QdR
Didattica e letteratura
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Per leggere i classici del Novecento a cura di Francesca Latini e Simone Giusti
QdR / Didattica e letteratura Collana diretta da Natascia Tonelli e Simone Giusti
La collana La didattica della letteratura è una disciplina ancora giovane, che dagli anni Sessanta del secolo scorso ha accompagnato con riflessioni teoriche e proposte pratiche il cambiamento della società contemporanea. Oggi, di fronte agli sconvolgimenti legati alla rivoluzione digitale e alle profonde mutazioni del contesto socio-culturale, si rende necessario stipulare un nuovo patto tra scuola e università, tra insegnamento e ricerca, al fine di individuare metodi e strumenti idonei a valorizzare il ruolo degli studi letterari, della scrittura, della lettura, e dell’interpretazione delle opere letterarie. In un momento in cui si discute la necessità di formare i docenti in servizio e, soprattutto, si sta per avviare una nuova fase nella formazione iniziale dei docenti, la collana intende colmare un vuoto e divenire un punto di riferimento per coloro che, nel mondo della scuola e dell’università, sono interessati ad approfondire i problemi dell’insegnamento letterario e degli apprendimenti correlati alla fruizione della letteratura.
Comitato scientifico Paolo Giovannetti (IULM) Pasquale Guaragnella (Università degli Studi di Bari) Marielle Macé (CRAL Parigi) Francisco Rico (Universitat Autònoma Barcelona) Francesco Stella (Università degli Studi di Siena) I volumi della collana sono sottoposti a un processo di peer rewiew.
Volumi pubblicati - Jean-Marie Schaeffer, Piccola ecologia degli studi letterari. Come e perché studiare la letteratura? - Cinzia Ruozzi, Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento - Pasquale Guaragnella, Barocco e «nuova scienza». Proposte di ricerca didattica per il docente di italiano - Marielle Macé, La lettura nella vita. Modi di leggere, modi di essere - Le competenze dell’italiano, a cura di Natascia Tonelli
QdR
Didattica e letteratura
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Per leggere i classici del Novecento a cura di Francesca Latini e Simone Giusti
© Loescher Editore - Torino 2017 http://www.loescher.it
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Nonostante la passione e la competenza delle persone coinvolte nella realizzazione di quest’opera, è possibile che in essa siano riscontrabili errori o imprecisioni. Ce ne scusiamo fin d’ora con i lettori e ringraziamo coloro che, contribuendo al miglioramento dell’opera stessa, vorranno segnalarceli al seguente indirizzo: Loescher Editore Via Vittorio Amedeo II, 18 10121 Torino Fax 011 5654200 clienti@loescher.it
Loescher Editore opera con sistema qualità certificato CERMET n. 1679-A secondo la norma UNI EN ISO 9001-2008 Direzione della collana: Natascia Tonelli e Simone Giusti Coordinamento editoriale: Alessandra Nesti - Php srl Grosseto Redazione: Francesca Latini Realizzazione tecnica: Edipress srl - Lecce Progetto grafico: Fregi e Majuscole - Torino; Leftloft – Milano/New York Copertina: Leftloft – Milano/New York; Visualgrafika Torino Stampa: Tipografia Gravinese – Corso Vigevano 46, 10155 - Torino
INDICE
Indice Premessa dei curatori. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Introduzione. I generi della lettura (Francesca Latini) . . . . . . . . . . . 13 Letture e commenti Nicoletta Fabio Lettura di Invernale di Guido Gozzano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 Marzia Minutelli «una bestia di meno»: riflessioni sul Maiale di Umberto Saba. . . . . . . . . . . . 45 Paolo Giovannetti Per una lettura di Genova. Su metrica e sintassi di Dino Campana. . . . . . . . . . 79 Matteo Giancotti Lettura di due prose liriche reboriane: Stralcio e Perdóno?. . . . . . . . . . . 109 Simone Giusti La vite e A Carlo Tomba (Sbarbaro, Trucioli 1920) . . . . . . . . . . . . . . 129 Tiziano Zanato Montale all’infrarosso. Lettura di Meriggiare pallido e assorto . . . . . . . . . 147 Francesca Latini Dove la luce di Giuseppe Ungaretti. Il ritorno all’oasi d’amore. . . . . . . . . . . 177 Georgia Fioroni Gli immediati dintorni della città nella poesia di Antonia Pozzi: Periferia e Treni. . .
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Francesca Latini L’Appennino di Pier Paolo Pasolini (da Le ceneri di Gramsci) . . . . . . . . . . 209 Marco Gaetani Un altro muro di Beppe Fenoglio. Destino, libertà, senso . . . . . . . . . . . . 253 7
IMPARARE PER LEGGERE PERI COMPETENZE CLASSICI DEL NOVECENTO
Fabio Magro Pensieri di casa di Attilio Bertolucci. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 305 Giovanni Bardazzi La morale del racconto. L’avventura di uno sciatore di Italo Calvino . . . . . . . . 321 Davide Colussi Falso sonetto di Franco Fortini. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 367 Anna Baldini Commento ad un racconto di Primo Levi: Ferro. . . . . . . . . . . . . . . 379 Rodolfo Zucco Le ceneri di Vittorio Sereni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 399 Marco Villa L’ordine di Milo De Angelis (Somiglianze). Una lettura . . . . . . . . . . . . 417 Paolo Squillacioti Amerigo di Francesco Guccini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 437 Marco Manotta Diffidare gola, corpo, movimenti, teatro di Andrea Zanzotto. . . . . . . . . . 457 Marilena Rea Laggiù dove morivano i dannati di Alda Merini . . . . . . . . . . . . . .
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Sabrina Stroppa ‘Ciò che resta’. Commento a Le parentesi di Fabio Pusterla (da Concessione all’inverno). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 495 Fabio Magro Ombra ferita, anima che vieni di Giovanni Raboni. . . . . . . . . . . . . . 515 Claudia Bonsi Amputarsi, Mutilarsi, Abdicare… Una lettura di Children’s corner di Valerio Magrelli. 531
Postfazione. L’artigianato della lettura e la formazione degli insegnanti (Simone Giusti). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 539 8
PREMESSA
Premessa dei curatori
L’antologia qui proposta è il frutto di una selezione di letture interpretati� ve e di veri e propri commenti che nel corso di un quindicennio sono apparsi su «Per leggere», rivista semestrale, fondata nel 2001, ancora ostinatamente in vita e perseverante nella sua linea di condotta. Riponendo da sempre in queste due fondamentali prassi ermeneutiche la propria idea di critica lette� raria, programma che è possibile rinnovare di anno in anno grazie ai tanti lavori che ci vengono inviati (segno di una volontà ancora forte di occuparsi di studi umanistici), la direzione si dichiara convinta che la prima sana abi� tudine per avvicinare un testo rimanga quella di godere di un’opera innanzi� tutto come suoi lettori. I saggi selezionati sono tutti studi dedicati a testi novecenteschi. L’arco temporale da questi coperto è�������������������������������������������������� ampio, ma la scelta è stata intenzionalmente �������������������� li� mitata ad autori a pieno titolo appartenenti al XX secolo. Dunque, se è difficile trovare un contributo, soprattutto tra quelli riguardanti opere in versi, in cui non si facciano i conti col magistero pascoliano e dannunziano, i due poeti che, pur modelli professati o discussi di tanta lirica del Novecento, ebbero una gene� si formativa ottocentesca, sono stati di proposito esclusi dalla raccolta. L’anto� logia si apre invece nel nome di Guido Gozzano e si chiude (anagraficamente) su quello di Fabio Pusterla; pertanto se l’inizio è stato collocato nel pieno Novecen� to (del poeta piemontese si propone una lectio di Invernale, lirica apparsa per la prima volta su «La Lettura» nel 1910 – la cronologia a cui ci si è attenuti è quella della prima pubblicazione dei testi, o piuttosto del loro inserimento entro il corpus organico di destinazione, la raccolta designata a ospitare il componimento o il racconto, criterio ben più utile per seguire progressivamente l’ideale per� corso segnato dalle opere che non un prospetto prettamente anagrafico degli autori), abbiamo incluso alcuni protagonisti della scena letteraria del XXI seco� lo (come Raboni e Zanzotto), di cui tre viventi (De Angelis, Magrelli, Pusterla).
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PICCOLA PER LEGGERE ECOLOGIA I CLASSICI DEGLIDEL STUDI NOVECENTO LETTERARI
Componendosi lo zibaldone di esercizi che o accompagnano, in quanto commenti, il testo con note non di semplice servizio, ma di grande spesso� re critico, o, in forma di lettura, ne ripercorrono le dinamiche narrative, ne analizzano il lessico e la sintassi, ne rintracciano il dialogo più o meno sco� perto con altri letterati, i testi in prosa sono di necessità rappresentati solo da racconti (L’avventura di uno sciatore di Calvino, Un altro muro di Fenoglio, Ferro di Levi), parti talvolta di un organismo integrale a cui comunque l’analisi fa doveroso riferimento. All’interno della silloge abbiamo dato poi accoglienza – a nostro parere debitamente – anche ad Amerigo di Guccini, il testo di un cantautore, che, proprio perché, a norma di una catalogazione ‘purista’, non inventariabile quale componimento lirico, permetterà al lettore di comprendere la direzione verso cui ci siamo mossi (nell’antologia abbiamo dato spazio infatti a prose di racconti, poesie, prose liriche, poemetti in versi e, appunto, anche a una canzone, approvando pienamente le parole con cui Guccini definisce questa differente categoria espressiva: «le canzoni non sono né poesia né musica, sono canzoni, hanno cioè una loro specificità artistica e una loro precisa di� gnità»1); tale disponibilità ad ammettere più generi ha quindi a noi curatori consegnato facoltà di esercitare pieno e autentico arbitrio nella scelta dell’al� lestimento, responsabilità che ci ha chiamati a conferire statuto di ‘classici’, oltre che a rappresentanti di un Novecento letterario ancora dalla critica uffi� ciale (o invero da certe istituzioni scolastiche) non ‘laureato’, ad altre possibili forme di scrittura d’arte. Trattandosi di una raccolta che si è costituita non in seguito a una preor� dinata commissione di lavori, bensì grazie a contributi nati spontaneamente nel tempo dalla volontà autonoma di studiosi che hanno condiviso il cammi� no di «Per leggere» dagli esordi fino al 2016 – amici e compagni di affini per� corsi, che qui ringraziamo di avere con entusiasmo da subito aderito anche a questa iniziativa editoriale –, non si dovrà, dalla presenza o dall’assenza di poeti e prosatori che hanno rappresentato i vertici delle esperienze lettera� rie del Novecento, dedurre l’intento da parte nostra di costituire un ‘canone’, con restrizioni e ordinamenti gerarchici. Deliberata è piuttosto la scelta di realizzare il florilegio esclusivamente tramite le due tipologie di esercizi cri� tici, il commento e la lettura, attraverso dei saggi che presentiamo pressoché immutati rispetto alla loro prima redazione in rivista (minimi gli interventi di rettifica compiuti dai medesimi studiosi). Se anche nel corso di questi tre lustri sono state pubblicate altre prove esegetiche più complete (monografie
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1. Cfr. F. Guccini, Come si scrive una canzone?, in Francesco Guccini, a cura di V. Mollica, Roma, Lato Side, 1981, pp. 47-54, p. 52.
PREMESSA
che hanno affrontato un numero maggiore di testi dell’autore, o l’opera inte� gralmente commentata di cui qui si può leggere un singolo esperimento in� terpretativo), il lettore dell’antologia avvertirà comunque in ciascuno dei ca� pitoli, nati in circostanze indipendenti, un’identica determinazione, seppure portata avanti dagli studiosi per tragitti diversi e con modalità eterogenee: esplorare il testo letterario con le adeguate competenze critiche, costituitesi in anni di mestiere o già apparse robuste nell’apprendistato (non pochi i casi di giovani qui alle loro esperienze iniziali, poi proseguite con una permanen� za in ambito accademico o limitrofo, oppure convertitesi in una attività di� dattica nella scuola, che sarà stata sicuramente favorita da questa precedente pratica di studio condotto in prima persona). Obiettivo perseguito da ciascun partecipante una ricerca autentica, non sottraentesi ad alcun grado investi� gativo al cui superamento chiami la scrittura letteraria (la più ardua come la più apparentemente cristallina), e confessante, con franchezza, i dubbi rima� sti insoluti alla fine dell’indagine.
