Mauro Mingardi. Vita da filmmaker.

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Indice

Introduzione………………………………………….pag. 3 1) Brevi cenni sul cinema amatoriale………………..pag. 5 2) Come nasce una passione. ……………………….pag. 13 2. 1.) Gli anni dell’8mm e della sperimentazione......pag. 16 2. 2.) Gli anni del super8 e della maturazione………pag. 58 2. 3.) Dal video al digitale. Le perplessità…………..pag. 71 3) Caratteristiche del cinema di Mauro Mingardi……pag. 78 3. 1.) I concetti e i topoi ricorrenti…………………...pag. 79 3. 2. ) Un cinema artigianale…………….……….….pag. 93 4) Schede film……………………………………….pag. 104 5) Premi e riconoscimenti Mauro Mingardi…………pag. 134

Conclusioni………………………………………….pag. 136 Filmografia…………………………………………..pag. 137

Bibliografia………………………………………..…pag. 139

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Appendice

Sceneggiature e scritti preparatori

Alla ricerca dell’impossibile…………………...…….pag. 1 Diario d’autunno…………………………………….pag. 10 Camere a gas/La danza dei contatori………………...pag. 22 Le ali degli angeli…………………………….…..….pag. 41 La fossa………………………………………….…..pag. 56 Vita di artista…………………………………….….pag. 69 Gli usignoli di Rellstab……………………….….…..pag. 112 L’uomo che contava i passi…………………….…...pag. 131

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Introduzione

L’analisi della filmografia di Mauro Mingardi vuole mettere in luce caratteristiche e particolarità del “fare cinema” di un autore

che

considerava

preferiva il

definirsi

termine

filmmaker

“cineamatore”

in

quanto

squalificante,

denigrante. Il suddetto vocabolo portava con sé una carica negativa che gli derivava dal fatto che il termine veniva strettamente

connesso

ai

filmati

familiari,

pieni

di

«masturbazioni dei campanili» come Mingardi amava definire le zoomate e panoramiche reiterate e abusate di certi filmati

familiari.

Il

termine

filmmaker,

vocabolo

anglosassone, ha insito al suo interno il verbo fare e l’autorialità di Mauro Mingardi si fonda proprio sullo stesso termine. Mingardi faceva il cinema in tutti i suoi aspetti: dal soggetto alle scenografie, dalle riprese al montaggio. Mai termine fu più appropriato di filmmaker per descrivere il modo di fare cinema dell’autore. L’elaborato punta a dimostrare che l’innata attitudine di Mingardi nel “far cinema” è stata fondamentale per sopperire a determinati limiti connaturati al cinema amatoriale, anche perché legata alla sua professione di artigiano. Questa predisposizione ha permesso al cineasta di creare un proprio stile anche a partire da certi limiti iniziali, legati internamente alla produzione indipendente, che lo stesso autore mette a frutto per farli diventare elementi distintivi. L’analisi non vuole essere una mera ricostruzione biografica dell’autore, né tanto meno vuole esaurirsi in questo elaborato. In previsione dell’acquisizione del fondo Mingardi, che

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comprende anche gli innumerevoli film familiari, da parte dell’associazione Home Movies – Archivio nazionale del film di famiglia, l’elaborato si propone come un punto di partenza per una ricerca più approfondita e completa sull’intero corpus della produzione filmica dell’autore. La ricerca, quindi, è suddivisa in cinque parti. Il primo capitolo mette in luce i primi tentativi di cinema amatoriale ispirati alle pratiche del cinema professionale. Il

secondo

capitolo

contestualizzazione

e

è

il

primo

disposizione

tentativo

cronologica

di della

produzione filmica dell’autore. Qui sono stati individuati tre periodi che coincidono con l’evoluzione dei formati ridotti del cinema, dalle produzioni in 8mm, passando al super8 fino al video e al digitale. Il terzo capitolo, in una prima parte, approfondisce gli aspetti contenutistici e tematici dei film di Mingardi; in una seconda parte gli aspetti tecnici e più artigianali della sua produzione. Il quarto capitolo ricostruisce una filmografia organica dell’autore. Il quinto capitolo mostra una panoramica dei premi e dei riconoscimenti vinti dal filmmaker nel corso degli anni. All’elaborato sono allegati in appendice diversi scritti autografi e varie sceneggiature e rielaborazioni inedite dell’autore.

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1. Brevi cenni sul cinema amatoriale

Il cinema amatoriale è stato a lungo tempo considerato un cinema rudimentale. Lo stesso termine “amatoriale” ha sempre dato l’idea di un qualcosa fatto per fini unicamente privati, spinto da un fattore emotivo ma privo di quella competenza attribuita al cinema professionale. Da subito varie denominazioni sono andate a collocarsi vicino al termine “amatoriale”: cinema “a passo ridotto”, cinema “sconosciuto”, cinema “personale”, ma la sostanza non cambiava, con questi appellativi ci si riferiva in ogni caso al cinema d’amatore per sottolinearne i limiti tecnici, la scarsa resa finale, la difficoltà economica. Qui, con i termini “cinema d’amatore” ci riferiamo in senso stretto al cinema amatoriale di finzione. L’aspetto non commerciale del cinema d’amatore veniva frainteso e scambiato per incompetenza. Varie erano le carenze attribuite al cinema d’amatore, prima tra tutte, come già detto, la scarsità di mezzi finanziari. Il cinema d’amatore era perlopiù auto finanziato e questo comportava grandi sacrifici e piccoli accorgimenti. Poi gli si contestava la povertà tecnica. Le ristrettezze economiche comportavano anche un adeguamento dei mezzi tecnici a disposizione e spesso le competenze tecniche soffrivano di questo adattamento obbligato. Di certo non ci si potevano permettere grandi set che anzi, a volte,

erano

formati generalmente da familiari e amici. Il cinema d’amatore veniva tacciato anche di imprecisioni registiche, scarsità nella recitazione, superficialità nelle scenografie. Per quanto alcuni di questi elementi potessero, in effetti, trovare riscontro in alcuni film peggio riusciti, la generalizzazione

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penalizzava

tutto

il

campo

del

cinema

amatoriale.

L’attribuzione al cinema d’amatore di tutte queste carenze derivava anche dal confronto con il cinema professionale, quello dei grandi set, quello delle grandi star. Il “cinema maggiore”, così veniva spesso designato il cinema professionistico, a partire dal formato della pellicola, 35mm e dagli anni ’60 anche 16mm, possedeva tutta una serie di vantaggi rispetto al “cinema minore”. Il vantaggio economico era la fonte principale che permetteva quindi anche grandi set, fonti considerevoli di risorse materiali e umane, enormi possibilità tecniche. Il cinema maggiore era per antonomasia il cinema della qualità, anche se il luogo comune prevaleva su quella che poi era la realtà. Eppure, in un dato momento, vennero sdoganate alcune produzioni a basso costo di cinema d’amatore che iniziarono a poco a poco ad accorciare le distanze dal cinema professionale. Gli elementi che fino a quel momento avevano significato

penalizzazione

adesso

vengono

considerati

vantaggi e garanzia di originalità e libertà creativa. Questo è il caso di alcuni cineamatori francesi che, dando vita a un movimento chiamato “cinema contemporaneo francese”, iniziarono a farsi notare per la grande professionalità delle loro opere. La caratteristica principale di questo gruppo di cineasti francesi era la loro totale indipendenza. Ogni cineasta lavorava, seguendo i propri ritmi, svincolato dalla costrizione delle

produzioni

standardizzate

e

industriali.

La

sperimentazione e lo spirito di ricerca davano alle opere un carattere di originalità e autenticità difficile da trovare nelle produzioni maggiori. Anche a livello distributivo venne introdotta un’innovazione, i cineasti iniziarono a riunirsi in cooperative autogestite che si occupavano di smistare e noleggiare le pellicole ai richiedenti, svincolandosi, così, dalle manipolazioni dei commercianti e dando il via alla

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creazione di un circuito culturale in cui far circolare i propri film. Grazie al coraggio di questi cineasti “illuminati” si diffonde il messaggio che anche il cinema d’amatore può e deve competere, per qualità e originalità, con il cinema maggiore1. Una delle principali caratteristiche del cinema d’amatore è quella per cui non vi è una netta divisione dei ruoli. Non c’è divisione reale del lavoro, non ci sono le specializzazioni classiche del cinema maggiore. La figura del regista accentra su di sé quasi tutte le funzioni produttive diventando di volta in volta, soggettista poi regista, o ancora, operatore, scenografo, montatore, direttore della fotografia e produttore. In un contesto simile la parola anglosassone filmmaker è quella che descrive al meglio lo stato di cose. Il filmmaker proprio in virtù di questo accentramento produttivo è colui che “fa” il film, crea dal nulla un prodotto nel senso quasi artigianale del termine, gestendo quasi in solitaria ogni singola fase di realizzazione del film. Quella che quindi viene vista come una carenza, in questo caso di personale produttivo, è in realtà una grande possibilità di libertà espressiva. I filmmaker possono esprimersi liberamente senza vincoli produttivi. In un clima del genere non è inusuale che vengano fuori prodotti filmici di un certo rilievo, di una certa singolarità creativa. Il cinema maggiore essendo più vincolato, seppure per contro avendo più risorse, può andare incontro a compromessi che il cinema minore sembrerebbe non incrociare, tra cui anche la possibilità di filmare in condizione poco comode grazie alla leggerezza e facilità 1

Considerazioni nate a partire dalla lettura di: Giorgio Gattei, Rassegna Nazionale del

Cinema Sconosciuto. Dal cinema d’amatore al cinema “altro”, Edito a cura della Cineteca Comunale di Bologna, Bologna 1979 e «Cinema Ridotto. Mensile del cinema a formato ridotto», Roma, Tip. G. Altobelli, gennaio 1959 - luglio 1970.

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d’utilizzo delle cineprese non professionali. A Bologna intorno agli anni ’60 iniziano a riunirsi i primi cineamatori, nascono i primi cineclub. Molti di questi cineclub aderiscono alla F. N. C. Federazione Nazionale dei Cineamatori, cui aderisce anche Mauro Mingardi. Nel decennio che va dai primi anni ’60 agli anni ’70 il numero di cineamatori

bolognesi

cresce

sensibilmente.

Molti

appassionati di cinema riescono ad acquistare la loro prima cinepresa e si divertono a immortalare scene di vita familiare, viaggi, momenti di vita quotidiana. La consapevolezza di poter imprimere sulla pellicola momenti di vita e bloccarli per sempre, col passare del tempo, spinge molti cineamatori a recarsi alle manifestazioni o eventi pubblici più o meno importanti con la cinepresa in mano. L’occhio cineamatoriale diviene più documentaristico, molti sono gli eventi pubblici che si trovano tra le pellicole di fondi familiari. La diffusione dell’uso delle cineprese porta i cineamatori alla necessità di acquisire la tecnica, di saperne di più sul mezzo utilizzato. Incominciano a circolare quindi i manuali in cui si spiega la composizione chimica della pellicola, le caratteristiche meccaniche dei vari modelli di cinepresa e, non per ultimo, le varie tecniche di ripresa. Da qui a un uso più consapevole del mezzo il passo è breve. Accade che con il passare degli anni la cinepresa diviene il veicolo attraverso il quale il cineamatore, con le immagini in movimento, cerca di comunicare sé stesso. Lo sguardo allora acquista qualcosa in più, oltre alle storie di vita quotidiana, oltre la realtà documentata in divenire, adesso i cienamatori scoprono la finzione. Nasce la volontà di esprimere attraverso le immagini in movimento i propri pensieri, le proprie paure, i propri stati d’animo e questo porta il filmato amatoriale ad avvicinarsi sempre più alle pellicole del “cinema maggiore”. Ovviamente un’evoluzione delle implicazioni del mezzo di

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questa entità comporta maggiore organizzazione e difficoltà. Come abbiamo già detto quindi il gruppo di lavoro diviene fondamentale per sopperire alle limitazioni che sicuramente un singolo si troverebbe a dover fronteggiare. In questi anni a Bologna il parlare di cinema diventa sempre più comune. Il tempo libero viene occupato dal fare cinema, dallo studiare il mezzo, dal riunirsi per realizzare o semplicemente parlare del mezzo in questione. I cineclub offrono dunque uno spazio fisico per questi confronti. I cineamatori parlano delle proprie esperienze, scambiano idee sia sul piano contenutistico che su quello tecnico. I cineamatori bolognesi sono tra i primi in Italia a passare dalla documentazione alla costruzione del reale. In questo processo collettivo di mutazione dei linguaggi, i bolognesi acquisiscono uno stile proprio, riconoscibile, che li distingue da altri cineamatori italiani.

In questo processo sommariamente descritto, si inserisce anche il gruppo dei cineamatori bolognesi, costituitosi una decina di anni or sono, che ha raggiunto, rispetto ad altri gruppi sparsi un po’ in tutta Italia, proprie caratteristiche – tipiche della tradizione bolognese – nella espressione della realtà e ha mantenuto una sua fondamentale coerenza di lavoro e di impegno formativo e critico. […] Si riscontra, inoltre, il deciso passaggio – che vuol dire raggiunta sicurezza e maturazione espressiva – dal documento al film a soggetto, dalla scoperta e dalla registrazione di ciò che si vede alla proposizione di ciò che è dentro di noi e che le 2

immagini possono esprimere .

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[anonim.] Alla scoperta della realtà con i film d’amatore, «QUI

Bologna. Il settimanale della città», n. 6, Bologna, Poligrafici Il Borgo, febbraio 1971, p. 17.

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Addentrandoci brevemente nella storia dei formati della pellicola, scopriamo che proprio la duttilità di certe cineprese favorì la diffusione familiare del mezzo a passo ridotto. Per cinema a passo ridotto si intende quel cinema girato in formati di pellicola che non rientrano nella categoria del professionale. Il formato 35 mm, che come dice il nome ha una larghezza di 3 cm e mezzo, è ritenuto il supporto standard dei film professionali, in quanto la larghezza del fotogramma permette un’ottima qualità delle immagini. Esistono formati maggiori come il 70 mm, usato soprattutto negli Stati Uniti per i film ad alta definizione. La pellicola 9,5mm, nata nel 1922, la 16mm, nata nel 1923, e la 8mm, nata nel 1932, vengono riconosciute, invece, come formati a passo ridotto perchè la larghezza del fotogramma è rigorosamente ridotta, se paragonata ai formati professionali di cui sopra. Parlando del 16 mm bisogna aggiungere una precisazione in quanto con molta frequenza i documentari sono stati girati soprattutto in questo formato, poiché l'attrezzatura era abbastanza leggera da permettere spostamenti e operazioni anche in situazioni di ripresa difficoltose, ma il risultato filmico rimaneva molto buono. Oltre ai documentari anche i cinegiornali che un tempo, al cinema, precedevano la proiezione dei film erano girati in 16mm. Negli anni Settanta, le riprese che andavano in onda durante i telegiornali e le partite di calcio in differita erano filmate con questo formato che, per le sue specifiche d’utilizzo, fu per molto tempo considerato quello dei reporter e dei documentaristi. Occorre perciò definire il 16 mm come un supporto semiprofessionale, anche se ormai la maggior parte degli usi che si era soliti farne sono diventati prerogativa delle telecamere e del supporto video. L' 8mm e, successivamente nel 1965, il super8 sono, per

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definizione, i formati dei cineamatori, cioè di coloro che hanno fatto cinema per passione o per hobby, ma non con intenti professionali o commerciali. All’inizio degli anni Ottanta, con la diffusione del video, questi formati sono stati gradualmente sostituiti3. Con la diffusione del super8 il cinema entra a far parte della quotidianità di molte famiglie, che imbastiscono veri e propri set e sperimentano con il nuovo mezzo. Purtroppo, la diffusione del mezzo non sempre va di pari passo con la diffusione del linguaggio espressivo, non è detto che un cineamatore riesca a distinguere un “piano americano” da un “primo piano”. Molto frequentemente, anzi, le pellicole vengono utilizzate solo per girare filmati poco attinenti con l’idea di cinema che si è diffusa attraverso il cinema maggiore. Ma non si può dire che questo sia del tutto un aspetto negativo, poiché la sperimentazione porta sempre a qualcosa di nuovo e originale, ancora una volta, difficile da percepire nei film cinematografici commerciali. Con gli anni, in Italia sono nati numerosi festival riservati al cinema in piccolo formato; vi era la Rassegna Nazionale del Cinema Sconosciuto che si teneva annualmente a Bologna. Vi erano festival

organizzati

dalla

Fedic,

Federazione

Italiana

Cineamatori, come il Valdarno Cinema che si teneva a S. Giovanni Valdarno dedicato anch’esso al cinema in passo ridotto. A Montecatini si teneva un altro importante festival per promuovere i film indipendenti. C’era poi il Festival di Castrocaro Terme, cui ha partecipato spesso Mauro Mingardi vincendo numerosi premi dal “Fotogramma di Bronzo” al 3

Il super8, da qualche tempo però, sta venendo lentamente riscoperto da cineasti indipendenti contemporanei. Sono sempre più frequenti le produzioni in super8 che però purtroppo continua a mantenere dei prezzi di pellicola davvero onerosi se si pensa che circa tre minuti di pellicola a colori costano in media circa venti euro. In ambito commerciale si sta diffondendo l’utilizzo del super8 per filmati di reportage di matrimoni, e sempre più punti vendita si stanno attrezzando per la vendita del formato e la successiva spedizione in laboratorio di sviluppo.

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“Fotogramma D’oro”. C’era poi il Festival del cinema di Rapallo, che consacrò Mingardi nel ruolo di cineamatore d’eccezione, in quanto il suo film arrivò primo davanti due film degli affermati Ermanno Olmi e Roberto Rossellini. Insomma, quando l’Italia scopre il cinema minore, i festival iniziano a pullulare dando luogo a una grandissima diffusione di film a passo ridotto e grande notorietà, circoscritta ovviamente all’ambiente del caso, agli autori indipendenti. Mauro Mingardi descrive così il periodo che abbiamo sommariamente esplorato: […] la mia generazione che ha iniziato negli anni cinquanta l'attività dell'8 millimetri e poi negli anni sessanta con il super8 con delle puntate nel 16mm, hanno avuto una grande fortuna, quella di riscoprire il cinema in tutti i suoi periodi, cioè praticamente abbiamo riscoperto il cinema dal muto, perchè i proiettori che noi avevamo, cioè i mezzi… soprattutto le finanze ci permettevano di fare film assolutamente muti perchè i proiettori sonori non ce n'erano ancora e quelli che erano usciti erano assolutamente imprecisi e malfunzionanti e quindi abbiamo riscoperto il cinema muto poi via via la tecnica migliorava, abbiamo riscoperto il cinema sonoro, abbiamo avuto la possibilità di abbinare il sonoro nella pista magnetica e poi ancora infine il doppiaggio, i dialoghi, e questa è stata una cosa bella perchè abbiamo visto il cinema e lo abbiamo voltato e rivoltato in tutti i suoi aspetti […]4

4

Il brano in questione è tratto da un’intervista realizzata dal videomaker Davide Rizzo in occasione delle riprese fatte per il documentario Old Cinema – Bologna Melodrama. L’intervista non è stata inserita nel prodotto finale in quanto Davide Rizzo ha prediletto un target di riferimento di fruitori con età superiore agli 80 anni, Mauro Mingardi all’epoca ne aveva 70.

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2. Come nasce una passione.

Mauro Mingardi, premiato sia in Italia che in ambito internazionale, in base alle testimonianze raccolte, è stato uno degli autori più conosciuti e apprezzati nell’ambiente amatoriale e semi-professionale cinematografico bolognese. Mingardi entrò in contatto con il cinema sin da bambino quando andò a vedere Biancaneve della Disney. L’autore racconta sempre con piacere dello stupore provocato dal vedere un film del genere, dai colori così accesi. Durante l’infanzia Mingardi si recava spesso con la famiglia in un cinema a Borgo Panigale, di seguito il racconto dalla voce del protagonista in un’intervista rilasciata all’amica Giuliana Pederzoli: Ricordo che alcune volte da bambino mi portavano in un cinema all’aperto a Borgo Panigale. C’erano tre tipi di biglietti: l’intero, il ridotto e il “rovesciato”; quest’ultimo non era un biglietto vero e proprio, ma una sorta di accordo con il gestore, che poneva alcuni spettatori, i più indigenti, in piedi dietro lo schermo. La maschera all’inizio del film passava a bagnare il telone bianco con una cannella d’acqua, in modo che gli spettatori del rovesciato potessero vedere la proiezione per trasparenza, ma a rovescio. Così poteva succedere

che

in

un

western

“Bill

il

mancino”

miracolosamente sparasse con la mano destra, l’insegna dell’ufficio dello sceriffo si leggesse “ffirehs” e il mitico saloon, per noi bambini, diventasse un magico “noolas”, quasi un cupo lamento che evocava misteriosi piaceri. Mi piace ricordare questo episodio perché mi pare che sia una metafora oscura, ma non priva di suggestione, del lavoro di noi “amatori di cinema”: eternamente dietro a uno schermo

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nel cercare emozioni sconosciute5.

Così Mauro Mingardi racconta le suggestioni, suscitate in lui da bambino dallo schermo cinematografico, che hanno poi influenzato molto tutta la sua produzione. Dalla fine degli anni cinquanta ai giorni nostri Mingardi produsse una grande quantità di bobine in 8mm, super8 e alcuni gonfiaggi in 16mm. Si avvicinò al video molto tardi, continuando a usare il super8 anche quando molti suoi colleghi iniziavano a scoprire potenzialità e difetti del nastro magnetico. Mauro Mingardi è sempre stato a Bologna un punto di riferimento per chiunque si volesse occupare di cinema, viene infatti ricordato da molti come un puntuale interlocutore e consigliere, nonché un appassionato maestro. A sentir parlare collaboratori e amici, Mingardi accoglieva nel suo laboratorio studenti e appassionati di cinema con sincero entusiasmo. In molti si rivolgevano a lui per lezioni private individuali teoriche e pratiche riconoscendogli di fatto una grande esperienza e professionalità. I suoi meriti vengono in poco tempo riconosciuti anche istituzionalmente in quanto presto il filmmaker inizia a collaborare con il professor Alfonso Canziani, nel corso degli anni ‘70 e ’80, in occasione delle lezioni di filmologia al dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, dove conoscerà alcuni suoi futuri collaboratori e amici. Mauro Mingardi, e come lui anche altri suoi colleghi, inizia a girare i primissimi film, delle sperimentazioni più che altro, negli anni ‘50, durante quella che spesso viene definita "epoca dell’8 mm”. In questi anni diversi appassionati di 5

Giuliana Pederzoli, Il Maker. Conversazioni con l’autore, «Cineclub», Edito dalla federazione italiana dei cineclub, n. 12, Bologna, Poligrafici Editoriale S. p. A., dicembre 1991, p. 5.

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cinema iniziano ad acquistare prontuari per cineasti dilettanti, manuali per cineamatori, acquisendo in breve tempo tutte le competenze

tecniche

di

utilizzo

della

cinepresa,

di

conoscenza della pellicola, dei materiali e delle tecniche di ripresa. Consideriamo quanto fosse nuovo, a quel tempo, il concetto di riprendere da sé persone in movimento, rivedersi poi muoversi e compiere azioni con i propri occhi. Mauro Mingardi racconta di quanto fosse stupefacente per dei ragazzini negli anni ’50 vedersi attraverso un occhio esterno e da prospettive impossibili per la visione frontale dell’essere umano. La cinepresa quindi offriva all’essere umano la possibilità di vedersi “ a tutto tondo” e in movimento. Di certo la fascinazione era grande, e in più le attese per i tempi di sviluppo creavano una giusta suspense. Mauro Mingardi iniziò come tanti suoi amici e colleghi dalle basi. La sua fortuna fu quella di aver ereditato dallo zio Vasco Pasini una cinepresa Keystone 8mm. Lo zio ricevette la cinepresa in maniera molto curiosa: a un suo amico benzinaio capitò di vedersela regalare dall'attrice Ivonne De Carlo, la quale, non avendo moneta italiana con sé, la usò come forma di pagamento in cambio di un pieno di benzina. Il curioso fatto risale al 1953. I filmini che lo zio Vasco faceva in montagna o addirittura i suoi tentativi di fare cinema con tanto di didascalie a cui lavorava per mesi, sono databili intorno alla metà degli anni ’50. E’ evidente come Mauro Mingardi, ancora adolescente, sia rimasto affascinato dalle riprese dello zio, seppur estremamente amatoriali. Tale era il fascino che questo mezzo suscitava nel giovanissimo Mingardi che lo zio era spesso costretto a prestare al nipote la propria cinepresa. Ma alla fine degli anni ’50 la cinepresa divenne finalmente proprietà di Mauro Mingardi, dando di fatto il via alla storia cinematografica del cineamatore.

