Organizzare gli inorganizzabili

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MAGGIO 2012

O R G A N I ZZA R E G L I I N O R G A N I ZZA B I L I non siam o dispost i a sc om m et t ere c he l a' dove c rese il desert o c resc e anc he una possibil it a' di sal vezza A sc anso di equivoc i; il t errit orio, il m it o Il "neocolonialismo finanziario" mette i territori locali in uno stato di completa dipendenza economica da investitori privati sempre piu' deterritorializzati. Crisi, globalizzazione dei mercati finanziari, delocalizzazioni, i tessuti tradizionali dell'integrazione locale vengono logorati e questo genera insicurezza, spaesamento e conseguente ricerca di riradicamento. Al senso di sradicamento e di incertezza permanente si contrappone una reazione stereotipata di chiusura localistica, di mitizzazione di un'identita' garantita da un'appartenenza ad un territorio che alimenta il pregiudizio verso "lo straniero" e il ritorno a simbologie arcaiche e a forme di protezione paranoica e violenta dello spazio. Questa identita' collettiva legata al territorio, ritenuta quasi "naturale", e' un mito. Ogni identita' quando istituisce la divisione, in codice binario, "noi" e gli "altri", in realta', piu' che rimandare a dei confini storico-geografici, rinvia ad un'ideologia, ad un'etica. Il confine, la frontiera "noi" e gli "altri" e' istituita sulle aspettative e sulle aspirazioni di una "comunita'" o meglio, molto piu' spesso, sui desideri di una sua parte, e dunque nasce da motivazioni ideologiche/sociali. In questo senso il "modello" dell'identita' collettiva non e' il territorio ma il conflitto. Conflitto tra una pluralita' di mondi

e flussi di linguaggi e forme di vita che si incontrano o si scontrano, che si respingono o si compongono. Ma oggi, purtroppo, il modello ideale di "comunita' locale" e' sovrarappresentato mediaticamente dalla "comunita' dei cittadini operosi che spontaneamente" si organizza in presidi anti-rom o anti-immigrati e che rende quotabile il rancore sul mercato elettorale. Il punto essenziale e' che quando corpo sociale e corpo economico si confondono fino a diventare indistinguibili, il denaro e' l'unica vera comunita' esistente. Se per l'economia "i valori", o i giudizi morali, sono rilevanti solo dal punto di vista del costo della loro realizzazione per la politica solo per la quantita' di voti che puo' apportare. Nel momento in cui il territorio diventa pienamente un mezzo di produzione per l'impresa e un mezzo di investimento per i mercati la politica si riduce a pura amministrazione e sviluppo delle condizioni sociali dell'arricchimento privato. Alla vecchia dicotomia urbana centro/periferia si sostituisce quella trasversale al tessuto sociale tra incluso/escluso, dentro/fuori, un regime di apartheid sociale. Allora bisognera' guardare alla citta' come ad uno spazio dove si intrecciano processi contraddittori di valorizzazione e svalorizzazione, di consumo e marginalizzazione, di controllo e conflitto.


LA CITTA' IMMAGINE: IL BRAND PERUGIA Viviamo dentro un'immagine stereotipata che copre lo spazio di una citta'. Un'immagine a dimensione di citta' creata per attirare flussi di turisti e di denaro. La citta' si ordina secondo una serie di immagini suggestive, di spettacoli estetici, la cui riproduzione e' protetta da un'apparato repressivo. Infatti, la citta'-immagine, come motore dell'economia locale, deve essere preservata da tutto cio' che puo' arrecare danno alla sua reputazione. Le tecniche di elaborazione della citta'-immagine, immagine fondamentale per invogliare gli investimenti-posizionarsi sul mercato turistico internazionale, variano la distribuzione di luminosita' e visibilita' dei fenomeni sociali in base ad esigenze di mercato. Le irregolarita', le distorsioni cromatiche, e il rumore che compromettono l'immagine devono essere ridotti al minimo. In questo caso i filtri utilizzati sono ordinanze amministrative, polizia urbana, campagne locali di propaganda giornalistica, una certa distribuzione clientelare delle risorse destinate agli eventi culturali, degli spazi dedicati all'associazionismo. Oggi, tanto le politiche dell'amministrazione in carica, quanto i discorsi della cosiddetta opposizione ruotano prevalentemente intorno al tema del "ripristino dell'immagine degradata dell citta'". Ognuno vanta un suo "modello originale" dell'immagine della citta' e delle conseguenti operazioni "antidegradazione" che il piu' delle volte si riducono a tecniche grossolane di "pulizia etnico-sociale" del centro storico, all'aumento dei lampioni e delle telecamere, all'intensificazione dei pattugliamenti di polizia, alle ordinanze anti-alcool. In questa immagine pseudo-religiosa della citta' ovviamente i rumori e le aberrazioni cromatiche da attenuare sono rappresentati dalla massa dei lavorator* precarizzati e malpagati senza dei quali i profitti, che il culto economico del "brand perugia" porta, non sarebbero possibili. Il colore e l'intensita' dei pixel, degli individui, come delle unita' elementari dell'immagine, sono tenuti a non superare certe soglie come quelle della retorica del "capitale umano", della "formazione permanente", del consumo disciplinato, dello svago organizzato e della sottomissione sociale.

La soc ial - dem oc razia dal vol t o urbano

La "socialdemocrazia dal volto urbano" sotto la spinta della ristrutturazione economica e della crisi ha consumato il suo fallimento. Politiche di decentramento dei servizi, ricostruzione fittizia di "identita' di quartiere"..., spesa pubblica, non sono piu' in grado di ricomporre i conflitti che derivano da una crescente polarizzazione sociale e dalla crescita vertiginosa delle disuguaglianze. Il patto con "il demonio", il capitale, non ha retto. Il mercato come unico gioco possibile in citta' non salva nulla del welfare e non tollera gli interessi delle minoranze. La tolleranza liberal di sinistra e' stata distrutta dal dominio illimitato del capitale. La cosiddetta "qualita' della vita", inflazionata nella retorica della citta' "ecocompatibile", e' ormai del tutto privatizzata. Sopravvive, come una merce che ha bisogno di essere continuamente scortata

dalla polizia, tutelata e difesa da una sorveglianza senza-voltovideoelettronica senza piu' limiti. Il tema ossessivo della "sicurezza" non fa che codificare in termini di fiction popolare e di propaganda giornalistica il fatto che la "qualita' della vita" e' una merce e che come tutte le merci ha un prezzo che non tutti possono permettersi. Definizioni come "quartieri degradati", "in crisi", "a rischio" esprimono metaforicamente la connotazione urbana imperante dei problemi sociali che prevede "interventi mirati" su spazi e soggetti specifici e che legittima un discorso di deresponsabilizzazione dell'intera collettivita'. Intanto gli amministratori locali non sanno fare di meglio che dedicarsi ad esercizi di rating, ansiosi di pubblicizzare la propria posizione nella graduatoria dei luoghi dove si vive bene per attirare investitori e abitanti pregiati. Il vocabolario neoliberista adottato dai politici locali di "sinistra" (governance, flessibilita', inclusione/esclusione, globalizzazione, crescita, privatizzazione delle risorse comuni, competizione, esternalizzazione...) presenta gli obiettivi del potere economico come inevitabili, universali, quasi naturali. L'effetto ideologico di questo tipo di discorso e' la legittimazione sociale di relazioni ineguali di potere e il trasferimento dei metodi di gestione manageriali del privato all'amministrazione pubblica. La strategia del governo del territorio come creazione delle condizioni adeguate ad ottenere l'installazione di imprese e attirare investimenti, "per intervenire a monte dei problemi sociali" creando posti di lavoro, cosi' si dice, si e' risolta in una pura e violenta ri-organizzazione dello spazio urbano in funzione dell'accumulazione privata di capitale ( che produce Working poor, deteriora i servizi pubblici, distoglie somme enorme di denaro dai programmi sociali). La retorica liberal di sinistra sulla "partecipazione" dei "cittadini" al governo della cosa pubblica, priva com'e' di ogni capacita' effettiva di agire sulla ridistribuzione del potere, e' diventata lo slogan di un vuoto e' frustrante processo di riproduzione dello status quo. Di fatto la "partecipazione" sulle decisioni amministrative e' una finzione, un gioco di propaganda che mira al consenso elettorale, se non significa la possibilita' concreta di costruire le regole e le norme che definiscono le scelte. Senza contare, poi, che in gran parte, i "rappresentanti delle comunita' locali" per lo piu' appartengono all'elite' o alle burocrazie della societa' e che per questo le scelte delle amministrazioni, oggettivamente, diventano atti di riduzione al silenzio o di neutralizzazione dei soggetti meno o per niente legittimati dal loro "status sociale" a prendere e soprattutto a far pesare la loro parola negli affari pubblici del territorio in cui vivono o sopravvivono. I cosiddetti "partiti della sinistra", per non dire dei sindacati, si sono trasformati in grige famiglie allargate, comitati per la distribuzione di impieghi negli apparati, di incarichi nelle istituzioni e nelle strutture pubbliche. Il loro fine ultimo e' l'autoriproduzione e la loro politica, al di la' delle chiacchiere d'occasione, e' una sola, quella della propria autoconservazione e degli equilibri di potere che la rendono possibile. Chiusi nelle istituzioni, nei consigli di amministrazione degli enti pubblici, nelle stanzette re-numerate dei propri apparati burocratici non immaginano neppure lontanamente che il mondo, la' fuori, e' cambiato. L'unica nota di "novita'" che si puo' ascrivere a questa classe politica, negli ultimi decenni, e' l'aver trasformato la politica locale in politica imprenditoriale, in una prassi amministrativa che non risponde alla domanda sociale ma all'offerta economica. In sostanza, il profitto passa attraverso la mercificazione del territorio e la "socialdemocrazia dal volto urbano" e' definitivamente morta.