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INTRODUZIONE
Introduzione I generi della lettura di Francesca Latini
«Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli»1, questa la seconda definizione con cui Italo Calvino nella sua graduale indagine Perché leggere i classici cerca di determinare il valore di un aggettivo quanto mai sfuggente a un’unica spiegazione, ma che da solo basta a conferire patente di eternità a un’opera letteraria. Ora, a favorire tali «condizioni migliori» è chiaro che possono essere di aiuto anche le esperienze di ‘lettori maggiori’, i quali non solo si trovino a ‘rileggere’ i presupposti ‘classici’ (come sempre riferisce Calvino nella prima definizione: «I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e mai “Sto leggendo…”»2), ma lo facciano anche compilando una sorta di giornale di bordo di questo viaggio intorno all’opera, annotando rilievi, analisi, spiegazioni, giudizi di valore critico. Una lettura interpretativa o un commento, che percorrano di un testo i vari livelli di intendimento esplicito o ne scandaglino i fondi dell’allusività più recondita, possono insomma rappresentare lo strumento più valido a cui rivolgere quelle domande che sentiamo di dovere necessariamente fornire di una risposta se vogliamo poter procedere più spediti verso la comprensione di un’opera, o, piuttosto, possono costituire un’allettante occasione per soffermarsi ancor più a lungo, in una piacevole sosta meditativa, assieme all’opera che stiamo leggendo. Che si tratti di un aiuto volto ad accelerare il processo di immediata intelligenza o ad intrattenerci
1.
2.
Cfr. I. Calvino, Perché leggere i classici, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 20074, t. II, pp. 1816-24, in part. 1816. Prima sede di apparizione del saggio calviniano, rivolto a un pubblico non di critici specialisti ma di comuni lettori, «L’Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68. Cfr. Calvino, Perché leggere i classici cit., p. 1817.
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nelle molteplici reti di decrittazione, un commento o una lettura esegetica di un testo novecentesco si presentano a maggior ragione, data la carenza ancora di esercizi ermeneutici dedicati a prove letterarie recenti o addirittura contemporanee, come una opportunità importante per scrutare con la giusta messa a fuoco opere che proprio per la loro vicinanza cronologica ci appaiono in una visione aggettante, la quale spesso inesorabilmente deforma gli ordini prospettici ovvero i gradi di significato della scrittura. Da qui l’idea di costituire un’antologia frutto di un’iniziativa sperimentale, in senso strettamente galileiano, nata da singole ‘osservazioni’ praticate sui testi, a cui si accompagnano ‘ipotesi di ricerca’, nonché ‘verifiche’ direttamente intese a testare l’oggetto dell’indagine e trarne delle conclusioni interpretative, valide per l’opera in questione, ma pure di interesse universale, giacché non pervenenti a decretare verità assolute, bensì avvianti i lettori a metodi di lettura ‘scientifici’. Il titolo consegnato a questa introduzione farebbe presupporre risposte certe, provate teorie su come fronteggiare l’approccio di testi letterari del Novecento. Niente di tutto ciò potrà però trovarsi in questo preambolo, che si ripromette invece semplicemente di congedare un’antologia sorta dall’idea pragmatica di riunire letture critiche e commenti a opere di vario genere, esercizi non solo non riferibili a un’unica voce critica, ma addirittura neppure stesi da un’équipe di lavoro procedente in una direzione preordinata. Non potendo, o piuttosto non volendo, esporre tattiche valevoli e fruibili per ogni opera, ogni opera richiedendo criteri di appressamento di volta in volta nuovi, entrerò viceversa nel merito di ciascun contributo della silloge, osservando come se alcuni procedimenti o, meglio, gradi interpretativi, pretendono di necessità una reazione del lettore-critico analoga, altre dinamiche esegetiche vengono messe in atto in base alle accidentali proprietà del singolo testo. Come già riferito, nella raccolta sono stati inseriti esclusivamente lectiones e commenti, nella convinzione che solo attraverso queste due forme di interrogazione del testo sia possibile dare una risposta se non a tutti gli elementi costituenti (lessico, sintassi, compagine narrativa, metrica, prosodia, ecc.) e a tutte le incastellature (richiami intra- e intertestuali, rinvii a storia e a cronaca del tempo narrato o rievocato, dialoghi con altri settori gnoseologici, ecc.) di cui l’opera è l’estremo risultato unitario, a molti di essi. Balza agli occhi come la maggior parte dei contributi siano propriamente delle letture interpretative, questo forse perché la pratica del commento, riservata a testi novecenteschi, è procedura di acquisizione relativamente recente – ricordo che ancora a metà degli anni Novanta l’idea di commentare Montale secondo criteri canonici, con un cappello introduttivo, una nota metrica e delle note a piè di pagina per ciascuna lirica, ‘sperimentato’ da Dante Isella per Le Occasioni (Einaudi, Torino, 1996), se suscitava piena approvazio-
INTRODUZIONE
ne, non solo senza clamore ma neppure senza sbigottimento alcuno da parte di un seminario come quello riunito intorno alla figura di Domenico De Robertis, dalle cui fila sarebbe poi uscita tutta la direzione di «Per leggere», in altri ambienti accademici destava non poche perplessità e riluttanze –. Certo, il commento ancor più che la lettura pretende una ‘fedeltà di servizio’ al testo davvero vassallatica, un rapporto di assidua deferenza che a volte il critico può sentire troppo oneroso o magari non confacente alla sovranità con cui intende cimentarsi nell’esegesi di un testo. Quattro dunque i commenti ‘puri’ che abbiamo potuto inserire in antologia, nonostante l’ampia scelta di contributi novecenteschi usciti nella rivista, dedicati a Rebora, Sbarbaro, Levi e Zanzotto. Una quota alta, in termini proporzionali, per l’unico commento al testo in prosa (Levi), se si considera che su tre racconti (Calvino, Fenoglio, Levi), per Ferro, appunto, la curatrice, Anna Baldini, sceglie la via funzionalissima del commento, a glossare con puntuali note un testo che richiede, soprattutto da un punto di vista delle nozioni e della terminologia tecnicoscientifica che lo caratterizzano (come tutti i racconti dedicati agli elementi chimici del Sistema periodico), una spiegazione rigorosa e non demandata a una lettura differita rispetto a quella del testo, bensì sincrona (è il motivo per cui anche redazionalmente abbiamo preferito lasciare il commento a piè di pagina, proprio per ‘figurarne’ la natura di servizio all’immediato intendimento del racconto; questa disposizione strutturale dà oltre tutto modo di leggere in contemporanea al testo l’auto-commento allestito da Levi nelle Letture per la scuola media, a tutti gli effetti paratesto autoriale e dunque giustamente da mantenere limitrofo quale apparato, anzi ‘opera ausiliaria’, al testo per cui era stato concepito). Ben diverso il discorso sulla procedura di commento riservata a una netta minoranza di testi comunque in versi, seppure sui generis: due prose liriche di Rebora, Stralcio e Perdóno?, due «poemetti in prosa» di Sbarbaro, La vite e A Carlo Tomba, e infine un poemetto di riflessione e introspezione dell’«actio poetica» («piattaforma espressiva per ancorare all’io una pervicace volontà di catabasi gnoseologica», come lo definisce Marco Manotta) di Zanzotto, Diffidare gola, corpo, movimenti, teatro, opere che proprio per la loro specifica natura ci inducono a osservare come ancora una volta la scelta del commento si combini, curiosamente, con testi non prettamente lirici, come invece vuole la prassi esegetica più tradizionale riservata ai ‘classici’. L’alto numero di poesie qui affrontate con una lettura interpretativa sembra d’altronde essere indizio di una esitazione da parte degli studiosi a utilizzare un dispositivo come il commento, sì solitamente impiegato per le liriche che hanno fatto la storia del canone letterario (dai Siciliani a tutto l’Ottocento ancora legato a forme chiuse), ma preferibilmente come apparato interpretativo di un’opera integrale: ancora una volta l’antologia esclusivamente novecentesca compo-
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sta di liriche estrapolate dal loro contesto e separatamente commentate, pur essendo costituita da iniziative che ormai rappresentano dei pilastri nella metodologia interpretativa del XX secolo (penso alla lontana Letteratura dell’Italia unita di Gianfranco Contini3), sembra comunque comportare tuttora una decisa professione di fiducia in questo strumento ermeneutico. Non manca d’altra parte un esercizio misto, come quello riservato da Paolo Squillacioti alla canzone d’autore Amerigo di Guccini, per cui lo studioso organizza un cappello introduttivo e fa seguire il testo da delle vere e proprie note di commento, volte a spiegare la lettera, che può essere rappresentata tanto dalla cronaca che sta dietro l’affresco di emigrazione, ricostruita nelle note tramite le testimonianze dirette di Guccini, quanto da certa cultura specifica del cantautore (le sue letture in campo fumettistico, per esempio, o anche l’idioma speciale degli esuli, storpianti quei termini inglesi inseriti a testo con un effetto-pastiche conforme a quello realizzato da Pascoli in Italy, esperimento non solo richiedente chiose linguistiche di presto aiuto, ma pure un raffronto con tale imprescindibile modello da riferire di necessità nell’apparato di note). Al commento tien dietro quindi una lettura in cui lo studioso si riserva di affrontare considerazioni più generali (soprattutto metrico-prosodiche e narratologiche), sulle ragioni della canzone. Ma accanto a questa soluzione mista, ben visibile già nella struttura conferita al saggio dal critico e resa nella mise en page da noi curatori, si accompagnano nella silloge talvolta contributi il cui titolo può far pensare di trovarsi di fronte a una lettura interpretativa, quando invece si assume il termine ‘lettura’ nel suo più ampio, vario e, direi pure, antico significato: è il caso delle due prose liriche reboriane, per cui ho parlato di vero e proprio commento, in quanto sebbene Matteo Giancotti presenti il proprio lavoro, debitamente, come Lettura di […], il tutto è impostato in realtà come due consecutive prove di commento canonico (ciascuna prosa lirica è accompagnata da un cappello introduttivo e da note al testo), aperte a loro volta da un comune preambolo dedicato alle vicende editoriali dei due testi. Segno dunque che, al di là di un’effettiva diversità di impianto rispondente a un diverso criterio di inchiesta sul testo, i confini tra lettura interpretativa (erede della lontana tradizione tomistica della lectio) e commento non sono poi così inequivocabili. Sede di interessanti considerazioni a carattere metodologico è il prologo con cui Simone Giusti introduce le sue altrettanto ortodosse prove di commento, dedicate a due trucioli sbarbariani. Il contributo è stato d’altronde concepito in un’occasione particolare, un convegno organizzato proprio
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Cfr. F. Guccini, Come si scrive una canzone?, in Francesco Guccini, a cura di V. Mollica, Roma, Lato Side, 1981, pp. 47-54, p. 52.
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nell’intento di affrontare e discutere questioni di procedure esegetiche4. Il lettore vi troverà dunque apertamente espresse tante riflessioni che di solito ogni interprete si trova a enunciare tra sé e sé, avanti di intraprendere l’operazione critica, dalla selezione dei testi da commentare – «dettata in primo luogo dalla loro posizione privilegiata all’interno del libro, rispettivamente in apertura e in chiusura del macrotesto (un vero e proprio canzoniere) dei Trucioli» –, alla scelta della redazione da sottoporre alla disamina (la princeps per i tipi Vallecchi del 1920), fino ai criteri della propria prova interpretativa (fra cui spetta un primato assoluto al reperimento di tutti quei richiami intertestuali che trovano segnalazione tanto nei cappelli introduttivi, quanto nelle note ai testi, come alla ricerca dei numerosi collegamenti intratestuali e degli elementi narrativi «che rendono leggibile la continuità romanzesca» dei Trucioli); tutte tacite inferenze, insomma, che comunemente appartenenti a una fase precedente l’atto interpretativo, ne sono il cardine di ogni singolo intervento prima profondamente meditato e poi compiuto dal critico. Stabilita dunque tanto la differenza teorica e di impianto che sussiste tra i due generi ermeneutici quanto nel contempo evidenziatene, tramite documenti effettuali, le analoghe funzioni che ne rilevano piuttosto le affinità del traguardo ricercato, si parta dal considerare tutti quegli stadi di indagine che non possono essere non affrontati nella lettura di un testo, a cui si potrà dare risposta diversa, magari in una differente disposizione del processo interpretativo e con maggiore o minore acribia analitica, ma che costituiscono degli appuntamenti fissi per il critico. Parlando di testi in versi, va da sé che uno di questi compiti imprescindibili è rappresentato dall’analisi metrico-prosodica, che procede quale esame dell’ordito ritmico nel caso di testi come il poemetto in prosa (La vite) e il frammento (A Carlo Tomba) sbarbariani o le due prose liriche reboriane già ricordate, ma anche in una prova capitale del versoliberismo come Genova di Dino Campana. È chiaro che sull’intenzionalità del critico – si muova questi nel solco obbligato del commento o più indipendentemente tramite una lettura interpretativa – molto ci rivela non solo la più o meno meticolosa osservazione degli aspetti formali (si tratta però di una stima che è comunque variabile in relazione alla tipologia del testo e dunque in definitiva non valutabile con criteri costanti: diversa di necessità la nota metrico-prosodica di una forma chiusa rispetto alla nota destinata a esporre le soluzioni di un componimento in versi liberi), ma soprattutto la dislocazione e la modalità scelte dal critico per riferire tali osservazioni. Tanto che si proceda nei termini di una lettura quanto che ci si attenga a un’impostazione di commento tradizionale, l’inda4.
Per leggere i classici. Saggi di commento ai classici italiani, antichi e moderni (Università di Ginevra, 23-24 ottobre 2007), in «Per leggere», 17 (2009) e 19 (2010), in particolare 19 (2010), pp. 199-216.