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2. 1 Gli anni dell’8mm e della sperimentazione

Dopo aver studiato la meccanica della cinepresa e aver appreso le basi della tecnica di ripresa Mauro Mingardi iniziò a cimentarsi nei primi lavori di finzione. La curiosità era davvero tanta e Mauro non esitò a coinvolgere amici e parenti nelle sue sperimentazioni. E proprio di sperimentazioni, in effetti, si tratta. Con pochi ed elementari mezzi, con un budget quasi inesistente ma con l’aiuto pratico degli amici Mauro Mingardi iniziò quel percorso che lo avrebbe presto portato a essere riconosciuto e apprezzato in festival nazionali e internazionali. L’oro Maledetto La produzione filmica di Mingardi ebbe il via nel ’58 con un corto di finzione, L’oro maledetto, che l’autore girò in riva al fiume Savena, nella Val di Idice, insieme alla sorella Adriana e a un gruppetto sempre più numeroso di amici. A seguire la scansione del canovaccio del film, tramite il quale l’autore, quarantacinque anni dopo, è stato in grado di doppiare il film insieme agli amici di allora.

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A detta dell’autore e di coloro che con lui collaborarono L’oro maledetto non può essere davvero definito un film, in quanto privo di sceneggiatura, abbastanza basilare come struttura narrativa ed elementare nelle riprese; un prodotto semplice quindi ma nonostante tutto molto scorrevole, a tratti divertente, soprattutto per merito della bravura del giovane cineamatore che per il film si ritaglia anche una piccola parte da attore. Ispirato dalla recente visione de La febbre dell’oro di Charlie Chaplin, Mauro Mingardi si recò sul luogo senza una reale sceneggiatura, con tra le mani solamente un canovaccio, e mise in scena la ricerca di un fantomatico tesoro inscenando, mano a mano, l’uccisione di vari personaggi: chi viene sbranato da un coccodrillo sott'acqua, chi assalito da un pellerossa con gonnellino in pelle e piume in testa. Il regista spiegò il perché di tante uscite di scena, narrando che, dopo essere venuti a conoscenza delle riprese del film, gli amici vollero assolutamente partecipare, costringendolo a inventare ruoli non presenti nel canovaccio e uscite di scena altrettanto improvvisate. Qui è importante sottolineare un aspetto dei lavori di Mauro Mingardi comune a gran parte delle produzioni amatoriali. Un aspetto per così dire “paratestuale” davvero molto interessante, soprattutto perchè in tempi odierni si è in qualche modo perso, che concerne l’aggregazione tra persone che lavorano a un progetto comune in maniera del tutto disinteressata e partecipata. Grazie alla curiosità generata dal vedersi muovere su uno schermo ma anche grazie alla bravura nel saper creare interesse intorno alla realizzazione dei propri lavori, l’autore radunava attorno a sé masse di persone interessate e pronte a mettersi in gioco per il fine in questione. A quel tempo non vi era chi amava definirsi regista a tutti i costi, non c’era una divisione settoriale delle competenze

e

questa

era

anche

la

bellezza

del

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cineamatorismo; ognuno faceva quel che poteva e sapeva fare, ci si scambiavano i ruoli. La poca conoscenza delle fasi di realizzazione spingeva i partecipanti a questa forte curiosità

che

si

concretizzava

in

mano

d’opera,

importantissima per la realizzazione pragmatica dei film. Mingardi, proprio a proposito di questo suo primo film, in un articolo racconta: «Era una avventura, eravamo tutti giovani ragazzini, ci scambiavamo la cinepresa a seconda del ruolo che decidevamo di avere quel giorno»6. In questa frase dell’autore è racchiusa tutta la suggestione, tutta la nostalgia di un qualcosa che è stato e non sarà più. Da queste parole si evince anche come in effetti i primi film fossero girati sull’onda della sperimentazione e dell’entusiasmo e non dettati da regole, che invece più avanti verranno rispettate in maniera molto più professionale. L’unico rimpianto che l’autore ha più volte manifestato, nel corso di varie interviste, parlando del film in questione, riguardava una motivazione tecnica: a quel tempo il passo ridotto non dava la possibilità di avere una registrazione audio. Pellicola e cineprese negavano questa possibilità, che invece nel cinema professionale era già diffusa da anni. Questa mancanza spinse così Mingardi, anni e anni dopo, esattamente nel 2003, a doppiare il film insieme agli stessi amici che avevano interpretato i personaggi, con un risultato quantomeno curioso e particolarmente ironico. Non capita spesso di vedere film in cui i personaggi, poco più che ventenni, parlano con le indubbie e roche voci da sessantenni. L’autore stesso racconta questo esilarante anacronismo sonoro in una auto intervista che ha inserito nella versione digitale in testa al film e nell’altra intervista realizzata, poi 6

Anna Di Martino, Uno sguardo al cinema indipendente di Mauro Mingardi., Effetto cinema, «Tempo libero», Edito dalla Federazione Italiana Liberi Circoli, aprile 1990, p. 14.

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non utilizzata, per il documentario Old Cinema – Bologna Melodrama dal videomaker Davide Rizzo: a un certo punto, due, tre anni fa, con l'avvento del computer, del…ecc., i superstiti di questi film, io e altri miei amici, l'abbiamo doppiato con le nostre voci vecchiette questi ragazzi di 18, 19 anni e credo che questo sia un guinness, quanto meno, con gli stessi personaggi e con la stessa voce, io c'ho la mia voce però là ho 18 anni, invece adesso ne ho 69 per cui…c'è questa differenza. Questa è una 7

cosa divertente, che c'ha fatto godere intensamente .

Qui si palesa uno degli aspetti del carattere di Mingardi, la sua estrema simpatia e apertura nei confronti dell’altro. Le sue mini interviste in testa e in coda al film sono delle vere chicche, sono realmente un dono allo spettatore. Sono fonti preziose in quanto chi non ha avuto il piacere e la fortuna di conoscere l’autore in vita può essere partecipe degli aspetti della realizzazione dei suoi lavori venendone a conoscenza direttamente dalla sua voce e può in qualche modo avvicinarsi a quel uomo di cinema così fuori dall’ordinario che è stato Mauro Mingardi. Incubo di un omicidio Un film datato 1959 che non ha avuto un buon esito è Incubo di un delitto comunemente chiamato da amici e parenti Il conte Ghini. Come racconta lo stesso Mauro Mingardi in testa al film, la pellicola doveva inizialmente essere diretta dalla sorella Adriana. Mauro però le tolse la direzione e ne prese le redini, sebbene successivamente non si sia mai definito orgoglioso del suo atteggiamento. Il risultato negativo lui lo attribuisce un po’ a questo suo gesto: il film 7

Estratto di una intervista estrapolato dalle riprese di Old Cinema – Bologna Melodrama, Bologna, Elenfant Film, FREIM, MAXMAN COOP, 2010.

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non venne mai terminato e fu caratterizzato da diverse pecche tra cui una trama poco strutturata. L’idea della realizzazione di questo film ha origini curiose. Mauro, Adriana e i loro amici avevano già iniziato a girare L’apache ma le riprese erano tutte in esterni e in concomitanza con l’inizio della stagione piovosa, per cui furono costretti a sospendere la lavorazione del film. Mauro, Adriana e gli amici stabilirono di rinviare la prosecuzione delle riprese alla primavera del 1960. Per non rimanere con le mani in mano, però, decisero di impiegare la propria voglia di fare e le proprie energie nella realizzazione del film in questione. Buttarono giù una sorta di sceneggiatura, crearono dei cartelli e diedero il via alla realizzazione del film che narra di tale Conte Ghini che viene ucciso per mano del cugino il quale vuole appropriarsi dell’eredità, ma questo verrà fuori solo in un secondo tempo. Il cugino sarà presto preda del rimorso. La trama in sintesi è questa. Il film però non è stato mai concluso in quanto mancante di alcune parti. Una delle scene mancanti, una scena di balli sfrenati con orgia conclusiva creò non qualche problema ai fratelli Mingardi che si scontrarono con la difficoltà del reperire comparse disposte a girare la scena. Decisero quindi di rimandare questa scena e girare quella che Mingardi definisce “scena madre” del film, in cui il protagonista è assalito dal rimorso. Qui il racconto di Mingardi diventa davvero divertente. L’autore racconta di come, essendo protagonista del film, si fosse imposto di interpretare la parte magistralmente; ispirandosi al metodo attoriale di Stanislawsky. Mingardi doveva mettere in scena il rimorso del protagonista che viene assalito da angosce e tormenti per aver ucciso il cugino. L’azione si svolge mentre l’autore fuma (peraltro in maniera molto artefatta in quanto in realtà egli non ha mai fumato) una sigaretta. Mentre fuma i sensi di colpa lo assalgono e il protagonista getta via la

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sigaretta passandosi le mani tra i capelli in segno di disperazione. Qui il film finisce. L’autore narra di come nella sua idea originale ci si dovesse trovare di fronte a una grande scena rivelatrice, e mentre giravano la scena lui era convinto di star dando una eccellente performance attoriale. In realtà, una volta sviluppata la pellicola e dopo aver visto il film, s’erano tutti resi conto di come la recitazione sviasse la comprensione dello spettatore, in quanto sembrava che il personaggio fosse stato avvelenato dalla sigaretta; la prova d’attore non era evidentemente corrispondente all’idea dell’autore. Così il film non fu mai terminato. Resta però lo spassoso racconto di questo episodio che denota la genuinità di questa allegra esperienza iniziale comune alle primissime pellicole. Le comiche A questo film segue una serie di mini film chiamata Le comiche in cui vengono messe in scena divertenti situazioni in episodi chiaramente ispirati ai film di Charlie Chaplin e Buster Keaton. I cortometraggi hanno una lunghezza media di due minuti a scenetta e i titoli tradiscono lo spirito burlesco: Vacanze di un Lord, La valle dei bruti, Ladri di biciclette, che non ha nulla a che vedere col noto omonimo film di Vittorio De Sica, e infine Il vampiro sul tetto che scappa che fa il verso al film di Richard Brooks. Simpatici sketch che rappresentano più un gioco tra amici, realizzati più per il piacere di rivedersi in proiezione mentre scherzano, che con una reale intenzione di inscenare delle comiche da proporre un pubblico reale. Ma parliamo ancora di un periodo iniziale e tutto ciò che l’autore gira è pervaso dalla voglia di sperimentare, di rivedersi sullo schermo, magari di spalle o di profilo. (Mangas) L’apache L’anno successivo, sempre con gli amici e la sorella, Mauro

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decise di improvvisare un film western, L’apache. Lui e la sorella Adriana si misero d’impegno per confezionare i costumi, le armi. Gli uomini indossarono baffi posticci poiché i loro volti tradivano la giovane età. Purtroppo però si dovettero scontrare da subito con una carenza di non poco conto: la totale assenza dei cavalli; per Mauro questa fu una mancanza molto grave, un western senza cavalli è privato di una delle componenti essenziali del genere. Questa fu una pecca che Mingardi in seguito tenne a sottolineare ogni qual volta è venuto fuori il racconto riguardante il film in questione. Il non riuscire a reperire dei cavalli fece si che Mingardi valutasse il suo film come non riuscito. Il film venne abbandonato, ma il progetto western venne solo accantonato per essere poi ripreso una quindicina d’anni dopo quando già Mingardi insegnava al fianco del professore Alfonso Canziani al Magistero. Anche questa pellicola venne doppiata a quaranta anni di distanza con le voci decisamente adulte dei protagonisti, per un risultato davvero divertente. Resistenza Del 1962 sono tre differenti film, tra cui quello che il filmmaker considerava il suo primo vero film a soggetto, Resistenza. Il film narra la storia degli ultimi giorni di vita di un partigiano. Mingardi, nella consueta auto-intervista che precede il film, spiega come il film vinse un premio al Concorso Nazionale del Passo Ridotto Vallata dell’Idice, esattamente il “Premio Ferrania”, consistente in dieci bobine in bianco e nero di pellicola Ferrania. Considerati i tempi, un premio di una certa utilità se pensiamo agli alti costi della pellicola. Un altro premio, stavolta per la miglior interpretazione femminile, lo ricevette Adriana Mingardi che come racconta lo stesso Mauro: «[…]prese così sul serio l’avvenimento, che la vidi firmare autografi agli spettatori

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ignari della sala8.» Il film venne girato in soli otto giorni da Mauro e Adriana e, nelle riprese con la presenza di entrambi, la cinepresa andava in mano al nonno Pippo che si prestava spesso al ruolo di cineoperatore. Soggetto del film, dicevamo, sono le ultime azioni di un partigiano prima della liberazione. Prima la presenza diegetica di una scritta ci avvisa che all’alba del giorno successivo mattina il partigiano dovrà recarsi in un luogo teatro di una azione militare. Poi un cartello ci indica che la guerra è finita. Immagini di carri armati che percorrono festosi le strade invadono lo schermo. Nell’ultima scena vediamo una donna, la donna che si era presa cura del partigiano, piangere su una tomba. La guerra ha mietuto un’altra vittima. Questo film rappresenta il primo tentativo di indagine storica dell’autore, il quale ha tentato di raccontare un periodo storico ben definito e riconoscibile. La memoria qui analizzata è una memoria universale, comune; più avanti la memoria muterà carattere, diventando sempre più qualcosa di intimo, di personale. Alla ricerca dell’impossibile Secondo film, per ordine cronologico, è Alla ricerca dell’impossibile, pellicola che Mauro Mingardi girò nel luglio del 1962 e con la quale vinse la medaglia d’argento al XVI Festival Internazionale di Cannes per pellicole amatoriali, che si teneva in settembre a differenza del più noto Festival cinematografico che si tiene in maggio. Con Alla ricerca dell’impossibile Mauro si cimenta con il genere horror. Il film ci mostra in sintesi cosa accade quando realtà e incubo si intrecciano fino a non riuscire più a distinguere l’uno dall’altro, il tutto condito dall’inquietante colonna sonora di la Danse Macabre del compositore Charles-Camille Saint8

La frase è tratta da uno dei commenti audiovisivi che Mingardi ha inserito in alcune versioni digitali dei suoi film, in cui spiega stati d’animo, fatti curiosi e problematiche legate alla realizzazione dei suddetti film.

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Saëns. Una sinossi trovata in una presentazione del film su di una rivista recita «Diffidate dalle case abbandonate»9 e in effetti il fulcro del film è proprio una casa abbandonata in cui si nascondono personaggi misteriosi e inquietanti. I personaggi sono interpretati sempre da Adriana Mingardi e da alcuni amici, in più l’autore qui si ritaglia una parte, Mingardi è l’impiccato che spaventa la protagonista quando questa entra nella casa abbandonata. Mingardi è riuscito con questo film a ricreare atmosfere evidentemente espressioniste e

soprattutto

determinate

inquadrature

tradiscono

l’ispirazione a un certo cinema tedesco. Questo film, dicevamo, condusse Mauro Mingardi fino in Francia, dove egli scoprì l’aspetto più mondano del cineamatorismo. Il riconoscimento portò al cineamatore una certa fama nell’ambiente. Nonostante si trattasse del Festival di Cannes riservato al cinema minore rimaneva comunque un evento di una certa importanza e vincere una Medaglia d’argento non era appannaggio di chicchessia. Nell’intervista rilasciata per il documentario Old Cinema Mauro Mingardi racconta simpaticamente un episodio della sua prima esperienza a Cannes: …allora il Presidente del festival era…questa è una cosa divertente…Luigi re Borbone…e aveva sposato la figlia del re d' Italia, Maria di Savoia e parlava perfettamente l'italiano, allora vede il mio imbarazzo e comincia a parlarmi e dico…ma…sì stavo guardando qui…stavo guardando gli hotel ma... e allora lui prende in mano il telefono e subito…Hotel Mattiné…e l'hotel Mattiné era quello che costava più di tutti…10 9

Romano Zanarini, Il cinema di Mauro Mingardi, Contemporanea. Biennale di Arte Filosofia e Spettacolo, Fabbri Editori, Bologna, 1986. 10 Estratto delle interviste di Old Cinema – Bologna Melodrama, Elenfant Film, FREIM, MAXMAN COOP, Bologna, 2010.

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Mingardi poi parla anche delle difficoltà avute nel girare alcune scene nel buio quasi totale delle cantine, scelte come location del film:

[…]pensate che le luci…noi per fare i riflettori avevamo preso una conca da muratore…con della carta stagnola, poi c’è un supporto, avevamo fatto, con tre lampadine di quella da 60, da 100 W da fare 300 W, poi accendevamo quella ma se si facevano i primi piani andava bene ma se si faceva una figura intera c’era buio assoluto per cui era proprio, era un film penoso. Poi il sonoro allora, perché non c’era, pur essendo il Festival di Cannes, si consegnava una bobina del sonoro, magnetofono, dove c’era una pennellata bianca, dove si doveva fare l’abbinamento, per dire. [... ] Vinsi una medaglia d’argento e un diploma d’onore con la firma del presidente De Gaulle, che io poi andai a vedere con la saliva e si macchiava e capì che non poteva essere De Gaulle che aveva firmato e la firma era stampata e non fatta a mano […]11

E’ interessante sentire il racconto di alcuni aneddoti proprio dalle parole di Mingardi perché queste danno il via ad alcune considerazioni

importanti

che

riguardano

la

tecnica

cinematografica amatoriale dei primi anni. Il problema dell’illuminazione che il cineamatore mette in luce, ad esempio, rappresenta uno dei limiti tecnici rappresentativi del periodo. La luce era davvero un problema per i cineamatori del tempo, non si avevano i mezzi giusti o spesso non bastavano, e non si possedevano competenze di fotografia cinematografica, insomma, l’aspetto della fotografia era uno tra quelli in cui era più possibile riscontrare le differenze tra

11

Ibidem.

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cinema minore e cinema maggiore. Per sopperire ai problemi di illuminazione uno degli espedienti era girare in esterni con luce naturale, ed è questo il caso dell’ultimo film che Mauro Mingardi gira nel corso del 1962. Diario d’autunno Autunno 1962, Mingardi gira Diario d’autunno. La pellicola narra il girovagare di un giovane alla ricerca di un lavoro in un’Italia evidentemente del dopoguerra. Un’Italia dall’aspetto dimesso che ancora non mostra segni di alcuna ripresa economica. Il giovane ha un aspetto rassegnato e tenta di trovare un impiego invano. Neppure un amore, incontrato e perduto subito, reca al film un’impronta di speranza. Apprendiamo da alcuni appunti presi in fase di scrittura della sceneggiatura che il protagonista, nel corso del suo girovagare, apprende anche che è morto qualcuno che conosceva, non sappiamo bene chi, ma l’evento serve a gettare una luce ancora più cupa sulla storia. La struttura del film qui inizia ad assumere un carattere più coerente. La linearità temporale è rispettata, non vi sono ellissi evidenti, la vicenda sembra svolgersi tutta nel corso di due giornate. Mauro Mingardi qui rende partecipi del film parecchi suoi familiari, dalla sorella, alla madre a zii vari. Egli stesso diventa comparsa interpretando il ruolo di uno spazzino. Un film dal sapore nostalgico, che mostra una Bologna di periferia a tratti poco riconoscibile. Potremmo essere tentati di individuare nel film uno stile neorealista, soprattutto considerando le ambientazioni; andando un po’ più a fondo, notiamo che sono molto evidenti le influenze di un certo cinema francese, rivelate anche dall’uso di alcune musiche come La boheme e La mamma di Charles Aznavour, attore, peraltro, che esordì nel 1960 in un film di Francois Truffaut. Più avanti ritorneremo sulla questione degli stili. Su questo film non sono state rilasciate particolari testimonianze,

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possiamo però dire che il concetto di memoria è ancora in fase embrionale, si sta pian piano strutturando. La memoria è ancora memoria collettiva, qui è rappresentato un dato periodo storico, mai esplicitato con chiarezza, ma reso evidente dalla scelta degli ambienti e dalle musiche cupe e nostalgiche. La danza dei contatori Dell’anno successivo, siamo nel 1963, è il curioso La danza dei contatori. Il film in questione è grottesco, ironico, fantasioso. La storia è singolare, il film ha inizio con un uomo vestito di scuro che si reca al cimitero per trafugare un cadavere. La scena successiva ci presenta un altro protagonista un operaio del gas un po’ inetto. In seguito scopriamo che c’è di mezzo un terzo protagonista, una sorta di frankenstain assemblato tramite vari pezzi di cadavere dall’uomo in scuro. L’operaio troverà il modo di sgominare gli intenti dell’uomo in scuro e di sconfiggere il mostro. Questo film si collega idealmente al film con cui Mingardi vinse al Festival di Cannes; c’è di mezzo il grottesco, ma c’è di più. Questo è un film molto più ironico del primo, c’è l’elemento di comicità, rappresentato dalle azioni maldestre del tecnico del gas, c’è la scelta di una colonna sonora jazz che alleggerisce la narrazione rendendola più divertente. Non ci sono più le inquadrature cupe di

Alla ricerca

dell’impossibile, non c’è più l’inquietudine de la Danse Macabre. Il film fu molto apprezzato da critica e pubblico e ricevette ben due premi: il Premio per gli effetti speciali al Festival di Torino 1964, e il 1° Premio al Festival di Bordighera del 1964. Il premio che Mingardi vinse a Torino rende giustizia ai suoi sforzi poiché, in effetti, in questo film c’è un sapiente uso della tecnica passo uno, ci sono sparizioni alla Meliès, c’è insomma il riferimento a un certo cinema “illusionista”. Anche in questo film troviamo un ovvio

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omaggio al cinema espressionista tedesco, soprattutto per quel che riguarda le tematiche, ma in chiave quasi parodica, grazie anche all’attualizzazione del contesto, è evidente il periodo storico nel quale il film è stato girato. L’impresa Trap e altri film Del 1964 è L’impresa Trap e altri film. La pellicola non riguarda un solo e intero film ma più tentativi di riprese da cui poter ricavare un film. In realtà solo due film sembra abbiano avuto un buon esito: Plumma e Keep Coole Process Promplty. Il primo è davvero un esempio di sperimentazione pura. Plumma è un film surrealista nel vero senso della parola, richiama alla mente certi cortometraggi sperimentali di Man Ray e Marcel Duchamp12. Girato più per schernire le giurie del tempo, che premiavano i film ritenuti sperimentali, la pellicola sembra stata girata in base ad associazioni mentali che richiamano alla scrittura automatica teorizzata da Andrè Breton. Riportiamo di seguito un testo scritto in coda al film, sulle note di Tennesse Waltz di Patti Page, che fa capire le intenzioni in base alle quali nacque l’idea: «Con PLUMMA io e G. Franco Moretti facemmo uno scherzo alla giuria un po’ cervellotica di un festival cinematografico. Devo dire che lo scherzo riuscì in pieno e il film fu preso sul serio e segnalato.»13 Il secondo film della pellicola per importanza, Keep Coole Process Promplty, mette in scena l’alienazione di un uomo solo, che decide di costruirsi la donna dei sogni ricavandola da una tavola di legno. Una tavola di legno, non avendo profondità, tridimensionalità, non da neanche minimamente la sensazione di avere tra le braccia un essere in carne e ossa;

12

Il riferimento è nello specifico a film sperimentali quali Le Retour à la raison di Man Ray, Entr’acte di René Clair, Un chien andalou di Luis Buñuel. 13 Frase tratta dai titoli di coda originali del film.

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è un oggetto piatto, i cui tratti somatici e fisici sono stilizzati e tracciati solo con un pennarello nero. La solitudine dell’uomo viene mostrata al suo apice in una scena nella quale l’uomo, per non dover più andare a letto da solo, porta con sé anche la tavola dalle fattezze da donna. In coda al film una scritta reca un omaggio a J. Luc Godard. Le ali degli angeli Con il film successivo, Le ali degli angeli del 1964, Mingardi ci presenta una storia dagli oscuri risvolti. Il protagonista è un professore, deriso e umiliato, che però improvvisamente ha una sua occasione di riabilitazione sociale quando viene invitato dai suoi studenti ad una festa di carnevale. La sua contentezza dura poco però, una triste sorte lo attende fuori dalla porta. Il film vinse il 1° premio al Festival Internazionale di Mont Pelier, Francia, 1965. E’ questo un film delicato, quasi schivo nel presentare l’insofferenza del protagonista.

La

scelta

di

ambientarlo

in

periodo

carnascialesco da alla storia un tono di macabra allegria, come se Mingardi volesse suggerire che la felicità non dura che un attimo. La visione del mondo dell’autore va a poco a poco delineandosi. La felicità è sfuggevole, la volontà ci dà la forza di andare avanti e la memoria ci aiuta a non dimenticare le nostre radici. Neanche l’amore può recare il giusto sollievo poiché è difficile stabilire relazioni durature e sincere e con il prossimo film Mingardi ce ne da un esempio. La vita inutile La vita inutile è stato girato tra il 1964 e il 1965. Mingardi ha inserito in testa alla versione digitale del film una sua autointervista in cui ci spiega in che periodo storico cinematografico è stato pensato.