Lo spettacolo, l'ultima risorsa. Mcdonalizzazione o Disneyficazione del territorio urbano. I progetti "spettacolari" da Umbria jazz ad Eurochocolate etc... sono tutti volti ad esercitare una rigenerazione promozionale dell'ambiente e la produzione di "eventi culturali" viene presentata come una risorsa per la creazione di un valore economico eco-sostenibile per la citta'. Essi rientrano a pieno titolo nelle strategie di marketing territoriale che mettono in vendita il territorio e la citta' sul mercato turistico internazionali. Alle pratiche sociali collettive tradizionali cosi', lentamente, sono state sostituite da tessuti di relazionali e interazioni per la produzione di valore economico. Una produzione che sotto la reclame della creazione di un terziario "ad alta intensita' di conoscenza" alimenta forme di lavoro ad alta intensita' di sfruttamento e a bassa intensita' di diritti e reddito. Fondazioni, banche, enti locali finanziano e orientano la costruzione di eventi culturali per accrescere la competitivita' economica del territorio. Ma gli eventi spettacolari, in definitiva, animano solo il commercio della fiera dei sensi e costringono il "capitale umano", che da piu' parti si usa evocare come il motore dell'attivita' economica, a sottostare, in cambio di salari da fame, ai diktat di un intreccio di poteri consolidati, di lobby pietrificate, di gruppi dirigenti che si affannano a tenere in piedi equilibri di consenso-clientelare fondati su una spesa pubblica sempre piu' ridotta. Questa e' una citta' gestita proprio come un'impresa, secondo un modello imprenditoriale, che nell'intreccio di lobby pubbliche e private cerca di massimizzare i profitti e le rendite urbane. Che sotto il discorso della costruzione di "un innovativo sistema terziario" per agganciare il nodo-territorio ad una rete globale, nasconde la realta' del profitto per un' elite privilegiata e grigia disposta a fare affari anche con la mafia. La discussione intorno alla questione del degrado del "centro storico", oggi, e' l'emblema di un'immagine della citta' messa in cornice per la vendita sul mercato internazionale e di una politica di "sviluppo" locale che continuamente frana sotto gli effetti, non previsti e non voluti, di quella mercificazione radicale dello spazio vista, da una miope classe dirigente, come l'ultima novita' in materia di evoluzione economica. In particolare, il trattamento-riqualificazione del "centro storico", secondo i vecchi e mai tramontati paradigmi della "rendita urbana", si e' rivelato un vero e' proprio fallimento politico ed economico per le amministrazioni che si sono succedute negli ultimi anni. Il paradigma della "rendita urbana" prescrive che il valore complessivo di una citta' e dei suoi singoli edifici e aree dipende dalla quantita' di capitale fisso sociale che essi incorporano

(infrastrutture e servizi). Inevitabilmente, questa valorizzazione della aree urbane, che si distribuisce anche sui singoli edifici, senza adeguate contromisure, si traduce in un loro maggior costo d'uso. Questo paradigma di "riqualificazione" del centro storico ha reso il suo spazio urbano piu' costoso per abitare, produrre, studiare, per i servizi. Questo aumento del costo d'uso del centro storico ha prodotto un oggettivo processo di espulsione degli abitanti che non erano in grado di pagare gli "incrementi di rendita" (come attivita' a basso valore aggiunto, le famiglie a medio e basso reddito, studenti etc.). Diversamente, sono rimasti, o piuttosto si credeva che si sarebbero trasferiti in questa area "valorizzata" degli "abitanti di prestigio", cioe' di quelli che avrebbero potuto sopportare maggiori costi e che avrebbero considerato l'insediamento nell'area una questione di status ( famiglie ad alto reddito, attivita' produttive e servizi ad alto valore aggiunto etc.). Ma il centro storico "ristrutturato" per il mercato alla fine piu' che alimentare questo virtuoso circuito della rendita si e' ritrovato senza piu' abitanti e con dei "city users", clienti e consumatori che non nutrano alcun "senso di responsabilita'" per il luogo che attraversano. La messa in scena della storia, della tranquillita' e della sicurezza al suo ultimo stadio, ora, non puo' annunciare altro che la trasformazione definitiva del "centro storico" in un grande centro commerciale all'aperto. In un non-luogo che non avra' altro capitale culturale se non quello reificato e omogeinizzato delle disposizioni, degli stili e dei linguaggi del consumatore, con tutti gli effetti collaterali che questo comportera nei termini di un'ulteriore "degrado sociale" dell'ambiente. Mentre si "riqualificava il centro storico" e contemporaneamente, piu' in generale, si doveva supplire alla tradizionale offerta dei servizi diffusa sul territorio, le amministrazioni hanno pensato di risolvere il problema con un'offerta di servizi ad economia di scala: iper-mercati, multisale cinematografiche, centri ospedalieri, campus universitari, attivita' commerciali con integrati bar, pizzeria, sale giochi etc. I servizi di fatto possono raggiungere economie di scala solo attraverso la concentrazione spaziale e la localizzazione extra-urbana dove i terreni liberi sono ancora sufficientemente liberi e costano poco. Questa trasformazione nella distribuzione dei servizi sul territorio, benche' finanziata e sostenuta da fondi pubblici, nella maggior parte dei casi ha seguito una logica e interessi privati, rispondendo, per cosi' dire, alle aspettative del mercato. Questa politica urbana fatta di grandi colate di cemento, ipermercati, multisale, super poli ospedalieri e annessi ingorghi della viabilita' etc. hanno infine attirato investimenti di provenienza illecita e mafiosa. Con questo, "la socialdemocrazia dal volto urbano" ha consumato il suo ultimo fallimento politico. La cosiddetta "sinistra" non e' mai riuscita del tutto ad abbandonare la prospettiva lavorista del vecchio PCI e continua a ribadire un'astratta centralita' del lavoro per la quale la soddisfazione dei bisogni rappresenta soltanto la conseguenza di un aumento della produzione. Ma oggi la produzione e' ridotta a produzione di illusioni sussunta alla volatilita' degli investimenti, del capitale finanziario.