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gine metrico-prosodica può essere raccolta in un’unica trattazione organica ed esaustiva; la sede scelta è di solito nel commento il cappello introduttivo, o un successivo a se stante spazio deputato; in una lettura, qualora s’intenda procedere con un’unica nota metrico-prosodica, la si colloca di preferenza nelle parti preliminari della lectio. Tale disposizione ha una sua forte ragione d’essere: l’antecedenza o comunque, soprattutto nel caso del commento, la posizione a ridosso del testo che si legge di seguito (se inquadrata ne cappello introduttivo la trattazione metrico-prosodica è spesso l’ultimo argomento che si affronta) ci segnalano quella funzione primaria – introdurre il lettore nel congegno testuale –, che è propria per eccellenza dello studio di tutti i fenomeni relativi a impianto strofico, metro, ictus, rime, tessitura fonica, ecc.. La diversa soluzione di diffrangere plurime osservazioni metrico-prosodiche o all’interno delle note di commento, o, nel caso di una lettura, nel graduale svolgimento del discorso esegetico, non deve affatto far pensare a un più disordinato e casuale assetto. Il tutto risponde infatti ad altra necessità sentita dal critico come più imperiosa in base alla tipologia di testo che sta questi affrontando: tale distribuzione appare infatti determinata dall’intento di trattare non separatamente aspetti formali e strutturali che appaiono in stretta connessione con la materia diegetica, substatia di cui la metrica e la prosodia assumono valore iconico. Si veda al riguardo la lettura dedicata da Fabio Magro a Pensieri di casa di Attilio Bertolucci, dove le osservazioni sulla tramatura prosodica sono sparse per l’intero processo interpretativo, senza venire comunque a prevalere su altri aspetti di analisi testuale, anzi fondendosi affatto con questi fino a divenire un sinolo di verifiche formali e indagini tematiche. Il medesimo studioso segue d’altra parte analoga, e tuttavia non identica soluzione, nell’affrontare Ombra ferita, anima che vieni. Ad attacco della lettura le annotazioni metrico-prosodiche ci appaiono infatti di indubbia rilevanza maggiore; è qui che Magro avverte evidentemente, esaminando una forma chiusa come il sonetto eletta da Raboni a modus poetico di una nuova stagione, l’esigenza di analizzare i meccanismi di fronte e sirma, o gli ictus dei versi della lirica, che Raboni pone in limine di Ogni terzo pensiero (ossia in apertura della raccolta che costituisce l’acme di tale progressivo avvicinamento alla forma chiusa), nella prospettiva di un confronto con gli esperimenti già moventisi in tale direzione del precedente libro raboniano: Versi guerrieri e amorosi. D’altra parte si noterà come ulteriori osservazioni sulla tessitura fonico-ritmica si prolunghino per l’intero corso della lettura esegetica, giacché il critico intende con queste, dopo aver studiato gli aspetti metrico-prosodici del sonetto in funzione di ‘manifesto’ del nuovo ciclo poetico, analizzare le esclusive soluzioni pertinenti la lirica, al di là del suo ruolo proemiale. Esemplare per illustrare il procedimento per cui si concentrano in una trattazione esaustiva, a ridosso del testo, tutte le informazioni relative alla
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compagine metrica e ritmica, la lettura di Invernale, dove Nicoletta Fabio raduna i pochi dati essenziali a descrivere la regolare gabbia delle sei strofe di endecasillabi, immediatamente dopo la poesia gozzaniana, su cui si apre il contributo (i risultati delle ispezioni sull’importante rete fonica sono invece esposti nel corso della lettura, a rilevarne il portato fono-espressivo). Oppure si veda la lettura approntata da Tiziano Zanato della celebre lirica montaliana Meriggiare pallido e assorto, il cui testo è sottoposto a un attento esame metrico-prosodico e a uno studio della tramatura fonica affrontati rispettivamente nel terzo e nel quarto paragrafo del saggio critico. O si consideri ancora la lettura che Marco Villa riserva a un testo come L’ordine di Milo de Angelis, suddivisa anch’essa in più distinti paragrafi, di cui il secondo interamente dedicato all’analisi di quest’unico caso di lirica isostrofica entro la raccolta Somiglianze, isostrofismo che, pur convivendo con la più assoluta varietà di metri, invita a essere studiato scrupolosamente, poiché sull’atto volontario che lo determina De Angelis sembra mettere un sigillo proprio col titolo che la poesia reca. Quanto all’analisi della tessitura ritmica, rimica e fonica che Marilena Rea tratta nella sua lettura di Laggiù dove morivano i dannati, seppur concentrata in una precisa zona della prova esegetica (nel paragrafo intitolato Un linguaggio metamorfico) è appunto affrontata in un’inscindibile indagine sul linguaggio figurato di Alda Merini. Analisi prosodica e studio della disposizione sintattica e propriamente ‘spaziale’ delle componenti lemmatiche negli stichi delle Parentesi sono al centro della terza sezione propriamente intitolata «Le Parentesi». Commento al testo della lettura interpretativa (la cui paragrafazione tematico-metodologica appare ammettere in tutta evidenza un’ibridazione tra i due procedimenti esegetici) che Sabrina Stroppa dedica alla lirica di Pusterla. Diversa ancora la soluzione nel contributo misto di Squillacioti, dove le osservazioni metriche, circa le «frasi melodiche che rimano fra loro secondo uno schema di rime alternate» di Amerigo, si leggono non entro o in apertura delle note di commento come ci aspetteremmo, ma nel saggio interpretativo seguente, poiché è qui che lo studioso ha modo di condurre un esame generale della metrica gucciniana. Circa liriche quali Periferia e Treni di Antonia Pozzi, affrontate in una doppia lettura da Georgia Fioroni, o la già ricordata Genova, oggetto di una analisi dettagliata di Paolo Giovannetti, possiamo addirittura osservare come lo studio della prosodia costituisca a tal punto uno dei principali obiettivi dell’investigazione da divenire il focus nel caso della lectio campaniana e il filo conduttore in quello dell’esegesi pozziana, interventi che si dipanano seguendo l’ordine delle strofe e dei versi sottoposti a vaglio metrico-ritmico tanto che, soprattutto il contributo della Fioroni, pur manifestamente concepito come lettura, volutamente risponde anche a un rigoroso procedere graduale tipico del commento più classico, combaciante affatto con lo svolgimento del te-
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sto. Quanto poi alla lirica di Franco Fortini che risponde al titolo metrico di Falso sonetto è principalmente fronteggiata da Davide Colussi attraverso una lettura interpretativa volta a esplorare tutte le ragioni di questa scelta programmatica: ‘lealtà apostatica’ alla più tradizionale gabbia metrica della lirica italiana ed europea. Talvolta l’analisi del metro comporta di formulare un vero e proprio giudizio sulle scelte impugnate dal poeta, come nel caso di Genova per cui Giovannetti non solo stende un bilancio sulla portata innovativa dell’esperimento, ma entra pure nel merito di tali sovvertimenti stilistici, così da fare apprezzare al lettore «la straordinaria duplicità» di un’esperienza come quella di Campana, i suoi «versi balzani», eppure non macchiati dai «difetti tipici dei metri liberi futuristi», «la sua capacità di evocare e insieme eludere gli stampi consueti, di presentificare le norme del verso classico per poi negarle in un gesto di estrema sprezzatura». L’analisi riservata alla struttura strofica di un poemetto come L’Appennino di Pier Paolo Pasolini non vuole né può essere solo un esame di aspetti formali; se l’indagine parte nel nome di Pascoli, del Pascoli dei Primi e dei Nuovi poemetti, è perché al fine di comprendere l’operazione messa in atto dal poeta con Le ceneri di Gramsci non è pensabile di esimersi dal considerare il peso di questa deliberazione stilistica, per una raccolta che si prefigge ora di cantare ‘realtà più grandi’, quei «paulo maiora» rispetto alle «humiles myricae» della prima stagione casarsese, che per diretta conseguenza comportano di assumere come modello metrico-prosodico il Pascoli dell’epos quotidiano. Pur non trattandosi di un modo costante di dare abbrivio alla ricerca, andrà notato come spesso lo studio inizi con l’esame di quegli aspetti peritestuali che, proprio in nome della loro variabilità, si espongono molto nel riferire le intime mire dello scrittore. È il caso dei titoli, per due dei quali, L’ordine e Falso sonetto, ho già avuto modo di rilevare come Villa e Colussi ne rimarchino il comunicato metaletterario. Lo stesso si può dire del titolo eletto da Bertolucci per Pensieri di casa, il cui plurale spinge Magro a riconoscere «in ogni quartina, grazie alla compiutezza sintattico-testuale delle singole strofe, uno di quei pensieri». L’esplicazione di un titolo come Children’s corner, «evidente omaggio al lavoro omonimo di Debussy», suggerisce a Claudia Bonsi di mettere in rilievo il carattere melodico e armonioso della lirica di Magrelli, mentre la scelta compiuta da Rodolfo Zucco, che, commentando Le ceneri di Sereni, decide di riportarne il titolo con la minuscola (così come appare nell’indice delle Poesie – l’edizione critica a cura di Dante Isella5 – e non tutto in maiuscolo, come si legge nel testo, secondo poi anche l’uso ti20
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Cfr. V. Sereni, Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1995.
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pografico dei «Meridiani»), esplicita l’intento da parte del critico di evitare un’ambiguità volutamente schivata dallo stesso Sereni (ovvero un equivoco scambio col termine indicante il mercoledì precedente la prima domenica di Quaresima), proprio perché ne è forte la pertinenza testuale, testimoniata e dalla titolazione del manoscritto («Mercoledì delle Ceneri») e dal rapporto che la lirica intrattiene con l’eliotiano Ash-Wednesday. Talvolta, approfondendo la scelta del titolo, lo studioso ha modo di evidenziare il rapporto sussistente tra testo e opera complessiva, venendo così a individuare le ragioni che animano il singolo capitolo in qualità di opera-pars inerente a un’opera-summa; l’esempio più chiaro che possiamo fare al riguardo è senz’altro il caso di Ferro, appartenente a una serie di racconti che, sotto il titolo complessivo di Il sistema periodico, sono intestati singolarmente a un elemento della tavola mendeleeviana (Anna Baldini non manca di riferire e di argomentare le ragioni di una scelta diversa: il racconto, concepito autonomamente e uscito in precedenza sul «Mondo», il 29 agosto del ’61, recava infatti in questa prima redazione altro titolo: La carne dell’orso). Quest’ultimo esempio ci consente di venire a parlare di altro appuntamento pressoché fisso: la relazione accurata che di volta in volta viene fornita al lettore su genesi, fasi redazionali e vicende editoriali di un testo. Tanto che si intenda procedere per mezzo di uno strumento rigoroso e a tappe preordinate come il commento, o si avanzi piuttosto con la maggiore autonomia di una lettura, sono, queste, informazioni pressoché indispensabili, ormai da tempo riconosciute tali: nessuno al presente potrebbe insomma con sufficienza relegare tali ragguagli nello steccato di una critica degli scartafacci; la combinazione di più competenze tecniche – semiologiche, linguistiche, retorico-stilistiche, storiografiche, psicoanalitiche, ecc. – parimenti dominate, sembra non solo esperienza attualmente possibile, ma procedura desiderabile in ogni esercizio critico. Dal corredare però l’opera di queste notizie al farne un campo di ricerca primaria, mentre si procede con la pura spiegazione del testo, c’è comunque differenza. La maggioranza dei contributi inseriti in antologia, anche quelli che apparentemente sembrano riferire i dati della storia editoriale o gli sviluppi redazionali del testo in brevi note, proprio perché frutto sì di varie scuole critiche, ma nondimeno tutte nate nel solco di un insegnamento filologico se non altro inteso quale studio delle varianti, ripongono in questo stadio, a tutti gli effetti esegetico, grandi aspettative, a cui fanno seguito risultati importanti. Ancora Genova, se è principalmente indagata da Giovannetti nella sua compagine ritmica, non si sottrae a un esame comparatistico delle soluzioni prosodiche delle due redazioni, Il canto di Genova (così il poemetto si intitola nel Più lungo giorno) e appunto la versione finale che si legge nei Canti orfici, con tanto di conteggio delle varie tipologie di versi ricorrenti nei due esperimenti. In questa prassi filologica si distingue soprattutto la lettura che Za-
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nato dedica all’osso montaliano. Tanto la quaestio della redazione più antica e della redazione intermedia, testimoniate la prima da un autografo inserito in un «fascicoletto inviato a Giacomo Debenedetti»6 – la sede e la missiva al critico biellese del 19 dicembre 1922 a cui si è finora correlato l’autografo sono però con argomentazioni davvero convincenti messe in dubbio da Zanato, che fa piuttosto il nome di altro più plausibile destinatario, Sergio Solmi –, la seconda da un autografo inoltrato a Bianca Messina, è cellula su cui si evolve tutto il lavoro interpretativo che, non solo la lettura parte propriamente con un corredo di informazioni ecdotiche rilevantissimo, procedendo quindi nella circostanziata e ragionata disamina delle varianti, ma anche la lirica su cui si apre il contributo non è semplicemente scortata da un apparato critico, sibbene in essa sono inserite in corpo minore e tra due tipi diversi di parentesi, segnalanti la redazione di appartenenza, le lectiones anteriori, affinché queste possano essere osservate in un immediato confronto con la redazione ne varietur, demandato agli occhi prima che alla mente del lettore. Se il Novecento è terreno battuto relativamente da poco tempo con rigorose indagini interpretative, andrà però rilevato come la più presta risposta offerta dalla filologia al bisogno di conoscere le opere con strumenti che ne permettano una visione diacronica, o forniscano una ‘radiologia’ del testo scrutato in tutte le sue fasi nascoste ed eclissate, abbia a sua volta incentivato la pratica del commento e della canonica lectio. Molti lavori esegetici vengono attualmente intrapresi infatti a seguito dell’allestimento di vere e proprie edizioni critiche, senza le quali tante informazioni sulla storia del testo (l’occasione di stesura, o le vicende editoriali), ma anche molti suggerimenti per penetrare nelle ragioni di un’opera, non sarebbero facilmente recuperabili. La lettura di una lirica come Dove la luce, per esempio, se non poco deve al rinvenimento delle varie memorie veterotestamentarie (soprattutto dal Cantico dei cantici) che animano immagini e lessico di questa seconda stagione ungarettiana e al loro interagire con echi provenienti da poesie di tradizione romantica e poi simbolista, invitations alla amata riconducibili tanto a Baudelaire quanto a Shelley, dall’edizione critica del Sentimento del Tempo apparecchiata da Cristiana Maggi e Rosanna Angelica quindici anni prima rispetto alla prova esegetica7 – anni peraltro ravvivati da un dibattito metodologico sorto intorno all’operazione ecdotica –, non può che ricevere ulteriori lumi a cui sperare il testo definitivo, per conoscerne le riposte nervature, quelle lezioni che, pur oltrepassate in nome di altre soluzioni testuali, ne possono costituire una parafrasi talvolta più chiara.
