e l’ampiezza della portata dell’AT. Esplorazione del quadro culturale e del contesto del setting”, «IAT News», Roma, 2011. Riccardi F., L’Analisi Transazionale, il sé e l’altro, Xenia, Milano, 2007. Stewart I., Joines V., L’Analisi Transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Varese, 2011.

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rispecchia così una serie di convinzioni rispetto al vissuto sociale introiettato o tramandato dalle figure genitoriali; viene rappresentato dalla contaminazione dello stato dell’Io Genitore sullo stato dell’Io Adulto, che non riesce a incontrare e


DARE RISCONTRO EFFICACEMENTE Il debriefing riflessivo di Alessandro Barelli

N

essun apprendimento è possibile senza un feedback efficace da parte del docente allo studente. Tradizionalmente, l’approccio giudicante ha caratterizzato la maggior parte dei contesti didattici, soprattutto di tipo universitario; esso presuppone la centralità del docente e pone gravi problemi alla sicurezza psicologica e all’autostima degli allievi. Il cosiddetto approccio non giudicante ha cercato, negli ultimi quindici anni, di proporre uno strumento alternativo di debriefing basato sull’ottimismo, sulla positività e sul sostegno, a tutti i costi, dell’autostima dell’allievo. Pur offrendo condizioni di sicurezza psicologica superiori rispetto all’approccio giudicante, questo tipo di metodo può ingenerare insicurezza e diffidenza a causa della diffusa tendenza dei docenti a non affrontare in modo chiaro le criticità, mostrandosi superficialmente supportanti ma profondamente giudicanti. Le teorie della pratica riflessiva, tuttavia, hanno recentemente offerto una terza possibilità di offrire feedback in modo

50.


COME DARE FEEDBACK? La condivisione degli aspetti critici che emergono dopo una sessione didattica rappresenta un aspetto cruciale del processo di apprendimento. Questo è vero soprattutto nelle sessioni di addestramento in simulazione, dove gli allievi sono sottoposti spesso ad una notevole dose di stress[1]. Se il docente/istruttore è consapevole dello stress e delle sensazioni negative che possono verificarsi nello studente in seguito a giudizi negativi, può avere maggiori difficoltà nell’esprimere chiaramente un pensiero critico e può non sapere come dire le cose allo studente senza causare difese, paure e insicurezze. Questa difficoltà è probabilmente poco sentita da alcuni docenti, soprattutto universitari, che non si prendono cura di eventuali sensi di frustrazione e insoddisfazione degli studenti; è altrettan[1]  Hankinson H., The cognitive and affective learning effects of debriefing after a simulation game, School of Education, Indiana University, Indianapolis, 1987, p. 116; Petranek CF, Corey S, Black R., “Three levels of learning in simulations: participating, debriefing, and journal writing”, «Simulation & Gaming», vol. 23, n° 2, giugno 1992, pp. 174 - 185; Porter T., “Beyond metaphor: applying a new paradigm of change to experiential debriefing”, «Journal of Experiential Education», vol. 22, n° 2, 1999, pp 85-90;

to vero che gli stessi docenti non si prendono cura, più in generale, dell’apprendimento degli studenti stessi. Il punto è quindi come creare un ambiente in cui gli studenti si sentano allo stesso tempo stimolati nell’apprendimento e al sicuro dal punto di vista psicologico[2] pur se stimolati a una rigorosa riflessione, dove per rigorosa riflessione si intende un processo che consente di rendere più espliciti i dilemmi sia clinici che comportamentali, emersi durante la sessione didattica che richiedono una focalizzazione e un confronto. Un tale approccio caratterizza una protezione per l’allievo che risulta rassicurante e riveste una rilevanza significativa perché fa sì che l’ambiente circostante sia ritenuto sicuro e che sia possibile quindi assumere dei rischi nelle relazioni interpersonali. Ciò comporta da parte dello studente la sensazione che modalità alternative sia del parlare che dell’agire non verranno ridicolizzate e di conseguenza la sensazione che gli errori verranno utilizzati come spunto per l’apprendimento e non come “crimini” da punire o da nascondere. L’APPROCCIO GIUDICANTE L’approccio giudicante è forse ancora il più diffuso metodo per offrire feedback agli allievi soprattutto in ambito universitario. Questo tipo di approccio, sia se servito con aspro criticismo sia se applicato più gentilmente, colloca la verità esclusivamente nelle mani del docente e l’errore esclusivamente nelle mani dello studente, dando per scontato che nel ragionamento e nelle azioni di quest’ultimo ci sia un’insufficienza. Negli ultimi quindici anni, molti docenti in ambito sanitario, preoccupati di ridurre gli errori medici e di migliorare la sicurezza dei pazienti, hanno tentato di rimuovere l’approccio giudicante, chiamato anche “vergogna e colpa”

