L'Indice di marzo 2013

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in collaborazione con

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Tullio Pericoli, 2013

Bassani

€ 6,00

22 n.

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Anno XXX - N. 3

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Marzo 2013

Fantacci Landolfi

Batuman

Malaparte

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Menozzi

Bozzola

Millás

Buffoni

Munro

Canobbio

Ortalli

Celestini

Paterlini

Cortellessa

Trevi

Detheridge

Vacca

Di Vittorio

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LIBRO DEL MESE: Rodotà e il presidio della dignità umana La biologia della creatività secondo KANDEL Sissi e l’aristocrazia marxista nel Kremlino di MALAPARTE

VATTIMO vs DE CARO: realismo, antirealismo o nuovo realismo? www.lindiceonline.com MENSILE D’INFORMAZIONE - POSTE ITALIANE s.p.a. - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Torino - ISSN 0393-3903


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Editoria ❏ Abbonamento annuale alla versione cartacea (questo tipo di abbonamento include anche il pieno accesso alla versione elettronica): Italia: € 55 Europa: € 75 Resto del mondo: € 100 ❏ Abbonamento annuale solo elettronico (in tutto il mondo): Consente di leggere la rivista direttamente dal sito e di scaricare copia del giornale in formato pdf. € 45 ❏ Abbonamento annuale alla versione per ipad: € 44,99 Per abbonarsi o avere ulteriori informazioni è possibile contattare il nostro ufficio abbonamenti: tel. 011-6689823 – abbonamenti@lindice.net. Per il pagamento: Carta di credito, conto corrente postale N. 37827102 intestato a “L’Indice dei Libri del Mese” o Bonifico bancario a favore de L’Indice scarl. presso UniCredit Banca (IT 13 P 02008 01048 000002158762)

Osservatorio sull’editoria, 3 Fra gli scaffali vuoti Intervista a Beatrice Fini Giunti

V

orremmo ragionare sugli effetti della crisi economica rispetto al mercato librario, che in base ai dati forniti dagli istituti demoscopici registra nel 2012 un calo intorno all’8 per cento. Come li valutate e in che misura voi li avvertite rispetto agli anni precedenti? Anche il nostro gruppo sta registrando una criticità nelle vendite. Ciò avviene maggiormente nel canale della grande distribuzione organizzata e nelle librerie indipendenti, con valori allineati a quelli registrati da Nielsen, mentre le vendite della catena di librerie Giunti al Punto sono praticamente uguali a quelle del 2011. Le ragioni di questo fenomeno sono complesse, volendo individuarne le principali potremmo dire che in conseguenza di vendite natalizie 2011 non brillanti e di un pessimo avvio del 2012, la gran parte dei rivenditori ha imboccato una strada di estrema cautela rispetto ai rischi di esposizione finanziaria. In concreto ciò si è tradotto in riduzione degli ordinativi sui nuovi titoli e riduzione dei rifornimenti di catalogo e maggiori rese agli editori. Basta entrare in una qualsiasi libreria per toccare con mano la riduzione dei libri presenti sui banchi e

Refusario

Sul numero dell’“Indice” di febbraio • Nella scheda che ho dedicato, sul n. 2, 2013 de “L’Indice”, a Il Milionario di Maj Sjoewall e Per Wahloeoe, edito da Sellerio, si afferma erroneamente che non viene indicato il traduttore il cui nome, Renato Zatti, è pubblicato in bella vista sul frontespizio. Me ne scuso con lui e con l’editore. Gian Giacomo Migone.

sugli scaffali. È inevitabile che, tenendo le librerie sguarnite di libri, ciò finisca per causare una riduzione delle vendite. Viceversa il mantenimento di un’offerta simile a quella dell’anno precedente non ha fatto registrare nelle nostre librerie un’analoga flessione. In quali termini avete compiuto delle scelte per farvi fronte? Sono intervenute modifiche nei vostri piani editoriali (titoli, collane, traduzioni, prezzi di copertina)? La nostra produzione è molto ampia e differenziata: pubblichiamo dall’albo da colorare ai codici in anastatica di Leonardo da Vinci e usciamo con circa ottocento novità all’anno. Rispetto al piano editoriale approvato nella scorsa primavera, abbiamo rivisto il numero delle uscite e privilegiato quei titoli con maggiori potenzialità commerciali multicanale rispetto a quelli dedicati quasi esclusivamente a un canale o a un altro. Inoltre, abbiamo cercato di ridurre i costi di produzione e prestampa per poter abbassare i prezzi di copertina andando incontro al minor potere di acquisto dei lettori e abbiamo, infine, notevolmente ridotto la pubblicazione dei grandi illustrati incrementando o dando vita ex novo a collane di tascabili ed economici. Avete operato dei cambiamenti organizzativi? Potete indicare quanti sono i vostri dipendenti fissi o a contratto temporaneo, e se c’è stata una perdita di posti di lavoro e/o un maggiore ricorso all’esternalizzazione? Al momento non abbiamo nessuna perdita di posti di lavoro di dipendenti con contratto a tempo indeterminato. La flessione dei ricavi ha però richiesto un rigoroso piano anticrisi orientato a contenere il più possibile tutti i costi, a cominciare da quelli per lavorazioni esterne che si cerca di fare con i dipendenti in organico, quindi c’è stato un minor ricorso all’esternalizzazione. Qual è, sulla base della vostra dimensione aziendale e presenza sul mercato, il segmento più critico della filiera (produzione-dis-

tribuzione-punti di vendita)? Quale politica dei prezzi del libro auspicate: mantenere o abrogare (come chiede l’Antitrust) l’attuale legge che fissa un tetto agli sconti? Come già detto, l’anello debole della catena in questo momento è il sistema di retail che non reagisce in modo adeguato alle sollecitazioni della rete promozionale. La legge che fissa il tetto degli sconti non ha risolto nessuno dei problemi che si proponeva di medicare, anche se è difficile valutarne l’efficacia proprio a causa della pesantissima crisi che ha travolto il settore. Probabilmente, al di là del tetto allo sconto, la parte della legge che ha mostrato maggiore criticità è quella relativa alle campagne promozionali. Per assurdo, una norma che presupponeva di regolarle e contenerne certi effetti negativi, ha finito per peggiorare sensibilmente la situazione, come tutti hanno avuto modo di constatare frequentando le librerie negli ultimi dodici mesi. Quale ruolo gioca l’e-book nel mercato attuale? Come affrontate le innovazioni legate all’editoria digitale? Nel mercato attuale l’e-book non gioca nessun ruolo che abbia un rilievo economico. Al di là delle molte inesattezze che sono state riportate dai giornali, nel 2011 il fatturato generato dalla vendita di e-book è stato di poco superiore ai 3 milioni di euro, cioè lo 0,2 per cento del fatturato dei canali trade e meno dello 0,1 per cento del fatturato complessivo dell’editoria libraria. Il 2012 ha registrato un forte aumento che però è molto difficile da quantificare con precisione. Infatti, mentre i dati 2011 sono relativi ai soli store italiani, e quindi noti, almeno a chi ne ha la disponibilità, nel 2012 sono presenti rivenditori come Amazon, Apple e Google che non danno informazioni quantitative disaggregate. Quindi solo approssimativamente si può stimare che le vendite di ebook siano cresciute intorno al 4500 per cento. Comunque, anche considerando l’incremento maggiore, il risultato sarebbe quello di un peso ancora inferiore all’1 per cento delle vendite nei canali trade, che significa, a valore di copertina, un fatturato intorno ai 14 milioni di euro. Quindi stiamo sempre parlando di una cifra poco significativa per i bilanci degli editori. Ciò detto, come immagino tutti gli editori, siamo impegnati sia sul fronte più ovvio della digitalizzazione delle novità e della back list, sia su quello più importante delle trasformazione delle metodologie produttive. Esiste una strategia comune a livello nazionale o prevalgono logiche e interessi divergenti tra i grandi gruppi e gli editori piccoli e medi? Purtroppo una strategia comune non esiste e le differenze di vedute tra le varie componenti del settore sono consistenti. Poi, disgraziatamente, nel nostro paese le categorie tendono sempre a mettere maggiormente in evidenza gli elementi di divergenza piuttosto che quelli di convergenza. Così si finisce troppo spesso per operare in ordine sparso senza coagulare le risorse per raggiungere almeno alcuni obiettivi che potrebbero es-

Forse non è un caso che in tempo di elezioni (il cui esito è ignoto nelle ore in cui la rivista va in stampa) sulle pagine dell’Indice rimbalzi in più luoghi (dai segnali alla pagina di saggistica letteraria) il richiamo a un “ritorno al realismo”. Che si tratti del nuovo realismo proposto da Maurizio Ferraris in opposizione al realismo metafisico di qualche decennio fa o della “presa di possesso della realtà” che Trevi esplora rileggendo Petrolio, il romanzo postumo di Pasolini, come un tentativo estremo di reagire al depotenziamento della letteratura nell’età postmoderna, il contatto

sere comuni. Questa mancanza di coordinamento fra i diversi portatori di interessi rende impraticabile una strategia unitaria, non solo fra editori, librai e bibliotecari, ma nemmeno fra editori grandi e piccoli e, alla fine, nemmeno tra i grandi gruppi, spesso in disaccordo anche fra loro. Quali interventi ritenete necessari per reagire alla crisi? Avete delle proposte per interventi legislativi a tutela dell’editoria? Quali misure potrebbero essere adottate? Ci troviamo di fronte a una crisi di cui è difficile prevedere la durata, che sicuramente non si misurerà in mesi. Una crisi che si intreccia con la delicatissima transizione al digitale, che in tutti i settori ha generato non pochi sconquassi. Se da un lato pensiamo a un futuro in cui carta e digitale si intrecceranno, dall’altro è inevitabile che a fronte di una

o la contaminazione con quello che realmente accade si presenta in tutta la sua emergenza. L’affabulazione, le bugie, gli inganni, i racconti falsati, le contraddizioni farneticanti hanno segnato tragicamente gli ultimi anni della storia della nostra repubblica. Come ricorda giustamente Raffaella Scarpa nel suo intervento anche Franco Fortini aveva rivendicato il valore della realtà, mettendo in guardia i suoi detrattori progressisti con una lucida profezia: “La realtà misconosciuta si vendica”. Come dire che senza verità nessun mondo è possibile. Neppure quello dell’utopia.

profonda modifica della struttura dei ricavi del settore (si produrrà meno carta, si stamperanno meno periodici e libri, si confezioneranno meno prodotti, e così via) sarà inevitabile riconsiderare in maniera rigorosa anche la struttura dei costi. In un mercato che difficilmente genererà meno ricavi, la prima medicina non potrà essere che quella di ridurre i costi. Quanto alle misure legislative, non pensiamo a interventi di tutela, ma a una radicale inversione di rotta rispetto alle politiche del passato in merito agli investimenti pubblici per diffondere l’abitudine alla lettura, a cominciare dalle scuole e dalle biblioteche. In questo senso, non possiamo che vedere con favore una discussione come quella avviata dal Forum del Libro che propone una legge di iniziativa popolare che ha questi obiettivi. ■ B. Fini Giunti è direttore editoriale di Giunti

Le immagini L’autore che questo mese ci ha gentilmente concesso la pubblicazione delle sue opere è Philip Giordano (aka Pilipo). Philip è nato a Celle ligure da madre filippina e padre svizzero. Ha frequentato l’Accademia di belle arti di Brera a Milano, ha studiato illustrazione allo IED e conseguito un master in tecniche di animazione a Torino. Nel 2004 i suoi lavori sono stati selezionati per Bologna Children’s Book Fair una delle fiere del libro per ragazzi più importanti al mondo. I suoi primi libri sono stati pubblicati da Hodder (Londra) e Zoolibri (Reggio Emilia). Nel 2006 e 2009 è stato vincitore del concorso Figure-Future a Montreuil, fiera del libro di Parigi, vincendo i premi “Prix des Adultes” e “Prix des Médiateurs”. Nel 2009 ha partecipato alla biennale di illustrazione Portoghese “Illustrarte”, mentre nel 2010 è stato nuovamente premiato a Bologna durante la fiera del libro con il premio “International Award ForIllustration”. I suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue e sono diffusi in Giappone, Francia, Sud Corea, Sud America, Regno Unito, Thailandia, Cina, Spagna e Slovenia. Ha esposto le sue opere in gallerie e musei in tutto il mondo e i suoi lavori sono apparsi sull’annuale American Illustration 31 e Communication Arts Illustration 53. Tra le sue pubblicazioni principali ricordiamo: Gallito Pelón (con Paula Carbonell), Enero, 2013; La princesa Noche Resplandeciente, SM Ediciones, 2010; Un jour encore (con Cristiana Valentini, Rue Du Monde, 2009; La corsa della lumaca, Manuela Monari, Zoolibri, 2008. Recentemente si è trasferito a Tokyo dove vive e lavora, realizzando, oltre ai libri per l’infanzia, illustrazioni per riviste, copertine di libri per adulti e piccoli cortometraggi in animazione.


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SommariO EDITORIA 2 Osservatorio sull’editoria, 3.

Intervista a Beatrice Fini Giunti

VILLAGGIO GLOBALE 4 da Buenos Aires, Francoforte sull’Oder e Londra

L’INDICE DELLA SCUOLA I II

Lo Studente serale e il venditore di figurine, di Andrea Sormano

III

CARLO BARONE Le trappole della meritocrazia, di Bruno Maida EMANUELA BONINI Scuola e disuguaglianze, di Giovanni Abbiati

SEGNALI 5 Darwin, dall’antischiavismo all’evoluzionismo, di Francesco Cassata

6

Quale metafisica, quale realtà?, di Gianni Vattimo Ontologia, critica, illuminismo, di Raffaella Scarpa

7 8

Fra realismo e antirealismo, di Mario De Caro

9

Le pagine romanzesche sulla vita di Rosalba Carriera, di Daniele Santero Avanguardia drammatica e stravagante, di Vittorio Coletti

Il carteggio fra Giorgio Bassani e Marguerite Caetani, di Gian Carlo Ferretti

10

Agatha Christie e il giallo classico, di Chiara Prezzavento

11 12

La parabola del microcredito, di Roberto Burlando

13 14

La recente narrativa cinese femminile, di Renata Pisu

IV

LIBRO DEL MESE 15 STEFANO RODOTÀ Il diritto di avere diritti, di Remo Caponi e Donato Carusi

YVES GREVET La scuola è finita! e CRISTINA PETIT Un buco nel cielo, di Elena Girardin MARIA BUCCOLO, SILVIA MONGILI ED ELISABETTA TONON Teatro e formazione, di Rossella Sannino

VI

MONICA ANDREANI, MARCELLO DEI E MASSIMO S. RUSSO (A CURA DI) Bioetica e dibattito pubblico tra scuola e società, di Monica Fabbri SERGIO TRAMMA Legalità illegalità. Il confine pedagogico, di Jole Garuti CARLO CARZAN E SONIA SCALCO Economia Felice, di Gino Candreva

VII

17

CURZIO MALAPARTE Il ballo al Kremlino, di Demetrio Volcic e Beatrice Manetti

LETTERATURE 18 ELIF BATUMAN I posseduti, di Fausto Malcovati MARICA BODROZˇ IC´ Il mio approdo alle parole, di Ljiljana Banjanin

19

JUAN JOSÉ MILLÁS Carta straccia, di Luigi Contadini ALICE MUNRO Chi ti credi di essere?, di Andrea Veglia

SAGGISTICA LETTERARIA 20 EMANUELE TREVI Istruzioni per l’uso del lupo,

di Alfredo Nicotra ANDREA CORTELLESSA (A CURA DI) Narratori degli anni zero, di Giorgio Patrizi

FLORENCE EHNUEL Le bavardage, di Fausto Marcone MARIA TARDITI La venturina, di Giorgio Kurschinski

NARRATORI ITALIANI 21 TOMMASO LANDOLFI Diario perpetuo,

di Andrea Giardina FRANCO BUFFONI Il servo di Byron, di Fabio Zinelli ASCANIO CELESTINI Pro patria, di Francesco Morgando

PRIMO PIANO 16 La biologia della creatività, di Michele Dantini ERIC KANDEL L’epoca dell’inconscio, di Lamberto Maffei

GIANCARLO VISITILLI E la felicità, prof?, di Girolamo De Michele GIULIA BOZZOLA Una classe difficile, di Caterina Morgantini

V

La lezione dell’antropologo Clifford Geertz, di Martina Mengoni Dietro ai cancelli del Cie. Intervista ad Abigael Ogada-Osir, Emanuela Roman e Ulrich Stege, di Michele Spanò

Vecchi problemi nel nuovo Parlamento. Intervista a Elena Centemero e Francesca Puglisi, di Vincenzo Viola

22

ANDREA CANOBBIO Tre anni luce, di Roberto Ferrucci

SCIENZE 23 CHIARA CECI Emma Wedgwood Darwin,

di Telmo Pievani ELVIO FACHINELLI Su Freud, di Mario Porro

ECONOMIA 26 MASSIMO AMATO E LUCA FANTACCI Come salvare il mercato dal capitalismo, di Mario Cedrini

Babele: Diritto, di Bruno Bongiovanni

MIGRAZIONI 27 GIUSEPPE DI VITTORIO Le strade del lavoro.

Scritti sulle migrazioni, di Francesco Ciafaloni CINZIA BEARZOT I greci e gli altri, di Daniela Marchiandi

STORIA 28 GHERARDO ORTALLI Barattieri. Il gioco d’azzardo

fra economia ed etica. Secoli XIII-XV, di Giovanni Ceccarelli SILVIA EVANGELISTI Storia delle monache, di Elisabetta Lurgo ATTILIO BRILLI Dove finiscono le mappe. Storie di esplorazione e di conquista, di Federica Morelli

29

GIUSEPPE VACCA Vita e pensieri di Antonio Gramsci, di Claudio Natoli CORRADO SCIBILIA Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, di Romeo Aureli

FOTOGRAFIA 31 GABRIELE D’AUTILIA Storia della fotografia in Italia. Dal 1839 a oggi, di Daniele Fragapane CLAUDIO MARRA Fotografia e pittura del Novecento (e oltre), di Marina Miraglia

ARTE 32 ANNA DETHERIDGE Scultori della speranza.

L’arte nel contesto della globalizzazione, di Adachiara Zevi NEIL MACGREGOR La storia del mondo in 100 oggetti, di Enrica Pagella

QUADERNI 33 Camminar guardando, 25,

Esporre l’arte e la cultura araba a Parigi, di Eva-Maria Troelenberg

34

Effetto film: Django Unchained di Quentin Tarantino, di Umberto Mosca

SCHEDE 35 LETTERATURE

di Giacomo Giossi, Francesco Bigo, Elena Agazzi, Alessandra Basile e Anna Chiarloni

FONDAZIONE BOTTARI LATTES 24 Una riflessione sulla tematica omosessuale

36

FUMETTI di Chiara Bongiovanni, Fernando Rotondo e Paolo Vinçon FANTASCIENZA di Marco Lazzarotto e Camilla Valletti

SOCIETÀ 25 PIETRO BARCELLONA, PAOLO SORBI,

37

STORIA di Maurizio Griffo, Daniele Rocca, Elena Fallo e Danilo Breschi

38

CITTÀ di Cristina Bianchetti, Elisabetta Bello e Roberto Gamba

nella narrativa italiana contemporanea, di Manfredi Di Nardo

MARIO TRONTI E GIUSEPPE VACCA (A CURA DI) Emergenza antropologica, di Franco Rositi DANIELE MENOZZI Chiesa e diritti umani, di Roberto Alciati


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ne” (beni inconciliabili con la Ddr del socialismo reale). Addirittura si lanciano in un malinconico e spavaldo “avevano ancora tre chilometri fino al confine”: tre striminziti chilometri che separano dall’irraggiungibile paese dell’avere.

da BUENOS AIRES Francesca Ambrogetti

Questa volta è una raccolta di testi e non un romanzo, ma Isabel Allende non è voluta mancare all’appuntamento con i fedelissimi lettori, anzi, con Amor, intende conquistarne altri. L’editrice spagnola e quella tedesca, sulla scia della recente moda letteraria, l’hanno da LONDRA convinta di riunire in un volume i frammenSimona Corso ti più erotici dei suoi libri più noti, da La casa degli spiriti ai Racconti di Eva Luna e tanti Un giovane soldato, reduce dalla seconda altri romanzi che, tradotti in molte lingue, guerra mondiale, sonnecchia sul treno che lo hanno venduto in tutto il mondo decine di porta nella sua città natale, nel cuore delmilioni di esemplari. L’autrice ha dichiarato l’Ontario. La fidanzata, una ragazza quasi di sperare che, spinti dalla curiosità, nuovi sconosciuta di cui ha chiesto la mano nelle lettori si aggiungano alla sua legione di fan. settimane burrascose prima della partenza, Amor ha un prologo inedito, definito dallo aspetta nella stazioncina di Clover. Nell’autrice troppo lungo e innecessario, giudil’ultima lettera che gli ha spedito, lei lo incato invece dai critici corto e imprescindibiforma che sta cucendo un abito di seta verde le. Serve a Isabel Allende per fare, con la solimone, con la gonna ampia e le maniche a lita spigliatezza e senso dell’humour, una sua palloncino, che indosserà per il ritorno di sintetica biografia dedicata al ruolo che ha lui: “Così saprai che sono io e non scapperai avuto l’amore nella sua vita. Dichiara di non con un’altra”. Ma di tutto questo, della procredere, nella vita privata, nel sesso senza almessa sposa, dell’abito di seta, della goffa tri ingredienti e di aver trasmesso ai suoi per- gli aforismi di Schopenhauer, per arrivare al- lingua tedesca uscito nella Germania Est tra storia amore durata un paio di tragiche e sonaggi questa convinzione. E afferma anche l’habitus di Bourdieu. Oltre al tributo a filo- il 1964 e il 1977: i diligenti esempi che illuconvulse settimane, il lettore viene informache l’erotismo letterario ha un senso solo se sofia e sociologia, Weinrich ripercorre i si- strano il significato del verbo riportano come to alla fine della narrazione. Per quasi tutto c’è una storia che sostenga la scena. Secondo gnificati del verbo in numerose altre discipli- “i bambini oltre alle lezioni di tedesco hanno il racconto, Jackson è un uomo che, giunto la scrittrice, non basta la semplice descrizio- ne, ricordando che avere significa anche frui- anche russo” o “a storia hanno appena avuto quasi a casa, decide d’istinto di saltare dal ne di un incontro sessuale, ma bisogna tenta- re, godere positivamente di qualcosa (come la Rivoluzione di Ottobre”. Ma altrove gli treno, per schiarirsi le idee prima di ritornare di andare in fondo alle sensazioni e alle mostra la Dichiarazione universale dei diritti autori dimostrano di voler giocare con doppi re dentro la sua vecchia vita; incontra una emozioni dei personaggi. Comunque Isabel umani) e che l’avere è in tensione anche con sensi decisamente poco esemplari: formulamucca, scambia due parole con la padrona Allende preferisce non essere troppo esplici- il dare, fin dalla sistematizzazione della parti- no la richiesta “Avete delle arance?” (insieme della bestia, viene invitato nella fattoria a rita nei particolari ma creare un’atmosfera di ta doppia da parte di Luca Pacioli sul finire alle banane, merce pressoché irreperibile e storarsi; e ci rimane per quasi vent’anni. sensualità lasciando poi il resto all’immagina- del Quattrocento. Il Weinrich linguista ci of- importata solo occasionalmente da Cuba) e Train, uno dei quattordici racconti di Dear zione e all’esperienza dei lettori. Amor è divi- fre una rassegna dell’avere in vari lessici, da citano qualcuno che “ha una biblioteca con Life (Chatto & Windus, 2012), nuova meraso in vari capitoli che contengono brani dei quello storico dei fratelli Grimm a opere più molti libri, vecchi manoscritti, edizioni rare, vigliosa raccolta di Alice Munro, contiene libri su diversi argomenti. Tra gli altri il ri- recenti. Tra queste spicca un dizionario della e anche una preziosa collezione di porcellatutti gli ingredienti della sua straordinaria sveglio della sessualità, il primo narrativa: la capacità di dare vita a amore, la passione, l’infedeltà, l’irocose e personaggi dopo appena due nia e l’erotismo al tramonto della viscelta dei titoli era ineccepibile, euro, tirano titolo e autore da paragrafi, un uso sapiente dell’ellissi, ta. Ognuno è preceduto da una breanche l’alternanza, molto mossa, margine a margine della copertiun occhio acutissimo per la natura, ve introduzione con il racconto di fra gusti molto diversi, ma sem- na, alzando e abbassando di conla capacità di svelare il lato fiabesco, di Federico Novaro qualche esperienza personale delpre cercando non lo scarto late- seguenza il corpo delle font, su misterioso e imprevedibile del quotil’autrice. Sono tante storie, tante rale, o la curiosità, bensì l’opera fondo giallino in cartoncino sediano. La magia dei racconti di sfaccettature e tanti personaggi, ma Torniamo a scrivere di librini, compiuta e molata. La dimensio- milucido, appiccicano come deMunro risiede in quel misto di semalla fine si ha la sensazione di averne dopo la puntata precedente di ne, davvero tascabile, sottile, al- calcomania un’illustrazione (nesplicità e urgenza che li caratterizza. letta una sola. Il successo di Amor “Appunti”, nella quale si scrisse lungata, ne ha anche favorito la sun credit nel colophon), non Ha senso insegnare la geografia del nelle librerie argentine e in quelle di della collana “Gemme”, di Ro- dispersione, erano libri da viag- sembrano un buon segnale sullo Sudamerica a dei bambini condanaltre capitali latinoamericane è stato semberg & Sellier, soffermandoci gio, da weekend, e così piccoli si stato del marchio, che pure ha nati a morte, si chiede Vivien, protaimmediato e il libro è salito rapidaun momento sulla collana di libri- sono insinuati negli interstizi ca- avuto momenti eccellenti e semgonista di Amundsen, maestra in un mente nella classifica dei più venduni che tutti si ha avuto fra le mani salinghi, quando non irregbrava avviato a una solida sanatorio per malati di tubercolosi ti. Trattandosi di Isabel Allende cernegli ultimi molti mesi: i “Raccon- gimentati in ordinate copresenza nel mercato lialla metà degli anni quaranta? Perto non è una sorpresa. ti d’autore”, venduti a 50 centesi- lonne, dove li troverebrario italiano. La Nuova ché no, se i fiumi del Sudamerica mi come allegati al domenicale del mo fra decenni. Il procasa editrice Berti è una possono far sorgere altri mondi al di “Sole 24 Ore”. Interrottasi con il getto grafico era un poco di quelle cose moderne là della sponda del lago? Può una numero 78, cosa che avrà distur- debole, è l’elemento che provano ad affrontada FRANCOFORTE madre continuare a vivere dopo che bato anche il più tenue e sopito che impedirà loro di dire il marasma dell’acla primogenita è colata a picco con il Anna Castelli spirito collezionista. Su Facebook ventare davvero, fra coppiata crisi più smateriasuo cappottino a scacchi nella diga una pagina fan si colma di speran- vent’anni, vintage, non lizzazione proponendosi coNell’età della crisi c’è un verbo inghiacciata dietro casa? E se per di ze illusorie sulla sua futura conti- davvero coraggioso, un po’ lezio- me fornitori di servizi, sono i sertorno a cui tutto gira: “avere”. Acpiù è incinta? “Mia madre non si nuazione. Sono decenni ormai so, in copertina con quella curva vice editoriali che stanno velocecanto al povero, al precario, al disocgettò nell’acqua. Non entrò in travache con i quotidiani escono libri, sul filo del dorso che sembrava mente diffondendosi, accorpancupato, c’è chi ha casa e case, penglio per lo shock. Mio fratello Brent e, come “I Quindici”, o “Sapere” ripresa dai Bompiani di un de- do competenze, mettendo in cosione, certezza del futuro, e imperarrivò una settimana o dieci giorni negli anni settanta, i libri “allega- cennio fa, la font dimenticabile e mune spese fisse e locali, e forterrito accumula, uno sopra l’altro, dopo il funerale, e nacque perfettati” hanno modificato molti pano- la scelta iconografica un po’ dis- nendo contenuti e grafica ed edibeni e possessi, opponendo alla mente a termine” dice la protagonirami domestici. Lunghe file ugua- eguale. Eppure, in questi tempi ting, e oltre a questo pubblicanstringatezza e al pallore dell’essere la sta di Gravel, uno dei racconti più li di dorsi. Sono, come i loro pre- di vacche magre, sono stati dei li- do un po’. Piacentini, pubblicaprosperità un po’ impudente dell’abelli. A raccontarci questa storia è la cedenti a fascicoli, l’immagine ras- brini che hanno investito in intel- no raffinati libri di cucina, di vere. La nerissima recessione degli sorellina di mezzo, di sei o sette anni sicurante di una cultura popolare ligenza (la scelta e l’alternanza food, come usa dire, repêchage e ultimi anni ha disegnato nuovi sceall’epoca degli eventi narrati, poco prima che pop, tradotte poi nelle dei titoli) molto più che altre pa- cose inedite, un po’ inconsuete, nari narrativi anche qui in Germapiù che ventenne all’epoca del racprese in giro dei libri finti, per il ludate o trendy collane, sottiline con la leggerezza di chi sa di non nia: tra questi troviamo Rainald conto. Magicamente Munro riesce a loro “fare arredamento”: erano la o spessone. ambire a essere fianco a fianco Goetz e il suo Johann Holtrop, mafarci sentire entrambe le voci: quella fiera e onesta resistenza alle chicMa veniamo all’oggi, e in libre- con l’ennesimo Camilleri, ma di nager senza scrupoli arricchitosi nedisorientata della bimba che vive la cheria del total white Einaudi pri- ria, che librini ce n’è tanti: quelli potersi ritagliare un piccolo mergli anni del boom e poi sprofondato tragedia e quella matura della donna ma e del pastello scuro Adelphi di Elliot si chiamano “Lampi”, il cato fra il pubblico colto e curionella miseria (Suhrkamp, 2012); Inche per tutti gli anni a venire ha cerpoi (fu un passaggio che segnò programma editoriale è così vago so che legge per il piacere dell’ingo Schulze con il saggio Unsere schöcato di assorbirla. Molti racconti un’epoca) nelle fotografie delle li- da sembrare una parafrasi di telligenza con leggerezza, fra sagnen neuen Kleider (Hanser Berlin, ruotano intorno al tema della perdibrerie lussuose e belle del design “qualunque cosa”: “testi brevi di gistica e narrativa hanno anche 2012) delinea invece lo scenario di ta, di persone care, di amori, di luoitaliano fra i settanta e gli ottanta. grandi autori, racconti, riflessio- loro i loro bravi librini: piccolini una società contemporanea dominaghi, di sogni accarezzati e non vissuRitratte con spirito parodistico e ni, meditazioni, opere sia di nar- e in brossura ma non esilissimi ta dal mercato e dal profitto, e dalla ti, ma esplorano al contempo quel grottesco nei film di Fantozzi, vi- rativa sia di saggistica”; non più (L’agrifoglio di Dickens, 120 paperdita di diritti individuali. Ma cocompito difficilissimo che è tornare ste oggi sembrano purissimi esem- progettati da Maurizio Ceccato, gine per 9 euro; Lunedì o martedì me è risolvibile la tensione tra essere a essere normali dopo il dolore. Per pi di gusto trendy e up the date. che ne aveva fatto uno dei sui di Virginia Woolf, 112 pagine per e avere? In quali sfumature di signilo più i personaggi di Munro ci riEra tempo però (forse gli ulti- esercizi più compiuti, i libri El- 8 euro), un progetto grafico non ficato si stemperano i due verbi? escono, con fatica, tenacia, coraggio mi sono stati quelli di “la Repub- liot, così come questi “Lampi”, coraggioso ma corretto e piaceCon Über das Haben. 33 Ansichten o compassione, perché, come si legblica” una decina di anni fa) che soffrono della nuova mano (non vole. Non saranno i librini la ri(Beck, 2012) Harald Weinrich, poge nell’ultimo dei quattro pezzi autouna collana non riconquistava il indicata nel colophon). Cari, sposta al marasma scatenatosi liedrica figura di studioso e intelletbiografici che chiudono la raccolta, suo spazio nel paesaggio dome- molto cari: Vermeer di Sylvie nelle librerie e nelle case editrici, tuale, coniuga in trentatré modi il “diciamo che alcune cose non si posstico. È interessante che l’abbia Germaine, 58 pagine, brossura ma almeno, se sono belli, possiaverbo avere, riabilitandone il ruolo e sono perdonare, o che non ci perdofatto una collana di librini. La con alette, 18 x 15 cm, costa 10 mo esserne contenti. l’importanza rispetto all’essere: dalle neremo mai. Ma poi lo facciamo – lo categorie aristoteliche, passando per facciamo in continuazione”.