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6. Cfr. E. Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 870. 7. Cfr. G. Ungaretti, Sentimento del Tempo, edizione critica a cura di R. Angelica e C. Maggi Romano, Milano, Mondadori, 1988.
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Precedenti vagli ecdotici permettono d’altronde sì di portare avanti l’analisi esegetica sull’ultima redazione d’autore (in consonanza quindi con l’idea, anch’essa comunque tutta da verificare, che l’ultima edizione allestita dallo scrittore in vita risponda alla sua vera volontà o comunque alla autentica eredità di questi), ma nel contempo consentono di ragionare, grazie all’apparato critico posto in calce al testo, anche sulle precedenti redazioni del medesimo. È il caso di Falso sonetto, interpretato da Colussi nella sua ultima veste predisposta da Fortini8, e tuttavia indagato, grazie alla riproduzione in un apparato evolutivo delle precedenti lectiones, anche nelle sue diverse ragioni metaletterarie, disuguali da stagione a stagione poetica e in base alla sistemazione del materiale lirico in raccolta (si pensi semplicemente a una variante come quella del titolo, che nato come Falso sonetto, diviene Sonetto in I destini generali, per poi tornare a essere un Falso sonetto, o alla ingannevole data, 1951, posticipante di due anni l’apparizione prima in rivista [1949], con cui il componimento è presentato nell’edizione di Poesia ed errore del 1959 e nelle ristampe). Seguire gli sviluppi di un’opera (intesi come genesi di un singolo testo, ma anche come dinamiche del suo innesto, o dei suoi plurimi innesti, entro una compagine maggiore) soprattutto individuando e distinguendo vicende dovute al caso o a processi spontanei dalle artate manovre di un autoredemiurgo, è anch’essa prassi che molto può riferire al lettore, il quale dal suo punto di vista (non errato, ma certo manchevole) di beneficiario di un testo ultimo, con una sua sede definitiva, rischia di ravvisarvi solo il compiuto prodotto di un processo spesso lungo e non lineare, che è utile invece conoscere nelle sue ambage. Sono importanti testimoni di questa procedura di inchiesta contributi come quello di Giusti, che molto insiste sulla necessità di leggere l’opera di Sbarbaro nel suo tempo, da Pianissimo (1914) a Trucioli (1920), giacché solo questa lettura in sequenza e situata in un’epoca precisa restituisce un’idea dell’effettuale formazione che sui testi sbarbariani compirono altri poeti, come Ungaretti e Montale. Rispondono particolarmente a questo genere di studio del testo, come oggetto in trasformazione e movimento, pure i contributi dedicati ai due poeti contemporanei, Magrelli e Pusterla, ché se la Bonsi ha perfettamente ragione a rilevare la posizione a «sigillo del bilancio consuntivo della propria operazione poetica fino al ’96» di Children’s corner (non ultima lirica in senso cronologico, ma certamente ultima parola su questa stagione artistica ed esistenziale insieme di Magrelli), la Stroppa conduce addirittura tutta la sua lettura interpretativa nel solco di una primaria riflessione circa la posta in limine e la direttamente conseguente ca-
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Ovvero Versi scelti. 1939-1989, Torino, Einaudi, 1990.
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rica programmatica delle Parentesi, lirica con cui si apre la prima raccolta del poeta svizzero, Concessione all’inverno (1985). L’indagine sulla teoria del ‘resto’, da intendersi come ‘detrito’, ma anche come ‘eredità’ che rimarrà nel tempo, come lascito testamentario del poeta, infatti non può restringersi al solo esame delle Parentesi, ma deve di necessità estendersi all’intera raccolta per cui il testo è concepito in funzione di proemio; il contributo offre dunque la possibilità di riconoscere come, a differenza di tante esercitazioni dogmatiche intavolate a partire da una presentazione della compagine complessiva per poi passare a uno studio del singolo componimento, una autentica ricerca sperimentale inizia piuttosto dalla osservazione diretta del testo-fenomeno per poi rintracciare e comprendere le ‘leggi’ della raccolta-sistema entro cui la lirica è strutturata. Fin qui gli impegni indeclinabili, che ovviamente trovano differenti risposte in base all’opera sotto esame, ma comunque appuntamenti costanti che obbligano il critico a investigare su tutti gli aspetti storici e fattuali del testo. Variabili all’opposto tematiche e schemi di argomentazione, costituenti quella parte ‘accidentale’ di ogni scrittura che dovrà essere di volta in volta soppesata nel suo più esplicito portato di significanza, come sezionata nei suoi più latenti meccanismi allusivi. Seppur non frutto di un piano prestabilito – dove davvero la scelta dei testi da interpretare avrebbe potuto essere compiuta sulla base di affinità di soggetto e la materia essere così organizzata per temi – la silloge consta di opere rispondenti nondimeno alle tre fondamentali e prevalenti finalità di scrittura. Prendere d’altronde la parola nel Novecento, sia in poesia sia in prosa, conduce spesso a percorrere tre presagibili rotte, talvolta nettamente distanti e separate, talaltra sfiorantisi: comune, soprattutto nel secondo dopoguerra, fare letteratura engagée, di denuncia sociale, come di impegno politico, via a cui si oppongono, o talora si intrecciano quei più riposti sentieri battuti nell’intima urgenza di rilasciare una confessione esistenziale; altrettanto frequenti le riflessioni sul proprio ruolo e operato intellettuale, affidate non solo a veri manifesti programmatici, ma anche consegnate a testi lirici o ancor più inaspettatamente calate entro la perfetta intelaiatura diegetica di un racconto. I testi qui analizzati rispondono, insomma, senza che sia dietro il loro montaggio intervenuto un volontario e organico diagramma operativo, a una delle tre intenzioni di scrittura più frequentemente perseguite nel XX secolo, nonché talvolta a più di una di esse. Che essenza e pratica letteraria siano in fondo legate a doppio rapporto disgiuntivo e complementare con pensiero e condotta politica è concetto dibattuto già dagli anni Cinquanta, tema conduttore, fin dal titolo, della riflessione e auto-riflessione sulla letteratura novecentesca (da Pascoli ai neo-sperimentali) che Pasolini conduce in Passione e ideologia (1960); non meno chiarifi-
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catrice della valenza disgiuntiva e complementare insieme della medesima congiunzione ‘e’, anch’essa chiamata a mettere in risalto un palinsesto rivolto oltre i confini della mera letteratura, l’intestazione di una rivista come «Questo e altro» (1962-1964) – «“Questo” voleva indicare la letteratura e “l’altro” voleva indicare tutto ciò che sta intorno alla letteratura – i suoi dintorni più o meno immediati» (così spiegava il titolo Giovanni Raboni9) –. Ora, di ‘passione e ideologia’ e dei ‘dintorni’ della letteratura vari testi qui commentati si sostanziano e discorrono, a partire dal poemetto su cui si aprono Le ceneri di Gramsci, L’Appennino. Ma se il lungo ‘viaggio’ nell’Italia appena uscita dalla guerra, dove la mancata esperienza resistenziale del Sud, prevedibilmente comporta da parte di Pasolini una serrata riflessione sulle sorti del paese, su quel popolo escluso dalla storia che è dolorosamente cantato nella sua ‘calda, ironica e sanguinaria’ forza, ben lontana da farsi coscienza di classe, in un dialogo che il poeta instaura con Gramsci primamente, ma pure con altri inaspettati intellettuali che dell’Italia hanno da poco messo a nudo fame, miseria e impurità, come Malaparte, anche altre opere meno sospette sono giustamente riguardate quali espressioni di conflitto interiore e tuttavia voci rivolte anche contro l’ingiustizia o il disordine del mondo. Quantomeno Georgia Fioroni avverte tutta la necessità (e nell’avvertirla riferisce al lettore questo suo ufficio primario) di vagliare il soggetto ‘morale’ di Periferia e Treni alla luce della educazione filosofica – politica anzi, nel suo più alto significato – di Antonia Pozzi; «questioni e luoghi» delle due liriche, i confini tra città e campagna, nonché i dilemmi esistenziali dell’uomo nuovo e perduto che tramano i due quadri, dove acerbi agenti atmosferici e ambientali (pioggia, nebbia, fango), sembrano essere l’ultima rivolta di una natura ormai bandita dalle aree urbanizzate, non possono infatti non essere ricondotti a quella speciale maturazione etica di Antonia Pozzi avvenuta sotto l’ala di Antonio Banfi, tanto che la studiosa osserva come simili tematiche si ritrovino trattate secondo conformi seppur non identiche metonimie paesaggistiche in altri allievi del filosofo, a partire da Vittorio Sereni. Così sulla questione dell’educazione calviniana, su quel «positivismo di famiglia» del giovane autore, che trova nella Torino postbellica il centro della propria vocazione intellettuale, temprata doppiamente e alla disciplina gramsciana e al partecipe attivismo in casa Einaudi, imposta l’intera analisi dell’Avventura di uno sciatore Giovanni Bardazzi, che tanto nella storia narrata – la sbigottita presa di coscienza della propria inadeguatezza da parte del protagonista, un velleitario sciatore distaccantesi dalla goffa ‘compagnia di molti’,
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G. Raboni, Sereni a Milano, in Per Vittorio Sereni. Convegno di poeti, Luino 25-26 maggio 1991, a cura di D. Isella, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1992, pp. 41-49, in part. p. 42.
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all’apparire della «ragazza col cappuccio celeste-cielo», ‘leggera e piana’ in ogni suo atto –, quanto nella maniera di narrare dell’autore – altrettanto nitida, senza penuria o eccedenza di dettato –, riconosce perspicacemente una allegoria di quella professione di fede nella «morale dello stile» che è per Calvino il primum movens della propria scrittura, convinzione maturata nel prender atto che se l’intellettuale organico non può ridursi a suonare il piffero per la rivoluzione, non può nemmeno cadere nel fatuo esercizio di un’arte che si compiaccia solo di se stessa. Dominando perfettamente Bardazzi, oltre alla narrativa, anche l’ampia produzione saggistica di Calvino, il critico si avvale di questa profonda sua partecipe padronanza nello spiegare le dinamiche della Giornata di uno sciatore; e l’interpretazione del precipuo racconto alla luce delle riflessioni etiche e stilistiche che lo scrittore espone in saggi come Le sorti del romanzo, o Il mare dell’oggettività, o le più tarde Lezioni americane, «senza il velame dell’invenzione narrativa», ���������������������������������������������������������������������� risulta in tutta evidenza il criterio più appropriato per far comprendere anche al lettore le ragioni di tale lavoro letterario. Ancor più difficile sarebbe passare qui in rassegna tutte quelle strategie di analisi che vengono messe in atto dai critici a inquisire testi prettamente vocati a consustanziare in parole il flusso di coscienza. Mi limiterò a presentare pochi ma significativi esempi. Ho già avuto modo di dire quanto il paesaggio nelle due liriche di Antonia Pozzi costituisca un tropo di quel male di vivere che annienterà la poetessa, territorio urbano-rurale studiato nelle sue costanti entro le raccolte pozziane (si pensi ai peculiari aggettivi coloristici), poiché è proprio su questa ricorrenza di immagini e lessico tesi a effigiare sempre la medesima desolazione che Georgia Fioroni può argomentare la vis di una empatica simbolizzazione dell’io ‘dietro il paesaggio’. E così, sul valore traslato del territorio si imposta anche la lettura che Magro dedica a Pensieri di casa, mettendo fin da subito l’accento sulla lunga fedeltà di un Bertolucci a tempo, stagioni e luoghi, fedeltà che ovviamente deve fare i conti a un certo punto con lo sradicamento e la perdita dell’orizzonte geografico e affettivo parmense, dato il trasferimento a Roma del poeta. Magro è però sollecito nell’individuare in questa continuità di canto non un rimedio terapeutico al sentimento della nostalgia, come vi riconosceva un lettore speciale quale Pasolini10, poiché per lo studioso semmai la poesia porge «all’ansia crescente l’argine necessario, non la cura ma un surrogato, temporaneo, della cura». Ma Magro non può nel contempo, pur sottolineando questa importante linea di auto-rifrazione nello speculum del mondo, non esplorare anche l’altra
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10. P.P. Pasolini, Elegia?, «Paragone», 72, dicembre 1955, pp. 103-108, poi in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, pp. 408-15, e infine in A. Bertolucci, Le poesie, Milano, Garzanti, 1990, pp. 383-89.