Steinwachs B., “How to facilitate a debriefing”, «Simulation & Gaming», vol. 23, n° 2, giugno 1992, pp.186-195;

[2]  Edmondson A., “Psychological safety and learning

Thiagarajan S., “Using games for debriefing”, «Simulation

behavior in work teams”, «ASQ», n° 44, 1999, pp. 350–

& Gaming», vol. 23, n° 2, giugno 1992, pp.161–173.

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efficace. Partendo dall’assunto che sbagliare è umano e che gli errori sono una fonte vitale di apprendimento, il debriefing riflessivo prevede che il docente affronti in modo diretto le criticità emerse durante la sessione didattica, unendo l’osservazione degli eventi alla riflessione sul perché questi si siano verificati e valorizzando al massimo i vissuti e gli schemi mentali dello studente che hanno determinato le azioni e gli errori.


del debriefing[3]. È quindi apparso evidente che l’approccio giudicante, soprattutto se caratterizzato da una maggiore severità, è gravato da alti costi umani: umiliazione, depressione della motivazione, riluttanza a fare domande da parte dello studente, e per il docente addirittura la perdita di studenti con talento. Tuttavia l’approccio giudicante “vergogna e colpa” ha un lato positivo: lo studente raramente rimane dubbioso su cosa l’istruttore ritenga essere il punto chiave. L’APPROCCIO NON GIUDICANTE Il dilemma, per i docenti che vogliano abbandonare l’approccio giudicante, è come recapitare un messaggio critico allo studente, evitando allo stesso tempo le emozioni negative e reazioni di difesa, preservandone l’autostima e mantenendo alto il livello di fiducia e di sicurezza psicologica. Questo dilemma è stato spesso risolto utilizzando strategie sociali protettive e di incapsulamento degli errori dello studente con barriere di protezione zuccherine: il cosiddetto approccio “a sandwich” in cui un complimento[4] è immediatamente seguito da una critica che a sua volta è seguito da un altro complimento; altre operazioni protettive sono costituite dai filtri (si evita di esaminare nel profondo situazioni troppo critiche) e dall’evitamento (si rinuncia completamente a parlare del problema)[5]. [3]  Leape LL., “Error in medicine”, «JAMA», n° 272, 1994, pp.1851–1857 e “The preventability of medical injury”, in Bogner M.S. (a cura di), Human error in medicine, Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale, 1994. [4]  Nella sua varietà di significati, la parola complimento è qui utilizzata in chiave analitico-transazionale e si riferisce alle Carezze (cfr. Daniela Bartolomei, Sfida all’ultima carezza)

Un’altra modalità per tentare di superare il debriefing giudicante è l’approccio socratico con il quale si utilizzano domande indirizzanti (cioè domande che contengono o orientano la risposta) e si usa un tono di voce gentile nel tentativo di portare lo studente a essere cosciente di aspetti critici che l’istruttore non ha il coraggio di mettere in evidenza il modo esplicito[6]. Ad esempio: «Siamo proprio sicuri che la dose corretta di adrenalina sia 0,5 mg?». È evidente che a questa domanda debba seguire una risposta che è «No». Si tratta infatti di una pseudo-domanda con cui, apparentemente, si vuole facilitare lo studente nell’individuare l’errore. In realtà, se il docente conserva nel profondo un atteggiamento giudicante, utilizzare un approccio socratico per mascherare il giudizio può produrre l’effetto contrario, ovvero rendere lo studente confuso sulla reale natura della domanda e sospettoso sugli obiettivi, non chiari, del docente. Sebbene l’approccio non giudicante abbia il vantaggio di non essere colpevolizzante – e quindi evita sensazioni spiacevoli e umiliazione – possiede allo stesso tempo un’importante debolezza: il giudizio interno dell’istruttore può infatti rendersi ugualmente evidente attraverso elementi sottili come l’espressione facciale, la cadenza della voce e il linguaggio corporeo. Inoltre, pur sembrando un approccio non giudicante, in realtà lo è solo in superficie, in quanto l’assunto sottostante è sempre lo stesso: «Io ho ragione», «Io ho la completa visione del problema», «Io posso mettere in grado lo studente di capire il comportamento corretto e di acquisire le conoscenze corrette». Se l’approccio giudicante umilia in modo diretto, il cosiddetto approccio non giudicante trasmette in modo non verbale lo stesso messaggio e cioè che gli errori non possono essere messi in di-

