Big Apple

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INDICE Frontespizio Copyright Dedica Esergo Capitolo 1. Alcune cose che dovete sapere Capitolo 2. Quello che succede se ti distrai Capitolo 3. Il momento in cui… Capitolo 4. Mai nella vita Capitolo 5. Giungla urbana Capitolo 6. Ti odio Capitolo 7. Il gioco dei ruoli Capitolo 8. Amore e Psiche Capitolo 9. Lei non sa chi sono io Capitolo 10. Grazie Capitolo 11. Follia… probabilmente Capitolo 12. Non c’è limite al peggio Capitolo 13. Gli affari sono affari Capitolo 14. Problema risolto Capitolo 15. Nuovi amici Capitolo 16. Sciacalli Capitolo 17. Nuove regole Capitolo 18. L’altra faccia della medaglia Capitolo 19. Dubbi Capitolo 20. Oggi sposi Capitolo 21. Vita a due Capitolo 22. La dura verità Capitolo 23. Quello che vorrei Capitolo 24. Nemesi Capitolo 25. La speranza è dura a morire Capitolo 26. Il ciclo della vita Capitolo 27. Responsabilità Capitolo 28. Meglio soli Capitolo 29. Non mi deludere Capitolo 30. Prendimi Capitolo 31. Sei mesi dopo… giorno più, giorno meno Epilogo Nota dell’autrice



Marion Seals contatti@marion-seals-author.com Sito web ufficiale: www.marion-seals-author.com Facebook: Marion Seals www.facebook.com/marionsealslibri Redattore: Stella Pagani Illustratore: Franlu

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-1Alcune cose che dovete sapere Mi chiamo Dora Monroe, ho venticinque anni e vivo a New York. Che culo, direte voi. Vivo nella parte brutta di New York: il Bronx. È il quartiere più pericoloso e io sono l’orgogliosa occupante di un piccolo appartamento che si trova molto vicino alla famigerata circoscrizione 41, la quale, vi informo, detiene il record cittadino di 26 crimini per ogni 1.000 abitanti; ma siamo ottimisti, i record sono fatti per essere superati. I tipi di reato contemplati vanno dall’omicidio alla rapina, passando per stupro, furto e aggressione. La triste realtà è che non ho i soldi per affittare qualcosa di meglio del cubicolo che occupo; la vita a New York è cara e io sto ancora restituendo il debito studentesco con il quale ho potuto pagarmi l’università. La tana, come la chiamo con affetto e rassegnazione, è situata all’ultimo piano di uno stabile tutto sommato ancora in buone condizioni. Persino il padrone di casa è il meglio che potessi trovare. Si chiama Luther, afroamericano enorme, sulla sessantina, ex pugile ed ex molte altre cose. Oramai in pensione non si dedica più alla precedente attività e, credetemi, è meglio così. L’aspetto positivo è che per insondabili motivi mi ha adottata fin dal primo momento. So che aveva una figlia che non ha più visto dopo la prima carcerazione e probabilmente io sono il suo succedaneo. Sospetto che il mio vivere quieto con il resto del quartiere trovi le sue fondamenta proprio in questo. Nessuno oserebbe mai dare fastidio a un’amica di Luther. Da parte mia, mi sono affezionata e spesso ceniamo insieme. Lui vive al pianoterra ed è un patito della cucina italiana, fa delle Fettuccine all’Alfredo per le quali gli perdoneresti persino una strage. Non è un uomo di cultura, non intesa nel senso stretto del termine, ma ha una viva intelligenza ed è in grado di affrontare, a modo suo, molti argomenti, anche complessi. In fondo, con tutte le esperienze che ha maturato, è un laureato della vita. La nostra intesa è ancora più strana se si pensa che io provengo da una famiglia medio-borghese, adorata figlia unica di due docenti universitari. Mio padre, Byron Edward Monroe, è laureato in fisica delle particelle ed è un uomo tutto d’un pezzo, anche se i detrattori lo definirebbero rigido o, quelli più audaci, addirittura bigotto. Nessuno, mai, in sua presenza, perché ha la lingua più arguta e tagliente di tutto lo Stato; ho visto di persona gli effetti che può provocare e, dovete credermi, ho passato la mia vita a evitare di esserne il bersaglio. Per il resto è un ottimo genitore, ma lo dico ora che vivo lontana da lui. Mia madre, Fiona Anastasia Kindell, è l’esatto opposto: laureata in letteratura inglese, ex figlia dei fiori, ha una smodata passione per la vita, che ho ereditato. Non ho mai capito come possano stare insieme e l’unica volta che l’ho chiesto alla mamma mi sono dovuta sorbire un discorso pallosissimo sullo Ying e sullo Yang, nonché una descrizione delle loro prodezze sessuali che, per una vergine sedicenne, equivalgono a una seduta di infibulazione. Comunque alla fine ha vinto lei. Sono cresciuta tra i libri, ce n’erano ovunque a casa nostra nel Connecticut, persino sopra la lavatrice. Mentre le mie compagne di scuola si toccavano pensando al leader della boy band del momento, io lo facevo inventandomi torride fantasie su Heathcliff o, peggio, su Mr. Darcy. Questo non mi ha mai resa molto popolare. Quando ho perso la verginità, sul sedile posteriore di una vecchia station wagon, l’ho fatto con cognizione di causa. Volevo liberarmi dell’odiosa membrana e ho chiesto l’entusiastica collaborazione di un ragazzo che, l’indomani, sarebbe partito per il college. So che dovrei dire il suo nome, ma a malapena ricordo il suo viso. Comunque è stato fantastico e quando, al momento del mio primo orgasmo vaginale, ho urlato, lui è stato molto dolce: mi ha tappato la bocca e ha continuato a spingere, prendendosi il suo. Dopo ci siamo salutati come se fossimo appena usciti da un revival di film Disney e non l’ho visto mai più. Missione compiuta.


Da allora, ogni tanto, mi concedo una sveltina con qualcuno, giusto per mantenere un buon livello ormonale. Il problema, perché c’è sempre un problema, è che io non mi innamoro, o meglio: quelli di cui penso di essere innamorata non mi attirano per niente, e quelli con cui mi piace fare sesso non mi ispirano romanticismo. Qualche gene di mio padre deve essersi insinuato nella mia altrimenti perfetta doppia elica e ho la tendenza a trattare le relazioni come particelle elementari da studiare. Utilizzando il metodo scientifico, insomma. Quindi, pur essendo un passabile esemplare della specie, e pur avendo una spiccata attitudine alla comunicazione interpersonale, gli uomini scappano. Mio padre sostiene la teoria che si sentano castrati dalla mia intelligenza superiore, mia madre sostiene invece che devo migliorare la mia tecnica nella fellatio. Si può dire che entrambi, a modo loro, sono sempre pronti a rinforzare la mia autostima. Tuttavia, ci sono delusioni peggiori nella vita. Per esempio la carriera. I miei genitori l’hanno presa bene quando ho annunciato il mio trasferimento nella Grande Mela. Mio padre si è fatto il segno della croce e mia madre mi ha regalato una confezione magnum di profilattici all fruits. Due giorni dopo la mia partenza, la mia vecchia camera è stata trasformata in una palestra zen, dove la mamma fa yoga con le amiche. Lavoro in una grossa casa editrice, di quelle, per intenderci, dove rischi di portare un caffè alla Rowling o a Ken Follet. Ed è esattamente questo che faccio principalmente: porto il caffè, oltre che tenere l’agenda del mio capo. Voi direte: “È la fine che fanno quelli che non sono voluti andare al college.” Col cazzo! Io ci sono andata al college, eccome! Laureata a pieni voti a Yale in letteratura contemporanea. So cosa state pensando, ora: “Un’altra scrittrice frustata, una che non ce la farà mai perché il talento c’è solo nei suoi sogni più sfrenati.” Sbagliato! Non so scrivere e non mi piace scrivere. Però so leggere e migliorare quello che gli altri scrivono. Mi piacerebbe lavorare nell’editing ed è per questo che ho accettato il lavoro, per nulla gratificante, di assistente personale. Speravo di farmi notare abbastanza in fretta, ma dopo ben 743 giorni – sì, avete letto bene, sette-cento-quaranta-tre, li ho contati – ancora nessuno si è inginocchiato ai miei piedi per supplicarmi di correggere le bozze di chicchessia. Chi dovrebbe promuovermi? Il mio capo, ovviamente. Chi è il mio capo? Alexander Maximilian Stenton III. Giuro, si chiama proprio così. Trentacinque anni portati benissimo, moro, un fisico da reato, occhi verdi come le brughiere irlandesi e due fossette da mordere. Per il resto uno stronzo anaffettivo totale. Di lui si sa solo… tutto. È l’argomento principale di conversazione delle ragazze che lavorano con me e vi posso garantire che le imprese lavorative, e non, di Lex sono ormai leggende metropolitane. Lex? Sì, Lex. Per gli amici ovviamente, e altrettanto ovviamente io lo chiamo Mr. Stenton. Indefesso lavoratore di giorno, tombeur de femmes di notte. Attricette, modelle e affini saltellano allegramente sul contenuto dei suoi pantaloni, anche quello descritto come la quintessenza della perfezione, sia in termini qualitativi che quantitativi. Diffido sempre dei prodotti troppo pubblicizzati. Faccio spesso la battuta: “Dura lex sed lex”, riferita a lui, ma chi non conosce il latino e non è sveglio con i doppi sensi a sfondo sessuale, raramente la capisce. Tutte lo adorano e confessano i loro sogni bagnati con lui come protagonista. Questo perché non sono costrette a conviverci tutti i giorni e perché si limitano a osservarlo tipo “tigre in cattività”: bellissima, certo, ma prova a entrare nella gabbia con lei! Per la prima volta nella vita ho qualcosa per cui le altre donne mi invidiano e neanche la desidero. Però non mi voglio lamentare: c’è chi sta peggio di me, in qualche paese sperduto del mondo, senza acqua, né cibo. Accetto solo questo come paragone. ∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾


Il mio nome è Alexander Maximilian Stenton III, ma gli amici mi chiamano Lex e la ragione non me la ricordo più. Nasco in una famiglia alto-borghese, con infiltrazioni nobili da parte di madre. La mia bisnonna sposò un conte e questo fa di noi i privilegiati tra i privilegiati. Ovvio che non conterebbe un cazzo se non fossimo anche schifosamente ricchi. Mio padre, omonimo ma con un numero in meno, è il più grande figlio di puttana mai conosciuto. È uno squalo, ha triplicato il patrimonio in borsa e, ancora oggi a più di sessant’anni, continua a mietere vittime tra i branchi di ventenni che gli orbitano attorno. Mia madre, Cornelia Eva Winter, è la ricca figlia di un nobile inglese decaduto che però ha portato una ventata di vera classe in famiglia. Ha fatto, dello scovare un marito ricco, uno sport olimpico e ha mantenuto sempre il giusto decoro di fronte alla vagonata di corna che si porta dietro sin dal viaggio di nozze. Ha indottrinato così bene mia sorella Priscilla alla nobile arte, che ora lei è pronta per accalappiare qualcuno che le permetterà di prendere il posto che le spetta in società. Uno dei motivi, tra le altre decine, per cui sono contento di essere nato maschio. Anche se, per una volta, questo fa di me una preda. Da sette generazioni tutto ciò che tocchiamo diventa oro. Non c’è settore di investimento che non abbiamo sperimentato e nel quale non abbiamo avuto successo. Come se non fosse abbastanza essere miliardari, abbiamo anche un codice genetico da paura, che si traduce in un aspetto molto piacevole. Il che è un eufemismo perché io, senza modestia dato che non è nella mia natura, sono un notevole esemplare di maschio caucasico. Dopo la laurea in Economia a Harvard, ho deciso di investire il mio indubbio talento nell’editoria e, in poco meno di quindici anni, ho costruito un impero che abbraccia altri settori, in prevalenza telecomunicazioni, e che attualmente vanta più introiti di molti staterelli africani. So cosa state per dire: “Grazie al cazzo, facile quando si ha la pappa pronta!” Be’, se pensate che abbia solo dovuto schioccare le dita e godere dei frutti, vi sbagliate, e di grosso. Mi sono fatto da solo, io. Una volta laureato ho preso la mia parte di eredità della nonna paterna, dodici miserabili milioni di dollari, e ho lavorato sodo. Per cui, tutto ciò che ho ottenuto da quel punto in poi me lo sono guadagnato. Ora ho trentacinque anni, amo il mio lavoro e quando avrò tempo mi troverò una moglie alla mia altezza: giovane, bella e di classe, oltremodo feconda e con l’unico obiettivo di essere esattamente come io la voglio. In realtà ho solo l’imbarazzo della scelta all’interno di un nutrito gruppo di single di buona famiglia. Le madri non vedono l’ora di infilarle nel mio letto, già peraltro frequentato, con discrezione, da molte di loro. La mia vita è quindi programmata fin nei minimi dettagli, da sempre. Ecco perché ora sono incazzato. Per la prima volta sto provando che cosa significa essere sull’orlo di un potenziale insuccesso. L’unico con cui posso prendermela è me stesso; lo sapevo che non avrei dovuto mischiare il lavoro con il sesso. Poi, ovvio, è colpa anche di Cloe, stronza, puttana e cagna. Otto anni fa, quando ho comprato i diritti per un’assurda storia di vampiri mutanti, chi se lo sarebbe aspettato tutto quel successo? Eppure il primo libro della Ferbes è andato a ruba. Scritto di merda, con errori che neanche un bambino avrebbe commesso se non sotto psicofarmaci, lo avevo dato per l’editing a una giovane stagista che è riuscita a renderlo presentabile, usando uno stile nuovo e fresco. Da allora si è creato un eccellente connubio: la Ferbes mette le sue assurde idee e Cloe le rende pubblicabili. Milioni di dollari di introiti e tutti soddisfatti. L’errore è stato scoparmi la ghostwriter. Dalla mia c’è l’assoluta consapevolezza di essere stato chiaro fin dal principio: nessun coinvolgimento romantico, mai. Ma ho sopravalutato Cloe. La sua appartenenza al genere femminile la rende una predatrice e i suoi “sì, certo, sono d’accordo” erano bugie premeditate. Per circa tre anni abbiamo fatto sesso regolarmente, almeno una volta a settimana, quando lei mi portava il nuovo capitolo del libro