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simultanea più meditata natura di questi ‘studi di paesaggio’; commentare Bertolucci vuol dire inevitabilmente considerarne anche la formazione in quel côté culturale che è la Bologna longhiana e arcangeliana, che se induce il poeta a posare sulla realtà appunto un occhio ‘educato’, vincola parimenti il critico a individuare e ripercorrere i medesimi procedimenti di inquadratura e raffigurazione artistica. L’ecfrasis è del resto l’altro modulo di canto che nell’Appennino pasoliniano si affianca e si intesse al colloquio ideologico, tanto che sarebbe impensabile condurre un’analisi critica del poemetto senza individuare i modelli letterari, già ecfrasis di luoghi e monumenti celebri, a cui Pasolini guarda, venendo così a stendere una descrizione di descrizioni, richiedente da parte del lettore una puntuale agnizione non solo di siti e opere originali, ma anche delle loro mimesi poetiche, se si vuole comprendere e l’etica di questo ‘viaggio in Italia’ e il fitto dialogo letterario instaurato con Goethe, d’Annunzio, Pascoli, ecc. Rimanendo al soggetto paesaggistico, anzi ambientale, una lirica come Laggiù dove morivano i dannati, testimone della degenza di Alda Merini in manicomio, induce Marilena Rea a condurre un esame della deissi spaziale impiegata dalla poetessa a ubicare il suo inferno quotidiano, contrapposto nella dimensione ima e interna a un ‘fuori’ e a un ‘in alto’, che rappresentano il mondo dei liberi. Così, studio altrettanto fondamentale nello svolgimento della prova esegetica, perché marcatore del motivo più rilevante della claustrofobica cronaca fenogliana, è quello che Gaetani opportunamente riserva alla descrizione dei due ambiti interno-esterno del racconto Un altro muro (il primo veduto con gli occhi del protagonista, il secondo solo immaginato tramite l’udito e parzialmente la vista del prigioniero), studio che, insieme alla osservazione minuta del linguaggio dei corpi, tanto dei due catturati quanto poi dei loro aguzzini («Protagonisti di Un altro muro di Beppe Fenoglio sono innanzi tutto i corpi dei personaggi: le loro funzioni primarie, le loro reazioni automatiche o semiautomatiche rispetto agli stimoli ambientali; risposte somatiche rese più pronte e spiccate da una ricettività del sensorio acuita dall’emergenza»), coglie nel segno il voluto effetto di riverbero sul lettore delle diverse percezioni delle due personae dramatis: l’affanno di Max al solo pensiero della morte e il fatale adattamento al certo destino di morte di Lancia. Per concludere questa concisa rassegna di motivi esistenziali, sempre diversi, e tuttavia innescanti in alcune circostanze da parte degli autori affini tattiche di racconto, che per conseguenza trovano risposte conformi nelle prove di commento o di lettura anche da parte di critici non mossi da un comune obiettivo, si consideri un ultimo testo basato sull’immedesimazione dell’io col soggetto agente della propria opera, non uomo, ma bruto inconsapevole, la lirica Il maiale, che induce Marzia Minutelli a ricostruire in una indagine tanto partecipata quanto lucidissima – scorta davvero utile al lettore
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per penetrare le cause morali della scrittura sabiana – il mosaico di tutte le tessere della ricca zoografia del poeta. Pur testo estromesso «dal canone ne varietur del ciclo lirico [Casa e campagna] raccomandato al Canzoniere einaudiano del ’45» (la studiosa non manca di interrogarsi sulle cause di questa esclusione, identificando in una «esigenza inibitoria», sorta in Saba in séguito all’Olocausto, la ragione prima che spinge il poeta a rimuovere la lirica dalla forma definitiva del «romanzo in versi», insieme ad altre motivazioni di ordine stilistico e psicologico), Il maiale non è infatti destinabile a una prova esegetica che ne ignori, se non propriamente la nascita, l’‘allevamento’ contiguo con La capra e La gatta (ma anche con altri testi di argomento faunistico, si pensi alla litanica comparazione di A mia moglie): la ricerca di una intertestualità che non si limita a essere spoglio e regesto di immagini e segmenti espressivi analoghi, ma procede a riferire, tramite tali reperti, come il bestiario sabiano è un corpus sparso entro il canzoniere da ricomporre nelle sue varie membra se vogliamo dare un senso alle parti di un discorso continuo seppur mutante nel tempo, rappresenta uno dei gradi più importanti di questa esperienza ermeneutica, insieme, all’altrettanto mirabile investigazione sulle influenze esercitate dalle usanze culturali e antropologiche ebraiche sull’allestimento del bestiario del Canzoniere, pur movendosi il poeta in piena libertà, emancipato da ogni scrupolo di ortodossia religiosa (il saggio della Minutelli è dunque anche banco di prova per verificare come assieme ai testi possano agire su inventiva e affabulazione di un autore anche i costumi del milieu comunitario a cui questi appartiene, bacino di suggestioni non necessariamente veicolate da documenti scritti, ma a tutti gli effetti riproducenti meccanismi di ricezione di cui la studiosa è abilissima a valutare l’equivalente potere). Resta da dire, tra le forme di scritture più ricorrenti nel Novecento, di soggetti e obiettivi metaletterari. Anche in questo caso vari testi della silloge sono in fondo passibili di una interpretazione che ne rilevi la natura di riflessioni su intenti e esiti dell’opus autoriale, ma converrà prendere in esame l’esempio più perspicuo, la lirica di Andrea Zanzotto, testo di una complessità estrema che difficilmente potrebbe essere avvicinato senza la pregevole guida offertaci dal commento, di impianto prettamente canonico, approntato da Marco Manotta. La ‘classicità’ di questa congerie critica, che si apre su un cappello introduttivo (dove a colui che si accinge alla lettura il commentatore offre più di una coordinata per entrare nel disegno metaletterario di Diffidare gola, corpo, movimenti, teatro, richiamando i contributi del poeta, destinati espressamente a un’enunciazione teorica sul tema11) e accompagna quindi il
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11. È il caso di Poesia? saggio uscito su «il verri», 1 (1976), pp. 110-13, poi in Id., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M. Villalta, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1200-204.
INTRODUZIONE
testo con note al cui interno si coglie un rigoroso assetto d’ordine gerarchico, non deve indurci a credere che sia facile gioco adeguare un mezzo ermeneutico tradizionale come il commento a testi dove la lingua si rarefà nel più ardito esperimento del petèl; è Manotta che riesce infatti nell’impresa, adottando le giuste contromisure. Si osserverà infatti come, sebbene lo studioso si attenga a una scaletta precisa, ragguagliando primamente il lettore o su fatti oggettivi (questioni metrico-prosodiche, disposizioni retoriche, tramatura fonica, ecc.), o sulle accezioni di alcuni termini di difficile intendimento (vuoi perché provenienti da idiomi tecnici, vuoi perché senhals caricati di una responsabilità evocativa che non può essere misconosciuta, pena la perdita di tutta una rete di voluti richiami sia ad altre liriche zanzottiane, sia a voci sorelle con cui il rapporto diviene vitale, come il Pascoli delle ‘canzoni uccelline’ o il Mallarmé dell’Azur, sia a rappresentanti di settori scientifici che parlano altra langue rispetto a quella della letteratura, ma con cui la poesia zanzottiana colloquia fittamente – si pensi per esempio alla psicoanalisi lacaniana –, tutti interlocutori a cui è demandata missione di veicolare il proprio pensiero metapoetico), il commentatore non cade mai nella tentazione di parafrasare l’intraducibile, aiutando sì il lettore a individuare i maggior nodi di significanza, ma non svilendo l’ὄντος della poesia col dipanarne pedestremente i fili. Importante passaggio nell’esercizio ermeneutico, sia esso inteso come commento o come lectio, è il reperimento di tutte quelle memorie letterarie a cui il testo si correla, spesso in un rapporto diretto (esplicito o sottaciuto), altre volte nell’ordine dell’antifrasi. Se lo studio crenologico ha da un ventennio ricevuto grazie ai nuovi mezzi elettronici un sussidio non prima concepibile, allorché tutto era affidato alla memoria dell’esegeta, il rischio è che tanta messe di informazioni agilmente recuperabili possa, nel fomentare un’idea di onnipotenza a rinvenire per ogni formula espressiva la fonte che ne giustifichi l’uso, offuscare quella capacità ‘critica’ (da kr…nw, ‘separo’, ‘distinguo’, ‘scelgo’, ‘decido’) del commentatore che è suo peculiare ufficio. Si prenda allora atto che l’abilità in questa specifica operazione consiste ormai non più nell’individuare «reminiscenze e imitazioni della letteratura italiana», per citare il titolo di esercizi ancora svolti in tempi non sospetti, senza l’aiuto di portentosi database12, bensì nel sapere con sagacia governare tanta dovizia di
12. Si tratta del titolo di una sezione che la rivista crociana, «La critica», mise a disposizione di tali lavori crenologici, sezione in cui uscirono vari contributi di Vischi (20 marzo 1911), Gandiglio (20 gennaio 1913) e Zacchetti (20 settembre e 20 novembre 1921, 20 marzo, 20 maggio, 20 luglio e 20 settembre 1922) dedicati alle fonti ‘classiche’ della poesia pascoliana, che rappresentano tutt’oggi uno degli esiti più importanti di questa disciplina, perché appunto frutto di un esercizio condotto coi soli mezzi dell’umana facoltà mnemonica; scienza anzi possibilmente suscitante non pochi dubbi nel ‘padrone di casa’, che tuttavia con lungimiranza volle accogliere nel proprio periodico queste intelligenti prove critiche.
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indicazioni. Detto ciò una lettura come quella che Nicoletta Fabio riserva a Invernale fallirebbe il suo scopo interpretativo se non impostasse un’indagine capillare come quella che la studiosa giustamente affronta alla ricerca degli echi danteschi, sì infernali e petrosi prima di tutto (dato il paesaggio iemale), ma provenienti anche dalle altre due cantiche del poema. Il lavoro della Fabio, che si muove anche nel solco di precedenti prove critiche, già identificanti le sinopie di questo bozzetto di pattinatori al Valentino nel paesaggio infernale dantesco, di cui si esemplano le immagini, ma soprattutto i suoni, ha il suo punto di forza proprio nell’individuazione dei moventi diegetici di tali memorie, che Gozzano spesso si appunta entro gli scartafacci elaborativi dei Colloqui, o nel Quaderno dantesco, dunque materia prima a tutti gli effetti, non meno che degli spontanei ed intimi pensieri, da sviluppare e sciogliere in un canto personale. Esemplare anche il caso della lettura che Zucco dedica a Le ceneri: doppio, anzi triplice lo scavo compiuto dallo studioso, che, pur consapevole della volontaria dissimulazione messa in atto da Sereni per nascondere fin dal titolo il riferimento alla ricorrenza del calendario cristiano, non cade nell’inganno del poeta, e penetra di conseguenza con acume nelle ragioni della lirica, dialogante direttamente coi testi sacri, la Scrittura ma anche la liturgia, fonti d’ispirazione primaria; Zucco ne rintraccia però anche quel colloquio privilegiato con Eliot, faro alla cui luce la lirica sereniana finisce per assumere un significato più rilevante, anche in direzione del suo portato metapoetico: Le ceneri narrano una «situazione di impotenza narrativa» che prende, forse proprio tramite questi alti referenti, il volto dell’attesa di una resurrezione. Se il rischio che un eccesso di informazioni si traduca nell’abuso di queste, andrà però riconosciuto come proprio grazie anche ai nuovi strumenti sia possibile attualmente rivedere precedenti posizioni assunte dalla critica, liquidante con una certa sufficienza, proprio perché non delineatasi in un curriculum scolastico ‘classico’, la formazione di alcuni poeti del Novecento. Zanato, per esempio, riesce a dimostrare, direi con un’evidenza schiacciante (rinvenendo e valutando le numerosissime suggestioni provenienti alla lirica montaliana da Dante, Leopardi, d’Annunzio, Pascoli, Boine, ecc.), come la presunta «cultura pratica» di cui parlava Contini13 a proposito del poeta ‘non laureato’ sia definizione da riesaminare profondamente alla luce delle tante memorie che emergono dalla raffinata analisi di Meriggiare pallido e assorto (dove Zanato analizza anche le acquisizioni delle anteriori prove esegetiche dedicate all’osso, talvolta rifiutandone alcune, giacché riferenti di rapporti con testi che Montale non avrebbe potuto leggere all’altezza della composizio30
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Cfr. G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 1974, p. 9.