La vita inutile è del 1965, in quegli anni Michelangelo

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Antonioni si era imposto assolutamente nella cinematografia mondiale dando una scossa alla struttura narrativa, creando dei tempi dei silenzi unici che naturalmente colpirono tutti gli spettatori. Io ho tentato di raccontare l’incomunicabilità tra una coppia di fidanzati, l’impossibilità di comunicare, di riuscire a estendere l’uno all’altro le proprie emozioni. I risultati forse non sono così eccelsi come speravo […] anzi direi che è l’unico film che non ha mai avuto un riconoscimento pur minimo in nessun festival14.

Dalle parole, e dall’espressione di Mingardi mentre le pronuncia, si evince tutto il rammarico per non essere riuscito a rendere omaggio ad Antonioni come aveva immaginato. Il film presenta una narrazione debole, dei tempi dilatati che però non richiamano alle dilatazioni temporali di Antonioni, com’era nel loro intento. Alcune sequenze sembrerebbero, anzi, parodiare i film del grande regista in quanto è presente una vena di ironia che mal si cecilia con le intenzioni del film. Alcune musiche, come la Serenade no. 13 di Mozart, stride un po’ con le immagini. Più indovinata invece la scelta di Il faut savoir di Aznavour nella scena dell’indifferenza tra i due fidanzati al Night Club. La musica esprime irrequietudine e malinconia, l’interpretazione di Mingardi però è alquanto ironica, anche in queste scena. L’unico punto nel film in cui è riconoscibile una certa voglia di rendere omaggio a Michelangelo Antonioni è il monologo della scena conclusiva, in cui il protagonista cerca le parole per lasciare, attraverso una lettera, la propria ragazza, ma non avendo il coraggio di spedirle la lettera preferisce strapparla. La fossa Del 1965 è un altro straordinario film di Mingardi titolato La 14

Frase tratta dall’auto-intervista in testa al film.

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fossa. Questo film vinse un premio considerato minore rispetto a quelli vinti a Cannes o a Torino, ma pur sempre indicativo dell’interesse di critica e pubblico: il “Fotogramma d’argento” al Festival di Cattolica del 1967. In una rivista compare che La fossa è tratto dai Racconti del ‘4415 di P. W. Mulligan, pseudonimo dello zio Vasco Pasini, e, seppur in tono grottesco, racconta il periodo dell’occupazione nazista in Italia. In sintesi un uomo viene costretto da un soldato nazista a scavare una fossa. Solo alla fine si capirà che la fossa in questione non è ciò che sembra, cioè una tomba. L’equivoco è dato dall’errata attribuzione concettuale che si assegna all’immagine della fossa, Mingardi in questo è molto abile. Il cineamatore ce la rappresenta come qualcosa di pericoloso e quando il soldato prende due pezzi di legno e li unisce a formare una croce, l’equivoco si struttura maggiormente. Il paletto, vedremo poi, è il sostegno a un cartello che reca la scritta Abort, la didascalia ci informa che la traduzione italiana del lemma tedesco è latrina. Il film quindi ha un finale ad effetto abbastanza ironico seppur amaro. La memoria che qui vediamo rappresentata è una memoria storica ma beffata, ironizzata ma non allo scopo di sminuirne l’intensità, tutt’altro. La forza del film sta proprio nel presentare uno dei più bui periodi storici della storia italiana in modo grottesco. Lo spettatore sente tutto il peso di ciò che sta vedendo per poi rilassarsi solo alla fine del film. Il film a tutt’oggi è uno dei più riusciti, seppur essenziale. Raptus Il film successivo Raptus, del 1965, tradisce le sue intenzioni sin dall’inizio. La colonna sonora del film Vertigo di Alfred Hitchcock accompagna i titoli di testa, denunciando da subito il tipo di film che gli spettatori si troveranno davanti. Anche 15

I Racconti del ’44 nella realtà sono un falso, rappresentano solo un gioco tra Mingardi e lo zio Vasco Pasini.

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questo film è stato molto apprezzato e ha vinto il “Fotogramma d’argento” al Festival di Cattolica del 1966 e la “Medaglia d’argento” e “Diploma d’Onore” al XX Festival di Cannes del 1967. Questo è un thriller psicologico della più classica tradizione hitchockiana. Oltre alle musiche anche le inquadrature denunciano l’omaggio al cosiddetto “maestro del brivido” in quanto spesso la macchina da presa segue percorsi imprevedibili, panoramiche sghembe, inquadrature circolari che ricordano moltissimo alcune riprese di Vertigo. La storia narra di un uomo perverso che spinto da un raptus omicida uccide la prostituta che aveva precedentemente condotto in casa sua. Non si rende conto però che in casa c’è un ladro, che ha visto tutto e che troverà il modo di smascherare l’assassino. L’assassino travolto dai sensi di colpa si costituirà entro breve tempo. Tratto da un racconto di P. W. Mulligan, che interpreta anche il ruolo del ladro, il film è ben confezionato. Certamente, la suspense nel senso hitchcockiano del termine non viene approfondita ma rimane un po’ vaga, ma il colpo di scena a metà film rivela un certo gusto per l’equivoco, per la perdita della sanità mentale del personaggio principale derivata da qualcosa che lo spettatore sa già e il protagonista ignora. Grazie anche alla collaborazione con lo zio Vasco in questo periodo, Mauro Mingardi inizia ad approfondire l’interesse per la psiche umana, per i lati oscuri dell’essere umano, per l’ignoto. Tutto quello che l’essere umano non riesce a spiegarsi era sempre stato nelle corde dell’autore ma grazie ai racconti di Pasini è stato messo in forma. Le idee e i racconti dello zio ispirarono quindi il giovane Mingardi che fondò il successivo film proprio su un’altra idea di Vasco Pasini in arte P. W. Mulligan. L’inconoscibile Nato, appunto, a partire da un’idea di P. W. Mulligan il

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successivo film L’inconoscibile è del 1966. Il film vinse ben tre premi: la “Medaglia d’Argento” e “Diploma d’Onore” al XXI Festival di Cannes del 1968; un premio al Festival Internazionale di Rochester (New York) del 1969; il “Fotogramma di Bronzo” al Festival di Torino del 1969. Atmosfere cupe, luoghi quasi surreali, personaggi che sembrano usciti da un film espressionista ma che ricordano anche le atmosfere de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Un articolo della rivista Contemporanea, che sintetizza il contenuto dei film di Mingardi, recita «C’è un limite alla nostra conoscenza, un’impossibilità per ogni nostro pensiero, al di là di questa impossibilità ogni azione vive e realizza se stessa»16. In questa frase c’è racchiuso lo spirito del film, Mingardi ci vuole dire che è inutile tentare di decifrare quello che la mente umana non riesce a comprendere, si può provare a giocare, tentare di decodificare i segni di ciò che potrebbe essere, ma non capiremo mai fino in fondo cosa ci aspetta; se però giochiamo una partita corretta il futuro sarà meno nero. Tutto ciò è rappresentato da un uomo che, in sostanza, gioca la propria partita per la sopravvivenza vincendola. Alla fine del film sarà tutto più chiaro, l’uomo eviterà un brutto incidente e sarà salvo perché ha vinto la

sua partita. I

riferimenti a Bergman sono evidenti. La colonna sonora, qui Mingardi utilizza la Lacrimosa di Mozart, rafforza il clima di inquietudine. Le ambientazioni sono davvero particolari, la villa che il cineamatore utilizza come location è un luogo molto singolare che lui ritrae in maniera sapiente attraverso inquadrature oblique, movimenti di macchina circolari, carrelli a seguire che sembrano quasi semisoggettive e ci fanno

partecipare

attivamente

alle

inquietudini

del

16

Romano Zanarini, Il cinema di Mauro Mingardi, in AA.VV., Contemporanea. Catalogo della Biennale di Arte Filosofia e Spettacolo, Bologna, Fabbri Editori, 1986.

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protagonista. Un film ben riuscito che infatti, anche oltre oceano, ha riscosso un meritato successo. Associazioni libere Il film successivo del 1966 è Associazioni libere. Il film contornato da una colonna sonora classica in cui spicca il Concerto No. 2 in F major, BWV 1047 di Bach, parla appunto delle associazioni mentali libere di una donna in uno studio di un analista. Il viaggio mentale ha inizio quando la donna, dopo aver osservato casualmente un quadro e una bambola, piomba nel suo inconscio. Le associazioni mentali sono rappresentate

da sezioni del film distinte, concatenate

mediante un raccordo di movimento, o di sguardo o ancora tramite un colore o per analogia. La parte centrale del film, in cui sono connesse tutte queste parti tra loro, sembra proprio voler fare il verso a certi film di natura dadaista e surrealista, anche qui, come in Plumma, a tratti vengono in mente certi film sperimentali dei già citati Man Ray o Marcel Duchamp o ancora Luis Buñuel. Non ci sono fonti da cui trarre notizie su questo film, forse non venne inviato nei festival o più probabilmente non vinse alcun premio. Nel corso di quest’anno Mingardi venne chiamato a ricoprire una carica, per così dire, istituzionale, in quanto venne nominato membro della giuria per il “Premio O. C. I. C. ” di Assisi dallo storico e teorico del cinema Renato Mai. La partecipazione gli diede la possibilità di conoscere personaggi illustri dell’ambiente cinematografico. Qui ebbe l’opportunità di conoscere Cesare Zavattini che fece i complimenti a Mingardi. Persino Pier Paolo Pasolini e Roberto Rossellini, riconoscendolo, si soffermarono con Mingardi per elogiarlo ed esprimere il loro interesse per i film sino ad allora realizzati.

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fig. 1. Mauro Mingardi insieme a Cesare Zavattini.

Una mattina Sempre del 1967 è Una mattina, film dedicato alle lotte partigiane bolognesi. Nel film il protagonista è un giovane partigiano che, dopo aver partecipato a varie rappresaglie e aver cercato di difendere se stesso e i suoi compagi, si troverà di fronte uno degli amici morto. L’aver vissuto la morte in modo così violento e improvviso e il fatto che a restar coinvolto fosse stato un suo amico, metterà il giovane partigiano davanti alla scelta di dover vendicare l’amico e scegliere di abbandonare la rappresaglia. In sintesi questo è lo svolgimento della storia, in realtà il film ha due finali diversi. I due autori Mauro Mingardi e Vasco Pasini, in arte P. W. Mulligan, avevano due idee diverse di conclusione del film. Il finale di P. W. Mulligan è aperto, vediamo il giovane partigiano prendere la pistola dalla fondina dell’amico morto e subito dopo comparire la scritta FINE. Finale questo che

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lascia intendere che tutto possa accadere. Invece Mauro Mingardi ha aggiunto diverse scene: vediamo il giovane partigiano in un primo tempo conservare la pistola in un cassetto di casa propria. Il giovane è evidentemente titubante, pensieroso. La scena finale vede il giovane avvicinarsi a un corso d’acqua e gettar via la pistola. Un finale questo in cui, in base ai punti di vista, si può veder nel giovane una voglia di pacificazione che nel precedente finale non c’è, ma anche una certa vigliaccheria nel non continuare la lotta in memoria dell’amico morto. Interessante la consueta nota audiovisiva che Mingardi inserisce, stavolta, tra il finale dello zio e il suo, spiegando le loro motivazioni. Molto interessante, soprattutto per quello che riguarda la storia della città di Bologna, è che il film è stato girato in parte allo scalo merci, ma in larga parte anche nel parco della Cineteca, l’attuale parco XI settembre 2001 che, al tempo, era un cumulo di macerie. In quella zona i bombardamenti erano stati molto pesanti in quanto quella era una zona sensibile, li infatti c’era la sede della

Manifattura

Tabacchi,

obiettivo

importante

per

l’economia della città. Nelle immagini vediamo l’edificio, sede dell’attuale Cineteca sito in via Riva di Reno, sventrato, privo di finestre, in larga parte annerito dal fuoco, poi macerie ovunque. Insomma il luogo era perfetto come location. Le riprese realizzate in questa parte della città hanno fissato per sempre sulla pellicola un luogo che ha ormai cambiato totalmente aspetto e adesso è diventato uno dei luoghi culutrali bolognesi per eccellenza. Diario di un’amica Diario di un’amica è un film del 1968. Mingardi lascia la parte le tematiche storiche, surreali, cupe per affrontare un altro dei discorsi a lui cari l’incomunicabilità nell’amore e nell’amicizia. In realtà il rapporto che vediamo rappresentato nel film è più di un’amicizia, è un rapporto tra due donne

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talmente forte e intimo da portare una delle due donne al suicidio a causa della gelosia. Un cosiddetto dramma della gelosia dunque, ma non solo. Qui Mingardi parla di un rapporto tra due donne che senza mai renderla esplicita richiama l’omosessualità. Le protagoniste sono Adriana Mingardi e una loro cara amica che aveva interpretato altri tra i precedenti e successivi film. Adriana Mingari interpreta la parte di una pittrice che stringe una forte amicizia con una ragazza, la convince a farle da modella e piano piano se ne innamora. Quando però entra in scena il personaggio maschile, che stringe una relazione con la modella, la pittrice in un impeto di gelosia si toglie la vita. E’ interessante l’espediente narrativo architettato dal cineamatore per innescare il flashback. Mingardi apre il film con la sequenza di una donna che passeggia sulla spiaggia con aria pensierosa. La donna è l’amica della pittrice, e la spiaggia innesca un primo flashback in cui vediamo un poliziotto che le consegna una borsa. La borsa funge da espediente per avviare il flashback in quanto era dell’amica morta; questo mette in moto nella donna il ricordo della prima volta in cui si videro, fino via via ad arrivare al motivo per cui l’amica si è suicidata, in questo modo ha inizio il flashback che funge da fulcro del film. Il film non ebbe riscontro nei festival, forse proprio in virtù del delicato tema che affrontava, comunque non senza una certa delicatezza. Con li successivo film arriviamo a un punto di rottura col passato, il cinema amatoriale di Mauro Mingardi diviene più professionale. Possiamo individuare nel successivo film una sorta di spartiacque che divide in due gli anni dell’utilizzo del supporto 8mm, una sorta di fase di transizione tra la padronanza totale del supporto 8mm e della strutturazione di uno stile nella seconda parte dell’8mm e della maturazione con l’avvento del super8.

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Il tempo nel muro Il film che adesso andremo a presentare è Il tempo nel muro del 1969. Questo film ebbe davvero un notevole successo e vinse diversi premi : “Fotogramma d’argento” al Festival di Limone, Piemonte 1969. 1° Premio al Festival Internazionale di Rapallo 1970. 1° Premio al festival Internazionale di Lisbona 1971. “Patero d’oro” al Festival di Lucca 1971. L’avvenimento da sottolineare, sicuramente tra quelli più importanti che diedero a Mingardi un riconoscimento ufficiale, avvenne al Festival di Rapallo. A Rapallo Mingardi vinse il primo premio, ma la cosa più interessante è che secondo e terzo si classificarono Roberto Rossellini con L’età del ferro ed Ermanno Olmi con I recuperanti. La vittoria su due registi già affermati consacrò Mingardi nel mondo del cinema professionale. Rossellini non dimenticò la bravura del cineamatore, anzi, provò più volte a convincerlo ad accompagnarlo a Roma per tenere dei corsi di tecnica cinematografica alla Scuola nazionale di cinema. Mingardi, come vedremo in seguito, rifiutò l’opportunità concessagli dal grande regista per non abbandonare la propria amata città e anche per non rischiare di compromettere l’idea di cinema che si stava lentamente strutturando, nata inizialmente per necessità ma divenuta presto uno stile. Grazie alla vittoria a Rapallo, Mingardi si fece apprezzare anche da Marco Ferreri che, ben sei anni dopo, lo contattò per girare alcune scene del proprio film Chiedo asilo: Io ero fortunato non tanto perché fossi io, ma in quanto lui mi aveva scelto perché non ero nel giro di Roma, per cui voleva qualcosa di naif, di più... di diverso nelle riprese di bambini. […]lui aveva visto il mio film, proprio quello che vi dicevo prima e dopo sei anni si ricordava e m'arriva una telefonata... voi potete immaginare nel giro quanta gente mi

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fa degli scherzi, amici, eccetera e a Ferreri prima di crederci... invece era proprio lui che mi telefonò17.

fig. 2. Fotografia scattata sul set di Chiedo asilo.

fig. 3. Retro dell’immagine con note.

Un cinema povero di mezzi quello di Mauro Mingardi, ma ricco di idee e professionalità. Il tempo nel muro è uno dei quei film in cui gusti e tendenze dell’autore diventano riconoscibili. Vi sono diversi evidenti riferimenti in questo breve film, ma uno spicca più di altri e ci è stato prontamente prospettato dall’amico Mauro Bonifacino nel corso di una discussione sull’autore. L’ispirazione narrativa che diede a Mingardi l’idea per questo film proviene dalla letteratura. Mauro Mingardi, appassionato lettore

di

Edgar

Allan

Poe,

rimase

piacevolmente

17

Estratto dell’intervista di Old Cinema – Bologna Melodrama, Elenfant Film, FREIM, MAXMAN COOP, Bologna, 2010.

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impressionato da Il cuore rivelatore18 tanto da decidere di trarne l’ispirazione per un nuovo film. Il film è ambientato agli inizi del ‘900. Il protagonista è un giovane in difficoltà economiche che è costretto ad accudire il vecchio padre malato e non autosufficiente. Un barlume di speranza gli viene offerto dalla sorte ogni qual volta incontra una donna per cui prova interesse. Purtroppo, però, questa non è una storia a lieto fine e il protagonista, nell’impossibilità di gestire contemporaneamente l’amore per la donna, le difficoltà di sopravvivenza e la cura del padre malato, è portato a compiere un gesto deprecabile. Il giovane in preda all’istinto rinchiude il padre in uno sgabuzzino. Purtroppo il vecchio soffoca e il giovane, per nascondere soprattutto a se stesso ciò che ha fatto, mura il corpo del padre nella propria casa. Il rimorso però lo attanaglia, il tempo può solo intensificare lo sconforto che coglie il giovane a causa del suo scellerato gesto. Le sveglie che scandivano i momenti della giornata del padre adesso fanno un rumore assordante, il rumore del tormento interiore, e il giovane le scaglia in terra rompendone il meccanismo. Questo è un film molto ben fatto sia per quel che riguarda la regia che il montaggio. Ogni inquadratura è impeccabile, ogni movimento di macchina pienamente giustificato. Il montaggio diviene incalzante man mano che ci si avvicina alla scena in cui il giovane scopre il padre morto. Il film venne molto apprezzato dalla critica e dal pubblico

che

decisero

di

premiarlo

col

massimo

riconoscimento consacrandolo di fatto, almeno per le competenze, tra i professionisti. Molto interessante la descrizione che il settimanale Qui Bologna fa del film in questione: 18

Il cuore rivelatore è un breve racconto di Edgar Allan Poe del 1943. Il protagonista, dopo aver ucciso un uomo e averne occultato il corpo sotto delle tavole, sarà ossessionato dal rimosso e confesserà l’omicidio.

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Il Mingardi sembra chiedersi in ogni film «chi sono» «da dove vengo» «quali sono i ricordi che restano e perché questi e non quelli». […] Qui la memoria ricupera le storie di Bologna felice dell’età giolittiana e le trasforma in crudo realismo. In notazioni critiche. Molto bella è, infatti, la ricostruzione ambientale, con sottolineature – i tetti di Bologna – nuove anche nella prospettiva. Va notata inoltre la perfetta recitazione degli attori19.

Percorrendo la linea cronologica della produzione filmica di Mauro Mingardi troviamo nei prossimi film una maggiore elaborazione del tessuto narrativo, scelte registiche studiate e realizzate con la massima accuratezza per un risultato finale che nulla ha da invidiare alle grosse produzioni. Prima di passare al super8 Mingardi produce una serie di film che, potremmo dire, rende ben riconoscibile il suo stile. Le tematiche si strutturano maggiormente, il concetto di memoria, la messa in scena dei lati oscuri e perversi dell’essere umano, adesso, si concretizzano in situazioni e personaggi ben più delineati rispetto ai corrispettivi dei precedenti film. Quindi a partire da Il tempo nel muro Mingardi si avvia alla fase che abbiamo definito di maturazione, che si concretizzerà definitivamente con il cambio di supporto, il passaggio al super8. Il viaggio Il film che segue è Il viaggio del 1970. Anche questo pluripremiato con il “Fotogramma di bronzo” al festival di Cattolica 1970 e il “Fotogramma di bronzo” al festival di

19

[anonim.] Alla scoperta della realtà con i film d’amatore, «QUI Bologna. Il settimanale della città», n. 6, Bologna, Poligrafici Il Borgo, febbraio 1971, p. 17.

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Torino, Il viaggio è una delle pellicole in cui il concetto di memoria è preponderante e sembrerebbe essere il primo di una serie di quattro pellicole composta da questo e altri tre film degli anni successivi. Il viaggio di cui parla il film è mentale, virtuale. Il protagonista, in sella alla sua moto, sta per schiantarsi contro un muro e questa scena innesca il flashback. L’uomo inizia ad andare con la mente ai suoi ricordi di infanzia, ritorna nei luoghi da lui amati, gioca con i bambini come fosse ancora bambino anch’esso. Poi ritorna con la mente alla giovinezza il cui simbolo è un ballo tra lui e la donna amata e ballando tra i ricordi, Mingardi fissa alcuni fotogrammi lasciando intuire che quel tempo è ormai perduto. Interessanti sono le sequenze dell’incidente in cui dissolvenze incrociate sovrappongono la realtà all’approssimarsi del ricordo. In questo film Mingardi decide di inserire una nota autobiografica. Ad un dato momento il protagonista entra in uno stabile vuoto e malandato e qui trova delle vecchie foto, le foto, a tutto schermo, sono scatti dell’infanzia di Mingardi; alcuni scatti durano il tempo di un fotogramma e li percepiamo in modo quasi subliminale, quasi come se l’autore ci volesse non mostrare bensì suggerire che quei tempi sono ormai solo ricordi fuggevoli, sbiaditi. Questa tendenza viene confermata alla fine del film, in cui il protagonista viene ritratto attraverso scatti singoli, non più immagini in movimento, attimi fermati nel tempo per sempre. Con il film successivo vediamo Mingardi cimentarsi ancora una volta con le bizzarrie dell’essere umano.

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fig. 4. Mauro Mingardi con in mano la sua cinepresa Bolex.

fig. 5. Retro della fotografia precedente.

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Le mosche Tra il ’70 e il ’71 Mingardi girò un film di estremo interesse Le mosche. Anche questa pellicola venne molto apprezzata e vinse il “Fotogramma di bronzo” al festival di Castrocaro e il “Fotogramma di bronzo” al festival di Cattolica 1971. Possiamo definire Le mosche un horror psicologico e inserirlo nell’ambito del grottesco. Nella periodico della Federazione Nazionale Cineamatori, il giudizio della giuria è: «Premio Fotogramma di Bronzo all’unanimità per la singolare atmosfera che viene ricreata in un racconto di morbosa suggestione20». Il protagonista del film è un bizzarro restauratore di vasi con la passione per gli insetti. In casa quest’uomo tiene veri e propri allevamenti di insetti che si diverte a seviziare e ama soprattutto le mosche. Quando, senza esserne inizialmente consapevole, avvelena la vicina di casa, donna per cui per altro prova attrazione, non si lascerà sfuggire l’occasione di usarne il corpo per farne nascere larve. Il soggetto insomma non è dei più spendibili, perlomeno in festival abituati più a film che affrontano tematiche sociali o più semplicemente storie meno macabre. Eppure, la straordinaria cura per i dettagli, la scelta dell’attore che ha fattezze davvero perfette per il ruolo che interpreta, le ambientazioni e il soggetto, così originale, rendono il film davvero una chicca per gli appassionati del genere e, per gli altri, una occasione per vedere un film diverso. Rapporto sentimentale Il successivo film, Rapporto sentimentale, del 1971 rimette in gioco il concetto di memoria, questa volta mettendo in scena un commiato da parte di un uomo non più in vita. E’ il secondo di quella che potremmo definire come un filone sulla 20

AA.VV., Il Fotogramma. Enal, «Notiziario della Federazione Nazionale Cineamatori. Bimestrale di cultura cinematografica», Torino, FNC, luglio - agosto 1971, p. 20.