in editing. Andava bene a tutti e due, per cui ero sereno. Poi, due mesi fa la Ferbes ha consegnato l’ultimo manoscritto e, come sempre, è partita la campagna pubblicitaria internazionale per creare la giusta aspettativa tra le fan. Al solito ho contattato Cloe e da lì in poi è iniziato l’incubo. Quando è venuta nel mio appartamento ha dichiarato che si sarebbe rifiutata di fare l’editing se prima non avessimo sistemato la questione tra noi due. Alla mia domanda: “Quale questione?” si è trasformata in una erinni assetata di sangue, il mio. La faccio breve perché il ricordo è ancora traumatico: voleva diventare la mia fidanzata e ha preteso che ci sposassimo entro la fine dell’anno. Quando le ho offerto più soldi, mi ha tirato addosso un preziosissimo manufatto egizio dal valore incalcolabile che, per fortuna, sono riuscito a prendere al volo. Psicopatica stronza! L’ho sbattuta fuori di casa utilizzando un vocabolario meno forbito del solito e licenziata in tronco, ricordandole il contratto firmato e la clausola che la vincolava al silenzio assoluto sul suo ruolo. Ora non mi resta che trovare un sostituto, ho solo tre mesi di tempo prima della data prevista per la pubblicazione del libro. L’insuccesso non è contemplato.


-2Quello che succede se ti distrai Stamattina non sembra neanche lunedì; la sveglia ha suonato e io mi sono alzata in tempo. Doccia, colazione e vestizione. Indosso sempre lo stesso tipo di completo: un tailleur pantalone in lino d’estate e il suo gemello in fresco lana per l’inverno. Ne ho tre esemplari per ogni stagione, nei colori tenui e sobri richiesti dal mio ruolo. Le scarpe hanno il tacco, ma sono comode, per quelle non ho certo badato a spese. Raccolgo i capelli in una coda alta, così sono più pratici e non mi intralciano. Per reazione a tutto ciò, nel tempo libero mi vesto casual, esagerando in jeans. Alle 8.30 puntuale, varco l’enorme porta girevole del grattacielo in cui lavoro e salgo all’ultimo piano. Ovvio che ci troviamo a Manhattan, più precisamente nell’Upper West Side: in quale altro luogo credete che potrei mai lavorare? Il mio ufficio è un open space, con le scrivanie disposte in modo artistico lungo l’enorme stanza che divido con le altre impiegate. La mia postazione è quella più vicina alla porta dell’unica zona circondata da muri: l’ufficio di Lex. Sistemo le mie cose e mi siedo alla scrivania, pronta per un’altra settimana all’insegna della più completa anonimia. Poi noto una cosa che mi lascia per un attimo interdetta: il computer è già acceso. Strano. Certo potrei averlo dimenticato, ma di solito sono abbastanza precisa. «Fedora?» la voce del mio capo nell’interfono mi fa sobbalzare. Quanto odio il mio nome completo! È uno dei motivi per cui prima o poi denuncerò i miei genitori per danno esistenziale. E, per inciso, quello stronzo di Lex ignora da due anni i miei tentativi di rettifica: gli avrò detto un centinaio di volte di chiamarmi Dora, ma lui niente, come se fossi invisibile. «Vengo subito, Mr. Stenton.» Appena metto piede nel suo ufficio resto zitta e aspetto. So quanto lo irritano le domande retoriche. Inizia a ringhiare come al solito: «Ha fatto qualche pasticcio con la cartella condivisa di Dropbox?» E buongiorno anche a te, Lex! «No, Mr. Stenton.» Almeno non credo. Cerco di fare mente locale sull’ultima volta che l’ho aperta e non ci riesco. Mi guarda ogni volta in un modo così severo. Non capisco perché sono la sola con cui lo fa; con le altre è sempre formale, ma gentile, mentre io vengo spesso identificata come l’origine di tutti i mali del mondo, dall’omicidio di Kennedy al virus ebola. Indossa uno dei suoi spezzati strappamutande – a chi piace il genere – con giacca grigia, pantaloni neri, camicia nera e cravatta abbinata. Sembra Richard Gere e quasi me lo immagino a testa in giù mentre scolpisce i suoi addominali e… «Non riesco più a trovare l’ultima versione del manoscritto della Ferbes. L’avevo archiviato nella cartella comune perché volevo che se ne occupasse lei, Fedora. Stamattina però sono entrato e non ce n’era traccia.» Di tutta la conversazione l’unica cosa che mi rimane è “perché volevo che se ne occupasse lei, Fedora”. In più di due anni, mai era capitato che mi domandasse una cosa del genere. «Lei voleva chiedermi di occuparmi del manoscritto inedito della Ferbes? Lo stesso manoscritto che milioni di persone stanno aspettando da mesi come manna dal cielo? Quel manoscritto su cui abbiamo l’esclusiva e che ci frutterà una vagonata di milioni di dollari in introiti? L’unico manoscritto che mi abbia mai chiesto di visionare e lei se lo è perso?» rispondo, e di certo l’ultima parte potevo risparmiarmela.


Mi guarda come se mi fossero spuntati serpenti nei capelli. «Fedora, io l’ho archiviato ieri e lei è l’unica che condivide la cartella con me. Quindi la logica conclusione è che lo smarrimento sia un problema suo. Lo trovi!» Detto questo mi fa il solito cenno di congedo e si siede alla scrivania. Porca paletta! «Mr. Stenton?» «Sì?» risponde infastidito. «Se… quando lo trovo posso ancora darci un’occhiata?» chiedo timida, per la prima volta nella mia vita. Mi dispiace di averlo giudicato male, mi dispiace di aver pensato che fosse uno stronzo del paleolitico. In realtà è un uomo sensibile e prudente, aveva semplicemente bisogno di conoscermi meglio prima di fidarsi. Certo, mai neanche nei miei sogni più sfrenati avrei pensato che mi affidasse un lavoro tanto importante. «Certo, ho bisogno di quelle fotocopie per questo pomeriggio e vorrei che le facesse di persona.» Sapete quando si dice che ti è arrivata una doccia gelata? Bugie, solo bugie. Non senti freddo. Quando ti tirano un cazzotto del genere, hai come una contrazione alla bocca dello stomaco. E senti caldo, molto caldo. Credo che sia qualcosa legato al picco di adrenalina. «Fo… tocopie?» riesco ad articolare a fatica. Mi guarda attento e poi chiede severo: «Fedora, ha per caso bevuto ieri sera?» La consueta rabbia inizia a montare. Lo stesso atteggiamento aggressivo che ha sempre accompagnato i peggiori disastri della mia vita. Non ci posso fare niente. La terapeuta dalla quale sono andata una volta, allo scopo di conoscermi meglio e impedirmi di uccidere il mio ultimo ragazzo, ha detto che io lavoro troppo di pancia e di certo non alludeva a qualche virus intestinale. Iperventilare in questi casi aiuta sempre, per cui inizio un “inspira ed espira” che di certo mi fa sembrare un po’ inquietante. «Se sta per vomitare, lo faccia da qualche altra parte per cortesia» dice all’improvviso allarmato. Lo fulmino con lo sguardo e questo lo spiazza. Troppi anni di servizievoli slinguate perché possa intuire quello che sta per succedere. «Mr. Stenton,» pronuncio con voce chiara «prenda quelle fotocopie e se le ficchi dritte su per il culo.» Ecco, l’ho detto. Semplice. Lineare. Chiaro. Poi mi giro con naturalezza ed esco dall’ufficio, senza lasciargli il tempo di ribattere nulla. Me ne vado io, prima che quell’arrogante esemplare di homo sapiens possa licenziarmi. Ok. Altro respiro profondo. Allora, in banca ho esattamente 1.237 dollari. Significa un mese e mezzo di affitto, se non mangio. Chissà se nella caffetteria sotto casa hanno ancora bisogno di una cameriera? Potrei chiedere già questa mattina. Sì, potrei, e poi chiamo la mia mamma e le chiedo se sono in casa il prossimo week-end così vado a fare il pieno di coccole tantriche. Mio padre sarà contento e insieme potremmo andare alla partita. Sì, mi pare di aver pianificato la mia prossima settimana, unico progetto che mi è riuscito da due anni a questa parte. Guardo sconsolata la scrivania. Durante la permanenza in questo posto ho accumulato tante cose. Per fare il trasloco ci vorranno delle scatole. Forse posso usare quelle vuote delle fotocopie, sperando che non le abbiano già buttate tutte. L’interfono si attiva. «Fedora! Nel mio ufficio. Adesso!» Ancora! Che cazzo vuole? Se pensa di farmi paura si sbaglia di grosso! Quelli come lui me li mangio a colazione. Ora che non è più il mio capo, giochiamo sullo stesso terreno io e Mr. “uccello meraviglioso”. Intanto le altre impiegate iniziano a capire che c’è baruffa nell’aria e quasi si fratturano i graziosi colli da cigno per guardare verso la mia scrivania.