INTRODUZIONE
ne della lirica, come per esempio Le Cimetière marin di Valéry), reminiscenze da soppesare, sì, nella loro effettiva natura di deliberate scelte – Zanato osserva: «Certo, non ogni presenza che la critica riconosce sarà stata, in tutto o in parte, viva nella memoria di Montale, attiva o passiva che sia» – e tuttavia repertorio di una varietà davvero prima inimmaginata – il critico continua appunto: «ma non si può intendere il vero senso della lirica e la sua importanza nel nostro panorama letterario senza saggiarne lo spessore culturale, tracciando almeno lo sfondo entro cui il quadro si colloca» –. Delle ultime brevi considerazioni saranno da riservare all’analisi lemmatica e sintattica che non raramente costituisce una prova impegnativa per il critico, il cui meritorio superamento assegna tanto alla lectio quanto al commento un valore che va oltre la decodificazione di un termine o di una perifrasi, come non si compie semplicemente nello studio dettagliato dei rapporti sintagmatici all’interno di un periodo: dal dare una risposta a tali singole problematiche si dischiude infatti per il lettore un accesso privilegiato all’intelligenza dell’intera opera. Così se, per esempio, come ho già avuto modo di dire, nell’operazione di glossatura del racconto di Primo Levi troviamo imprescindibili chiose ai piemontesismi (spesso già accompagnati da una nota nell’auto-commento dello scrittore, che è però ora arricchito da ulteriori conformi interventi della Baldini) come al lessico settoriale impiegato dal chimico, non occorre pensare che a tale operazione sia tenuto esclusivamente il critico che si imbatte nella interpretazione di un testo dove ricorrono lingue tecniche, idiomi di determinate aree geografiche, o ancora un vocabolario arcaico e disusato. Marilena Rea, per esempio, leggendo Laggiù dove morivano i dannati, non si sottrae giustamente all’esaminare la lingua di questa lirica della Merini, non particolarmente ardua e tuttavia richiedente un approfondimento sulla «trasfigurazione simbolica e metafisica» del lessico della poetessa. Così altrettanto significativo risulta lo studio di Giancotti sui vari registri linguistici (il gergo burocratico, giornalistico, militare, politico) che sapientemente alternati da Rebora in Stralcio con la cruda incisività delle istantanee dal fronte, creano un effetto espressionistico a cui il poeta affida chiaramente la propria inappellabile condanna dell’assurdità della guerra, fatta appunto anche di una paradossale babele di diversi codici retorici. Analogamente, circa lo studio della sintassi non c’è bisogno di pensare che sia questo un intervento che occorre eseguire solo di fronte a dettati ipotattici particolarmente complessi. La lettura interpretativa della lirica deangelisana, in cui Villa analizza il ricorso al rejet, alla «continua precisazione definitoria del soggetto», evidenziando come a tale soluzione formale replicata corrisponda la materia semantica del testo, ���������������������������� è esempio perfetto ������������������ della necessità di questa operazione: se non si coglie infatti il gioco dei parallelismi
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sintagmatici latori di concetti equivalenti, la cui ripetizione è gioco di variazioni sul tema, non si intenderanno le ragioni più profonde di una lirica che non a caso reca un titolo come L’ordine. Ma parlino ora i testi interrogati dai loro ventidue lettori.
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LETTURA DI INVERNALE DI GUIDO GOZZANO
Lettura di Invernale di Guido Gozzano di Nicoletta Fabio
Invernale
«…. cri.… i…. i…. i…. i…. icch….» l’incrinatura il ghiaccio rabescò, stridula e viva. «A riva!» Ognuno guadagnò la riva disertando la crosta malsicura. «A riva! A riva!…» Un soffio di paura 5 disperse la brigata fuggitiva.
«Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto, le sue dita intrecciò, vivi legami, alle mie dita. «Resta, se tu m’ami!» E sullo specchio subdolo e deserto 10 soli restammo, in largo volo aperto, ebbri d’immensità, sordi ai richiami. Fatto lieve così come uno spetro, senza passato più, senza ricordo, m’abbandonai con lei, nel folle accordo, 15 di larghe rote disegnando il vetro. Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro.… dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più sordo.… Rabbrividii così, come chi ascolti lo stridulo sogghigno della Morte, 20 e mi chinai, con le pupille assorte, e trasparire vidi i nostri volti già risupini lividi sepolti.… Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più forte.…
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Oh! Come, come, a quelle dita avvinto, 25 rimpiansi il mondo e la mia dolce vita! O voce imperïosa dell’istinto! O voluttà di vivere infinita! Le dita liberai da quelle dita, e guadagnai la ripa, ansante, vinto.… 30 Ella sola restò, sorda al suo nome, rotando a lungo nel suo regno solo. Le piacque, alfine, ritoccare il suolo; e ridendo approdò, sfatta le chiome, e bella ardita palpitante come 35 la procellaria che raccoglie il volo. Non curante l’affanno e le riprese dello stuolo gaietto femminile, mi cercò, mi raggiunse tra le file degli amici con ridere cortese: 40 «Signor mio caro, grazie!» E mi protese la mano breve, sibilando: – Vile! –
Strofe di sei endecasillabi, forma assente nella Via del rifugio e viceversa ampiamente testimoniata nei Colloqui. Lo schema metrico ABBAAB ricorre in tutte le strofe tranne nella quinta, che presenta la variazione ABABBA, spiegabile in relazione al momento di frattura che qui si verifica anche sul piano del racconto; tale variazione potrebbe essere intervenuta come variante ad una prima stesura ‘regolare’, del tutto plausibile (se non fosse, semmai, per la presenza dei puntini di sospensione, normalmente utilizzati nel testo solo nei versi finali delle strofe). Pubblicato per la prima volta su «La Lettura» nel gennaio del 1910, Invernale è l’unico testo dei Colloqui, insieme a Una risorta e a L’onesto rifiuto, di cui non si possiedono attestazioni manoscritte, neanche parziali. Mancano anche riferimenti epistolari specificamente utili alla datazione; nel fascicolo 6 del Fondo Colla1 è contenuta una lettera, non datata, di cc. 2 eterogenee, indirizzata al «Carissimo Ettore», dove sul verso di c. 1 compare il disegno di due figure femminili che pattinano e dove si informa che Guido si dedica al pattinaggio e alla fotografia, ma la lettera risale presumibilmente al 1901. D’altronde, come già osservava Pancrazi, suggerimento accolto da Sangui-
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1. Cfr. M. Masoero, Catalogo dei manoscritti di Guido Gozzano, Torino, Centro di Studi di Letteratura Italiana in Piemonte «Guido Gozzano», 1984, p. 117.
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neti , la scena descritta in Invernale doveva ambientarsi sul laghetto del Valentino e doveva quindi essere familiare a Gozzano. Il titolo definitivo compariva già negli schemi, denominati a e b da Andrea Rocca nell’edizione critica3, figuranti nell’autografo AG VIIIa, quaderno di appunti per i Colloqui4. Ma stando alle considerazioni di Rocca, il primo elenco, una sorta di piano dell’opera, non risulta databile con sicurezza e non costituisce pertanto un attendibile terminus post quem; il secondo, che rappresenta un indice provvisorio della raccolta, è stato redatto verosimilmente nel settembre 1909, a consuntivo dell’intensa fase creativa che Gozzano visse nell’estate di quell’anno a Bertesseno, stanti le testimonianze delle lettere ad Amalia del 20 giugno, 13 luglio e 25 settembre. Se da un lato è plausibile pensare che anche il nostro testo sia frutto di quei «giorni d’illusione» che hanno consentito a Gozzano di lavorare «con qualche fervore»5, d’altro canto l’assenza in AG VIIIa di qualunque abbozzo riferibile ad Invernale può essere altrettanto plausibilmente valutata in senso del tutto contrario e soprattutto l’ambientazione stagionale del testo induce piuttosto a collocarne la stesura in climi meno solari. Difficile, insomma, azzardare congetture; ciò che sorprende è che proprio di un testo fra i più formalmente pregevoli manchino tracce di un’elaborazione che deve essere stata complessa e meditata. Il fatto, poi, che solo di Invernale come di Una risorta (titolo non menzionato negli schemi a e b) e de L’onesto rifiuto manchino attestazioni manoscritte di qualunque tipo non significa necessariamente che i tre testi siano stati composti in tempi ravvicinati e su stesse carte andate perdute; per quanto legittima, l’ipotesi tuttavia non aiuta a ricostruire la data di composizione (Rocca colloca la probabile ideazione di Una risorta dopo l’estate del 1909, mentre L’onesto rifiuto era stata già pubblicata il 13 giugno di quell’anno sul «Viandante» di Milano). Semmai induce a ricercare possibili consonanze che leghino i tre testi, al di là della comune presenza di una protagonista al femminile prevedibilmente contrapposta all’autore. La risorta ancora desidera, desidera «terribilmente ancora» (vv. 43-44), preda di un suo «sogno errabondo» (v. 38), che le procura però una sofferenza sconosciuta alla pattinatrice, mentre l’autore 2
2. Cfr. G. Gozzano, Poesie, Torino, Einaudi, 1973, p. 100. Da qui provengono anche le altre osservazioni di Sanguineti riportate più avanti. 3. Cfr. G. Gozzano, Tutte le poesie, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, I Meridiani, 1980, pp. 665-68. È questa l’edizione cui ci si attiene per tutti i testi citati. 4. I due schemi sono trascritti e commentati dallo stesso Rocca in Fra le carte di Guido Gozzano: materiali autografi per i «Colloqui», «Studi di filologia italiana», XXXV, 1977, pp. 465-67 e 468-71. Da valutare la presenza in AG VIIIa di citazioni da Petrarca e da Dante, quest’ultimo nume tutelare di Invernale. 5. Cfr. la lettera ad Amalia del 25 settembre, quando l’autore si accinge ad abbandonare il proprio eremo montano.