La citta' come luogo di riproduzione della forzalavoro e del conflitto La citta' come spazio di riproduzione della forza-lavoro e' "capitale collettivo" e dunque dipendente dalla logica del capitale. Oggi, le citta' vengono riadattate alle esigenze dell'accumulazione flessibile che trasforma masse di lavoratori in precari. Ma la citta' e' anche lo spazio dove prendono vita i bisogni, le aspirazioni, le pratiche quotidiane degli individui che non sono pura merce, che eccedono comunque, sempre e ovunque il ruolo di pura forza-lavoro. La citta' pertanto e' anche inevitabilmente luogo di conflitto sociale. Un'intreccio di corpi, spazi, linguaggi, pratiche che formano una rete potenziale di nodi per una possibile ricomposizione sociale antagonista. La "cellularizzazione" del lavoro sociale, la dispersione degli individui all'interno di segmentate strategie di sopravvivenza, evidentemente corrode il tempo e lo spazio delle relazioni sociali che non sono riconducibili al mercato. Semidisoccupati, precari, interscambiabili, saltuari, tecnologizzati, servili...; la fluidificazione del mercato del lavoro ha ridisegnato la geografia sociale della citta'. I cambiamenti nella struttura produttiva complessiva della citta', del mercato del lavoro e delle forme di reddito hanno dato vita ad una estesa frammentazione sociale. E la conseguente molteplicita' delle forme dell'agire, la pluralita' delle microreti di relazione, la frammentazione dell'esperienza vissuta, segnano oggi il passo ad ogni ricomposizione tentata in forza di qualche raffinatezza ideologica o della socializzazione astratta di teorie piu' o meno innovative. Forse, la ricomposizione sociale comincia con l'uscita dal circuito della comunicazione come consumo e con l'apertura di uno spazio di riappropriazione della comunicazione. Una comunicazione che non e' identificabile, nella sua accezione piu' stretta, con le "reti di comunicazione", con le infrastrutture digitali e non, che oggi permettono a tutti di stare in contatto con tutti allo scopo di rendere possibile vendere qualsiasi cosa a chiunque. Non si tratta di radunare dei consumatori di comunicazione in un medesimo luogo reale o virtuale che sia. Quando il campo del conflitto e' gia' disegnato e presidiato non ci sono scorciatoie efficaci da poter prendere. Bisogna uscire dalla cornice e cambiare gioco. Riappropriarsi della comunicazione non ha senso se non si esce dalla fabbrica dell'informazione e dello spettacolo mediatico degli eventi e non si comincia a comunicare la propria situazione, i propri bisogni. Del resto, se la politica non e' radicata nel mondo della vita quotidiana e inevitabilmente si trasforma in "tecnica di gestione" e amministrazione dell'apparato istituzionale e ideologico. Nell'uso puramente strumentale della comunicazione e nella manipolazione degli individui. Diversamente, si riparte dalle condizioni oggettive di vita imposte dal capitale. Dalla ri-attivazione di una comunicazione collettiva che mette in discussione le condizioni materiali della propria vita sottomessa ai bisogni di valorizzazione del capitale. Il modo di vedere il mondo da parte di un gruppo funziona a sostegno di coloro che ne fanno parte, offrendo una definizione autogiustificante della loro situazione, e la possibilitĂ di giudicare a una certa distanza quelli che non appartengono al gruppo. Inevitabilmente questo "modo di vedere" prevede e prescrive l'immagine

ufficiale dietro la quale ognuno puo' nascondersi, e anche che cosa puo' trasparire oltre questa immagine. Ma cosi' stiamo tutti "sulle spine" di un imperfetto autocontrollo delle nostre passioni. Sebbene il mondo sociale sia costruito sulla base di ruoli sostenuti da persone, queste persone hanno, e crediamo che abbiano, un'esistenza piu' vasta di qualsiasi ruolo del momento e anche dei "bisogni radicali". (3) Come scrive A. Heller, i "bisogni radicali" sono bisogni che non possono essere soddisfatti se non attraverso una trasformazione radicale dell'assetto sociale. Percio' i portatori di questi bisogni non sono semplicemente un gruppo, ma una classe sciale, il proletariato ( Proletario e' chiunque e' espropriato dell'uso della propria vita e che lo sa). Vi sono "bisogni sociali" come bisogni generali, socialmente indotti, come il bisogno d'istruzione o di salute etc e vi sono "bisogni radicali" come la riappropriazione del tempo della propria vita, di un un'attivita' sociale gratificante, di relazioni umane non alienate, di una vita sensata.sono bisogni radicali tutti quelli che mirano ad uno sviluppo integrale dell'individuo. Su questi bisogni e' possibile costruire una tavola di valori, costituire una sensibilita' in forza ma non un "programma politico". Dunque, cio' che si cerca non e' una qualsiasi identita' sociale, o pseudo-politica, ma di una certa sensibilita' e coscienza di classe. La comprensione dello stato positivo delle cose esistente include anche simultaneamente la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto... almeno si spera..., oppure, si puo' restare nella prospettiva della continua rimozione della soggettivita' e dei suoi bisogni radicali. "Chiamiamo radicali, quei bisogni che non si possono soddisfare in una societa' basata su rapporti di subordinazione e di dominio, o la cui soddisfazione non puo' essere generalizzata in una societa' di questo tipo." (Agnes Heller)


La citta' come merce: le p e r i f e r i e i n c e n tr o

Oggi "il centro" e' ovunque e anche "le periferie". Le "periferie interne o trasversali" alla citta' coincidono, in linea generale, con "le periferie del mercato del lavoro", con tutto quell'universo di lavoro precario, incerto e sottopagato che e' indispensabile all'impresa citta'-immagine per funzionare con profitto. La produttivita' sociale, complessiva, della citta'immagine infatti non puo' fare a meno di queste frontiere mobili di un lavoro intermittente, interscambiabile, terziarizzato-precarizzato. Il carattere "strategico", per l'economia locale, della citta'-immagine comporta un programma del mercato del lavoro in cui accanto a fasce ristrette di occupazione, piu' o meno privilegiate, in quanto a renumerazione e qualita' dell'attivita' svolta, si estendono territori occupazionali che si caratterizzano per attivita' poco "qualificate" e soprattutto altamente sensibili alle variazioni congiunturali o strutturali dell'economia. Il "brand equity" Perugia, il valore dell'immagine della citta', e' per l'impresa del profitto un'importante risorsa, ma questo "valore

aggiunto" non si realizzerebbe senza l'arcipelago piu' o meno sommerso di un terziario marginale, di lavori non-garantiti, di un sistema di sottoccupazione permanente. La citta'immagine, nella sua forma quotidiana, come principio di organizzazione della produttivita' sociale, significa, in concreto, da un lato la promozione politica di alcune forme di vita che vengono ritenute idonee allo sviluppo di "imprese creative" (di denaro) o al buon andamento del mercato immobiliare, mentre dall'altro significa repressione o espulsione dal territorio urbano di quelle forme di vita ritenute inadatte o pericolose o improduttive come i mendicanti, i Rom, i suonatori di strada, i senza fissa dimora...etc. Gli "investitori" di fatto finanziano l'impresacitta' per la sua capacita' di rendere produttivo l'ambiente sociale. Chi vive e pensa diversamente (Think different), le "bad apples", e' tollerato solo se innova o fa progredire l'impresa-citta'.

N ET W O RK N O N E' U N A PA RO LA M A G ICA Le "reti sociali" hanno le loro qualita' strutturali come la posizione relativa dell'individuo al suo interno, la forza dei legami, le forme di gestione del potere-comunicazione etc... Ci sono "network" che promuovono una "liberazione cognitiva" sulla vita contemporanea e che muovono dalla consapevolezza di poter dare forme a strategie per il cambiamento sociale e l'emancipazione umana. E ci sono reti che si cristallizzano, fissano rapporti di potere cognitivo e di

status, soffocano gli individui all'interno di rapporti di dominio e promuovono una resistenza conservatrice. Esistono anche reti sociali che apparentemente non hanno un'ideologia conservatrice e che tuttavia nei loro modelli organizzativi riproducono i rapporti sociali dominanti. Questi network sono caratterizzati da partecipazione debole o delegata degli individui. Ma e' evidente che la liberazione e' simultanea all'azione...