VILLAGGIO GLOBALE

Appunti


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L’antischiavismo come cardine del pensiero evoluzionista L’urlo dello schiavo che turbò Darwin di

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all’anno della sua scomparsa, il 1882, Charles Darwin è stato oggetto di circa trenta biografie. Adottando un’accezione più larga del riferimento biografico e limitandosi ai cataloghi inglesi e americani, si arriva a oltrepassare i duemila contributi. Un’attenzione storiografica superiore a quella per Isaac Newton. A proposito del grande naturalista britannico si può ormai parlare a buon diritto di “metabiografia”: studiosi di diverso orientamento, ma accomunati dall’adozione dell’approccio biografico nella storia della scienza, hanno ricostruito e reinventato la figura di Darwin in contesti sociopolitici e culturali profondamente differenti. La biografia di Darwin, in sostanza, ha una sua storia specifica, che ci dice molto su come la biologia e la scienza sono state interpretate dalla fine del XIX secolo a oggi. Nel 1887, furono i tre volumi del figlio Francis (The Life and Letters of Charles Darwin) a fissare il canone della biografia vittoriana di Darwin: un ritratto dominato dai valori dell’umiltà, della rispettabilità sociale, dell’onestà intellettuale, oltre che da un’infaticabile capacità di lavoro. Negli anni venti e trenta, Gamaliel Bradford ed Emma Nora Barlow da un lato secolarizzarono la figura di Darwin, facendone una delle icone della modernità, dall’altro contribuirono ad approfondire gli aspetti psicologici della sua vicenda intellettuale e familiare. All’indomani della seconda guerra mondiale e sulla scia delle celebrazioni, nel 1959, del primo centenario dell’Origine delle specie, prevalse il Darwin biologo, presentato quasi come anticipatore della Sintesi Moderna e dell’unificazione delle scienze della vita: i lavori di Ernst Francesco Cassata Mayr e Julian Huxley furono decisiDarwin, dall’antischiavismo vi nell’elaborazione di questa interall’evoluzionismo pretazione storiografica, ma anche gli studi di Arthur Keith, Frank J. Gianni Vattimo Sulloway, Gavin de Beer fornirono argoQuale metafisica, quale realtà? menti in favore dell’immagine di Darwin come “Newton della biologia”. Nello Raffaella Scarpa stesso tempo, Loren Eiseley (Darwin’s Ontologia, critica, illuminismo Century, 1958), Bentley Glass (Forerunners of Darwin, 1959), John C. Greene Mario De Caro Death of Adam, 1959), Alvar Elle(The Fra realismo e antirealismo gärd (Darwin and the General Reader, 1958), Milton Millhauser (Just before Gian Carlo Ferretti Darwin, Robert Chambers and Vestiges, Il carteggio fra Giorgio Bassani 1959) detronizzavano Darwin dal suo e Marguerite Caetani ruolo di solitaria icona eroica, collocando la sua figura nel più ampio contesto Daniele Santero culturale della storia dell’evoluzionismo Le pagine romanzesche sulla vita nella seconda metà dell’Ottocento. L’edi Rosalba Carriera splosione di studi degli anni ottanta e novanta, cui si fa a volte riferimento con l’iChiara Prezzavento ronica (e un po’ ingiusta) definizione di Agata Christie e il giallo classico Darwin industry, ha ulteriormente approfondito quest’ultimo orientamento, Roberto Burlando dimostrando – alla luce di una crescente La parabola del microcredito documentazione archivistica – come la “rivoluzione darwiniana” non sia stata Martina Mengoni propriamente una rivoluzione né possa La lezione dell’antropologo essere attribuita soltanto a Charles DarClifford Geertz win, ma vada piuttosto considerata all’interno di un contesto più vasto, caratRenata Pisu terizzato da una pluralità di figure intelLa recente narrativa cinese femminile lettuali (Chambers e Wallace, prima di tutti) e da dinamiche di lungo periodo, Michele Spanò connesse a processi di sviluppo scientifiDietro ai cancelli del Cie. co-tecnologico, secolarizzazione, induIntervista ad Abigael Ogada-Osir, strializzazione, professionalizzazione, Emanuela Roman e Ulrich Stege mutamento socioeconomico. Molti sono

Francesco Cassata

i nomi da ricordare in questa straordinaria ondata di ricerche: Peter L. Brent (Charles Darwin, a Man of Enlarged Curiosity, 1981), Peter J. Bowler (Charles Darwin: the Man and His Influence, 1990), John Bowlby (Charles Darwin: a Biography, 1990), fino alle due magistrali biografie degli anni novanta, quella di Adrian Desmond e James Moore, tradotta da Bollati Boringhieri nel 1992 e ristampata nel 2012, e quella di Janet Browne, in due volumi (Voyaging, 1995, e The Power of Place, 2002), che ancora attende invece una versione in italiano. Nel 2009, quando, in occasione del bicentenario dell’Origine delle specie, Desmond e Moore pubblicano Darwin’s Sacred Cause (La sacra causa di Darwin. Lot-

ta alla schiavitù e difesa dell’evoluzione, ed. orig. 2009, trad. dall’inglese di Isabella C. Blum e Gianni Rigamonti, introd. di Giulio Giorello e Telmo Pievani, pp. 694, € 44, Raffaello Cortina, Milano 2012), non è dunque affatto facile dire qualcosa di nuovo. Eppure, con quella combinazione tra prospettiva biografica e analisi socio-costruttivista che caratterizza il loro approccio metodologico, i due storici britannici propongono un punto di vista originale e provocatorio, espresso con chiarezza nel sottotitolo dell’edizione originale: How a hatred of slavery shaped Darwin’s views on human evolution. Una “passione morale”, l’odio per la schiavitù, come cardine della genesi e dello sviluppo della teoria darwiniana. Nell’indagare a fondo l’antischiavismo di Darwin, Desmond e Moore si immergono in un’enorme mole di documenti: gli appunti di Darwin, le annotazioni spesso criptiche vergate in margine ai libri, i diari di bordo delle navi, le liste dei libri letti, e soprattutto i taccuini pubblicati e le lettere, circa quindicimila quelle attualmente conosciute, con una rete di oltre duemila corrispondenti in tutto il mondo. Nella ricostruzione della “crociata” scientifica condotta contro la schiavitù, il libro raggiunge in alcuni capitoli (quelli che maggiormente affondano nell’analisi delle fonti primarie) vette di notevole potenza narrativa e storiografica.

Nel capitolo quarto, ad esempio, il viaggio del Beagle assume un significato particolarmente originale rispetto a precedenti ricostruzioni. Mentre Darwin si imbarcava a bordo di un piccolo brigantino che avrebbe circumnavigato il mondo in un viaggio durato cinque anni, i membri del parlamento britannico dibattevano quel Reform Bill, che avrebbe aperto le porte al governo Whig, sostenuto attivamente dai familiari di Darwin e responsabile dell’emancipazione degli schiavi nei possedimenti inglesi, nel 1833. Il giovane Charles era partito dalle coste britanniche con un bagaglio etico nella stiva, quello delle convinzioni antischiaviste delle sorelle e della propaganda abolizionista che circolava a Shrewsbury. Nel corso del suo viaggio, quanto appreso dai libri avrebbe trovato conferma nell’esperienza diretta, nella brutale realtà della schiavitù ai tropici: l’urlo lontano di uno schiavo torturato, udito a Pernambuco, avrebbe tormentato Darwin per tutta la vita. Allo stesso modo di straordinaria efficacia appaiono i capitoli centrali del libro, nei quali le ricerche sulla domesticazione vengono connesse al parallelo dibattito tra pluralismo e unitarismo nella definizione delle razze umane. Che si trattasse di schiavi o di animali da allevamento, a metà Ottocento la domesticazione era infatti alla base di una ricca produzione di libri a favore o contro l’unità degli esseri umani: per alcuni, i piccioni capitombolanti rimanevano piccioni capitombolanti, così come gli esseri umani bianchi e neri erano sempre stati rispettivamente tali, separati dall’origine; per altri – e innanzitutto per Darwin – le varietà addomesticate, e quindi anche l’uomo, avevano invece avuto un’origine comune. Per questo motivo (e, in ultima analisi, per distruggere il pluralismo e il filoschiavismo di Louis Agassiz) Charles Darwin, alla fine del 1854, cominciava a riempire la sua casa di campagna di cani, conigli, anatre e oche. E soprattutto di piccioni domestici, provenienti da ogni angolo del mondo: la piccionaia di Down House si tramutava nel laboratorio della “variazione e dell’origine delle specie”, l’albero genealogico dei piccioni diveniva metafora dell’albero genealogico dell’umanità. Si può essere in disaccordo con Desmond e Moore nell’individuazione dell’antischiavismo come radice unica dell’evoluzionismo darwiniano, e in alcuni passaggi – come nella ricostruzione del rapporto di Darwin a Edimburgo con un tassidermista nero della Guyana, liberato dalla schiavitù – l’analisi appare meno ancorata alle fonti e più congetturale. Ma se c’è un’immagine che le pagine di Darwin’s Sacred Cause contribuiscono a demolire definitivamente è quella – purtroppo ancora così diffusa nel dibattito pubblico italiano – che associa Darwin al razzismo scientifico. Per chi leggerà questo libro nella bellissima edizione Cortina, la data del 12 febbraio 1809 – giorno della nascita di Charles Robert Darwin e di Abraham Lincoln – apparirà una co■ incidenza forse non così casuale. francesco.cassata@unige.it F. Cassata insegna storia contemporanea all’Università di Genova


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Realismo, antirealismo o nuovo realismo? Ospitiamo un acceso approfondimento tra Quale metafisica, quale realtà? di Gianni

he differenza c’è tra il bisogno di metafisica affermato dalle auctoritates, che lamentano la perdita della morale civile e religiosa dei popoli rovinati dal “nichilismo” postmoderno, dal multiculturalismo dilagante, in fondo dall’eccesso di libertà – da un lato – e il bisogno di metafisica dei rivoluzionari e di tutti i rivoltosi che si sentono legittimati dai “diritti umani” universali? La differenza, come è facile vedere, sta nel fatto che alcuni invocano la metafisica per mantenere lo status quo – la morale familiare tradizionale, il potere sacrale delle gerarchie religiose, anche semplicemente la validità “oggettiva” della scienza ufficiale o l’indiscutibilità dell’opinione pubblica mainstream dei grandi giornali e delle grandi catene televisive; mentre altri si richiamano alla metafisica come a una verità che si oppone criticamente allo status quo e vuole cambiarlo. Viene in mente qui una frase di un grande filosofo nordamericano (e grande amico) scomparso negli anni recenti, Richard Rorty, che diceva: “Prendetevi cura della libertà, la verità si difenderà da sé”. Inteso in questo senso, il “bisogno di metafisica” non è qualcosa di nuovo, ha una storia identica a quella dell’umanità o almeno dell’homo sapiens, dell’homo politicus che vive in una società e deve fare i conti con i rapporti di forza. Questo si può esprimere con l’aforisma con cui Nietzsche inizia il primo volume di Umano, troppo umano: “I problemi filosofici riprendono oggi la stessa forma che avevano duemila anni fa”.

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- Filosofia

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a ciò perché, come Nietzsche indica in tante altre pagine della sua opera, viviamo ormai in una società caratterizzata da una “selvatichezza indiana” (la società capitalistica già così fiorente al suo tempo), dove – ed è questo il senso del nichilismo che noi chiamiamo postmoderno – i valori supremi si sono svalutati, e vige un politeismo dei valori, come lo chiama Max Weber, in cui nulla funge più da punto di riferimento definitivo e bisogna prender atto che nessuno può parlare dal punto di vista (divino) della verità universale. Anche i differenti significati che può assumere il bisogno di metafisica esprimono il politeismo dei valori, sono resi possibili dall’avvento del nichilismo. Riassumo: il bisogno di metafisica caratterizza tutta la storia dell’essere umano civilizzato – il quale nella comunità in cui vive ha bisogno di legittimazione sia nei confronti dei suoi simili, sia nella relazione con la propria coscienza morale (che ha introiettato le aspettative della comunità e verso cui si sente responsabile). Oggi, questo bisogno si fa sentire in modo più prepotente e urgente, perché le stesse condizioni della civilizzazione entro cui viviamo hanno condotto al politeismo dei valori, o a quella che con Nietzsche chiamiamo la scuola del sospetto: non ci fidiamo più delle pretese di universalità della verità, anche e soprattutto perché nel mondo moderno sempre più globalizzato hanno preso la parola culture e “metafisiche” diverse. Ciò è stato possibile anche e soprattutto perché l’universalismo della filosofia europea e occidentale è stato messo in discussione, praticamente, dalle rivolte dei popoli cosiddetti primitivi, che hanno fatto valere le proprie ragioni. In questa situazione, il bisogno di metafisica si fa sentire ormai solo in due formulazioni irriducibili l’una all’altra: o quella delle auctoritates, che hanno interesse a mantenere l’ordine, per dir così, che garantisce anche il loro potere (siano essi papi o comunità scientifiche autorizzate e finanziate da governi e corporations); o quella degli esclusi che vogliono cambiare lo status quo e cercano una legittimazione del loro progetto. Il “metà”, l’oltre, di “metafisica” ha dunque due significati: una verità oltre il visibile e il sapere quotidiano, che è posseduta solo dalle auctoritates; o una “verità” progettuale che non si fonda sui fatti e i “dati”, ma sulla forza del progetto stesso. Capisco che una situazione come questa appaia “pericolosa” e sembri persino poco “filosofico” tentare di esprimerla. Eppure anche questa tesi può richiamarsi a illustri precedenti filosofici: Nietzsche come teorico del nichilismo compiuto nella storia

del pensiero e della scienza europea; Heidegger co- totalitario. Per lui e gli esistenzialisti dell’epoca si me critico della metafisica in quanto preteso rispec- trattava di opporre a tutto questo una nuova onchiamento della “realtà” da rispettare anche come tologia, appunto una concezione dell’essere che norma dell’agire umano. Quando Nietzsche scrive rendesse pensabile la libertà e il futuro. Come per Heidegger a inizio del secolo passato, che Dio è morto, ed è stato ucciso dai suoi fedeli, vuol dire semplicemente quello che noi intendiamo così anche per noi quello che appare come un nuoparlando di postmoderno: è la stessa progressiva in- vo bisogno di metafisica non è ispirato da ragioni tegrazione del mondo sotto la spinta delle forze po- teoriche; noi abbiamo bisogno di meta-fisica, di un litiche e tecniche della modernità che determina al- “oltre”, perché nel frattempo la Verwaltung è dila fine il politeismo dei valori nel quale non c’è più ventata sempre più totale, con la differenza che oguniversalità possibile. All’annuncio che Dio è mor- gi è anche infinitamente più visibile. Nessuno, o to, Nietzsche aggiunge anche l’invito: ora vogliamo quasi nessuno, crede più alle verità metafisiche che vivano molti dèi. Per l’appunto. Muore l’unità “universali”. Come nel caso della morte di Dio di moderna – imperialista, colonialista, tecnico-scienti- Nietzsche, i nuovi dèi, o anche semplicemente un fica e anche metafisica – del mondo; e la possibilità nuovo dio in cui sperare non può più essere il dio della pace – che finora era assicurata dall’unità di un della metafisica classica, quello che Pascal chiamadominio (imperi, poteri sovranazionali, chiese) – si va il dio dei filosofi. Così la metafisica di cui senpuò realizzare solo riconoscendo le molte metafisi- tiamo il bisogno non può più pensarsi come verità necessaria, data, universale. che e creando le condizioni Le rovine prodotte dalle perché esse aprano negoziati Pubblico qui il testo inedito, leggermente tra di loro. La verità univer- abbreviato, della conferenza tenuta il 24 ot- pretese universalistiche del sale non è alla base e all’ini- tobre 2011 su invito della Alexander von pensiero europeo (persecuzio di tutto, la si può realiz- Humboldt Stiftung. È quello che direi se mi zioni religiose, colonializare solo alla fine, attraverso mettessi a scrivere ora uno pseudo-nuovo in- smo, fondamentalismi di il libero consenso. tervento sul tema del realismo. Chi ha orec- ogni tipo) sono ormai visibiInutile dire che nell’alter- chie per interpretare, interpreti. G.V. li a tutti. È per questo che anche i poteri tradizionali nativa tra metafisica delle (chiese, stati, scienza uffiauctoritates e metafisica degli esclusi, la metafisica buona, da scegliere, è la ciale, etica) invocano la metafisica, perché stanno seconda. Non solo per amore degli esclusi, né so- perdendo la loro credibilità, e vogliono di nuovo lo per simpatia con il pensiero ancora metafisico controllare le coscienze, i fedeli dei “molti dèi”, di Marx, per il quale chi è espropriato, e dunque mediante principi unitari e assoluti. Contro di losenza veli ideologici, vede la verità vera. C’è alla ro, si leva l’esigenza di una metafisica che, come base della scelta che preferisco un’idea dell’essere suggeriva Rorty, prediliga la libertà rispetto alla vee della filosofia che mi viene anzitutto da Heideg- rità “oggettiva”. La quale ha sempre bisogno di un ger, che con Sein und Zeit ha criticato definitiva- potere assoluto per farsi valere. L’azione per renmente (così pare a me) l’idea che l’essere sia una dere possibile una società dove le diverse metafisistruttura stabile data che il pensiero dovrebbe ri- che possano liberamente confrontarsi, negoziando specchiare adeguatamente e rispettare come nor- accordi che non le costringano a rinnegarsi in noma. È la metafisica intesa in questo modo quella me di una verità assoluta – anche una tale azione che, alla fine, esclude la libertà, la storicità, la richiede un impegno “metafisico”. Posso suggeristruttura aperta dell’esistenza. Heidegger formu- re che un simile impegno ha più da fare con il prelava questa critica negli anni venti del Novecento, cetto religioso, non solo cristiano, della carità, anche lui per ragioni non puramente teoriche: piuttosto che con il raggiungimento di principi ulprendeva atto, insieme alle avanguardie artistiche timi che garantirebbero la pace costringendo tutti ■ e intellettuali dell’epoca, che la metafisica oggetti- a riconoscerli come veri? vistica stava producendo alla fine l’oggettivazione gianni.vattimo@europarl.europa.eu universale dell’umano e preparava quella che la G. Vattimo è professore emerito di filosofia teoretica Scuola di Francoforte avrebbe chiamato la società all’Università di Torino della totale Verwaltung, del dominio razionalistico

Ontologia, critica, illuminismo di Raffaella

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realismi, si sa, sono spesso interpretati a posteriori come movimenti reattivi, talvolta ridimensionati nel tempo dagli stessi protagonisti, anche abiurati: delle avanguardie ingenue. Questo per molte ragioni, ma innanzitutto per una che le comprende tutte, l’evidente difficoltà di elaborazione di paradigmi complessi ed efficaci legati al principio di realtà. Come se la realtà, in quanto cognizione rozza e dialetticamente impermeabile, per essere affrancata da quella impasse tautologica che la zavorra necessitasse di ideologie estreme, sovraesposte e dunque particolarmente fragili alla prova del tempo; lo stesso concetto di reale trattato e raffinato attraverso ridefinizioni, attribuzioni, classificazioni distintive che lo nebulizzano (“Non potendo impedire che le cose accadano, si trova pace fabbricando scaffali” scriveva Pasolini). Tutto questo perché, tradizionalmente, ciò che si dà “per evidenza” è refrattario alla speculazione, anzi ne costituisce un ostacolo.

Scarpa

Non c’è realismo che in qualche modo non abbia pagato la superstizione culturale per cui la presa d’atto è in sé una resa al cospetto dei fatti, il mantra paronomastico “accertare è accettare”, il sincretismo semantico per cui “osservare” è un vedere che implica l’obbedienza a ciò che sta davanti agli occhi. Lo sapeva bene Fortini quando metteva in guardia gli emancipatori progressisti che lo accusavano di concentrarsi su un oggetto inerte e reazionario – la realtà, appunto – dicendo: “La realtà misconosciuta si vendica”. Proprio dal rapporto necessario che lega realtà e giustizia muove il Nuovo realismo di Maurizio Ferraris (“Sono convinto che proprio la realtà, per esempio il fatto che è vero che il lupo sta a monte e l’agnello sta a valle, dunque non può intorbidargli l’acqua, sia la base per ristabilire la giustizia”), un realista non d’occasione se si pensa che Estetica razionale, il trattato che rifon-

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due filosofi e una linguista sulla disputa che continua a infiammare passioni intellettuali L’alternativa è tornata disponibile

e vi trovaste al posto del tenente Hiroo Onoda, voi come vi comportereste? Siete ufficiali dell’esercito nipponico, l’onore è la bussola della vostra vita e a difendere il vostro paese in quell’isola sperduta siete rimasti solo voi. Cos’altro potreste fare, se non continuare a combattere? Peccato solo che nessuno vi abbia avvertito che la guerra è finita da quarant’anni. Nella sua disinformata coerenza, il povero Hiroo ci è simpatico. E altrettanto simpatici ci sono i filosofi che oggi ancora persistono nella loro indefessa battaglia contro il realismo. Ma, anche in questo caso, purtroppo nessuno li ha avvertiti che la guerra è finita da tempo. Oggi, infatti, il tipo di realismo contro cui qualche decennio fa postmoderni, relativisti, decostruzionisti e pensiero-debolisti iniziarono la loro guerra è ormai morto e sepolto. E questo è un bene, perché si trattava di una concezione semplicistica e intellettualmente asfittica: una concezione che postulava un “ready-made world” – un mondo bell’e pronto – e un linguaggio che facilmente vi si adattava per restituirci la verità, tutta la verità e solo la verità. Quel realismo presupponeva l’esistenza di un’unica storia completa del mondo: era dunque, per dirla con Hilary Putnam, un sin troppo ingenuo “realismo metafisico”. La reazione contro quella concezione da parte di Rorty e Derrida, Kuhn e Feyerabend, Foucault e Vattimo fu dunque del tutto giustificata. Da qualche anno, però, la situazione nel mondo filosofico internazionale è molto cambiata: il realismo è tornato ma in forme nuove, molto più sofisticate e sostanzialmente immuni dalle critiche che toccavano il realismo metafisico di qualche decennio fa: e per questo è giusto il termine “Nuovo realismo” proposto da Maurizio Ferraris. Da noi, però, due tipi di filosofi non sembrano essersi accorti di questo drastico cambiamento di panorama: da una parte ci sono quelli che sapientemente circoscrivono le proprie letture e frequentazioni nei patri confini; dall’altra parte ci sono quelli che, sebbene non ignari di ciò che accade all’estero, semplicemente fanno finta di niente. Rispetto alla questione del ritorno del realismo entrambe queste categorie – quella dei filosofi stanziali e quelli dei filosofi dissimulanti – raccontano storie spesso divertenti, ma molto fantasiose. Per questo, qualche precisazione sul tema può essere utile. Come detto, i filosofi stanziali – quelli per cui la filosofia coincide

▼ da l’estetica non come filosofia dell’arte ma come ontologia della percezione e dell’esperienza sensibile, è del 1997. Ma cos’è il Nuovo realismo, che in diciotto mesi di dibattito ha sollecitato più di ottocento interventi (la rassegna stampa è consultabile all’indirizzo: http://labont.it/ferraris/ rassegna-nuovo-realismo), circa trenta fra volumi e numeri monografici di rivista e che per l’eccezionalità della risposta, la varietà dei media implicati, la quantità dei contributi viene studiato da massmediologi e linguisti come caso paradigmatico della forma-dibattito nella contemporaneità? Sintetizzo riferendomi all’articolo di Ferraris che apre il dibattito, uscito su “Repubblica” l’8 agosto 2011 e al Manifesto del nuovo realismo (pp. XI-113, € 15, Laterza, Roma-Bari 2012): il Nuovo realismo è in primo luogo una rendicontazione di alcuni fenomeni storici, culturali, politici (l’analisi del postmoderno sino alla sua degenerazione in populismo mediatico); in secondo luogo la messa in chiaro degli esiti prodotti da tali condizioni nel pensiero contemporaneo (i realismi filosofici nazionali e internazionali, le “teorie della verità”, a partire dalla fine del secolo scorso, come reazione a una devianza del rapporto tra individuo e realtà); da ultimo la proposta di un correttivo personale a un’ideologia che ha generato una prassi degradata della relazione con il

con l’editoria nostrana, se non con le pagine culturali dei quotidiani – sono beatamente ignari del ritorno del realismo. Per loro il realismo è roba vecchia e i nuovi realisti sono solo pochi filosofi italiani che, per ragioni generazionali, vogliono differenziarsi dai maestri. In realtà, piaccia o non piaccia, il realismo è tornato prepotentemente in auge nel dibattito internazionale – specialmente nel mondo filosofico analitico, ma in buon misura anche in quello continentale – e questo è semplicemente un fatto. Tuttavia, come detto, il realismo è tornato in forme nuove. Un chiaro caso in questo senso è offerto dalla filosofia della scienza ove, tanto per fare un esempio, l’interpretazione antirealistica della

meccanica quantistica, un tempo egemonica, è oggi divenuta minoritaria. Sino a un paio di decenni fa, invece, molti filosofi della scienza erano radicalmente antirealisti, al punto da ritenere che le argomentazioni eliocentriche di Galileo non fossero migliori di quelle di Bellarmino e dei tolemaici. Sullo sfondo di quell’idea c’era il relativismo di Feyerabend e Kuhn. Quest’ultimo, in particolare, riteneva che gli scienziati fautori di “paradigmi scientifici” alternativi vivessero in realtà in “mondi differenti” (come il mondo delle qualità aristoteliche o quello delle quantità, proprio della scienza moderna) e dunque ognuno potesse parlare soltanto del “proprio” mondo, ma non di quelli diversi dal suo. Negli ultimi anni, però, un realismo scientifico molto sofisticato ha avuto la meglio sul relativismo e oggi nozioni come realtà, verità, ogmondo (il Nuovo realismo si identifica infatti nell’azione sinergica di tre parole chiave: ontologia, critica, illuminismo). Sono almeno due le condizioni che hanno reso il Nuovo realismo difficilmente riducibile, sottraendolo a quel senso di contingenza, di occasionalismo, che caratterizza i realismi “storici”: la sua natura non teorica ma constatativa, presentandosi non come la proposta di una teoria ma la presa d’atto di una svolta storica e culturale di fatto già avvenuta; il valore di mezzo d’intervento delle parole-chiave ontologia, critica, illuminismo. Nell’analisi del dibattito è infatti proprio questa possibilità applicativa, da strumento d’azione, che emerge con forza soprattutto negli ultimi mesi, passata quindi la lunga fase in cui la violenza della polemica e l’attacco ad personam hanno per un certo tempo svuotato il discorso dei suoi stessi contenuti arenando e viziando la discussione. Ciò che oggi è interessante constatare è come saperi extrafilosofici (psicologia, pedagogia, diritto, critica letteraria, architettura, medicina, linguistica) siano impegnati in una riflessione che parte dal Nuovo realismo per la ridefinizione degli specifici paradigmi disciplinari, denunciando innanzitutto una comune urgenza di verità, perché “se tu non vuoi più credere alla verità, nessuno vorrà più credere a te” (Zelman Lewental, Sonderkommando del Crematorio II, AuschwitzBirkenau, 15 agosto 1944).

gettività sono tornate a essere il pane quotidiano dei filosofi della scienza. Ma il ritorno del realismo è evidente anche nella filosofia del linguaggio e in etica, nella filosofia della matematica e in quella della mente. La Stimmung della filosofia contemporanea ha indubbiamente carattere realistico. Il ritorno del realismo non significa però che oggi i filosofi siano integralmente realisti: nessun filosofo di rilievo, d’altra parte, lo è mai stato. Prendiamo per esempio tre arcirealisti come Aristotele, Marx e Meinong: Aristotele era antirealista rispetto alle idee platoniche, Marx rispetto a Dio, e Meinong rispetto alle entità contraddittorie, come i quadrati rotondi. Analogamente, nessuno è stato mai integralmente antirealista: il vescovo Berkeley, per esempio, era antirealista rispetto al mondo materiale, ma realista convinto rispetto al mondo spirituale. Gran parte della storia della filosofia è la storia dei modi in cui i vari filosofi si sono collocati all’interno dello spettro teorico tra un ipotetico realismo integrale e un altrettanto ipotetico integrale antirealismo. Il senso più profondo del nuovo realismo è proprio che con esso l’alternativa realismo/antirealismo – che ogni filosofo può declinare a piacere rispetto ai vari ambiti che studia – è tornata disponibile. E il problema principale di postmoderno, decostruzionismo ecc. è proprio che queste concezioni rifiutano l’alternativa realismo/antirealismo una volta per tutte, considerandola un obsoleto retaggio della vecchia metafisica. Ma così buttano via, oltre all’acqua sporca, anche il bambino e pure la vasca: perché senza le categorie proprie delle discussioni sul realismo la filosofia perde uno strumentario concettuale essenziale. Detta diversamente: si può essere antirealisti in molti ambiti; ma pretendere di esserlo in tutti è soltanto un gioco di parole. Sui nostri quotidiani ogni tanto si legge che i realisti non sarebbero in grado di spiegare l’esistenza delle convenzioni e, quando ci provano, ricadrebbero inevitabilmente nell’assolutismo. La categoria dell’assolutismo è però del tutto inadeguata per discutere del realismo di oggi: e per questo si ritrova molto raramente nelle discussioni professionali. In effetti, nessun realista di oggi contesta l’esistenza delle convenzioni; inoltre tutti accettano il fallibilismo e negano che per giudicare i problemi filosofici si debba, o si possa, acquisire “lo sguardo da nessun luogo” (ossia il punto di vista vanamente ricercato dalla metafisica tradizionale). I nuovi realisti sanno bene che noi siamo come navigatori che devono orientarsi in mare aperto, senza poter mai scendere dalla propria barca. Tuttavia ogni tanto qualche antirealista in vena di celie prova a sostenere che, siccome esistono alcune convenzioni, allora tutto è convenzionale. Questo ragionamento ha però la stessa forza di quello secondo cui, dato che tutti gli oggetti sono poggiati da qualche parte, anche la Terra ha bisogno di un punto d’appoggio. Non è vero che il nuovo realismo neghi ogni merito al postmoderno e al decostruzionismo. Un libro come Orientalismo di Edward Said, per esempio, è senz’altro un caposaldo della critica culturale perché ha provato come la cultura dominante abbia usato largamente un costrutto teorico illecito: ovvero quello di un “Oriente” esteso dal Maghreb all’Indonesia. Said ha dimostrato che questo concetto, essendo nulla più che il fittizio prodotto della mentalità e delle pratiche del colonialismo, non ha alcun corrispettivo reale. Ma ciò non mostra forse che le decostruzioni possono aiutarci a vedere la realtà che il potere e la forza cercano di deformare? E, di questo, i realisti non possono che essere contenti. Il realismo è dunque tornato, ma in nuove forme; e ciò è anche merito delle serrate critiche che gli antirealisti mossero contro il vecchio realismo. Ma, quando una guerra finisce, è il momento di procedere oltre. Alla fine lo capì anche il tenente ■ Hiroo Onoda. mario.decaro@gmail.com M. De Caro insegna filosofia morale all’Università di Roma Tre

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La principessa e lo scrittore: il carteggio tra Giorgio Bassani e Marguerite Caetani Scrivo, scrivo, scrivo e mi riposo che ero stanca morta di Gian