[5]  Weisinger H., The critical edge: how to criticize up and down your organization and make it pay off, Little Brown

[6]  Argyris C., Putnam R., Smith D.M., Action science.

and Company, New York, 1989 e The power of positive

Concepts, methods and skills for research and intervention,

criticism, Amacom, New York, 2000.

Jossey-Bass, San Francisco, 1985.

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DEBRIEFING CON BUON GIUDIZIO: DEBRIEFING RIFLESSIVO A questi due tipi di approccio, giudicante e non giudicante, è possibile contrapporre un terzo tipo che chiameremo debriefing riflessivo, con i medesimi significati intesi da Rudolph[8] . Il modello di debriefing che si vuole proporre presuppone la conoscenza del concetto di “pratica riflessiva”. I nostri vissuti e le nostre esperienze ci aiutano ad apprendere e migliorare quello che facciamo. Si tratta di riconquistare quello che siamo e che facciamo in modo inconsapevole, in altre parole, di riflettere per poi agire. Ciò che una formazione di qualità dovrebbe facilitare è permettere agli studenti di guardarsi dentro e di riflettere su quello che si costruisce fuori, attraverso parole e azioni, per capire cosa si ha dentro. Un altro aspetto fondamentale della pratica riflessiva riguarda l’assunto che le persone in realtà sanno più di quello che credono di sapere; la difficoltà sta solo nell’esprimersi, nel trovare le parole giuste, o meglio nell’essere consapevoli che ci siano parole più calzanti per apprendere dalle proprie esperienze. [7]  Argyris C., On organizational learning, Blackwell, Cambridge, 1994 e Knowledge for action, Jossey-Bass, San Francisco, 1993. [8]  Rudolph J.W., Simon R., Dufresne R.L., Raemer D.B.,

È un po’ come quando viene chiesto a un testimone di fare un identikit: risulta difficile la descrizione dei dettagli del volto, il riconoscimento invece no. Questo proprio perché abbiamo dentro di noi più di quello che portiamo fuori. È questa la ragione per cui una formazione di tipo esperienziale, ad esempio con la simulazione, risulta particolarmente efficace e coinvolgente. La simulazione permette infatti di vedersi all’opera, di guardarsi fare con curiosità, di riflettere autonomamente su quello che si è riusciti a fare o su quello che si sarebbe potuto fare, piuttosto che apprendere automaticamente ciò che sarebbe giusto fare (come spesso accade nelle classiche lezioni frontali). In questo modo anche il formatore inizia a sperimentare un nuovo ruolo e non è più solo un esperto di contenuti ma diventa un “professionista riflessivo”[9]. Il presupposto di base è la consapevolezza di non essere lui l’unico detentore del sapere; quanto piuttosto un “facilitatore” e una fonte di apprendimento sia per se stesso che per gli altri partecipanti. Non deve dare all’allievo dimostrazione della sua expertise, quanto piuttosto stimolarlo efficacemente per fargli cogliere pensieri e sensazioni dentro di sé. Il suo ruolo è quello di cercare le connessioni con i vissuti degli studenti, e per fare ciò a poco serve mantenere le distanze e conservare il ruolo di “esperto”. La riflessione sull’azione mentre essa si svolge può essere un modo efficace per attivare processi incrementativi dei livelli di consapevolezza, di decisionalità e di responsabilità professionale che oggi rappresentano gli obiettivi più apprezzabili – e realisticamente perseguibili – dei percorsi di formazione sanitaria e di sviluppo professionale degli operatori sanitari. La pratica riflessiva può altresì essere definita come un modo di controllare i propri assunti e le proprie pratiche professionali spesso date per

“There’s no such thing as ‘nonjudgmental’ debriefing. A theory and method for debriefing with good judgment”,

[9]  Schön D., The reflective practitioner, Basic Books,

«Simulation in healthcare», gennaio 2006, pp. 49-55.

New York, 1983.