O G N I CO M PO RT A M EN T O E' PRO G RA M M A T O CIO E' FO N D A T O SU CO D ICI Macchine elettroniche, informatiche, automatiche, macchine per parlare..., la "terza rivoluzione industriale" mentre ha distrutto il lavoro di-in fabbrica lo ha recuperato nel sociale. I canali "istituzionali" della comunicazione recuperano la produttivita' e il sapere collettivo per metterli a disposizione della produzione di denaro. La macchina della Comunicazione-produzione risucchia il lavoro sociale, l'insieme dei flussi di comunicazione che attraversano la societa', li riproduce come informazione, li mette al lavoro. In

questo scenario la riappropriazione della Comunicazione diventa il problema della lotta contro lo sfruttamento, della creazione di nuove forme di organizzazione e liberazione cognitiva, umana. Detto diversamente e' finito il tempo della riappropriazione dei mezzi di comunicazione come strumenti di auto-rappresentazione mentre non e' detto che cominci quello della loro riappropriazione produttiva, di contro-potere sociale.


L'ATTIVISMO E LA CATASTROFE

L’ordine globale non può essere preso come nemico. Direttamente. Perché l’ordine globale non ha luogo. Al contrario. È piuttosto l’ordine dei non-luoghi. La sua perfezione non sta nel fatto di essere globale, ma di essere globalmente locale. L’ordine globale è la congiura di ogni evento perché è l’occupazione compiuta, autoritaria del locale. Non ci si oppone all’ordine globale se non localmente. Ciò che colpisce comunque non è l'arroganza dell'impero, ma piuttosto la debolezza del contrattacco. Quasi una colossale paralisi. Una paralisi di massa, che talvolta consente di affermare, quando ancora ci si esprime, che non c'è niente da fare, talaltra di ammettere, messi alle strette, che “c'è tanto da fare” -il che è la stessa cosa. Poi a margine di questa paralisi, il “bisogna fare qualcosa, qualsiasi cosa” degli attivisti. Abbiamo visto l'economicismo più piatto quello degli amici di Le Monde Diplomatique diventare la nuova religione popolare. Ovunque la militanza è tornata a edificare le sue costruzioni traballanti, le sue reti depressive, fino allo sfinimento. Alla polizia, ai sindacati e alle varie burocrazie informali sono bastati pochi anni per avere la meglio sull'effimero movimento “antimondializzazione”. Per quadrettarlo. Per dividerlo in “terreni di lotta” separati, tanto convenienti quanto sterili. Chi vorrebbe rispondere all’urgenza della situazione con l'urgenza della sua reazione contribuisce solo ad aumentare il soffocamento. Una tale modalità di intervento implica il resto della sua politica, della sua agitazione. Per quanto ci riguarda, l’urgenza della situazione ci libera solo da ogni pensiero di legalità o di legittimità, pensieri divenuti in ogni caso impraticabili. L’attivismo è il primo riflesso, la risposta conforme all’urgenza della situazione attuale. La mobilitazione continua in nome dell’urgenza, prima di sembrare un mezzo per combatterla, è quello cui padroni e governi ci hanno abituati. L’attivista si mobilita contro la catastrofe. Ma non fa che protrarla. La sua fretta consuma quel poco di mondo che resta. La risposta dell’attivista all’urgenza rimane all’interno del regime dell’urgenza, senza nessuna speranza di uscirne o di interromperlo. L’attivista vuole essere ovunque. Si reca ovunque lo porti il ritmo dei guasti della macchina. Ovunque egli apporta la sua inventiva pragmatica, l’energia festosa della sua opposizione alla catastrofe. Incontestabilmente l’attivista si muove ma non si dota mai degli strumenti necessari a pensare come fare. Come fare a intralciare concretamente l’avanzata del deserto per costituire qui ed ora mondi abitabili. Noi disertiamo l’attivismo, senza dimenticare ciò che ne costituisce la forza: una certa presenza nella situazione. Finora in tutti i movimenti sociali c'è stato un impegno a non impossessarsi di ciò che è là, il che spiega perché si susseguono l'uno all'altro senza aggregarsi ma piuttosto avvicendandosi. Di qui il carattere particolare, così mutevole, della socialità di movimento, dove ogni impegno sembra revocabile. Di qui anche il loro

dramma costante: una crescita veloce, grazie alla risonanza sui media, e poi, sulla base di questa aggregazione affrettata, l'erosione, lenta ma fatale; e infine il movimento inaridito, l'ultimo gruppo di irriducibili che prendono la tessera di questo o quel sindacato, fondano questa quell'associazione, aspettandosi in tal modo di dare continuità organizzativa al loro impegno. Dire il proprio parere su tale o talaltra alternativa, andare là dove si è chiamati non ha più senso. Perché non c’è nessun progetto globale alternativo al progetto dell’Impero. C’è una gestione imperiale. Ogni gestione è cattiva. Quelli che reclamano un’altra società farebbero meglio col cominciare a vedere che non ce ne sono più. E forse allora smetterebbero di essere degli apprendisti gestori. Dei cittadini. Dei cittadini indignati. Ciò che si oppone alla desolazione dominante è solo, in definitiva, un'altra desolazione, non attrezzata altrettanto bene. Ovunque la stessa stupida idea di felicità. Gli stessi giochi di potere paralizzati dalla paura. La stessa superficialità disarmante. Lo stesso analfabetismo emozionale. Lo stesso deserto. Affermiamo che quest'epoca è un deserto, e che questo deserto si approfondisce senza posa. Non è un artificio poetico, è un'evidenza. Un'evidenza che ne contiene molte altre. Fra altre la rottura con tutto ciò che protesta, denuncia, chiosa malamente il disastro. Chi denuncia si tira fuori

D el l o Sc iopero

Quello che bisogna opporre all’Impero è lo sciopero umano. Che non attacca mai i rapporti di produzione senza attaccare al tempo stesso i rapporti affettivi che li sostengono. Che mina l’economia libidinale inconfessabile, restituisce l’elemento etico – il come – rimosso in ogni contatto tra i corpi neutralizzati. Lo sciopero umano è lo sciopero che là dove non ce lo si aspetterebbe, a tale o talaltra reazione prevedibile, a tale o talaltro tono contrito o indignato, preferisce di no. Sfugge al dispositivo. Lo satura o lo fa esplodere. Si riprende preferendo altro. Altro che non è circoscritto nei possibili autorizzati dal dispositivo.


CONTROLLARE GLI ORDINI DEL DISCORSO (L'INSIEME DELLE CONVENZIONI) E' POTERE

La Comunicazione oggi svolge un ruolo dominante non solo nel mercato, nella circolazione ma, in seguito allo sviluppo dell'automazione, dell'informatizzazione del sociale, anche nel momento della produzione e consumo di merci. Le merci sono messaggi, ma che anche i messaggi sono merci. Consumare comunicazione non e' riappropriarsi della comunicazione. Comunicare per produrre messaggi-merce e' lavoro non liberazione. Ormai non c'è scarto, ma passaggio quasi impercettibile tra la comunicazione nella produzione e la comunicazione per la produzione, tra le connessioni dei segmenti aziendali e l'invadenza "interattiva" dei mezzi di comunicazione di massa-e-non, con la loro produzione di consenso tramite un immaginario omologato, con punte di imbarbarimento culturale. La misura che definisce quelli "in alto" e "quelli in basso" in una societa' di consumatori

dipende dal loro grado di mobilita', cioe' dalla liberta' di scegliere dove collocarsi. Come ha scritto Z. Bauman gli uomini e le donne sono parte del paesaggio urbano, in cui - lo vogliano o no - s'iscrivono le loro aspirazioni. In quanto operatori globali, possono gironzolare per il cyber-space, ma in quanto esseri umani - sono da mattina a sera confinati nello spazio fisico nel quale operano, nell'ambiente gia' predisposto e continuamente rigenerato nel corso delle lotte per il senso e l'identita'. E' nei luoghi che l'esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa, e il suo senso viene elaborato, assimilato e negoziato. Ed e' nei luoghi, e grazie ai luoghi, che i desideri si sviluppano e prendono forma, alimentati dalla speranza di realizzarsi, e - a dire il vero - il piu' delle volte vengono delusi".