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a vera novità, direi la rivelazione del carteggio Bassani-Caetani è proprio lei, la principessa Marguerite Caetani duchessa di Sermoneta (Giorgio Bassani e Marguerite Caetani, “Sarà un bellissimo numero”. Carteggio 1948-1959, a cura di Massimiliano Tortora, pp. 219, € 35, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012), e non soltanto perché possiamo leggere 124 sue lettere inedite, primo vero corpus in proposito, rispetto alle sedici lettere edite di Giorgio Bassani, ma anche e soprattutto perché quelle sue 124 lettere ci fanno entrare dentro il suo fervido e mobile laboratorio, aiutati dall’impeccabile cura di Massimiliano Tortora. D’altra parte il ruolo e la politica d’autore di Bassani, le caratteristiche di “Botteghe oscure”, il lavoro redazionale, le relazioni con gli autori sono temi già molto indagati. Basterà ricordare La rivista Botteghe oscure e Marguerite Caetani. La corrispondenza con gli autori italiani, 1948-1960 (a cura di Stefania Valli, L’Erma di Bretschneider, 2000) e Giorgio Bassani critico, redattore, editore. Atti del Convegno 28-29 ottobre 2010 (a cura di Massimiliano Tortora, pp. 233, € 38, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012). Tutte iniziative della Fondazione Camillo Caetani. Di Marguerite Caetani sono ben note la determinazione direttoriale, la vocazione accentratrice, la notevole cultura, l’intelligenza diagnostica, la sensibilità letteraria, l’impegno disinteressato, la generosità materiale e morale, che vengono certamente confermate qui, ma con molte nuove accentuazioni e illuminazioni che almeno in parte integrano la sua immagine, correggendone alla fine anche certi tratti acquisiti: come quelli per esempio della donna di genio e sregolatezza. Con il suo delizioso italiano approssimativo (che lei stessa definisce “il suo cattivo italiano”) rafforzato da frequenti sottolineature, Marguerite Caetani si muove con sicurezza ai livelli più alti delle politiche d’autore e dei valori letterari, e vien raccogliendo tra il 1948 e il 1960 molti di quelli che già sono o presto diventeranno i grandi nomi della letteratura italiana, europea e nordamericana contemporanea. Ma con la stessa sicurezza si muove ai livelli più pratici, tecnici, organizzativi. Le lettere sono percorse infatti da una costante, serrata, intensa operatività e funzionalità, vere note di lavorazione che seguono l’intero iter ideativo e produttivo della rivista: ricerca di collaboratori e traduttori e relativi rapporti; richieste di testi, movimento dei manoscritti, letture editoriali e bozze; composizione, stampa e confezione di ogni numero; costi, tirature e spedizioni; rapporti con le tipografie e compensi agli autori; distribuzione, promozione e vendite in Italia e all’estero; abbonamenti, recensioni e premi; e altro ancora. Un attivismo sempre animato da un calore umano, che si manifesta anche nelle private notizie sui suoi viaggi all’estero, e nella premurosa partecipazione ai problemi di salute e di famiglia del redattore amico Giorgio Bassani. La grande capacità di lavoro dell’operosa principessa viene evidenziata con forza dalla schiettezza dei suoi sfoghi e delle sue confessioni a Bassani. Eccone una piccola campionatura: “casco dal sonno”, “ero così stanca che non mi ricordo niente”, “lavoro sempre per la rivista”, “non ho avuto un momento di pace”, “le mille cose che avevo da

Carlo Ferretti

fare”, “scrivo, scrivo, scrivo e mi riposo che ero stanca morta”, “i miei nervi non tengono più”, ecc. Anche l’evoluzione dei rapporti tra i due corrispondenti, analizzata via via negli studi di questi anni, fino alla puntuale introduzione di Massimiliano Tortora al carteggio, con il passaggio nel 1956 dalla dipendenza all’autonomia di Bassani nei confronti della sua direttrice, trova qui precise conferme, ma al tempo stesso si arricchisce di accenti, sfumature e risvolti molto interessanti e nuovi. Nella fase più ampiamente documentata della dipendenza, colpisce un filone esplicitamente direttoriale: dall’autoritario e ritornante “bisogna”, a tutta una serie di intimazioni analoghe, come “urge”, “mandarmi subito”, “al più presto”; dalle critiche e rimproveri diretti o indiretti, come i polemici “si perde troppo tempo”, a certe risentite esplosioni per disfunzioni, ritardi e disguidi indirizzate anche a collaboratori e tipografi: “sono seccatissima”, “veramente sono

molto seccata”, e simili. Ma può accadere che anche nella fase della dipendenza siano numerose le lettere in cui Marguerite Caetani lascia a Bassani una decisione, o gli chiede un parere nelle più diverse occasioni, o gli dispensa elogi e gratitudine: “Lei sceglierà”, “Lei faccia quello che crede meglio”, “Chi suggerisce?”, “Mi fido di Lei”, “La prego di decidere Lei”, “Come ha lavorato bene. È meraviglioso! Bravo!”, “Quanta fatica e pena si dà. (…) Grazie tanto, tanto di tutto il lavoro che fa”, “Bravo bellissimo mi piace moltissimo”. Per non parlare poi delle esplicite manifestazioni di amicizia e affetto, stima e interessamento, che accompagnano con continuità l’intero carteggio, dalla fase della dipendenza e dell’accettazione alla fase dell’autonomia e indipendenza di Bassani: quando esprime “grande gioia” per le sue affermazioni di autore, e quando si dà molto da fare per suoi rapporti con agenti italiani e stranieri. Nelle lettere del resto Marguerite Caetani passa progressivamente dal “Caro Amico” e “Carissimo Amico” (con la maiuscola) a “Caro Giorgio”. Certo, nel lavoro documentato dalle lettere di Marguerite Caetani si avverte talora un certo disordine, che probabilmente può anche spiegare le poche lettere di Bassani da lei conservate, ma nonostante ciò le disfunzioni e gli incidenti, i ritardi e gli errori che provocano qua e là le sue reazioni di rabbia, “disgusto”, “infelicità” e “angoscia”, più che a disinteresse e insofferenza per le piccole pratiche e per le regole organizzative (nelle quali mostra invece di impegnarsi, sia pure a modo suo) sembrano piuttosto da attribuirsi a

quella sua vocazione accentratrice. L’impavida direttrice se ne assume tutte le conseguenze che spesso, bisogna dire, dipendono più dai collaboratori, stampatori e distributori che da lei. Quando perciò dichiara risentita che “deve occuparsi di questi dettagli”, e che “si deve fare tutto da sé sempre”, Marguerite Caetani non fa che riaffermare coerentemente il suo stile di lavoro. Il tratto unificante dei suoi comportamenti e delle sue reazioni è comunque e sempre la concisione e rapidità. E questo anche nelle scelte e nei rifiuti dei vari testi, che non vanno molto al di là dei sì e dei no molto netti e dei pronunciamenti essenziali: “mi piace”, “mi piace molto”, “mi piace tanto”, “mi piace moltissimo”, o “non mi piace”, “non mi piace”, “non mi piace tanto”. Arrivando tutt’al più a definire “monotono”, “noioso”, “pesante”, o per contro “bello”, “molto bello” un certo testo. Dove il giudizio di puro gusto e il criterio squisitamente antologico di Marguerite Caetani si intrecciano con la consapevolezza del suo ruolo di fondatrice, finanziatrice e direttrice, che sembra quasi non sentire la necessità di dire qualcosa di più. Si comporta in fondo, come molti editori. Il suo giudizio di gusto è confermato dalla dichiarata avversione nei confronti dei testi letterari, a cui è sottesa una politicità ritenuta troppo scoperta e programmatica, per una donna peraltro che ha nella sua biografia e nel suo epistolario precise tracce di passione civile e di antifascismo. La vittima più illustre è il racconto di Bassani Gli ultimi anni di Clelia Trotti, da lei rifiutato con parole cortesi ma decise. Indirettamente significativo anche il rifiuto di un saggio alfieriano di Giacomo Debenedetti. Marguerite Caetani in una lettera motiva con rispetto e ammirazione a Debenedetti la sua decisione, in base ad argomenti legati all’impostazione della rivista. Ma interessante è soprattutto la risposta data a Bassani, che sosteneva la pubblicazione di Debenedetti: “Non so come mai Lei mi spiega tante cose su di lui che già conosco, militante antifascista etc. etc. Non trovo che ha niente a che fare con la bellezza!”. Nell’atteggiamento e comportamento di Marguerite Caetani, in sostanza, si alternano e fondono attivamente una determinazione e un decisionismo quasi manageriali, uno scrupolo artigiano nella costruzione del prodotto ben fatto, la versione moderna di un raro mecenatismo, un entusiasmo e un orgoglio per la sua creatura come espressione del suo amore per la letteratura: “Sarà un bellissimo numero” appunto. Ne risulta perciò un’originale figura di imprenditore-intellettuale-mecenate, e di principessa illuminata e operosa. Ma il carteggio offre anche nuove notazioni e notizie sulla fitta rete di relazioni con intellettuali illustri, da Berenson a Mattioli a Paulhan ad altri, e di contatti con collaboratori preziosi, da Elsa Dallolio a Elena Craveri Croce. Della quale Marguerite Caetani riferisce nel suo italiano questa lusinghiera informazione: “Papà piace molto ■ ‘Botteghe oscure’”. gcferretti@tiscali.it G.C. Ferretti è critico letterario


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Le pagine romanzesche sulla vita della pittrice settecentesca Vivacità di pensieri e grazia di maniere di

Daniele Santero

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Non è casuale che i primi recenti romanzi biografia signora Rosalba Carriera da Venezia riceveva il garbata disinvoltura è sempre prossima a un erotisuo secondo battesimo sulle pagine del prestismo soffuso, pronto a spiccare da un petto semisco- ci ispirati alla signora Rosalba sfidino apertamente, gioso “Mercure de France” nel 1722, ormai ben più perto e un accenno di sorriso, come accade nella vi- attraverso l’invenzione, questa latitanza di affetti. che quarantenne, in occasione dei recenti trionfi paspa Ragazza col pappagallo o nel ritratto della con- Con una soluzione che piacerebbe ad Arbasino se sorigini. La formula era del tutto profana, così incentessa Orzelska. Soprattutto, chi indirizza il gusto del- lo fosse del tutto dissacrante, le “memorie” di Valentrata su un antico adagio rinascimentale sull’affinità, lo stile più femminile della storia dell’arte è una don- tina Casarotto (Il segreto nello sguardo. Memorie di profondissima e segreta, fra artista e modello (“Ogni na modesta e spiritosa: e quando l’artista è donna i Rosalba Carriera prima pittrice d’Europa, pp. 325, € pittore dipinge se stesso”): così, anche “la Rosalba dà più, semplici principianti o attardati romantici, cu- 16,50, Angelo Colla, Vicenza 2012) “riscrivono” fea tutti i suoi soggetti il tono del suo spirito, la vivaciriosano volentieri tra i suoi affari sentimentali. Il ri- delmente l’epistolario della Carriera, dilungandosi tà dei suoi pensieri, le grazie delle sue maniere”. Pritardo con cui sono comparsi i primi scritti romanze- particolarmente sull’“idillio amoroso” tra la pittrice e ma di allora, solo i corrispondenti più frequenti e schi sulla vita di Rosalba è dovuto forse più a questo Watteau, una fantasia debitamente riconosciuta a una piccola folla di adoratori occasionali o di lunga vuoto incolmabile che alla tarda edizione di fonti Walter Pater. Così, la fedeltà al vero del romanzo stodata la chiamano semplicemente “la” Rosalba: e epistolari attendibili (Rosalba Carriera: lettere, diari, rico (siamo ancora al conte Manzoni) si insaporisce qualcuno già “l’incomparable Rosalba”, in toni tipiframmenti, Olschki, 1985) e cataloghi completi (Ro- con il verosimile, con dettagli frivoli e situazioni apcamente adulatori. Ma solo dall’elezione all’Acadésalba Carriera, Allemandi, 2007), a preziosa cura di punto “memorabili”: palpiti amorosi, certo, ma anmie in poi praticamente tutti quelli che ne parleranBernardina Sani. La sua esistenza scivola via senza che veglie e feste, occasioni, incontri e “segreti” no, tra artisti, amateurs e viaggiatori, lo faranno con una passione che non riguardi la sua arte, senza bat- strappati durante le lunghe sedute di posa, momenti il solo nome, come accadeva per il Paolo e il Guido, ticuori e schiavitù sentimentali, priva anche di parti- canonici per gustose conversazioni con sovrani, genVeronese e Reni: come si chiama, in sostanza, un piccolari tumulti amorosi. La sua modestia inattaccabi- tiluomini e dame. Con il precedente romanzo rosalcolo mito ampiamente condiviso, già capace di avle nei risultati del suo genio, a tratti estremistica biano di Silvia Mazzola (La miniaturista, Fazi, 2011) viare devozioni tra le migliori corti d’Europa. (“L’umiltà sta bene ? le scriveva il segretario dell’E- i tormenti amorosi diventano il vero motore della storia perché la biografia Passando una volta per della pittrice è un puro Venezia dopo la fuga dalla spunto formale per Parigi giacobina, Madame un’avventura appassioVigée Le Brun, donna artidi Vittorio Coletti nata e decadente, forse sta più famosa della veneimpossibile fuori di una ziana, ammetterà che un Venezia sospesa nel suo solo ritratto a pastello del- LIBERTINI ITALIANI. LETTERATURA E IDEE TRA XVII E più adatta del pesante italiano prosastico alle acrobazie cliché, tra “bellezza e la Rosalba “basterebbe a XVIII SECOLO, a cura di Alberto Beniscelli, pp. XLI-911, non solo sessuali, ma anche e soprattutto intellettuali e marciume”. Escludendo render celebre un pittore”. € 16,90, Rizzoli, Milano 2012 politiche dei pensatori più arditi. L’osservazione non è provenienza, parentele e Ma il suo giudizio lieveoziosa e ripropone la domanda sulla consistenza artistiprofessione, la bella Aumente iperbolico era forse a parola “libertino” evoca nel linguaggio comune ca del libertinismo italiano, visto che i suoi adepti erarora Zanon si allontana guidato dal riconoscimendissolutezza di costumi, specie di quelli sessuali. no costretti a camuffare concetti ed esperienze non soda Rosalba in quanto to di un caso rarissimo: Ma libertino è stato, storicamente e a lungo, il segno lo in gabbie, come quella dell’erudizione o dell’esercipersonaggio perfetto per una virtuosa senza marito, distintivo di un atteggiamento culturale spregiudicato tazione accademica, adatte a sfuggire alle sospettose un’aggiornata Romantic una donna riconosciuta e laico, che metteva in discussione le autorità e i sape- censure della chiesa, ma anche in un linguaggio che si Agony, protagonista di nelle accademie e sfuggita ri consolidati prima ancora dei comportamenti con- mascherava dietro stili (la prosa ritmica e involuta) e una discesa negli inferi al matrimonio con un col- venzionali. Con questa ampia e accuratissima antolo- paraventi (il mito classico, i filosofi antichi...) tradiziofemminili tipici della lega, ignara dell’obbedien- gia di testi dei libertini italiani di Sei e Settecento, Al- nali, con il risultato che spesso, nonostante la percepidonna artista, scanditi da za di una quieta vita coniu- berto Beniscelli, uno dei massimi studiosi di quei se- bile novità e libertà delle idee, la scrittura tradisce il seGreer: l’amore per i maegale. Nei fatti, tuttavia, l’e- coli, ricorda innanzitutto che, prima e al di là dei più colare impaccio di un italiano appesantito (specie nel stri, l’adulazione, l’illulettore di Sassonia Augu- famosi libertins des mœurs, ci sono stati tanti e profon- confronto con il disinvolto e brillante francese di Montaigne e seguaci) dall’“eccessivo scrupolo della forma”. sione del successo, lo sto Il Forte, padre di più di di libertins d’esprit, ponderosi eruditi o acuti filosofi. In forza di una pregevole interpretazione alta e larga Il lavoro di Beniscelli abbatte un altro luogo comune, sfruttamento e così via. cento figli, aveva già riser- quello dell’esclusiva francese del libertinage, visto che del libertinismo italiano, l’antologia di Beniscelli si preIn rapporto ai tormenti vato ai suoi pastelli una sa- emuli e autonomi libertini popolano anche le città ita- senta come un’eccezionale raccolta di testi firmati dai più di Aurora, che sfociano letta intera del suo palazzo liane dei due secoli di mezzo. Beniscelli disegna una grandi irregolari della nostra cultura (Sarpi, Bruno, Camnelle pieghe del gotico (Das kabinett der Rosalba), precisa geografia del libertinismo della penisola (Pado- panella, Vanini), dai suoi scienziati più vivaci (Cardano, tra fantasmi, veleni e sea Dresda: anche in quella va, Venezia, la stessa Roma papalina, che coltivava an- Settala, Vallisnieri), dai suoi letterati più irriverenti (Maduttori diabolici, i toni stanza il grande Mengs, che gli antidoti intellettuali alla Controriforma) e rico- rino, Pona, Brusoni), uomini che non di rado, almeno nel più pacati e ben meno negli anni dell’apprendi- struisce la biblioteca italiana dei libertini europei, nella Seicento, hanno pagato con il carcere o il patibolo la lodrammatici del Rococò stato, avrebbe studiato quale il primo posto era occupato da Machiavelli, esal- ro pur cauta indipendenza dalla chiesa di Roma. Tra quematuro che Casarotto l’arte di mostrare l’anima tato per la sua iconoclastia morale e politica. Ne traccia sti testi, non pochi quelli curiosi e intriganti, o perché trattiene sono sempre attraverso il volto. Infine, anche il mutamento al cambio di secolo, quando l’in- erotici e arditi (per esempio a proposito delle monache litroppo lontani: alla fine, dall’Inghilterra erano già credulità settecentesca prende il posto dell’incertezza cenziose) o perché pronti a spiegare come mai “volle Idl’innocenza è stata perarrivati gli aneddoti di barocca, la leggerezza della curiosità sostituisce la pe- dio che ci fossero i nei” (Settala) o il “moto locale della duta, assieme alla leggeWalpole e Spence, e so- santezza del tormento intellettuale e si accentuano la terra” (Bruno) o “che i primi uomini camminavano currezza di un’epoca in cui prattutto frotte di giovani piega letteraria, narrativa, della scrittura dei libertini e vi allo stesso modo dei quadrupedi” (Vanini). La cultura libertina è stata l’avanguardia, ora dramtutto, scriveva sorridenlords che durante il Grand la componente più sensazionale e colorita dei loro codo a metà Settecento La Tour pagavano benissimo stumi e comportamenti, fino ai compiaciuti eccessi esi- matica e meditata, ora stravagante e bizzarra, della moFont de Saint-Yenne, ha per avere un ritratto in ma- stenziali e stilistici di Casanova. Per altro, l’Histoire de dernità, raggiungendo (con Leopardi, con il quale opla “durata” e il “colore schera, a ricordo delle bal- ma vie fu scritta da Casanova in francese, lingua della portunamente Beniscelli conclude la sua antologia) comunicazione colta internazionale del Settecento e punte di laicità intellettuale non più toccate dopo. delle rose”. dorie del carnevale. Rosalba, tuttavia, non Esistono idoli talmente legati allo spirito della propria epoca da essere inevilettore Palatino ? ma il non voler conoscersi è sover- è l’avvenente Madame Vigée Le Brun, capace di cutabilmente oscurati, dopo, dalla polvere dei secoli. chia rigidezza”), diventa presto anche schermo nella rare la propria immagine pubblica e vivere nel mondo sfarzoso dell’Ancien Régime anche dopo la sua fiCosì, ha perfettamente ragione chi afferma che sencarissima guerra degli affetti. za la Carriera e il cognato Antonio Pellegrini lo stesIl principio che Rosalba asseconda fino in fondo è ne; la sua esistenza non ha neppure le tinte drammaso Rococò avrebbe avuto ben minore fortuna, almedescritto perfettamente da Germaine Greer in Le te- tiche buone per Artemisia Gentileschi, rinarrate a no a Venezia e in Inghilterra: Parigi vantava già alle di Penelope (Bompiani, 1980); se accreditate, le suo tempo da Anna Banti. Con lei la sicura monotomeno l’opera di Watteau, che conobbe e frequentò “lodi galanti” riescono innanzitutto a distrarre un’ar- nia dell’arte vince la vita e la vita stessa sembra reRosalba nell’année française (1720-21). Dello spirito tista da “maggiori impegni”, la portano a “desistere trocedere dietro a quella dei suoi volti, senza scosse del Rococò i pastelli e le miniature di Madame o Lady dalla troppa fatica”. Una modestia ostinata è quindi o drammi apparenti. Infine, la sua vera tragedia non Rosalba anticipano e trattengono tutto: innanzitutto un puro atto di saggezza, del tutto indipendente dal può che essere artistica: coincide con una lunga ceuna grazia onnipresente, volatile e fragile, e la dedicarattere: si tratta di “rendersi sorde agli elogi”, o ac- cità ed è sigillata da un enigmatico autoritratto, in zione totale a una tecnica precaria in rapporto alla coglierli, ma garbatamente, come si accoglie un rega- cui il capo della virtuosa (la Carriera? la Bergalli?) è pittura a olio, effimera come il piacere in rapporto allo del tutto sbagliato. Resasi sorda alle lodi degli adu- coronato d’alloro. Come se la sola fama degna per l’amore nelle teorie dei libertini. Le stesse misure rilatori delle sue creazioni, Rosalba finisce per ignora- una pittrice sia indipendente da avventure galanti o dotte rispondono alla fondamentale passione rocaille re anche chi adora la sua persona, non bella in realtà, disavventure indicibili; e la grandezza possa poggiaper l’amenuisement (Minguet) e contrastano con il ma affascinante per modi e spirito. E basta una sua ri- re soltanto sulla grazia fragile dei pastelli o sull’area ■ gusto barocco dell’enfasi e del sublime: lavorando in sposta stizzita al segretario Rapparini, quando l’arti- minuscola di ovali d’avorio. piccolo, una miniatrice produce alcuni fra i mille pesta ha ormai trentacinque anni, per capire tutto: “In santerodan@hotmail.com tits riens o galanterie che gli amanti si scambiano coquanto agli huomini creda questa gran verità che non D. Santero è dottore di ricerca in italianistica, insegnante e critico letterario me per gioco, in continuazione. Nei ritratti, poi, una v’è cosa al mondo che meno mi dia pensiero”.

Avanguardia drammatica o stravagante

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- Rosalba Carriera

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Gli anni d’oro della produzione giallistica femminile Agatha Christie e le altre di Chiara

ra il 1890 e il 1904, l’Inghilterra conobbe uno nano il campo del mystery propriamente detto ammirabile enigma per i suoi sottoposti e una conspecifico genere di fertilità: in quella decade e per sconfinare nell’avventura, con Campion solazione per i suoi superiori, ma nulla toglie alla mezza nacquero ben sei future gialliste: le quattro (verrebbe da dire nomen omen, se non fosse che sua energia e capacità deduttiva. E sì, nei primi roQueens of Crime e due, chiamiamole così, gentilquesto significativo nomen se l’è scelto lui…) che manzi in particolare, tutta questa levigata onnidonne soprannumerarie alla corte del giallo ingleprende sotto la sua ala protettrice l’innocente di competenza può riuscire irritante, finché non ci rise classico. È bizzarro immaginarsele piccole, una turno. La ricerca degli indizi passa in secondo cordiamo di avere davanti l’incarnazione di un climezza dozzina di bimbe in pinafores postvittoriani piano, oscurata dall’audacia e dai lampi di intui- ché di genere, quello del gentleman detective che tutto affronta e di nulla si scompone. Poi, con il o uniformi scolastiche con la paglietta, nate da fazione preternaturale del segugio. miglie di varia middle class, sparse per le isole briTutt’altra faccenda, invece, quando il protagoni- passare delle indagini, personaggio e autrice matutanniche, con un’eccezione nei pur britannicissimi sta/investigatore diventa un ufficiale di Scotland rano insieme, e Alleyn acquisisce una personalità antipodi della Nuova Zelanda, tutte destinate a Yard, come il Roderick Alleyn della neozelandese meno convenzionale e più attraente. Ma d’altra parte, se di cliché dobbiamo parlare, scrivere di crimini e delitti, cominciando tra gli anNgaio Marsh. Coloniale trapiantata e teatrante di ni venti e i trenta. professione, Marsh costruisce i suoi gialli come al- si sa che l’eroe onnicompetente è un’eredità che Perché in genere si dice “giallo classico” e si trettanti drammi – spesso e volentieri ambientati a la narrativa di genere ha raccolto da Omero e dai pensa alla decana del sestetto, Dame Agatha teatro, sfondo del resto tutt’altro che inconsueto poemi cavallereschi, e il fatto di essere un gentiChristie, l’autrice più venduta di tutti i tempi. Si anche tra le sue colleghe – e in genere bilancia il luomo viene in dotazione standard con questo genere di caratterizzazione. pensa alla sua Inghilterra di panE quindi, anche nell’uscire di-zenzero, fatta di grandi madal ristretto circolo delle regine gioni, alberghi londinesi, viaggi per accostarci alla minor royalty in treno e villaggi di campagna, del giallo, ritroviamo gli stessi con la minaccia in agguato tra tratti nell’ispettore Alan Grant, carte da bridge e siepi di biancocreato dalla scozzese Josephine spino. E si pensa ai suoi solutori Tey. Tey era un’insegnante di di enigmi: l’investigatore privato ginnastica, un’autrice teatrale, belga Poirot, tanto buffo quanto una biografa di pittoreschi geformidabile, e la vispa, sferruznerali seicenteschi. E poi scrivezante, impiccioncella Miss Marva gialli, e c’è da chiedersi perple, l’outsider (che capisce l’Inché sia considerata minore. Le ghilterra) e l’inglesissima. sue storie sono ben scritte, diMa l’abbiamo detto: Dame vertenti, psicologicamente acuAgatha non è l’unica della sua te e spesso originali. In particospecie, e Poirot e Miss Marple solare il bellissimo The Daughter no due membri di un ideale club of Time (La figlia del tempo), cadi investigatori di carta, gente postipite dell’armchair detecacuta che per professione, profittion, o indagine da poltrona, to, caso, hobby o amor di verità dovrebbe bastare a meritarle dipana trame omicide troppo inuna corona. E poi il distinto e tricate per il poliziotto medio. Sono tutti fini osservatori, i membri del club. La loro gusto del colpo di scena con meccanismi logici intelligente Grant è una specie poster boy proforza risiede nella conoscenza dell’animo umano e non del tutto irrisolvibili. Le luci della ribalta spet- grammatico della categoria: il continuo stupore dei meccanismi sociali che l’animo umano viola nel tano sempre all’ispettore capo Alleyn, figlio mino- dei personaggi che “non l’avrebbero mai creduto delitto; e questa conoscenza la possiedono per una re di un baronetto, fratello del governatore delle un poliziotto” è una cospicua e ricorrente strizzacommistione d’ingegno e opportunità privilegiata. Fiji, educato a Oxford e con un passato da milita- tina d’occhio al lettore. Paragonato a Grant, il sovrintendente HannasyIn altre parole, se si eccettuano le creature di Chrire e diplomatico. Il fatto di essere colto e raffinato stie, questo è un club per gentiluomini britannici, e a suo agio in tutte le sfere sociali rende Alleyn un de di Georgette Heyer è un po’ palliduccio. Certo, anche lui cita Shakespeare, è di buona famidiviso tra aristocratici eccentrici e poliziotti glia, e il suo superiore lo chiama per nome di buona famiglia. I libri perché hanno studiato nella stessa scuola. Nella prima categoria ricade a pieno titoAnche lui è un gentiluomo, solo che è un lo il Lord Peter Wimsey di Dorothy L. Sa- Tutte le autrici sono state ripetutamente tradotte e pubblicate in gentiluomo scontato e un po’ bidimensionayers, forse la più letteraria del gruppo, ac- Italia, soprattutto nei Gialli Mondadori, ma anche da Elliot, le, inserito in un mondo di personaggi sconcademica oxfordiana, amica degli Inklings Polillo, La Tartaruga, Donzelli, Nottetempo, Sellerio e Sperling tati e un po’ bidimensionali, all’interno di e traduttrice di Dante. Il suo Lord Peter è & Kupfer. storie scontate e un po’ convenzionali. Il figlio cadetto e pecora nera di famiglia dugiardiniere, nella dispensa, con la mazza da cale. Fascinoso e ciarliero, nasconde una Agatha Christie Poirot e il mistero di Styles Court, Newton Compton, 2008 cricket… Va detto, però, che i gialli non eramente aguzza dietro un’apparenza leggerC’è un cadavere in biblioteca, Mondolibri, 2003 no il mestiere di Heyer, prolifica autrice di mente fatua, come una sorta di Primula I capolavori di Agatha Christie, Mondadori, 2003 regencies, che in Italia escono come romanzi rossa investigativa. Coinvolto per caso nel rosa, ma in realtà sono documentatissime furto di una collana di smeraldi, si scopre comedies of manners in costume. I gialli avegusto e talento per l’indagine, hobby che Dorothy L. Sayers Lord Peter e il cadavere sconosciuto, Mondadori, 2004 vano fini commerciali, e può darsi che non avrà modo di coltivare in quattordici roPer morte innaturale, Mondadori, 2005 le interessassero granché; eppure si riscattamanzi e numerosi racconti, assistito dal feLord Peter e l’altro, Polillo, 2011 no con l’osservazione, aguzza ai limiti della dele valletto/sergente Bunter, dall’ispettore causticità, di vita, maniere e pregiudizi nei Parker di Scotland Yard e dalla giallista Margery Allingham villaggi della campagna inglese. Ci sono il tè Harriet Vane. L’isola, Mondadori, 2006 delle cinque, i tennis parties, i colonnelli in Se Lord Peter ha un difetto, è forse un La polizia in casa, Mondadori, 2006 pensione in giacca di tweed… eccesso di perfezione, tanto che Margery Fiori per il giudice, Mondadori, 2006 Ma, d’altra parte, è anche per questo che Allingham, rampolla di una famiglia di La parte del destino, Mondadori, 2008 leggiamo le gialliste della Golden Age. Per giornalisti londinesi, partì con l’intento di l’enigma, ma anche per l’illusione di questa parodiarlo quando creò il suo Albert Cam- Josephine Tey Inghilterra in parte immaginaria, verde, ripion. Anche Campion vanta sangue blu, È caduta una stella, Mondadori, 2012 tuale e un po’ snob, con il brivido dell’astanto blu da comportare parentele a BucLa strana scomparsa di Leslie, Mondadori, 2012 sassino nascosto sotto la placida superficie. kingham Palace e richiedere uno pseudoniLa figlia del tempo, Mondadori, 2012 Dove poi, però, rassicurante e affidabile, armo per il lavoro investigativo. Anche Camriva sempre il Gentiluomo Dalla Mente pion è distinto, biondiccio e ottuso solo in Ngaio Marsh Delitto a teatro, Elliot, 2010 Aperta che, come uno spirito della buona apparenza; anche Campion ha un valletto La medaglia del Cellini, Mondadori, 2011 vecchia Inghilterra, capisce tutto, agisce e riimprobabile, nientemeno che uno scassinaMorte in agguato, Elliot, 2011 stabilisce l’ordine nel più rassicurante e britore (quasi) redento; anche Campion è sta■ tannico dei modi. to incoraggiato sulla via della perdizione sociale da un’aristocraticissima nonna; an- Georgette Heyer senzaerroridistumpa.myblog.it L’omicidio di Norton Manor, Mondadori, 2005 che Campion lavora con un uomo di Scotwww.chiaraprezzavento.com Oltre la menzogna, Mondadori, 2007 land Yard, anzi due uomini di Scotland @laClarina Doppio misto con la morte, Sperling & Kupfer, 2008 Yard traboccanti di ammirazione. Dopodiché, però, le storie di Allingham abbandoC. Prezzavento è scrittrice, editor e traduttrice

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Ostacolo o risorsa di un possibile sviluppo socialmente sostenibile? La parabola del microcredito

l microcredito in particolare e la microfinanza in genere sono ormai messi in discussione da più parti e con differenti argomenti, ma continuano a essere considerati come una sorta di panacea, “la” soluzione ai problemi della povertà, e impiegati in molte parti del mondo. Tale divergenza di valutazioni, da un lato, appare anche ideologica ma lascia interdetti molti. I temi del contendere sono molteplici e anche diversi tra loro. Proveremo a darne conto e ragione qui, molto schematicamente (e certo senza pretesa di

esaustività), considerando le analisi proposte da alcuni libri e articoli recenti. Tema centrale del contendere è, per l’appunto, l’efficacia di breve e lungo periodo dei progetti di microcredito (in particolare nei paesi in via di sviluppo, ma poi per estensione i dubbi sul suo impiego valgono anche in altri contesti) su cui tanto (in termini assoluti, perché se si fanno confronti con i costi delle crisi finanziarie nei paesi più industrializzati i termini appaiono assai modesti) si è investito negli ultimi lustri, in particolare da parte degli stati. Occorre però fare da subito alcune distinzioni: da un lato, infatti, vi sono le questioni centrali relative all’efficacia dello strumento quando utilizzato in modo appropriato e all’individuazione dei criteri di tale appropriatezza e, dall’altro, quelle relative alle forme di regolamentazione necessarie per evitare utilizzi impropri, quando non addirittura criminali, dello strumento.