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memoria personale, anche in virtù del fatto che l’attore protagonista è lo stesso: Roberto Passini. Con questo film inizia la collaborazione con l’amico e cooperatore Sandro Toni che cura i dialoghi di questo e molti dei successivi film. La vicenda si costruisce su due filoni: da una parte troviamo il protagonista rappresentato in diverse situazioni di non facile decodificazione. La realtà si sovrappone al ricordo o addirittura a una fase di sopravvivenza ultraterrena del protagonista. La storia ruota attorno a diversi diari in cui spicca sempre una iniziale L. Le due voci off si chiedono costantemente chi sia L. che si ipotizza essere la donna amata dal defunto. Sulla ricerca di L. e la ricostruzione dei luoghi vissuti dal defunto si struttura il racconto di non facile traduzione. Suggestivo il finale, in cui a parlare è proprio il protagonista in prima persona che, filmato in cima alla Pietra di Bismantova, luogo di letteraria memoria21, con il sottofondo musicale del Piccolo Concerto in C, RV 443 per flauto di Vivaldi, pronuncia queste parole: «Infine rimase il cielo, soltanto il cielo, ed era una immagine senza più ironia22». Parole emblematiche queste che, combinate alle immagini

che

adesso

mostrano

il

protagonista

in

semisoggettiva che osserva il cielo, lasciano intendere che probabilmente il protagonista si è tolto la vita, e magari proprio a causa di questa intangibile L. Mutoscopio Il terzo film che forma il possibile filone sulla memoria sulla difficoltà di far vivere i propri ricordi, in cui ancora una volta l’attore protagonista è Roberto Passini, è Mutoscopio del 1973. Vincitore della “Palma d’oro” al festival Internazionale di

Pegli

(GE)

del

1973,

Mutoscopio

è

un

film

21

La Pietra di Bismantova viene citata da Dante Alighieri nel IV canto del Purgatorio della Divina Commedia. 22 Battuta finale del film Rapporto sentimentale pronunciata dalla voce fuori campo.

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sull’impossibilità di vivere una vita piena poiché la potenza della memoria è più forte della realtà stessa. Il film ha inizio con il protagonista che piazza diverse cineprese in vari punti della stanza. Le cineprese vengono attivate a volte in alternanza a volte contemporaneamente, e hanno lo scopo di riprendere la vita del protagonista in ogni momento della giornata, una sorta di antesignano del grande fratello. Il film è tuttavia suddiviso in diverse sezioni nelle quali il protagonista si lascia andare al ricordo dei tempi felice che furono. Nella ultima parte del film l’uomo trova una aggeggio, un mutoscopio, per l’appunto, con cui rivede delle vecchie foto del nonno che lo ritraggono in primi piani dalla giovinezza fino al giorno della morte. Le scene finali ritraggono il protagonista inizialmente mentre cammina per strada, poi con il viso tra le braccia nella stanza in cui è sempre stato. E’ evidente che l’uomo non si è mai mosso dal luogo in cui l’abbiamo trovato all’inizio del film, ha solo immaginato, è andato con la memoria a momenti della sua vita passata, in sintesi ha preferito tornare al passato anziché vivere nel presente. Il concetto di memoria personale anche qui assume un carattere autobiografico in quanto Mingardi a circa metà del film inserisce una frammento di sequenza evidentemente tratta da un filmato famigliare, in cui vediamo i suoi amici, riconosciamo un giovane Mauro Bonifacino e la sorella del cineamatore Adriana, ridere e divertirsi nella stessa stanza in cui è girato il film. Una delle particolarità di un film del genere risiede nel legame che questo intreccia con gli altri lavori dell’autore. Nelle pellicole precedenti la memoria era legata a un evento tragico, cioè la morte di qualcuno: nel primo film è un mezzo per ricordare i luoghi dell’infanzia e della giovinezza, nel secondo simboleggia l’impossibilità di vivere un rapporto d’amore. Qui la memoria rappresenta l’impossibilità di vivere

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il presente e diventa, dunque, una via di fuga dalla realtà. Più avanti vedremo il quarto e ultimo film in cui il concetto di memoria si lega a un luogo reale e ancora esistente. Il film successivo si lega idealmente a (Mangas) l’apache ed è un western. Mingardi quindi ancora una volta ci stupisce variando totalmente genere e tematiche dei suoi lavori.

fig. 11. Mauro Mingardi con in mano la “Palma D’oro” per Mutoscopio.

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fig. 12. Retro dell’immagine

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Badlands Il film successivo è del 1977 ed è Badlands. A quell’epoca Mingardi conobbe un signore che aveva un allevamento di cavalli nella Val di Idice e che acconsentì a prestare loro due cavalli. Finalmente il progetto western, dopo quasi venti anni, poté essere ripreso. Mauro e gli amici crearono trucchi scenici truculenti, utilizzando organi di maiale posti sotto la maglia in un sacchetto che doveva essere squarciato, dando l’idea dell’ uccisione. Finalmente in questo caso fu possibile registrare la banda sonora. Divertente e curioso è il racconto di come Mauro e gli amici realizzarono il rumore degli zoccoli dei cavalli, degli spari; non fecero altro che produrre da loro i suoni come solitamente fanno i rumoristi, simulando con la voce gli spari, il trotto dei cavalli, le grida dei cowboy. Il risultato fu abbastanza soddisfacente. Il film ha come protagonista un indiano a cui uccidono la donna e che decide di vendicare l’assassinio. La donna in questione è una giovanissima Maurizia Giusti, l’attrice Syusi Bladi23. Il film è davvero ben fatto, i raccordi tra le riprese sono molto studiati e la Val di Idice risulta una perfetta location. Nonostante qualche salto di campo ogni tanto sia presente, Mingardi riesce a dare un interessantissimo ritmo al film tramite l’uso di un montaggio alternato nella prima parte, e grazie all’alternanza di campi e controcampi ben realizzati nella seconda parte. Dai dialoghi con Mauro Bonifacino è venuto fuori un rimpianto di Mingardi: nella scena finale, in cui il cowboy stramazza, colpito a morte, in una pozza d’acqua, è ben visibile come l’acqua risulti precedentemente macchiata di rosso. L’inconveniente fu causato dal fatto che di pozza ce n’era una e una scena era già stata girata. Ma 23

L’attrice ancora oggi disconosce la pellicola, pare la consideri dai risvolti troppo maschilisti in quanto nel film la donna viene violentata e praticamente giustiziata in modo piuttosto perverso.

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questo è anche il bello del cinema amatoriale. Da sottolineare l’utilizzo della musica Billy the kid, composta da Aaron Copland, rara se non unica composizione musicale dedicata a una tematica western. La musica finale che sottolinea le fasi più drammatiche del film, ci dice Mauro Bonifacino che non ricorda il titolo, è invece del compositore moderno Goffredo Petrassi. Con Badlands ci troviamo quasi in prossimità della fine del periodo di transizione e l’inizio, con l’avvento del super8, del cinema più professionale.

fig. 5 Mauro Mingardi insieme ai due protagonisti di Badlands

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fig. 6. Mauro Mingardi e Mauro Bonifacino insieme Maurizia Giusti

fig. 7. Preparativi sul set di Badlands.

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I morti di via Cirene L’ultima pellicola in 8mm e l’ultimo film del filone sulla memoria personale è I morti di via Cirene del 1975. Nel film in questione la memoria si lega strettamente a un luogo: via Cirene24. Con questo film si avvia pure la stretta collaborazione con l’amico Sandro Toni, che curerà i dialoghi dei film successivi. L’atmosfera in cui Mingardi ritrae la via in questione è molto lugubre e il cineamatore non si esime dal mostrarci immagini di gatti morti sulle rotaie del treno per aumentare il clima tetro. La via viene ritratta come una via maledetta, in cui le speranze e i sogni degli abitanti si estinguono sulle rotaie del treno come i gatti prima nominati. Una voce off ci racconta le vicissitudini legate alla via, un luogo strano spesso oscura meta di inquietanti suicidi: «In questa strada, nell’immediato dopoguerra, dalla primavera dl ’45 all’estate del ’47 più di trenta persone trovarono modo di porre fine alla loro vita. Della cosa si è molto parlato, eppure tanti ancora non sanno25. » L’immagine di un uomo che percorre la linea ferroviaria a piedi si alterna al ricordo dei tempi della seconda guerra mondiale in cui i pacchi bomba, inviati dal cielo, venivano nascosti in bambole di pezza e lanciati tra i bambini ignari. La voce continua raccontando che se i suicidi furono sicuramente causati da storie di povertà e disperazione, più oscure furono le cause di tanti omicidi. Nel film si intrecciano storie di amori finiti in tragedia e storie di giochi violenti tra bambini. In una intervista rilasciata all’amica Giuliana Pederzoli l’autore racconta con parole molto suggestive:

24

La via Cirene è una via del quartiere bolognese comunemente denominato la Cirenaica. La via è stata successivamente dedicata alla memoria del partigiano Francesco Sabatucci, mutando così nome. La via Francesco Sabatucci costeggia il ponte di Via Libia. 25 Battuta del film I morti di via Cirene che illustra allo spettatore le cause di tanti decessi concentrate in una sola via.

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[…] c’è un mio film poco proiettato, la copia è pessima e nell’originale il sonoro è parzialmente smagnetizzato – mi riprometto di fare una riedizione restaurata in video – in cui la protagonista è una strada, via Cirene, che seguo con la memoria dal dopoguerra ad oggi. Caratteristica di questa strada è il bisogno di morte quasi fosse un vampiro assetato di sangue; a questa strada, in cui ho trascorso parte della mia infanzia, ho dato anch’io il mio contributo di sangue, vittima di un piccolo incidente tra bande di ragazzi armati di fionde. Ebbene le gocce di sangue che versai sulle scale di casa, le ho ricostruite nello stesso punto in cui caddero più di quarant’anni fa. Ancora oggi ci sono e faccio fatica a distinguerle da quelle vere, quasi che la ricostruzione di una finzione diventasse una materializzazione del passato26.

In questo estratto dell’intervista, Mingardi esprime molto bene il suo rapporto con la propria memoria, con l’elaborazione del proprio concetto e visione del ricordo. Molto interessante è la parte in cui narra di come ormai finzione

e

ricordo

si

sovrappongano,

in

quanto,

probabilmente tutti, col tempo, modifichiamo la nostra percezione dei ricordi. E’ quindi certamente probabile che molto di ciò che ricordiamo sia in qualche modo falsato, dunque finzione. Nel racconto che l’autore fa alla giornalista ciò si concretizza nelle macchie di sangue, reali e falsi, che si sovrappongono e mescolano. Le scene finali del film sembrano suggerire che quel che è stato non sarà mai più, con varie dissolvenze che mostrano una cialda di gelato, lasciata in un angolo di marciapiede, che man mano si deteriora, come dopotutto accade ai nostri ricordi. E’ emblematico che questo sia l’ultimo film che Mauro Mingardi gira in 8mm.

26

Giuliana Pederzoli, Il Maker. Conversazioni con l’autore. «Cineclub», Edito dalla federazione italiana dei cineclub, n. 12, Bologna, Poligrafici Editoriale S. p. A., dicembre 1991, p. 6.

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fig. 8. Riprese de I morti di via Cirene, sotto il ponte di via Libia

fig. 9. Retro dell’immagine con note dell’autore

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2. 2. Gli anni del super8 e della maturazione.

Nel 1977 Mauro Mingardi abbandona le sue cineprese 8mm per una Canon Zoom D-S8 e inizia così a girare in questo formato. Il doppio super8 è una derivazione del super8. Il super8 offriva maggiori informazioni rispetto all’8mm in quanto la superficie su cui si imprimevano le immagini era più larga. Venne ridimensionata la misura della perforazione a favore della superficie proiettabile del fotogramma. L' immagine appariva più definita e limpida. Il doppio super8 non era altro che una doppia striscia di pellicola super8 che si tagliava dopo lo sviluppo. La superficie totale era di dimensioni uguali a quella della 16mm e la resa qualitativa abbastanza soddisfacente. Il super8 è il formato amatoriale per eccellenza e, spesso, i film girati in super8, soprattutto inizialmente, venivano chiamati con disprezzo “filmine”. Il super8 era considerato facile da utilizzare più che altro per i maggiori automatismi legati alle nuove cineprese: Il super8 e le sue cineprese verranno pubblicizzati spesso usando come testimonial giovani donne, il messaggio non troppo implicito risulta una frase come: “chiunque può girare facilmente con questo formato”. Le cineprese, fin dai modelli più economici, sono infatti dotate di esposimetro automatico, filtro luce solare/artificiale, nonché di zoom27.

27

Karianne Fiorini, Mirco Santi, Per una storia della tecnologia amatoriale, Comunicazioni sociali. Rivista di media, spettacolo e studi culturali, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, n.3, Milano, 2005

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Mauro Mingardi però preferì usare il doppio super8, che aggiungeva una difficoltà rispetto al semplice super8, in quanto la pellicola veniva impressa prima da un lato, poi, al buio, bisognava girare dall’altro lato la bobina per poterne imprimere il secondo lembo. I film che Mingardi gira dal ’77 in poi in doppio super8 danno mostra dell’evoluzione percettiva e professionale del cineamatore e dopo aver visionato i film prodotti in questi anni si fatica a definire Mingardi ancora cineamatore. Potremmo quindi fissare gli anni i primi anni dell’8mm come gli anni della presa di coscienza del mezzo e della sperimentazione; la seconda metà della fase 8mm invece identifica gli anni della transizione e della strutturazione dello stile Mingardi, e gli anni del super8 nei quali si ha la reale maturazione cinematografica dell’autore. Con l’utilizzo del super8 Mingardi sperimenta il lungometraggio. La sua produzione si dilata nel tempo e compaiono i primi attori professionisti. Ovviamente il confine tra sperimentazione, transizione e maturazione non è così netto, ma la suddivisione è a grandi linee abbastanza corrispondente. Verdi illusioni Il primo film in super8 è del 1977 e si chiama Verdi illusioni. Il film ha come sfondo musicale la sinfonia di Johann Pachelbel Canon in D Major che bene si sposa con le immagini bucoliche, quasi oniriche, che passano sullo schermo. Nel film una ragazzina corre felice tra campi, prati, per le colline e in mezzo agli alberi. Tutto richiama la bellezza della natura, compreso il suo abitino a fiori. La ragazzina si lascia andare supina in mezzo all’erba, lasciandosi riscaldare dai raggi del sole. Gioca con dei piccoli insetti e quando, in mezzo agli alberi, scopre un laghetto, costruisce una piccola barchetta per le formiche. Gode di ogni bene che la natura e offre. Ma improvvisamente la

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musica cambia, dai toni di felicità e spensieratezza della sinfonia di Pachelbel si passa ai toni più cupi e opprimenti del Requiem aeternam in D-Moll KV 626 di Mozart. Adesso l’espressione della ragazzina è triste e la vediamo camminare incupita tra le auto ferme a un semaforo per poi arrivare davanti a enormi palazzi di cemento. Immagini del cosiddetto “virgolone”28, con ancora alcune zone in costruzione, invadono lo schermo. Il film si chiude con una foto in primo piano della protagonista del film. Un elogio della natura quindi in contrasto con l’urbanizzazione che, in quegli anni, stava sviluppandosi nella periferia bolognese modificandone l’assetto. Il film è una sperimentazione, non vi è trama, dialoghi e le riprese sono tutte realizzate in esterni. Probabilmente con questo film Mingardi volle testare le potenzialità del super8. Dell’anno successivo è un film che riporta in auge l’elemento del ricordo, unendolo al soprannaturale. Ritorno al silenzio Tra il 1977 e il 1978 Mauro Mingardi girò Ritorno al silenzio, pellicola misteriosa dalle atmosfere tetre. Il film venne fatto circolare nei festival riscuotendo un certo successo, e vinse anche il “Fotogramma d’argento” al Festival di Cattolica del 1980. Il vero protagonista, nel film, è il passato che ricompare, un passato molto remoto che ritorna nella vita dell’attore protagonista per mezzo di una lettera. Il protagonista è un professore di latino che, una sera, trova una curiosa lettera nella buchetta. Nella lettera l’uomo trova la classica foto di classe, con gli studenti tutti infila fotografati frontalmente. C’è anche dell’altro nella busta, un foglio bianco che riscaldato al calore del fuoco fa venir fuori una 28

Il "virgolone” è un complesso residenziale del quartiere Pilastro di Bologna che fu inaugurato nel 1976, anno precedente alla realizzazione del film. Per approfondimenti sul virgolone vedi Vieri Quilici, Armando Sichenze, Costruttori di architetture. Bologna 1960-1980, Officina, Roma, 1985.

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sorta di codice cifrato. Decifrato il codice, l’uomo capisce chi è che gli invia la lettera, una sua compagna di classe con cui era stato intimo, e comprende pure che la ragazza gli ha dato un appuntamento. Raggiunto il luogo dell’appuntamento l’uomo subisce una forte delusione perché, pure avendo trovato la tavola apparecchiata con le candele accese, nella casa non c’è nessuno. Dopo che l’uomo è andato via amareggiato, la cinepresa si trasforma in un mezzo a vantaggio dello spettatore in quanto ci conduce li dove lo sguardo dell’uomo e la sua conoscenza non sono arrivati. Vediamo un stanza polverosa e l’occhio della macchina da presa ci avvicina a poco a poco a quella che sembra una figura china su un tavolo. Un dettaglio sulla mano ci mostra che quella è la mano rattrappita di un morto, sotto la mano vecchie foto scolastiche. A cosa abbiamo assistito? Una sorta di squarcio temporale in cui il passato si è imposto sul presente, forse. O magari l’uomo ha sognato tutto. Il film ci lascia con delle domande, ma non ci fornisce risposte, e forse il suo fascino sta proprio nell’essere criptico, nel non fornire segnali utili per decifrare definitivamente la vicenda, come invece era stato per altri film in cui le sequenze oniriche, o irreali erano comunque segnalate da flashback o stati di dormiveglia o stati di sogno lucido. Vita di artista Arriviamo così al 1981, anno della realizzazione di quello che da molti estimatori di Mauro Mingardi è definito come il capolavoro assoluto, grande per originalità, per fantasia scenografica, per la bravura del protagonista, l’amico e collaboratore principale Mauro Bonifacino. Il film in questione è Vita di artista e vinse il 1° Premio al festival Internazionale di Castrocaro e il 1° premio Festival di Cattolica del 1984. La colonna sonora principale è quella del film di John

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Carpenter 1997: fuga da New York, scelta in quanto il ritmo di fondo piaceva molto a Mingardi poiché scandiva bene il tempo. La pellicola ha come protagonista un personaggio davvero curioso, un serial killer dallo spiccato gusto estetico. Il prologo da il via al film con una presentazione di Cesare Lombroso e delle sue piuttosto bizzarre teorie sui profili criminali. Dopo una breve disquisizione sui cordai appare finalmente il protagonista del film che ci viene presentato come un assassino con il gusto per la poesia. Un assassino che cerca di mettere in atto delitti a partire da una certa ricerca estetica. L’uomo di volta in volta crea anche un vero e proprio archivio dei delitti compiuti. I delitti vengono studiati nei minimi dettagli diventando, passo passo, sempre più fantasiosi e perversi. L’apoteosi del delitto l’uomo la raggiunge quando decide di mettere in scena il proprio suicidio, offrendolo, come egli stesso dice, “gratuitamente” a un pubblico che con ogni probabilità non riuscirà a comprenderlo fino in fondo. Vita di artista è stato amato da molti per la sardonica interpretazione di Bonifacino e per la grande creatività di Mingardi, ma è stato anche considerato troppo macabro da altri. Di certo, non è un film che si dimentica facilmente. Il film è suddiviso in scene distinte che rappresentano ognuna l’ideazione e realizzazione di un delitto diverso. Il tutto è racchiuso all’interno di una cornice in cui il protagonista ci spiega come si costruisce una corda resistente. Alla fine del film capiamo che la corda servirà a mettere in scena il proprio suicidio, l’uomo si impiccherà lanciandosi nel vuoto dalla terrazza di un palazzo, sembrerebbe, tra l’indifferenza generale. Moltissimi sono gli aneddoti e le notizie curiose che Mauro Bonifacino racconta spesso riguardanti questo film, molti dei quali davvero divertenti. Le affronteremo dopo nella sezione che riguarda l’aspetto artigianale del lavoro dell’autore. Il

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film viene ancora oggi proiettato in diversi momenti, come è stato nel 2009 all’Istituto Storico Parri in occasione di Archvio Aperto, organizzato dall’Archivio Nazionale del film di famiglia. Nel novembre 2009 l’Archivio dedicò una retrospettiva all’autore, venuto a mancare da pochi mesi, nel corso del quale proiettò, come film simbolo, proprio Vita di artista. Nel dicembre scorso, anche il Festival del super8 di Milano lo ha proiettato. Gli usignoli di Rellastab Il film successivo del 1984 è Gli usignoli di Rellstab. Film inquietante, che ripercorre la tematica del precedente Ritorno al silenzio, vinse un meritato premio, il “Fotogramma d’oro” al Festival di Castrocaro del 1985. Dal colloquio con la giornalista e amica Giuliana Pederzoli, che incita Mingardi a spiegare perché la protagonista sia in realtà la propria casa, apprendiamo qualche notizia relativa al film: In questo film [la casa] è qualcosa di più della protagonista, è l’evocazione dei fantasmi del passato: la casa come luogo di memoria. C’è in questo film una caccia al tesoro attraverso il testo che Ludvig Rellstab ha scritto per un lied di Schubert. Il protagonista, guidato dal fantasma dei propri nonni (o dal fantasma della sua stessa infanzia), arriva sino alle radici dell’essenza stessa della vita:la propria nullità nell’oblio della morte ed il riscatto nella speranza della memoria di coloro che sopravvivono. Ma è anche una “ghost-story” e può essere goduta a questo più semplice livello di lettura29.

Il film è stato interamente girato a casa Mingardi, gli spazi della quale sono davvero stati sfruttati al massimo. La casa, 29

Giuliana Pederzoli, Il Maker. Conversazioni con l’autore. Cineclub, Edito dalla federazione italiana dei cineclub, n. 12, Bologna, 1991

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poi, è davvero un set cinematografico naturale30 e si presta molto bene a una ambientazione così enigmatica. Curiose anche qui alcune arguzie tecniche che utilizzano molto bene la disposizione delle stanze. In una scena vediamo un movimento di macchina, una panoramica per l’esattezza, che segue il protagonista da una stanza all’altra. La ripresa è fluida ma prevedrebbe l’uso di un dolly31, cosa impossibile per le finanze di Mingardi. Come è stata realizzata la sequenza lo scopriremo dopo nella sezione relativa alla bravura registica dell’autore. Sempre a proposito della casa di Mingardi ha scritto anche il giornalista Romano Zanarini: Storia che nasce da uno di quei testi che Ludwig Rellstab scriveva per i «lieder» di Schubert, molla di una «detection» che si sviluppa negli spazi di casa Mingardi organizzati come altrettanti livelli di fiaba (la cantina, il solaio, la stanza da letto, le scale, il giardino)32.

La casa quindi, da luogo di protezione, rifugio, si trasforma in luogo cupo, pieno di interrogativi, pieno di fantasmi. Ad un dato momento infatti la moglie e il figlio del protagonista decideranno di andare via. L’uomo invece sceglierà di rimanere e quindi, allo stesso tempo, la casa diviene il mezzo tramite il quale ricongiungersi con il proprio passato, con i propri cari. Il veicolo attraverso cui qui la memoria si

30

Migardi ha spesso ceduto la propria casa per dei set cinematografici. Il set di cui parla Mingardi nell’intervista con Giuliana Pederzoli è quello di La lampada di Wood di Lavinia Capogna, figlia d’arte del regista Sergio Capogna. 31 Piccola gru montata su carrello che consente di pilotare agevolmente la macchina da presa montata su di essa. Utile per panoramiche dall’alto. 32 Romano Zanarini, Il cinema di Mauro Mingardi, in AA.VV., Contemporanea. Catalogo della Biennale di Arte Filosofia e Spettacolo, Bologna, Fabbri Editori, 1986.

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concretizza è proprio la casa. In questo film la memoria, sotto forma di oggetti che ritornano dal passato, per poi portare alla fine, anche alla ricomparsa di persone in carne e ossa (lascia intendere ciò la didascalia che chiude il film) prende forma a poco a poco, in un gioco di ricerche, scoperte, macchinazioni varie. Tutto ciò che Mingardi utilizza nel film è legato strettamente all’autore, a partire dalla location, al cane Dolfus, fino ad arrivare alla presenza del figlio, che interpreta il bambino figlio del protagonista. In questo film abbiamo quindi il massimo del discorso autobiografico, Mingardi, di fatto, mette in scena la propria vita, e per far ciò utilizza quanto ha di più caro, la propria famiglia, la propria dimora. Molto suggestiva la didascalia che chiude il film che ben riassume quel che abbiamo detto sopra: I suoi nonni furono i primi a tornare, poi piano piano, senza troppo scalpore, ritornarono tutti nelle loro case, accolti dai loro cari, e finalmente tutto ritornò come era stato una volta33.