Il " disc orso" non e' sem pl ic em ent e c io' c he t raduc e l e l ot t e o i sist em i di dom inazione, m a c io' per c ui, at t raverso c ui, il pot ere c erc a di im padronirsi per c ont rol l are e sot t om et t ere M ediat aM ent e.

del l 'aut onom ia soc ial e Il controllo e' un'insieme di tecno-logie, pratiche e linguaggi che esercitano un potere di as-soggettamento ad un'ideologia che si pretende fondata su riferimenti astorici e universalistici. Il governo dei corpi e dei territori non e' solo repressivo ma generalmente anche persuasivo. Gli apparati mediatici e linguistici organizzano la contrivoluzione preventiva. Disegnano scenari, spiegazioni, statistiche sulla crescita o sulla diminuzione del caos sociale. Preparano il terreno alla polizia e alla politica. Lo stato d'eccezione permanente, l'intensificarsi delle tecnologie di controllo, della macchina da guerra della polizia, viaggiano sulle chiacchiere e sui luoghi comuni e prima ancora sull'assorbimento delle relazioni sociali nella macchina del profitto, del denaro. Quando il denaro diventa la vera "comunita'" i rapporti "immediati" fra gli esseri umani in quanto esseri umani vengono espropriati e messi al lavoro. I legami assumono un valore economico e vengono declinati in questo segno di "rete minima di protezione" da chi individualmente vive ogni giorno il rischio dell'esclusione. Dove la societa' e' collassata la rete di relazioni e' fondamentale per garantirsi forme di sopravvivenza. Ma la sopravvivenza si scambia con la capacita' di vivere.


LA RIVOLTA CHE VIENE E' LA RIVOLTA DEI BAMBINI PERDUTI.

Come lo intendiamo, il Partito non è l'organizzazione (dove tutto è inconsistente a forza di trasparenza) e il Partito non è una famiglia (dove tutto sa di inganno a forza di opacità). Il Partito è un insieme di luoghi,infrastrutture, mezzi messi in comune, e i sogni, i corpi, i sussurri, i pensieri, i desideri che circolano tra quei luoghi, l'uso di quei mezzi, la condivisione di quelle infrastrutture. La nozione di Partito risponde all'esigenza di una formalizzazione minima che ci rende accessibili, permettendoci al contempo di restare invisibili. Fa parte dell'esigenza comunista spiegare a noi stessi, formulare i principi della nostra condivisione. Sicché l'ultimo arrivato sia almeno in questo alla pari del più vecchio. A considerarlo con più attenzione, il Partito potrebbe non esser altro che questo: la costituzione in forza di una sensibilità. Lo spiegamento di un arcipelago di mondi. Noi comunque non cerchiamo continuità del tipo: avere dei locali dove potersi incontrare e una fotocopiatrice per stampare opuscoli. La continuità che cerchiamo è quella che ci consente, dopo aver lottato per mesi, di non tornare a lavorare, di non riprendere di nuovo il lavoro come prima, di continuare a nuocere. E questa e' questione di condivisione immediata, materiale, di costruzione di una vera macchina da guerra rivoluzionaria, di costruzione del Partito. Si tratta di organizzarci sulla base dei nostri bisogni – riuscire a soddisfare progressivamente il problema comune di mangiare, dormire, pensare, amare, creare forme, coordinare le nostre forze – e concepire tutto ciò come un momento della guerra contro l'impero. In queste condizioni, il passaggio alle lotte sul territorio, la ricomposizione di un tessuto etico, il problema della riappropriazione dei mezzi per vivere, lottare e comunicare formano un orizzonte irraggiungibile fin quando non sarà ammesso il presupposto esistenziale della separ/azione. Separ/azione significa: non abbiamo niente a che vedere con questo mondo. Non abbiamo niente da dirgli, né niente da fargli capire. Non c’è un’«identità rivoluzionaria». Sotto l’Impero il fatto rivoluzionario è, al contrario, la non-identità, è il continuo tradimento dei predicati che ci affibbiano a essere rivoluzionario. Di «soggetti rivoluzionari» non ce ne sono più da tempo tranne che per il potere. Divenire qualunque, divenire impercettibili, cospirare significa distinguere tra la nostra presenza e ciò che siamo per la rappresentazione, per metterla in scacco. Far indossare a ciò che è ostile all'impero le vesti del «negativo», della «contestazione» o del «ribelle», è soltanto una tattica usata dal sistema della rappresentazione per trascinare sul proprio piano di inconsistenza, foss’anche a costo dello scontro, la positività che gli sfugge. Anche la tradizione rivoluzionaria ci lascia orfani. Il movimento operaio soprattutto. Il movimento operaio che si è capovolto in strumento di un’integrazione superiore al Processo. Al nuovo Processo cibernetico di valorizzazione sociale. Nel 1978, è in nome suo che il Pci, il «partito dalle mani pulite», lanciava la caccia all’autonomo.

In nome della sua concezione classista del proletariato, della sua mistica della società, del rispetto del lavoro, dell’utile e della decenza. In nome della difesa delle «conquiste democratiche» e dello Stato di diritto. Come fare? è la domanda dei bambini perduti. Quelli a cui non è stato detto. Quelli che hanno gesti insicuri. A cui niente è stato regalato. Quelli la cui creaturalità e la cui erranza non smettono di tradirsi. La rivolta che viene è la rivolta dei bambini perduti. Il filo della trasmissione storica è stato rotto. Non agiamo in virtù di un mondo migliore, alternativo, a venire, ma di ciò che fin d’ora sperimentiamo, della radicale inconciliabilità tra l’Impero e questa sperimentazione, di cui fa parte la guerra. Siamo fuggiti da tutto ciò che assomigliava a un patto, perché un patto non si può disdire; si rispetta o si tradisce. Ed è questo, in fondo, che è difficile da capire: è dalla positività di un comune che dipende l’impatto di una negazione; è il nostro modo di dire «io» a determinare il nostro modo di dire «no» Ci opponiamo su ogni fronte al ricatto di dover scegliere tra offensiva e costruzione, tra negatività e positività, tra vita e sopravvivenza, tra la guerra e il quotidiano. Per noi il punto del capovolgimento, la fine del deserto, l’uscita dal capitale sta nell'intensità del legame che ciascuno riesce a stabilire tra quello che vive e quello che pensa. Contro i sostenitori del liberalismo esistenziale, rifiutiamo di considerare ciò una questione privata, individuale, di carattere. Al contrario, partiamo dalla certezza che questo legame dipende dalle costruzioni di mondi condivisi, dalla messa in comune di mezzi effettivi. Ogni giorno ognuno è costretto ad ammettere che la preoccupazione del “legame tra vita e pensiero” è evidentemente ingenua, fuori moda, ed è segno, in definitiva, di semplice mancanza di cultura. Riteniamo ciò un sintomo. Questa evidenza, infatti, è proprio un effetto della modernissima ridefinizione liberale della distinzione tra pubblico e privato. In ogni luogo in cui i rapporti non sono problematizzati, le antiche forme riaffiorano in tutta la potenza della loro brutalità adiscorsiva: il forte prevale sul debole, l’uomo sulla donna, l’adulto sul bambino e così via... Dunque, ciò che si richiede è la nostra capacità di autorganizzarci, la nostra capacità di organizzarci subito sulla base dei nostri bisogni, di prolungare, propagare, rendere effettiva la situazione d’eccezione, sul terrore della quale si basa il potere imperiale. La questione è sapere se preferiamo l’eventualità di un pericolo ignoto alla certezza del dolore presente. Ovvero, se vogliamo continuare a vivere e a parlare in accordo (dissidente certo, ma pur sempre in accordo) con quanto fatto sinora – e dunque con le comunità terribili – o se vogliamo interrogare quella particella del nostro desiderio che la cultura non ha ancora infestato col suo opprimente pantano, cercare – in nome di una felicità inedita – un cammino diverso.