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n esempio paradigmatico di questo secondo caso è la situazione che si è data nello stato indiano dell’Andhra Pradesh, nel quale in anni recenti pratiche improprie da parte di istituzioni di microfinanza (Mfi), a fronte dell’impossibilità a restituire e delle forti pressioni degli agenti riscossori delle stesse istituzioni, hanno indotto diversi prestatari al suicidio. A fronte di una precedente quasi totale mancanza di controllo effettivo (a differenza che sul piano formale), questi episodi hanno spinto le autorità locali a interventi sia sulle condizioni di operatività delle Mfi sia sui tassi di interesse che queste possono praticare (ridotti quasi a zero), che però sono stati generalizzati e fortemente restrittivi. Misure per nulla mirate come quelle adottate in Andhra Pradesh sono state giudicate da molti (inclusa la banca centrale indiana) come di utilità esclusivamente immediata nel pieno crisi ma sostanzialmente dannose appena superata l’emergenza, perché di fatto sostituiscono al lassismo precedente il sostanziale blocco delle iniziative di microfinanza. Le questioni cruciali dell’efficacia del microcredito nelle sue diverse forme sono a loro volta l’oggetto di riflessioni diverse e variamente articolate. Da un lato troviamo la tesi (sostenuta recentemente tra gli altri da Milford Bateman e Ha-Joon Chang in Microfinance and the Illusion of Development: From Hubris to Nemesis in Thirty Years, “World Economic Review”, 2012, n. 1, http://

wer.worldeconomicsassociation.org/article/view/3 7/0) secondo la quale la microfinanza costituisce di fatto una “potente barriera istituzionale e politica a uno sviluppo economicamente e socialmente sostenibile” e alla riduzione della povertà. Secondo questa tesi, i possibili benefici, limitati sia al breve periodo sia in dimensione e nel numero dei beneficiari, sono decisamente superati dagli effetti negativi di lungo periodo, in particolare dai costi opportunità a livello di comunità e di stati. In tale prospettiva il microcredito appare come un’innovazione che ha avuto un grande successo – soprattutto mediatico – perché adottata con entusiasmo da istituzioni sovranazionali ed economisti di chiara impostazione neoclassica e neoliberista, che ne hanno fatto una sorta di celebrazione del modello del fai-da-te imprenditoriale a tutto discapito delle ragioni di intervento pubblico nelle politiche di riduzione della povertà. Questo orientamento avrebbe dunque accompagnato i processi di globalizzazione ultra-liberista fornendo un importante elemento psicologico alla sua affermazione (e una facile e comoda giustificazione per i disastri che produceva) attraverso la proposta e l’impiego di uno strumento finalmente efficace per aiutare chi era in condizioni svantaggiate ma si impegnava personalmente. Anche tra chi riconosce al microcredito potenzialità positive non presenti in questa prospettiva, sono ormai diversi coloro cui pare evidente che esso sia stato francamente sopravvalutato quando lo si è indicato come strumento risolutivo e praticamente autosufficiente nella lotta alla povertà. Appare allora difficile non pensare anche che dopo l’esaurimento (per l’evidenza dei mancati successi) dell’approccio dei basic needs alcune istituzioni necessitassero di una nuova prospettiva (per i più cinici di una buzz word) per poter convincersi (o far credere) di fare qualcosa di significativo per sradicare la povertà strutturale. Tra coloro che ritengono che la microfinanza abbia notevoli potenzialità non ancora colte (anche a causa del suo uso finora) ma che sia stata sopravvalutata, si possono annoverare Alberto Niccoli e Andrea F. Presbitero, autori del volume Microcredito e macrosperanze. Opportunità, limiti e responsabilità (Egea, 2010). Il centro della riflessione di tutti coloro che stanno considerando seriamente gli effetti e il potenziale del microcredito sono gli studi sul campo condotti in varie parti del mondo con esperimenti controllati (randomized control trials). Le evidenze di alcuni di questi hanno messo in dubbio la facile certezza con cui si dava per scontata l’efficacia dello strumento in qualunque contesto e messo in luce la necessità di valutarla invece caso per caso, al fine di cogliere le differenze di trattamento e i possibili effetti sui risultati. Questo tema e le difficoltà della valutazione d’impatto costituiscono gli argomenti

del settimo capitolo del libro di Niccoli e Presbitero, che ne costituisce il cuore insieme al capitolo successivo, che si incentra invece sulla considerazione degli effetti non immediatamente reddituali dei progetti di microfinanza, ma che passano invece attraverso la creazione di legami di fiducia e, per questa via, contribuiscono alla costruzione di capitale umano e sociale. Il ruolo di questi fattori nello sviluppo sia di un settore finanziario efficiente che economico in senso generale erano stati oggetto di analisi nel secondo capitolo, cui sono seguiti capitoli essenzialmente descrittivi. La necessità di considerare i casi di insuccesso del microcredito per “perfezionare” l’uso di questo strumento è il tema centrale anche del saggio (non a caso intitolato I fallimenti del microcredito) di Azzurra Rinaldi nel volume collettaneo, a cura di Nicola Boccella, Il sistema del microcredito. Teoria e pratiche (Led, 2011, prefazione di Mario Baccini). Il saggio, come gli altri del volumetto, è di taglio più specifico e accademico rispetto all’ampia trattazione del libro sopra considerato e dunque destinato a un pubblico con interessi più specifici (e possibilmente almeno dotato di una qualche formazione economica di base). Esso prende in considerazione diversi studi di caso e da essi ricava prima considerazioni generali relativamente all’efficacia dello strumento del microcredito nella lotta alla povertà e poi riflessioni metodologiche sugli schemi analitici adottati, per proporre poi un diverso schema interpretativo. Gli altri saggi del volume hanno un carattere più introduttivo e forse un po’ più tradizionale, concentrandosi sui contributi del microcredito alla lotta alla povertà e allo sviluppo economico, anche nel caso del suo orientamento verso le piccole imprese, o invece sui crediti al femminile, e con particolare riferimento al caso italiano, per terminare con la considerazione del suo ruolo come strumento per l’impiego e l’autoimpiego.

Di taglio informativo-descrittivo e istituzionale è invece il terzo volume qui considerato, concentrato sulla situazione italiana, Microcredito. Dimensioni e prospettive del prestito sociale e imprenditoriale in Italia, a cura di Carlo Borgomeo (pp. 204, € 27, Donzelli, Roma 2012). Si tratta del sesto rapporto sul microcredito in Italia (ormai un classico nel settore), che fa riferimento al periodo 2009-2010. L’interesse di questo volume è soprattutto nella raccolta di dati sui programmi di microcredito avviati nel nostro paese nel periodo considerato (oltre al secondo capitolo che ne tratta in sintesi, un’ampia porzione finale del volume raccoglie schede sintetiche dei singoli progetti), che peraltro è accompagnata da una riflessione sui dati raccolti sia in termini metodologici che sugli attori e le caratteristiche evolutive, e da un capito■ lo finale sul contesto internazionale. roberto.burlando@unito.it R. Burlando insegna politica economica all’Università di Torino

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La lezione di Clifford Geertz: teorico, professore, ricercatore sul campo Una volpe nata di Martina

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ia prima che dopo la sua morte, avvenuta nel 2006, Clifford Geertz è stato riconosciuto come uno dei giganti dell’antropologia (teorica e sur le terrain) del secondo Novecento. Tradotto in venti lingue, negli Stati Uniti la sua figura e la sua scrittura hanno assunto caratteri quasi iconici; e paradigmatici sono diventati alcuni tra i concetti (“descrizione densa”, “reti di significati”, “cultura come testo”) e le immagini (il bambino che fa l’occhiolino, il combattimento dei galli a Bali) che lo hanno reso celebre. Il suo cultural turn poggia su tre pilastri fondamentali: il carattere pubblico del significato; la sua incarnazione in pratiche culturali osservabili; le potenzialità creative insite nei limiti stessi di una determinata cultura. Vi si intravedono, senza troppa difficoltà, le tracce dei suoi due principali maestri: Ludwig Wittgenstein e Max Weber. Nel 2011 è uscita negli Stati Uniti la sua prima raccolta postuma di saggi: Life Among the Anthros and Other Essays (a cura di Fred Inglis, pp. 272, € 39,52, Princeton University Press, 2011), che offre un campione significativo di quarant’anni di pensiero e scrittura. Il libro si compone di tre parti: le prime due raccolgono alcune tra le più celebri pagine che Geertz scrisse per la “New York Review of Books”, rispettivamente recensioni di grandi classici (come Sorvegliare e punire di Michel Foucault, Prigioniero d’amore di Jean Genet o i Diari di Bronislaw Malinowski) e di testi di sociologia e antropologia dell’islam. Nella terza parte sono invece riunite le sue ultime conferenze degli anni Duemila, che tracciano un bilancio intellettuale di cinquant’anni di professione e si interrogano sul futuro dell’antropologia. Geertz, accademico liberale, in polemica tanto con la figura dell’antropologo-colonialista quanto con la visione del buon selvaggio cara allo strutturalismo francese di stampo marxista, ha da sempre assunto come tratto distintivo e cifra teorica della sua opera la strenua ricerca di un bilanciamento tra la parzialità dell’osservatore e il divenire dell’osservato. Vexata quaestio per l’antropologia, si dirà. Certo vecchia, ma mai risolta, né problematizzata con tanta acuta consapevolezza. Geertz fa reagire tra loro, talvolta con esiti esplosivi, le due dimensioni problematiche dell’essere qui/essere là, e dell’ex ante/ex post. La prima riguarda l’osservazione (l’osservatore e l’osservato), la seconda il racconto dell’osservazione. La parola stessa “etno-grafia” le sintetizza e mostra la loro proporzionalità inversa: l’avvicinarsi all’altra cultura (etno) implica la ricerca di un espediente narrativo (grafia) che necessariamente frammetta un interstizio temporale, creando un senso interno al racconto che funzioni da membrana e da soglia insieme. Nel discorso scientifico la tensione ante/post è meno problematica; in quello letterario manca totalmente la contrapposizione qui/là. L’antropologia nasce e si sviluppa recando congeniti entrambi i difetti, e se per essa un futuro è possibile e auspicabile, lo è sotto il segno di queste contraddizioni. In Italia i lavori di Geertz sono arrivati con netto ritardo: The Interpretation of Cultures fu tradotto solo nel 1987, quindici anni dopo la sua uscita negli Stati Uniti, composto di soli undici saggi rispetto ai quindici dell’edizione americana; fu espunto anche The Cerebral Savage: on the Work of Claude Lévi-Strauss, testo fondamentale che dava ufficialmente avvio alla polemica antistrutturalista. Tuttavia, già dai primi anni ottanta anche la critica ita-

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liana è stata sensibile ai temi geertziani, non mancando di segnalarne i punti deboli. Tra gli altri, Francesco Remotti (anche sulle colonne di questo mensile, cfr. “L’Indice”, 1991, n. 3), Carlo Ginzburg e lo storico Giovanni Levi hanno messo in guardia dai rischi di una radicalizzazione dell’approccio ermeneutico. Il pericolo più verosimile è la chiusura dell’antropologia in una prospettiva locale; abbandonata la ricerca di invarianti strutturali o di scopi funzionali universali, non resta che prendere atto dell’irripetibilità simbolica locale, cercando di concentrare gli sforzi nella sua resa narrativa. Tutta la responsabilità ricade così nelle mani del singolo antropologo e delle sue doti, per così dire, affabulatorie: uno scivolamento possibile, concretamente in atto nei casi sopra citati di messa in guardia dal geertzismo.

Leggere Geertz oggi deve tener conto di queste critiche, che spesso però non considerano il carattere multistrato della sua opera, appiattendola volentieri su una proposta teorica che egli stesso non seguì fino in fondo. Ha scritto Giovanni Levi: “Geertz è Geertz: il pericolo è il geertzismo” (Robert Darnton e il massacro dei gatti, in “Quaderni Storici”, aprile 1985, n. 1). Proviamo però a leggere questo commento con accento sul primo soggetto e non sul secondo. Perché Geertz è Geertz? E cosa spinge a leggerlo ancora oggi? C’è prima di tutto un dato concreto. Dal giugno del 2011 l’University of Chicago ha reso accessibili al pubblico i Clifford Geertz Papers, ovvero tutte le carte dell’antropologo che comprendono appunti sul campo, carteggi, corsi, conferenze, scritti inediti. Da questi documenti emerge uno di quei profili sempre più rari nel panorama accademico: quello dell’intellettuale artigiano. Clifford Geertz è l’uomo che fin dal primo giorno scrive le sue note sul campo a Sukarno (siamo all’inizio degli anni cinquanta) in linClifford Geertz (1926-2006) è stato professore alla University of California, alla University of Chicago e all’Institute of Advanced Studies di Princeton. I suoi studi sul campo, fin dai primi anni cinquanta, si sono concentrati sull’Indonesia (in particolare Java e Bali) e sul Marocco. Il suo primo e più famoso libro è The Interpretation of Cultures (Basic Books, 1973). I libri di Geertz tradotti in Italiano sono editi dal Mulino; oltre a Interpretazione di culture (1987), ricordiamo Antropologia interpretativa (1988); Opere e vite. L’antropologo come autore (1990), Oltre i fatti. Due paesi, quattro decadi, un antropologo (1995), Mondo globale, mondi locali (1999), Antropologia e filosofia (2000).

gua locale; che appunta meticolosamente gli scritti di Wittgenstein fino a redigere una mappa concettuale delle Ricerche filosofiche; che compone un lungo report antropologico (inedito) del suo viaggio in Giappone dei primi anni ottanta; che commenta via lettera le opere del suo amico Richard Rorty; che risponde con gentilezza a ogni singolo studente che gli chieda consiglio e raccomandazione. Gli anni più fecondi della sua carriera furono forse quelli alla University of Chicago (1960-70): gli unici, peraltro, in cui era contemporaneamente un professore affermato e un ricercatore sul campo. In questo decennio i suoi corsi andavano esplorando una nuova idea del concetto di cultura, fondata su basi weberiane, ma che sapesse fare tesoro della lezione ermeneutica e di quella tardoanalitica; questo laboratorio teorico avrebbe portato alla proposta interpretativa che percorre The Interpretation of Cultures (1973). Gli appunti dei suoi corsi dipingono uno studioso mai specialista strictu sensu, sempre alla ricerca di un dialogo tra l’antropologia e le altre scienze umane, prime fra tutte filosofia e letteratura. Insomma, se i suoi racconti di culture lontane sono affascinanti, minuziosi, ricchi di aneddoti e osservazioni acute, è però il Geertz teoretico che stacca i suoi colleghi e che tocca picchi di genialità. È l’ampio respiro della sua cultura (insieme alla maestria della sua prosa) che gli permette di inserire le sue osservazioni balinesi e marocchine in riflessioni critiche (e autocritiche) esemplari. Gli interlocutori di Geertz, anche epistolari, che troviamo tra le sue carte sono solo in piccola parte antropologi: sono filosofi, economisti, storici della scienza, scrittori. Geertz è un ecumenico, di inclinazione e come metodo di lavoro; anche questo fa parte della sua pratica artigianale. C’è poi un secondo motivo per riappassionarsi oggi a Clifford Geertz. L’antropologia è la più giovane delle humanities, nata dapprima sotto la cattiva stella del dominio coloniale, e in seguito, a fronte della decolonizzazione, alla perenne ricerca di se stessa. Non solo la prosa di Geertz spinge a riappassionarsi a questa disciplina abbandonando tanto il mito dell’alfabetizzazione culturale quanto quello della fuga nell’esotico; ma tra le sue pagine ci si interroga in concreto sul lavoro dell’antropologo di domani, cui si lanciano sfide con inesauribile passione, come ogni vero maestro dovrebbe fare. È il caso proprio degli ultimi saggi raccolti in Life Among the Anthros. Geertz chiude così (omaggiando Isaiah Berlin e l’immagine archilochea, a lui cara, del riccio e della volpe) le pagine di An Inconstant Profession: “Gli antropologi si apprestano a dover lavorare oggi in una situazione mondiale ancor più disordinata, informe e imprevedibile di quella in cui ho lavorato io (e che, come credo di aver mostrato, era già sufficientemente irregolare), e ancor meno riducibile a categorizzazioni ideologiche e morali o a veloci giudizi politici. Una volpe nata: questo mi sembra l’habitus naturale dell’antropologo culturale, sociale, simbolico, interpretativo – e per esserlo servono genio, irrequietezza, evanescenza e un’appassionata antipatia per i ricci. Tempi interessanti, una professione incostante: invidio ■ coloro che erediteranno tutto questo”. martinamenga@msn.com M. Mengoni è dottoranda in antropologia presso la Fondazione San Carlo di Modena


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Uno sguardo alla recente narrativa cinese femminile Non solo falene frastornate

er la seconda rassegna che su queste pagine dedico ai libri dalla e sulla Cina, è mia intenzione districarmi fra tante interessanti sollecitazioni privilegiando quei testi che trattano della condizione femminile o che sono stati scritti da donne. Mi limiterò alle uscite più recenti, altrimenti non vi sarebbe spazio a sufficienza e non potrei dare il dovuto risalto a quanto è stato pubblicato in questo

decennio sull’argomento, un argomento che appassiona da quando Mao disse che le donne reggono la metà del cielo. Il che è universalmente vero, dato che le donne sono la metà del genere umano e che continuano a reggere metà del cielo anche se il loro sforzo non viene sempre riconosciuto o premiato, anzi, il più delle volte il cielo cade loro addosso, le soffoca come una pesante cappa di piombo. E non parlo soltanto delle donne cinesi, è ovvio. Ma torniamo alla condizione femminile in Cina. Di donne giovani, quasi adolescenti, si tratta nel libro Operaie di Leslie T. Chang (Adelphi, 2010) e del loro accorrere nelle fabbriche abbandonando coraggiosamente i loro villaggi sperduti di campagna. Sì, perché andare in città a lavorare come migranti è un’avventura che può preludere al raggiungimento di una certa indipendenza economica, magari a un avanzamento sociale, questo è il sogno di tutte: ma soltanto per pochissime il sogno si avvera, per la maggior parte sono lacrime e sangue.

villaggio a sposarti. Nel suo diario una delle operaie scrive: “Il mio corpo e il mio spirito sono troppo stanchi, non voglio più vivere così, non voglio. Non vivrò più così. Ma come dovrei vivere?”. Di una scrittrice cinese del recente passato, Zhang Ailing, nota anche come Eilen Chang, che ha lasciato la Cina nel 1956 per trasferirsi negli Stati Uniti dove è morta nel 1995, voglio invece segnalare tre romanzi, uno più bello dell’altro: Tracce d’amore, L’amore arreso e Lussuria (Rizzoli, rispettivamente 2011, 2009 e 2007), dal quale il regista Ang Lee ha tratto il film pluripremiato dallo stesso titolo, almeno in italiano. Le donne delle quali Zhang Ailing traccia i ritratti sono delle giovani benestanti e “moderne” della Cina degli anni trenta e quaranta, ma sarebbe più giusto dire della Shanghai di quell’epoca, perché forse la vera protagonista dei suoi racconti è Shanghai. Un critico cinese ha scritto che questa scrittrice sta a Shanghai come Victor Hugo sta a Parigi e Charles Dickens a Londra. Certo, intende alla Shanghai di prima del comunismo e anche a quella di adesso perché la città, castigata da Mao per i suoi “peccati capitalistici”, è risorta come la fenice dalle sue ceneri. La vecchia Shanghai di Zhang Ailing si ricongiunge all’attuale senza soluzione di continuità, al punto che di recente è uscita una Guida alla Shanghai di Zhang Ailing perché la scrittrice, messa all’indice negli anni del realismo socialista trionfante, oggi è esaltata come la “conturbante signora delle lettere”. Shanghai è un paradiso che poggia su un inferno, si diceva una volta e lo si potrebbe forse dire

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eslie T. Chang, cinese americana che è stata corrispondente dalla Cina del “Wall Street Journal”, in questo suo avvincente e lungo reportage ha seguito per anni le vicissitudini di molte operaie, stupefatta per quante difficoltà riuscissero a sopportare, ammirata soprattutto per la loro tenacia: settimana lavorativa di 49 ore ma gli straordinari sono attesi come una manna del cielo, se e quando vengono pagati. E poi gli alloggi, una stanza condivisa spesso da dieci o più ragazze, i rapporti con il mondo esterno inesistenti, la pungente nostalgia di casa accompagnata dalla consapevolezza che non si può tornare indietro perché sarebbe riconoscere la sconfitta. Spiega un’operaia sedicenne che soltanto una diecina di anni fa non era nemmeno pensabile che una ragazza andasse via di casa per lavorare, era considerato un disonore per tutta la famiglia, mentre adesso è una vergogna restare. Ma cosa succederà a tutte quelle che non riusciranno vincenti? Le aspettative della famiglia condizionano il presente e il futuro: se non fai carriera in fretta, torna al

ancora oggi. È una città di donne dominanti, scrittrici e Dark Ladies, donne belle e “belle scrittrici”, come si definiscono le ragazze dal successo immediato come Mian Mian e Wei hua. Hanno scritto romanzi tipo Candy e Shanghai Baby, si sentono le eredi di Zhang Ailing, ma il paragone non regge. In lei c’è consapevolezza di tragedia mascherata dal cinismo, dall’ironia, dall’elegante scrittura. Qu Xiaolung, autore di romanzi poli-

zieschi e anche letterato raffinato, ha scritto: “Che donna! Le sue parole danzano come un poema, volteggiano pagina dopo pagina”. E danzano e volteggiano anche in italiano perché sono state tradotte dalla premiata coppia Maria Gottardo e Monica Morzenti. Al suo confronto Mia Mian e Wei Hua appaiono come falene frastornate dal nuovo che avanza mentre lei, la conturbante signora, non si lasciava incantare dagli aspetti sconvolgenti che la modernità andava assumendo. Zhang Ailing è amara e sarcastica, il suo è un mondo in cui le donne riescono a manipolare e a intrattenere relazioni con gli altri attraverso la casa, gli abiti, i fiori, le schermaglie di amore e odio, tutto nell’ottica della “roba”, del denaro. Nessuno dei suoi personaggi anela a trascendere il quotidiano, tutti sognano di essere baciati dalla fortuna che non arride quasi mai. Tenta un atto eroico soltanto la protagonista di Lussuria, ma mal gliene incoglie, cioè nel film di Ang Lee muore mentre nel libro si lascia ambiguamente intravedere la speranza che riesca a sopravvivere. Ma tant’è, le donne create da questa autrice anche se per lo più frivole, borghesi, vittime o carnefici che siano, portano tutte sulle spalle il fardello del tempo tragico in cui vivono, un fardello che pesa su di loro nel flusso dei piccoli fatti quotidiani che seguono supinamente, spesso con inconscia disperazione.

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ora passiamo al libro di una giornalista italiana che parla e scrive cinese e che viene accolta come stagista nella redazione on line del “Quotidiano del Popolo”, lo storico organo di stampa del Partito comunista cinese, sua “lingua e bocca”. Sembra impossibile, una fandonia propagandistica. Eppure Emma Lupano l’ha fatto, con lo spirito di servizio di chi ha deciso di servire il popolo, perché scrive: “Se fare il giornalista come il partito comanda equivale a ‘servire il popolo’, allora lo ammetto, ho servito il popolo cinese”. L’ha fatto all’interno di una redazione tutta di giornalisti cinesi dove si è mossa con l’intelligente scioltezza di una nostra fidata “spia”, tentando di addentrasi nei misteri della censura, nelle contraddizioni di mutevoli linee propagandistiche. Ha esteso poi il suo compito di osservatrice a tutta la mappa dei media cinesi, dalla carta stampata al web passando per la televisione, illuminando con fasci di luce un universo di comunicazione che nell’era della globalizzazione di tutti i mercati pretende di costituire un caso a parte, una variante dell’informazione dai “colori cinesi”, gli stessi del suo bizzarro socialismo. In verità, del mondo dell’informazione cinese che ormai si qualifica come un’industria poco si sa, e con questo suo Ho servito il popolo cinese. Media e potere nella Cina di oggi (pp. 178, € 15, Brioschi, Sesto Fiorentino 2012), Lupano, che ha già vinto il premio internazionale di giornalismo Maria Grazia Cutuli per la sua tesi di dottorato sui giornalisti freelance cinesi, è andata oltre i luoghi comuni che dipingono il sistema mediatico cinese come un monolite mummificato abile a far tacere qualsiasi voce indipendente osi levarsi, per poter poi così condannare la censura e l’oscurantismo di un sistema che è invece assai complesso e articolato, più di quanto si immagini. E ce lo fa conoscere una donna, perché le donne che scrivono non si interessano soltanto di questioni femminili. Ci ■ mancherebbe altro. renata.pisu@fastwebnet.it R. Pisu è giornalista

- Narrativa cinese

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Renata Pisu

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menti in rete ato: approfondi L’Indice allung

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Il primo rapporto sull’applicazione dei diritti umani in un centro di detenzione italiano per immigrati (Cie) Dietro a quei cancelli Intervista a Abigael Ogada-Osir, Emanuela Roman e Ulrich Stege di Michele Spanò

lrich Stege è il coordinatore del Clinical Program dell’International University College (IUC) di Torino. Insieme alle studentesse Abigael Ogada-Osir e Emanuela Roman ha curato Betwixt and Between: Turin’s CIE il report che raccoglie i dati della ricerca condotta dalla “clinica legale” dello IUC sulle condizioni di detenzione dei migranti nel Centro di identificazione ed espulsione (CIE) di Torino. Il report può essere letto e scaricato al seguente indirizzo internet: http://www.iuctorino.it/content/betwixt-and-between-turin%E2%80%99s-cie

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L’esperimento che ha condotto alla stesura del ‘report’ si è realizzato con un anno di lavoro della Law Clinic dell’International University College di Torino. Quali erano gli obiettivi e quali sono i risultati? La legislazione è strettamente intrecciata al contesto sociale e politico e uno studio comprensivo e indipendente dovrebbe guardare a come le leggi operano nella pratica nonché ai loro effetti sulle persone. Quando l’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) riconobbe l’esigenza di un’indagine oggettiva sull’applicazione dei diritti umani nelle politiche e nelle procedure del Centro torinese di trattenimento degli immigranti (CIE di Torino), ai nostri studenti di clinical legal education si offrì una splendida occasione per migliorare la loro conoscenza accademica delle leggi sulle migrazioni svolgendo un’inchiesta diretta sui diritti umani. Gli studenti hanno creato e gestito il progetto di ricerca sotto la supervisione di professori e in stretto rapporto con il lavoro dal basso. Inizialmente avvocati, ricercatori e volontari ci hanno aiutato a entrare in contatto con alcuni trattenuti del CIE per le prime interviste. Una volta avviate, all’interno del CIE si è sparsa rapidamente la voce del progetto in corso e sono stati loro stessi a fornirci un folto campione trasversale, culturalmente e linguisticamente diversificato, di molti altri trattenuti interessati a partecipare.

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- Migrazioni

Durante la stesura e la preparazione del ‘report’ quali sono state le difficoltà maggiori, tanto nel rapporto con le autorità che nelle interviste con gli ex detenuti? Avevamo l’esigenza di riconsiderare costantemente la nostra posizione e le valutazioni etiche circa il nostro ruolo di ricercatori indipendenti che parlavano a persone estremamente vulnerabili. Non volevamo offrire una falsa sensazione di speranza ai trattenuti rispetto a ciò che si sarebbe potuto ottenere accettando di partecipare al progetto. Tuttavia, ci siamo altrettanto sforzati di condurre le interviste in modo empatico e aperto. Quando telefonavamo ai trattenuti dentro o fuori dal CIE, eravamo commossi dalla loro accoglienza, dalla loro generosità e in generale dal forte desiderio di raccontare la loro storia e di far sapere al mondo esterno chi erano e quali esperienze avevano vissuto dietro quei cancelli. Le interviste con i partecipanti non trattenuti presentavano anch’esse difficoltà inizialmente non evidenti. Avevamo risorse estremamente limitate in quanto il progetto era essenzialmente gestito da sei studenti e due avvocati con le loro agende fitte di impegni universitari e lavorativi. Sono stati sei mesi turbinosi di email a tarda notte, tra corse a fare interviste, ore di accurata trascrizione e minuziosi

controlli incrociati delle traduzioni da varie lingue, ricerche giuridiche, scrittura e revisione. Abbiamo cercato di intervistare quante più persone possibile nei mesi da marzo a giugno 2012. Purtroppo, ci sono voluti più di quei quattro mesi per ottenere l’autorizzazione a incontrare i responsabili della polizia o della Croce Rossa e quando ci hanno concesso una dettagliata intervista di quattro ore, dopo la pubblicazione del primo report, nel dicembre 2012, abbiamo prodotto un supplemento. Analogamente, abbiamo raccolto dodici interviste con un gruppo selezionato di soggetti non-trattenuti, visto che non avevamo i mezzi per intervistare tutti gli attivisti, le associazioni o le Ong operanti sul campo.

sti che operano nel campo e dunque colmava un vuoto, visto che prima c’era poco in termini di ricerche oggettive ed esaurienti in lingua inglese sulla legislazione italiana e sull’applicazione specifica di leggi e procedure nel trattenimento degli immigranti in Italia. Tuttavia, il fatto che limitassimo generalmente la nostra analisi alle questioni legali senza addentrarci molto nel più vasto campo della teoria politica sui temi dell’immigrazione, della coercizione o dell’“alterizzazione”, costituiva anche un limite per ciò che potevamo ricavarne. Come autori, eravamo costantemente combattuti rispetto al dovere di restare nell’ambito prefissato della ricerca, poiché dopo mesi passati ad ascoltare storie di sofferenza era difficile tenersi fuori dal più ampio dibattito filosofico e concettuale. In questo senso, c’è voluto autocontrollo per rispettare gli obiettivi del report ma, a pensarci bene, questo freno ha reso possibile un lavoro di ricerca migliore e più imparziale. La presentazione torinese del “report” (che faceva seguito a una serie di presentazioni accademiche) è stata teatro di contestazioni e accese prese di posizione. Qual è il bilancio delle reazioni – dell’autorità pubblica come della cittadinanza attiva – a qualche mese di distanza dalla pubblicazione?