Il fiore tra le rovine Il film successivo, Il fiore tra le rovine, è del 1988 ed è liberamente ispirato a L'ABC della cattiveria. Dal dispetto alla crudeltà, dell’amico e collaboratore Sandro Toni, che del film ha curato anche i dialoghi. E’ la storia di due cugini, uno cieco e uno paralitico che pur abitando insieme, si odiano molto. I due cugini non perdono occasione per fare dispetti e ripicche l’un l’altro. Quando decidono di prendere una domestica le cose cambiano. Pur continuando ad odiarsi i due cugini adesso sono distratti dalla giovane donna, sordomuta, che sbriga loro le faccende domestiche. La donna è molto 33

Frase conclusiva del film, che spiega l’epilogo della vicenda narrata.

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furba e capisce subito che potrebbe sfruttare l’occasione a suo favore, così mette i due cugini nuovamente uno contro l’altro e li fa sfidare a duello. Il duello però è un espediente per togliersi di mezzo i due uomini e potersi godere la casa tranquillamente in solitaria. Questo, è l’unico film dichiaratamene dal soggetto non originale. Anche in un film del genere, però, Mingardi ha saputo mettere del suo, le atmosfere grottesche infatti, per coloro che conoscono i suoi film, sono pienamente riconoscibili. I due attori principali poi, sono due volti noti: Roberto Passini e Giancarlo Cuccolini, il primo interprete dei vari film appartenenti al filone sulla memoria, l’altro interprete di alcuni dei primi interessanti film come Diario d’autunno o Alla ricerca dell’impossibile. Nell’intervista rilasciata da Mingardi alla giornalista Giuliana Pederzoli, l’autore spiega il perché abbia scelto questo racconto di Sandro Toni e quali sensazioni e tematiche ha cercato di affrontare con questo film:

[…] è costante la presenza della difficoltà di stabilire un rapporto sentimentale […] in chiave più grottesca […] ho tentato di rappresentare quanto ci sia di patetico nella ricerca di completare se stessi in un’altra persona idealizzata. Se l’amore, come spesso accade, è un prodotto dell’egoismo o soltanto paura della solitudine, non resta altro ai miei personaggi che morire tragicamente o addormentarsi cullati34 da una ninna-nanna, regredendo nell’infanzia che mai avrebbero voluto abbandonare35.

34

Qui Mingardi fa riferimento al suo successivo film Amore e cuore non fanno più rima. 35 Giuliana Pederzoli, Il Maker. Conversazioni con l’autore. «Cineclub», Edito dalla federazione italiana dei cineclub, n. 12, Bologna, Poligrafici Editoriale S. p. A., dicembre 1991, pp. 5 - 10.

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Da queste parole si evincono con molta chiarezza le motivazioni addotte da Mingardi per la scelta di questo racconto. E’ altresì evidente che l’autore abbia visto nel racconto determinate potenzialità atte a divenire mezzo per parlare delle vicissitudini legate ai sentimenti, tematica cara a Mingardi. Il film è ben riuscito, la trama è facilmente comprensibile e il montaggio invisibile favorisce la lettura del film. In un articolo del Resto del Carlino, tuttavia, il giornalista chiede all’autore come giustifichi la presunta “letterarietà” avanzata da qualcuno dopo aver visto il film, Mingardi risponde: Sai, la gente raramente capisce qualcosa di cinema, figurati cosa può capire di strutture sfuggenti come sceneggiature e dialoghi. E’ straordinario, se ci pensi: nei film neorealisti i dialoghi sembravano scritti da autori del Settecento e nessuno si è mai sognato di sottolineare la loro distanza dalle immagini. Quando il dialogo ha cominciato a essere veramente realista, cioè con Pasolini, tutti si sono lamentati della loro “volgarità”. Ti par possibile? I dialoghi del Fiore tra le rovine erano perfetti, nel senso che erano adeguati alla storia e la storia era di tipo favolistica, comico-sureale. Andavano benissimo36.

Questo frammento di articolo giornalistico risulta assai interessante per capire lo spirito e l’estrema consapevolezza dell’autore nei confronti delle proprie opere. E’ anche molto interessante notare come Mingardi non perdesse occasione per mostrare anche la sua estrema conoscenza del cinema, e delle prerogative di ogni autore suo contemporaneo.

36

[anonim. ] Uno spazio per il cinema indipendente. Non solo Bologna. «Il resto del Carlino-Supplemento», n. 4, Bologna Poligrafici Editoriale S. p. A. , 1989, p. 46.

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Amore e cuore non fanno più rima Questo e il precedente film si legano tra loro idealmente, grazie alla tematica comune. In entrambi viene trattato il tema della difficoltà di stabilire relazioni durature e soddisfacenti. Il film in questione, dal titolo emblematico, si chiama Amore e cuore non fanno più rima del 1990 ed è l’ultimo film in pellicola dell’autore. In questo film si intrecciano, in una sala d’attesa anonima, le storie di due uomini delusi dai rispettivi rapporti d’amore. Il film inizia col racconto di uno dei due e mostra quindi subito una caratteristica strutturale singolare. L’incipit del film è quindi un flashback che continuerà, dopo una prima presentazione dei due uomini, innestato dal racconto di uno dei due. La dinamica di relazione de due uomini è quella di due confidenti che si analizzano l’un l’altro. Quando il secondo uomo inizia a raccontare le sue molteplici esperienze inappaganti, il ritmo del film diviene più incalzante, viene reso più scorrevole. I due uomini, in sostanza, lamentano la difficoltà di trovare l’amore puro e duraturo, e imputano questa difficoltà alla incapacità delle donne di trovare interessi comuni, che vadano oltre il semplice rapporto sessuale. Tenendo in considerazione in che modo il film ha fine, è chiaro che in realtà la critica di Mingardi non sia da riferire solo alla donna, l’autore non attribuisce colpe a nessuna delle parti, ma fa una analisi sulla precarietà dei sentimenti. Quando gli viene contestato un certo maschilismo l’autore e l’attrice Claudia Benuzzi rispondono prontamente: Claudia Benuzzi: Penso che il maschilismo non c’entri niente con il film. C’è solo un personaggio patetico che cerca una donna che non esiste, che vive in un mondo suo, che non accetta le donne come sono. Mauro Mingardi: A me pare solo una visione tragica

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dell’amore, in cui non si sa mai niente, perché uno lascia l’altro, perché finisce una storia…E’ una visione della realtà, nient’altro37.

Interessanti alcuni espedienti per legare passato e presente, come un finto piano sequenza che va dal generale, i due amanti che passeggiano sulla spiaggia, al particolare, i piedi della donna che giace sul letto insieme al suo uomo. Amore e cuore non fanno più rima è un film in cui gli attori possiedono una importanza senza dubbio maggiore rispetto ai precedenti film, qui sono presenti molti dialoghi e monologhi, i dialoghi stessi hanno una lunghezza maggiore rispetto ai dialoghi degli altri film. Anche in questo film c’è una attenzione particolare per i dialoghi che sono curati da Sandro Toni. In una intervista rilasciata da Mingardi per uno Speciale della FEDIC sulla rassegna cinema di Valdarno, viene chiesto dall’intervistatore all’autore se ha trovato difficoltà a lavorare con attori professionisti:

Il problema era di riuscire ad amalgamare gli attori professionisti con i non professionisti. Per questo abbiamo dovuto spesso ricorrere alla tecnica della battuta suggerita pressoché in diretta, mentre i professionisti non ne avevano bisogno. Io credo che un bravo attore di teatro possa benissimo fare del cinema […], mentre non è sempre vero il contrario38.

37

ibidem. Mauro Mingardi, in in AA.VV., Catalogo del Festival di Valdarno Cinema FEDIC, S. Giovanni Valdarno, Federazione Italiana dei Cine Club Roma, 1992. 38

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La differenza tra attori professionisti e attori “improvvisati” non è così pregnante, non rallenta il film, non disturba lo spettatore; in questo senso Mauro Mingardi ha dimostrato anche una estrema bravura e sensibilità nella direzione degli attori, riuscendo a metterli a proprio agio e comprendendo appieno le modalità diverse necessarie di rapportarsi con persone comunque diverse tra loro.

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2. 3. Dal video al digitale. Le perplessità.

Dal 1990 in poi Mauro Mingardi iniziò ad avere seri problemi nel rinvenimento della pellicola doppio super8 che stava lentamente scomparendo, prima ancora degli altri formati. Girare in super8, poi stava diventando più complicato in quanto, anche nei festival, per alleggerire costi di acquisizione e proiezione, sempre più spesso veniva richiesto il più maneggevole nastro magnetico del vhs. La storia filmica di Mauro Mingardi subisce quindi un rallentamento. Mingardi manifesta diverse perplessità nei riguardi del video rispetto alla pellicola. In una intervista rilasciata alla giornalista Giuliana Pederzoli, alla sua domanda sul perché non passare al video, Mingardi esprime così dubbi e incertezze dell’utilizzo del nastro magnetico:

Tutti i motivi pratici mi dovrebbero portare in questa direzione. Oltre ai precedenti si deve aggiungere la sempre maggiore difficoltà di reperire la pellicola super8 (il bianco e nero in Italia è scomparso da anni), i laboratori di sviluppo e stampa sono sempre meno numerosi, i ricambi per i proiettori e per la mia fedele Canon sono quasi introvabili, tuttavia la conversione (o meglio la resa) all’elettronica comporta anche una modifica dello stile del prodotto finale. Il montaggio non può più essere così serrato come su pellicola e il sonoro necessita, per motivi di sincrono, di una dilatazione del “taglio” dell’immagine (almeno al livello di spesa in cui mi dovrei muovere). Bisogna allora pensare ad una organizzazione in piani- sequenza in cui i personaggi vengono circuiti, avviluppati dalla telecamera ricreando tutti

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quei piani di ripresa che in pellicola ci vengono riproposti dal montaggio. […] Quante volte, terminata una ripresa, ho desiderato vedere subito come era venuta e quale resa si era riusciti a trasferire: il video lo consentirebbe. E’ certo che l’emozione, unica ed ogni volta ripetibile, di ritornare dal laboratorio di sviluppo con la bobina sotto il braccio, accendere il proiettore e vedere con trepidazione le immagini che ho catturato sulla pellicola e che non mi sfumeranno più, sarebbe perduta per sempre39.

Le motivazioni che Mingardi apporta sono dunque di carattere tecnico ma anche emozionale. In sostanza le difficoltà nel recuperare la pellicola e nel riorganizzare il proprio modo di concepire e fare il cinema portarono l’autore a una sostanziale sfiducia nel mezzo, che poteva anche nascondere la classica diffidenza iniziale che può avere chiunque abbia dimestichezza con un determinato mezzo. E’ interessante notare qualcosa che a noi, oggi, sembra naturale: per Mingardi il cambio di mezzo significava anche un cambiamento del modo di realizzare un film e l’autore vedeva nella difficoltà di montaggio un limite del nuovo mezzo. Eppure già a metà degli anni ’80 e per gran parte degli anni ’90, il montaggio, se non con macchine professionali,

in

casa

veniva

realizzato

con

il

videoregistratore, collegando questo alla videocamera, e si trattava ancora di montaggio lineare. Probabilmente l’autore, avendo estrema padronanza della pellicola e del suo trattamento in fase di montaggio, considerava talmente sminuente un montaggio del tipo appena descritto, da non 39

Giuliana Pederzoli, Il Maker. Conversazioni con l’autore, «Cineclub», Edito dalla federazione italiana dei cineclub, n. 12, Bologna, Poligrafici Editoriale S. p. A., dicembre 1991, pp. 5 - 10.

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prenderlo neanche in considerazione. Molto suggestiva la parte dell’intervista in cui l’autore descrive la trepidazione dell’attesa per i tempi di sviluppo. E’ interessante vedere come dalle parole usate da Mingardi per descrivere queste attese che, utilizzando il video sarebbero perdute, si evince uno degli stati d’animo più comuni nei film dell’autore: la nostalgia per il passato, e per ciò che potrebbe non tornare più. Negli anni novanta e duemila Mingardi produrrà pochi altri lavori, tra i quali però spiccano due film: un documentario del 2002, La partecipazione della mia famiglia alla 2°guerra mondiale, e l’ultimo suo film, questo di finzione, del 2008, L’uomo che contava i passi. La partecipazione della mia famiglia alla 2° guerra mondiale Il documentario in questione appare più come una sorta di sperimentazione. Mingardi si era già in passato occupato di documentari, ma solo su commissione. Questo documentario ripercorre i periodi di vita di lui bambino e la sua famiglia avuti luogo mentre l’Italia era in guerra. Il film inizia con l’autore che si rivolge direttamente allo spettatore attraverso uno sguardo in camera. Mingardi si trova seduto a tavola con la sorella, la madre e il padre e spiega, mostrando un tortellino, la difficoltà di reperire la pasta durante i periodi della guerra. Seguono anche gli interventi degli altri familiari che raccontano di quando furono costretti a scappare sulle montagne per rifugiarsi. La famiglia Mingardi si recò allora a Mongardino, comune di Sasso Marconi, e abitò per qualche tempo in una casa nella quale c’era un rifugio sotterraneo in cui

la

famiglia

si

andava

a

richiudere

durante

i

bombardamenti. Mingardi spiega il periodo che ha vissuto anche attraverso l’uso di un repertorio fotografico familiare, e si reca nuovamente a Mongardino per constatare le differenze

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che il tempo ha portato. Di particolare interesse storico è la sequenza in cui il padre di Mingardi disegna la piantina del rifugio in cui si nascondevano e spiega come erano distribuiti gli spazi, come venivano gestiti dal nucleo di coabitanti (con i Mingardi anche altre persone usufruivano del rifugio). Degno di attenzione anche l’ausilio del repertorio epistolare della famiglia, composto da lettere che venivano inviate dai piccoli Adriana a Mauro Mingardi ai nonni a Bologna e viceversa. L’autore mostra pure un maglioncino, formato da tanti pezzi diversi di maglia riassemblati, per dare il senso della precarietà del periodo, delle enormi difficoltà economiche. Il documentario si chiude con una foto che riunisce la famiglia Mingardi al completo. Il documentario certamente è stato realizzato più per fissare su nastro una parte del proprio patrimonio di ricordi familiari, che per essere mostrato a un pubblico diverso dai parenti e amici. Eppure, anche allo spettatore sconosciuto, riesce a comunicare l’urgenza di parlare di fatti importanti per l’autore, e questo non può che coinvolgere chi guarda. Inoltre c’è anche una serie di elementi di una certa rilevanza storica, elementi che non rappresentano solo il ricordo personale di una famiglia, ma anche il passato di tante famiglie in simili condizione e dopotutto anche il passato di una intera città. L’uomo che contava i passi L’uomo che contava i passi è l’ultimo film dell’autore, del 2008. Primo e ultimo film in digitale dell’autore, è stato proiettato nel corso di varie rassegne, delle quali una nella cineteca di Bologna, e una nel corso di “Archivio Aperto” organizzato da Home Movies – Archivio nazionale del film di famiglia. Il film, realizzato in digitale, è narrato in prima persona dall’autore stesso, doppiato dall’attore Umberto Bortolani, che racconta di come avesse da molto tempo la smania di contare i passi che soleva percorrere, per capire

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quali fossero le distanze che lo separavano dai luoghi della sua quotidianità. Il regista racconta di come da giovane, anziché contare i passi, per conseguire lo stesso risultato utilizzasse i confetti di menta. Li lasciava sciogliere in bocca e ogni confetto sciolto indicava una unità di misura e di tempo. Il ruolo del confetto allora sostituiva il conteggio dei passi. Anche il tempo dell’amore era scandito dallo scioglimento dei confetti. Il film infatti parla sostanzialmente di una storia d’amore mai del tutto sviluppatasi, tra l’autore e una donna di nome Paola. Passato e presente si alternano e si sovrappongono. Il ricordo si innesca attraverso luoghi, oggetti, parole. Per interpretare se stesso da giovane l’autore ha scelto suo figlio, la cui somiglianza col padre è indiscutibile. Il gioco di sovrapposizioni così risulta molto convincente anche in virtù di questa somiglianza. La storia d’amore, purtroppo, non è a lieto fine. L’ultima sequenza del film vede, infatti, Mauro Mingardi, davanti a un loculo di cimitero, depositare un fiore sulla tomba. Intravediamo un nome sul loculo: Paola, la stessa Paola delle immagini fotografiche inserite in coda al film; dopo questa scena infatti, l’autore inserisce diverse fotografie, bellissimi primi piani e ritratti della donna, suggestive sequenze di backstage di lavorazioni di precedenti film, delle quali la protagonista indiscussa è sempre la giovane donna. Film estremamente autobiografico questo, in cui il ricordo torna prepotentemente nel presente portando con se tutta la malinconia e nostalgia per l’impossibilità di riviverlo. La memoria qui si concretizza inizialmente nei luoghi cari all’autore, strade, percorsi, negozi, nella possibilità di riviverli, sebbene in modo diverso. Poi il passato diventa nostalgia per qualcosa che non può più essere rivissuto e si concretizza nella giovane donna della immagini, portando nel presente un senso di rimpianto per ciò che non può più essere

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attualizzato. Nonostante le titubanze evidenziate più volte da Mauro Mingardi nei confronti dei supporti diversi dalla pellicola, qui l’autore è riuscito perfettamente a sfruttare il mezzo digitale al massimo. Anche il montaggio, sebbene non più lineare, è molto ben sfruttato, soprattutto quando l’intento è sovrapporre passato e presente in un gioco di dissolvenze incrociate che bene favorisce il gioco dell’immedesimazione. Molto

belle

ed

emblematiche

di

tutto

il

discorso

sull’elaborazione del ricordo personale sono due frasi, una pronunciata dall’autore nelle fasi iniziali del film e l’altra alla fine. La prima frase viene detta dall’autore nella sequenza in cui spiega il suo vizio di contare i passi: «Da prima mi interessava di conoscere la distanza da casa mia fino al ponte di via Libia o l’edicola dei giornali. Adesso mi basta contare, ed è solo una mania». L’autore sorride mentre pronuncia le ultime parole, e lo fa rivolgendo lo sguardo lontano, in un fuori campo che sembra già contemplare il passato. Lo sguardo fuori campo innesca il flashbak, e nella scena successiva vediamo entrare dal fuori campo Mingardi da giovane (iterpretato dal figlio Lorenzo). Così il meccanismo del raccordo presente/passato è reso in maniera ottimale. Alla fine del film troviamo la seconda frase che innesca il ricordo, stavolta reso tramite il repertorio. Mingardi davanti al loculo del cimitero pronuncia questa frase: «[…]ritrovo il fiore secco dell’anno precedente e lo sostituisco con un fiore fresco, tutti gli anni. E’ triste perché significa che non viene nessuno su questa tomba». La sequenza finisce e c’è un buco nero durante il quale Mingardi, continuando il discorso precedente, pronuncia queste parole: «Per me è meglio se non viene nessuno, vuol dire in qualche modo che lei è solo mia40». Ritorna il ricordo, prima nella forma di foto 40

La frase conclusiva di L’uomo che contava i passi esprime lo spirito con cui

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scolastiche in cui si intravede una giovane ragazza, poi nella forma di riprese in 8mm, fotogrammi singoli e fotografie che ritraggono la ragazza che adesso è una giovane donna. Possiamo intravedere in questo film una sorta di commiato dal ricordo personale. E’ evidente, qui, il senso di nostalgia che pervade il film e la scena finale al cimitero, in qualche modo, sembra seppellire pure il ricordo, in una sorta di allontanamento rassegnato. Tuttavia, questa interpretazione potrebbe anche essere estranea al film, viziata, forse, dalla prematura scomparsa dell’autore, l’anno successivo.

l’autore ha girato il film. Il fiore che di anno in anno l’autore porta sulla tomba rende vivo il ricordo, in qualche modo è come se lo facesse vivere. Il fiore diventa quindi il simbolo stesso del ricordo, che ogni anno viene celebrato.

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3. Caratteristiche del cinema di Mauro Mingardi

Il cinema di Mauro Mingardi ha attraversato quasi cinquanta anni di storia bolognese, catalizzando e facendosi influenzare dal territorio autoctono ma anche dal cinema internazionale. Nelle pellicole del filmmaker non è facile trovare un vero e proprio filo conduttore stilistico ma viceversa sono riscontrabili diversi soggetti e tematiche frequenti che ricorrono negli anni. Un’altra costante riscontrabile nella cinematografia dell’autore è sicuramente l’aspetto artgianale della realizzazione dei suoi film, dalle scenografie agli espedienti tecnici. Passeremo adesso a elencare e analizzare le tematiche ridontanti riscontrabili in un folto gruppo di film dell’autore. Cercheremo di individuare, in questi temi, segni evidenti dai quali siano distinguibili e confrontabili le caratteristiche identitarie del regista. Passeremo poi in rassegna tutti i film nei quali l’interevento esperto del regista sia stato risolutivo di problemi tecnici. L’aspetto “artigianale” verrà quindi messo in evidenza proprio per sottolineare in che modo alcuni limiti del cinema amatoriale siano stati superati dalla esperienza e creatività dell’autore.

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3. 2. I concetti e i topoi ricorrenti.

Affronteremo adesso una sezione dedicata alle idee e ai modi di rappresentarle tipici del cinema di Mauro Mingardi. Uno dei topoi fondamentali, che percorre davvero tutta la cinematografia di Mingardi dalle primissime pellicole fino ad arrivare all’ultimo film L’uomo che contava i passi, è la rappresentazione

del

concetto

di

memoria.

Memoria

personale, ricordo intimo e privato, di persone e gesti dell’infanzia e della giovinezza dell’autore. Poiché il concetto di memoria è stato variamente e largamente affrontato da moltissimi studiosi, per la nostra ricerca ci rifaremo ad alcuni specifici riferimenti etimologici. Una descrizione generica del lemma può essere questa:

Memoria: Funzione psichica complessa che attraverso i processi di fissazione, ritenzione, richiamo e riconoscimento permette la riproduzione mentale di impressioni, nozioni, esperienze e comportamenti della vita passata i quali in tale modo diventano elementi integranti e dinamici della personalità e rendono possibile l’attività psichica41.

Questa definizione descrive dunque il vero e proprio processo di memorizzazione, nell’accezione anche di ricordo di qualcosa che è stato precedentemente fissato nella mente. Non risulta soddisfacente però per la nostra indagine, quindi andando ad approfondire le altre specifiche del lemma 41

Salvatore Battaglia, Memoria in Grande dizionario della lingua italiana, vol. 11 1.0, Unione tipografico - editrice Torinese, Torino, 1975, pag. 46.

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troviamo altre descrizioni che sembrano più calzanti, che meglio si adattano al concetto di memoria presente in Mingardi. Al punto tre troviamo:

Rappresentazione mentale di immagini, nozioni, persone avvenimenti;

ricordo,

reminiscenza,

rievocazione,

rimembranza (e anche l’atto di ricordare) - in senso concreto: ciò che forma oggetto di ricordo42.

In questa descrizione troviamo un fattore che forse può aiutarci a capire come si struttura in Mingardi il concetto di memoria.