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scussione e che sono comunque una possibile fonte di vergogna. L’approccio falsamente non giudicante quindi compromette il vero valore che il docente vorrebbe trasmettere allo studente e cioè che gli errori sono un puzzle da cui è possibile imparare, piuttosto che un crimine da nascondere[7]. Utilizzando l’approccio non giudicante, in realtà, spesso il docente tenta di nascondere le proprie difficoltà nel discutere apertamente gli errori come fonte di apprendimento.


buone a priori. Passare cioè da comportamenti autoprotettivi a comportamenti autocorrettivi. È oggi dimostrato che i professionisti “riflessivi” – che imparano cioè a controllare le loro supposizioni e loro routine mentali – sono in grado di autocorreggersi e di migliorare le loro abilità professionali. Al contrario, i professionisti privi di tali capacità tendono a “sigillarsi” e a ignorare informazioni non confermanti, con conseguenti comportamenti inefficaci e inefficienti. Dietro la teoria della pratica riflessiva c’è l’idea che l’uomo interpreti gli stimoli esterni attraverso dei frame cognitivi interni, rappresentazioni interne della realtà esterna. I termini usati per questo tipo di entità sono molti: “cornici di riferimento”, “schemi”, “modelli mentali”; di conseguenza l’uomo non percepisce passivamente la realtà oggettiva, ma crea degli scenari interni attraverso i quali è possibile filtrare, creare e applicare un significato all’ambiente che lo circonda. Nell’ambito di questi modelli mentali interni nascono le azioni. Ad esempio un medico che gestisce un paziente traumatizzato con un problema di ventilazione adotterà una serie di azioni in base al modello mentale in cui vengono collocati i sintomi del paziente: se il modello mentale è quello dell’ostruzione fisica delle vie aeree, le azioni saranno conseguenti a questo modello mentale, mentre se i sintomi vengono collocati nel modello mentale della iperreattività delle vie aeree, le azioni saranno conseguenti a questo. Un infermiere che adotta il modello mentale secondo cui il segnalare un errore del medico causerà il risentimento dello stesso, sarà riluttante a segnalare eventuali errori, mentre se il suo modello mentale prevede che la segnalazione dell’errore porti a un miglioramento dei processi lavorativi, agirà in modo contrario. La pratica riflessiva comporta la possibilità di parlare apertamente degli errori durante il debriefing, mantenendo nei partecipanti la convinzione che si continui a essere persone valide e 54.

“...durante la sessione didattica si possono tranquillamente commettere errori e imparare da essi.” intelligenti nonostante gli errori; se questo tipo di convinzione è radicata negli studenti, durante la sessione didattica si possono tranquillamente commettere errori e imparare da essi. Il debriefing riflessivo crea un contesto per gli adulti che imparano, compresi i docenti; inoltre l’attenzione viene ampliata per includere non soltanto le azioni degli studenti ma anche altri elementi cariche di significato per gli studenti, come i loro modelli mentali, i loro presupposti, le loro conoscenze. Il punto di vista del docente, che ovviamente è un punto di vista esperto, viene condiviso come un modo per iniziare il dialogo con gli studenti. È importante che il docente dichiari apertamente il suo principale motivo di preoccupazione e ciò è particolarmente rilevante in ambito sanitario perché rimanere indiretti riguardo a errori cruciali rischia di perpetuare gli errori stessi e di mettere a rischio la sicurezza dei pazienti quando gli studenti ritornano nell’ambiente clinico reale. Il docente invece, contrariamente a quanto accade nel cosiddetto approccio non giudicante, condivide apertamente ed esplicitamente aspetti critici emersi durante la sessione didattica. In questo modo si dà valore all’opinione e al giudizio esperto dell’istruttore, ma anche al punto di vista dello studente. Si tratta di imparare dai modelli mentali che hanno determinato i comportamenti e le azioni degli studenti, in modo che sia i risultati buoni che quelli cattivi possano essere compresi come una soluzione inevitabilmente logica del modello mentale che la ha generata.