Pigio sul tasto di risposta con più forza del necessario e per poco non mando a terra l’immondo aggeggio. «Perché non vieni tu qui, Lex? Sono indaffarata in questo momento.» Un sibilo aspirato è l’unica risposta che ottengo. Musica per le mie orecchie. Palla al centro, stronzo. Avete presente le bambole gonfiabili che vendono su Internet nei siti per poveri sfigati segaioli? Sì? Bene, allora potete facilmente immaginare la forma della bocca delle ragazze presenti nella stanza in questo momento. A memoria d’uomo, ma anche di minerale e vegetale, mai nessuno aveva osato apostrofare il “caro Lex” in quel modo. Il mio petto si gonfia di orgoglio. Diventerò un mito, di me si parlerà nelle generazioni future e resterò per sempre “quella che ha tenuto testa ad Alexander Maximilian Stenton III”. La porta dell’ufficio si spalanca e Lex esce a passo di marcia. Occhi ridotti a due fessure, mi sembra quasi di intravedere piccole colonne di fumo lasciare le sue orecchie con eleganti volteggi. «Miss Monroe, è per caso impazzita? Quando le dico di venire nel mio ufficio, lei deve smaterializzarsi e comparirmi di fronte!» La frase termina con toni decisamente più alti. Sto godendo. «Senti, Lex, questa cosa che tu urli e io vengo potrebbe anche avere dei risvolti positivi, peccato che non sono interessata.» Un singulto collettivo coglie le galline alle mie spalle. Beccati questo! «Bene, se non vuole venire nel mio ufficio le parlerò qui. Lei è licenziata!» Gli scoppio a ridere in faccia. Noto che la vena sulla fronte inizia a pulsargli a ritmo di samba. «Ma davvero? Che cosa originale che hai appena detto! Chi se lo sarebbe mai aspettato!» «Prenda le sue cose e sparisca dalla mia vista!» sibila. «Era quello che stavo tentando di fare prima che venissi qui a rompermi le palle con la tua inutile dimostrazione di quanto sei bravo a batterti i pugni sul petto. Tuttavia, non sei così fortunato. Voglio prima trarre un vantaggio da questa situazione. Se devo perdere la mia unica fonte di sostentamento, sono decisa a togliermi un’ultima soddisfazione. Per quasi due anni ti ho fatto da schiava, ho preparato quell’orribile caffè turco che ti ostini a trangugiare, ho portato la tua biancheria a lavare, ho comprato i regali alle tue amichette, senza mai sbagliare i nomi, di modo che tu potessi continuare allegramente a scopartele e, per ultimo, ho visto mediocri stronzi passare di grado davanti a me solo perché erano bravi a leccarti il culo. Non ti sei mai degnato di darmi una possibilità! Io sarei in grado di fare l’editing come e meglio di tutti qui dentro. Sono talmente brava che potrei riscrivere il libro della Ferbes a occhi chiusi da quanto conosco e amo il suo stile. Detto questo credo che ora prenderò quel poco di dignità che mi è rimasta e uscirò da questo ufficio con la certezza che non sarete mai davvero consapevoli di quello che state perdendo.» Afferro la borsa e la giacca, intenzionata a mettere in atto il mio proposito. «Ferma!» ordina con voce imperiosa. Ma proprio non è in grado di capire quando è il caso di gettare la spugna? Mi afferra per un braccio e inizia a trascinarmi verso il suo ufficio. Resto interdetta per pochi attimi e poi punto i piedi nel patetico tentativo di ostacolare il mio rapimento. Mi giro e cerco lo sguardo solidale delle mie ex colleghe, ma tutte sono intente a fissare immaginari punti sparsi per la stanza. Stronze! «Lasciami andare, troglodita! Ti accuserò di lesioni e molestie, e quando il mio avvocato avrà finito con te non potrai più permetterti i costosi regali per le tue trombamiche!» Non penso di avercelo mai avuto un avvocato. A Lex scappa una risatina, mentre chiude la porta e mi scarica poco elegantemente su una delle poltroncine. Appoggia le mani sui braccioli e mi fissa negli occhi, posizionandosi a pochi centimetri dal mio naso.


«Davvero?» chiede. Oddio, davvero cosa? Non sono mai stata così vicina a lui, i suoi occhi mi fissano indagatori e la secchezza delle fauci è d’obbligo. «Eh?» replico, come a sottolineare la mia elevata capacità comunicativa di quel momento. «Davvero sarebbe in grado di editare un romanzo della Ferbes? Conosce così bene le sue opere?» Ecco. Tra tutte le cose che pensavo dicesse, questa non era neanche in lista. Mio padre dice sempre: “Quando ti chiedono se sai fare una cosa, rispondi sempre di sì e poi corri a studiare.” Chissà perché ho sempre pensato che fosse un consiglio del cazzo, ma decido di dargli fiducia e mi ritrovo a dire: «Certo, senza ombra di dubbio.» Lex continua a fissarmi pensieroso e poi sorride. Non qualcosa di rassicurante, ma piuttosto la valida imitazione di uno squalo. «Benissimo Fedora, ti sei appena aggiudicata l’editing del libro della Ferbes,» mi informa, passando con naturalezza al tu. «Per questo sabato voglio i primi cinque capitoli corretti. Facciamo per l’ora di cena a casa mia, alle 07.00 in punto. Questo, ovvio, se riesci a ritrovare il file in Dropbox.» La mascella cede e la bocca si spalanca. Scruto il suo viso per capire se mi sta prendendo per il culo, ma c’è solo la solita espressione arrogante. «Sei esentata dal venire in ufficio, passa le tue incombenze a Meredith. Questo incarico deve restare tra noi Fedora, è vitale che non si sappia in giro per il momento. Mi sono spiegato?» Annuisco ancora in trance. «Bene, ero sicuro che avresti compreso. Ci vediamo nel fine settimana.» Detto questo si dirige alla sua scrivania con l’atteggiamento di chi non ha altro da aggiungere. Mi alzo come ubriaca e cammino verso la porta. Con la mano sulla maniglia mi fermo e prendo un bel respiro per dire qualcosa, ma lui mi anticipa: «Buon lavoro, Fedora.» ∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾ La guardo uscire e ancora non posso credere di avere appena concesso a quella pazza scatenata la possibilità della sua vita. Il fatto è che sono con l’acqua alla gola. Le fotocopie che le avevo commissionato erano le ultime da consegnare ad altrettanti editor di fiducia. Le precedenti prove non sono andate bene. Tutti si aspettano di dover solo correggere errori e incongruenze e io non posso rivelare che invece lo devono riscrivere completamente. Comunque, nessuno sarebbe in grado di riprodurre lo stile di Cloe e io inizio a sentire le prime gocce di sudore freddo. Certo, potrei inventarmi un incidente – oggi è tanto di moda denunciare il furto di un manoscritto – ma sono solo trovate pubblicitarie e nessuno ha mai usato davvero una motivazione del genere per coprire i ritardi editoriali. Io sono un pioniere, ma voglio essere ricordato per le innovazioni e non per le stronzate. «Meredith» latro nell’interfono. Entra nella stanza con quella gonna troppo corta e quei tacchi che di comodo non hanno niente. Mi stupisco sempre di come le donne siano disposte a soffrire pur di apparire più desiderabili. Questo mi riporta a Fedora. Lei indossa sempre castigati tailleur pantalone con scarpe eleganti e pratiche. È una delle cose che ho sempre apprezzato, anche se questo mi preclude la vista del suo corpo che intuisco comunque notevole sotto quei centimetri di stoffa. Si raccoglie quei capelli neri come l’onice in code o chignon per apparire più professionale o dimostrare più anni. Se potesse, ne sono quasi certo, indosserebbe anche occhiali per darsi un contegno, ma evidentemente la natura non la supporta in questo.


L’ho assunta circa due anni fa. Ottimo curriculum, laureata a Yale con il massimo dei voti, stage inappuntabili presso altre serie case editrici con ottimi report. Ho intuito da subito che la richiesta per il posto di assistente era solo un trampolino per farsi conoscere e apprezzare. Ero anche intenzionato a darle una chance, ma il suo atteggiamento mi ha spiazzato. Lei non mi guarda. Cioè… certo che punta i suoi occhioni neri su di me, nelle diverse circostanze che lo richiedono, ma non mi vede in quel modo. Lei non mi idolatra, lei non mi adula, lei non mi blandisce, lei non pende dalle mie labbra. L’unico momento nel quale l’ho vista con il fiato sospeso in mia presenza è quando ha creduto che le stessi assegnando il manoscritto della Ferbes. Mi è piaciuto quello sguardo incantato, come se stesse scoprendo di avermi sempre giudicato male e mi stesse dando una nuova possibilità. È durato poco perché ho dovuto chiarire l’equivoco. Non mi aspettavo che si incazzasse così tanto però; certo, avevo intuito che fosse una con il fuoco addosso, ma quando mi ha insultato di fronte alle altre impiegate non mi ha lasciato scelta e ho dovuto licenziarla. Poi lei ha messo in evidenza la sua conoscenza delle opere della Ferbes e l’istinto è scattato. Io ho sempre avuto una specie di intuito speciale per cogliere i momenti magici, quegli attimi in cui devi agire con prontezza perché si presentano raramente e sfuggono via con rapidità. Sono quei preziosi secondi nei quali devi decidere per un sì o per un no, e che poi portano conseguenze spesso inaspettate. Non ne ho mai perso uno e ho sempre dato la risposta giusta. Ecco perché aspetterò sabato con curiosità. È una sorta di esperimento antropologico e mi sono anche guadagnato un appuntamento con una bruna niente male, la cui carriera dipende totalmente da me. Non che io voglia approfittarmi di lei, non ne ho bisogno per portarmi a letto le donne. «Mi voleva Mr. Stenton?» Meredith attira di nuovo la mia attenzione e interrompe il mio volo pindarico. Lo fa con la solita domanda scema. «Sì, ovvio. Da oggi, per un certo periodo di tempo, lei prenderà il posto di Fedora come prima assistente. Ordini rose e orchidee per sabato, da consegnare a casa mia.» Il suo sguardo languido e il sorriso idiota mi dice che il cambio di ruolo non le dispiace per niente. «Certamente, Mr. Stenton. Di che colore le rose?» «Bianche.» «Certo, Mr. Stenton. C’è… altro che posso fare per lei?» Il tono in cui lo chiede è inequivocabile. Se glielo chiedessi sarebbe disposta ad allargare le gambe anche subito o a farmi un lavoretto di bocca. È bella, con folti capelli rossi e due tette da competizione. Dieci anni fa questa situazione sarebbe stata eccitante, dieci anni fa ne avrei approfittato. Le avrei chiesto di chiudere la porta e me la sarei fatta senza tanti scrupoli. Oggi sono più prudente. Spesso preferisco rivolgermi a professioniste selezionate e dalla discrezione leggendaria. Meredith non sarà mai l’assistente ideale per me, questo è certo. Fedora, quando la chiamo, ha l’intelligenza di stare zitta e aspettare che parli io, fa esattamente quello che le chiedo e come glielo chiedo. Quando è necessario correggere qualche mia svista lo fa con discrezione, senza doverne necessariamente parlare. Prepara un ottimo caffè turco, corposo e forte, come piace a me, e trova sempre il regalo giusto per amici e parenti. Adesso che ci penso è la migliore assistente che abbia mai avuto. Eppure non so praticamene niente della sua vita, non so se frequenta qualcuno, se ha figli, fratelli, sorelle. Abbiamo sempre parlato solo di lavoro in questi due anni. Delle altre impiegate conosco molte più cose. Meredith per esempio, nonostante la sua indubbia disposizione ad allargare le gambe, è fidanzata con un giovane broker di Wall Street e stanno pensando di sposarsi a fine anno. «No, grazie, può andare.» Si volta ancheggiando come se fosse in passerella e mi concede di nuovo lo spettacolo del suo culo che si allontana.