L’oggetto

di

ricordo

infatti

è

proprio

quell’elemento che l’autore mette in scena. Attraverso la concretizzazione dell’oggetto di ricordo Mingardi organizza la narrazione, facendo divenire l’oggetto di volta in volta o il perno del racconto, o il fine. Procedendo con la lettura del dizionario individuiamo un'altra soluzione che sembra poter spiegare il ruolo dell’oggetto filmico nella strutturazione del concetto di memoria. Al punto nove infatti si legge:

Narrazione di avvenimenti degni di menzione; cronaca, diario, storia. – Opera in cui sono riferiti e giudicati avvenimenti particolarmente memorabili dei quali l’autore è stato protagonista o testimone; scritto autobiografico. 43

I film di Mingardi che ripercorrono la sua storia passata sul filo della memoria possono essere considerati scritti

42 43

Ivi, pag. 47. Ivi, pag. 48

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autobiografici. Il concetto di memoria in Mingardi quindi si struttura a partire dall’atto del ricordare; prende forma nell’oggetto del ricordo e si concretizza nella pellicola autobiografica. Laddove vengono identificati dei termini che si legano al concetto di memoria che sono: “annotare”, “registrare”, “citare”, “narrare”, troviamo un interessante esempio nella realtà quotidiana dell’autore. Mingardi era solito, sin da giovanissimo, annotare su dei piccoli taccuini le parti interessanti della giornata. Ogni singolo incontro, ogni pensiero, ogni azione fatta nel corso della giornata diventava elemento da appuntare sul taccuino. Probabilmente lo stesso atteggiamento è stato trasferito nell’oggetto filmico con risultati ovviamente meno pragmatici ma sicuramente più poetici, grazie anche allo specifico linguaggio del dispositivo filmico. Passiamo adesso ad analizzare i film che affrontano il tema del ricordo legato indissolubilmente al senso di nostalgia che segue a questo. Per quanto riguarda i primissimi film, possiamo individuare il primo esperimento sul modo di rappresentare la memoria personale in Resistenza del 1962. Qui vediamo il tentativo di approfondire un tipo di memoria differente rispetto ai modi successivi di trattare l’argomento. Il periodo storico, ben specifico, si evince sin dal titolo. Una memoria collettiva, qui, viene evidenziata. Potremmo definirla anche memoria storica, che non narra fatti comprovabili, ma narra la storia individuale del singolo, inserita in un contesto storicamente riconoscibile, in quanto tratta l’argomento dal punto di vista di un partigiano che tenta di sfuggire ad un nazista e al contempo

organizza

una

rappresaglia

per

il

giorno

successivo. Anche Diario d’autunno, dello stesso anno, riguarda lo stesso ambito del ricordo. Qui siamo nell’immediato

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dopoguerra, e il ricordo del periodo di carestia viene a concretizzarsi nelle vicende di un uomo che cerca occupazione senza trovarla. Bellissime le immagini di contesto di una Bologna antica, lontana. In entrambi i film non è ancora evidente alcun sentimento di nostalgia, sensazione che verrà fuori nelle pellicole di carattere più personale. La fossa è un altro dei primi film in cui viene preso in considerazione un periodo storico riconoscibile, quello dell’occupazione nazista. A indicarcelo è proprio l’attore in tenuta da nazista e la scritta tedesca finale Abort che in italiano vuol dire “latrina”. Bologna è sempre presente nei film di Mingardi e a volte anche riconoscibile, perlomeno quando il suo aspetto non è stato del tutto riformulato. E’ questo il caso di Una mattina film del 1967 in cui viene ripreso il tema delle lotte partigiane. Mingardi individua una ottima location per girare il film: l’attuale Parco XI settembre 2001, conosciuto come il parco della Cineteca. Luogo irriconoscibile adesso, ma perfetto come sito per le riprese, poiché a quel tempo ancora pieno di macerie in quanto punto strategico per i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Gli edifici sventrati portano tutto il peso della guerra ormai finita da anni, e la memoria legata a quei posti aiuta lo spettatore nello spirito del film. In questa pellicola si parla ancora di memoria storica, non individuale, bensì collettiva. Il ricordo personale diviene pregnante dagli anni ’70 in poi. Nelle pellicole di cui parleremo Mingardi sembra seguire un vero e proprio metodo di elaborazione e interpretazione del ricordo. E’ molto interessante notare come a livello registico le scelte dell’autore siano sempre molto indovinate. Mingardi riesce a “sfruttare” i propri ricordi ricontestualizzandoli per realizzare le trame dei suoi film, nel senso che l’autore è molto abile nel trovare un espediente narrativo e registico per

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innescare il flashback e quindi appuntare il ricordo. Il primo film in cui l’autore affronta il tema del ricordo personale è Il viaggio. Il protagonista, che, a bordo di una moto, sta per schiantarsi contro un muro, ritorna con la mente a un passato remoto, la sua infanzia. Ritorna indietro ai luoghi a se cari, ai bambini che lo hanno accompagnato nei giochi, ai vari tipi di giochi della sua infanzia. Lo vediamo anche giocare idealmente con quei bambini, quasi fosse tornato bambino anch’esso. L’elaborazione del ricordo qui assume un carattere intimo, personale. Mingardi inserisce anche delle fotografie familiari di se bambino con la sua famiglia, quasi egli stesso volesse recuperare quei ricordi, volesse riconciliarsi con questi. L’elemento autobiografico è un vero e proprio leit motiv della filmografia dell’autore. Molto repertorio familiare, in forma di pellicole o fotografie o ancora oggetti dell’infanzia, fumetti, è inserito nei film del cineamatore, il quale, attraverso il mezzo espressivo, ha sempre cercato di “annotare”, “registrare” il proprio passato nel significato che Salvatore Battaglia dà ai termini suddetti. La ricerca e la salvaguardia dei propri ricordi passa per l’elaborazione di questi attraverso la realizzazione dei film, e questo è estremamente ben reso. Anche Rapporto sentimentale è costruito allo stesso modo, qui il ricordo viene estrapolato da alcuni taccuini di proprietà dell’autore e ricontestualizzato per dar luogo al film. Il pretesto per innescare il ricordo è la presenza, nei taccuini, di una donna designata solamente tramite l’iniziale del nome L. Il protgonista è narrato da due voci off,

che tenatno di

ricostruire alcuni episodi della vita del protagonista defunto attraverso i taccuini. In questo film l’elemento autobiografico è rappresentato proprio dai taccuini che sono realmente stati compilato dall’autore del film in anni diversi della sua vita. L’elemento narrativo dunque è pretestuoso rispetto al motivo

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per cui è stato realizzato il film, che in sostanza, è il voler parlare e ricordare questa donna: L. Mutoscopio invece muove da altre motivazioni. Fondante anche qui la presenza del passato che ritorna in forma di ricordo, ma in rapporto di parità rispetto alla storia di finzione. Il protagonista, chiuso in una stanza, fa i conti con la propria esistenza, fa un bilancio della sua vita. Capisce che il continuo ritorno al passato non gli ha permesso di vivere appieno la vita. Qui l’autore sembra fare egli stesso una sorta di bilanzio su quanto sia utile andare continuamente con al mente al passato anziché guardare oltre e proseguire. Anche in questo film Mingardi inserisce l’elemento autobiografico, qui, in forma di filmato familiare in cui vediamo gli amici e la sorella Adriana festeggiare nella stessa stanza in cui è rinchiuso il protagonista del film. I morti di via Cirene, del 1975, va oltre e inserisce nel profilmico

un

elemento

di

connotazione

fortemente

autobiografica: una strada. La ex via Cirene, oggi via Francesco Sabatucci è un luogo fondamentale per la vita dell’autore. Qui, Mingardi ha vissuto parte della sua infanzia, moltissimi sono quindi i ricordi legati a questo luogo che conserva un fascino misterioso. In realtà, anche se nel film il legame si stabilisce con la via specifica, in Mingardi è evidente quanto il legame sia forte con tutto il suo quartiere: la cosiddetta Cirenaica. Da un dialogo con Sandro Toni e Mauro Bonifacino, amici e stretti collaboratori di Mauro Mingardi, viene fuori questo ritratto della Cirenaica, comune a tutti i suoi abitanti:

Sandro Toni: Una cosa che sarebbe un po’ da tener presente per i film di Mingardi, sarebbe l’idea di Cirenaica, cioè la Cirenaica è dove abita Mauro, era un quartiere che veniva

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chiamato così perché era nato alla fine dell’800, inizi del ‘900 e allora c’era l’avventura imperialista italiana in Africa, quel quartiere lì, siccome nasceva in quel periodo, tutti i nomi delle strade avevano nomi africani, della Libia. […] Quindi è un aquartiere che in realtà saranno venti strade in tutto, io abito a 100 m da Mauro, io ho sempre abitato li tranne per brevi periodi della mia vita, la sensazione che uno ha è una sensazione non stabilita da una geografia ma una sensazione interiore che però paradossalmente è uguale per tutti, cioè se per esempio uno va in fondo al ponte di via Bentivogli, adesso Bentivogli, allore Bengasi, finisce li la Cirenaica, se attraversa la strada non è più Cirenaica, però finchè sta li è Cirenaica. […] Quindi per esempio ecco via Cirene è in Cirenaica, adesso si chiama via Sabatucci. Ah poi c’era via Tripoli. Mauro Bonifacino: Poi hai visto che ha girato li, molti film partono da li o arrivano li. […] Ne I morti di via Cirene siamo sotto al ponte di via Libia quando lanciano gli americani, se ricordi, lanciavano le caramelle a quei bambini li. Sandro Toni: Quindi molti dei suoi film li ha ambientati se non completamente quantomeno ha sfruttato molti dei luoghi della Cirenaica, che lui conosceva bene, che erano in qualche modo entrati a far parte della sua identità44.

Le parole di Sandro Toni descrivono perfettamente le sensazioni che i film di Mingardi, ambientati nel suo quartiere, evocano. Dalle pellicole in questione traspare proprio il grande attaccamento con cui l’autore era legato a questi luoghi, e Mingardi riesce a trasmetterlo anche a chi non fa parte di quel quartiere. La storia narra gli oscuri aspetti che la via Cirene nascondeva. Qui suicidi, omicidi, giochi di 44

Frase tratta da un dialogo su Mauro Mingardi con i due amici e collaboratori Sandro Toni e Mauro Bonifacino.

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lotte tra bambini avevano avuto luogo e la via continuava a portare i segni di certe sofferenze. Il film racconta alcune delle vicende legate alla via, ricordi e fantasia si mescolano creando un clima in bilico tra dramma e thriller. Fascinazione, ma anche una sorta di avversione viene fuori dalle immagini di questo luogo, che fu ed è ancora teatro di sangue, se si pensa anche ai cadaveri degli animali che ignari rimangono uccisi poiché travolti al treno. Ritorno al silenzio è un film che presenta il ricordo avvolto, però, in un clima arcano e soprannaturale. Qui la vicenda si sviluppa oscuramente, avvolta da un’atmosfera di mistero che utilizza il ricordo come mezzo di unione tra un presente e un passato remoto e concluso che in modo inspiegabile si riuniscono. Qui è il passato che si rivolge al presente, cercando una riunione che però non può avvenire, perché c’è la morte di mezzo a creare un abisso tra i due spazi di tempo. E’ curioso qui che l’autore voglia renderci partecipi di qualcosa che il protagonista del film non saprà mai: per il protagonista il passato in qualche modo ritorna a vivere, in modo ambiguo, ma perlomeno riconoscibile. Per lo spettatore ciò che il protagonista vede è solo un’illusione. Il passato si è messo in comunicazione con il presente, ma ciò che vediamo insieme al protagonista è solo una sua proiezione mentale. Non può in realtà esistere un ritorno di ciò che non c’è più. Questa tesi, però, Mingardi sembra smontarla in un successivo film del 1984, Gli usignoli di Rellstab, in cui il concetto, o quantomeno l’esito, del ritorno del passato è invertito. In questo film il passato, sotto forma di simboli in un primo tempo e esseri viventi alla fine del film, riesce a tornare indietro realizzando una unione ideale di ricordi passati e vicini. Migardi sembra volerci dire che non si può sfuggire dal passato, lo si deve accettare, senza averne paura, con amore e fiducia.

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Gli ultimi due film in cui compare il leit motiv del ricordo sono La partecipazione della mia famiglia alla 2° guerra mondiale e L’uomo che contava i passi. La matrice di questi due film è chiaramente differente in quanto il primo film è di stampo documentaristico e il secondo è quasi una “docufiction”. Nel primo film viene narrato un passato remoto, l’infanzia del protagonista durante il periodo della guerra. Suggestive le narrazioni degli altri familiari che raccontano le vicissitudini della vita in tempi di guerra, cosa si poteva o non poteva mangiare, dove ci si rifugiava, come si passavo le giornate nel rifugio sotterraneo. L’ultimo film ripropone il ricordo sotto forma di flashback. La differenza sostanziale con i precedenti film dell’autore è che qui Mingardi racconta in

prima

persona,

e

narra

un

evento

totalmente

autobiografico, senza inserire un pretesto narrativo di finzione che inneschi la memoria. La storia è legata al ricordo di una persona, non più in vita, molto cara all’autore. Mingardi qui narra di come l’abbia conosciuta, del rapporto che li legava, della sua evoluzione. Per rafforzare la narrazione, l’autore inserisce in coda al film il repertorio in pellicola e fotografico di cui abbiamo precedentemente parlato. Il film risulta particolarmente suggestivo, anche perché per la prima volta il regista mette la sua persona a nudo, parla direttamente allo spettatore, svela le sue debolezze, i suoi sentimenti. L’autore non si smentisce, il film infatti inizia con l’autore che percorrendo le strade del suo quartiere narra della sua mania di contare i passi. Ancora una volta, dunque, la Cirenaica è, se non la protagonista, quantomeno un elemento fondamentale per innescare il ricordo. Affrontiamo adesso un altro degli elementi principali ricorrenti in alcuni film di Mauro Mingardi, la componente caricaturale, grottesca. Per far ciò ci affidiamo ancora una

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volta ad alcune definizioni etimologiche del termine “grottesco”. Nel significato attribuito alla parola nella definizione due troviamo:

Che si riferisce, che è proprio di quella categoria del comico la quale riunisce in tutte le manifestazioni artistiche le espressioni volte a suscitare il riso attraverso l’esasperazione dei caratteri (sia fisici sia morali) di perone, di oggetti, di situazioni, che ne risultano accentuatamente e a volte violentemente deformati e forzati in funzione di una polemica etica o anche di una autonoma rappresentazione del brutto, dell’orrido, del quotidiano, del bizzarro45.

Già in questa definizione troviamo una corrispondenza abbastanza evidente con le caratteristiche grottesche di alcuni personaggi o situazioni dei film di Mingardi. Andando a leggere un’altra definizione troviamo qualcosa di ancor più specifico:

Ciò che è paradossale o innaturale fino a raggiungere il ridicolo (e vi è spesso connessa una notazione di condanna morale); che ha un carattere di tragica comicità (una situazione, un atteggiamento, una descrizione ecc. )46.

In

questa

definizione

troviamo

qualcosa

di

molto

interessante, alorchè il grottesco viene collegato al ridicolo e nel far ciò lo si lega molto spesso a una notazione di

45

Salvatore Battaglia, Grottesco in Grande dizionario della lingua italiana, vol. 11 1.7, Torino, Unione tipografico - editrice Torinese, 1975, p. 77. 46 ibidem.

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“condanna morale”. I personaggi grotteschi di Mingardi rispondono esattamente a questa descrizione: sono essi ridicoli e non hanno un bello aspetto e questo dà loro anche una connotazione negativa legata però alla loro condotta morale, etica. Prendiamo ad esempio alcuni dei personaggi che popolano i film di Mingardi partendo dal primo film in cui l’autore si cimenta con una di queste figure. Andando per ordine cronologico troviamo La danza dei contatori. Il contesto è quello di allora, gli anni ’60. Eppure c’è un personaggio nel film che nulla ha a che vedere con quegli anni ma sembra venuto fuori dai primi anni del secolo, per il modo in cui è pettinato, per come è vestito. In più questo personaggio, sempre vestito di nero, è leggermente gobbo e va in giro avvolto da un mantello. Lo vediamo poi all’opera nell’atto di trafugare cadaveri e capiamo poi che con i pezzi dei cadaveri sottratti al cimitero, l’uomo sta cercando di ricostruire un altro uomo. Le sue intenzioni però si rivelano non molto positive allorché, scoperto dall’uomo del gas, tenterà di uccidere quest’ultimo che reagirà uccidendo a sua volta lo strano individuo, che si dissolverà lasciando una chiazza. Il contesto generale, dunque, non è quello di un film grottesco, ma lo strano personaggio in nero e le situazioni che attorno a lui ruotano lo sono senz’altro. E’ evidente che nell’aspetto grottesco dell’uomo è insita la condanna morale per ciò che quest’uomo sta cercando di fare, violare, cioè, le leggi della natura cercando egli stesso di ergersi a dio per creare un uomo a partire dalle povere membra di sconosciuti defunti. Anche La fossa racchiude in se degli elementi grotteschi, la situazione che si viene a delineare è di per se grottesca, anche se lo spettatore lo capirà alla fine. L’uomo che viene costretto a scavare una fossa, obbligato dal soldato nazista, per scoprire infine che la fosse che ha scavato non è la sua tomba

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ma solamente la latrina per i soldati è una situazione che di per se reca nello spettatore un riso amaro, scarica la tensione per un avvenimento facente parte di un contesto che solitamente nell’immaginario collettivo è vissuto come angoscioso e violento. Anche Il tempo nel muro narra una storia che nel suo evolversi avrà dei risvolti grotteschi. In questo film è ovviamente forte la presenza ispiratrice di Edgar Allan Poe, da cui, abbiamo detto, il film è influenzato. Interessante è vedere come Mingardi sappia rendere molto bene su pellicola le atmosfere grottesche proprie del libro. La vicenda assume risvolti bizzarri allorché il protagonista, dopo aver rinchiuso nello sgabuzzino il vecchio padre malato, per poter stare tranquillo don la donna di cui è innamorato, si accorge che il vecchio è morto soffocato. Il giovane decide quindi di murare il cadavere del vecchio nel muro della loro casa. La situazione è drammatica e grottesca allo stesso tempo, genera nello spettatore un sentimento di pietà ma anche di condanna, in quanto il ragazzo ha agito con superficialità ma anche crudeltà. Un personaggio simile lo troviamo anche ne Le mosche. La situazione qui è grottesca all’origine in quanto il protagonista è un collezionista e seviziatore di insetti. L’epilogo di questa vicenda bizzarra è la morte accidentale della vicina di casa dell’uomo. Questo decesso volgerà a favore dello strano uomo in quanto egli ricaverà dal cadavere della donna una ottima incubatrice per insetti. Qui non c’è compassione per l’uomo, ma solo ripugnanza per il suo atteggiamento, che non ha mostrato pietà per la povera donna morta. Non c’è notazione positiva neanche per il protagonista di Vita di artista, il sadico, esteta serial killer che porta in se tutte le perversioni e le paranoie del nostro secolo. Il protagonista, appassionato di poesia, cerca in tutti modi di

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realizzare il delitto esteticamente perfetto, fino a che non decide di mettere in pratica il proprio. L’uomo non suscita sentimenti positivi, è un assassino senza scrupoli ma è anche un poeta, e in quanto poeta ha, a suo modo, un animo sensibile. Questa sensibilità si manifesta nei momenti in cui il protagonista descrive la corda, con cui si impiccherà, che non è fatta dai volgari e comuni materiali in commercio. L’assassino pretende la morbidezza, la delicatezza delle fibre. Le caratteristiche di questo personaggio, che lo ritraggono da un lato come un brutale assassino senza scrupoli, capace anche di uccidere un bimbo innocente, e da un altro lato come un individuo sensibile, amante della poesia, della musica, attento ai dettagli, convergono nel costruire un personaggio ambiguo, bizzarro, dunque grottesco. Gli stessi omicidi che l’uomo studia e realizza hanno un aspetto grottesco, sono crudeli ma in qualche modo anche ridicoli, ironici. Gli ultimi due personaggi cui il termine grottesco si adatta alla perfezione sono i due cugini di Il fiore tra le rovine. I protagonisti sono due invalidi: uno storpio, l’altro non vedente. Vivono nell’indigenza pur ricevendo mensilmente la pensione. Hanno una casa loro ma vivono come se abitassero in una stalla. Sono molto meschini tra loro, si odiano e compiono prepotenze e vendette davvero molto abiette. Quando, però, in casa loro giunge una servetta muta, bionda, dal volto angelico, i due iniziano a competere tra loro per avere le attenzioni della ragazza. La ragazza, dal canto suo, organizza un piano per mettere i due definitivamente contro e farli eliminare a vicenda. E’ chiaro che in questo film, le limitazioni fisiche vengono utilizzate come connotazioni negative di condotta morale. I due personaggi principali infatti sono entrambi portatori di handicap ma ciò non li rende più benevoli o quantomeno più sensibili anzi li

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abbrutisce, sarebbero disposti a tutto pur di prevaricarsi, anche a uccidersi a vicenda. La ragazza però non è da meno e porta anche lei i segni di questa ignominia, infatti è muta. I limiti fisici diventano lo specchio della loro morale, mettendo a nudo le reali nefandezze di ognuno, mescolandoli però anche a una certa dose di pietà per le condizioni fisiche, i tre personaggi sono un perfetto esempio di figura grottesca. La ragazza, poi, è un personaggio ancora più ambiguo degli altri due in quanto il suo apsetto angelico e inizialmente dimesso non reca sospetto delle sue reali spregevoli intenzioni di morte. I personaggi dei film di Mingardi presi in esame sono connotati da tutte quelle debolezze, fobie, manie comuni nell’animo umano, ma mescolate a sentimenti di pietà, pena, discgusto

che

li

fanno

apparire

più

profondamente

caratterizzati di come potrebbe apparire a una prima lettura. Scorrendo tutta la filmografia dell’autore diventa evidente come quasi tutti i film possano essere letti secondo due diversi modi di lettura: una prima più superficiale lettura fa rientrare i film all’interno di specifici genere quali horror, thriller, commedia o dramma e li fa fruire tenendo conto di questi contesti. Ma a ben vedere, gli stessi film offrono una seconda e meno superficiale interpretazione, più intimistica, più personale, in cui i personaggi sono più approfonditi e regalano emozioni più intense.

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3. 1. Un cinema artigianale.

fig. 10. Mingardi nello studio in cui ha progettato molti suoi film

fig. 11. Retro dell’immagine

Mauro Mingardi, di professione artigiano del legno47, ha saputo sfruttare al massimo la sua abilitĂ manuale e creativa 47

Il suo lavoro consisteva nel costruire in legno prototipi per fonderia.

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per ricreare le scenografie, gli artifici scenici, oggetti e marchingegni utili per i suoi film. Come abbiamo già fatto notare, il cinema “minore” è sempre stato un cinema privo di grandi potenzialità economiche, privo di mezzi scenici. Le difficoltà iniziali di un cinema di questo tipo, però, non hanno ostacolato Mingardi che, anzi, ha dato fondo a tutto il suo estro

inventivo

per

concretizzare

situazioni

che

probabilmente per altri sarebbero state irrealizzabili. Il cinema di Mingardi, dunque, non risulta mai approssimativo, mai abbozzato ma, al contrario, è sempre molto ben studiato nei minimi dettagli: da ogni singolo oggetto presente in scena ai movimenti di macchina, ai gesti degli attori. L’autore, dunque, ha saputo perfettamente mettere in pratica il detto “far di necessità virtù” in quanto partendo da pochissimi mezzi a disposizione è riuscito benissimo nell’intento di realizzare film che non soffrissero di alcuna mancanza. L’unico rammarico che traspare, da interviste e dialoghi avuti da Mingardi con amici e collaboratori, è che, a causa della mancanza di un set vero e proprio, l’autore abbia sempre girato in case private con un carico elettrico che non doveva mai superare i 3000 watt. In un dialogo con Giuliana Pederzoli Mingardi spiega questo limite: […] il vincolo di usare soltanto 3000 watt (di più on reggeva l’impianto domestico) mi ha costretto a creare uno stile che era una necessità: i personaggi parlavano sempre molto vicini tra loro, quasi a gettarsi addosso i propri rancori o a cospirare con i propri sentimenti. Pupi Avati me lo faceva notre durante una pausa di Storie di ragazzi e di ragazze, in cui mi chiese di visionare Il fiore tra le rovine. Non mi restò che rispondergli che, se allontanavo le luci, la scena sarebbe diventata così buia da essere accettabile soltanto come

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“soggettiva” del protagonista cieco48.

Nonostante qualche limite tecnico invalicabile, però, si fa fatica a definire il cinema di Mingardi non professionale in quanto l’autore è riuscito con l’ingegno e la creatività a ovviare a tutti quei piccoli problemi presenti su un set improvvisato nel migliore dei modi. Passando in rassegna alcuni suoi film, andremo a mettere in evidenza tutte le situazioni in cui l’acume e la fantasia dell’autore sono stati risolutori. Per alcuni specifici film, ci serviremo del prezioso colloquio avuto con l’amico e collaboratore Mauro Bonifacino. Uno dei primissimi esempi della grande inventiva di Mauro Mingardi lo troviamo nel suo secondo film, Incubo di un delitto o, come tutti erano soliti chiamarlo, Il conte Ghini, del 1959. L’ambientazione del film era quella di un palazzo d’epoca di un certo pregio, doveva infatti essere il palazzo di un nobile. Il luogo però non aveva le porte abbastanza alte, come di solito avviene nei palazzi di pregio, allora Mingardi ebbe l’idea di far recitare tutti in ginocchio per far sembrare porte e soffitti molto più alti. Questo è un primo e mero esempio di inventiva. Andando avanti di qualche anno, esattamente nel 1963, Mingardi gira La danza dei contatori. Nel film è evidente la grande competenza registica dell’autore, soprattutto in una delle ultime scene, in cui i due protagonisti si affrontano. Qui Mingardi realizza un trucco alla Meliés attraverso la tecnica del “passo uno”, per cui la pellicola si fa procedere di fotogramma in fotogramma e a ogni avanzamento di pellicola si può modificare la scena per 48

Giuliana Pederzoli, Il Maker. Conversazioni con l’autore. «Cineclub», Edito dalla federazione italiana dei cineclub, n. 12, Bologna, Poligrafici Editoriale S. p. A., dicembre 1991, p. 9.