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ha ormai ucciso il desiderio (vv. 34-36) e ciò gli disegna sul volto quel «sorriso / calmo di saggio antico» che all’epoca di Invernale non poteva neanche abbozzare: il Gozzano di Invernale è ancora vittima del giovenile errore, quello di Una risorta è il reduce, sopravvissuto all’amore e alla morte che un tempo lo spaventavano entrambi, allacciati nella stretta delle dita della pattinatrice. Diversa è la stretta di mano della risorta, espressione di una «tenerezza immensa» (v. 20), di una «famigliare / mitezza di sorella» (vv. 21-22); diversa la sua attitudine pensierosa di «casi remoti e vani» (v. 18), il suo «sogguardare blando» (v. 118) e sognante così distante dall’iperattivismo e dall’agire spavaldo della pattinatrice. Persino i pochi tratti fisici della risorta (vv. 72-80), esteriormente non così lontani dalla fisionomia della pattinatrice, delineano in realtà una personalità totalmente altra: il mento è sì maschio, ma la potenziale fierezza è come acquietata nell’appoggiarsi alle mani per ascoltare il poeta; lo sguardo è intento, ma privo di narcisismo e di vanità, tutto rivolto all’interlocutore; la figura è svelta di forme, accentuata dalla guaina rosa, ma immobile; la chioma è nera e ondosa, ma chiusa nel casco enorme, anch’essa come sacrificata, e non dionisiacamente disfatta. Nel momento del bacio con la risorta l’urtare sordo del cuore (del poeta o della donna?) non nasce dall’ebbrezza dell’immensità ma da quella del ricordo (v. 112); non è ad un «folle volo» che la donna si abbandona ma ad un desiderio soltanto sognato. La presenza precisa di Dante è allora il tratto che più strettamente accomuna i due testi: i vv. 31-32, «levata s’è da me / non so qual cosa grave», recuperano Purg. XII 118-119, «qual cosa greve / levata s’è da me […]», trascritti nel «Quaderno dantesco» (r. 520: «qual cosa grave levata s’è da me») e in AG VIIIa, p. 11, r. 11, con la sola aggiunta del punto interrogativo finale. I versi conclusivi «simile a chi sognando / desidera sognare» rimandano letteralmente a Inf. XXX (il canto più frequentemente alluso in Invernale) 137, «che sognando desidera sognare»; anche in questo caso il Quaderno dantesco prende nota, al r. 323. Una trasposizione letterale da Dante, Inf. XIX 62, compare anche ne L’onesto rifiuto (v. 35, «non son colui, non son colui che credi!»), che con Invernale presenta come unico termine comune l’aggettivo «stridulo» (vv. 16-17, «arido è il cuore, stridulo di scherno / come siliqua stridula d’inverno»), riferito in Invernale prima all’incrinatura del ghiaccio (v. 2), poi al sogghigno della morte (v. 20); la ripresa è tuttavia significativa: mentre il sogghigno torna più volte nei Colloqui a connotare l’insensibilità del poeta (Paolo e Virginia, vv. 165-166: «Ma l’anima corrosa / sogghigna nelle sue gelide sere»; In casa del sopravvissuto, v. 55: «Sogghigna un po’ […]»; Pioggia d’agosto, v. 21: «Tu non credi e sogghigni»), l’aggettivo stridulo ha queste sole occorrenze, entrambe accentuate dall’allitterazione onomatopeica. Se è intuitiva, e palesata dall’ordinamento dei Colloqui, la consequenziali-
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tà Una risorta, Un’altra risorta, L’onesto rifiuto, il testo centrale nella sequenza, assente negli schemi a e b (dove tuttavia probabilmente si riferisce ad una redazione precedente il pertinente titolo Petrarchesca), è datato «Torino, novembre 1909» nel manoscritto AN VIIIa e sulla «Riviera ligure» dove fu pubblicato nel febbraio 1910. Il testo presenta un unico ma puntuale riscontro con Invernale, là dove al v. 28 l’espressione «senza passato più, senza rimpianto» ricalca il v. 14, «senza passato più, senza ricordo»; ma impossibile, anche in questo caso, è stabilire la precedenza. Esclusa, dunque, la possibilità di datare con esattezza la composizione di Invernale, più facile è stabilire le ragioni della collocazione attribuita al testo nell’ordinamento definitivo dei Colloqui; dopo Il gioco del silenzio e Il buon compagno, il nostro testo, come ebbe a notare Patrizia Menichi6, «completa il trittico delle creature amanti disponibili e respinte attraverso il quale si viene ancora più chiaramente a configurare quell’aridità sentimentale che, dopo la sospensione de L’assenza, avrà in Convito il suo manifesto». Ma, a prescindere dalla mancanza di riscontri diretti con i due testi immediatamente precedenti7, la donna di Invernale è, o sembra essere, una ‘non goduta’ più che un’amante respinta, è lei che seduce e abbandona, a ben vedere, lei che sceglie di restare sola «nel suo regno solo». Anonima ma dotata di spiccata personalità e a suo modo virile, temeraria e ‘più atta’ alla vita, la figura femminile è contrapposta all’autore, «vile» e «vinto»; in tal senso la donna ricorda la stessa particolare tipologia femminile che si incarna nella Graziella de Le due strade, «bambina ardita» (v. 19), «forte bella vivace bruna / e balda nel solino dritto, nella cravatta, / la gran chioma disfatta nel tocco da fantino» (vv. 22-24), che Gozzano invoca come compagna, ovviamente ‘non trovata’, rosa non colta: «O bimba nelle palme tu chiudi la mia sorte; / discendere alla Morte come per rive calme, // discendere al Niente pel mio sentiero umano, / ma avere te per mano, o dolcesorridente!» (vv. 31-34)8. È adolescente, Graziella (v. 21), come il fratello de Il più atto, «adolescente forte» che «tempra in cimenti nudi il bel corpo robusto» (v. 4), col quale condivide l’atletismo, l’innata adesione alla fisicità dell’esistere. Nel Più atto il confronto-antitesi con l’autore sfocia nel doppio vocativo senza ansia rivolto alla
6. Cfr. P. Menichi, Guida a Gozzano, Firenze, Sansoni, 1984. 7. Unico riscontro possibile fra l’explicit del Gioco del silenzio («la bocca che tacendo disse: Taci! …») e il finale di Invernale («E mi protese / la mano breve sibilando: – Vile! –») per la presenza assonante del gerundio nella medesima posizione e l’introduzione delle esclamazioni dirette al poeta con analogo disdegno. Da notare, per quanto si dirà più avanti, che il verso finale del Gioco del silenzio è ripresa dantesca, da Purg. XXI 104, «con viso che, tacendo, disse: Taci», trascritto da Gozzano nel suo Quaderno dantesco, r. 610, e già corretto in AG VIIIa, p. 2, r. a, in «la bocca che tacendo dicea taci». 8. Se ricorda soprattutto Graziella, la donna di Invernale anticipa, ma senza «l’inurbana tracotanza» e l’esibita mascolinità, la Ketty della poesia omonima, «agile» e «forte come un giovinetto forte».
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Morte, ormai incombente, e alla Vita, salutata con gratitudine senza strazio, con l’atteggiamento tipico della sezione Alle soglie; in Invernale, collocata nella sezione iniziale dei Colloqui intitolata al «giovenile errore», la Morte è temuta, non ancora «Signora vestita di nulla» ma spettro arcigno, e la vita è dolce, la «voluttà di vivere infinita». Il possibile riscontro con l’episodio dantesco di Cavalcante rafforza la drammaticità dell’appello istintivo alla vita dei vv. 2528; in Inf. X 66-69, Cavalcante «di subito drizzato gridò: «Come / dicesti? Elli ebbe? Non viv’elli ancora? / non fiere li occhi suoi il dolce lume?» (la stessa rima «come : nome» è in Invernale, vv. 31 : 35); ma soprattutto più avanti, al v. 82, Farinata rimpiange il «dolce mondo» così come Gozzano «rimpiange il mondo e la sua dolce vita» al v. 269. La presenza dantesca in Invernale è facilmente riconoscibile. I riscontri più vistosi����������������������������������������������������������������� rimandano prevalentemente alla prima cantica, con l’evidente intenzione di ricostruire uno scenario infernale10. È in particolare Cocito che fornisce dettagli e atmosfere; Gozzano sembra attraversare in pochi versi e in pochi passi l’intera ghiaccia spettrale dove scontano la pena i traditori11. L’onomatopea che apre il testo proviene infatti, come osservava Sanguineti, da una lezione deteriore di Inf. XXXII 30, «non avria pur da l’orlo fatto cricch», più ampiamente ribadita ai vv. 17, 18 e 24; nel medesimo canto altri dettagli hanno contribuito al paesaggio, e al lessico, gozzaniano; così i vv. 23-24, «e sotto i piedi un lago che per gelo / avea di vetro e non d’acqua sembiante», lasciano traccia al v. 16, dove la superficie del lago è detta «vetro»; dai vv. 34-35, «livide, insin là dove appar vergogna / eran l’ombre dolenti nella ghiaccia», Gozzano trae l’aggettivo centrale del v. 23, «già risupini lividi sepolti»; Gozzano deve abbassare lo sguardo, chinarsi con le «pupille assorte»12, per vedere i volti, come Dante, ma anche e soprattutto come le anime dannate, costrette a tenere «in giù […] volta la faccia». In Inf. XXXIII 109 la superficie di Tolomea è detta «fredda crosta», espressione che suggerisce la «crosta malsicura» del v. 4. In Inf. XXXIV 11-12, Dante, ormai nella Giudecca, afferma di esser giunto «là dove l’ombre tutte eran coperte, / e trasparien come feluca in vetro», espressione da cui Invernale trae, oltre al paragone del vetro, anche il verbo «trasparire» uti-
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9. Cfr. anche I Colloqui I, v. 35, «Egli ama e vive la sua dolce vita». E cfr. anche nel Quaderno dantesco, r. 38, «ma quando tu sarai nel dolce mondo», da Inf. VI 88. 10. E segnalata, più o meno ampiamente, ma diversamente interpretata, da tutti i commenti, compreso quello recente di M. Guglielminetti e M. Masoero, G. Gozzano, I Colloqui, Milano, Principato, 2004. Da considerare in proposito anche P. Fasano, Il bello stile negli esili versi. Colloqui con Dante di Guido Gozzano, «La Rassegna della letteratura italiana», XCVIII, 3, 1994, pp. 5-29, e soprattutto l’interessante lettura di Invernale fornita da S. Bach, Un racconto al passato remoto. “Invernale” di Guido Gozzano, «Testo», n.s. XXIV, 46, luglio-dicembre 2003, pp. 61-75. 11. Fra l’altro, sul testo della Commedia da lui consultato (commento di P. Fraticelli, Firenze, G. Barbera, 1887) Gozzano traccia a lapis una serpentina all’inizio dei canti XXXII, XXXIII, XXXIV. 12. Cfr. Historia, v. 55, «con la pupilla assorta».
LETTURA DI INVERNALE DI GUIDO GOZZANO
lizzato al v. 22. Inoltre, nel suo Quaderno dantesco Gozzano dal canto XXXIII appunta al r. 349 «visiera di cristallo – l’invetriate lacrime», contaminando i vv. 98 e 128 che possono averlo impressionato per l’intensità delle immagini, accresciuta dall’effetto onomatopeico della allitterazione della r. La strofa centrale di Invernale è la più infernale: quella sottile crosta gelata che diviene sepolcro, trasformando lo «specchio» del v. 10 in lastra tombale e lo «spetro» leggero e danzante del v. 13 in cadavere quasi mineralizzato, è al di là delle evidenze l’immagine più fortemente dantesca, preannuncio di una possibile dannazione. E non escluderei che fosse una sorta di voluto bisticcio ‘inverno-inferno’ a decidere il titolo, certo realisticamente suggerito dalla situazione stagionale ma allusivo di una condizione esistenziale. Da Dante, Inf. XVII 98, Gozzano recupera le «larghe rote» del v. 1613. La citazione dantesca merita tuttavia di essere contestualizzata, ricordando il volo di Dante in groppa a Gerione (vv. 93-98): «[…] “Fa’ che tu m’abbracce”. / Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne / ad altro forse, tosto ch’i’ montai / con le braccia m’avvinse e mi sostenne; / e disse: “Gerion, moviti omai: / le rote larghe e lo scender sia poco”». L’abbraccio di Virgilio che sostiene Dante lascia forse un segno nella stretta della donna che intreccia le proprie dita a quelle del poeta nel «largo volo aperto» (vv. 7-11) e che lo tiene poi «avvinto» (v. 25). Ma la donna di Invernale si rivela piuttosto «fera» che guida premurosa: la paura di Dante quando scorge «spenta ogne veduta fuor che de la fera» (vv. 113-114) non è così diversa dallo sgomento che coglie Gozzano, che abbandona la stretta e guadagna la riva; Dante resta invece inevitabilmente in groppa alla belva, che «sen va notando lenta lenta; / rota e discende […]» (vv. 115-116), come la donna che rimane sola, «rotando a lungo nel suo regno solo» (dove il gerundio contamina il gerundio dantesco col successivo indicativo)14. Al v. 105 è Gerione che «con le branche l’aere a sé raccolse», come la donna «raccoglie il volo» al v. 36, e la successiva similitudine con il «falcon ch’è stato assai sull’ali» e che «discende lasso onde si move snello, / per cento rote, e da lunge si pone / dal suo maestro, disdegnoso e fello» (vv. 127-132), lascia forse qualche traccia nella similitudine della donna-procellaria, priva però di stanchezza, sorridente e non avvilita, disdegnosa sì ma non fella; la fellonia e la viltà sono anzi rinfacciate al poeta che non ha avuto il coraggio di accompagnarla fino
13. L’espressione, peraltro, rimanda anche ad Ariosto, Orl. Fur. IV, 24, 8 («con larghe rote in terra a por si venne»). Il sintagma, che tornerà nelle Farfalle, Del parnasso, v. 22, «In larghe rote s’annunciò dall’alto», e ne La bella preda, v. 28, «in larghe rote lente sulle aiole», era già stato utilizzato ne La via del rifugio, vv. 89-93: «Una vanessa Io / nera come il carbone / aleggia in larghe rote / sul prato solatio, / ed ebbra par che vada», da dove Gozzano potrebbe recuperare anche l’ebbrezza di immensità del v. 132 di Invernale. 14. Nel solito Quaderno dantesco ai rr. 151-153 leggiamo: «Ella sen va notando lenta lenta / ruota e discende».