È un’occasione più unica che rara quella in cui un ex trattenuto possa porre delle questioni in pubblico alle autorità di cui aveva subito le imposizioni. Ci vuole del coraggio, tanto da parte dei rappresentanti delle autorità che degli ex trattenuti, per accettare volontariamente di partecipare a una conferenza pubblica come quella che si è svolAbbiamo scelto le persone da intervistare in base a ta a Torino nel dicembre scorso. È stato veramencriteri che permettessero di arrivare a risultati il più te un bel risultato sul piano del dibattito all’interpossibile equilibrati, professionali e imparziali, e di no della società civile perché coinvolgeva ex trataccrescere le conoscenze in merito al trattenimento tenuti, associazioni comunitarie, avvocati, ricercadegli immigranti. Le precedenti indagini sull’argo- tori e studenti che erano lì ad ascoltare e a rivolgemento in Italia comprendevano un numero relati- re domande direttamente al capo dell’Ufficio Imvamente ridotto di testimonianze dirette da parte migrazione della Questura di Torino, al direttore di attuali o ex trattenuti, e avevamo l’occasione uni- della Croce Rossa del CIE torinese, al coordinatoca di includere alcune delle loro voci nel nostro re della Sezione Immigrazione dei Giudici di pace, progetto. Abbiamo cercato di creare uno spazio ai giudici della I Sezione Civile del Tribunale di Torino, al presidente deldove almeno diciassette l’ASGI e a degli accademitrattenuti hanno avuto la La Human Rights and Migration Law ci. Il pubblico variamente possibilità di far ascoltare Clinic è uno dei solo tre progetti di cliniorientato ha dimostrato cola loro storia: non solo per cal legal education attualmente in corso me, nonostante le grandi un quarto d’ora davanti a nelle università italiane. Secondo la defidifferenze politiche preun Giudice di pace in una nizione data dall’European Network for senti nel dibattito, tutti caotica udienza di convaliClinical Legal Education, si tratta di “un quanti condividiamo un rida, bensì in modo che fosse metodo di insegnamento giuridico basato spetto per la ricerca e per il ascoltata e messa a verbale sull’apprendimento sperimentale, che svidovere di render conto del nei pubblici registri. luppa non soltanto le conoscenze, ma annostro operato. che le competenze e i valori, promuovenCi sono stati dei contedo al tempo stesso la giustizia sociale. In statori che protestavano Il fatto che il vostro fossenso lato, descrive i molteplici programcontro il direttore del Cie, se un lavoro di giuristi (e mi e progetti didattici, formali, non-forma anche contro la confenon di semplici attivisti) mali e informali, che utilizzano una metorenza stessa in quanto non ha influito sugli obiettivi e dologia di apprendimento interattiva erano d’accordo con la sui metodi della ricerca? (practical-oriented, student-centred, pronostra idea di confrontarci blem-based) ponendo l’accento sul lavoro con il sistema e con le auIl cambiamento sociale si pratico degli studenti rispetto a casi reali torità e di intervistare e produce a partire da un e temi sociali sotto la supervisione di acascoltare i funzionari della mix eclettico in cui agiscocademici e professionisti”. polizia e della Croce Rosno idee filosofiche, protesa. Tuttavia, come ricercaste pacifiche o azioni dirette, giornalismo investigativo, processi strategici o tori, il nostro ruolo era quello di favorire la più iniziative di persone all’interno dello Stato che cer- ampia discussione possibile perché è importante cano di migliorare il sistema in cui operano. Cia- mettere tutti intorno a un tavolo e ascoltare ciascuno di questi metodi presenta vantaggi, svantag- scuno le opinioni altrui. La conferenza è stata gi e limiti. In quanto avvocati e giuristi specialisti inoltre un grande esempio di partecipazione dei di diritti umani, era forse questo il contributo ri- giovani al dibattito della società civile perché atspetto al quale eravamo meglio posizionati e la me- traverso la loro ricerca gli studenti del nostro cortodologia e gli obiettivi dello studio sono stati am- so hanno avuto un’effettiva opportunità di pren■ piamente influenzati dal fatto che mirassimo a dervi parte. un’indagine giuridica oggettiva. Pensiamo che il michelespano@virgilio.it successo del report sia derivato dal fatto che corriM. Spanò è assegnista di ricerca in diritto privato all’Università di Torino spondeva a una richiesta da parte dei professioni-


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Libro del Mese Il presidio della dignità umana di Remo

Stefano Rodotà IL DIRITTO DI AVERE DIRITTI pp. 434, € 20, Laterza, Roma-Bari 2012

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i troviamo dinanzi ad una summa del pensiero di Rodotà, in cui si fondono temi di un’intera vita di studi, a partire da quelle Note critiche in tema di proprietà (“Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 1960), che rivelano il volto già maturo di un giurista (a quel tempo, ma ancora oggi) atipico, attento a cogliere “il pieno rigoglio di questo mondo nuovo, in cui si scorgono i segni di meravigliosi svolgimenti pur nelle strutture giuridiche” (ivi). Non vi è quindi pagina, fra le oltre quattrocento in cui si distende il contenuto di quest’opera, che non offra ragioni di essere segnalata. Se il diritto ci appare oggi affrancato dalla sua tradizionale “separatezza” rispetto alle correnti culturali contemporanee e coinvolto nei dibattiti dell’opinione pubblica che toccano temi centrali della vita individuale delle persone, nonché della vita collettiva delle comunità, lo si deve alle opere di studiosi come Rodotà. “Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa”. Il libro reca questa epigrafe, tratta dall’opera di Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo, 1951; Einaudi, 2004) e sollecita così a constatare una certa tensione tra gli sviluppi del pensiero dei due autori. Per Arendt il diritto di avere diritti non è garantito dall’umanità stessa. Al contrario: “La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche tranne la loro qualità umana (…). I superstiti dei campi di sterminio, gli internati dei campi di concentramento e gli apolidi hanno potuto rendersi conto (…) che l’astratta nudità dell’esserenient’altro-che-uomo era il loro massimo pericolo”. Non è idilliaca la concezione che Rodotà contrappone nella sua opera alle aspre pagine di Arendt: “Diritti senza terra vagano nel mondo globale alla ricerca di un costituzionalismo anch’esso globale che offra loro ancoraggio e garanzia. Orfani di un territorio che dava loro radici e affidava alla sovranità nazionale la loro concreta tutela, sembrano ora dissolversi in un mondo senza confini dove sono all’opera poteri che appaiono non controllabili”. Un’analisi serrata dei riconoscimenti e delle negazioni dei diritti percorre tutto il libro, di cui indichiamo i titoli dei capitoli, per risvegliare un’idea della ricchezza di contenuti: spazio e tempo dei diritti, spazio dell’Europa, mondo nuovo dei diritti, mondo delle persone, mondo dei beni, dal soggetto alla persona, dignità umana, diritto alla

Caponi verità, diritto all’esistenza, autodeterminazione, identità, uomini e macchine, post-umano, una rete per i diritti. In questa riflessione l’intelligenza profonda delle cose è sorretta dalla passione civile e dalla tensione a incidere sulla realtà (e Rodotà ha inciso in aspetti importanti della realtà di cui scrive, basti pensare al suo ruolo in seno alla Convenzione che ha elaborato la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché come presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e del Gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell’Unione Europea). Una riflessione fresca e avvincente, dove anche le pagine ricavate da studi anteriori ricevono nuova luce. Mentre il discorso di Arendt collega la “fine dei diritti umani” al “tramonto dello stato nazionale” e non offre spiragli, le pagine di Rodotà si aprono continuamente alla speranza: “In questo tempo tanto mutato torna, forte, l’appello ai diritti fondamentali, che percorre il mondo in forme inedite, incontra sempre più nuovi soggetti, costruisce un diverso modo di intendere l’universalismo, fa parlare lo stesso linguaggio a persone lontane (…). Il ‘diritto di avere diritti’ connota la dimensione stessa dell’umano e della sua dignità, rimane saldo presidio contro ogni forma di totalitarismo”. La partita decisiva si gioca nel campo di tensione generato dai due poli evocati da Rodotà nelle prime righe del suo libro: potrà mai esistere un “costituzionalismo globale” in grado di sfidare effettivamente “poteri che appaiono non controllabili”? Oppure la protezione dei diritti fondamentali dovrà continuare a essere collegata essenzialmente all’esercizio dei poteri statali, come proclama l’articolo 1 del Grundgesetz tedesco, che aspira così a rovesciare in termini positivi la durissima lezione della storia? Dovrà la protezione dei diritti fondamentali continuare a essere affidata ai poteri statali almeno nel momento ultimo, quando azioni “esecutive” (mi sia concesso quest’unico cedimento al mio interesse specialistico) siano chiamate a concretizzare le “belle parole” delle istanze internazionali (comprese quelle delle corti), al fine di dare effettività a quei diritti? E taciamo sul fatto che, a volte, nemmeno le parole delle corti internazionali sono tanto belle. Non sono belle, per esempio, le parole pronunciate il 3 febbraio 2012 dalla Corte internazionale di giustizia nella vicenda relativa all’immunità giurisdizionale della Repubblica federale tedesca per i crimini nazisti commessi in Grecia e in Italia durante la seconda guerra

mondiale. Chi è poco avvezzo a frequentare gli ambienti del diritto internazionale rimane sbalordito: formalmente la pronuncia è stata resa nei confronti dello stato italiano, in relazione ad alcune sentenze della Corte di cassazione che, a partire dal 2004, avevano rifiutato di concedere l’immunità, ma in sostanza è come se la Corte dell’Aja abbia detto ai parenti delle vittime: avete ragione, ma io vi nego il giudice e quindi vi nego protezione giudiziaria. Tra le due posizioni fondamentali che si contendono la ricostruzione di quel campo di tensione evocato da Rodotà, la prima che constata il declino del costituzionalismo moderno legato allo stato nazionale (per tutti, Dieter Grimm, Die Zukunft der Verfassung II, Suhrkamp, 2012), la seconda che sviluppa l’idea di una costituzione per l’intera società europea e poi per la società mondiale (per tutti, Jürgen Habermas, Zur Verfassung Europas, Suhrkamp, 2011), guadagna terreno e attenzione una terza posizione, che cerca di porre “la nuova questione costituzionale (…) non solo in rapporto alla politica e al diritto, ma in rapporto a tutti i settori della società”. Certo è che, in confronto con la vecchia questione costituzionale del XVIII e del XIX secolo, si pongono oggi problemi di tipo diverso, ma non meno gravi: “Se allora si trattava di liberare le energie politiche dello Stato nazionale e contemporaneamente di delimitarle dal punto di vista giuridico”, si tratta adesso di “arginare gli effetti distruttivi di ben altre energie sociali, particolarmente avvertibili nell’economia, ma anche nella scienza e nella tecnologia, nella medicina e nei nuovi mezzi di comunicazione” (Gunther Teubner, Nuovi conflitti costituzionali, Bruno Mondadori, 2012). Infine una disclosure personale: l’impulso determinante a iscrivermi alla Facoltà di Giurisprudenza l’ho ricevuto nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso, leggendo i commenti che Stefano Rodotà scriveva per le colonne di “la Repubblica”. Essi fecero scoprire a me, allora studente di liceo di un paese di provincia, insieme agli “occhiali del giurista”, un modo nuovo di guardare al mondo. ■ remo.caponi@unifi.it R. Caponi insegna diritto processuale civile all’Università di Firenze

Un cammino troppe volte interrotto di Donato l diritto di avere diritti: a molti esperti del settore il titolo dell’ultimo libro di Rodotà parrà, più che inconsueto, disturbante. Si insegna da decenni nelle facoltà (pardon, dipartimenti) di giurisprudenza ad avere piuttosto a che fare, sotto il nome di capacità giuridica, con l’idoneità ad avere diritti: nozione tutta “scientifica”, moralmente fredda come un assioma della geometria, degna di un linguaggio che aspira a essere sufficiente a se stesso. È infatti il diritto medesimo, chiunque abbia la potestà di generarlo, ad attribuire la capacità: o a non attribuirla, o a negarla, come facevano le leggi razziali. Diritto ad avere dei diritti è per i dettami del positivismo formalista un’inammissibile ridondanza: esprime istanza, bisogno, volontà, tutto ciò che è estraneo all’ideale della conoscenza pura: e introduce nell’orizzonte del discorso un evidente elemento di dualità. Al pensiero di Hannah Arendt messo in epigrafe al volume non sarà dunque fuori luogo accostare le parole di Zagrebelsky: un sistema giuridico-politico non posto in “tensione critica” può trasformarsi in una “macchina letale”. Da questo libro l’idolo del sistema come macchina semovente esce del tutto screditato. I principi costituzionali, a differenza di quelli della geometria, reclamano un continuo impegno d’attuazione; i testi del convenzionalismo internazionale chiedono d’essere tradotti in locali misure. Vi sono poi le tensioni dell’economia, quale questione universale della finitezza dei beni; le tensioni della tecnologia, donde sfide colossali di convivenza; e in fondo a tutto la tensione dei sentimenti d’ingiustizia, di cui i diritti sono specchio. Il diritto di avere diritti ha fondamento nelle affermazioni di diritti i quali, per esigere stanziamento di risorse e funzionalità d’apparati, troppo spesso sono intesi come da non “prendersi sul serio”; nella convinzione profonda di una “operosa molteplicità di donne e uomini”; e ancor prima nel riconoscimento, a dispetto della loro diversità, di eguaglianza tra gli umani. Immerso in un presente dal dinamismo vertiginoso, che induce apocalittici e entusiasti a opposte variazioni sul tema della svolta, pure il volume esprime un vivo senso di continuità. I diritti della persona sono un relativamente stabile precipitato storico; la nuova antropologia dell’autodeterminazione sta in fondo a un cammino “cominciato” e “troppe volte interrotto” (sovviene la lectio di Pierre Rosanvallon pubblicata dall’“Indice” un paio di numeri fa: ove si auspica la ripresa dell’eguaglianza come “modo di costruire

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Carusi una società” messo in ombra dalla rivoluzione industriale, dai nazionalismi e populismi, da quella che Rodotà chiamerebbe la promozione di un’identità politica oppositiva; cfr. “L’Indice”, 2013, n. 1). Non certo un manuale, non un breviario di risposte: piuttosto, a una quindicina d’anni da Repertorio di fine secolo, un’aggiornata, ribollente, finanche spaventevole ridda di domande. Ma anche un inventario di risorse del pensiero, di idee agitantisi nel più avanzato dibattito internazionale, di criteri di scelta da confrontare, selezionare, contemperare. A opera di un giurista, insomma, l’inconfutabile dimostrazione della necessità della politica: e insieme un’appassionata testimonianza di fiducia nei fragili – per questo nobili ? strumenti del diritto. Al tempo in cui il corpo politico, scoprendosi allargato alla misura del mondo, non può più rapportarsi ad alcun fuori che lo contenga, il corpo dell’individuo perde definizione? protesi di vario genere sono in grado di modificarne le funzioni? e il suo “corpo elettronico” deborda: utilizzando pc, telefoni, bande magnetiche di ogni sorta di card, diffondiamo intorno a noi, con labile coscienza, una scia continua di tracce. Messe in reciproca comunicazione, le banche-dati partoriscono profili sorprendentemente ampi e articolati. Prende per reazione a delinearsi il diritto della persona non solo di conoscere la logica applicata nei trattamenti automatizzati delle informazioni, ma anche di sottrarsi a decisioni su tali trattamenti esclusivamente fondate. È che, nel generale dilatarsi di contorni, l’umanità pensante trova di essere inchiodata al tema del limite. Il consenso ha le sue “trappole”, la libertà mantiene una sostanza solo in un quadro di ponderata indisponibilità. Se non ci piace la prospettiva di un’esplosione della specie, della scomposizione in caste della società, l’accesso ai potenziamenti tecnologici del corpo va regolamentato. Le modificazioni trasmissibili del genoma vanno ammesse solo a certi fini e la clonazione riproduttiva deve rimanere vietata. Problemi che eccedono, come tanti altri, i confini nazionali. Anche qui, tuttavia, bando ai discontinuismi: nella dimensione statale si colgono ancora strumenti e opportunità indispensabili. Connessa è la critica a chi lamenta nelle lodi dei diritti solo “la coda lunga” di una pretesa neocolonialista. L’idea montante di una cittadinanza de-territorializzata si oppone, non meno che alle politiche della paura, ai romanticismi dell’altrove e alle intransigenti esaltazioni della differenza. In ciò l’autore sembra vicino ad Amartya Sen, a Martha Nussbaum, ai viaggiatori cooperatori e militanti della negoziazione multilaterale, a tutti quanti constatano l’esistenza e si ostinano a coltivare la presenza, sotto ai “valori fondativi dei diritti”, di “radici comuni”. ■ donato.carusi@giuri.unige.it D. Carusi insegna istituzioni di diritto privato all’Università di Genova


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Primo piano La biologia della creatività di Michele he Age of Insight, titolo traducibile forse come “L’età della visione” o persino “L’età della veggenza”, è un libro con molte narrazioni al suo interno. È un trattato scientifico scritto da uno scienziato tra i più insigni nell’ambito della neuroestetica, Erich Kandel, premio Nobel per la medicina nel 2000 per le sue ricerche sulla base biologica della memoria. È un’ammirata ricognizione nei territori dell’arte e della creatività. È infine “tempo ritrovato”: giunto in tarda età, Kandel rievoca la Vienna della sua giovinezza e dedica un grandioso omaggio agli artisti, agli scienziati, agli storici dell’arte che hanno fatto grande la capitale dell’impero asburgico tra la fine dell’Ottocento e l’annessione tedesca. Il punto di vista di Kandel è decisamente situato per quanto riguarda l’arte e lo studio dell’arte: si inscrive nel concetto di scienza dell’arte maturato da storici della Scuola di Vienna. Determinate assunzioni gestaltiche appaiono confermate dalle recenti acquisizioni della biologia della mente e Kandel insegue il proposito di enucleare e catalogare gli “universali” della visione, anche se questi gli appaiono cablati nelle strutture neurali. Riesce particolarmente persuasivo, nello svelarci i misteri della creatività, quando passa a considerare i repertori di schemi, diagrammi, proto-immagini di cui il nostro cervello dispone e di cui si serve con prodigiosa rapidità per comparare e “riconoscere” le forme della percezione. La principale tesi storiografica è la seguente: a Vienna attorno alla fine dell’Ottocento si crea un’enclave culturale a suo modo irripetibile, caratterizzata dal salotto come luogo di incontro tra competenze e saperi diversi. A differenza di quanto accade a Parigi o a Berlino, dove le cerchie non si uniscono, nella capitale austroungarica medici e musicisti, artisti e letterati si scambiano esperienze o prospettive di ricerca nel corso di incontri informali a casa delle grandi dame della città. La facoltà di medicina conferisce un impulso eminente alla vita culturale viennese per l’enfasi che i suoi luminari pongono sull’esperienza anatomo-patologica e il partito preso sperimentale. Il medico, si insegna, non dovrà limitarsi alla pratica clinica. Sia Freud che Schnitzler sono allievi della facoltà, e Kandel trova nell’uno e nell’altro l’esigenza di spingersi oltre e al di sotto delle apparenze, di investigare il comportamento umano senza considerazioni di decoro, opportunità o cautela. Sappiamo come erotismo e sessualità si riveleranno campi fertili di indagine per lo psicoanalista e lo scienziato, e come l’inibizione o la deviazione del desiderio sarà considerata dai due, in modi diversi eppure analoghi, origine del disturbo psicologico. Anche per i pittori viennesi del tempo la sessualità è ambito privilegiato di indagine, e Kandel dedica pagine appassionate agli artisti prediletti, Klimt, Schiele, Kokoschka. L’acuta percezione dell’artificiosità delle convenzio-

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Dantini ni sociali o dei modelli culturali di costruzione del gender spinge Klimt a erotizzare in misura inedita il corpo femminile, a interrogarne desideri irriconducibili ai ruoli sociali autorizzati di vergine, moglie e madre. Un’estrema necessità di provocazione sorregge pure l’attività di Schiele e Kokoschka: la percezione del disagio “culturale” si manifesta nelle loro opere in modo persino più disturbante che in Klimt, attraverso l’evocazione di patologie mentali e la pratica dell’autoritratto inteso come disvelamento schizoide. Kandel tralascia riferimenti storici e iconografici che avrebbero forse potuto rendere meno incomparabile l’“espressionismo” viennese: è evidente che le immagini di Schiele erotomane e onanista sono variazioni sul tema düreriano dell’Ecce Homo, e come tali, nella cornice di una precisa convenzione iconografica, dovrebbero essere interpretate. O che l’interesse per la raffigurazione del rapporto tra artista e modella, sempre in Schiele, rimanda a una precisa tradizione artistico-letteraria e contiene ammonimenti moraleggianti (sulla necessità della sublimazione).

Anche una più pronunciata distanza dal paradigma evoluzionistico della storia dell’arte avrebbe giovato: episodi circoscritti o nomi isolati sono talvolta privilegiati in modi sovrastorici. Resta tuttavia che gli artisti considerati, nel testo di Kandel, assolvono a un compito irripetibile: sperimentali, introspettivi e inclini alla riduzione, Klimt, Schiele e Kokoschka rendono trasparenti gli “universali” della visione portandoli come ad affiorare.

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bambini piccoli riconoscono di trovarsi in presenza di un volto dalla semplice percezione dell’ovale. Esplorano occhi e bocca senza interessarsi troppo del resto. Oppure interrogano con lo sguardo le mani della persona per coglierne stati d’animo e decidere se rimanere quieti o allarmarsi. Con pari selettività, Klimt, Schiele o Kokoschka tralasciano deliberatamente una grande quantità di dettagli figurativi per concentrarsi sull’essenziale e restituire l’interiorità della persona rappresentata. Sono neuroscienziati? Certo no, sostiene Kandel, ma la diffusione di pratiche sperimentali e il primato delle scienze medico-biologiche desta in loro un’attenzione senza precedenti per psicologia, fisiologia e corpo nudo. Distacchiamoci dal piano stori-

co-artistico per soffermarci sulle prospettive neuroestetiche di specifica competenza dell’autore. Il volume ha grande utilità per lo storico dell’arte e aiuta a mettere a fuoco i contorni di una disciplina radicata nel “visivo”. Il processo di elaborazione ottica è di enorme complessità. A tutta prima il mondo esterno (o un quadro di tradizione, che costituisce una sorta di modello dell’universo sensibile) si presenta come una congerie indifferenziata di stimoli e impulsi riluttanti all’organizzazione sintattica. Dove stabilire contorni, come “completare” immaginativamente corpi o oggetti in parte nascosti da ostacoli visuali, come percepire la costanza di un corpo in movimento? Sono domande a cui la mente risponde sperimentando schemi visivi, abbozzi di figura, ipotesi visuali cablate e disponibili in memoria. Il processo della visione è scomponibile in due momenti dinamicamente complementari. Lo stimolo visivo colpisce la retina e avvia una serie di elaborazioni bottomup, vale a dire “dal basso verso l’alto”, dalla periferia percettiva alle regioni corticali, dalla retina alla corteccia. Nello stesso tempo hanno luogo elaborazioni inverse, “dall’alto verso il basso” o topdown. Senza gli “schemi” percettivi cablati nelle reti neurali e le immagini in memoria non riusci-

Il laboratorio viennese di

Lamberto Maffei

Eric Kandel L’EPOCA DELL’INCONSCIO ARTE, MENTE E CERVELLO DALLA GRANDE VIENNA AI NOSTRI GIORNI ed. orig. 2012, trad. dall’inglese di Gianbruno Guerrerio, pp. 622, € 39, Raffaello Cortina, Milano 2012

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on il suo papillon e le risate improvvise, Eric Kandel è una persona a tutto tondo che unisce alla grande scienza e alla ricerca originale che gli sono valse il Nobel una cultura profonda che investe la sua parola come il suo comportamento. Porta in sé la cultura viennese, con le sue sfaccettature profonde e raffinate che hanno cambiato il pensiero della società occidentale, e lo fa con un filo di nostalgia per aver dovuto lasciare il suo paese in situazioni critiche per la libertà e la sopravvivenza. Da qui questo libro affascinante nel quale Eric scienziato, scrittore e un po’ artista, si esprime con libertà ed eleganza spesso impossibili o improprie nei lavori scientifici. L’autore vaglia i germi della rivoluzione culturale a cavallo del Novecento, li indaga con lo scrupolo del ricercatore e analizza la loro influenza sulla letteratura e sull’arte, soprattutto sulla pittura. I germogli nascono dalla scienza; la Vienna di quel periodo è stata una fucina, un laboratorio per la costruzione di una mente diversa, di una nuova maniera di pensare. Gli attori di questo laboratorio sono la scienza, l’arte e il fiorire di una nuova psicologia, quella dell’inconscio. L’elemento affascinante di questa cultura è la sua capacità pervasiva che la rende impulso comune al pensiero e anche all’azione. Una città dove si ha l’impressione che la cultura diventi una componente dominante della vita dei circoli, dei ritrovi e dei caffè. Lo strumento base che fa partire il laboratorio viennese è la scienza sperimentale, fisica e biologia, e molti nomi hanno fatto la storia del pensiero scientifico basato sui dati oggettivi, sulla logica e sulla dimostrazione. Da questo fiorire

del pensiero nasce l’esigenza ambiziosa di scoprire cosa ci sia dietro il comprensibile e il visibile al microscopio e di fare luce sui meccanismi della mente, della complessità dell’individuo e delle sue manifestazioni psichiche o neurologiche che rimandano a cause nascoste e ancora ignote. Era allora in grande uso l’ipnosi praticata da Charcot a Parigi, presso il quale molti, compreso Freud, andavano per apprendere e usare a loro volta la tecnica. L’ipnosi si rivela un chiavistello per aprire le porte nascoste della mente del paziente, con un’invasione violenta di ricordi dimenticati, di fiori o spazzatura nascosti non si sa dove, ma sicuramente nel cervello. L’attrazione per la conoscenza del corpo e dei suoi meccanismi diventa ossessiva e nei salotti dei coniugi Zuckerlandl si parla di medicina, di Darwin e si fanno vedere gli ovuli e gli spermatozoi al microscopio. I mantelli delle figure di Klimt spesso pullulano di ovuli e di sperma, anche se per ornamento, nel quadro della moda dominante dell’art nouveau. Klimt è espressionista nei temi ma seguace dell’art nouveau nello stile, e le sue rappresentazioni del sesso indicano anche il piacere. Espressionisti saranno due seguaci di Klimt, Kokoschka e Schiele, i quali useranno le mani o altre parti del corpo per rappresentare la spiritualità e la follia. I corpi si deformano e il sesso diventa anche ansia, paura. La bellezza dei corpi, particolarmente in Schiele, viene assai violentata. In questi due ultimi autori, forse prima che nella mente di Freud, nasce anche, insieme all’eros, il pensiero dell’aggressività e della morte, eros e thanatos. Freud, che non apprezzava particolarmente questa pittura, non si accorse che quegli artisti esprimevano proprio quelle immagini dell’inconscio, dell’es di cui lui parlava. Kandel è maestro nell’unire scienza e arte e nel far vedere che in fondo esprimono la stessa ricerca, le stesse pulsioni, lo stesso “presente”. Un libro affascinante di piacevolissima lettura, con il linguaggio chiaro e semplice della scienza e l’attrazione misteriosa dell’arte.

remmo a identificare gli oggetti né a fissare le invarianze spaziali, luministico-cromatiche e temporali. In breve: non riconosceremmo alcunché se già non conoscessimo almeno in parte. Nel tentativo di interpretare un’immagine e dare a essa un significato plausibile, lo storico dell’arte ricorre a repertori, a gallerie di immagini memorizzate. Stabilisce confronti, intavola discussioni, scarta, adotta e seleziona. Ricompone famiglie iconografiche. Il processo è solo in piccola parte conscio, per lo più avviene in assenza della volontà e del cono di luce dell’attenzione. Le neuroscienze ci dicono che l’interprete non è in grado di comprendere e restituire con acutezza, sia pure nel modo intuitivo che Kandel descrive nel modo più affascinante, se non dispone di un’ampia familiarità con l’arte di ogni tempo e luogo. Determinate acquisizioni sembrano caricarsi di rilevanti implicazioni critico-istituzionali. The Age of Insight è un’ampia ricerca sulla biologia della creatività. Kandel accoglie e integra le più recenti scoperte sul funzionamento della mente artistica e contribuisce a sua volta a esplorare quanto, sino a un recente passato era ignorato o, peggio, distanziato come patologia. Il riconoscimento dell’importanza del “pensiero divergente” è tra le più importanti conquiste delle scienze della mente, ed è destinato a produrre concrete iniziative di tutela e promozione della creatività. Gli emisferi destro e sinistro collaborano in modi molteplici e diramati. Poggiano ognuno su una propria specializzazione. Potremmo dire che il sinistro è dedito ad attività di controllo logico-linguistico e sovraintende alle routine, l’emisfero destro è invece orientato a intuizione e scoperta. Appare pertinente parlare di competizione tra emisferi più che di cooperazione. L’equilibrio è instabile: un’eccessiva attività dell’emisfero sinistro, descrivibile in termini di “stress da lavoro”, inibisce l’emisfero destro e pregiudica la “riconnessione neurale” che noi chiamiamo “creatività”. La predominanza del destro, se disequilibrata, porta invece a “esplosioni” di creatività desocializzata, come nel caso di persone che hanno subito lesioni o di savants autistici. I momenti davvero creativi, i “momenti Eureka” celebrati dagli scienziati, presuppongono un’interazione potenziata tra i due emisferi e hanno luogo in seguito a fasi di rilassamento e distensione profondi, in cui ci distogliamo dal problema che ci occupa e ci dedichiamo ad altro. In altre parole: contesti ipercompetitivi attraversati da sollecitazioni costanti e ripetitive congiurano contro il “momento Eureka”, e possono impedirlo per sempre. L’attuale sistema dell’arte o gli ambienti multitasking praticati in modo inesperto ci appaiono, se considerati dal punto di vista delle neuroscienze, sotto una luce meno entusiasmante. ■ michele.dantini@lett.unipmn.it M. Dantini insegna storia dell’arte contemporanea all’Università del Piemonte Orientale


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Primo piano Manca solo la principessa Sissi di Demetrio

Curzio Malaparte IL BALLO AL KREMLINO a cura di Raffaella Rodondi, pp. 417, € 22, Adelphi, Milano 2012

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autore lo definisce “un fedele ritratto della nobiltà marxista dell’Urss”. Della haute société comunista di Mosca “tutto è vero: gli uomini, gli avvenimenti, le cose, i luoghi. I personaggi non sono nati dalla fantasia dell’autore, ma sono dipinti dal vivo”. Malaparte fa un ampio uso dell’io, e ostenta familiarità con tutti i moscoviti parlando loro in francese, lingua poco conosciuta fuori dalla cerchia aristocratica. Per questo, oltre ad apprezzare le sue grandi doti di narratore, può essere interessante capire se i fatti di cui parla si siano svolti davvero nel periodo in cui li colloca. L’analisi della società elitaria attraverso le mogli dei funzionari ha del fascino ma interessa poco la storia vera. Malaparte amava il proprio racconto più della cronaca e della verità storica. Il ballo al Cremlino è ambientato durante una festa all’ambasciata britannica di Mosca. Il gossip della stagione? Stalin riuscirà a strappare la prima ballerina del Bolshoi, Semjonova, al tenebroso e affascinante Karakan? Lei sta entrando e il padrone di casa, Sir Ovey, le offre il braccio e la porta al buffet. “Lei regge con la mano sinistra il lembo della gonna che copriva appena i due piccoli piedi famosi, per cui tutta Mosca delirava, stretti in due scarpette di raso bianco”. Nel silenzio Karakan invita la Semjonova a un valzer: è il clou della serata. Manca solo la principessa Sissi. Karakan, rivoluzionario, già ambasciatore in Occidente, anche a Berlino, è l’idolo di Malaparte che, come ogni viaggiatore, ha trovato il suo Napoleone. Campione di tennis, vestito in completi bianchi di lino, usava solo le palle che si faceva spedire da Londra perché, spiegava all’ambasciatrice inglese in perfetta cadenza di Oxford, quelle sovietiche non rimbalzavano bene. Quasi quasi viene voglia di tifare per Stalin che lo incluse negli elenchi dei cattivi e lo fece ammazzare nel ’36. Malaparte giunge a Mosca pieno di entusiasmo, ma gli eroi della rivoluzione gli appaiono diversi da come se li era immaginati da lontano. Salvo Karakan, il pubblico presente all’ambasciata inglese gli pare corrotto, meschino, fatto di avventurieri o antichi sottoufficiali zaristi marci di ambizione personale. Poi si sofferma sulle “bellezze” del regime, forse perché le considera un corredo irrinunciabile di qualunque nuova aristocrazia. Con grande abilità descrive due mogli di marescialli, ambedue grassottelle, e la moglie di un altro maresciallo, Madame Budionnova, tonda e grassa, rimasta semplice (e il marito non aveva fatto nulla per cambiarla), ma, osserva l’autore, dotata di una volgarità piacevole. La moglie del responsabile della Cultu-