Eh sì, forse sto invecchiando. A dire il vero anche la sola idea è odiosa, ma io sono un tipo pragmatico: sollevo il telefono e chiamo Stephen, il mio sparring partner. Ho proprio voglia di tirare due colpi e allenarmi per allontanare lo stress. ∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾ Il mio rientro nell’open space che condivido con le altre impiegate è sottolineato da un silenzio tombale. Tutte sono giustamente convinte di osservare un fantasma che presto svanirà dal loro orizzonte. Apro Dropbox e trovo il file; il genio lo aveva archiviato dentro la cartella “vecchi file”. Come in trance lascio le mie solidali colleghe alle loro errate certezze ed esco. New York è uno splendore a giugno, ma io riesco a malapena a raggiungere la fermata da quanto sono scossa, figurarsi guardarmi intorno. Il tragitto in metropolitana, e poi in bus, si svolge come in un sogno. Ancora non mi sembra vero! Sarò io a editare il romanzo più atteso della stagione. L’idea mi terrorizza e mi esalta allo stesso tempo. Vorrei gridarlo al mondo, ma ho promesso riservatezza. Quando potrò lo sbandiererò ai quattro venti, alla faccia di tutti quelli che non hanno mai creduto nelle mie capacità. Chi ha tempo non aspetti tempo, così la prima cosa che faccio è accendere il PC e aprire la cartella condivisa. So che lui potrebbe controllare il lavoro in itinere, per cui come prima cosa sposto il file sul desktop per non sentire il suo fiato elettronico sul collo. Poi, quasi con deferenza, inizio. Sono emozionata come una verginella alla sua prima volta. È vero che adoro i libri della Ferbes e non vedo l’ora di leggere che fine ha fatto il protagonista. L’ultimo capitolo si è chiuso con un meraviglioso cliffhanger che sta tenendo con il fiato sospeso mezzo mondo. Non sono preoccupata per il lavoro che mi aspetta, l’autrice in questione ha uno stile unico e perfetto, al massimo mi toccherà correggere qualche refuso ed eliminare cacofonie e ripetizioni. Con una tazza di ottimo caffè americano, alla faccia dello stronzo, inizio la mia avventura come editor, segnando per sempre nel mio cuore questo momento. Due ore dopo giungo a una consapevolezza che in realtà è una conferma. Io odio Alexander Maximilian Stenton III, lo odio come non avrei mai pensato di odiare un altro essere vivente, lo odio in quel modo totale che spesso porta persone molto più equilibrate di me all’omicidio. Questo libro è una merda! Non brutto, non scritto male, ma proprio una cagata pazzesca! Lo shock della lettura del primo capitolo è più di quanto un essere senziente possa reggere. Chiudo il notebook con violenza e mi sdraio sul divano con una confezione magnum di aspirina. Non facciamoci prendere dal panico. Questo non può essere il libro della Ferbes, lo stronzo lo ha sostituito con questo abominio al solo scopo di consumare una vendetta nei miei confronti. Lo ha di sicuro scambiato durante il tragitto del mio ritorno a casa, non c’è altra spiegazione. Riapro il PC per verificare la mia teoria. Purtroppo scopro che la data di creazione del documento risale alla sera prima e che non risultano successive modifiche, quindi questo è il file del quale dovevo in origine fare le fotocopie. Cazzo, cazzo, cazzo! Spiegazione finale: la Ferbes è un bluff e c’è sempre stato un ghostwriter dietro ai suoi manoscritti. Questo signore, o signora, deve avere mollato Lex sul più bello e lui si è ritrovato tra le mani l’incubo letterario che ho davanti agli occhi. Ecco perché nelle ultime settimane era più irritabile del solito, ed ecco perché mi ha fatto quella proposta. Ora cosa mi rimane da fare? Dovrei riscrivere cinque capitoli di questo orrore mantenendo solo la trama, che in realtà è l’unica cosa presente. Rifletto. È possibile farlo? Sarei in grado di riprodurre lo stile facendo un lavoro all’altezza? Probabilmente no, ma non ho altre alternative se non provarci.


-3Il momento in cui…

I successivi giorni risultano confusi nella mia memoria. Scrivo, scrivo e ancora scrivo, nei ritagli di tempo mangio e svolgo le funzioni corporali di base. In principio volevo mandare una email allo stronzo, o almeno un tweet, avevo anche preparato il testo: #stronzopezzodimerdachetupossacrepareora. Ci ho rinunciato quando ho capito l’inutilità dell’azione. Gli unici contatti con il mondo esterno sono stati la telefonata settimanale dei miei genitori e una cena con Luther. Mia madre ha avvertito subito l’aura plumbea nella mia voce. A volte penso che abbia davvero dei poteri paranormali. Non le ho raccontato niente, e non perché non volevo gravarla con i miei problemi, ma per pararmi il culo. Se avrò successo sarà una buona notizia per lei, mentre se dovessi fallire non dovrò affrontare le conseguenze, se non con me stessa, ovvio. Alla fine è arrivato il solito consiglio, sempre lo stesso, in grado di risolvere tutti i problemi di umore. Fare più sesso. Mio padre era fuori per una conferenza e non ho potuto parlargli. La cena con Luther non è andata meglio; lui si è esibito in un monologo visto che le mie risposte a monosillabi non possono essere considerate una vera e propria conversazione. Ha capito che c’era qualcosa che non andava e alla sua domanda: “Devo sistemare qualcuno?”, mi sono affrettata a rispondere di no, anche se per qualche secondo sono stata tentata. Ora è sabato mattina e non ho ceduto del tutto al panico, ma ci sono vicina. Mi manca il quinto capitolo, quello con la scena di sesso m/m. Per chi non conoscesse la sigla, con questo termine si intende una scena omosessuale, tra uomini. Sono in seria difficoltà per due motivi: primo, non ho mai letto una scena del genere; secondo, la Ferbes non aveva mai scritto prima una scena simile, per cui non ho termini di paragone. La tentazione di chiamare rinforzi è forte e alla fine cedo. Trenta minuti dopo Randy, che per fortuna abita a pochi isolati da casa mia, si presenta nel mio appartamento. Lui è uno di quelli che ti fanno gridare al cielo per l’ingiustizia. Capelli castano scuro, occhi nocciola, fisico prestante. Bellissimo come pochi uomini di mia conoscenza, ha anche uno spiccato senso dell’umorismo e un modo di presentarsi che non ti farebbe mai sospettare le sue preferenze sessuali. Per tale ragione, all’inizio ti illudi di poterti infilare nel suo letto, poi, quando scopri che è gay, la delusione è ancora più brutta. Per fortuna ha portato i pasticcini, come fa spesso. Mi fiondo sulla riserva di zuccheri senza il consueto interesse per il futuro dei miei fianchi. Si guarda intorno con la solita aria di disapprovazione. È da quando lo conosco che tenta di convincermi ad abbandonare il quartiere. Lui abita nella parte meno brutta; uno di quei miracoli per cui, anche se in linea d’aria puoi vedere lo stesso piccione in volo, corri meno rischi di essere accoltellato per una decina di dollari. Poi, il suo senso estetico mal sopporta l’accozzaglia di mobili di seconda mano con i quali, nell’indigenza del momento, sono stata costretta ad arredare il mio nido. Quando ho potuto permettermi qualcosa di più è subentrata la pigrizia. Dovete sapere che Randy è un’artista: disegna bozzetti per abiti maschili e lavora presso una grande maison di moda. In questo momento, per esempio, indossa una tuta che rappresenta il suo abbigliamento informale da casa, e che, però, costa di sicuro almeno un terzo del mio stipendio; quindi capisco bene che il mio divano letto rosa-confetto, con qualche molla fuori posto, il mio cucinino, che sembra direttamente uscito da una rivista di arredamento degli anni ’60, le tende di un terribile color menta e, tocco di genio, il tappeto rosso peloso possano essere eccessivi per lui. Una volta, scherzando, gli ho fatto notare che era una casa molto arcobaleno. Non ha riso. «Allora, che cosa c’era di così urgente?» chiede addentando un pasticcino.


«Ho bisogno di una tua specifica competenza. Dovresti leggere questa scena di sesso e dirmi come posso migliorarla.» Sbircia il monitor e poi mi guarda divertito. «Stai leggendo una scena gay? Perché?» Gli racconto a grandi linee quello che sta succedendo, non risparmiando insulti da scaricatore di porto appresi da Luther, un vero maestro in questo. Vi ho già detto che apprezzo Randy? È un vero amico, sempre pronto a sostenermi. Ha un unico difetto, be’ oltre a quello di essere inaccessibile alla mia libido: lui è un fan di Lex. L’ha visto un paio di volte quando è passato a prendermi in ufficio per il pranzo ed è rimasto folgorato. Lo considera la reincarnazione di Apollo in terra e per mesi è rimasto a struggersi sulla sua indubbia eterosessualità. Quindi non è in grado di essere obiettivo, neanche un po’. «Però è stato gentile, ti ha dato un’opportunità. È molto più di quello che avrebbe fatto chiunque altro al suo posto. Poteva licenziarti e amen.» «Hai sentito quello che ho detto? Ha bisogno di me, è nella merda fino al collo. Ha promesso che il libro sarebbe uscito tra due mesi e se non manterrà la parola rischia di perdere i grandi distributori. Stanno facendo una campagna pubblicitaria su larga scala, perderebbero milioni di dollari se i tempi non fossero rispettati. Ora, da quello che vedo, non si tratta solo di editing, lo squalo sta tentando di intorbidire le acque per non far scoprire l’inganno del ghostwriter. Non è un santo, è uno stronzo con l’acqua alla gola.» Mi guarda in modo strano. «Adesso cosa c’è?» chiedo irritata. «Niente. Solo che è la prima volta che ti vedo così arrabbiata. Di solito qualsiasi incazzatura ti passa in fretta.» «Qui mi gioco la carriera e due anni di vita potenzialmente buttati nel cesso!» rispondo piccata. «Questo è vero. Però avverto qualcosa di più personale che ti lega al tuo capo.» «Più personale dell’odio imperituro? Rimetti in tasca il pendolo, come sensitivo non hai futuro.» Ride alla battuta, ma smette immediatamente quando si accorge che non era mia intenzione farla. «Ok, lasciamo perdere. Vediamo questa grande scena d’amore.» Si piazza di fronte al PC; per circa una decina di minuti legge in silenzio, poi nel punto critico inizia a sorridere e infine ride fino alle lacrime. Siamo messi bene… «Non mi avevi detto che era un comico» sentenzia. «È così brutta?» «È inverosimile e suscita ilarità.» Pure? Maledetta Ferbes, che la più potente delle diarree possa cogliere lei e il ghostwriter che ha mollato Lex. Ci mettiamo tutta la mattina per sistemarla, cercando il giusto compromesso tra la scena porno nella mente di Randy e la scena più moderata presente nella mia. Lo invito a pranzo per sdebitarmi, ma lui declina dicendo di avere già un impegno. Lo bacio con gratitudine e lui ricambia, sussurrandomi nell’orecchio: «Vedrai che andrà tutto bene. Sei brava nel tuo lavoro e anche il bello e tenebroso dovrà rendersene conto.» Apprezzo oltre misura il suo appoggio e non mi butto tra le sue braccia in lacrime solo per mantenere una parvenza di quella dignità che in realtà non ho. Non in questo momento. Il resto del capitolo mi tiene occupata fino al tardo pomeriggio. Mi rendo conto che mancano due ore all’appuntamento con l’infame, per cui mi ficco sotto la doccia. Non mi preoccupo di scegliere i vestiti: un paio di jeans, una maglietta e anfibi andranno benissimo. Mica è un appuntamento galante, anzi spero che il tutto si concluda il più in fretta possibile. Il tragitto per arrivare a casa sua non è lungo visto che abita in un elegante palazzo a un solo isolato dall’ufficio. Per cui, dopo aver fatto il solito tratto di strada a piedi, prendo l’autobus e poi la metropolitana. Il percorso è caratterizzato dalle occhiate curiose dei miei compagni di