L’approccio riflessivo del debriefing è reso possibile dallo stile linguistico usato dal docente. Un modo particolarmente efficace di comunicare è identificato dall’unire osservazione, asserzione e domanda sequenza denominata da Rudolph “Advocacy and Enquiry”[10]. Ad esempio il team leader in uno scenario di trauma (fig.1) ha focalizzato l’attenzione soprattutto sull’addome (Azione) mettendo in secondo piano eventuali problemi toracici; questo ha causato un ritardo nella diagnosi di pneumotorace con rischio per il paziente. (Risultato). L’istruttore ha osservato sia l’azione dello studente che il risultato e intende conoscere il motivo, le ragioni o il ragionamento (Modello mentale) che hanno causato quel comportamento, per cui dichiara in modo aperto quello che ha osservato: «Ho notato che è stata data la precedenza all’esame obiettivo dell’addome rispetto ad altri organi» (Osservazione), poi dice la sua: «Era [10]  Rudolph J.W., Simon R., Dufresne R.L., Raemer D.B., “There’s no such thing as ‘nonjudgmental’ debriefing. A theory and method for debriefing with good judgment”, «Simulation in healthcare», gennaio 2006.

anche importante non trascurare il torace» (Asserzione) e successivamente chiede spiegazioni del perché quel comportamento si è verificato, cioè mira a conoscere il modello mentale che ha causato quella determinata azione: «C’è qualche motivo particolare per cui chi si è comportato così?» (Domanda). Il docente manifesta la sua curiosità e il suo interesse nel conoscere il ragionamento e il modello mentale che hanno causato l’azione dello studente durante lo scenario, ammettendo così che l’azione dello studente è molto probabilmente logica e coerente con un determinato modello mentale che, a sua volta, è probabilmente non adeguato a quella determinata situazione. In questo modo il docente afferma chiaramente e in modo esplicito il proprio punto di vista e le eventuali preoccupazioni, ma allo stesso tempo vuole capire il processo logico dello studente che ha portato all’errore o al mancato compimento delle manovre operazioni richieste. Allo stesso tempo il docente lascia aperta la possibilità di una soluzione alternativa al proprio punto di vista, rendendosi in qualche modo vulnerabile a imparare qualcosa e lasciando che .55

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Figura 1


eventualmente le sue idee siano messe in discussione. È come se aumentasse il livello di scambio alla pari con lo studente, in modo da valorizzarne, indipendentemente dalla gravità dell’errore, il punto di vista. Chiedendo di essere aiutato a capire il perché si è agito in un certo modo, l’istruttore pertanto non dà la colpa, ma cerca di creare un’alleanza.

In questi casi è fondamentale dichiarare in modo esplicito il tipo di filosofia didattica che viene adottata durante le sessioni didattiche.

BIBLIOGRAFIA Argyris C., Knowledge for action, Jossey-Bass, San Francisco, 1993.

RIFLESSIONI FINALI Il debriefing riflessivo aumenta le possibilità dello studente di ascoltare ed elaborare quello che afferma il docente, senza frapporre difese e senza domandarsi in cosa consista il giudizio critico del docente. Sia l’approccio giudicante che l’approccio non giudicante del debriefing possono essere basati su un giudizio esatto da parte dell’istruttore, ma entrambi generano un potenziale rumore di fondo, costituito dall’incomprensione e dalla difesa da parte dello studente, in grado di compromettere l’apprendimento. L’approccio giudicante contiene rischi sostanziali di imbarazzo e umiliazione dello studente, mentre l’approccio non giudicante può generare confusione, messaggi contrastanti ed essere vissuto come non vero o addirittura disonesto. Il debriefing riflessivo presenta tuttavia due principali limitazioni di cui bisogna essere coscienti. La prima è rappresentata dal fatto che questo modello presuppone che lo studente operi con buona volontà e che stia effettivamente cercando di fare le cose giuste. Nei rari casi in cui invece gli studenti siano negligenti (mala fede) o poco motivati, questo modello potrebbe non funzionare e in queste circostanze probabilmente si possono rivelare più opportune altre tecniche di debriefing. Un altro problema è costituito dal fatto che a volte gli studenti, soprattutto se provenienti da culture tradizionali, ritengono molto importante non contraddire il docente o l’istruttore e sono quindi inibiti nel mettere in evidenza i loro punti di vista quando diversi da quelli dell’istruttore. 56.