I L C O M U NI S M O . E ANCHE SUL BISOGNO DI C O M U NI S M O

Il solo argomento che abbia mai resistito contro il comunismo era che non ne avevamo bisogno. E certo, per quanto limitati, non molto tempo fa sopravvivevan o ancora qua e là cose, linguaggi, pensieri, luoghi che erano comuni, almeno abbastanza da non deperire. C'erano mondi ed erano abitati. Il rifiuto di pensare, il rifiuto di porre la questione del comunismo aveva dei motivi, dei motivi pratici. Sono stati spazzati via. Il riferimento traumatico di questa purga definitiva sono gli anni ‘80. Gli anni ‘80 come perdurano. Da allora tutte le relazioni sociali sono diventate sofferenza. Al punto da rendere preferibile qualsiasi anestesia, qualsiasi isolamento. In certo qual modo è il liberalismo esistenziale a spingerci verso il comunismo con l'eccesso stesso del suo trionfo. La questione comunista riguarda l'elaborazione del nostro rapporto con il mondo, gli esseri, noi stessi. Riguarda l'elaborazione del gioco tra i vari mondi, la comunicazione tra essi. Non riguarda l'unificazione dello spazio mondiale, ma l'instaurazione del sensibile, vale a dire della pluralità dei mondi. In quel senso il comunismo non è la fine di ogni conflittualità, non descrive uno stadio finale della società dopo il quale tutto è detto. Perché è anche attraverso il conflitto che i mondi comunicano. La questione del comunismo è dunque da un lato abolire la polizia e dall'altro elaborare modi di condivisione, di uso, tra quelli che vivono insieme. È la questione che SI elude ogni giorno dicendo “sono stufo” e “non menartela”. Il comunismo, certo, non è dato. È da essere pensato, è da fare. E così tutto quello che viene espresso contro di esso si riassume in un'espressione di sfinimento: “Non ce la farete mai... Non può funzionare... Gli esseri umani sono quello che sono... ed è già abbastanza duro vivere la propria vita... l'energia ha dei limiti... non possiamo fare tutto”. Ma lo sfinimento non è un argomento, è uno

stato. Il comunismo inizia dall'esperienza della condivisione. E in primo luogo, dalla condivisione dei bisogni. I bisogni non sono quelle cose cui ci hanno abituato i meccanismi capitalistici. Il bisogno non è mai bisogno di cose senza contemporaneamente essere bisogno di mondi. Ciascuno dei nostri bisogni ci lega, al di là di ogni vergogna, a tutto ciò che lo mette alla prova. Il bisogno è semplicemente il nome del rapporto attraverso il quale un dato essere sensibile fa esistere questo o quell'elemento del suo mondo. Questo è il motivo per cui chi non ha mondi le soggettività metropolitane per esempio -ha solo capricci. E questo è il motivo per cui il capitalismo, pur soddisfacendo al massimo il bisogno di cose, diffonde soltanto insoddisfazione generale, perché per poterlo fare deve distruggere i mondi. Con comunismo noi intendiamo una certa disciplina dell'attenzione. La pratica del comunismo, come la viviamo, la chiamiamo “Partito”. Quando insieme superiamo un ostacolo, o quando raggiungiamo un livello più alto di condivisione, diciamo che “stiamo costruendo il Partito”. Certamente altri, che ancora non conosciamo, stanno costruendo il Partito altrove. Nessuna esperienza di comunismo può oggi sopravvivere senza organizzarsi, senza legarsi ad altri, senza mettersi in crisi, senza muovere guerra. “Perché le oasi che dispensano vita sono annientate quando in esse cerchiamo rifugio”. Come lo concepiamo noi, il processo di instaurazione del comunismo può unicamente prendere la forma di un insieme di atti di comunizzazione, rendere comune un tal posto, una tale macchina, un tal sapere. Vale a dire elaborare la modalità di condivisione che è a loro collegata. L'insurrezione stessa è soltanto un acceleratore, un momento decisivo in questo processo. osì il comunismo di cui parliamo è l’esatta opposizione a quello che SI è chiamato “comunismo” e che nella maggior parte dei casi è stato soltanto socialismo, capitalismo monopolistico di stato. Il comunismo non consiste nell'elaborazione di nuovi rapporti di produzione, ma in realtà nell'abolizione di questi. Non avere rapporti di produzione col nostro ambiente o tra di noi significa non permettere mai che la ricerca dei risultati diventi più importante dell'attenzione al processo; rovinare tra di noi ogni forma di valorizzazione, badare a non disgiungere affetto e cooperazione. Essere attenti ai mondi, alla loro configurazione sensibile, è esattamente rendere impossibile isolare qualcosa come “rapporti di produzione”. Nei luoghi che apriamo, nei mezzi che condividiamo, è questa finezza che ricerchiamo, che sperimentiamo. Per dare un nome a questa esperienza ricorre spesso la parola “gratuità”. Anziché di gratuità preferiamo parlare di comunismo -perché non riusciamo mai a dimenticare ciò che la pratica della gratuità implica in termini di organizzazione e, nel breve periodo, di antagonismo politico.


LA COMUNICAZIONE NON E' PRESUPPOSTA, E' DA COSTRUIRE. Della liberazione cognitiva.

Non c'e' comunicazione se non all'interno di un contesto o frame. Il frame e' la cornice, lo schema cognitivo attraverso il quale le situazioni in cui veniamo a trovarci ricevono una definizione, vengono riconosciute e rese significative. Questo riconoscimento, spesso informalmente istituzionalizzato, ci permette di tenere il contegno e il comportamento adeguato appropriati alla situazione o occasione sociale in cui veniamo a trovarci, di identificare una situazione e le indicazioni sul modo di viverla. Il frame e' quella cosa che ci fa scegliere un determinato significato di una parola anche se puo' averne molti perche' in quel momento lo riteniamo "piu' adatto". E' cio' che ci induce irresistibilmente a classificare gli altri in base a delle "stimmate"(look, religione, colore della pelle, fisionomia, istruzione...), che ci porta a tenere un comportamento diverso a seconda della categoria sociale, politica, culturale etc in cui abbiamo infilato gli altri. este classificazioni differenziali, conscie o inconscie, vengono imposte dall'alto, dalla societa'. I canali tramite i quali l'informazione viene comunicata sono determinati dagli assetti sociali dominanti. Come dice Goffman chiunque abbia uno "stigma" e' un uomo a meta' e sono le nostre quotidiane pratiche discrimanatorie a ridurre le sue opportunita' di vita e di comunicazione. E siamo tutti volenti o no giocatori del gioco dello stigma. Dal momento che ogni esperienza umana e' situazionale (E.Goffman) il potere e' in in sostanza declinabile come la capacita' di definire la situazione sociale, "l'allestimento scenico". Chi ha il potere di definire la situazione, il frame, e di imporre questa definizione a tutti quelli che ne sono coinvolti tende a chiudere ogni eperienza e relazione nella gabbia di ferro dello stereotipo, in "un quadro in bianco e nero" che "non lascia spazio alla diversitĂ ". Presumibilmente una "definizione della situazione puo' essere trovata quasi sempre, ma quelli che si trovano nella situazione normalmente non creano questa definizione, anche se si puo' dire che la loro societa', o i media ufficiali, lo fanno [per loro]. Comunemente cio' che facciamo e' limitarci a valutare correttamente la situazione per poi agire in modo approrpiato. Cioe' in modo meccanico. Ci dimentichiamo spesso di essere entrati dentro un contesto e di stare dentro una cornice; diamo per scontato il mondo entro cui agiamo, forse ne abbiamo bisogno, forse e' una necessita'...Ma con questo diventiamo incapaci di vivere e vedere il mondo con altri occhi, non riusciamo neppure a perceperci come