viaggio. Forse, tiro a indovinare, dovute al fatto che parlo da sola e gesticolo come un imbonitore televisivo. Sto preparando il discorso dal titolo: “Vaffanculo Lex”. La prima cosa che imparo, raggiunta la mia meta, è che il portiere dello stabile extralusso dove vive Lex è, se possibile, stronzo quanto lui. Mi scruta dall’alto facendomi la radiografia. Sono quasi tentata di chiedergli se devo preoccuparmi. «È attesa?» chiede con quella bocca così contratta da farmi credere che possa uscirci un uovo da un momento all’altro. «Spero di sì, altrimenti è confermata la diagnosi di Alzheimer.» Mi guarda malissimo e prende il telefono. So che non mi crederete, ma lo fa con il mignolo alzato. «Mr. Stenton? Buonasera signore» saluta con voce flautata «di fronte a me c’è una… signora che sostiene di essere attesa. Come dice? Certo, provvedo subito.» Quell’esitazione su signora prima o poi gliela faccio pagare, lo giuro sui miei antenati e sui miei discendenti. La voce torna fredda quando si rivolge a me. «Può salire. Ascensore di destra, piano attico.» Mentre prendo l’ascensore ho un’ennesima confessione da farvi: soffro di claustrofobia e odio queste scatole di metallo. Sarei tentata di prendere le scale, ma visto che si tratta dell’attico rischierei di arrivare in cima in preda a un attacco di cuore. Inoltre, in questo momento ho il mio solito calo di zuccheri; è da dopo i dolci di Randy che non metto niente sotto i denti. Sento un leggero ronzio e vedo una piccola telecamera che mi inquadra. La tentazione è troppo forte e mostro il dito medio a chiunque mi stia osservando. Potrebbe essere il coglione all’ingresso, oppure Lex, idea ancora più allettante. Un suono irritante, troppo allegro per essere in sintonia con il mio umore, annuncia che la salita verso l’inferno può considerarsi conclusa. Le ante si aprono su un breve corridoio che conduce a una massiccia porta. Certo! Non poteva essere che una di quelle a doppio battente, alta quanto Chewbacca e di mogano. Prima ancora che mi sia venuta l’idea di bussare, si apre e un altro paio di occhi colmi di disapprovazione si piantano su di me. «Miss Monroe, Mr. Stenton la sta aspettando. Se mi vuole dare borsa e giacca» sentenzia squadrandomi. Lo dice con il tono di chi ti accusa di essere in ritardo e quando prende gli oggetti nominati lo fa con due dita, come se fossero infetti. Solo lo yoga che mia madre mi ha costretto a praticare con la violenza per anni salva l’ingessato e anziano maggiordomo dall’ottenere un sonoro vaffanculo. Il suo accento inglese è irritante, e i suoi capelli tirati di lato, come se un bue lo avesse leccato, sono ancora più irritanti. Lo supero ed entro a passo militare nell’atrio. «Da questa parte, prego.» Continuo a seguirlo non potendo fare a meno di sperare che inciampi e si rompa un osso qualsiasi. Mi sembra deboluccio, forse l’anestesia per risistemarlo potrebbe essergli fatale, penso acida. Quando entro nella sala da pranzo mi blocco perplessa. La prima cosa che noto è il tavolo. Un tripudio di lino bianco e cristalli che abbagliano da quanto riflettono la luce. Al centro della tavola c’è una composizione di orchidee e splendide rose bianche. Tutto intorno un ambiente che definire di lusso è riduttivo. Conto tre… quattro salotti, un tavolo da biliardo, un caminetto grande quanto il mio cucinino e quadri come se piovesse. Lui è vicino al camino, vestito come se dovesse ricevere la Regina d’Inghilterra. Abito scuro e camicia celeste, cravatta Regimental con lo stemma di qualche club del cazzo, e gemelli d’oro grandi come noci. Per un attimo mi sorge il dubbio che non sia sabato o che io abbia capito male il giorno. Poi mi viene un sospetto ancora più atroce: sta aspettando una delle sue amichette per cena e mi ha fatto venire solo per consegnargli un file che avrei potuto condividere su Dropbox. Non ha nessuna intenzione di leggerlo con me stasera e io mi sono ammazzata di lavoro per niente. Un vulcano in eruzione non sarebbe in grado di sviluppare la stessa pressione


che sento nelle viscere. Potrei provare a contenermi, ma non è nella mia natura. È qui di fronte a me, elegante e altero, padrone del mondo, esempio sublime di tutto ciò che c’è di superiore. Bello, ricco, intelligente e di successo. La mia capacità di autocontrollo entra in sciopero e i geni ereditati da mia madre, democratica fin dalla culla, prendono il sopravvento, si infilano una maschera nera e si improvvisano vendicatori del popolo e di tutti gli oppressi. «Sei il peggiore figlio di puttana che io abbia mai avuto la sfortuna di conoscere. Viscido sacco di merda, testa di cazzo, stronzo, coglione!» sibilo, con la motivazione più forte mai provata in vita mia. Non ero così determinata neanche quando ho deciso di andare a vivere da sola. Un rumore di vetri infranti attira la nostra attenzione. Il maggiordomo stava entrando con un vassoio colmo di bicchieri e deve essere rimasto turbato dalla mia dichiarazione d’amore nei confronti di Lex. Ben ti sta, idiota, forse la scopa in culo si è leggermente sfilata. «Sono mortificato signore, non so come sia potuto succedere e…» balbetta. «Non ti preoccupare George, sono incidenti che capitano» risponde Lex tranquillo. Ho come il timore che per terra, sparpagliati in tanti piccoli pezzi scintillanti, ci siano almeno due mesi del mio stipendio, anche di più se la bottiglia era di champagne. E soprattutto, ha davvero un maggiordomo che si chiama George? Il vecchiaccio si affretta a raccogliere i resti del disastro, mandandomi di sottecchi occhiate di fuoco neanche troppo velate. «Puoi servire la cena adesso, George» ordina Lex. Un momento! La cena? Quindi le mie supposizioni erano errate, tutto questo circo è per me. Crede davvero di poter ottenere quello che vuole con una cena elegante e magari anche del sesso. Forse è convinto che sia anche io affetta dalla sindrome di Cenerentola, incapace di resistere al principe azzurro. C’è un limite a tutto, però. A questo punto la mia capacità di autocontrollo si licenzia e, come una bolla che ha raggiunto il punto di rottura, la risata esplode ed è inarrestabile. Rido fino a quando le lacrime non mi offuscano la vista e i muscoli non mi fanno male. Lex mi lascia sfogare per un po’, appoggiato con noncuranza al marmo del caminetto, mani in tasca ed espressione da poker. Alla fine, quando intuisce che l’attacco sta scemando chiede: «Avvisami quando hai finito, perché inizio ad avere fame e vorrei sedermi a tavola.» Lo guardo per la prima volta da quando sono entrata, lo guardo davvero. È bello da togliere il fiato, sexy come il demonio e, a mio parere, pericoloso come un serpente a sonagli. Sono davvero orgogliosa di me, sapete? Perché l’idea di andare da lui, slacciare quella ridicola cravatta, far saltare i bottoni della camicia e affondare il naso sul suo petto, non mi ha neanche sfiorata. Così come non sto pensando al suo odore che deve essere perfetto, un mix di pulito e maschio da far perdere ogni freno inibitore e portare i livelli ormonali verso picchi da ricovero. Meno male che questi pensieri non mi sfiorano neppure, no davvero. Ora lo insulto un’ultima volta, solo per non perdere il ritmo, e poi gli dico di leggersi il file nell’intimità del bagno, il luogo adatto per quello che vorrei suggerirgli di fare. Invece… «Davvero questa cena è per me?» domando approfittando del poco fiato che ancora mi rimane. Mi guarda come se fossi un’aliena, il curioso esemplare di una specie non ancora classificata. «No, stavo per saltare addosso a George. Il tuo provvidenziale arrivo lo ha salvato da una notte di passione sfrenata.» Il sorriso che mi rivolge è devastante, perfetto; racchiude la fanciullezza del primo amore e la promessa della più sfrenata lussuria, il tutto accresciuto dal fatto che ha appena fatto una battuta. In due anni che lo conosco non ha mai, dico mai, dimostrato un briciolo di ironia. Sarcasmo fino a esserne sepolti, ma ironia mai. Lex di solito ride di te, non con te. Per un istante l’ago della bilancia si sposta e mi pare più umano. Per un istante. Poi sbatto le palpebre e riemergo dal torpore. Mi riscuoto e mi propino un sonoro schiaffo virtuale. Oh, Dora! Non lo stai facendo, vero? Non stai permettendo al fascino oscuro di questo stronzo di offuscare il motivo per cui sei venuta


stasera? Non sei qui per mangiare e di sicuro non per avere sogni erotici sul pezzo di merda. Sei qui perché, per una settimana, ti sei fatta il culo quadrato per riscrivere cinque capitoli di un romanzo che gli farà guadagnare milioni di dollari, e sei probabilmente l’unica cosa che lo separa dal primo insuccesso della sua carriera. Questo è il tuo punto di forza, con questo lo terrai per le palle, in senso figurato s’intende. «Un’immagine che sto evocando e che mi sta facendo passare l’appetito» gli rispondo cercando di riprendere il controllo della situazione. «Non potremmo invece parlare del progetto e basta? Così ci sbrighiamo.» Sorride di nuovo e vorrei avere dell’Attak per sigillare quella bocca. «Non hai ancora sentito che cosa c’è nel menù. Siediti Fedora e mangia con me.» «Mi siederò e mangerò, ma se mi chiami un’altra volta Fedora potrei ucciderti.» «Hai un nome bellissimo e io continuerò a usarlo quanto mi pare.» La sua voce è sensuale, misurata, scivola nelle orecchie come il canto di una sirena, tentandoti, ipnotizzandoti. Sbuffo. Ma insomma! Due anni che non mi fa né caldo né freddo e, quando dovrei restare lucida per arginare il suo ego smisurato, mi ritrovo a palpitare per lui, e non alludo di certo al cuore. La mia vocina interiore, che si presenta solo nelle situazioni di estremo bisogno, mi ricorda che sono due anni che per lui provo odio, e che quest’ultimo è comunque un sentimento. La ignoro perché è cosa buona e giusta. Mi siedo su una specie di trono che lui chiama sedia. Resto in punta, con mezzo sedere di fuori, pronta a scattare come un cobra al minimo problema. George torna con un’altra sfilza di bicchieri e fa il giro largo, evitandomi con cura. Sistema il tutto sul tavolo e riempie i calici con quello che alla fine si rivela davvero champagne. «Allora, Fedora, raccontami qualcosa di te.» «No» rispondo. Poi per non apparire troppo maleducata aggiungo: «Grazie.» Solleva il calice e lo alza nella mia direzione. «Brindo a te Fedora e alla tua capacità di essere sempre così inadeguata da risultare quasi affascinante. Eccoti qui, a una svolta importante della tua carriera, invitata dal tuo capo e ti presenti vestita come una barbona hippie, lo insulti con parole che neanche un portuale pronuncerebbe con altrettanta bravura e quasi ti rifiuti di cenare con lui. Ti viene naturale o è frutto di una sofisticata strategia?» Ecco, adesso riconosco lo stronzo per cui lavoro. Il pinguino ci serve la prima portata e con voce impostata annuncia: «Escargots.» Perfetto! Osservo i viscidi lumaconi. L’entrata della casetta del povero animale è tappata da una poltiglia verdastra e accanto al piatto c’è una specie di posata che sembra uscita da Saw. Lex afferra l’oggetto infernale e con maestria inizia a mangiare. Per nessun motivo gli darò la soddisfazione di vedermi in difficoltà, a lui e a quell’altra testa di cazzo che mi guarda compiaciuto. Osservo i movimenti che compie e cerco di imitarlo. Ovvio che non ci riesco, e quando il mollusco vola all’improvviso nella sua direzione sono combattuta tra la vergogna e l’eccitazione di osservare come si spiaccicherà sulla sua perfetta camicia. Invece lui lo afferra al volo e con nonchalance lo rimette sul suo piatto. «Mancato» ridacchia. Sbuffo e mi arrendo, aspetterò la prossima portata. E poi le lumache non mi piacciono, le trovo viscide e senza sapore. «Probabilmente se fossi un gentiluomo ti aiuterei e le aprirei per te» dice continuando a mangiare senza problemi. «Se tu fossi un gentiluomo non saremmo qui a parlare. Mi avresti avvisato fin da subito che il libro era una merda e io non avrei mai accettato questo lavoro.» Mi guarda inclinando la testa, studiandomi per qualche secondo. «Quindi non hai riscritto i cinque capitoli?»


∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾ Anche se non lo do a vedere, sto letteralmente trattenendo il fiato in attesa della sua risposta. Sembra offesa dalla mia ultima domanda, il che è un buon segno. «Se prendo un impegno, io lo porto a termine. Non sono come quei bradipi leccaculo, senza cervello e palle, di cui solitamente ti circondi.» Trattengo un sospiro di sollievo. A parte il linguaggio da scaricatore di porto, ha detto esattamente quello che volevo sentire. Anche io sono ansioso di leggere quello che ha prodotto, ma non farò l’errore di sembrare troppo impaziente. Alla fine otterrò quello che voglio, come sempre. Ho dalla mia parte quasi quindici anni di negoziazioni vinte ai massimi livelli; non sarà certamente una ragazzina a intralciarmi la strada verso l’ennesimo successo. Faccio cenno a George di servire la seconda portata. «Fondue bourguignonne avec des champignons» annuncia orgoglioso George. Fedora guarda il pentolino appoggiato sopra il vassoio in pietra ollare, le piccole forchette in argento e il recipiente pieno di bocconcini di vitella e funghi crudi. La sua espressione è tra lo schifato e l’incazzato. Sarei tentato di ridere, erano anni che non mi divertivo così. «Siete consapevoli che potrei instaurare una conversazione con questa portata e che probabilmente mi risponderebbe?» commenta sarcastica, lanciando un’occhiata di fuoco al maggiordomo. «Signorina…» inizia George. «Risparmia il fiato, pinguino. Si potrebbe avere della semplice insalata? Anche se ho timore che sia stata coltivata nei giardini pensili degli antichi Maya e oramai mummificata.» A quest’uscita non riesco a trattenere una risata. George mi guarda in attesa di ordini e gli faccio un cenno affermativo. «Sei crudele, Fedora. George è un ottimo cuoco e si è dato molto da fare per preparare il tutto.» Alza le spalle indifferente. Io prendo un boccone di carne e lo metto a cuocere nell’olio bollente. Quando è pronto ci soffio sopra per raffreddarlo e glielo porgo con aria di sfida. Lo guarda con diffidenza e riluttante apre la bocca. Ha dei dentini perfetti: bianchi, regolari. I due incisivi superiori sono leggermente distanti, una piccola imperfezione che rende il suo sorriso sbarazzino. Allunga la lingua per catturare il boccone di vitella e subito la mia fantasia galoppa. Il tutto dura pochi istanti, ma alla mia libido non potrebbe fregargliene di meno. Erano secoli che non mi eccitavo di fronte a uno spettacolo del tutto innocuo. Credo di dover risalire ai miei tredici anni, quando la baby-sitter di mia sorella me lo fece venire duro inchinandosi a raccogliere un peluche. «Non è questo granché e sono sicura che l’hai pagata un’oscenità» sentenzia cocciuta. Le sue parole spezzano l’incantesimo e, per fortuna, spengono anche l’eccitazione, come accadrebbe a un fiammifero investito da una secchiata di acqua gelida. Così imparo ad avere fantasie inopportune e plebee. L’ho avuta sotto gli occhi per due anni e non mi ha mai fatto nessun effetto. Deve essere lo stress, è l’unica spiegazione. «Forse avrei dovuto ordinare direttamente da McDonald per farti contenta.» Sono consapevole che il mio tono di voce inizia a perdere tutto l’affascinate aplomb che lo contraddistingue, ma questa donna è in grado di minare le sicurezze costruite in tanti anni di duro lavoro. «È quello che stai tentando di fare? Accontentarmi? Blandirmi? Farmi abbassare le difese con cibo e champagne? Sono lusingata Lex, davvero.» Sarcasmo puro. Devo stare calmo e ricordarmi sempre con chi ho a che fare. Sarà pure un’insopportabile rompicoglioni, ma non è stupida; lo dimostra il fatto che è qui di fronte a me e sta contrattando a pari livello. Oh, ma la pagherà. Sarà mia premura far sì che ciò succeda.


Mi alzo e la fisso intensamente. Le sto rivolgendo “lo sguardo”, quello che riservo alle occasioni speciali e con cui intimidisco gli avversari, quello che alla fine fa abbassare gli occhi a tutti. Sorride soave e non distoglie l’attenzione dal mio viso neanche per un secondo. La mia faccia deve esprimere tutto lo sconcerto che provo, perché le scappa una sonora risata. «Dimentichi, caro Lex, che sono due anni che ti vedo trattare affari con gli altri squali. Per te sono invisibile mentre porto il caffè nella sala delle riunioni, ma io ti osservo. Quei pomposi ricconi, con i quali negozi i tuoi business miliardari, sono intimiditi perché sanno che hanno molto da perdere se ti contraddicono. Quello che non hai ancora capito è che io sono immune da tutto questo. Il peggio che potevi farmi, ossia licenziarmi, lo hai già fatto. Ora sei tu ad avere bisogno di me. So quello che ti stai chiedendo: avrà davvero fatto un lavoro all’altezza? E so anche quello che stai pensando: se non sarà un buon lavoro mi schiaccerai per quella mosca che sono. Allora, adesso la finiamo con questo immondo pasto e ci mettiamo a leggere, o devo sorbirmi ancora per molto la pantomima dell’ospite perfetto?» Sono senza parole, un’altra esperienza che era da anni assente dalla mia vita. Mi risiedo e chiamo George; arriva con l’insalata di Fedora che andrà sprecata come il resto della cena. «Mi ha chiamato, signore?» «Sì, puoi servire il caffè nel salotto privato della biblioteca.» La mia voce è monocorde, inespressiva, e si intona bene con il mio umore. Prenditi tutta la corda che vuoi, tanto prima o poi ti impicchi, penso. Per il momento è lei che ha il coltello dalla parte del manico e può permettersi di dettare ordini. Da una parte sarei sollevato se il suo lavoro risultasse valido, ma la parte più primitiva spera che sia uno schifo per farle vedere davvero che cosa significa sfidarmi. «Per me del caffè americano, pinguino. Non ti azzardare a portarmi quella poltiglia turca. Potrei diventare volgare.» George la fissa tra l’inorridito e il sorpreso e, quando cerca il mio sguardo e io annuisco, passa al rassegnato. Si starà facendo un sacco di domande sulla presenza di Fedora in casa mia, sul perché le stia consentendo di umiliarmi in questo modo. Credo di avere appena perso uno dei miei fan più accaniti. Mentre lei, questo è indubbio, si sta divertendo un mondo. Una volta in biblioteca, apro il laptop e lei mi porge una chiavetta. «Per precauzione ho messo una password. Ora tu lo apri e non lo scarichi. Potrai leggerlo una sola volta e poi potremo contrattare.» Bisogna dire che questo pone una pietra tombale sui suoi livelli di fiducia nei miei confronti. Annuisco perché è l’unica cosa che posso fare viste le circostanze. Carico il documento e poi le porgo il PC. Digita qualcosa e me lo riconsegna. Mi metto comodo e inizio a leggere, mentre lei vaga incuriosita osservando i libri sugli scaffali. Due ore dopo alzo lo sguardo dallo schermo e mi massaggio il collo indolenzito. Fedora è semisdraiata su uno dei divani ed è immersa nella lettura di una prima edizione di Moby Dick. Ne approfitto per osservarla meglio. Alcune ciocche dei lunghi capelli sono sfuggite dalla coda e cadono sul viso dall’espressione concentrata. Ha ciglia lunghe, occhi grandi ed espressivi e due labbra che evito di guardare di nuovo. I jeans devono essere elasticizzati perché calzano come una seconda pelle, mettendo in evidenza le gambe toniche e terminando dentro un paio di orribili anfibi neri. La maglietta è bianca e lascia intravedere un reggiseno dello stesso colore, una seconda misura, a occhio e croce. Prese singolarmente le parti del suo corpo non sono granché, ma è l’insieme che è piacevole da guardare. Alza la testa e mi sorprende a fissarla. Posa il libro e si stiracchia senza vergogna, soffocando uno sbadiglio. «Hai finito?» «Sì, ho finito.»


Allunga la mano indicando la chiavetta e io la estraggo dal computer e gliela porgo. Come la prende la infila nella tasca dei pantaloni e si accomoda meglio. Resta in silenzio, senza far trapelare ansia o agitazione, come se avesse già intuito il giudizio finale. «È un buon lavoro, hai saputo ricreare lo stile giusto.» Dirlo è una delle cose più difficili che io abbia mai dovuto fare nella vita. Non perché sia falso, ma perché è maledettamente vero. «Quindi sei sempre dell’opinione di assumermi?» La sua domanda, all’apparenza banale, è carica di significati. In realtà sta dicendo che sono io ad avere bisogno di lei e non viceversa. «Potrei essere ancora interessato. Ovvio che non sei l’unico editor che ho contattato e al quale ho affidato il lavoro. Tre tuoi colleghi sono stati altrettanto bravi e sto negoziando gli estremi dell’accordo. Per cui ti faccio la stessa domanda che ho fatto a loro: che cosa vuoi per finire l’editing entro un mese?» Ok, così va meglio. Sento di aver ripreso il controllo della situazione. Sono un bugiardo perfetto, sfido chiunque a capire se sto bluffando oppure sto dicendo la verità. Lei può anche essere furba e sospettare che io stia mentendo, ma non può esserne certa. Questo depone a mio favore. Entrambi abbiamo molto da perdere se l’accordo salta, perciò bisogna vedere quanto ciascuno di noi è disposto a concedere all’avversario. «Lo stesso compenso che davi all’altro ghostwriter, non un centesimo di più o di meno. Poi c’è una piccola condizione, un’inezia che sono sicura vorrai concedermi, in segno di stima.» Mette le mani sulla pancia in un atteggiamento di chiusura. Qualunque cosa sia questa ulteriore richiesta, le provoca stress. Nel mio lavoro è importante saper leggere il linguaggio del corpo, può fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. «Stai ponendo delle condizioni su cosa fare della pelle dell’orso prima di averlo catturato. Non è un po’ presuntuoso da parte tua?» Si alza e si avvicina alla scrivania, per poi sedersi sul bordo. Afferra la stilografica di fine ’800 di Cartier, ereditata dal mio bisnonno, preziosa e insostituibile. «Stai attenta a come ti muovi, in questa stanza sono tutti pezzi unici.» «Tranquillo Lex, so riconoscere gli oggetti preziosi, così come sono in grado di riconoscere che sei con l’acqua alla gola. Non c’è nessuno gruppo di editor e non c’è nessuna via di fuga questa volta. Però, se ritieni di voler portare avanti questo giochino ci sto. Fammi sapere.» Poggia la penna e si dirige verso l’ingresso. Resto un attimo interdetto. Lo sta facendo davvero? Mi sta mollando qui come un idiota? Resto lì e, impensabile, non so che cosa fare. ∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾ Cazzo! Che cosa aspetta a richiamarmi? Idiota, presuntuoso, egocentrico miliardario di merda! Arrivo nell’atrio e George è già lì, con in mano la mia borsa e la mia giacca. «La signora va già via?» La soddisfazione con cui lo dice è palese. «Certo, hai già tentato di avvelenarmi, non vorrei forzare la mano alla fortuna. Buona serata pinguino, goditi l’umore del tuo padrone.» Stringe le labbra. So che avrebbe voglia di rispondermi a tono, ma non può farlo. È come con le guardie a Buckingham Palace, la tentazione di infierire è grande. Tuttavia, neanche io sono dell’umore adatto per battibeccare.


Sono già arrivata alla porta quando la voce di Lex mi trapana un orecchio. «Fedora! Non mi sembra di averti congedato!» Per la miseria, quanto mi indispone! Mi giro, pronta, e lo affronto con le mani chiuse a pugno lungo i fianchi e un’espressione che scoraggerebbe anche Luther. Lui mi fronteggia con la stessa forza. Gambe larghe, mani sui fianchi, denti bianchi e perfetti digrignati dalla rabbia. Maschio alfa dei miei coglioni! Per qualche minuto restiamo così, come due gorilla che si battono metaforicamente il petto e tentano di intimidire l’avversario. George si farà venire un crampo al collo a furia di spostare lo sguardo dall’uno all’altra. Alla fine è proprio lui a sbloccare inconsapevolmente la situazione. «Signore, se vuole chiamo la polizia» suggerisce a Lex con fervore. La sua proposta è talmente comica che non posso fare a meno di incurvare le labbra in un aborto di sorriso. Per reazione anche il mio avversario fa lo stesso. Probabilmente sta valutando come io possa apparire pericolosa con il mio metro e settanta scarso di altezza a fronte del suo metro e novanta, non contando la notevole discrepanza di massa muscolare. Certo, per quello che ne può sapere George, potrei essere armata, ma credo che attualmente la mia risorsa più letale sia la lingua. «Non fa niente George, credo di potermela cavare anche senza la cavalleria.» «Come preferisce, signore» risponde deluso il miserabile servo. Verrà un tempo in cui anche il suo cadavere passerà presso la mia sponda. «Fedora, potresti tornare con me in biblioteca in modo da continuare la nostra conversazione in modo adulto e civile?» La voce di Lex è pacata, ma dietro quegli occhi verdi da felino incazzato vedo tutta la rabbia e la frustrazione che l’attuale condizione sta generando in lui. Il suo perfetto mondo, da sempre assoggettato al suo controllo, sta crollando e io mi sto godendo ogni singolo istante. Il mio comportamento potrebbe apparire meschino, potreste pensare che mi sto prendendo una becera vendetta per i due anni d’inferno che mi ha fatto passare. Be’, avreste perfettamente ragione. Tuttavia, so quando usare il bastone e quando è più funzionale la carota, proprio come lui. Lo seguo docile in quel mausoleo che chiama biblioteca e mi accomodo di nuovo nel divano più scomodo del creato. Accavallo le gambe e resto in attesa che parli. Vi ho già detto quanto sto godendo? «Allora Fedora, stabilito quanto vuoi, possiamo pensare di firmare un contratto? Ho fatto preparare un accordo standard, basta aggiungere il tuo nome e la cosa diventerà esecutiva.» Mi porge un insieme di fogli. «Leggi con calma, hai tutto il tempo del mondo. Inutile dirti che nessun altro deve venirne a conoscenza, e come vedrai è anche una delle clausole elencate. Su questo non possono esserci fraintendimenti, nessuno deve sapere che sarai tu a riscrivere il libro della Ferbes. Mai.» Si mette seduto sulla poltrona di fronte a me e inizia a guardare qualcosa su un tablet. È nel suo elemento, in mezzo al lusso più sfrenato, al di sopra di noi comuni mortali e pensa che niente possa toccarlo. Sarei tentata di dire di no senza neanche leggere il contratto, ma ho bisogno di questo lavoro. Non per i soldi, quelli nella vita non hanno mai fatto grande differenza, almeno per come sono stata educata io. No, la ragione è più legata alla mia necessità di realizzarmi, di costruire qualcosa di mio; poco importa se nessuno lo verrà mai a sapere, lo saprei io e tanto mi basta. Apro il contratto e inizio a leggere. Solite cose, come ha detto lui. Bla, bla, bla, io mi impegno, lui si impegna e così via.