Argyris

C.,

On

organizational

learning,

Blackwell,

Cambridge, 1994. Argyris C, Putnam R, Smith D.M., Action science. Concepts, methods and skills for research and intervention, JosseyBass, San Francisco, 1985. Edmondson A., Psychological safety and learning behavior in work teams, «ASQ», n° 44, 1999. Hankinson H., The cognitive and affective learning effects of debriefing after a simulation game, School of Education, Indiana University, Indianapolis, 1987. Leape LL., “Error in medicine”, «JAMA», n° 272, 1994. Leape LL., “The preventability of medical injury”, in Bogner M.S. (a cura di), Human error in medicine, Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale, 1994. Petranek CF, Corey S, Black R., “Three levels of learning in simulations: participating, debriefing, and journal writing”, «Simulation & Gaming», vol. 23, n° 2, giugno 1992. Porter T., “Beyond metaphor: applying a new paradigm of change to experiential debriefing”, «Journal of Experiential Education», vol. 22, n° 2, 1999. Rudolph J.W., Simon R., Dufresne R.L., Raemer D.B., “There’s no such thing as ‘nonjudgmental’ debriefing. A theory and method for debriefing with good judgment”, «Simulation in healthcare», gennaio 2006. Schön D., The reflective practitioner, Basic Books, New York, 1983. Steinwachs B., “How to facilitate a debriefing”, «Simulation & Gaming», vol. 23, n° 2, giugno 1992. Thiagarajan S., “Using games for debriefing”, «Simulation & Gaming», vol. 23, n° 2, giugno 1992. Weisinger H., The critical edge: how to criticize up and down your organization and make it pay off, Little Brown and Company, New York, 1989. Weisinger H., The power of positive criticism, Amacom, New York, 2000.


Professore aggregato presso l’Istituto di Anestesiologia e Rianimazione, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma. Psicoterapeuta in formazione presso PerFormat (Scuola di Psicoterapia). Segretario e Coordinatore della Scuola di Specializzazione in Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.

DANIELA BARTOLOMEI Insegnante di sostegno nella scuola dell’infanzia, counsellor in formazione presso PerFormat (Master Analitico Transazionale in Counselling in campo Educativo-Formativo, sede di Roma).

FABIO BOCCI Professore associato C.d.L. Scienze della Formazione Primaria Università Roma Tre.

ZAIRA BRANCHI Insegnante di sostegno nella scuola primaria, counsellor in formazione presso PerFormat (Master Analitico Transazionale in Counselling in campo Educativo-Formativo, sede di Roma).

CESARE FREGOLA Analista transazionale, supervisore e didatta in formazione in campo educativo ITAA ed EATA. Professore incaricato, presso

il Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, di Didattica della Matematica per l’Integrazione dell’Università di L’Aquila e del laboratorio di Pedagogia Sperimentale dell’Università Roma Tre.

counsellor in formazione presso PerFormat (Master Analitico Transazionale in Counselling in campo Educativo-Formativo, sede di Roma).

MICHELA SANDRONI

Collaboratore Mathetica.

Psicologa, Psicoterapeuta in formazione presso PerFormat (Scuola di Psicoterapia).

ADELE IOZZELLI

ANNA EMANUELA TANGOLO

Docente di inglese, counsellor in formazione presso PerFormat (Master Analitico Transazionale in Counselling in campo Educativo-Formativo, sede di Roma).

Direttore Performat Psicologa, psicoterapeuta analista transazionale, supervisore e didatta in campo clinico ITAA ed EATA

PAOLO GIOVANNELLI

PATRIZIA VINELLA SIMONA LAINO Insegnante di sostegno nella scuola primaria, counsellor in formazione presso PerFormat (Master Analitico Transazionale in Counselling in campo Educativo-Formativo, sede di Roma).

Docente di scuola secondaria, psicologa, psicoterapeuta, analista transazionale, supervisore e didatta in campo counselling ITAA ed EATA

DANIELA OLMETTI PEJA

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ALESSANDRO BARELLI

Professore associato C.d.L. Scienze della Formazione Primaria Università Roma Tre.

ALESSANDRA PIERRO Libera professionista, collaboratrice Mathetica.

ANGELA PIU Professore associato Facoltà Scienze della Formazione Università Valle D’Aosta

SILVIA ROMANO Insegnante di scuola primaria, .57


SCUOLA DI ANALISI TRANSAZIONALE

MASTER IN COUNSELLING A.T. INDIRIZZO EDUCATIVO

Performat s.r.l. - Sede di Roma Via Valdinievole, 8 Roma Per informazioni Dott. Cesare Fregola +39 328.4724006 c.fregola@performat.it Scuola accreditata al Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti (CNCP) ai sensi della legge 4 del 14 gennaio 2013


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