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creare artifici visivi. Mingardi ha utilizzato la tecnica per delineare la scomparsa di uno dei protagonisti la cui figura si liquefà fino a lasciare solo una macchia d’inchiostro. Allorché il secondo uomo pone un foglio di carta sulla macchia per assorbirla questa si trasformerà in una fotografia dello strano tipo morto. Questi due momenti sono perfetti dal punto di vista dell’illusione visiva, e non hanno davvero nulla da invidiare a certi effetti speciali del cinema odierno. Dieci anni dopo, anni in cui Mingardi ha vinto numerosi premi e riconoscimenti, il filmmaker gira Mutoscopio. In questo film c’è un interessante esempio dell’ingresso della sua abilità artigiana nel film. Partiamo proprio dall’oggetto che da il nome al film, il mutoscopio, per l’appunto. L’autore aveva ricalcato esattamente un modello di questo aggeggio, che permetteva di vedere delle fotografie in sequenza quasi come un cartone animato, che aveva visto a Torino al Museo del Cinema. Aveva poi invecchiato il mutoscopio per dar l’idea che il protagonista lo aveva trovato sepolto in cantina. L’effetto è davvero realistico, nessuno mai penserebbe che il mutoscopio sia un falso storico. Questo è uno dei primi esempi di oggetti creati appositamente per i film. Mingardi,

che studiava ogni

dettaglio

nei

minimi

particolari, nel successivo film ha costruito di sana pianta una vera tenda indiana per il suo Badlands, del 1974. La tenda è composta da tre canne incrociate, legate tra loro, poi ricoperta da pelli di animali e stoffe di vario genere. Nel film però c’è anche un’altra manipolazione molto curiosa: il film in questione è un western e, come in ogni western che si rispetti, sono presenti dei cavalli. I cavalli, però, avrebbero dovuto essere in tre, ma essendo riuscito, l’autore, a recuperarne solo due, decise di cambiare colore al cavallo per alcune scene. Anche in questo caso i pochi mezzi dell’amatoriale non riuscirono a limitare l’inventiva di Mingardi. L’aspetto più

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interessante e che da più di tutti il senso di cinema fatto con pochi mezzi, è la realizzazione degli “effetti speciali” del film. Per mettere in evidenza la violenza con cui l’indiano, per vendicare l’amata, uccide i due stupratori e assassini, Mingardi mette in scena degli effetti davvero realistici. L’autore si era recato precedentemente in macelleria dove aveva recuperato delle interiora, un cuore e del e sangue di animale. Aveva poi legato le interiora e il cuore al corpo degli attori con del cellofan, per simulare la fuoriuscita delle membra in seguito al ferimento con arma da taglio. Aveva anche inserito una pompetta piena di sangue al posto del cuore, cosicché, non appena l’indiano avesse estratto il cuore dal petto dell’uomo, sarebbe sgorgato via il sangue a fiotti. Il risultato è molto ben riuscito e, anche in questo film, Mingardi non ha nulla da invidiare ad altri suoi colleghi professionisti e non professionisti dell’epoca. Probabilmente però, il film con la più alta concentrazione di manufatti, di scenografie particolari, di oggetti creati ad hoc è Vita di artista. Il film in questione è uno dei più conosciuti e proiettati a Bologna e in giro per le varie rassegne italiane. Iniziamo con una prima ripresa che Mingardi fece in cima alla torre degli Asinelli. Il filmmaker doveva riprendere un aeroplanino di carta in volo. Una prima parte della ripresa dunque, in campo largo, la realizza davvero dalla cima della torre. Poi però si pose il problema della leggerezza della carta che non permetteva all’aereo di mantenere una traiettoria prevedibile. Allora l’autore penso bene di realizzare quasi un primo piano dell’aereo, avendo cura di non inquadrare la punta, alla cui sommità era legata un pezzo di rigido filo di ferro tramite cui Mauro Bonifacino poteva direzionare l’aereo a piacimento.

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fig. 12. Disegno illustrativo di Mauro Mingardi

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La seconda ripresa la fece dal tetto di casa propria. La finzione è perfetta, non si nota alcuna differenza tra le due sequenze. Altro importante esempio d’inventiva è la scena in cui il protagonista, in realtà attraverso le mani di Mingardi, realizza un vero violino. In realtà di violini ne sono stati costruiti e rifiniti dall’autore ben tre, e tutti suonavano alla perfezione. L’aspetto interessante della vicenda è che al filmmaker l’idea per la realizzazione di questo film venne proprio a partire dalla costruzione di uno dei violini, avvenuta in precedenza. Interessanti anche dei piccoli giochini in legno che compongono una piccola città, che serviranno a far scegliere una delle potenziali vittime a un piccolo robot a molla preesistente. Un altro esempio di artigianalità, di cui il film in questione è pieno, è un sistema di carrucole che l’autore realizza per creare un effetto a catena che dia a uno degli omicidi un tocco di originalità in più. Lo scopo è l’uccisione da parte del killer di un vicino di casa molesto. A quel tempo Mauro Mingardi aveva una amica che possedeva una casa dalla struttura singolare, in quanto formava una L. Questa particolare forma consentiva di potersi guardare da una finestra frontale a un’altra dalla stessa abitazione. Questo particolare diede a Mingardi l’idea per la realizzazione della scena. Il sistema di carrucole che l’autore costruisce in realtà sul tetto della propria casa, crea una trazione che innescando una reazione a catena spinge il grilletto di una pistola posta in cima al tetto, in direzione del vicino molesto. L’uomo viene colpito dalla pallottola in piena fronte. Molto suggestivo il marchingegno che Mingardi costruisce in quanto non è una semplice carrucola collegata a una pistola; l’autore costruisce una scenografia anche per la carrucola in segno di sberleffo nei confronti del vicino, che ogi mattina suonava con la tromba l’alzabandiera, lasciando intendere la sua provenienza militaresca. La carrucola infatti è “agghindata”, l’autore

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costruisce una piccola postazione di soldatini dipinti, con tanto di sfondo del cielo. La pistola diventa un cannone. L’uomo quindi viene colpito in fronte dalla ipotetica palla di cannone di un gruppetto di soldatini armati. Questa è una delle scene più fantasiose e scenograficamente creative di tutta la filmografia dell’autore. Anche il buco in fronte del vicino è stato realizzato da Mingardi. L’amico Mauro Bonifacino ci spiega come l’autore lo mise in pratica: Mingardi voleva creare un effetto molto realistico e per far ciò voleva dare profondità al “buco”. Ebbe dunque l’idea di mettere uno specchietto sulla fronte dell’attore e dissimularlo con della plastilina di colore rosa, che restituisse l’idea di pelle rialzata. Lo scopo dello specchietto era che qualora questo avesse riflesso in qualche modo la luce attorno, avrebbe creato un’illusione ottica per cui lo spettatore avrebbe visto una ferita in cui si intravedeva lo sfondo, come se l’uomo fosse stato attraversato da parte a parte. L’illusione ottica non riuscì del tutto in quanto lo sfondo era scuro e non si vedeva molto, ma l’effetto tridimensionale della ferita riuscì comunque bene. L’ultimo divertente aneddoto riguarda la scena del suicidio del protagonista. L’uomo decide di impiccarsi con la corda che aveva fatto con le sue stesse mani e lanciarsi dal terrazzo di un palazzo. Per ricreare in maniera realistica la caduta dell’uomo dal tetto, Mingardi aveva ricreato una parte di muro simile in tutto e per tutto alla facciata del palazzo. Aveva fatto in modo di far scorrere la parte di finto muro, per simulare la forza di gravità, dietro il protagonista, che nello stesso tempo veniva colpito dal basso da due flussi di aria compressa che simulavano lo spostamento d’aria. L’effetto è sorprendente, sembra davvero che l’uomo stia cadendo dal palazzo. L’uomo, dopo essersi lanciato dal tetto, resta appeso a pochi centimetri da terra, impiccato nel film, sorretto da un argano e cinque persone

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nella realtà. In Gli usignoli dei Rellstab c’è anche un altro momento davvero interessante. Il protagonista si trova nel giardino della casa in cui un tempo avevano abitato

nonni e che

adesso è sua, e sat descrivendo a moglie e figlio la casupola antiaerea che il nonno aveva costruito. Mingardi cerca di far visualizzare allo spettatore questa casupola, e lo fa dipingendo un lucido che poi sovrappone fotogramma per fotogramma alla pellicola, creando una traccia bianca la dove un tempo si trovava il contorno della casetta. Ne viene fuori, con la tecnica del passo uno una ricostruzione virtuale, bidimensionale, di quello di cui si sta parlando. Il film è pieno di oggetti, poi, manufatti di Mingardi, creati apposta per il film, che serviranno poi per la caccia al tesoro finale. Dalla gabbietta degli uccelli, mezzo per risolvere un indovinello, al cofanetto in cui sono custodite vecchie fotografie, costruito e invecchiato al solo scopo di sembrare di antica fattura. Molto interessante il racconto che Mauro Bonifacino fa di una particolare scena del film: qui vediamo il protagonista, seguito da una sorta di carrello laterale, che passa da una stanza all’altra. Anche ad una prima occhiata si percepisce che c’è qualcosa di inusuale nell’inquadratura. Il movimento di macchina, che scavalca due muri, è stato realizzato grazie alla presenza di due finestre dirimpettaie sul pianerottolo di casa Mingardi. Mingardi mise un’asta di legno a cavallo tra le due finestre e, stando ben in equilibrio sul vano della scala, seguì il protagonista da una stanza all’altra. La descrizione purtroppo non spiega bene la realizzazione della carrellata. L’ispirazione era venuta a Mauro Mingardi dopo aver visto un film di Michelangelo Antonioni, Professione reporter, nel quale vi è una scena in cui la cinepresa sembra violare le regole fisiche, oltrepassando cancelli e muri, grazie a un ingegnoso sistema di carrucole

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legate al soffitto. Il disegno finale del film, invece, che ricalca alla perfezione la facciata posteriore dell’abitazione della location, che poi è la casa dell’autore, è stato fatto da Adriana Mingardi, sorella del filmmaker. Nel film Amore e cuore non fanno più rima l’unico elemento manufatto è un copri telecomando per una macchinina telecomandata. Il copri telecomando è intagliato nel legno, e raffigura una donna in bassorilievo, in intimo, i cui seni servono a muovere l’automobilina. Considerando che ci troviamo nella sala d’aspetto di una “casa chiusa” capiamo subito l’allusione sessuale del telecomando. Il cinema di Mauro Mingardi appare dunque costellato da moltissimi elementi manufatti che venivano realizzati dall’autore esclusivamente in quanto facenti parte delle scenografie dei film. Le scenografie venivano pensate, studiate e provate con largo anticipo rispetto alla fase produttiva in cui tutto doveva già essere stato deciso. La grande manualità e creatività di Mauro Mingardi ha permesso al suo cinema di superare determinati limiti, propri del cinema amatoriale, e spingerlo sempre più verso la professionalità del cinema maggiore, non senza un motivo, infatti Mingardi venne notato da grande nomi del cinema italiano. In passato si sono complimentati con lui, o ne hanno riconosciuto i grossi meriti e le capacità, nomi del calibro di Roberto Rossellini, Marco Ferreri, PierPaolo Pasolini, Nanni Moretti e Pupi Avati. Il rammarico di non averlo mai visto entrare a far parte di questi nomi è confortato dal fatto che in questo modo l’autore ha potuto preservare intatto il suo stile, le sue velleità, senza dover mai scendere a compromessi con l’apparato

produttivo

e

promozionale

del

cinema

professionale. Spesso l’autore ha ammesso di aver provato un po’ di amarezza nell’aver scelto di rimanere nella città che ha visto nascere i suoi migliori film, dall’altro canto però

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Mingardi è sempre stato orgoglioso dell’aver scelto di rimanere a Bologna, cittĂ fulcro e anima del suo cinema.

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4. Schede film L’oro maledetto Genere: avventura Formato: 8 mm Anno: 1958 Colore: b/n Durata: 18’48’ Audio: muto in origine, doppiato negli anni 2000 Regia: Mauro Mingardi Cast: Luciano Cecili, Giano Della Bella, Donatella Manaresi, Teresa Manaresi, Adriana Mingardi, Mauro Mingardi, Cleto Proni.

Una giovane donna Marie decide di andare a cercare il proprio fidanzato archeologo, sperduto in Perù nel corso di una spedizione alla ricerca di un tesoro perduto. La giovane Marie parte per il Perù insieme alla giornalista Deborah e a un tale Jon Smith. Marie affronta varie insidie e pericoli. Lungo il tragitto alcuni degli accompagnatori occasionali muoiono e si dileguano, senza un motivo evidente. Rimasta da sola con Jon Smith Marie riesce a trovare Alan. Ma Jon Smith si rivela un bugiardo in quanto ha accompagnato Marie solo per appropriarsi del tesoro. Jon minaccia Marie e Alan, poi, sconfitto nella lotta da Alan, gli spara vigliaccamente alle spalle e strozza Marie. Jon, ferito e agonizzante, muore con in mano un talismano, con su disegnata la mappa del tesoro, precedentemente sottratto a un indio.

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Il conte Ghini tit. orig. Incubo di un omicidio (Incompiuto)

Genere: thriller Formato: 8 mm Anno: 1959 Colore: b/n Durata: 16’48’, finale Audio: muto Regia: Mauro Mingardi Cast: Luciano Cecili, Donatella Manaresi, Adriana Mingardi, Mauro Mingardi

Il Conte Ghini muore per mano del cugino Cesare, che intende appropriarsi dell’eredità. Con i soldi acquisiti Cesare compra gioielli alla propria donna e può finalmente pagare gli ingressi al night, può insomma dedicarsi ai vizi di una vita agiata. Prende anche possesso della casa del conrte Ghini. Ma in quella casa, con un ritratto del Conte che spaventa moltissimo Cesare, i sensi di colpa ben presto iniziano a ossessionarlo.

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Le comiche

Formato: 8 mm Colore: b/n Audio: muto Anno: 1959

Vacanze di un Lord Durata: 04’05’ Due giovani in bici cadono spesso e si azzuffano.

La valle dei bruti Durata: ‘01’84 Due uomini importunano una giovane ragazza. Arriva un terzo ragazzo a salvarla.

Ladri di biciclette Durata: ‘01’71 Un giovane ceca di rubare la bicicletta a un altro giovane.

Il vampiro sul tetto che scappa Durata: ‘03’15 Un ragazza viene assalita da un vampiro. La giovane riuscirà a spaventare e poi uccidere il vampiro travestendosi da fantasma.

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(Mangas) L’apache (Incompiuto) Genere: western Formato: 8 mm Anno: 1959-1960 Colore: b/n, colore Durata: ‘14‘20 Audio: muto, sonorizzato nel 2004 Soggetto: Mauro Mingardi, Luciano Cecili Regia: Mauro Mingardi Cast: Mauro Mingardi, Luciano Cecili, Giano Della Bella Piero Ricci, Adriana Mingardi, Armando Mingardi

Prologo: Un cercatore d’oro viene sorpreso alle spalle da un indiano, Mangas, che lo uccide e ne prende lo scalpo. Tre uomini, uno dei quali sceriffo, stanno perlustrando la zona e trovano il cadavere del cercatore d’oro. Capiscono che è stato proprio l’indiano e iniziano a cercarne tracce e segni del passaggio. Dopo aver individuato la pista giusta, notano del fumo dietro una collina e comprendono di aver trovato l’accampamento indiano. I tre oltrepassano la collina e vedono una squaw. Lesti scendono all’accampamento e tentano di farsi dire dalla squaw dove si trovi Mangas. Ma Mangas è appostato su una rupe e con mira infallibile uccide con una freccia uno dei due uomini. Gli altri tenteranno invano di prendere l’indiano che nel frattempo è fuggito.

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Resistenza

Formato: 8mm Anno: 1962 Colore: b/n Durata: ‘19’15 Audio: sonoro Regia: Mauro Mingardi Cast: Adriana Mingardi, Mauro Mingardi, Antonio Pazzini, Teresa Cavallari

Un partigiano ferito da un soldato tedesco si rifugia in una casa dove lo accudisce una donna. L’uomo, frugando tra le proprie carte, trova la fotografia di una giovane ragazza e inizia a ricordare. L’uomo e la ragazza un tempo erano fidanzati, ma questo prima della guerra. Un giorno un tedesco si reca in casa della donna che accudisce il partigiano e lo cerca in tutti gli anfratti non notando però l’unico posto in cui poteva e si è rifugiato il partigiano, cioè una cassapanca. Il soldato va via. Qualche giorno più tardi il partigiano esce per partecipare a una rappresaglia prevista per la mattina. La guerra finisce. La donna va a pregare davanti a una croce su di una tomba, probabilmente quella del partigiano che non è sopravvissuto.

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Alla ricerca dell’impossibile Genere: horror Formato: 8 mm Anno: 1962 Colore: b/n Durata: ‘09’24 Audio: muto, commento musicale Regia: Mauro Mingardi Cast: Giancarlo Cuccolini, Pino Mazzoli, Adriana Mingardi, Mauro Mingardi, Antonio Pazzini

Una ragazza e il suo fidanzato si recano in un boschetto a bordo di una vespa. Il ragazzo prova a sedurre la ragazza con delle avance ma lei lo respinge. I due giovani

tornano

indietro ma, nel tentar di mettere in moto il veicolo, il ragazzo si rende conto di essere rimasto a secco e si incammina a piedi alla ricerca di carburante. La ragazza dopo aver colto dei fiori s’addormenta. La ritroviamo mentre vaga per i prati e arriva nei pressi di una casa abbandonata. Entrata nella casa vediamo la sua espressione terrorizzata. Il fidanzato nel frattempo fa ritorno e in cerca della ragazza raggiunge la casa. Qui vede un uomo impiccato e impaurito, proseguendo per i sotterranei, viene sorpreso e inseguito da un uomo deforme. Fugge e ritrova in un angolino la fidanzata legata e imbavagliata. L’uomo deforme lo sorprende alle spalle e lo strangola, poi prende la ragazza e cerca di abusarne. La ragazza viene svegliata dal proprio ragazzo, per fortuna era solo un incubo. Un giorno la ragazza sta camminando per strada, quando si scontra con un uomo vagamente somigliante all’uomo deforme del sogno. La cosa la terrorizzerà parecchio.

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Diario d’autunno Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1962 Colore: b/n Durata: ‘13’05 Audio: muto, commento musicale Regia: Mauro Mingardi Cast: Dana Atti, Emilia Bordoni, Anna Cervone, Giancarlo Cuccolini, Adriana Mingardi, Armando Mingardi, Giuseppe Mingardi, Gualtiero Mingardi, Mauro Mingardi, Bruno Pasini, Selika Pasini, Viviana Santandrea. Un uomo dall’aspetto dimesso e dall’espressione triste vaga per le vie della città in cerca di lavoro. Si reca presso delle persone che gli consegnano una lettera ma a quanto pare lui non sa leggere. Entra in uno studio in cerca di un impiego, l’uomo che sta dietro la scrivania gli chiede di sedersi e scrivere a macchina, ma lui non sa scrivere. L’uomo allora cerca altrove, chiede pure a un meccanico che incontra per strada, ma niente da fare, nessuno gli offre un lavoro. In uno dei suoi vagabondaggi alla ricerca di un impiego intravede una giovane donna che piange sconsolata e la segue per offrirle qualche caldarrosta. I due iniziano a parlare, è evidente che si piacciano. I due passeggiano mano nella mano e infine giungono a casa di lei, dove la donna scappa via con espressione triste. L’uomo non si perde d’animo, con gli ultimi spiccioli rimastigli compra un mazzetto di fiori, sale in casa della donna e irrompe nella stanza ma qui vede la donna con in braccio un bimbo piccolo. Va via ancora una volta sconsolato, butta il mazzo di fiori in un corso d’acqua e si allontana.

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La danza dei contatori

Genere: grottesco Formato: 8 mm Anno: 1963 Colore: b/n Durata: ‘12’32 Audio: muto, commento musicale Regia: Mauro Mingardi Soggetto: Giancarlo Cuccolini, Roberto Passini, Sceneggiatura: Mauro Mingardi, Vittorio Naldi Cast: Giancarlo Cuccolini, Vittorio Naldi, Roberto Passini, con la partecipazione straordinaria di Bruno Bonavera, Lina Drodojemi, Nadja Grimaldi

Un operaio del gas si reca in casa di un uomo per un controllo ma, essendo troppo curioso, viene cacciato via dall’uomo. Prima di essere mandato via, l’uomo del gas sembra aver intravisto qualcosa. Decide allora di recarsi nuovamente nella casa precedente e con un espediente riesce a entrare ma viene sorpreso dal padrone di casa e chiuso in una stanza buia insieme a un uomo deforme. Inizia una lotta corpo a corpo che coinvolge anche il padrone di casa. L’operaio del gas riesce a sconfiggere l’uomo deforme che butta in un cassonetto e con un espediente si libera anche del padrone di casa.

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Le ali degli angeli Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1964 Colore: b/n Durata: ‘15’33 Audio: sonoro Regia: Mauro Mingardi Cast: Walter Castelli, Giancarlo Cuccolini, Annarosa Girotti, Adriana Mingardi, Gabriella Mazzoli, Pino Mazzoli, Maria Modelli, Vasco Pasini, Gino Passini, Roberto Passini, Antonio Pazzini, Paola Santi.

Una voice off racconta di un professore di liceo deriso e disprezzato dai suoi studenti. Il professore non sembra avere molti svaghi se non la lettura e occupa un piccolo sottotetto in cui dorme e mangia. Il periodo è quello carnascialesco, il professore incontra per caso alcuni dei suoi studenti che lo trascinano con loro in una festa di carnevale privata. Il professore viene invitato da una studentessa a ballare e beve molto. Quando più o meno tutti i partecipanti alla festa sono appartati il professore si sente poco bene e decide di andare via. Ma non essendo affatto sobrio in strada viene investito da un’auto. Muore nell’incidente e circondato da sconosciuti passanti e qualche suo studente.

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La vita inutile

Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1965 Colore: colore Durata: ‘19’19 Audio: sonoro Regia: Mauro Mingardi Cast: Maria Modelli, Mauro Mingardi

Una coppia soffre un momento di crisi, tra di due è manifesta l’incomunicabilità, quel tipo di paralisi comunicativa che colpisce una coppia che non ha più nulla da dirsi. I due fidanzati vanno in giro, vanno al pub, lui pranza a casa di lei, ma è evidente che in realtà i due fidanzati sono soli. I due non parlano, non si guardano mai in viso. Ad un certo momento il ragazzo decide di scrivere una lettera alla propria fidanzata per lasciarla, ma gli manca il coraggio e alla fine strappa la lettera.

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L’inconoscibile

Genere: drammatico/grottesco Formato: 8 mm Anno: 1966 Colore: b/n Durata: ‘8’57 Audio: sonoro Soggetto: P. W. Mulligan Sceneggiatura: Ettore Malossi, Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast: Federico Pasini, Graziano Leonelli, Gastone Pedrini. Adolfo Verati.

Un

uomo

arriva

nei

pressi

di

una

vacchia

casa

apparentemente abbandonata. Strane statue popolano il giardino dell’abitazione. L’uomo entra, l’antro è enorme. L’uomo prende in mano un candelabro e sale delle scalinate a chiocciola,

alquanto

vertiginose.

L’ambiente

intorno

all’uomo è inquietante e straniante. L’uomo si trova adesso all’interno di una stanza buia in cui vi è un tavolino con un mazzo di carte. Tre strani uomini incappucciati invitano l’uomo a giocare a carte. L’uomo improvvisamente si accorge di aver appena visto se stesso morto in un angolo della stanza e capisce la posta del gioco. Fortunatamente egli si accorge di avere quattro assi per le mani. Ha vinto la partita, ora può andare. Durante il tragitto di ritorno scampa per poco a un incidente automobilistico e rimane illeso.

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La fossa Genere: drammatico/grottesco Formato: 8 mm Anno: 1966 Colore: b/n Durata: ‘12’42 Audio: sonoro Soggetto: P. W. Mulligan Regia: Mauro Mingardi Cast: Ettore Malossi, Paul Cross, Wanna Biondi, Adolfo Verati.

Un uomo, dopo una breve visita a una donna con cui ha un rapporto

in

un

granaio,

sta

tornando

verso

casa.

All’improvviso viene bloccato da un soldato inglese che lo costringe a scavare una fossa. L’uomo, mentre scava la fossa, certo della sua imminente uccisione, pensa di colpire il soldato con un sasso ma poi decide di rinunciare. Dopo aver scavato per bene la fossa il soldato costringe l’uomo a piantare due paletti a forma di croce davanti la fossa. Poi punta il fucile contro l’uomo e gli intima di andare via. Davanti la fossa l’uomo ha piantato un cartello con scritto Abort, cioè latrina.