Quando arrivo alla voce compenso ci vuole tutta l’esperienza di anni di bugie dette a mio padre per mantenere un’espressione neutra. Un milione di dollari a manoscritto per cinque anni! Un milione di dollari per fare quello che amo fare. Un milione di dollari per lavorare da casa e non dover più vedere la faccia di Lex tutti i giorni dalle 09.00 alle 17.00. Be’, almeno tra un mese sarà così. Sento i suoi occhi su di me, penetranti come raggi laser. Per un momento ho come la sgradevole sensazione che possa leggermi nella mente. Non devo mai abbassare la guardia con lui, potrà anche essere in un angolo adesso, costretto a sottomettersi, ma resta sempre Lex. Ho visto bene di che cosa è capace quando vuole ottenere qualcosa. Mi resta la soddisfazione di quello che sto per fargli e mai vendetta è stata più dolce. «Bene, mi sembra una cosa fattibile. Ci aggiungerei la risposta sincera a una domanda e due nuove clausole. Fatto questo direi che possiamo firmare.» Il sorriso che già gli stava affiorando sulle labbra si congela e la sua faccia diventa di pietra, in modo talmente repentino che gareggerebbe con gli effetti speciali di Lucas. «Sarebbero?» chiede in apparenza gentile, quindi più pericoloso. «Inizio con la domanda per rompere il ghiaccio: che cosa è successo al precedente ghostwriter?» «Cloe aveva altri progetti in ballo per cui…» Mi alzo, poggio il contratto sulla scrivania e subito dopo muovo un passo verso la porta. «Cazzo! Va bene! Aspetta. Mi ha mollato per una serie di divergenze insanabili. Pretendeva qualcosa che non ero disposto a concedere.» Traduzione: si portava a letto Cloe e lei ha chiesto di più. Idiota! «Dovevi pensarci prima di illuderla, prima di stare insieme a lei.» Lo dico con tutto il disprezzo che provo per quelli come lui. Satiri stronzi che pensano di avere il paradiso nel cavallo dei pantaloni. Quando mi rendo conto che sto fissando proprio quello, arrossisco come una ragazzina. Mi guarda sorpreso e poi inizia a ridere. «Non stavamo insieme. Me la scopavo su questo stesso divano, se lo vuoi sapere. Bravissima con i pompini, poca fantasia per il resto, ma molto generosa. Una volta mi ha perfino permesso di…» «Ho capito!» lo interrompo decisa. «Non c’è bisogno di scendere nei particolari.» Alza le spalle con noncuranza. «Hai chiesto tu sincerità, rispondevo alla tua domanda.» Lo fulmino con gli occhi, o almeno ci provo. È difficile essere incisivi quando il calore che senti sulle guance ti fa capire che sei rossa come un semaforo. Erano anni che non mi succedeva, sapete? Non ho mai avuto problemi con il sesso, mi piace il sesso, lo amo come teoria e come pratica. Mi ha preso alla sprovvista, ecco tutto; aggiungerò anche questo al conto delle cose che gli farò pagare. «Dicevi delle altre clausole?» chiede sornione, felice di avermi messo in imbarazzo. Probabilmente crede di aver segnato un punto. Non sa che cosa lo aspetta, ora più che mai. «Primo: totale libertà artistica sulla stesura del testo. Ne possiamo discutere, ma tu non puoi avere il veto finale.» Accartoccia le labbra in quello che si può definire con serenità un broncio, e per un istante mi viene voglia di andare da lui e lisciargliele. Con la lingua. Scuoto virtualmente la testa e riprendo il controllo, o almeno credo. «Va bene, la farò aggiungere. Poi?» La sua resa è troppo facile. Lo guardo con diffidenza e lui sghignazza. «Non ti mettere sulla difensiva. Sei brava come ghostwriter, a me non interessa quello che scrivi purché si possa legalmente pubblicare, non ci procuri denunce e ci frutti tanti bei dollaroni. La seconda qual è?»


Ecco, questa è una cosa che non capisco: ha tanti di quei soldi che potrebbe comprarsi mezzo Stato, eppure continua ad accumulare ghiande come uno scoiattolo ossessivo, in linea con il suo retaggio familiare. Butto la bomba. Non so perché mi sia venuta un’idea simile, di certo mi sto mettendo nei guai, ma anch’io ho un certo retaggio e i miei genitori sarebbero fieri di me. «Secondo: per trenta giorni, il tempo necessario alla correzione di questo primo manoscritto, tu dovrai venire a vivere a casa mia. Non è negoziabile.»


-4Mai nella vita Il primo anno a Harvard venni punito per una bravata. Durante un rituale di iniziazione io e un’altra matricola rapimmo la mascotte della confraternita rivale e la rinchiudemmo un intero week-end nell’ufficio del Rettore. Peccato che fosse una scrofa di notevoli dimensioni, che distrusse qualunque cosa le capitò a tiro. I nostri nomi saltarono subito fuori e venni condannato a lavorare per un intero semestre nella mensa del campus. Quando mio padre venne a saperlo si rifiutò di tirarmi fuori dai guai. Credete che lo abbia fatto per darmi una lezione di vita? No, disse che mi ero fatto beccare e che quindi non meritavo il suo aiuto. Così mi dovetti scopare per tutta la durata della punizione quel cesso della Direttrice della mensa, una quarantenne insignificante, il che però mi consentì di saltare praticamente tutti i turni. Ho sempre trovato il modo di cavarmela, sono furbo e determinato, sia che si tratti di evitare una punizione che di concludere ottimi affari. Fisso questo scricciolo di donna che mi guarda con aria sicura e la odio come poche cose nella vita. Mi alzo perché stare in una posizione di superiorità rende quello che dici più efficace. «Ascoltami bene, perché non lo ripeterò. Non so che cosa tu ti sia messa in testa, ma sei molto lontana dal tenermi per le palle. Ora, o tu firmi il contratto che c’è su quel tavolino, oppure te ne torni nella fogna di mediocrità dalla quale per un momento sei strisciata fuori.» Sono sicuro che per lei vedermi in difficoltà non ha prezzo; chissà quante volte lo avrà sognato in questi ultimi due anni. «No, Lex. Tu ora dici al pinguino di prepararti i bagagli e lunedì ti trasferisci da me. Se lo farai, lavorerò al manoscritto e in un mese avrai il tuo capolavoro. Altrimenti io uscirò da questa casa e dalla tua vita per sempre.» «Vaffanculo!» Divento aggressivo quando sono messo al muro; mediamente incazzato uso il sarcasmo, molto incazzato divento scurrile. «Lo devo prendere per un sì?» chiede serafica. Analizziamo con calma la situazione: ho a che fare con una squilibrata, ora ne sono certo. Magari mi vuole tutto per sé, è innamorata e sta sfruttando tutto questo per avermi. Altrimenti perché cazzo vuole che vada a vivere con lei? Forse crede di poter pretendere gli stessi incentivi che davo a Cloe. Non che la cosa mi dispiacerebbe; non è certo il mio tipo, troppo rozza, ma è scopabile. Quello che mi fa imbestialire è ben altro. Non ho scelta! Con Cloe ero io a dirigere il gioco, Fedora avrebbe il controllo. Chi si crede di essere questa stronza? Mi alzo e mi metto a pochi centimetri dalla sua faccia. «Prendilo come ti pare! Io non verrò a vivere a casa tua, né lunedì, né mai! Non so che cosa ti sei messa in testa e perché lo fai, ma…» Mi interrompe mettendomi una mano sulla bocca. Mi paralizzo dalla sorpresa: erano anni che nessuno mi toccava senza un esplicito invito. Questo è già di per sé grave, ma quello che è proprio inconcepibile è che io resti fermo e glielo lasci fare. Percepisco il suo profumo e di nuovo sento una strana sensazione che non so proprio come definire. «Il punto è proprio questo» ribatte con rabbia. «Lavoro per te da due anni e non sai nulla di me, se non quello che c’è scritto nel mio curriculum. Non te n’è mai fregato niente. Ora hai bisogno che io ti aiuti, ma devi capire che non tutto si può ottenere con il denaro, anche se quello che mi offri è un insulto alla povertà nel mondo. Questa volta non te la caverai con il libretto degli assegni. Hai paura di non reggere fuori dal tuo mondo dorato, Lex? » Mi lascia andare e si allontana, ansante e furiosa. La guardo e per la prima volta capisco che non negozierà, proprio come ha detto, e sembra che non sia affatto attratta da me. È una strana sensazione, un qualcosa mai provato prima. Tutto il potere accumulato, il controllo, la sicurezza


si stanno sgretolando senza che io possa fare niente per impedirlo. Giuro a me stesso che prima della fine di questa faccenda non vorrà più vedermi per il resto della sua vita, lo giuro su tutto quello che ho di più caro. Rifletto. Sto davvero prendendo in considerazione l’idea di cedere? Se devo dirla tutta… sì. L’alternativa è impensabile, mi porterebbe incalcolabili danni economici, senza parlare dell’immagine, mentre questa cosa si risolverebbe in privato e durerebbe solo trenta giorni. Possono essere un interminabile inferno e lei farà in modo che sia così, lo so, ma non ha calcolato che io posso fare altrettanto. Però c’è un’altra ragione. Mi ha provocato e nessuno è mai stato contento di raccontarlo dopo. Lei non sarà un’eccezione alla regola. «Io non mi tiro indietro di fronte a una sfida. Farò quello che sarà necessario per portare a termine questo accordo. Lunedì sarò a casa tua con il contratto modificato, che tu firmerai. Lascia il tuo indirizzo a George quando te ne vai.» Le volto le spalle in segno di congedo. Mi aspetto un’altra sequela di insulti, invece odo solo il rumore della porta che si chiude. Aspetto una decina di minuti e poi chiamo il domestico. «Dammi l’indirizzo» ordino. Mi porge un foglietto. Lo apro con cautela, come se contenesse dell’esplosivo. Ho un cattivo presentimento. Quando leggo il contenuto vorrei urlare e imprecare, tuttavia la presenza di George me lo impedisce. Maledetta stronza! Acida puttana! Fottuta strega! Appallottolo l’immondo pezzo di carta come se questo potesse risolvere la situazione. Afferro la giacca e dico: «Esco, buonanotte.» «Certo signore, chiamo la macchina?» «No, esco da solo.» «Come desidera» biascica sorpreso. Faccio la solita telefonata per avvisare che sto uscendo e in garage afferro le chiavi della Ferrari. Rossa, snella, sensuale. Esattamente quello di cui ho bisogno e non parlo della macchina. Mentre guido nella notte, rifletto. Lei crede di essere nel giusto, pronta per dare la lezione di umiltà all’arrogante miliardario che non ha mai dovuto lottare per niente nella sua vita. Basterebbe la descrizione dei miei anni da adolescente sotto l’egida di mio padre per capire quanto questa analisi sia lontana dalla realtà. La detesto perché sta riportando a galla cose che pensavo morte e sepolte. Questo le costerà caro, molto caro. ∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾ «Cosa significa che da domani ci sarà un ospite?» chiede sospettoso Luther, mentre serve un’abbondante porzione di vermicelli al ragù nel piatto di Randy. Lui partecipa spesso alle nostre cene, si può dire che è stato adottato come me. Insieme siamo una strana accozzaglia di amici, ma visto che ci siamo scelti è anche una delle cose più vere e solide della mia vita. «Un ospite illustre, oserei definirlo» specifica Randy, affondando la forchetta e iniziando a mangiare. Lo fulmino con lo sguardo. Per tutta risposta lui fa i soliti occhi da cucciolo ingenuo della serie: “Che cosa ho detto di male?” «È solo per un mese» ribatto nell’inutile speranza che ciò basti come spiegazione. Come previsto Luther diventa immediatamente protettivo. «È il tuo uomo?» «No.» «È un tuo amico?» «No.»