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ra Lunacarski era invece bruna e pallida, un viso dai lineamenti un po’ grossi, occhi neri, gonfi di sensualità, di cattiveria, di sonno, occhi di carne così dissimili dagli occhi di vetro chiaro delle donne russe del popolo. Chissà perché una signora della borghesia ebraica, Natalia Rozenel, avrebbe dovuto avere le sembianze di una contadina russa? “Parlatemi di Parigi” gli chiede Madame Lunacarski. E Malaparte lo fa, mentre difficilmente la moglie di un ministro della Cultura avrebbe potuto discutere di Parigi e dei suoi scrittori in quelle circostanze e con quel tono confidenziale che ritroviamo nel libro: tutto è così lontano dal rigoroso e serioso comportamento degli ospiti sovietici durante un ricevimento ufficiale. Il commissario Lunacarski abitava in poche stanze dai mobili scadenti che abbondavano solo di libri. Per molti anni la sua abitazione ebbe la funzione di casa-museo e divenne un’attrazione per gli ospiti stranieri. I colloqui più significativi di Malaparte a Mosca, quelli che dimostrerebbero la sua dimestichezza con la classe dirigente rivoluzionaria, sono quelli con Lunacarski e con il ministro Litvinov, ma riguardano soprattutto la letteratura, anche se con alcuni l’autore prova a parlare anche di Cristo, senza però trovare alcuna sintonia. I suoi interlocutori, riferisce Malaparte, sarebbero colpiti dal suicidio di Majakovski, che però avvenne il 14 aprile 1930, cioè un anno circa dopo il viaggio dell’autore in Russia. Nel libro la nobiltà russa di sangue sarebbe dotata di qualità come la riservatezza, la semplicità, il naturale decoro, una certa condiscendenza nei modi, nelle parole, nel sorriso e tante altre cose ancora. Quel che invece costituisce il carattere principale della nobiltà comunista non sarebbe la “compiacenza della ricchezza, del lusso, della potenza, bensì il sospetto e l’intransigenza ideologica”. Il loro disprezzo verso le vecchie classi dirigenti era sociale, quello di persone vissute fino al giorno prima nella miseria, nel sospetto, nella precarietà della clandestinità e della migrazione. Ma in pochi anni sarebbe stato possibile inventare un’intera casta, ancora precaria e incerta sul futuro, e farle deter-

minare un sistema politico? L’eliminazione in Russia, in quella fase storica, dei comunisti troppo di destra o di sinistra era compito della polizia segreta, e in nessun modo ha rappresentato un attacco al monopolio di Stalin. Ad affascinare l’autore, poi, è il sonno dell’immensa città proletaria, con il suo odore speciale, diverso da quello del sonno borghese. L’operaio non sogna la macchina, non il pane, non la vita lussuosa, “questi sarebbero sogni piccolo borghesi”. Sogna l’erba, la campagna, cose semplici, “una povertà di cui egli è partecipe, ma in qualità di padrone, non di schiavo”. Sogna un mondo povero, dove regni la giustizia. Della libertà non sa che farsene, non è una sua esigenza. La libertà per l’operaio non ha senso, ha senso solo la giustizia. Oltre a quel sogno, l’autore parla della decadenza della società marxista. E non solo di quella del ’29, ancora trozkista. Il segno distintivo del nuovo proletario sarebbe il fatalismo, ragione intima di ogni individuo russo, sotto la maschera di un’attività e di una fede fanatica. Malaparte ritiene di aver colto e mostrato l’inizio di questa decadenza della nuova nobiltà comunista. È tuttavia solo un frutto della propaganda staliniana l’immagine di Trockij come capo del gruppo politico che si identificava con la classe dirigente degli anni 192930, fatta di “pederasti, prostitute, borghesi arricchite e ufficialetti, sfruttatori della rivoluzione di ottobre”. Le purghe tra il ’36 e il ’38 hanno eliminato una parte dei funzionari del partito, le loro mogli sono finite nell’anonimato, alcune anche in prigione, ma non hanno toccato la sostanza della catena di comando. Quella che il nostro autore chiama “la nuova aristocrazia” finisce nelle purghe del ’36 ed è sostituita da un altro gruppo di privilegiati che, come i loro predecessori, vissero senza eleganza, senza moderazione e con grandi privilegi nel consumo. In parte, ma solo in parte, il privilegio di pochi finisce con la morte di Stalin e, se avesse voluto, Malaparte avrebbe potuto ammorbidire qualche giudizio, visto che visitò per la seconda volta Mosca ventisette anni dopo, quando già il rapporto di Krusciov non era più un segreto. La via centrale della capitale ha mantenuto fino a Gorbaciov la corsia preferenziale per le macchine dei dirigenti, ognuno di questi aveva una villa, più che una dacia, nei boschi intorno alla capitale. La classe dirigente continuava a rifornirsi di merci introvabili nei negozi, in alcuni spacci dai prezzi bassi. Malaparte ha sempre saputo descrivere la miseria e raccontare come anche gli ex ricchi piangono. Su una delle piazze centrali incontra il principe Lwow con una poltrona in testa, “perché quelle dorate sembrano tornare in voga”, che spera di vendere ai nuovi ricchi, e alza la poltrona deferente per salutare la principessa Galitzin, che vende sigarette davanti all’hotel Metropol, “povera signora che non sa che lo zar è già morto”. ■ d.volcic@email.it D. Volcic è saggista e giornalista

La fenomenologia del potere di Beatrice

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l sottotitolo redazionale (Materiali per un romanzo) che accompagna la pubblicazione del Ballo al Kremlino, uscito postumo nel 1971 per Vallecchi e mai più ristampato, è la prima spia delle qualità che fanno di questa riproposta un caso esemplare di buona editoria: onestà, rigore, rispetto per il testo e i suoi destinatari. La formula, discreta ma inequivocabile, segnala da subito al lettore che quella che ha di fronte è in primo luogo un’opera incompiuta, quindi segmentata in unità giunte a livelli diversi di elaborazione, e soprattutto un’opera di finzione, o meglio un ibrido tra cronaca e invenzione nato dalla stessa matrice creativa di Kaputt e La pelle, ossia dall’abitudine malapartiana di inoculare nelle proprie esperienze biografiche e nelle vicende storiche delle quali è stato testimone il lievito della trasfigurazione artistica, spinto talvolta fino alla manipolazione. Di far luce sul primo aspetto si incarica la lunga Nota al testo, quasi un libro nel libro, dove Raffaella Rodondi ricostruisce sulle carte d’archivio la genesi del romanzo, il suo tortuoso iter compositivo tra il 1946 e il 1950 e i debiti contratti con le altre opere malapartiane di argomento sovietico, da Tecnica del colpo di stato a Le bonhomme Lenin a Il Volga nasce in Europa.

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razie al suo prezioso viatico acquistano un senso che va al di là di quello meramente documentario gli abbozzi e frammenti riuniti nell’appendice, che accoglie, insieme a rifacimenti e prime stesure, anche il cosiddetto “Primo getto all’interno della Peste”, che avrebbe dovuto costituire, con il titolo Un miracolo a Mosca, il secondo capitolo del romanzo su Napoli: una quarantina di pagine che contengono già, insieme all’intento di offrire uno spaccato dell’aristocrazia marxista del 1929 (l’anno del primo viaggio dello scrittore in Unione Sovietica), tutte le scene, le figure e i temi chiave che Malaparte rielaborerà nel Ballo al Kremlino secondo il suo consueto metodo di lavoro, ossia per progressive dilatazioni di nuclei aneddotici e incrementi potenzialmente infiniti di episodi, guidato da un progetto strutturale di tipo modulare dove i “ritratti in piedi” degli eroi della rivoluzione, dei funzionari della nomenklatura, dei diplomatici stranieri e delle loro mogli e amanti si susseguono alternandosi a squarci di romanzo-conversazione, tra il pettegolezzo mondano e la riflessione filosofica. La seconda questione è altrettanto e forse più complessa, e certo non aiutano a scioglierla le affermazioni contraddittorie dell’autore, che nell’intro-

Manetti duzione presenta il romanzo come “un fedele ritratto della nobiltà marxista dell’Urss” in cui “tutto è vero”, nelle lettere ai suoi editori lo definisce un roman-chronique e nella prima stesura dell’episodio del ballo all’ambasciata d’Inghilterra polemizza con Trockij rivendicando a se stesso la libertà del romanziere rispetto allo storico o al politico. Il fatto è che tutto, nell’universo di Malaparte, è frutto di invenzione, e in modo particolare lo è la verità. Quello che conta, semmai, è chiedersi che cosa Malaparte cercasse, in quel primo viaggio in Russia del 1929, nei riti di un ceto di parvenu destinato di lì a poco a dissolversi nelle purghe staliniane, con quali pregiudizi e retropensieri lo osservasse, di quali significati intendesse investirlo descrivendolo a distanza di quasi vent’anni.

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oncepito programmaticamente sotto il segno di Stendhal, per le ambizioni di romanzo storico contemporaneo, e soprattutto sotto quello di Proust, per il ritratto di un’aristocrazia al crepuscolo e per lo statuto ambiguo del narratore, che è insieme il Malaparte testimone e il Malaparte personaggio, Il ballo al Kremlino inclina quasi subito verso la costellazione dostoevskijana del romanzo di idee. Via via che il già debole tasso di narratività si abbassa ulteriormente, affiora il filo ideologico che tiene insieme i diversi episodi, ciclicamente condensato nell’immagine della “mummia di Lenin” in via disfacimento e nella questione della presenza/assenza di Dio in una società marxista. Così tutto il romanzo finisce per polarizzarsi sui due estremi opposti e complementari della morte e del sacro: e non per niente il viaggio di Malaparte si rivela innanzitutto un pellegrinaggio tra cimiteri, da quello del monastero di Novodevicij alla stanza di Majakovskij suicida, fino alla malandata carrozzasepolcro nella quale il capo del Protocollo del Commissariato degli Affari esteri Florinski si aggira come uno spettro per le strade di Mosca. Dentro le pieghe del ritratto d’ambiente, infatti, Il ballo al Kremlino nasconde la riflessione terminale del suo autore sul tema che lo ha affascinato per tutta la vita e che spiega in larga misura la sua ossessione per la Russia sovietica: la fenomenologia del potere nel suo costituirsi, consolidarsi, declinare e soccombere. Non c’è nessun ballo al Kremlino nel Ballo al Kremlino, se non la danza macabra che il potere politico assoluto intreccia con le uniche forze in grado di fronteggiarlo: l’assoluto soprannaturale del sacro e l’assoluto naturale della morte. ■ beatrice.manetti@unito.it B. Manetti è ricercatrice di letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino


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Letterature Un’infelice maionese di Fausto

Elif Batuman I POSSEDUTI STORIE DI GRANDI ROMANZIERI RUSSI E DEI LORO LETTORI

ed. orig. 2010, trad. dall’inglese di Eva Kampmann, pp. 309, € 20, Einaudi, Torino 2012

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l sottotitolo: molto ambizioso (l’originale lo è un po’ meno: non “grandi romanzieri russi” ma più semplicemente “Russian books”). L’attacco: molto intrigante. “Come fa una persona che in realtà non aspira a una carriera universitaria a passare sette anni in un sobborgo californiano a studiare la forma del romanzo russo?”. L’idea che sottende il libro: non priva di interesse. “Com’è possibile avvicinare la propria vita ai propri libri preferiti? (…) Se si leggesse ogni parola scritta dall’autore, si esumasse fino all’ultima notizia su di lui e poi si cominciasse a scrivere?”. Tutto il resto: un vero disastro. Elif Batuman, studiosa e giornalista americana, nasce a New York trentacinque anni fa da genitori turchi: laurea a Harvard, dottorato a Stanford con una tesi in letterature comparate, dunque curriculum di tutto rispetto. E, contrariamente a quello che afferma nella prima frase, una carriera universitaria tuttora in corso. Ma il suo primo romanzo, I posseduti (che pure ha ottenuto il Whitin Writers’ Award nel 2010, anno della sua uscita in America), è un centone arruffato di articoli divulgativi (scritti per “The New Yorker” e “Harper’s Bazar”), tenuti malamente insieme da un tenue filo conduttore, ossia le strampalate ricerche fatte su alcuni autori russi durante il dottorato a Stanford, condite con balzane peripezie accademiche che possono effettivamente capitare anche nelle migliori università ma sono per lo più soporifere.

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n esempio: tre lunghi capitoli del libro sono dedicati a un soggiorno a Samarcanda, dove Batuman finisce grazie a una borsa di studio per studiare l’uzbeko, con la promessa di una cattedra al termine del tirocinio (la cattedra sfuma, ma il tirocinio viene fatto lo stesso). Oltre alle peripezie tipiche della ex Unione Sovietica (che in molti casi, soprattutto fuori dai grandi centri, ex non è a tutt’oggi), alloggi scomodi, acqua potabile inesistente, formiche nella marmellata, roghi di spazzatura per le strade, Batuman racconta molte cose curiose sulla città: per esempio, la maggioranza della sua popolazione (il cui indice di alfabetizzazione, almeno fino all’inizio del Novecento, non superava il 2 o 3 per cento) è tagika e parla una variante del farsi, lingua indoeuropea che non ha alcuna rela-

Malcovati zione con l’uzbeko, che in forma scritta o parlata non esisteva fino al 1917; in più il concetto stesso di etnia uzbeka risale solo al periodo sovietico (prima erano tribù nomadi turco-mongole dell’Asia centrale). Nel 1921 una commissione codifica le svariate ortografie arabe e sceglie come modello il dialetto iranizzato di Taskent, un’altra commissione nel 1926 sostituisce l’ortografia araba con quella latina, verso la fine degli anni trenta viene introdotto (di forza) un alfabeto cirillico locale, finalmente a partire dal 2005 si è tornati all’alfabeto latino. Un turn over non indifferente, per i pochissimi alfabetizzati. In più, Mosca decide (nel 1925) di retrodatare l’esistenza dello stato uzbeko all’epoca di Timur o Tamerlano (siamo nella seconda metà del XIV secolo), la cui tomba, è vero, si trova a Samarcanda, ma che fu storicamente acerrimo nemico degli uzbechi. Per quanto riguarda poi la letteratura, all’epoca del soggiorno dell’autrice, non esisteva nessun testo serio in forma di libro, solo gialli o manuali sulla gravidanza e sulla puericultura (causa natalità bassissima). Sappiamo poi che c’è stato un meraviglioso poeta, Nava’i, di poco posteriore a Timur (ma il suo poema, “Giudizio delle due lingue”, è scritto in persiano): sosteneva che l’uzbeko antico era una lingua talmente ricca che aveva settanta termini diversi per indicare “anatra” e cento diversi modi per indicare il verbo “piangere”. Tutto ciò, come chiunque ben capisce, con il titolo del romanzo ha ben poco a che fare. Passiamo dunque ai grandi romanzieri russi. Il primo è Isaak Babel’. Dell’Armata a cavallo Batuman dice solo banalità: parla a lungo di uno dei racconti della raccolta, La mia prima oca, collegandolo in modo cervellotico a un aneddoto in cui Balzac racconta del padre intento a tagliare in quattro una pernice, ritiene una grande scoperta l’identificazione del prigioniero Frank Moser che Babel’ interroga (è un episodio narrato nel Diario del 1920) con l’americano Merian Caldwell Cooper che successivamente diresse e produsse il film King Kong. Noiosissima la cronistoria del congresso dedicato a Babel’, alla cui organizzazione Batman partecipa attivamente: arrivano da Parigi moglie e figlie dello scrittore, ma le loro esternazioni sono talmente ridicole, banali, insignificanti da far nascere il sospetto che siano del tutto false. C’è, in queste pagine, un tentativo, molto malriuscito, di prendere in giro la seriosità con cui spesso in America si organizzano simposi e conferenze: ma allora David Lodge con il suo Il professore va al congresso è mille volte più spiritoso. Ancor peggio andiamo con l’autore di Guerra e pace. Chi ha ucciso Tolstoj? è il titolo che Ba-

tuman sceglie per partecipare a un convegno sullo scrittore, organizzato a Jasnaja Poljana. Potrebbe il grande vecchio essere stato assassinato? Molte persone del suo entourage familiare auspicavano la sua dipartita: c’era di mezzo un testamento, i diritti d’autore, la moglie che li voleva tutti per lei, il segretario Certkov che invece se ne era assicurata una parte per fini umanitari. Così Batuman fa una scoperta “sensazionale”: nella tenuta di Jasnaja Poljana cresce una pianta velenosa (Hyoscyamus niger o giusquiamo) che contiene una tossina associabile a quasi tutti i sintomi della malattia che portò lo scrittore alla morte: febbre, sete intensa, delirio, ossessioni, polso accelerato, difficoltà respiratoria ecc. Conclude l’autrice: “Chiunque avrebbe potuto aggiungere di nascosto del giusquiamo al tè di Tolstoj (che ne consumava in gran quantità)”. E questo sarebbe un modo innovativo di leggere la vita di uno scrittore? Il convegno termina con una rocambolesca visita alla tenuta di Melichovo, dove Cechov scrisse Il gabbiano: la sosta in una cosiddetta toilette (un buco chiuso da assi, all’aperto) lungo la strada causa ogni genere di disastri, incidenti, impedimenti. Salto ogni commento al capitolo Il palazzo di ghiaccio: ha raccontato la stessa storia, con molta più competenza e ironia, Serena Vitale in La casa di ghiaccio, uscito dieci anni fa, pluripremia-

to a buona ragione. Chiude il volume il capitolo da cui è tratto il titolo, I posseduti. E qui arriva il peggio. Intanto I posseduti è uno dei titoli (anche in qualche antica traduzione italiana) del romanzo di Dostoevskij I demoni. C’era proprio bisogno di riassumere la trama? Batuman sta scrivendo un romanzo, non un manuale scolastico. Poi tutte le considerazioni, a partire dall’impressione della prima lettura (“Mi sembrò assurdo”), sono superficiali, esteriori, sbrigative. Fa un’infelice maionese tra la teoria di Joseph Frank sulle imperfezioni tecniche della scrittura dostoevskiana e quella di René Girard sul desiderio mimetico, basata sulla convinzione che tutti i desideri che guidano le azioni della nostra vi-

ta (e dei personaggi dostoevskiani) siano appresi o imitati da qualcun altro, cui erroneamente attribuiamo l’autonomia che manca in noi stessi. Mescola il tutto con ritrattini di compagni di corso, episodi di vita universitaria, fugaci considerazioni su altri romanzi o racconti (poche infelici battute su Oblomov, qualche notazione generica su Il monaco nero di Cechov). “Se potessi ricominciare oggi, sceglierei di nuovo la letteratura. Se le risposte esistono, in questo mondo o nell’universo, sono ancora convinta che le troveremo proprio là”. ■ fausto.malcovati@unimi.it F. Malcovati insegna letteratura e teatro russo all’Università di Milano

Tre lingue di

Ljiljana Banjanin

Marica Bodro√iπ IL MIO APPRODO ALLE PAROLE STELLE, COLORI ed. orig. 2007, trad. dal tedesco di Barbara Ivan∞iπ e Valentina Piazzi, introd. di Barbara Ivan∞iπ, pp. 195, € 12, Aracne, Roma 2012

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ella scrittrice tedesca di origine croata Marica Bodro√iπ (1973), già nota ai lettori italiani per la raccolta di racconti È morto Tito (cfr. “L’Indice”, 2010, n. 4), viene proposta ora la traduzione del volume Sterne erben, Sterne färben. Pubblicato nel 2007 presso il prestigioso editore Suhrkamp e accolto con benevolenza dalla critica tedesca, compare ora nella collana “Atem” dedicata alle traduzioni tedesco-italiane e curata da Barbara Ivan∞iπ. Benaugurante è la coincidenza del titolo della collana che in tedesco significa “respiro”, e che capovolta diventa “meta”, interpretabile come il punto d’arrivo della traduzione stessa. Proprio questi intrecci linguistici sono rintracciabili nel testo di Bodro√iπ, che appunto nel “respiro” individua il presupposto indispensabile che “prepara il terreno” per la pronuncia della parola, della frase e, anzi, è proprio lì che “deve vivere il respiro”. Il libro, di genere ibrido e suddiviso in diciannove capitoletti, è un’autobiografia postmoderna, allo stesso tempo anche una biografia, nonché un glossario, un patchwork incentrato sulla scrittura. In questo primo strato si scopre l’attaccamento dell’autrice alle sue tre lingue (serbocroato, tedesco, francese), diverse geneticamente, appartenenti a distinti periodi della sua vita e alle disparate esperienze. Il serbocroato è la “prima lingua madre”, legata ai

volti delle persone care, ai luoghi d’infanzia, agli amici, ai primi amori. Esso è per l’io narrante anche la dolorosa scoperta di appartenenza e di alterità, della guerra e della scomparsa della Jugoslavia. Riferendosi al tedesco, Bodro√iπ introduce il termine innovativo della “seconda lingua madre”, un fenomeno riconducibile alle migrazioni del Novecento. Acquisita come una conquista, rappresenta la sua “casa”, offre la sicurezza e permette di esprimersi: soltanto attraverso il tedesco Bodro√iπ riesce a raccontare le storie proprie e quelle altrui, a percepire e “fissare” i concetti di vario genere, come il tiglio, il dolore, l’angelo, per esempio, o i sentimenti, i colori, i significati concreti e primari, oppure quelli traslati, assieme alle associazioni che affiorano in forma di ricordi e di memoria. In questo modo la scrittura si trasforma in un viaggio attraverso la vita dell’io narrante. La scrittura è quindi anche una biografia costellata di ricordi e un sinonimo di eredità fatta di parole. Quelle in serbocroato prima della sua disintegrazione affiorano solo attraverso il tedesco, rivelando un senso di appartenenza al puzzle linguistico, nazionale e culturale jugoslavo. I film gitani del giovane Emir Kusturica, le canzoni dei gruppi rock jugoslavi Azra, Bijelo dugme, Riblja Ëorba, le persone sconosciute, incontrate casualmente alla stazione di Francoforte, alla fermata o nei bus nelle grandi città europee, riconosciute come jugoslave per l’inconfondibile accento slavo, fanno sì che il passato si profili in modo più concreto, trasformandosi non in una “Jugonostalgija, com’è chiamata comunemente la nostalgia dell’ex Jugoslavia (…) ma in un sentirsi parte di uno stesso mondo linguistico, qualcosa che si potrebbe piuttosto descrivere con la parola tedesca Heimweh, dolorosa nostalgia di casa”.


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Letterature di Luigi

Juan José Millás CARTA STRACCIA ed. orig. 1983, trad. dallo spagnolo di Paola Tomasinelli, pp. 156, € 16, Passigli, Firenze 2012 arta straccia (titolo originale Papel mojado) è uno dei primi romanzi di Juan José Millás (Valencia 1946), ma contiene le principali tematiche e modalità narrative poi ampiamente sviluppate dall’autore. Se in Italia Millás, già parzialmente tradotto, non ha raggiunto la popolarità sperata, in Spagna è considerato uno dei grandi scrittori contemporanei. Il successo ottenuto da Carta straccia nella versione originale è straordinario, con decine di ristampe e centinaia di migliaia di copie vendute. Scelta felice quella di Passigli che offre al lettore italiano un testo di notevole spessore letterario e allo stesso tempo godibilissimo, intrigante e di agevole lettura. Quando uscì in Spagna, nel 1983, era da poco terminata la transizione e il processo politico che ambiva ad allineare il paese alle più avanzate democrazie europee si era ormai consolidato con la vittoria elettorale dei socialisti nel 1982. Il romanzo, quindi, reduce dall’epoca del desencanto, attinge a piene mani alle tecniche della postmodernità, emancipate, con la fine della dittatura, da compromissioni etiche. Il breve testo non investe molto nell’ambito retorico e discorsivo.

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a scrittura lineare non è però dovuta a un eccesso di semplificazione, piuttosto è il punto di arrivo di un’articolata elaborazione e depurazione: la caratteristica “complessità semplice” di Millás. L’opera sviluppa una trama poliziesca, interamente ambientata a Madrid, nella quale gli obiettivi dei personaggi, denaro, successo, amore, si confondono con quelli della letteratura in modo tale che il romanzo stesso diviene oggetto di contesa e di riflessione. Il doppio finale inatteso dispone retrospettivamente la trama su una linea circolare e mette in luce l’importanza determinante dell’aspetto metanarrativo in cui i riverberi acquistano, borgesianamente, un ruolo preminente. Il romanzo coincide con il racconto del protagonista Manolo, il quale, prendendo spunto da un drammatico episodio che lo conduce a vivere alcuni giorni della sua esistenza in modo eccezionale, ha finalmente l’occasione e il materiale per scrivere un romanzo, il sogno della sua vita. La narrazione, interamente autodiegetica, sarebbe dunque la realizzazione di questo sogno. Manolo si presenta come un giornalista di riviste rosa, insoddisfatto del suo lavoro nonostante i vantaggi

Contadini economici, che si vede improvvisamente coinvolto in un losco intrigo nato dal presunto suicidio dell’amico Luis, anch’egli aspirante scrittore. Il protagonista non crede alla tesi del suicidio e di sua iniziativa comincia a investigare seguendo una pista che lo stesso Luis gli aveva fornito prima di morire. Tutto lascia supporre che un importante laboratorio farmaceutico, in cui lavora la moglie di Luis, abbia commesso una clamorosa frode fiscale e che Luis, scoperto l’inganno, sia stato eliminato perché ormai a conoscenza dei segreti dell’azienda. Manolo eredita dal suo amico una valigetta, sottratta a un dipendente del laboratorio, contenente una discreta quantità di denaro e alcuni documenti che, secondo il protagonista, dovrebbero sciogliere l’enigma della morte di Luis. Tale valigetta diventa l’oggetto più conteso del romanzo, inseguita sia dalle forze dell’ordine sia dall’azienda farmaceutica che assolda degli sgherri per recuperarla. La trama si dispiega apparentemente secondo i criteri tipici del romanzo poliziesco. Ma in realtà il protagonista, al contrario dei modelli tradizionali, appare, a mano a mano che la narrazione avanza, sempre più goffo e impacciato. Spesso compie azioni senza fini logici, e più che assomigliare a un buon detective ricorda altri protagonisti dell’autore, smarriti e turbati, attenti a riflettere sulla propria condizione interiore e sulla volubilità della percezione piuttosto che agire con determinazione e scopi chiari. Di fatto, il binomio caos/cosmo, tradizionale del genere poliziesco, si presenta qui invertito: l’ordine esterno (nonostante l’omicidio) fa da contrappeso al caos interiore del protagonista. Manolo dichiara più volte, sovente con un registro ironico, di sentirsi incastrato in una vita routinaria che lo porta a compiere gesti e attività che detesta. Sotto questo involucro fatto di consuetudine (da cui anche l’amore è stato espulso) esiste un mondo nascosto di emozioni impensabili e disgreganti che alimentano quella parte di sé da cui egli sempre si è difeso. La follia viene evocata come uno stato latente, confinata in un ambito ristretto dalla metodicità e dalla razionalità. Il protagonista si rende conto di trovarsi su quella linea di confine che, se varcata, potrebbe metterlo in contatto con gli aspetti più oscuri e inquietanti della propria esistenza. Nonostante l’affannarsi nelle indagini, Manolo non riesce a svelare l’enigma della valigetta. Sarà la polizia a scoprire che il suo prezioso contenuto non è costituito da quei misteriosi documenti, ma proprio dalle banconote, che si rivelano false. Era imminente, infatti, l’im-

missione nel mercato di un ingente quantitativo di denaro falsificato di cui quello presente nella valigetta costituiva solo un prototipo da perfezionare. Ma a questa prima sorpresa se ne aggiunge un’altra ancora più singolare, che spiazza il lettore e mette in discussione il genere. Il protagonista narratore, che fin dall’inizio si è attribuito la paternità del romanzo, sa più di quanto dice e sottrae al lettore due informazioni fondamentali: la prima è che l’autore del romanzo non è lui, ma il suo defunto amico; la seconda è che il responsabile dell’omicidio è proprio Manolo, che ha ucciso Luis in preda a un’invidia irrefrenabile, proprio per usurpare la paternità di quel testo, principale oggetto del contendere, e diventare finalmente “scrittore”. La situazione che ne deriva è paradossale, poiché si scopre che il protagonista ha agito come detective del suo stesso omicidio, narrato anticipatamente dal vero autore del romanzo, Luis, e interpretato a posteriori proprio da Manolo. Luis si era riservato la parte del morto e aveva attribuito al suo amico il ruolo dell’assassino poiché immaginava, conoscendo bene le debolezze e le ambizioni di Manolo, fino a che punto avrebbe potuto spingersi nel momento in cui, finalmente, fosse riuscito a scrivere una vera opera letteraria. Ed è quello stesso testo, consegnato alla polizia da Manolo come resoconto romanzato delle sue indagini, che lo smaschera. Infatti, come dice il commissario nel finale, quel testo, scritto dal defunto e vissuto da Manolo, rivela la soluzione dell’intera vicenda perché proprio lì sono disseminate le tracce, a prima vista invisibili, della colpevolezza del protagonista: “Quando un autore conosce il finale, non può evitare di raccontarlo durante l’azione”. Tracce, però, che non possono essere utilizzate in un tribunale, poiché la giustizia non si basa sull’ermeneutica, ma su prove concrete e dimostrabili. l titolo Carta straccia è dunque riferito ai due principali oggetti del contendere, la cui funzione simbolicamente si confonde: le false banconote di denaro e il romanzo stesso. Avendo deciso di interpretare il ruolo di un personaggio, Manolo, nella parte finale del libro, viene investito da una irresistibile sensazione di irrealtà. Dall’idea shakespeariana, citata nel testo, che l’essere umano è composto della sostanza dei sogni, si giunge al tema, molto caro a Millás, della realtà come addensamento di immaginazione. Così, nel corso della narrazione, il futuro del protagonista viene progressivamente annullato, intrappolato nelle pagine di quel romanzo che presume di avere scritto, sottratto alla realtà da quel gesto omicida che gli ha permesso di rompere gli schemi, ma che lo condanna a uno stato di smarrimento dove i riferimenti socialmente condivisi sembrano svaniti per sempre. ■

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luigi.contadini@unibo.it L. Contadini insegna letteratura spagnola contemporanea all’Università di Bologna

Dieci racconti e una sola protagonista di Andrea

Alice Munro CHI TI CREDI DI ESSERE? ed. orig. 1978, trad. dall’inglese di Susanna Basso, pp. 280, € 19,50, Einaudi, Torino 2012 e short stories di Alice Munro costituiscono un ottimo esempio di massima compressione narrativa. Ridurre, diminuire, togliere dalla superficie della narrazione per gettarsi, in modo quasi maniacale, nelle profondità dei propri personaggi, cosicché le strutture narrative siano sempre tese allo spasmo, un istante prima della rottura. Dopo l’edizione del 1995 presso e/o, Einaudi ripropone, nella traduzione di Susanna Basso, Chi ti credi di essere?, dieci racconti che Alice Munro scrisse nel 1978, dieci momenti della vita di un’unica protagonista, Rose. La frammentarietà della narrazione non scardina, tuttavia, la coerentissima unità interna, in cui il tempo ha disposizione circolare, tanto che Chi ti credi di essere? può essere considerato un romanzo di formazione sui generis. Rose, orfana di madre, trascorre l’infanzia in una famiglia povera e moralista a West Harranty, Ontario, all’epoca della Depressione, e legge le opere di Shakespeare e Dickens durante la malattia del padre; è l’adolescente che non sa opporre resistenza alle avances di un pastore protestante su un treno diretto a Toronto (situazione che ricorda, seppur declinata al femminile, L’avventura di un soldato di Italo Calvino). Quando una borsa di studio glielo consente, va al college, lontano dalla famiglia e da Harranty, in un mondo che le permette di sviluppare quel suo lato intellettuale che era stato represso fino ad allora. Dopo aver ottenuto successo come insegnante di teatro e come attrice, pur in una continua tensione tra affermazione e disincanto, la raggiunta maturità segna il ritorno alla città natale per assistere la matrigna Flo, ormai invecchiata e prossima a essere rinchiusa in casa di riposo. Questi sono momenti quasi topici nella scrittura di Alice Munro, scrittura secca, soprattutto nei dialoghi. L’essenzialità si fa metafora della banalità dell’esistenza. È una scrittura che agisce sui rapporti di forza e sulla fragilità della memoria, lasciando al lettore il compito di ricomporre i cocci. La matrigna Flo – e non tanto il padre violento e manesco – costituisce, con la sua rozza mentalità di personaggio marginale che condensa però lo spirito di tutto un luogo, il controcanto, in qualche modo tragico, della vita della protagonista. Rose è intellettualmente precoce e dotata, ma repressa da un ambiente moralista; vive i suoi primi anni in una povertà che trasformerà in aneddoti per gli ospiti, ma scopre presto, su quel treno per Toronto, quanto sia difficile per una donna conquistare un