prigionieri, non nutriamo neppure il sospetto che i muri dei nostri frame siano dei confini, che oltre potrebbe esistere un altro mondo. L'analisi del "dato per scontato", "il lavoro del frame", serve a non cadere in strutture di semplificazione, negli stereotipi che guidano limitandola l'azione individuale e sociale. A non cedere al controllo sociale che si presenta anche e sempre piu' come una questione di mentalita' e di un linguaggio comune intessuto di pregiudizi . Il frame e' una struttura che preesiste l'individuo e che si impossessa della sua azione ma lascia ad ognuno la determinazione della sua elasticita'... o della sua rottura. Per quanto un certo grado di compromesso tra le diverse conflittuali e contrastanti definizioni sia indispensabile in tutte le situazioni di interazione, queste si presentano anche sempre come relazioni di potere: si tratti di una lotta aperta o sotterane, consapevole o meno, per la definizione della situazione o piu' spesso, per non subire un definizione imposta. Nelle carceri o nelle caserme la struttura delle relazioni e' piu' evidentemente deterministica: c'e' poco spazio per le strategie negoziali (l'individuo perde quasi totalmente il controllo sul tempo e sullo spazio). Ad ogni modo e' il micro sistema rituale quotidiano a fondare l'ordine cognitivo e morale, il nostro sentimento della realta'. L'esistenza di un ordine cognitivo e morale immanente alle stesse interazioni quotidiane colloca le funzioni di controllo sociale esercitato dalle istituzioni centrali della societa' in una posizione di sussidiarieta': esse si attivano nei casi-limite di crisi dell'ordine interattivo. E cioe' quando i "meccanismi locali di controllo sociale" non riescono a contenere la rottura dell'ordine dell'interazione sociale entro certi limiti. Dietro tutte le interazioni si cela una certa distribuzione ineguale delle risorse dell'interazione sociale come il potere, il prestigio, l'abilita'. Alcune strutture e istituzioni poi dispongono dell'autorita' ultima per far valere le loro regole di "framing", la loro definizione della situazione che limitano le mosse degli altri a tentativi di agitarsi prevedibilmente e vanamente. Dove le relazioni di potere invece di essere mobili e continuamente modificabili dagli individui che ne sono coinvolti sono bloccate e fissate da individui o gruppi, con strumenti che possono essere economici, politici, culturali etc., ci troviamo di fronte ad uno "stato di dominio" Se i rapporti di potere non si trasformano in stati di dominio i rapporti fra gli individui si costituiscono come rapporti tra diversi e non fra diseguali.


LA GUERRA CIVILE MONDIALE.

Lo sfacelo interiore di queste società fa apparire crepe sempre più numerose. Il restauro continuo delle apparenze non ottiene nessun risultato: nascono dei mondi, tutti cercano di tirarsi fuori dallo squallore capitalistico. Il più delle volte questi tentativi falliscono o muoiono d'autarchia, per non aver stabilito i contatti, le solidarietà appropriate. E anche per l'incapactà di concepirsi come una delle parti pregnanti della guerra civile mondiale. A memoria d’uomo non c’è stata altra attualità che quella della guerra civile mondiale. Siamo stati allevati come sopravvissuti, come macchine per sopravvivere. Ci SI è formati all'idea che la vita consistesse nel camminare, nell'andare avanti fino a crollare in mezzo ad altri corpi che si muovono nell'identico modo, inciampano e poi crollano a loro volta nell'indifferenza. Al limite l'unica novità dell'epoca attuale è che niente di tutto ciò può più essere nascosto; che in un certo senso tutti lo sanno. La concezione classica,

astratta, di una guerra che culminerebbe nello scontro totale, in cui finalmente realizzare la propria essenza, è caduca. La guerra non si lascia più catalogare come un momento isolato della nostra esistenza, quello del confronto decisivo; oramai, la nostra stessa esistenza, in tutti i suoi aspetti, è la guerra. Questo significa che il primo movimento di questa guerra è la riappropriazione. Riappropriazione di ciò che è comune: formazione di linguaggi, sintassi, mezzi di comunicazione e di cultura autonomi – strappare la trasmissione dell’esperienza dalle mani dello Stato. Riappropriazione della violenza: trasmissione delle tecniche di lotta, formazione di strumenti di autodifesa, equipaggiamento. Infine, riappropriazione della sopravvivenza elementare: diffusione dei saperi-poteri medici, delle tecniche di furto ed esproprio, progressiva organizzazione di una rete di sostentamento autonoma.

A bit are l 'ec c ezione La crisi e' il modo regolare di esistere dell'Impero. Allo stesso modo in cui l’esistenza di una società assicurativa si trova là dove accade un incidente. La temporalità dell’Impero è quella dell’emergenza e della catastrofe. Impero vuol dire che i mezzi di produzione sono diventati dei mezzi di controllo nello stesso momento in cui si avverava l’inverso. Impero significa che ormai il momento politico domina il momento economico. Anno dopo anno, aumenta la pressione perché ogni cosa funzioni. Con il progredire della cibernetizzazione del sociale, la situazione normale diventa più imperiosa. E da lì in poi, in modo assolutamente logico, le situazioni di crisi e le disfunzioni si moltiplicano. Un black out, un uragano, o un movimento sociale non sono diversi dal punto di vista

dell'impero. Sono fastidi. Devono essere gestiti. Ovvero, per il momento, a causa della nostra debolezza, queste situazioni di interruzione appaiono come momenti nei quali l'impero si presenta, dà la sua impronta alla materialità dei mondi, sperimenta nuovi metodi. È proprio lì che lega a sé in modo più vincolante la popolazione che pretende di salvare. L'impero afferma ovunque di essere l'agente del ritorno alla situazione normale. Il nostro compito, al contrario, è quello di rendere abitabile la situazione d’eccezione. Riusciremo veramente a “bloccare la società- impresa” soltanto a condizione di popolare tale blocco con desideri diversi da quello del ritorno alla normalità.


Post e molto altro ancora (D é j à v u : B a c t h i n - V o l o s i n o v ) La coscienza individuale e' alimentata dai segni; trae il suo sviluppo da essi; riflette le loro leggi e la loro logica. La logica della coscienza e' la logica dell'interazione segnica del gruppo sociale. Se privassimo la coscienza del suo contenuto ideologico, segnico, non rimmarrebbe assolutamente niente. La coscienza puo' dimorare solo nell'immagine, nella parola, nel gesto significativo, e cosi' via. Fuori di tale materiale, rimane il semplice atto fisiologico, non illuminato dalla coscienza, senza, cioe', che i segni diffondano luce su di essa e le diano significato. Il "segno verbale" e' il segno ideologico per eccellenza, sia perche' l'intera realta' della parola e' assorbita dalla funzione segnica, sia perche', diversamente da altri prodotti sociali, e' prodotto con l'unico scopo di comunicare. Il segno verbale ha inoltre una duttilita' semantico-ideologica che gli rende possibile compiere funzioni ideologiche di ogni genere (di tipo etico, artistico, religioso, estetico, scientifico etc.). Esso e' presente tanto in settori specializzati della comunicazione quanto nella comunicazione quotidiana, dell'ideologia quotidiana ed e' il principale materiale segnico della coscienza. Ogni segno ideologico non e' solamente un riflesso, un'ombra della realta', ma e' anche un frammento materiale di questa realta'. Il segno e' un fenomeno del mondo esterno, come corpo esso e' materiale in quanto appartiene alla realta' fisica come segno esso e' materiale nel senso che appartiene alla realta' storico-sociale. Esso non e' un prodotto della coscienza e' un prodotto storico sociale. I segni verbali sono intessuti con innumerevoli fili ideologici e servono da trama di tutte le relazioni sociali: dai rapporti di lavoro, ai rapporti di scambio economico, ai contatti occasionali della vita quotidiana, ai rapporti politici, ai rapporti familiari ecc. Lo stesso processo di costituzione di forme ideologiche nuove si realizza soprattutto nel materiale segnico verbale. Infatti " la classe non coincide con la comunita' semiotica. Cosi', classi

diverse useranno la stessa lingua. Come risultato, accenti diversamente orientati si intersecano in ogni segno ideologico. Il segno diventa un campo di lotta di classe". La cosiddetta “coscienza di classe” e la cosiddetta “falsa coscienza” non esistono fuori dal linguaggio, dai luoghi ufficiali del discorso, dagli stereotipi, dalle intenzioni e pregiudizi che abitano le parole che normalmente usiamo. I valori, morali, religiosi, politici, economici, non sussistono fuori dalla materia del linguaggio e dallo scambio dialogico delle parole, il quale consiste in un coinvolgimento tra parola propria e parola altrui, e all'interno del discorso proprio fra identita' e alterita', indipendentemente dalla volontà e dalla consapevolezza di ciascuno. Le ideologie e la coscienza di classe si costituiscono fin dall'inizio attraverso il linguaggio. Non c'e' da una parte il segnico, verbale non verbale, e dall'altra il sociale con le sue contraddizioni di classe. I sistemi segnici, verbali non verbali, costituiscono il sociale dal livello della struttura dei rapporti sociali di produzione a quello delle ideologie. E l'ideologia non e' solo espressione e ripresentazione dei rapporti materiali fra gli uomini ma anche organizzazione e regolamentazione di questi rapporti. Produrre e comprendere segni significa partecipare a processi comunicativi che si realizzano entro condizioni sociali continuamente diverse, in rapporti diversamente gerarchizzati, in registri diversi, secondo diverse ideologie, secondo prospettive individuali, di ambiente, di gruppo, di classe diverse. Possiamo capire e farci capire nell'uso dei segni proprio perche' essi non sono dati una volta per tutte; alll'interno della situazione e dei contesti concreti della comunicazione i segni sono continuamente lavorati, modificati. Il segnico e' il campo dell'indeterminatezza, dell'ambiguita' e della creativita'; esso e' il campo dove tutto si decide socialmente ed e' determinato ogni volta da circostanze, relazioni, pratiche sociali diversamente determinate. Ogni forma ideologica e' una particolare forma di scambio