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in fondo nel «folle accordo», anch’esso memoria dantesca. L’espressione di Inf. XXVI 125, «de’ remi facemmo ale al folle volo», trascritta nel Quaderno dantesco al r. 284, dà spunto al «folle accordo» del v. 15, ma il «volo» è presente sia al v. 11 sia al v. 36, in rima con «suolo» del v. 33 come in Dante, v. 129; potrebbe allora essere l’ambientazione marina del canto dantesco di Ulisse a suggerire la similitudine con l’uccello delle tempeste, la procellaria peraltro ‘autorizzata’, come osserva Sanguineti, da Pascoli e D’Annunzio15. Anche la rima «vetro : tetro», vv. 16 : 17, è di ascendenza dantesca (Par. II 89 : 91)16. Ed è voce dantesca la «ripa» del v. 30, che passerebbe inosservata se non fosse per il fonema variato rispetto alla «riva» della prima strofa e per l’insistenza con cui il Quaderno gozzaniano riporta quel termine. Voce dantesca, infine, è l’aggettivo «gaietto» (da Inf. I 42) riferito allo stuolo femminile (v. 38) che rimprovera la pattinatrice; se l’aggettivo è correttamente interpretato da Gozzano (ma non escluderei una sorta di falsa etimologia connessa con la gaiezza) si tratta dell’unica nota cromatica presente in un testo in bianco e nero, come si addice ad un ricordo quasi cinematografico, o meglio ad una situazione da dagherrotipo. La rappresentazione della morte è dunque poeticamente ideata e ricostruita con palese ossequio a Dante; il poeta sembra dar fondo a tutte le sue reminiscenze dantesche, e a molti dei suoi appunti del Quaderno, spogliate ironicamente dello spessore originario, come Gozzano fa di norma con le sue citazioni, ora testuali, ora distorte non si sa quanto volontariamente, ora contaminate da parole d’altri; se l’ironia nasce spontaneamente dalla sproporzione incolmabile fra l’esperienza del viaggio ultraterreno e la banalità mondana di un episodio da romanzo borghese, la ghiaccia dantesca non è tuttavia soltanto una quinta teatrale, l’ostentata e facile cornice letteraria per l’ennesima schermaglia amorosa. Pur senza voler attribuire alle singole citazioni da Dante sovra significati troppo esatti e profondi (non è nella natura di Gozzano e del suo citazionismo indurre il lettore a cogliere consonanze affettive o squisitamente intellettuali con gli autori-interlocutori del ‘colloquio’ e le sue sono il più delle volte appropriazioni per così dire indebite), resta il fatto che un’insistenza tanto vistosa non può essere nata da una rilettura soltanto meccanica degli appunti del Quaderno; se la prima associazione è puramente esteriore, paesaggistica, indotta dall’aspetto inquietante
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15. E citata anche in Paolo e Virginia, v. 111, «stridono procellarie gemebonde». 16. La rima torna in In casa del sopravvissuto, vv. 1 : 3 : 6, «tetri : spetri : vetri», e ne La loggia, I, vv. 1 : 4 : 5, «tetri : spetri : vetri», dove la parola rima centrale è la stessa del v. 13 di Invernale; l’intera sequenza, nello stesso ordine del testo gozzaniano, è in Pascoli, Myricae, Notte di vento, vv. 6 : 8: 9, «spetri : vetri : tetri». Nei Colloqui I, vv. 27 : 31, «spetro : tetro». Cfr. anche Camerana (come osservato da Contorbia e da Sanguineti), dove «spetro (spetri) rima di regola con tetro (tetri)».
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del laghetto gelato, non può essere sfuggita del tutto all’autore la colpa che in Cocito è punita: l’allusione è allora alla condizione di condanna, in vita e non in morte, che Gozzano paventa, per quanto con ovvia e sensata ironia, dopo l’ennesimo ‘tradimento’. Probabilmente non è un caso che di tutte le categorie di traditori Gozzano escluda quella punita in Antenora (la politica non è nelle sue corde), mentre parenti (le donne-sorelle, prima che l’odiatoamato fratello, l’antenato-analfabeta pure lui sconfessato o la madre), amici (le donne-compagne), persino i benefattori (le donne benefattrici, pronte a concedersi, e le amanti, che si sono ormai concesse), sono sistematicamente traditi dall’insensibilità del poeta, fedifrago per natura, infedele persino alla propria tristezza, «anima corrosa / dove un riso amarissimo persiste», come si legge ne L’ultima infedeltà che, dopo il preambolo dei Colloqui I, apre Il giovenile errore e fa da premessa all’intera sezione con i suoi differenti «episodi di vagabondaggio sentimentale», come li definisce l’autore nella lettera al direttore del «Momento» da Agliè del 22 ottobre 1910. Ma ancor più che al referente dantesco, più che ai prevedibili riscontri con altre poesie anteriori e posteriori, apparentem ente non fittissimi e raramente espliciti, la chiave di lettura di Invernale è affidata alla sorprendente trama di rimandi interni, fonici e semantici, testimonianza di una speciale cura nella costruzione del testo, esercizio di vero e proprio virtuosismo verbale e metrico. L’onomatopea iniziale pascolianamente si semantizza nella «incrinatura» subito seguente e si prolunga nell’insistita allitterazione della r, spesso rafforzata da vicine consonanti, fino a divenire il Leitmotiv fonico delle prime quattro strofe, finché, cioè, il poeta ascolta il ghiaccio spezzarsi senza allontanarsene; la successione dei tre aggettivi che qualificheranno successivamente il «cricch», «tetro … sordo … forte» (vv. 17, 18 e 24), più che costituire tecnicamente una climax è dettata da ragioni puramente metriche, ma al tempo stesso accompagna, o meglio provoca, le reazioni del poeta; se il suono tetro17 e sordo suscita visioni funeree, di fronte alle quali il poeta resta assorto, quasi vittima di un incubo, impietrito e come fascinato, il rumore fattosi più intenso è come un risveglio, dà voce all’istinto di sopravvivenza; l’ultimo aggettivo, «forte», il più neutro dei tre, quello che sembra limitarsi a denotare il progredire dell’incrinatura, dà tuttavia il la alla strofe successiva, il cui attacco con la ribadita assonanza «Oh! Come, come […]» rende l’immediatezza della reazione: il suono di morte, perduto il suo fascino ambiguo e fattosi forte e chiaro, diviene imperioso incitamento alla vita.
17. L’aggettivo è associato alla Morte anche in Alle soglie, vv. 26 e 28, dove i termini si trovano in rima come in Invernale.
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La «riva» invocata a gran voce all’inizio del v. 3 torna in rima nello stesso verso e di nuovo, duplicata, a formare il primo emistichio del v. 5; l’anafora – con le posizioni notevoli scelte – crea una sorta di eco, di effetto surround, e rende la rapidità del fuggifuggi, mentre l’allitterazione della s («disertando … crosta malsicura … soffio … disperse»), che si alterna e si sovrappone a quella più stridula della r, suggerisce, qui come nelle strofe successive, il veloce e leggero scivolare dei pattini, il fruscio degli abiti, tanto che ai suoni più che ai dettagli visivi è affidata la ‘descrizione’ della scena. L’esclamazione «A riva!» costituisce per così dire l’altra onomatopea della prima strofa, l’allerta, voce umana, indotto dal rumore allarmante del ghiaccio. Ad essa si contrappone la parallela invocazione «Resta!» (v. 7), in anafora al v. 9 e in paronomasia col «restammo» del v. 11, che la donna rivolge al compagno, fortemente consonante tanto col precedente «disertando» (v. 4) quanto coll’immediatamente successivo «conserto» (v. 7): il legame fonico suggerisce che la partecipazione alla fuga precipitosa della brigata sia negata al poeta dalla stretta tempestiva della donna più che dalla richiesta verbale di una prova d’amore e di coraggio. L’assonanza della rima B della prima strofa (-iva) con le «dita» dei vv. 8 e 9 lega le due strofe, con un meccanismo che si ripete in seguito: la rima A della seconda strofa (-erto) fortemente assuona con la rima A della terza strofa (-etro), mentre la rima B di quest’ultima (-ordo), oltre alla forte assonanza con l’«orlo» dei vv. 17-18, presta la tonica all’intera quarta strofa (-olti, -orte), la cui rima B riprende, ma rovesciate, le rime in A delle due strofe precedenti. La sesta strofa ribadisce la tonica in o (-ome, -olo), dopo una quinta strofa scandita in rima dalla i tonica (-into, -ita) ma all’interno della quale la o accentata è particolarmente insistente: «come, come … mondo … dolce … voce imperiosa». La strofa finale si lega infine alla precedente per le rime interne: «non curante» del v. 37 rima con il «palpitante» del v. 35, lo «stuolo» del v. 38 con le rime B «solo : suolo : volo». A ciò si aggiungano ulteriori numerose assonanze, allitterazioni e vere e proprie rime interne: v. 10, «specchio subdolo e deserto»; vv. 11-12, «soli … sordi», aggettivi ripetuti, ormai al singolare femminile, al v. 31, «sola … sorda»; vv. 13-18: «Fatto … passato … disegnando … ghiaccio»; vv. 15-16: «folle … rote»; vv. 19-23: «Rabbrividii … vidi … lividi»; vv. 25-30: «dita … vita … infinita … dita … dita … ripa»; vv. 26-27: «dolce … voce»; vv. 32 e 34: «rotando … ridendo»; vv. 41-42: «caro … mano», «protese … breve». La rima ricca dei vv. 25 : 30, «avvinto : vinto», sottolinea come l’apparente vittoria del poeta, liberatosi dalla stretta con impeto istintivo, sia in realtà una sconfitta e come la riconquista della riva sicura sia in realtà una disonorevole ritirata. A ribadirlo l’antitesi a chiasmo «ansante, vinto» (v. 30) – «ardita, palpitante» (v. 35)18, dove la rima acuisce 42
18. Per la serie «bella ardita palpitante» cfr. La messaggiera senza ulivo, vv. 35-36: «non fu mai così forte e così bella / e palpitante».
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la distanza fra i due attori, amplificata dal «non curante» riferito alla donna al v. 37. Fitto anche il sistema dei rimandi interni lessicali: il «largo volo aperto» del v. 11, ad esempio, è richiamato analogicamente dalle «larghe rote» del v. 16, a loro volta riprese nel «rotando a lungo» del v. 32, e antiteticamente dal «volo» che si «raccoglie» al v. 36; ma è soprattutto il termine «dita» che gioca in tal senso un ruolo essenziale. Le dita della donna, che al v. 7 si intrecciano alle dita del poeta come «vivi legami», divengono al v. 25 potenziali strumenti di morte; come la «Signora vestita di nulla» di Alle soglie (vv. 29-30), anche la pattinatrice «protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma» e le sue mani divengono catene e lacci dai quali liberarsi (v. 29) per salvarsi la vita. È certo «vita» la parola chiave della quinta strofa e della svolta segnalata anche dalla variazione metrica, rafforzata dalla paronomasia «vivere» del v. 28 e dalla allitterazione della v che percorre l’intera strofa («avvinto, vita, voce, voluttà di vivere, vinto»), nonché dall’assonanza con la «ripa» faticosamente riguadagnata al v. 30, che della conquistata salvezza diviene correlativo come già lo era nella prima strofa. All’inizio, infatti, le tre parole rima in A, «incrinatura, malsicura, paura» si contrappongono semanticamente alla serie in B «viva, riva, fuggitiva», ma già insinuano il paradosso: ci si salva la vita restando a riva, rifiutando l’ingaggio, cedendo ai timori, abdicando, sottraendosi insomma alla vita; l’incrinatura, metafora del pericolo e dell’incognito, è sì «stridula» (v. 2) come il sogghigno della Morte (v. 20), ma anche «viva» (v. 2), e non spezza con violenza il ghiaccio spalancando voragini, non ferisce o imbratta la superficie dell’esistenza e del mondo bensì la rabesca, quasi la disegna anticipando la danza dei due pattinatori. Gozzano è «della razza di chi rimane a terra», di chi resta a guardare la vita che altri vivono; di Invernale si ricorderà Montale, il miglior interprete della poesia gozzaniana, con l’Esterina di Falsetto: vv. 42-51, «T’alzi e t’avanzi sul ponticello / esiguo, sopra il gorgo che stride […] poi ridi, e come spiccata da un vento / t’abbatti fra le braccia / del tuo divino amico che t’afferra. // Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra» (e si vedano anche i vv. 17-19: «Un suono non ti renda / qual d’incrinata brocca / percossa!»)19. Ma la ripresa montaliana più convincente è quella di Felicità raggiunta (vv. 3-4), «[…] teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti tocchi chi più t’ama»: la superficie fragile su cui si svolge la scena di Invernale diviene luogo della felicità possibile dal quale il paradosso dell’esi-
19. Qualche più vago tratto (riassunto nella similitudine della procellaria, v. 36) è riconoscibile anche in Dora Markus, vv. 16-24: «La tua irrequietudine mi fa pensare / agli uccelli di passo che urtano ai fari / nelle sere tempestose […] Non so come stremata tu resisti / in questo lago / d’indifferenza ch’è il tuo cuore», e in Sotto la pioggia, vv. 21-24: «Per te intendo / ciò che osa la cicogna quando alzato / il volo dalla cuspide nebbiosa / remiga verso la Città del Capo».
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stenza costringe a tenersi distanti per non vederne la natura trasformata in morte. Dal sistema dei rimandi interni scaturisce dunque non l’attesa dialettica di eros e thanatos ma il gioco vita-morte, o meglio vitalità-inettitudine, che vede, ad una prima lettura, la figura femminile contrapporre il suo entusiasmo vitalistico, quasi panico, all’impotenza del poeta, ma che lascia intendere, ad una lettura in filigrana, l’assenza d’amore e la sostanziale identità vita-morte, la constatazione di un’esistenza negata, di un tradimento perpetrato a se stesso e degno della punizione che Totò Merumeni si autoinfliggerà, mortificando tutta la propria esistenza nel breve giro di un verso: «E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà».
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