«Allora perché cazzo lo ospiti?» «Mettiamola così: svolgo un servizio per l’umanità.» «Certo. E non c’entra nulla che sia un figo pazzesco e più ricco di Creso» rincara quello che è appena diventato il mio ex amico del cuore. «Parla» ordina Luther rivolto a Randy che, ovviamente, non aspettava altro. «Il capo strafigo di Dora, dal quale mi farei fare cose illegali, è, ahimè, anche stronzo e lei vuole punirlo facendolo vivere per un mese in questa fog… in questo quartiere folcloristico, ma di certo considerato non all’altezza dal principino.» «Se volevi punirlo bastava dirmelo, lo sai» replica sulle sue Luther, rivolto a me. Mi viene quasi da ridere che si senta offeso dal fatto che non ho affidato a lui il compito di gambizzarlo o altro. «Ehm… ti ringrazio, davvero, ma preferisco seguire il mio metodo.» Gli sorrido per indorargli il rifiuto, in fondo mi vuole bene e conosce solo questo come modo per dimostrarlo. «Come vuoi, ma se fa il tanto di comportarsi male è cibo per vermi» borbotta. «Sono due anni che si comporta bene, purtroppo» interviene Randy. «Speriamo che la convivenza forzata lo faccia sciogliere un po’. Se non funziona con Dora, potresti tramortirlo e rinchiuderlo per me in una stanza?» Luther sorride divertito. «Vedi Dora, Randy è più furbo di te. Quando sa quello che vuole, se lo prende. Nel posto sbagliato, a volte, ma lo fa.» «Grazie… credo» replica Randy. «Niente di personale ragazzo, lo sai, ma io sono del partito della figa. Tesserato a vita.» Randy ride, come sempre, alle battute falsamente omofobe di Luther che, in realtà, è una delle persone più tolleranti che conosco e, visto l’ambiente dove è sempre vissuto, non è cosa da poco. Per qualche secondo Luther mi osserva pensieroso e poi chiede: «Sul serio bambina, perché hai deciso di fargli questo favore? Da quello che ho capito in questi due anni è sempre stato una merda con te. Che senso ha adesso tentare di fargli vedere la luce? Potresti essere tu a perderci, quella è gente marcia che corrompe tutto quello che tocca. Non ti fidare mai di chi ha fatto del denaro un dio.» Non ve l’ho ancora detto, vero? Luther è molto religioso. È persino pastore della Chiesa degli Ultimi Passi, una piccola congrega di credenti composta da ex carcerati convertiti e oramai in pensione. Nome improbabile, starete pensando, ma, vi assicuro, oltremodo azzeccato, soprattutto per il fatto che molti di loro hanno davvero agevolato gli ultimi passi di qualcuno verso una vita migliore. Sono andata alle loro riunioni e non credo di avere mai avuto una considerazione così alta dell’ateismo. Diciamo che hanno rivisitato in chiave del tutto personale i dettami base della Bibbia, elaborando una serie di princìpi a cui si attengono scrupolosamente. Vi basti solo sapere che alcuni sono molto lontani dai classici Dieci Comandamenti e più vicini alla legge del taglione. Ok, devo tranquillizzare Luther, quindi entro in modalità “paracula on”, sorrido con aria innocente e: «Proprio per questo ho deciso di farlo vivere con me per trenta giorni. Voglio salvarlo dal suo modo perverso di considerare la vita in vendita. Dovrà imparare il rispetto degli altri e dare il giusto valore alle cose davvero importanti.» Randy quasi si strozza con il vino, inizia a tossire e mi guarda a bocca aperta. Se adesso dice una delle sue solite cazzate giuro che lo strangolo con l’elegante foulard che porta al collo. Deve aver recepito la minaccia telepatica perché riprende a mangiare senza commentare. «Ciò ti fa onore, bambina, ma ricorda che il diavolo ci mette alla prova e spesso riesce a fregarci, quel gran figlio di puttana. Non dovrai mai abbassare la guardia, perché lui ci mette poco a sedurti portandoti sulla strada sbagliata. Comunque non ti preoccupare, se quella merda arricchita osa solo farti del male dovrà vedersela con me e con i confratelli.» Sorrido e gli accarezzo una mano. Lui me la stringe e, contento di avere appena pronunciato la sua ennesima minaccia di morte, riprende a mangiare tranquillo.


Alla fine della serata Randy sparisce adducendo con Luther la scusa di dover andare a trovare una vecchia zia, la quale, in realtà, so essere un DJ di circa venticinque anni, dai capelli fulvi e, testuali parole di Randy, “dotato di tutti i centimetri necessari”. Io resto invece a chiacchierare ancora con Luther; adoro sentirlo parlare della sua vita, è meglio di un romanzo e lui è bravo a raccontarla. Quando la fatica si fa sentire gli schiocco il bacio di rito e salgo nel mio appartamento. Dopo aver messo in frigo gli abbondanti avanzi della cena che Luther mi costringe sempre a prendere, ed essermi fatta una rapida doccia, mi infilo sotto le coperte. Finalmente realizzo che mi sono cacciata nei guai. Seri. Domani mattina Lex sarà qui. Perché l’ho fatto? Perché? Non mi potevo limitare a finire il lavoro e godermi i frutti? Cazzo! Un milione di dollari a romanzo… Neanche nei miei sogni più sfrenati ho mai osato pensare a tanto. Potrei andarmene via dal quartiere e prendere un appartamento degno di questo nome, comprarmi la macchina dei miei sogni, viaggiare, aiutare economicamente i miei, rifarmi le tette se dovesse venirmene voglia. Il cielo sarebbe l’unico limite. Eppure in questo momento nessuna di queste cose mi sembra davvero importante. Ora sono arrabbiata, delusa e paradossalmente c’entra proprio il milione di dollari. Lex è convinto di potermi comprare. Sapevo che era uno stronzo, ma vederlo in azione con gli altri non è la stessa cosa che essere la vittima dei suoi piani. Ha sostituito quella Cloe come se fosse una cosa vecchia, come se anni passati a collaborare – e a scoparsela – non fossero mai esistiti. Per lui le persone sono solo dei mezzi per raggiungere dei fini, non vede che dietro ci sono emozioni, paure, bisogni e tristezze. Risolve tutto con il denaro, attribuendo un valore monetario ad amore, fedeltà e dignità. Da quel poco che so sulla dinastia Stenton, la mela non è caduta lontana dall’albero. Il padre l’ho incontrato solo una volta: eravamo in ascensore e, mentre parlava tranquillamente con il figlio, si è premurato di mettermi una mano sul sedere. Fisicamente è una versione stagionata di Lex, affascinante e ancora sexy per l’età che ha. La madre, non ho avuto il piacere di incontrarla, se di piacere si può parlare, ma le cronache sono piene di sue foto intenta a inaugurare cliniche e mostre, progetti per i quali ha fatto la raccolta fondi organizzando feste faraoniche. Fa il bello e il cattivo tempo all’interno del bel mondo newyorkese e i più dicono che sia di una ferocia leggendaria; essere fuori dalle sue grazie decreta la morte sociale. A onor del vero, in questo, Lex è meno ipocrita: quando organizza i party lo fa con il palese intento di far divertire i ricchi clienti e mettersi in buona luce allo scopo di ottenere contratti miliardari. La sorella è passata una volta in ufficio e mi è sembrata molto dolce, anche se probabilmente una capra ha un Q.I. più elevato. Insomma da questo zoo non poteva uscire che… Lex. Potreste obiettare, in modo del tutto legittimo: “Chi ti credi di essere per pensare di avere il diritto e la capacità di dargli una lezione di vita?” La risposta è altrettanto legittima: fatevi gli affaracci vostri che al resto ci penso io. E adesso dormirò, come un bambino, sapendo che da domani darò il mio piccolo contributo all’umanità. ∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾∾ «La colazione è servita, signore.» La voce pacata di George mi sveglia nel mezzo di un bel sogno a luci rosse. Rievocavo il piacere provato con la rossa di sabato sera. Genevieve è una vera cultrice del sesso, e dopo una serata con lei il mondo ti appare nella giusta prospettiva. Mi stiracchio soddisfatto, elettrizzato. Adoro il lunedì mattina, l’inizio della settimana è sempre un bel momento. La prospettiva di quello che mi aspetta oggi innesca la solita scarica di adrenalina. Ripasso mentalmente il programma visto che devo incontrare il CEO di una grossa società di produzione. Sto cercando


di vendere i diritti di un libro e sono sicuro che oggi concluderò l’affare. Poi devo incontrare a pranzo mio padre e voglio sbatterglielo in faccia. Nel pomeriggio ho un incontro con un autore che pretende più soldi, ma le sue vendite sono calate per cui gli farò passare un brutto quarto d’ora. Infine, c’è quella faccenda di mia sorella. Al telefono mi è sembrata spaventata e la sua urgenza nel volermi vedere non preannuncia niente di buono. Spero che non si sia messa nei guai, perché se è così, e si rivolge a me, devono essere guai davvero grossi, di quelli che non si risolvono solo con il denaro, altrimenti avrebbe chiesto a nostro padre. Forse potrei vederla per cena in quel nuovo ristorante che avevo già deciso di provare. Devo ricordarmi di chiedere a Fedora di prenotarmi un tavolo per le… La consapevolezza, rimossa dalla mia coscienza che ha avuto pietà di me, irrompe prepotente e il cuore perde un battito. Cazzo! Oggi mi devo trasferire a casa della stronza. Ricado sui cuscini con un gemito e mi porto una mano alla testa. Sento già l’emicrania fare il conto alla rovescia con il martello in mano, soprattutto perché dovrò comunicare la notizia a chi so io e non ne sarà molto contento. Fanculo anche a Ryons! George mi porge la vestaglia e posiziona le pantofole. Compio i soliti gesti automatici e mi avvio verso la sala da pranzo. La mia colazione preferita è pronta, tutto come piace a me. Uova alla Benedict con tanta paprika e una salsa olandese direttamente dal paradiso, succo di arancia e caffè turco, nero come la pece. Ma stamattina sa tutto di cartone. Una volta tornato nella mia stanza, sopra il servo muto, nella cabina armadio, trovo il completo che George ha scelto per me con il consueto gusto impeccabile. Abbiamo le agende sincronizzate su Google e, a seconda degli impegni, lui prepara i vestiti adatti. Mi rendo conto di non avergli ancora detto del trasferimento, Freud lo chiamerebbe “atto mancato”. Quando si avvicina per sistemarmi la cravatta e i gemelli mi schiarisco la gola: «Dovresti prepararmi il cambio per un periodo di diciamo… una decina di giorni.» Dovrebbe essere più che sufficiente per far capire alla pazza che la sua è stata una pessima idea e, ovviamente, per fargliela rimpiangere. Alza la testa stupito e ne ha tutte le ragioni. Le mie partenze non sono mai improvvise, ma pianificate fin nei minimi dettagli. Quando mi allontano da New York è quasi sempre per lavoro e ho solo due vacanze standard: a luglio sul mio yacht e a dicembre sulla neve. «Posso chiedere, se lecito, la destinazione e che tipo di abbigliamento abbisognerà per la trasferta, il signore?» «Rimango a New York. Completi da giorno non professionali, poi in ufficio mi farai trovare ogni giorno il solito completo a seconda dell’agenda.» Nonostante sia addestrato da perfetto maggiordomo e avvezzo alle mie stranezze, non riesce a mascherare la sorpresa. «Devo preparare il cambio per dieci giorni e portare un completo in ufficio ogni giorno?»


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