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Veglia proprio posto nella società e nel mondo, soprattutto quando non ha mezzi e protezione. Rose va alla ricerca di stabilità sia affettiva, sia economica, e si getta in storie che terminano in inevitabile incompletezza e sofferenza, anche se l’amore è la forza da cui non esiste emancipazione. A dispetto del suo matrimonio e delle sue avventure deludenti, in cui si verifica uno scollamento tra aspettative e realtà, Rose ricorderà con tenerezza sincera Ralph Gillespie, affetto adolescenziale nato sui banchi di scuola e mai veramente cancellato, neppure dal passare del tempo: “Che cosa poteva dire di sé e di Ralph Gillespie, se non che sentiva vicina la vita di lui, più vicina di quella di uomini che aveva amato, una tacca sopra la propria?”. Si può soffocare l’amore, ma non si può mai del tutto smettere di cercarlo. Il teatro, la finzione, il dramma non sono casuali e sono il fulcro della relazione tra Flo e Rose e tra Rose e il resto del mondo: “Ripensando a tutti quegli sforzi, alla messinscena di allegria e disinvoltura, brutte copie di raffinatezza, non meno dei suoi vestiti, Rose si sentiva morire di vergogna”. Anche se sarà donna di successo, Rose continuerà a domandarsi, sulla scia di un antico rimprovero di un’insegnante arcigna, “chi ti credi di essere?”, monito a ricordare le proprie radici e la genuinità dei rapporti. Nell’ultimo racconto, quello che dà il nome alla raccolta, Rose torna da Flo, a West Harranty: infanzia e maturità si ritrovano, scandendo dunque un tempo ciclico in cui alla quête iniziatica si oppone il nostos, senza però alcuna edificazione, poiché quel mondo è cambiato e così lo è Rose. E in questo Munro parla a tutti noi: scappare riporta al punto di partenza, dove, nonostante l’imbarazzo verso le origini e noi stessi, si nasconde forse la nostra identità più profonda, scevra da tutte le finzioni. S ■ andrea_veg@alice.it A. Veglia è dottorando in culture classiche

il foglio 392

Quando un autore conosce il finale

Il vero foglio

Non fidatevi delle cattive imitazioni. il foglio è il «mensile di alcuni cristiani torinesi», diretto da Antonello Ronca. Tra i fondatori, nel febbraio 1971, Enrico Peyretti, direttore fino al 2001, e Aldo Bodrato. Tra i sostenitori Norberto Bobbio. Esordì quando sotto la Mole era vescovo padre Pellegrino. Per info: www.ilfoglio.info Per riceverlo in saggio: abbonamentifoglio@gmail.com


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Saggistica letteraria Panico e smarrimento di Alfredo

Emanuele Trevi ISTRUZIONI PER L’USO DEL LUPO pp. 54, € 7,50, Elliot, Roma 2012

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ubblicate per la prima volta nel 1994 da Castelvecchi, successivamente nel 2002 in una nuova edizione impreziosita da una sintetica quanto esplicativa nota introduttiva (Nuove istruzioni), le Istruzioni per l’uso del lupo hanno segnato l’esordio sulla scena letteraria di Emanuele Trevi, scrittore e critico letterario. Dieci anni dopo, Elliot ne ripropone la ristampa per la collana “Lampi”, immutata nei contenuti se non per quella “piccola folla di lettori” che l’opera ha visto accrescersi nel corso degli anni e che ha avuto modo di apprezzare il lavoro e il valore di questo autore. Scritte tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, le Istruzioni si presentano sotto la forma di una lunga Lettera sulla critica che Trevi allora trentenne indirizzava all’amico Marco Lodoli, a cui si rivolgeva nel tentativo di interrogarsi sugli aspetti più spinosi e cruciali della critica letteraria, sulla necessità e sull’urgenza della letteratura, sul segreto della bellezza. Le riflessioni di Trevi non hanno perso di attualità in questi anni, anzi le Istruzioni hanno marcato (insieme alle opere e alle considerazioni di alcuni autori e critici letterari che riportavano le “notizie” di una crisi metodologica in atto in quegli anni) un discrimine tra un certo modo di fare e di interpretare la letteratura, tipico degli anni ottanta, e l’esigenza sorta proprio a partire dalla metà degli anni novanta di ridare un corpo alla parola anche a costo di correre il rischio di fare della letteratura e della critica impure. Autoreferenzialità, ecolalia, citazionismo, desiderio di non sporcarsi le mani con la realtà e con il presente, cinismo, sono alcuni dei vizi che Trevi, in contrasto con gli atteggiamenti in voga in quegli anni, denuncia nel suo saggio e di cui avverte la sclerotizzazione. Vizi imputabili forse più a un certo milieu e a una determinata temperie culturale, quella del postmodernismo manierista degli anni ottanta, che a una precisa scuola, strutturalista o semiologica (di cui non mancano certo pagine elettrizzanti e rivelatrici, come in Roland Barthes e compagni). Contro il carattere algido e il virtuosismo concettuale della critica letteraria e accademica, fiera della propria “artificiosità linguistica” costruita sulla codificazione di un linguaggio separato (un “modello linguistico fortemente spersonalizzato” e omologante), Trevi si propone al contrario la ricerca di un “linguaggio critico naturale” e sentimentale, responsabile della propria testimonianza, che sia in grado di infrangere “il corpo mistico del linguaggio critico”, accusato dall’autore di avere

Nicotra ormai avviato “un processo criminale di depotenziamento” della scrittura e della ricezione del testo attraverso la geminazione parossistica di “un vocabolario assurdo e disumano, senza nessuna relazione possibile con i desideri, i bisogni, le paure, le felicità di tutto il genere umano”. A questo procedimento virale il critico antepone allora la ricerca paziente di una verità possibile della letteratura che si misuri con “la cosa”, che ristabilisca una corrispondenza tra “le cose che si scrivono e le cose che accadono”, tra “quello che leggo e quello di cui ho esperienza”, restituendoci a una totalità del vivere e del sentire e riportando la critica al compito di un “lavoro umano”. Solo quando, allontanandosi dal potere classificatorio della lingua, il critico reinterpreta “la letteratura come segno, traccia scritta di forme d’esistenza” “ci troviamo in prossimità della cosa, del lupo”. Evitando le categorie interpretative in uso dalla critica, Trevi forgia così un metodo ermeneutico duttile e metaforico. Ai termini già confezionati come “intertestualità”, “polisemia” o “macrostruttura”, predilige “l’inespresso” come attributo della bellezza, “l’angoscia”, “lo smarrimento” e il “panico” come condizione privilegiata dell’esperienza della letteratura. E sono soprattutto la categoria del panico e dello smarrimento ad assumere un rilievo centrale nella sua riflessione. Un’eco di Nietzsche risuona tra le pagine di questo saggio. Nel punto in cui l’esistenza si apre all’angoscia o allo smarrimento del panico può cominciare un cammino verso la verità che, mettendo in dubbio gli automatismi del quotidiano, ridia un senso concreto alla nostra esperienza. Dove si legano il terrore di esistere alla “gioia originaria dell’esistenza” (Nietzsche), “l’esperienza del bello” a “quella del panico” (rivelando così “un’affinità impressionante”), è possibile trovare il senso dell’avventura critica e letteraria. La letteratura, come l’esistenza, dovrebbe fornire “un aumento violento della vitalità” e non restare un’esperienza separata “in questo nostro modo di vivere che diventa sempre più confuso e addomesticato dal principio di realtà”, a tratti anestetizzante; “dove c’è uno spazio per la noia e uno per l’amore, uno per il lavoro e uno per il dolore, uno per la politica e uno per la famiglia”. Questo tentativo di riconciliare la letteratura con la vita, di farle riafferrare il reale, più che a un’esperienza pacificante intende ricondurre la letteratura a qualcosa di traumatizzante e di arcaico, di fondante, la cui funzione è quella di aprire un varco tra noi e le cose. Poiché se la letteratura è una cosa che “accade nel mondo”, come può “stare separata dal mondo”? Tra autobiografismo e critica letteraria, la scrittura di Trevi, attraverso la sua ermeneutica privata, fortemente metaforica e appassionata (la stessa immagine

del lupo, quello delle favole, rappresenta il lato oscuro e inquietante ma perciò il più vivo della letteratura), ci accompagna tra i Libertini di Pier Vittorio Tondelli o nel cuore di Una questione privata di Beppe Fenoglio, a scorgere il significato di un graffito nelle grotte di Altamira o tra le pagine che Matilde Manzoni dedica al malheureux Leopardi, fino al volto del Cristo nella Flagellazione di Caravaggio. Superando il gioco e il citazionismo postmoderni, la critica di Trevi si pone all’interno di quella tensione conoscitiva che negli ultimi anni sta sollevando un dibattito fecondo. È un tentativo di ridisegnare le rotte della letteratura per ridarle ancora senso, mettendola “dentro la vita”, in un “campo di vere relazioni”. Per evitare che “un libro stia in un luogo e la Bosnia in un altro”. Perché “tutta la nostra letteratura si sta allontanando da noi”. Perché non accada come nei versi di François Villon: “sur le Noel, morte saison, Que les loups se vivent de vent” (Natale, morta stagione, quando i lupi si nutrono di vento). ■ alfredonicotra@tiscali.it A. Nicotra è critico letterario

Il possesso della realtà Se “il declino generale, anche se non incontrastato, delle poetiche postmoderniste data alla metà degli anni novanta” (Raffaele Donnarumma, “allegoria”, 2011, n. 64), le Istruzioni per l’uso del lupo (1994) testimoniano questo passaggio. Né è un caso che l’oggetto dell’ultimo personal essay di Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto (2012), sia il romanzo postumo di Pierpaolo Pasolini Petrolio (1992), l’opera che se per Trevi rappresenta “una presa di possesso della realtà” per Carla Benedetti (1995, 1998) costituisce il tentativo estremo da parte del suo autore di reagire al depotenziamento della letteratura tipico del postmoderno, scegliendo una letteratura “impura”, contaminata dalla realtà. Anche il recente dibattito letterario si è concentrato su una tendenza attuale negli ultimi anni in molti scrittori: prendere nuovamente possesso della realtà. “Ritorno alla realtà?” si intitolava infatti il n. 57 di “allegoria” (2008). I modi sono plurali così come le scritture e le esperienze in conflitto. Ma emergono la “critica del presente”, la non-fiction, le “narrazioni documentarie”, la “riabilitazione del soggetto”, l’aspetto testimoniale delle opere, la “responsabilità etica”, l’“iperrealismo”, convergendo in quello che da qualche anno ha cominciato a delinearsi come l’“ipermoderno”, una costellazione di “narratori atipici”, dove “la narrazione interagisce con l’extratesto, si compromette con il mondo esterno” e “ha il problema di rifondarsi (…) all’altezza del presente” (Lidia De Federicis, Prove a carico, 1997).

Registrare un’epoca di Giorgio

Patrizi

NARRATORI DEGLI ANNI ZERO a cura di Andrea Cortellessa, in “L’Illuminista”, nn. 31-33, gennaio 2012 Ponte Sisto, Roma

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nota l’importanza delle antologie nella cultura letteraria del Novecento, come strumento di scuola e di confronto, di affermazione e di polemica: dai vociani agli sperimentali, dagli avanguardisti ai cannibali. Il nuovo millennio, iniziato con modalità così conflittuali per il ruolo della letteratura accanto agli altri linguaggi, trova subito un’interpretazione insieme inaugurale e di bilancio, e dunque di prospettiva ideale e di sistemazione critica, in due antologie che hanno accompagnato lo snodo del primo decennio del 2000. Ed è merito di Walter Pedullà, ospite dell’iniziativa e direttore dell’“Illuminista”, la rivista che accoglie i due lavori, aver pensato a due giovani critici come curatori, con l’intento (dichiarato con slancio nella prefazione al volume dedicato ai narratori) di cogliere i cambiamenti di un mondo che non può essere più quello che riconoscevamo in quelle modalità per cui, in passato, si è lottato, ragionato e sragionato. A Vincenzo Ostuni, un anno fa, era andato il compito di tracciare un bilancio per la poesia, ad Andrea Cortellessa ora tocca la mappa dei prosatori che hanno esordito negli ultimi dieci anni. E Cortellessa si è messo all’opera con il gesto fondativo e decisionista di chi sa di avere la responsabilità di registrare un’epoca, riferendosi a un’area testuale che più multiforme e sfaccettata non potrebbe apparire. D’altronde, il curatore sa bene che, nel panorama quotidiano, il lavoro letterario ha la sua ragione d’essere proprio perché si nutre ormai della materia e della forma di una vita stravolta e convulsa, dove è rinvenibile tutto e il suo contrario. Per questo i prosatori (definizione, questa, certamente più propria, come si dirà) sono molti (ventisei, contro i tredici poeti dell’antologia gemella) e diversi, diversamente fruibili e riconducibili a culture, poetiche, biografie spesso totalmente divergenti. Anche le generazioni rappresentate sono molteplici e vanno dai sessantenni reduci dagli anni di piombo, ai trenta-quarantenni cresciuti nel declino del postmoderno e nel sorgere dei nuovi “realismi” che si affacciano dagli orizzonti più diversi. A questi modi di rappresentare la realtà (e non di raccontarla, ché le modalità di resa sono le più varie: fotografie, dialoghi, disegni, cataloghi, appunti) corrispondono quegli universi culturali che sono cresciuti sotto il segno di una vigorosa radicalità. C’è una volontà di parlare dell’esperienza del mondo con le parole e i toni più diversi, ma tutti distanti dalla tradizione del romanzo, della più acquisita e

tranquillizzante modalità di costruire una narrazione. Non credo sia solo per un inevitabile gap generazionale, se i prosatori che mi sembra coinvolgano di più, e che si propongono fra i testi migliori dell’antologia, sono quelli che, per illustrare la difficile realtà degli anni settanta-ottanta, danno vita a linguaggi mescidati, citazionismi, o cataloghi di borgesiane tassonomie, o evocazioni di realtà fantomatiche, innesti di mimesi orale o rese nel linguaggio degli stereotipi di una cultura violenta e autoritaria (solo esempi sparsi, Morelli, Samonà, Baroncelli, Vorpsi, con la certezza di fare torto a tanti altri). Ma ciò che rende questa antologia un must della critica militante – al di là delle presenze e delle assenze, che, come sempre, sarebbe esercizio facile quanto sterile annotare ? è la peculiare costruzione del volume: l’ampia e perentoria prefazione (magari anche da discutere, ma, finalmente, capace di porre problemi e punti di vista), la capillare presentazione degli autori, con scheda del curatore, biografia e antologia della critica. Questa è una vera antologia d’autore. Cortellessa ha l’intelligenza e l’autorità per montarla con una precisione che poi veicola il suo punto di vista, il suo giudizio, talora anche maggiori o minori simpatie, dichiarate con precisione e discrezione. Non le possiamo condividere tutte, certamente, ma condividiamo la necessità di uno sguardo acuto e appassionato, che intende sempre riconoscere vecchio e nuovo, nemici e amici, vitalità e lettera morta. ■ patrizi@unimol.it G. Patrizi insegna letteratura italiana all'Università del Molise

I libri Cesare Segre, Notizie dalla crisi, Einaudi, 1993. A partire da Petrolio. Pasolini interroga la letteratura, a cura di Carla Benedetti e Maria Antonietta Grignani, Longo, 1995. Lidia De Federicis, Prove a carico. Due anni di percorsi nella narrativa italiana, “L’Indice”, 1997, n. 5, supplemento. Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, 1998. Mario Lavagetto, Eutanasia della critica, Einaudi, 2005. Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, a cura di Raffaele Donnarumma, Gilda Policastro, Giovanna Taviani, “allegoria”, gennaio-giugno 2008, n. 57. Andrea Cortellessa, La terra della prosa. La letteratura degli anni Zero, “allegoria”, luglio-dicembre 2011, n. 64, pp. 51-79. Raffaele Donnarumma, Ipermodernità: ipotesi per un congedo dal postmoderno. La letteratura degli anni Zero, “allegoria”, luglio-dicembre 2011, n. 64, pp. 15-50. Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto, Ponte alle Grazie, 2012.


indice Scuola 22-2013

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DELLA SCUOLA

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DELLA SCUOLA In occasione delle elezioni politiche abbiamo chiesto ai responsabili della scuola delle principali forze politiche quali provvedimenti concreti intendano proporre per riportare la scuola a essere leva di promozione sociale e aiutare i giovani a trovare un lavoro rispondente alla propria formazione. Hanno risposto per il centrosinistra, Francesca Puglisi (PD) e, per la coalizione di centrodestra, Elena Centemero (PDL).

Vecchi problemi nel nuovo Parlamento Intervista a Elena Centemero e Francesca Puglisi di Vincenzo Viola onostante le consuete dichiarazioni sull’importanza dell’istituzione scolastica, da troppo tempo si deve registrare che quasi ogni intervento sulla scuola è dettato da ragioni del contenimento della spesa pubblica che trascurano i rilevanti danni alla qualità del sistema formativo. Il vostro gruppo politico intende invertire questa tendenza? Se sì, attraverso quali interventi mirati? Con quali risorse?

CENTEMERO La scuola ha già dato troppo in termini di riduzione della spesa pubblica, non le si può chiedere di più. Molto però può e deve essere fatto per individuare ed eliminare gli sprechi e per verificare che le risorse investite abbiano un’effettiva ricaduta sul miglioramento dell’offerta formativa agli studenti. Da qui si deve ripartire, insieme all’implementazione di un sistema di valutazione degli istituti scolastici che valorizzi la qualità e i punti di forza, faccia emergere le eccellenze e consenta l’individuazione di problemi e criticità sui quali intervenire. Esistono inoltre diversi strumenti alternativi e innovativi per sostenere il diritto allo studio e la libertà di scelta educativa delle famiglie. Tra questi rientrano il buono scuola e il buono università. Sistemi già sperimentati in Lombardia grazie al buon governo del centrodestra e che intendiamo diffondere su tutto il territorio nazionale. PUGLISI Invertire la tendenza significa restituire centralità alla scuola, e questo vuol dire restituirle risorse, stabilità e fiducia. Sono queste le nostre tre parole chiave. Risorse, perché il nostro impegno è riportare gradualmente l’investimento in istruzione almeno al livello medio dei paesi Ocse, tagliando altrove, poiché consideriamo l’istruzione un investimento e non una spesa. Stabilità, perché dobbiamo dare alle scuole una dotazione stabile di personale sia docente sia Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario), per almeno un triennio, con l’obiettivo di ridurre drasticamente la precarietà. Fiducia, perché dobbiamo restituire prestigio sociale al mondo della scuola tutto, dai docenti agli studenti, dai genitori al personale Ata. Fiducia con un piano straordinario per l’edilizia scolastica, con misure efficaci per abbattere il tasso di di-

nuove generazioni. Per questo in obbligo di istruzione, abbanspersione, con innovazioni dil’agenda digitale e il completa- dona anticipatamente il sistema dattiche legate alle tecnologie mento del progetto scuola 2.0 formativo. Un quarto degli studigitali. sono per il Pdl un punto impor- denti non consegue un titolo di Legare le sorti dell’istruzione tante del programma. al contenimento della spesa istruzione di secondaria superiopubblica è un errore gravissiPUGLISI Lo strumento dell’aure, in altre parole solo il 75 per mo, e non solo di impostazione tonomia scolastica è in grado di cento degli studenti consegue un politica. Nessun governo in Eurivoluzionare positivamente la diploma o una qualifica contro ropa, né di destra né di sinistra, didattica, ma anche in questo ca- una media dell’88 per cento delha tagliato l’istruzione in tempo so ci vogliono risorse. Oggi la la Francia e del 90 per cento deldi crisi, perché tutti i dati interformazione la pagano i docenti la Germania. Serve un biennio nazionali mostrano come la di tasca propria e il lavoro di stu- unitario e un triennio di indirizmaggiore spesa per istruzione dio e di aggiornamento è lascia- zo per permettere agli studenti produce rendimenti certi, come to alla buona volontà degli inse- di compiere scelte mature e conun maggior gettito fiscale e una gnanti, il 90 per cento delle sapevoli, con materie comuni tra maggiore occupabilità, e la stesscuole italiane è connesso alla re- gli indirizzi e opzioni individuasa Banca d’Italia sostiene, sulla te, ma solo nell’ufficio di presi- li. Quelli che definiamo “nativi base di complesse digitali” frequentano analisi, che il rendigià le nostre scuole, mento medio dell’insono iscritti al primo vestimento in istruzioanno delle superiori, e ne è dell’8.9 per cennella loro testa c’è un to. Aggiungo che il modello di apprendirapporto Ocse “Edumento che fa fatica ad cation at Glance adeguarsi alla tradizioIl nostro intento (dovendo chiudere il giornale a 2012” ci dice che, tra nale lezione frontale. urne aperte) era quello di vagliare, in modo coml’inizio della recessioE il docente si sente parativo, le posizioni delle coalizioni che sarebbero ne internazionale nel demotivato e ben poandate a comporre il nuovo Parlamento. Le nostre 2008 e il 2010, in meco supportato da uno domande (ancora prima la richiesta di intervista) dia, in tutti i paesi delstato che obbliga alle sono state pertanto rivolte a tutte le forze poliche l’Ocse i laureati hanno iscrizioni online o alconcorrenti, ma solo nel PD e nel PDL abbiamo pagato la disoccupal’adozione degli ebook trovato un responsabile scuola disponibile a risponzione meno di persone ma si disinteressa se derci. Rivoluzione civile e il centro montiano hancon istruzione inferionella scuola c’è o meno ignorato la nostra richiesta. Per il Movimento re. Non vogliamo racno la banda larga, se i Cinque Stelle l’unica alternativa data è: un’intervicontare favole, quindi pc sono primitivi, se le sta a Beppe Grillo oppure l’invio di materiale proniente promesse mirafamiglie hanno una pagandistico. Le risposte di Elena Centenero e bolanti, ma impegni connessione internet. Francesca Puglisi hanno sforato le misure concorseri: ogni risparmio L’innovazione didattidate (l’una per difetto, l’altra in eccesso) ma abbiareso disponibile dalla ca, l’introduzione delmo comunque deciso di pubblicarle integralmente. lotta all’evasione fiscale nuove tecnologie dile e alla corruzione gitali non come semsarà investito in istruzione e didenza e di segreteria, e solo il 7 plici supporti all’insegnamento ritto allo studio. per cento delle classi italiane di- ma come mezzi in grado di prospone di una connessione wi-fi! durre cultura e un nuovo “saper Aggiungiamo che gli studenti so- fare”, la formazione iniziale e no considerati una parte margi- quella in servizio dei docenti, il Quali sono le misure concrete nale del processo decisionale al- finanziamento di laboratori, la che il suo partito intende adotl’interno delle istituzioni scola- rottura dell’unità della classe e tare per rendere più efficace il stiche, mentre invece ne dovreb- della consequenzialità delle lelavoro didattico e facilitare il bero essere i protagonisti, per- zioni, un tempo scuola che supecompito degli insegnanti? Il ché la scuola è nata come luogo ri sia gli orari scolastici fatti su programma di governo del suo della loro educazione, è nata per misura per una società archeopartito prevede interventi a faloro, ed è per loro che deve fun- industriale sia la stagionalità setvore di un insegnamento più zionare. Riportare al centro il di- tembre-giugno basata sulla stapersonalizzato e articolato nel scente significa oggi ripensare, gionalità rurale, l’edilizia scolatempo? soprattutto alla luce dei cambia- stica che ridisegni completamenmenti epocali che stiamo viven- te gli spazi dell’apprendimento: CENTEMERO La personalizzado, l’intero modo di vivere e far su questo, e altro ancora, occorzione dell’insegnamento era il funzionare la scuola. Rompere lo re puntare per la scuola non del cuore della riforma Moratti, la standard della didattica uguale futuro, ma del presente, perché, legge 53 del 2003. La centralità per tutti significa guardare a se non entriamo dentro i camdell’alunno e la valorizzazione ogni studente come uno straor- biamenti, finiremo per condandella sua identità ai fini di una dinario e unico talento che la nare alla marginalizzazione le più compiuta crescita personale scuola deve sviluppare e far fio- giovani generazioni. sono dei principi irrinunciabili. rire. Ogni alunno bocciato o deCosì come l’apprendistato e i tifinito “somaro” è un alunno che rocini sono indispensabili per probabilmente a sedici anni spaconsentire l’inserimento dei gioIn Italia, all’interno di ciascun rirà nel buco nero della disper- grado scolastico, il fattore fonvani nel mondo del lavoro. Non sione scolastica, ed è questo il damentale di differenziazione dobbiamo poi dimenticare l’imvero “scandalo”. Quasi il 20 per dei salari degli insegnanti è l’anportanza delle nuove tecnologie cento degli studenti sedicenni, zianità di servizio. Il suo partito e degli strumenti digitali per le

intende seguire altre vie? Se altre, quali nel dettaglio? CENTEMERO Gli insegnanti sono una risorsa per la scuola e per il paese, per questo non si può permettere che continui a prevalere la logica per troppo tempo dominante del “ti pago poco, ti chiedo poco”. Pensare a una carriera che differenzi i docenti non solo sulla base dell’esperienza maturata ma anche a seconda delle competenze didattiche e organizzative potrebbe essere una via da percorrere. PUGLISI Premesso che il salario degli insegnanti è inadeguato e fra i più bassi d’Europa, non possiamo accettare forme di valutazione e premialità come quelle impostate da Gelmini o Monti; il totale fallimento di “Valorizza”, il progetto della ministra Gelmini basato sulla “reputazione” individuale è lì a dimostrare come altri debbano essere i metodi. Sappiamo anche che la sola anzianità di servizio non è incentivante. Abbiamo alle spalle dirigenti scolastici, docenti e personale Ata sfiduciati da sortite come quella, improvvida e ingiusta, del ministro Profumo che avrebbe voluto aumentare l’orario di lavoro degli insegnanti senza alcun corrispettivo. Quindi, quando parliamo di salario, dobbiamo premettere che il Pd si è dato una regola fondamentale: mai più decisioni calate dall’alto. Il nostro metodo politico, quello che già quotidianamente abbiamo praticato in questi anni, è fatto di condivisione reale. I partiti devono fare un passo indietro per poterne fare uno avanti: più umiltà nel confronto con i vari soggetti che lavorano e vivono nella scuola, più capacità di ascolto, e anche più lungimiranza, più capacità di guardare oltre. E questo vale anche e soprattutto per il contratto di lavoro della scuola. Noi sappiamo che per un insegnante coscienzioso l’orario di lavoro, incluso quello svolto a casa per la preparazione e la correzione dei compiti, si avvicina o supera le 40 ore settimanali su dieci mesi. Con il prossimo contratto nazionale di lavoro, vorremmo consentire agli insegnanti di scegliere fra due opzioni: la prima è quella attuale di 18 ore settimanali di lezione; la seconda è un orario per cui le attività svolte oggi a casa, come la correzione

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▼ dei compiti, la ricerca didattica, ecc., vengono svolte direttamente a scuola nel pomeriggio. Ovviamente chi sceglie la seconda opzione dovrà essere retribuito maggiormente, avvicinandosi ai migliori livelli europei, e dovrà avere accesso esclusivo agli sviluppi di carriera (come le funzioni obiettivo o la posizione di dirigente scolastico). Il contratto deve essere quel punto di arrivo che dà garanzia di futuro nella scuola, ma anche il punto di partenza di una formazione in servizio che scatta da quel momento in poi. Senza formazione nella scuola è inutile parlare di “comunità di pratiche professionali”. Tutto questo siamo pronti a discuterlo, a confrontarlo e a migliorarlo, senza dogmi e senza paraocchi, con sindacati e associazioni rappresentative della scuola italiana. Cosa pensate dell’attuale processo di formazione in ingresso degli insegnanti (corso di laurea + tutor)? Che bilancio fate delle Sis? Inoltre abbiamo in cattedra gli insegnanti più vecchi d’Europa: come incentivarli all’innovazione didattica e alla formazione in servizio? CENTEMERO L’insegnamento richiede professionalità e competenza. Per questo riteniamo positiva l’esperienza di un percorso formativo specifico, come quello dei TFA (tirocini formativi attivi). D’altra parte, è diventato ormai indispensabile riformare un sistema di reclutamento che finora ha avuto il solo effetto di alimentare a dismisura il precariato. Solo attraverso l’indizione di concorsi biennali e per reti di scuola potremo consentire ai giovani più validi e preparati di entrare nel mondo della scuola portando quella ventata di novità di cui si sente tanto il bisogno. PUGLISI Grande è la confusione sotto il cielo della scuola, ed enorme è il caos del reclutamento e della formazione. Senza rifare la storia del reclutamento del personale nella scuola italiana, sappiamo bene come dagli anni ottanta in poi, per la formazione e il reclutamento, siano state approvate continue riforme, che non hanno fatto altro che stratificare diritti, troppo spesso lesi, e sistemi ingarbugliati di punteggi, di modalità di abilitazione, di ingressi all’insegnamento che hanno alimentato lo sfruttamento e la precarizzazione di una categoria importante, fondamentale per la vita del paese, quale quella dei docenti. E così, alla drammatica precarietà del vivere degli insegnanti, si è aggiunto il danno della precarietà dell’apprendere. Migliaia di studenti ogni anno salutano maestri e professori a giugno, nella quasi certezza di non ritrovarli a settembre, dovendo quindi iniziare il proprio lavoro daccapo. Dobbiamo metter mano al più presto a un nuovo modello di formazione e reclutamento, equo e trasparente, che dia certezze ai precari delle graduatorie, e a un percorso

che offra ragionevoli speranze ai giovani che desiderano dedicare la propria vita professionale all’insegnamento. La proposta del Pd è chiara e realistica: prevede un piano pluriennale di esaurimento delle graduatorie per eliminare la precarietà dalla scuola (non costa un euro in più stabilizzare chi lavora su posti vacanti) e offrire la necessaria continuità didattica agli studenti. Occorre, poi, un nuovo sistema che leghi la formazione iniziale al reclutamento, selezionando tramite concorso i migliori laureati per l’accesso alla formazione iniziale, secondo numeri programmati al fabbisogno; un anno di prova attraverso tirocinio e supplenze brevi accompagnati da un insegnante esperto, e infine la firma del contratto a tempo indeterminato. Se tocca a noi, questo sarà il nostro impegno. La legge di stabilità di quest’anno taglia di 300 milioni il finanziamento alle università pubbliche, con il rischio di fallimento di trenta atenei, mentre mantiene il finanziamento di 223 milioni alle scuole private, senza però avere la garanzia né della qualità dell’offerta formativa né della libertà d’insegnamento. Come intende muoversi in questo campo il suo partito? CENTEMERO Già nel 2000, con la legge 62 del ministro Berlinguer, è stata giustamente riconosciuta la parità tra scuole pubbliche e private nell’ambito di un sistema integrato che permetta alle famiglie piena libertà di scelta. Ancora oggi, però, quando si parla di scuole private si cede troppo spesso a pregiudizi e facili demagogie. La verità è che molte scuole paritarie sono scuole dell’infanzia che permettono di offrire alle famiglie un servizio che altrimenti lo stato non sarebbe in grado di garantire. PUGLISI La priorità è, ovviamente, per il sistema pubblico e statale, avendo però bene in mente un paio di questioni fondamentali. Primo, la legge di parità è stata votata da tutto il centrosinistra di governo, dai Comunisti italiani all’Udeur, ed è stata emanata perché in precedenza i fondi alle scuole private erano erogati senza alcun criterio. Ora possono ricevere fondi dallo stato solo le scuole che svolgono una funzione di pubblica utilità. Secondo, nel finanziamento delle scuole paritarie sono incluse tutte le scuole non statali, e dunque anche le scuole pubbliche comunali. Non finanziare quel capitolo, avrebbe danneggiato soprattutto il sistema integrato delle scuole dell’infanzia, che oggi garantisce a bambini e bambine di età compresa fra tre e sei anni un posto a scuola. Senza quei fondi, dopo i drammatici tagli ai bilanci degli enti locali, avremmo dovuto chiudere le scuole dell’infanzia, lasciando a casa il 40 per cento dei bambini. Ben altra cosa sono i soldi dati in modo del tutto discrezionale dalla destra alla scuola della Bosina, dove la moglie di Bossi voleva “educare” i piccoli leghisti. ■