sociale, una situazione comunicativa. La comunicazione e' il fondamento e il luogo della produzione dei messaggi e non si riduce al momento dello scambio di prodotti gia' dati autonomamente dal processo comunicativo. Il segno, in particolare il segno verbale, pertanto non e' semplicemente un mezzo di espressione, di esperienze, intenzioni, decisioni, ma e' anche il materiale costitutivo di queste..., e' il materiale costitutivo della psiche individuale nei suoi diversi strati consci e inconsci. Questo materiale segnico e' un materiale gia' elaborato socialmente. Dare una qualunque motivazione al proprio gesto o prendere coscienza di se' (l'autocoscienza e' sempre verbale, e' la scelta di un determinato complesso verbale) significa assoggettarsi a una qualche norma sociale, a una valutazione sociale, significa, per cosi' dire, socializzare se stessi e il proprio atto. Quando prendo coscienza di me, cerco di guardarmi con gli occhi di un altro uomo, di un altro rappresentante del mio gruppo sociale, della mia classe. Il pensiero umano non riflette mai soltanto la realta' dell'oggetto che cerca di conoscere, ma nello stesso tempo riflette la realta' del soggetto che conosce, il suo concreto essere sociale. Non c'e' psiche al di fuori del materiale segnico. L'esperienza psichica e' l'espressione semiotica del contatto fra organismo e ambiente esterno. Il segno, non e' soltanto il mezzo, il veicolo, per espromere, per comunicare l'esperienza individuale, ma e' il materiale con cui e' costruita l'esperienza stessa, che per quanto privata, o personale o soggettiva, e' organizzata fin dall'origine secondo codici e sistemi valutativi sociali. L'esperienza esiste, anche per la persona che la subisce, soltanto nel materiale dei segni. Fuori da questo materiale, non esiste l'esperienza come tale.


segue (Déjà vu: Bacthin-Volosinov)

Non esistono significati che non siano incorporati nei segni di una certa' comunita' e dunque in senso stretto non esistono ne' significati privati, ne' significati universali. Fra esperienza interna e la sua espressione non esiste un salto qualitativo. Si tratta in entrambi i casi di processi interamente semiotici, dove ci puo' essere un passaggio da un tipo di materiale segnico ad un altro, ma non si verifica mai una fuoriuscita dalla materia dei segni. la coscienza dell'uomo a livello ordinario, puo' essere considerata come l'ideologia del suo comportamento quotidiano, e "l'inconscio" e' costituito da certe motivazioni ideologiche della coscienza che si oppongono ad altre. Le une e le altre cosi' come le ideologie organizzate, ufficiali, trovano la loro spiegazione, sia per la loro nascita e funzione che per le loro contraddizioni interne e i rapporti di contrasto con la prassi sociale, nella struttura sociale dei rapporti di produzione. Ogni "discorso interno" e' espressione non di un interno che si esteriorizza, ma di un esterno che si interiorizza in maniera particolare. Anche le contraddizioni "interiori" sono "contraddizioni sociali" storicamente determinate. Rispetto al "discorso cosciente" il "discorso dell'inconscio" si ditingue per un diverso contenuto, per una diversa ideologia. Anche l'inconscio e' "linguaggio" e dunque in linea di principio non e' diverso dalla coscienza; non e' fuori dal linguaggio. L'inconscio e' "l'ideologia non ufficiale", il discorso censurato dall'ideologia ufficiale. Sia le motivazioni della coscienza ufficiale sia quelle della coscienza non-ufficiale non spiegano il comportamento degli uomini, ma richiedono a loro volta una spiegazione. Non e' la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. La possibilita' che l'ideologia non ufficiale si sviluppi in progettazione sociale alternativa o che al contrario sia ridotta al silenzio dipendono da condizioni storiche materiali e dalle connessione di queste moticazioni della coscienza con gli

interessi di gruppi sociali piu' o meno ampi. Per la coscienza non ufficiale e' vitale sia la comunicazione, il collegamento di individui con altri individui, la verbalizzazione esterna. Frammenti di discorso, frasi considerate indipendentemente dalla loro concreto contesto comunicativo, dal senso ideologico secondo il quale sono effettivamente impiegate, trasfromate nell'oggetto di un parlante idealizzato, appartenente ad una comunita' presuntamente omogenea, che astrae dal sottinteso, da non-detto, dalla situazione extraverbale, cioe dalla vita concreta dei parlanti. Cio' che e' sottinteso e' un contesto di vita, una forma di vita; il pezzo di mondo che entra nell'orizzonte degli interlocutori, le condizioni reali di vita, apparteneneze, lavoro etc. e tutto cio' non puo' che rinviare alle "condizioni oggettive" fondamentali o dominanti dell'esistenza sociale. La classe dominante e' la classe che possiede il controllo della produzione, circolazione, interpretazione della comunicazione. L'ideologia è relativa a una determinata situazione sociale; e dunque va esaminata e compresa in considerazione di tale situazione in quanto ambito nel quale essa viene prodotta e fatta circolare. Come progettazione sociale, un'ideologia non è semplicemente il prodotto di una società, che in tal senso sussisterebbe per conto suo e autonomamente dalle sue ideologie; ma è invece una delle progettazioni sociali – dominante, marginale, alternativa – secondo cui la società si organizza, si comporta, si manifesta nei suoi caratteri distintivi in un certo periodo. Un'ideologia è una progettazione di una determinata forma sociale e come tale collabora alla delineazione di questa forma. Anche quando l'ideologia contrasta con la situazione sociale e tende alla sua trasformazione o al suo totale sovvertimento, essa è pur sempre espressione di questa situazione e partecipa del carattere contraddittorio di questa forma sociale. Che

l'ideologia partecipi a delineare una certa forma sociale, non significa che non possa essere in contrasto con essa e dunque contribuire al fatto che questa forma si presenti come internamente contraddittoria.

Ma che cosa volete? Che cosa proponete?” Questo tipo di domande può sembrare innocente. Ma purtroppo non si tratta di domande. Si tratta di operazioni. Il riferire ogni NOI che si esprime a un VOI esterno significa in primo luogo allontanare la minaccia che questo NOI in qualche modo mi tiri in ballo, che questo NOI mi attraversi. Trasformando così chi soltanto porta un enunciato – in se non assegnabile– nel suo proprietario. Invece, nell'organizzazione metodica della separazione oggi operante, le affermazioni possono essere diffuse solo a condizione che dimostrino di avere un proprietario, di avere un autore. Altrimenti rischiano di essere comuni, e solo gli “enunciati del si” sono autorizzati alla diffusione anonima. Poi, c'è anche la seguente mistificazione: che, colte al volo nel fluire di un mondo che avversiamo, ci sarebbero proposte da fare, alternative da trovare. Che noi potremmo, in altre parole, tirarci fuori dalla situazione che ci è predisposta, discuterla in modo spassionato, tra persone ragionevoli. No, non c'è nulla oltre la situazione. Non c’è un fuori dalla guerra civile mondiale. Siamo irrimediabilmente lì. Tutto quello che possiamo fare è elaborare, lì, una strategia. Condividere un'analisi della situazione e quindi elaborare una strategia. Questo è l'unico NOI possibilmente rivoluzionario, il NOI pratico, aperto e diffuso, di chiunque agisca nella stessa direzione


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