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Associazioni libere

Genere: sperimentale Formato: 8 mm Anno: 1966 Colore: b/n Durata: ‘12’42 Audio: sonoro Soggetto: P. W. Mulligan Regia: Mauro Mingardi Cast: Valeria Collina, Mauro Mingardi

Una donna si reca da uno psichiatra e ogni elemento della stanza del dottore le riporta alla memoria sogni, immagini prive di significato. Le immagini oniriche che la donna visualizza sembrano alludere a un aborto in quanto la donna in mezzo alla neve si vede portar via un bambino e vede attorno a se del sangue e oggetti di colore rosso. Alla fine la donna immaginerĂ di fare a pezzi lo psichiatra.

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Una mattina Genere: drammatico/storico Formato: 8 mm Anno: 1967 Colore: b/n Durata: ‘11’10 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast: Dolfo Ettore Graziano, Ettore Malossi, Graziano Leonelli, Adolfo Verati, Franco Leonelli.

Un giovane partigiano è alle prese con alcuni scontri urbani. Il giovane, dopo aver visto morire uno dei suoi compagni, si trova davanti a una scelta: continuare la lotta o lasciar perdere. Il film ha due differenti finali, il primo, più aperto, è stato scelto da P. W. Mullighan: il ragazzo prende l’arma dell’amico morto e la conserva. Il secondo finale è di Mauro Mingardi: il giovane prende con sé l’arma e, dopo un breve periodo di riflessione,

si reca presso un canale e lancia

l’arma in acqua.

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Diario di un’amica

Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1968 Colore: b/n Durata: ‘20’10 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast: Adriana Mingardi, Valeria Collina, Luciano Cecili, Demetrio Rambaldi, Gualtiero Mingardi, Graziano Leonelli, Giuseppe Mingardi

Una donna si lancia in mare tra le onde. Il suo corpo verrà ritrovato da un pescatore. In una stanza della questura un poliziotto consegna a una donna gli effetti personali della suicida. La donna, in spiaggia inizia a ricordare l’amica. Ricorda il giorno in cui conobbe la sua amica, in spiaggia. La ragazza è una ottima disegnatrice e la nuova amica diventa presto la sua modella preferita. La ragazza però sembra provare qualcosa di più che un semplice sentimento di amiciza. Ha spesso crisi di gelosia nei confronti dell’amica. Le due amiche si recano in campagna da un terzo amico. L’uomo inizia presto a corteggiare l’amica e la ragazza presa dalla disperazione scappa via. La fuga si conclude con il suicidio della disegnatrice.

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Il tempo nel muro

Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1969 Colore: b/n Durata: ‘20’38 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast: Graziano Leonelli, Tony Profeta, Paola Ventura, Roberto Passini, Luciano Cecili, Laila Leonelli, Saturno Nanni, Adriana Mingardi, Demetrio Rambaldi

Un uomo vive da solo in una modestissima casa con il padre malato e non autosufficiente. Il giovane usa molte sveglie per scandire le ore della giornata e ricordarsi con fare per aiutare il padre, e quando esce fuori casa si reca sempre al canale per vedere una ragazza che gli piace. Un giorno si convince a presentarsi a lei e i due iniziano a frequentarsi. Un giorno l’uomo decide di invitare la ragazza in casa ma, non volendo fare vedere alla giovane il padre malato, decide di rinchiuderlo in uno sgabuzzino. Il padre muore soffocato nell’angusto ripostiglio e quando il giovane lo trova è preso dal panico. Il ragazzo allora prende il cadavere del padre e decide di murarlo dietro una parete. Viene presto assalito dal rimorso e decide di rompere tutte le sveglie, piombando però sempre più nella disperazione più profonda.

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Il viaggio

Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1970 Colore: b/n Durata: ‘11’02 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast: Roberto Passini, Stefano Marinari Diletti, Morena Marinari Diletti, Saturno Nanni, Adriana Mingardi, Valeria Collina

Un uomo, in sella alla sua moto, sta correndo a velocità sostenuta

per

le

strade

della

periferia

bolognese.

Improvvisamente sembra avere un incidente e schiantarsi al muro. Adesso l’uomo è a piedi e percorre le strade del suo quartiere. Vede dei bambini giocare e si unisce ai giochi. Improvvisamente si ritrova in un casolare dove trova diverse riviste e fotografie personali. Adesso lo vediamo danzare felice e spensierato con una donna, e i bambini che prima giocavano con lui lo guardano con curiosità e un po’ di nostalgia.

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Le mosche Genere: drammatico/grottesco Formato: 8 mm Anno: 1970 Colore: b/n Durata: ‘18’00 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast: Cesare Armieri, Valeria Collina, Paul Cross

Un restauratore di vasi ha una malsana mania: collezionare e seviziare mosche e insetti di vario tipo. L’uomo prova anche attrazione per la vicina di casa appena sposata. Un giorno la vicina si reca da lui perché ha rotto un vaso e l’uomo è talmente sovraeccitato che non si accorge di offrirle del veleno anziché dell’acqua. La donna muore avvelenata e dopo un primo momento di sconforto l’uomo decide di seppellirla nel giardino. Dopo qualche tempo torna sul luogo in cui ha seppellito al donna e prende i vermi che il cadavere ha prodotto: larve appena nate che diventeranno future mosche.

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Rapporto sentimentale

Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1971 Colore: b/n Durata: ‘14‘25 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Dialoghi: Sandro Toni Regia: Mauro Mingardi Assistente alla regia: Vittoria Gualandi Cast: Roberto Passini, Giuliana Pederzoli Voci narranti: Enrichetta Bortolani, Umberto Bortolani

Un uomo riceve in dono dai parenti di un suo amico morto i diari dell’amico. Rileggendo insieme a un’altra amica i diari del defunto i due si accorgono che molto spesso tra una nota e l’altra viene fuori l’iniziale di una donna L. I due cercano di ricostruire dieci anni della vita dell’uomo attraverso la lettura dei diari e le vicende legate alla misteriosa L.

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Mutoscopio Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1971 Colore: b/n Durata: ’14‘25 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast: Roberto Passini, Carla Tedde, Maurizia Giusti, Norma Canina, Raffaella Ragazzi, Alberto Bargossi, Renato Taglieri Voce narrante: Umberto Bortolani

Un uomo decide di riprendere con l’ausilio di diverse cineprese le varie fasi della propria giornata. L’uomo spiega cosa ha intenzione di fare e come intende realizzarlo. Immagina diverse situazioni, da solo o in compagnia degli amici e di ragazze. Poi ricorda di possedere un mutoscopio, un marchingegno che consente di vedere le immagini in movimento. Lo prende dalla cantina lo spolvera e con una manovella lo fa muovere. Vede diverse foto, tra le quali le foto che il nonno aveva scattato, una per anno, fino alla morte. Vede quindi invecchiare e morire il nonno atraverso le immagini del mutoscopio. Riguardare il passato però gli ha fatto perdere il contatto con la realtà fino a non distinguere più presente e passato, vero e falso.

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Badlands

Genere: western Formato: 8 mm Anno: 1974 Colore: colori Durata: ‘37‘15 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Assistente alla regia: Mauro Bonifacino Cast: Giuliano Vivarelli, Maurizia Giusti, Paul Cross, Gabriele Giorni, P. W. Mulligan, Adolfo Verati

Due uomini muoiono in un agguato messo in atto da due balordi che vagano per le terre selvagge senza un preciso scopo. Poco distante un indiano e la sua donna sono impegnanti in un rito di iniziazione e poi hanno un rapporto amoroso. Quando l’indiano non c’è, i due balordi raggiungono l’accampamento indiano, vedono la donna e dopo averla seviziata la uccidono. L’indiano, trovando il cadavere della sua amata, mette in atto una vendetta esemplare. I due criminali muoiono atrocemente per mano dell’uomo che non lesina loro alcun dolore.

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I morti di via Cirene

Genere: drammatico Formato: 8 mm Anno: 1975 Colore: colori Durata: ‘20‘50 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Dialoghi: Sandro Toni Regia: Mauro Mingardi Assistente alla regia: Mauro Bonifacino Collaborazione artistica: Vittoria Gualandi Cast: Roberto Passini, Morena Marinari Diletti, Anna Pilati, Antonio Mistri, Luciano Cecili, Valeria Collina Voce narrante: Trivio Travaglini

La via Francesco Sabatucci, ex via Cirene, a Bologna è stata per anni teatro di fati di sangue. Tanti sono stati i suicidi e gli omicidi perpetrati nella zona. In tempi di guerra qui i soldati lanciavano bombe camuffate in bambole di pezza ai bambini della zona. Tante furono le persone che si tolsero la vita lanciandosi sui binari del treno, dal ponte di via Libia. Tanti anche gli animali che finirono sotto il treno. Ci furono anche delle storie d’amore che si interruppero in quella zona e i bambini praticavano giochi violenti per i quali, ogni tanto, qualcuno rimaneva ferito.

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Verdi illusioni

Genere: drammatico Formato: super8 Anno: 1977 Colore: colori Durata: ‘07‘20 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast: Morena Marinari Diletti

Una ragazzina, vestita con un abitino a fiori, corre spensierata su dei prati verdi. Si lascia cadere sull’erba fresca, si lascia colpire dai raggi solari. Immerge i piedi nell’acqua limpida di un laghetto e gioca con gli insetti che trova tra le piante. Si addormenta tra le foglie. Si risveglia appoggiata ad un albero, vicina a una strada trafficata. Corre e si ritrova presto davanti palazzoni in costruzione, attorno a lei la natura è scomparsa per lasciare posto a ruspe e cemento.

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Ritorno al silenzio

Genere: drammatico/horror Formato: super8 Anno: 1977/78 Colore: colori Durata: ‘22‘15 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Dialoghi: Sandro Toni Regia: Mauro Mingardi Segretaria generale: Paola Mignani Collaborazione artistica: Mauro Bonifacino Cast: Nino Nanni, Fulvia Succi, Stefano Marinari Diletti

Un uomo, che insegna latino in un liceo, riceve una strana lettera con una foto di classe di quando era giovane. La lettera lo invita

decifrare gli indizi contenuti in essa.

Passando il foglio di carta sulla fiamma vengono fuori delle scritte che rivelano l’autore della lettera. La lettera è stata scritta da una sua ex compagna di classe con la quale da giovane l’uomo era molto intimo. L’uomo, incuriosito, si reca presso una casa, luogo dell’appuntamento con la donna che però non si fa viva. L’uomo dopo essersi addormentato, si rende conto di essere solo e va via. La casa adesso appare vuota, abbandonata, nessuno ci mette più piede da anni. All’interno di una buia stanza ricurva su un tavolo sembra esserci la figura di un essere umano, morto da chissà quanto. La mano scheletrica regge una penna, sotto essa delle vecchie foto di classe.

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Vita di artista

Genere: drammatico/grottesco Formato: super8 Anno: 1981 Colore: colori Durata: ‘34‘36 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Dialoghi: Sandro Toni Regia: Mauro Mingardi Collaborazione artistica: Mauro Bonifacino Cast: Mauro Bonifacino, Paul Cross, Grazia Gotti, Ettore Malossi, Roberto Passini

Un uomo stila dei resoconti dei propri omicidi. Prima è la volta di un uomo dentro una macchina al quale viene sparata una poesia tramite una cerbottana avvelenata. Poi sarà la volta è un povero bimbo indifeso al quale viene data in mano una lametta. La terza vittima è un uomo attirato in una trappola da una fantomatica mappa del tesoro. Nel frattempo l’uomo costruisce un violino con dei fiammiferi. La quarta vittima è una prostituta che l’uomo invita in casa e uccide con una pompa del gas. Poi l’uomo decide di architettare un piano per eliminare il vicino rumoroso e fastidioso. Infine decide di realizzare il migliore, il più estetico tra i suoi piani: il proprio suicidio. L’uomo si reca dunque per la città a piazzare delle casse di amplificazione in punti strategici, avvisa tutti di ciò a cui stanno per assistere, si lega la corda, precedentemente fatta da egli stesso, al collo e si lancia dal tetto di un palazzo.

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Gli usignoli di Rellstab Genere: thriller Formato: super8 Anno: 1984 Colore: colori Durata: ‘49‘15 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Dialoghi: Sandro Toni Regia: Mauro Mingardi Collaborazione artistica: Mauro Bonifacino Cast: Umerto Bortolani, Mara Menegatti, Lorenzo Mingardi

Un uomo decide di trasferirsi nella casa che fu dei suoi nonni insieme alla moglie, al figlio e al cane. I quattro cercano di adattarsi alla casa, ai mobili antichi, a tutto ciò che ricorda i nonni defunti. Presto, però, nella casa iniziano a verificarsi fatti inspiegabili come l’apparizione di foto del passato, scarpe che si muovono da sole, mani sconosciute che compaiono nelle fotografie. La moglie decide di andare via con il figlioletto e il cane, lasciando l’uomo da solo in casa con i suoi fantasmi. L’uomo inizia quindi una sorta di caccia al tesoro per cercare di capire chi sta tentando di comunicare con lui e cos stia cercano di dirgli. Dopo tutta una serie di indizi ed elementi, l’uomo capisce che i suoi nonni vogliono tornare nella loro casa e dopo un periodo di paura e sconcerto, accetta l’evento.

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Il fiore tra le rovine Genere: thriller Formato: super8 Anno: 1984 Colore: colori Durata: ‘55‘13 Audio: sonoro Soggetto: Sandro Toni, Mauro Mingardi Dialoghi: Sandro Toni Regia: Mauro Mingardi Collaborazione artistica: Mauro Bonifacino Cast: Giancarlo Cuccolini, Roberto Passini, Aline Cendon, Ettore Malossi, Morena Marinari Diletti, Emilia Bordoni, Mara Marzola, William Zagonara, Vittorio Naldi Due cugini condividono la stessa casa ma si odiano. Un cugino è paralitico l’altro non vedente, i due rispettivi handicap non fanno altro che accentuare i motivi di offesa tra i due uomini. Un giorno uno dei due propone all’altro di prendere una domestica. Dopo qualche tempo arriva in casa loro una giovane sordomuta per far loro da serva. I due uomini sono molto soddisfatti del lavoro della ragazza che inizia a relazionarsi sempre più con entrambi. Un giorno però, mentre sta lavando il cugino paralitico, la ragazza inizia a sedurlo. Dopo aver sedotto il primo cugino cerca di metterlo contro l’altro uomo. Stessa cosa fa con il secondo cugino, mentre si trovano in riva a un fiume per lavare i panni, la ragazza seduce anche l’uomo e lo mette contro il cugino. La ragazza ha architettato un piano per far si che i due cugini si eliminino reciprocamente, così da potersi appropriare della loro casa. Il piano riesce e la ragazza prende felicemente possesso della sua nuova casa.

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Amore e cuore non fanno più rima

Genere: thriller Formato: super8 Anno: 1984 Colore: colori Durata: ‘57‘03 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Dialoghi: Sandro Toni Regia: Mauro Mingardi Cast: Raffaele Finelli, Aldo Jonata, Claudia Benuzzi, Aline Cendon, Teresa Avenoso, Morena Marinari Diletti, Adele Pavan, Laura Magnani, Giovanna Randazzo, Renato Finelli, Franco Isotton, Roberto Passini, Nicola Cursi Un uomo e una donna dopo varie promesse e parole improvvisamente si lasciano, o meglio, la donna decide di lasciare l’uomo senza una reale spiegazione. L’uomo, in preda allo sconforto, dopo aver vagato un po’ per le strade, si reca in un palazzo. Nella sala d’aspetto del palazzo incontra un altro uomo deluso che inizia a raccontargli le sue vicende amorose. Racconta delle sue donne, del fatto che queste non riuscissero ma ad andare oltre le parole. Poi racconta di una donna con la quale il rapporto sembrava essersi stabilizzato, ma con la quale era tutto finito pure. Finalmente è il turno dell’uomo deluso che entra e dopo qualche tempo esce e va via. Quando entra il primo uomo, la donna che è dentro la stanza, che è una prostituta, gli racconta che colui che è appena uscito è in realtà un sognatore, ha inventato tutto. L’uomo, stanco, le si addormenta sul seno.

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La partecipazione della mia famiglia alla 2° guerra mondiale

Genere: documentario Formato: digitale Anno: 2003 Colore: colori Durata: ’23‘35 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Regia: Mauro Mingardi Cast:

Armando

Mingardi,

Selika

Mingardi,

Adriana

Mingardi, Mauro Mingardi

L’autore ricorda i periodi bui della seconda guerra mondiale, quando egli era ancora un bambino molto piccolo. Racconta i tempi in cui con la famiglia furono costretti a fuggire e rifugiarsi a Mongardino e che ogni tanto era necessario rinchiudersi nel rifugio antiaereo. Racconta e mostra anche la folta corrispondenza tra lui, la sorella Adriana e i nonni rimasti a Bologna.

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L’uomo che contava i passi

Genere: autobiografico Formato: digitale Anno: 2008 Colore: colori Durata: ’25‘08 Audio: sonoro Soggetto: Mauro Mingardi Dialoghi: Sandro Toni Regia: Mauro Mingardi Assistente alla regia: Mauro Bonifacino Cast: Maria Fernandez, Lorenzo Mingardi, Sandro Toni, Adriana Mingardi Voce narrante: Umberto Bortolani

Il regista, Mauro Mingardi, racconta se stesso e nello specifico una storia d’amore platonica che subirà negli anni diverse riprese e interruzioni fino a trovare per sempre una conclusione, non positiva, anni dopo. La protagonista della storia d’amore muore giovane e Mauro Mingardi ogni anno alla stessa ora celebra il suo ricordo portandole una rosa al cimitero.

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5. Premi e riconoscimenti Mauro Mingardi

Alla ricerca dell’impossibile (1962): Medaglia d’argento al XVI Festival Internazionale di Cannes

La danza dei contatori (1963): Premio per gli effetti speciali al Festival di Torino 1964. 1° Premio Festival di Bordighera 1964

Le ali degli angeli (1964): 1° premio

al festival

Internazionale di Mont Pelier, Francia, 1965

Raptus (1965): Fotogramma d’argento Festival di Cattolica del 1966. Medaglia d’argento e Diploma d’Onore al XX Festival di Cannes del 1967

La fossa (1966): Fotogramma d’argento al Festival di Cattolica 1967 L’inconoscibile (1966): Medaglia d’argento e Diploma d’Onore al XXI Festival di Cannes 1968. Premio al Festival Internazionale di Rochester (New York) 1969. Fotogramma di bronzo Torino 1969

Il tempo nel muro (1969): Fotogramma d’argento al Festival

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di Limone, Piemonte 1969. Premio al Festival Internazionale di Rapallo 1970. 1° Premio al festival Internazionale di Lisbona 1971. Patero d’oro al Festival di Lucca 1971

Il viaggio (1970): Fotogramma di bronzo al festival di Cattolica 1970. Fotogramma di bronzo al festival di Torino.

Le mosche (1970): Fotogramma di bronzo al festival di Castrocaro. Fotogramma di bronzo al festival di Cattolica 1971

Mutoscopio (1973): Palma d’oro al festival Internazionale di Pegli (GE) 1973

Ritorno al silenzio (1979): Fotogramma d’argento Festival di Cattolica 1980

Vita di artista (1981/’82): 1° Premio al festival Internazionale di Castrocaro. 1° premio Festival di Cattolica 1984

Gli usignoli di Rellstab (1985/’86): Fotogramma d’oro al Festival di Castrocaro

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Conclusioni

A conclusione dell’analisi, ribadendo che non è da considerarsi definitiva, possiamo riconoscere in Mauro Mingardi un singolarità autoriale. I limiti tecnici e produttivi, che sono nella natura stessa del cinema amatoriale, hanno stimolato l’estro e il talento creativo innati di Mingardi, consentendogli di formare un suo stile, proprio a partire da quei limiti tecnici. Il cinema amatoriale ha, dunque, permesso all’autore di creare un proprio linguaggio identificativo ed è per lo stesso motivo che Mingardi non ha mai accettato le lusinghe del cinema professionale, che lo invitavano a entrare nel circuito. L’autore ha preferito continuare a lavorare da indipendente e nella sua città, proprio per evitare di perdere quello stile nato anche a partire dall’attitudine a superare gli ostacoli che comunemente si incontrano nei set amatoriali.

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Filmografia

L’oro maledetto (1958) Incubo di un delitto / Il conte Ghini - Comiche (1959) (Mangas) L’apache (1959-1960) Resistenza (1962) Alla ricerca dell’impossibile (1962) Diario d’autunno (1962) La danza dei contatori (1963) Le ali degli angeli (1964) L’impresa trap e altri tre film (1964) La vita inutile (1964-1965) Raptus (1965) La fossa (1965) L’inconoscibile (1966) Associazioni libere (1967)

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Una mattina (1967) Diario di un’amica (1968) Il tempo nel muro (1969) Il viaggio (1970) Le mosche (1970-1971) Rapporto sentimentale (1971) Mutoscopio (1973) Badlands (1974) I morti di via Cirene (1975) Verdi illusioni (1977) Ritorno al silenzio (1977/78) Vita di artista (1981) Gli usignoli di Rellstab (1984) Il fiore tra le rovine (1988) Amore e cuore non fanno piĂš rima (1990) La partecipazione della mia famiglia alla 2°guerra mondiale (2002)

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L’uomo che contava i passi (2008)

Bibliografia

Fotogramma d’oro 88, in AA.VV., Catalogo del Festival di Castrocaro Terme, Federazione nazionale cinevideoautori, Castrocaro Terme, Edizioni Tecniche Nuove, 1988. Mauro Mingardi, in in AA.VV., Catalogo del Festival di Valdarno

Cinema

FEDIC,

S.

Giovanni

Valdarno,

Federazione Italiana dei Cine Club Roma, 1992. AA.VV., Catalogo XXI Festival International du Film Amateur, catalogo, Cannes, 1968. Baraldi Sauro, Sezione Cine-Video, Contemporanea, in AA.VV., Catalogo del Festival della Biennale d’Arte, Filosofia e Spettacolo, Bologna, Edito da Cineclub Lumière, 13/15 Ottobre 1986. Voce Memoria in Battaglia Salvatore, Grande dizionario della lingua italiana, vol. 11, 1. 0,

Torino, Unione

tipografico - editrice Torinese, 1975, pp. 46-48. Voce Grottesco in Battaglia Salvatore, Grande dizionario della lingua italiana, vol. 11 1. 7, Torino, Unione tipografico - editrice Torinese, 1975, pag. 77. Calzini Mario, Storia tecnica del film e del disco. Due invenzioni una sola avventura, Bologna, Cappelli Editore, 1991. Ciangola Marcello, Film d’amatore per i cinema d’essai in 139


Cinema Ridotto. Mensile del cinema a formato ridotto, Roma, Tip. G. Altobelli, giugno - luglio 1970. Ferraro

Fabrizio,

Breviario

di

estetica

audiovisiva

amatoriale, Roma, Editore Derive Approdi, 2007. Gattei Giorgio (a cura di), Rassegna Nazionale del Cinema Sconosciuto. Dal cinema d’amatore al cinema “altro”, Bologna, Edito a cura della Cineteca Comunale di Bologna, 1979. Poluzzi Vanes, Colantonio Simone, Swingin’ Bulåggna. Storie di musica, cinema e teatro nella Bologna degli anni '60, Bologna, Emil Editore, 2010. Zanarini Romano, Contemporanea, in AA.VV., Catalogo della

Biennale di Arte Filosofia e Spettacolo, Bologna,

Fabbri Editori, 1986.

Riviste

[anonim.] Alla scoperta della realtà con i film d’amatore, «QUI Bologna. Il settimanale della città», n. 6, Bologna, Poligrafici Il Borgo, febbraio 1971, p. 17. [anonim. ] Uno spazio per il cinema indipendente. Non solo Bologna, «Il resto del Carlino-Supplemento», n. 4, Bologna Poligrafici Editoriale S. p. A. , 1989, pp. 46 - 47. AA.VV., Il Fotogramma. Enal, «Notiziario della Federazione

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Nazionale

Cineamatori.

Bimestrale

di

cultura

cinematografica», Torino, FNC, luglio - agosto 1971, p. 20. «Cinema Ridotto. Mensile del cinema a formato ridotto», Roma, Tip. G. Altobelli, gennaio 1959 - maggio 1970. Di Martino Anna, Effetto cinema, «Tempo Libero», n. 4, Bologna, Edito dalla Federazione Italiana Liberi Circoli, aprile 1990, p. 14. Fiorini Karianne, Santi Mirco, Per una storia della tecnologia amatoriale, «Comunicazioni sociali. Rivista di media, spettacolo e studi culturali», Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, marzo 2005, pp. 427437. Patricola Gianni, XXIII Fotogramma d’oro, «Cineclub FEDIC», n. 16, Bologna, Federazione Italiana dei Cineclub, ott. - nov. - dicembre 1992, p. 21. Pederzoli Giuliana, Il Maker. Conversazioni con l’autore, «Cineclub», Federazione italiana dei cineclub, n. 12, Bologna, Poligrafici Editoriale S. p. A., dicembre 1991, pp. 5 - 10.

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