Lo studente serale e il venditore di figurine di Andrea Sormano n apertura di Servizio pubblico, la trasmissione di cui è conduttore, Michele Santoro, traendo spunto dalla canzone (Granada) che la introduce, si rivolge al proprio pubblico dichiarando, innanzitutto, di avere a propria volta, come il cantante, “da molto tempo” detto “addio” alla città dei toreri, Granada appunto, e di essere impegnato a lavorare, con l’aiuto di “centomila persone”, alla costruzione di una “città completamente diversa”, dove si possa realizzare “un confronto leale” tra diversi pensieri. E conclude, prima di iniziare tale confronto con l’ospite della serata, Silvio Berlusconi, con le parole di un’altra, italianissima canzone: “Chist’è ‘o paese d’‘o sole, chist’è ‘o paese d’‘o mare, chist’è ‘o paese addó tutt’‘e pparole, so’ doce o so’ amare, so’ sempe parole d’ammore!”. È un quadretto idilliaco a pronta presa (il pubblico applaude), ma che nulla dice sui due opposti oggetti di tale amore, potendo la parola essere usata per amore dell’ordine impersonale di un qualsivoglia discorso da costruire interlocutivamente, o per amore della propria immagine personale, da costruire o difendere conflittualmente in opposizione a quello stesso ordine. Se nel primo caso un confronto tra pensieri sarà possibile: la parola funzionerà da mediazione; nel secondo un battibecco tra immagini sarà inevitabile: la parola funzionerà da interposizione o “schermo” (cfr. Roland Barthes e François Flahault, Parola, in Enciclopedia, Einaudi, 1980). Tra i molti esempi di “parole d’ammore” per la propria immagine che, in alternativa al fornire il servizio di un pubblico pensiero, i due interlocutori della trasmissione impongono a chi li ascolta, ne prenderò qui in esame soltanto uno, il seguente, trascritto dalla registrazione integrale della trasmissione disponibile in rete (www.serviziopubblico.it; in corsivo le parole pronunciate con enfasi; tra parentesi quadre i tempi della registrazione e, nel testo, la sovrapposizione di parole): [0.50.25] SANTORO (rivolto a Berlusconi) Ma come fa? Se non ha cambiato le istituzioni fino adesso, le cambia adesso che va a prendere il più piccolo… (blocca con un gesto un applauso del pubblico) il più piccolo, il più piccolo consenso elettorale, diciamo, in tutte le sue partite fino adesso? BERLUSCONI Ma non è così… ma non è così! S. Allora, o stasera ci dice: faccio un colpo di stato, e diventa credibile… B. Ma andiamo! Eh va beh… S. E cambia la Costituzione, se no non è credibile! B. (ride) S. Eh, glielo devo dire! B. (ridendo) Santoro, lei è andato all’università o ha fatto le serali? (risate generali) S. Eh? B. È andato all’università, no? E allora! non dica queste st… queste cose che non… (ride) S. Non so come ha fatto lei, io… la mia università l’ho fatta… B. Senta, io [le voglio dire]

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S. [anche se ho studiato] tutto, anche quando lei vendeva le figurine, [so tutto di lei] B. [Io vor… vorrei] sì, io, in effetti, partendo da zero ho messo assieme 56.000 persone! Quindi un po’ di meriti ce l’ho. S. E certo che ce l’ha! B. E da quando sono entrato in politica le mie aziende hanno versato nelle casse dello stato nove miliardi di euro! Quindi non sono tra quelli che hanno… [che hanno preso] S. [Eh va beh] non si lamenti, che da quando lei sta in politica le sue aziende vanno su su su su… (alzando il braccio) B. Io sto orgogliosamente vantando il mio successo. S. E certo, certo! B. Che è… ha contribuito al mantenimento dello stato. S. E del quale non siamo invidiosi. B. Benissimo, prendo atto con soddisfazione. (ride) A commento di questi passaggi vari lettori intervengono, l’indomani della trasmissione, nella rubrica “Senza categoria” di “la Repubblica”, tra cui i seguenti: andreamasala, 11 gennaio 2013 Le scuole serali sono importantissime, io vi ho insegnato e lo so bene. Ma ancora più importante è che gli studenti difendano sempre l’ironia (anche quando fatta da un vecchio reazionario) e non diventino piccoli censori, anche perché piccoli censori crescono e diventano berlusconi! mcp56, 11 gennaio 2013 Non mi meraviglia che Berlusconi utilizzi battute trite per dire che il suo interlocutore è un cretino, ma mi ha molto meravigliato e irritato che Santoro per tutta la sera abbia continuato sulla stessa falsariga, senza invece tagliare corto o meglio difendendo un’istituzione che rende possibile a tante persone di raggiungere traguardi che per i più svariati motivi non hanno potuto raggiungere con la frequenza alle scuole diurne. [...] no.ipocrisia, 11 gennaio 2013 Non sono un fan di Berlusconi, ma non sopporto l’ipocrisia di qualcuno che si attacca a qualsiasi cosa pur di colpire una persona… La frase “…ha fatto le serali” non mi dite che non l’avete mai usata per fare una battuta a qualcuno… Tra l’altro la sua è stata solo una battuta… ma essendo lui Berlusconi subito si punta il dito e partono polemiche inutili… [...] Si può innanzitutto concordare, con il primo lettore, sull’importanza di difendere sempre, con le scuole serali, l’ironia. Nessuna delle due cose peraltro fa Santoro: non difende quell’istituzione, e men che meno prende ironicamente le distanze dalla “battuta” (“Santoro, lei è andato all’università o ha fatto le serali?”) del suo interlocutore. Vi replica anzi in maniera stizzita, legittimandone con ciò la pretesa: provocare quella stessa stizza, appunto. La “provocazione” di Berlusconi va in tal modo spettacolarmente in porto: Santoro ci casca e il pubblico si diverte. Quale alternativa, se fosse stato possibile a Santoro identificarla e praticarla, avrebbe reso pubblico

il suo servizio? Non quella di “tagliar corto” o di “difendere” quell’istituzione scolastica, come si sarebbe atteso il secondo lettore. Compito di chi dichiara di voler condurre una trasmissione all’insegna del “confronto leale” tra pensieri diversi non è “tagliar corto” su questo o quel pensiero, è consentire la piena e libera formulazione di ogni pensiero, condizione necessaria alla registrazione di una qualsivoglia differenza di pensieri. L’unica istituzione da difendere, in quella sede e in questa prospettiva, è conseguentemente il linguaggio: la “fondamentale istituzione umana” (cfr. John R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Comunità, 1996) che Santoro avrebbe potuto difendere, in questo caso, mettendo alla prova di un discorso il vocabolario culturale implicito nella “battuta” del suo interlocutore. Al proposito sarebbe bastata una semplice domanda, del tipo: “Cosa pensa, onorevole Berlusconi, delle scuole serali e di chi le frequenta?”. Quello che rappresenta in forma spregiativa le “scuole serali” è un vocabolario assai diffuso, concorderemo con il terzo lettore, ma non per questo è indegno di essere interrogato, specie quando a esibirlo in pubblico sia un “uomo di stato”. In risposta a quella domanda, Berlusconi qualcosa avrebbe dovuto dire, sarebbe dovuto ritornare sulla sua “battuta”, interrompendone la risata compiaciuta, per trasformarla in qualcos’altro. Sarebbe stato quello il modo per offrire, in quella circostanza, un “servizio pubblico”: il pubblico si sarebbe forse divertito di meno, ma avrebbe assistito alla realizzazione di una prassi comunicativa molto rara, specie nell’universo dei talk show. Posto che molto stretto sia il legame tra l’elettore e lo spettatore, tra mezzi di comunicazione di massa e “antipolitica populista” (cfr. Nadia Urbinati, Opinione pubblica e legittimità democratica, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, novembre-dicembre 2010), che tipo di elettore corrisponde allo spettatore che, divertito da tal genere di esibizioni, applaude? Nulla di tutto ciò essendosi realizzato, a procedere inesorabilmente lungo il proprio corso speculare è il carosello delle immagini. Ferito nella propria immagine prosaica di studente universitario, lo “studente serale” provoca il “venditore di figurine”; che a propria volta difende la propria agiografia esibendo i numeri, migliaia di persone impiegate, miliardi di euro versati che la celebrano. Lungi dall’essere sfiorati dal dubbio di essere complici della stessa prassi comunicativa, convinti quali sono di essere su versanti opposti su tutto quanto, i due protagonisti della trasmissione potrebbero andranno ancora avanti un bel po’ ad alimentare l’immagine delle “scuole serali” di partenza. Non avendo trovato posto nel discorso, quella stessa immagine è destinata a insistere sul discorso: a riprodursi ossessivamente uguale a se stessa, in forma di “battuta”. E a interrompersi soltanto meccanicamente, non anche a concludersi ragionevolmente, con la fine della trasmissione. ■ andrea.sormano@unito.it A. Sormano insegna sociologia della conoscenza all’Università di Torino


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Una categoria autodimostrata di Bruno Maida

Carlo Barone LE TRAPPOLE DELLA MERITOCRAZIA pp. 239, € 22, il Mulino, Bologna 2012

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u un sociologo inglese, Michael Young, a inventare il termine nel 1958: in un racconto satirico dal titolo L’avvento della meritocrazia immaginava che nella società inglese del 2033 si sarebbero incarnati pienamente gli ideali del merito, definibile attraverso un’equazione (merito = quoziente intellettivo + impegno). Insomma, ognuno sarebbe stato collocato nel posto giusto, da un punto di vista sociale e lavorativo, sulla base della sua innata intelligenza e dai risultati ottenuti attraverso il suo impegno. Nel momento stesso, però, in cui quell’ideale si fosse realizzato, sarebbe scoppiata la rivolta contro quel sistema. Nella sua finzione narrativa, Young mostrava così le contraddizioni di un ordine fondato su un meccanismo apparentemente egualitario che tuttavia poteva alimentare altre disuguaglianze e divisioni sociali. “La satira di Young – scrive Barone – contiene quindi un duplice avvertimento: realizzare la meritocrazia è estremamente difficile, e può rivelarsi anche assai pericoloso”. A guardare il dibattito che attraversa in questi anni il nostro paese (molto giornalistico e assai poco scientifico), sembrerebbe che l’invenzione satirica di Young sia stata presa molto sul serio, senza tuttavia comprenderne l’avvertimento e la cautela che conteneva. Al contrario, la meritocrazia è diventata una categoria autodimostrata, fondata sul buon senso comune, una sorta di valore necessario per una società alla ricerca di fondamenti morali. Che poi a sostenerlo siano spesso gli stessi che, nelle istituzioni e in particolare nell’università italiana, hanno fatto strame per molti anni dei principi costituzionali e dei valori a loro sottostanti, può non stupire ma certo lascia perplessi. D’altra parte, come sottolinea Barone, è proprio l’ambiguità della dimensione “morale”, che accompagna la riflessione sulla meritocrazia, che deve essere spazzata via, prima di potere affrontare un dibattito serio. La meritocrazia non si pone infatti come obiettivo l’eliminazione delle disparità sociali determinate dall’economia di mercato, bensì di renderle moralmente giustificate e accettabili. La disuguaglianza sarebbe un effetto necessario dello sviluppo e del benessere, compensabile dalle opportunità individuali che ne possono derivare. Insomma, efficienza di mercato e giustizia sociale possono convivere. E proprio così? Il saggio di Barone è una lucidissima critica ai sostenitori di quel modello di meritocrazia, non perché l’autore contesti l’utilità del concetto quanto piuttosto l’uso indiscriminato che ne viene fatto, funzionale in realtà alla conservazione dell’esistente. Affinché il merito possa costituire una condizione della giustizia sociale è necessario, se-

condo l’autore, seguace delle teorie di John Rawls, che innanzitutto vi sia accordo sulle procedure che in generale giustificano l’esito finale della distribuzione. Ma dire che a prestazioni migliori debbano corrispondere maggiori risorse non è sufficiente, perché è un’asserzione che non spiega quali regole debbano essere adottate. Da questo punto di vista, devono essere seguiti tre principi. Il primo è che la competenza e la prestazione siano obiettivi di efficienza in grado di essere rilevanti per l’intera collettività. Il secondo è che i benefici che si ricavano siano distribuiti all’interno della stessa collettività. Il terzo è che tale distribuzione consenta a chi riceve di ottenere di più rispetto a quello che avrebbe in un sistema meno efficiente. Il messaggio è chiaro: la meritocrazia è un mezzo, non un fine, soprattutto non deve essere visto come un obiettivo individuale, ma come uno strumento per il miglioramento della collettività. Quando si va a osservare la società italiana il quadro è però sufficientemente sconfortante. L’analisi che Barone svolge è selettiva ma significativa. Il suo sguardo si sof-

ferma sui destini occupazionali dei giovani e sul futuro dell’istruzione, due nodi naturalmente essenziali per lo sviluppo e per immaginare quale forma di giustizia sociale si intende affermare. Due sono i vincoli principali, che si intrecciano assai poco virtuosamente: il peso dell’ereditarietà sociale, diminuito ma non a sufficienza negli ultimi quarant’anni, e un’espansione scolastica non governata, ossia una scuola di massa che, non indirizzando e non formando al lavoro, ha in realtà contribuito ad alimentare le differenze e le distanze sociali. Ecco, dunque, che parlare di meritocrazia diventa un inganno evidente perché, in una condizione di sostanziale immobilismo sociale nel quale le opportunità non sono accessibili a tutti e alle stesse condizioni, gli effetti di una distribuzione delle risorse a partire da un principio del genere significa incrementare le disuguaglianze sociali. Non a caso, lo sguardo di Barone si appunta, in modo acuto e rigoroso, sull’istruzione secondaria, sulla necessità di sviluppare e

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governare i percorsi di professionalizzazione, sulla valorizzazione della cultura del lavoro manuale, sulla centralità del diritto allo studio. Né meno puntuali sono le osservazioni sul sistema universitario e nuovamente sul diritto allo studio, rispetto al quale l’incertezza costituisce il limite fondamentale. Meno convincente è la liquidazione con un’alzata di spalle del dibattito sulla “società della conoscenza” e l’affermazione – non sostenuta da ragioni, all’interno di un saggio di grande equilibrio – secondo la quale è giusto aiutare gli studenti universitari “ma se poi si arricchiscono grazie alla laurea, potranno restituire gradualmente almeno parte del denaro ricevuto”. Sostenere che uno studente si laurei grazie al sostegno pubblico, quando questo in realtà è un diritto costituzionale (oltre ad alimentare la disuguaglianza, perché chi non avrà avuto bisogno di chiedere quel finanziamento sarà doppiamente favorito quando inizierà a lavorare), è perlomeno discutibile e il tema dei prestiti d’onore rischia di diventare uno di quei temi che, come la meritocrazia, sono troppo spesso assunti in modo acritico e dato una volta per tutte. Al di là di questo, il saggio pone due questioni essenziali. La prima è la cultura delle pari opportunità, senza la quale non è

pensabile, se non al prezzo di una crescente disuguaglianza sociale, alcuna politica fondata sul merito. La seconda è la relazione tra individuo e collettività nella costruzione di relazioni sociali ed economiche che non si connotino come alternativa tra atomizzazione degli interessi e centralità delle masse, bensì come progettazione di una società capace di investire tanto sull’uguaglianza quanto sulla differenza, e in grado di stimolare partecipazione e collaborazione (e vale la pena di leggere con attenzione le pagine dedicate da Barone al tema degli incentivi e delle punizioni). Regole e procedure ne sono una condizione rilevante, ma senza una cultura e un orizzonte etico che le sostenga si traducono in pericoloso formalismo. Lo spirito civile che anima le pagine di questo volume è un esempio, sotto questo profilo, che ogni studioso dovrebbe seguire. ■ bruno.maida@unito.it B. Maida insegna storia contemporanea all’Università di Torino

Segregazioni contemporanee di Giovanni Abbiati

Emanuela Bonini SCUOLA E DISUGUAGLIANZE UNA VALUTAZIONE DELLE RISORSE ECONOMICHE, SOCIALI E CULTURALI pp. 183, € 25, Franco Angeli, Milano 2012

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l sistema scolastico italiano, con la sua difficoltà nel ridurre le disparità economiche e sociali tra studenti di diversa origine, costituisce l’argomento del volume, che si propone di esplorare il livello di disuguaglianza di opportunità educative presenti in Italia tramite l’analisi del livello di segregazione scolastica, ossia della concentrazione di studenti con caratteristiche simili all’interno degli stessi istituti. A questo fine vengono utilizzati i dati provenienti delle indagini Ocse-Pisa sugli studenti quindicenni e le rilevazioni Invalsi-Snv sugli studenti di V primaria e di I secondaria di primo grado. Le due misure fondamentali costruite per rendere conto della disuguaglianza educativa in Italia sono, secondo la definizione data da Emanuela Bonini, la segregazione orizzontale e verticale degli studenti tra le scuole. La prima prende in considerazione la concentrazione degli studenti in

base alle origini sociali; la seconda, invece, in base ai punteggi ottenuti ai test standardizzati. In un sistema equo, argomenta l’autrice, entrambe le misure di segregazione dovrebbero essere quanto più possibile basse, per evitare di creare un sistema scolastico ghettizzato tra scuole dei ricchi e scuole dei poveri che si traduca in differenti chance di apprendimento. La scelta degli indicatori più opportuni per rappresentare la segregazione viene trattata nei primi due capitoli, congiuntamente al quadro teorico di riferimento e alle ricerche empiriche sul tema. Il terzo capitolo presenta i risultati principali del lavoro, mentre il quarto propone un approfondimento sul legame tra risultati degli studenti, status socioeconomico e consumi culturali. Infine, all’interno delle riflessioni conclusive, i risultati delle analisi vengono ripresi al fine di formulare indicazioni di policy per ridurre la disuguaglianza di opportunità all’interno della scuola italiana.

L’analisi mette in evidenza l’esistenza di una segregazione verticale (relativa, quindi, agli apprendimenti) crescente tra gli ordini di scuola, in quanto è minima nelle scuole primarie e aumenta con il passaggio alle scuole secondarie di primo e di secondo grado. La segregazione in base alle origini, invece, è presente sin dalle scuole primarie. Secondo Bonini, la politica, interessata a un generale aumento del capitale umano, non considera adeguatamente i problemi di equità derivanti dagli alti livelli di segregazione presenti nel nostro sistema scolastico, il quale opera nel senso di riprodurre le disuguaglianze sociali invece che cercare di ridurle. Nel formulare indicazioni di policy, si auspica un maggiore intervento del mondo della scuola per cercare di ridurre la segregazione sulla base delle origini sociali degli studenti, da un lato, e promuovere la formazione di cultura tra gli studenti, dall’altro. Il libro ha il pregio di discutere di alcuni temi molto caldi nel mondo della scuola, portando evidenza empirica a sostegno delle tesi e delle proposte di riforma, contrariamente alla prassi italiana, che vede gli schieramenti formarsi e combattersi sulla base di dogmi ideologici ed evidenze aneddotiche. Nel fare questo si inizia, finalmente, a utilizzare i dati Invalsi, i quali rappresentano una vera e propria miniera di informazioni per chi vuole esplorare il mondo della scuola e capire dove agire per modificarne gli aspetti problematici. La descrizione delle disuguaglianze scolastiche in Italia e dei rimedi proposti, tuttavia, sconta diversi limiti. Il problema della segregazione degli studenti sulla base delle proprie origini, ben noto a chi si occupa di scuola, non viene esplorato con la profondità richiesta da chi dovrebbe tradurre le proprie analisi in proposte di intervento per il decisore politico. In particolare, il legame tra i due tipi di segregazione trova spazio insufficiente nella trattazione, così come la sua declinazione nelle aree del paese, che sappiamo essere molto diversa. Nel passaggio dall’analisi alle proposte di policy, inoltre, manca un collegamento necessario alla letteratura internazionale che da tempo si occupa di come migliorare l’efficacia della scuola, specialmente nei contesti più disagiati. Anche per questo motivo, le proposte operative che l’autrice suggerisce per arginare i fenomeni di segregazione appaiono generiche e suonano più come slogan che non come realistiche ipotesi di intervento. Nonostante il volume contribuisca a tenere vivo il dibattito sulla scuola e a mostrare le potenzialità di utilizzo dei dati Invalsi, nel suo complesso non sembra riuscire ad andare oltre una descrizione dei fenomeni di segregazione, senza essere davvero efficace a trarre indicazioni per contenere il fenomeno. ■ g.abbiati@gmail.com G. Abbiati è dottorando presso l’Università Statale di Milano


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Intelligenza sprecata e fanatica stupidità di Girolamo De Michele

Giancarlo Visitilli E LA FELICITÀ, PROF? pp. 204, € 16,50, Einaudi, Torino 2012

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volte c’è il rischio di perdersi, in questo mestiere, affrontando tanti temi che possono rimanere astratti rispetto alla vita degli alunni. Ti dici che è importante toccarli comunque: non li stai preparando a un esame di maturità, ma alla maturità, alla vita. Il tempo che ci è dato, però, non basta mai. E così le cose accadono”. È così, questo libro d’esordio di Giancarlo Visitilli: lo stile leggero, in apparenza colloquiale; il rapporto con i ragazzi come svolgimento di un continuo interrogarsi su se stessi e sulla vita; e, soprattutto, la nuda vita degli studenti, l’intreccio di desideri, passioni, ansie, aspettative sempre sottoposte al vaglio di un mondo che non ha alcuna benevolenza, che non aspetta, che impone e sanziona. Giancarlo insegna in una scuola di Bari vecchia. Un piccolo Sud incastrato dentro un grande Sud: il rapporto tra centro e periferia, come quello tra città e campagna, è sotteso dalla stessa grammatica delle relazioni di potere che governa le pratiche e le retoriche del sottosviluppo meridionale. E Visitilli lo sa. La stessa scuola è, in una società che della scuola sembra non sapere più che farsene, un diverso Meridione, sottoposto alle stesse retoriche del senso di colpa, dell’incompiutezza, del mancato raggiungimento degli obiettivi sempre fissati da chi esercita il potere: gli insegnanti, di Bari o di Brescia, nordici o sudici, sono i nuovi meridionali, sono quei “maledetti professori” che, come annota Ilvo Diamanti, “pretendono di insegnare in una società dove nessuno – o quasi – ritiene di aver qualcosa da imparare. Pretendono di educare in una società dove ogni categoria, ogni gruppo, ogni cellula, ogni molecola ritiene di avere il monopolio dei diritti e dei valori. Pretendono di trasmettere cultura in una società dove più della cultura conta il culturismo. Più delle conoscenze: i muscoli”. Perché non abolirli, dunque? Perché ogni Nord del mondo ha bisogno del proprio Sud, e persino una società come quella attuale ha bisogno di una scuola. Per far cosa? Per prendersi cura di qualcosa che sfugge alle rilevazioni degli apprendimenti, ai test o alle statistiche dell’Ocse: quella vita adolescente “condizionata da un magma di intelligenza sfrenata e di fanatica stupidità, l’epoca in cui l’esperienza la si conquista a morsi, e un giorno ti schiaccia e l’altro la fotti, non può non venire trascurata, poco considerata, malintesa. Troppo inquieta e

troppo inquietante, troppo complicata”, come la definiva un altro insegnante-scrittore, Sandro Onofri. Quella vita che ogni giorno la scuola deve prendersi in carico, facendole da insegnante e compagna di strada, psicologo e curatore di anime, badante e carceriere, e ancora insegnante, elargitore di premi e punizioni, raddrizzatore e indicatore di strade da percorrere, e ancora e sempre insegnante. Per un pugno di soldi, va da sé, gettati in faccia come elemosine tra un insulto e uno sputo, come si gettano gli ossi ai cani o gli ammortizzatori sociali conditi da sensi di colpa ai miserabili che ringraziano e baciano la mano che sfrutta e deruba il valore del lavoro prodotto. La scuola è un microcosmo che produce relazioni e conflitti, che attutisce e prepara alla vita: se non lei, chi potrebbe farlo? E dentro questo microcosmo la cooperazione orizzontale e verticale di docente e studente, di docente e docente, di questa generazione con le precedenti produce a sua volta un valore non misurabile in numeri, statistiche o salari: la vita, appunto. La vita dello studente che ha perso il padre, suicidatosi per la disperazione indotta dalla crisi; della studentessa che non torna a scuola perché aspetta un figlio dal migrante che è stato espulso, o di quella che racconta all’insegnante della lotta con il proprio corpo, con l’immagine alienata con cui combatte per non perderla, quella vita ridotta a poca pelle sulle ossa; del ragazzo autistico che si esprime sempre con la stessa frase: “È bugia!”, e di quello che vive in una perenne menzogna costruita dall’amore di un genitore che si fa padre e madre per nascondergli, finché sarà possibile, la tragica origine della sua disabilità; dei ragazzi che si fanno arruolare dal politico di turno nella speranza di un’assunzione dopo le elezioni (“Questa è gente che dà lavoro”); dei due fratelli che si tolgono la vita il giorno del loro compleanno, e di quello che stigmatizzato nella sua “malattia sessuale” dagli insegnanti, in un’altra città e in un’altra nazione troverà finalmente la felicità cui ha diritto. Già: la felicità. Che sarebbe il tema del libro, ed è anche nel titolo: dov’è questa felicità? Nelle giornate di quest’anno scolastico narrato a metà strada tra il diario e l’epistolario, la felicità è sempre un passo avanti alla vita. Le vite dei ragazzi la inseguono, e quasi mai la afferrano. La felicità, sembra volerci dire l’autore, non è qualcosa che si possiede, e forse è un bene: se non è un oggetto, una merce. La felicità è una condizione, un modo di esprimersi della vita, può scomparire o pulsare senza preavviso, può durare un istante

DELLA SCUOLA

o o due e poi scomparire con l’ultima piroetta dell’attore che esce dal palcoscenico, oppure ricomparire e indicare una strada da percorrere. Può nascondersi in una scampagnata, in un film o in un buon racconto: o può risaltare nella sua negazione, nel dispiegarsi di esistenze sempre precarie, incerte, impaurite. Non è facile, parlare di felicità al tempo della crisi: ma ancora più difficile, è farlo senza cadere nella retorica di tanta cattiva letteratura pseudoscolastica o adolescenziale, nella quale gli autori agitano i propri ego ipertrofici e deformano a proprio uso e consumo degli studenti che credono di aver incontrato, e di cui poco sanno, e forse poco gli interessa sapere. Merito di questo esordiente è, per contro, aver affinato una scrittura che fa quasi scomparire l’io narrante, rendendone pressoché impercettibili i segni: come l’ultimo Rossellini cancellava le tracce della macchina da presa per lasciare la narrazione alla propria autorappresentazione. Cancellare le tracce dell’io narrante significa andare all’origine della scuola narrata – quel Cuore anch’esso fatto di lettere e pagine di diario – per sottrarvi l’impianto moralistico, il doveressere sabaudo, l’ombra eccessiva del padre che rimprovera il figlio per quegli attimi di felicità nella prima neve d’inverno. Non saranno certo gli affossatori della scuola, i devoti della valutazione, i difensori della primazia dell’economia e della finanza a imparare qualcosa da questo libro. Quasi certamente non lo leggeranno neanche: e di certo Visitilli non ha avuto la scaltrezza di certi suoi colleghi-scrittori che si fabbricano il lettore ad hoc prima ancora di cominciare a scrivere. A trattenere un frammento, un ricordo, una riflessione con questo testo, e con le vite che si agitano a ogni pagina sfogliata, saranno quei pochi a cui sta ancora a cuore il destino della

scuola, e con essa il futuro di una generazione, vorrei dire di una nazione. A quelli che hanno ancora a cuore l’utopia di una vita degna di essere vissuta, questo libro aiuterà a capire che quello che oggi accade alle e nella scuola accade nei Sud del mondo – uno dei quali, varrà la pena ricordarlo, si chiama Italia – al tempo della crisi, che batte ancora più forte tra i miseri e i miserabili: quando vai avanti ogni giorno, e ogni giorno è una battaglia, e avresti voglia di rifugiarti nel bagno per scrivere anche tu sul muro: “Gesù, non ce la faccio più. Scendi dalla croce, ti do il cambio io”. ■ demichele.gi@tiscali.it G. De Michele è insegnante e scrittore

IV

Pallido corpo docente di Caterina Morgantini

Giulia Bozzola UNA CLASSE DIFFICILE pp. 241, € 16,50, Fazi, Roma 2012

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a neve non arriva mai sola: porta con sé il silenzio, compagno di viaggio insondabile. Con la fiduciosa pazienza che le bestie hanno nell’attendere una nuova primavera, si stendono fianco a fianco sui tetti, lungo le strade e nell’animo degli umani: ogni cosa vibra nell’incanto di un segreto ghiacciato. Capita, a volte, che il silenzio decida di restare: per impregnare fino in fondo la terra, gli umori, penetrando nel carattere della gente fino a farne una stirpe chiusa al mondo. Come quella di Meduno, piccolo paese arroccato sulle montagne friulane: la chiesa, il bar, il comune, una manciata di abitanti schivi, diffidenti come cani selvaggi. È in questo luogo radicato in un lago di silenzio che ogni giorno deve arrampicarsi Greta: il campo di battaglia è la scuola media del paese dove la donna, da precaria, pianifica un’esistenza errabonda coltivando legami provvisori e sprovvisti di profondità, entrando nell’orbita scombussolata di preadolescenti che non vedrà crescere. Le sue supplenze sono finestre aperte su universi altrimenti inconoscibili: Meduno, in particolare, sembra aver tagliato ogni ponte con la società civile. Il “corpo” docenti è diventato oramai pallido, svogliato ricordo di se stesso: Marta, Teresa, Piero, Virgilio esistono e resistono aggrappati alle frustrazioni e non più al lavoro di educatori, vivi grazie alla continua tensione tra voglia di andare, cambiare, e paura di farlo davvero. Dietro, sullo sfondo, si muove la massa rumorosa, inquieta e vitale dei ragazzi: i gesti dettati dall’impulso di affermarsi, i pensieri sempre celati. Su, in alto, il cielo viene rigato dalle scie dei caccia militari diretti nei territori della ex Jugoslavia durante la guerra del Kosovo. Siamo nel 1999, un anno reso insopportabile dalle urla della bidella Stravincia, spiato dagli occhi chiusi delle persiane accostate, divenuto sibillino con le fughe senza via d’uscita nella natura: raccontato tempo dopo da Greta in una lunga, dettagliata lettera-confessione indirizzata a un maresciallo dei carabinieri. Perché quell’incarico finisce nel più improbabile e doloroso dei modi: con il ritrovamento di un cadavere sulle rive del fiume Medona, dopo la festa “pagana” di fine anno scolastico. Di chi è, quel corpo? Di chi la volontà, e la mano, che hanno messo

fine ai suoi giorni? Dubbi leciti, seppur ingombranti, che dopo stagioni trascorse senza apparenti terremoti ancora fanno vacillare i ricordi di Greta. Alcuni libri hanno alle spalle storie che val la pena conoscere: quando Una classe difficile uscì la prima volta nel 2009, presso un piccolo editore, nessuno, tanto meno la sua autrice Giulia Bozzola, insegnante di inglese, avrebbe potuto immaginare il successo, lo scalpore, lo scandalo. Arrivato al festival “Pordenonelegge”, vendette molte, moltissime copie e divenne motivo di risentimento per gli abitanti di Meduno, teatro delle vicende raccontate. Oggi, ripubblicato da Fazi e letto a debita distanza dal clamore, stupisce come un romanzo tanto chiaro, limpido e senza scossoni possa aver suscitato una simile ondata di turbamento: a farla da padrone è la ruvida e meravigliosa natura del Friuli, boschi, torrenti, salite vertiginose. Nient’altro. Tutto il resto (la scuola, il paese, gli abitanti) rimane sullo sfondo, contorno sbiadito, sfuocato: c’è ma è come non ci fosse, accade pur rimanendo immobile. La voce narrante e protagonista principale, Greta, sembra fin da subito più preoccupata di sondare gli arcani disseminati nei dintorni, gli infiniti, bucolici anfratti segreti, piuttosto che conoscere davvero chi lo abita: una conseguenza, forse, dell’inevitabile transitorietà dell’incarico, che la porta a essere affascinata ma mai “legata” sul serio. Questo, però, non viene detto: il lettore, volente o nolente, si ritrova presto sulla soglia di una noia avvolgente, e gli interrogativi spuntati tra le righe (cosa nasconde davvero il carattere introverso di Meduno? chi sono, e cosa vogliono, i ragazzi? quali grovigli si portano dentro, dietro, gli altri insegnanti?) rimangono sterili punti di domanda senza risposta. Ciascun personaggio, tratteggiato in fretta, riceve poche pennellate atte a descriverne i caratteri necessari a etichettarlo come “macchietta”: all’autrice preme che la sua Greta, anche lei conosciuta in modo scarno, si perda nel trascorrere dei mesi. Dove, quindi, la causa dello scandalo? Di sicuro non nella scrittura, nello stile: un unico piano sequenza incapace di destare emozioni, di scavare nell’intimità di un paese che avrebbe altrimenti molto da raccontare. Una classe difficile, dunque, è relazione scarna, essenziale, di un anno nella vita di Greta così come potremmo immaginare di trovarlo trascritto nel registro: lunedì, martedì, mercoledì, con il tono distaccato e professionale di chi decide di osservare senza lasciarsi coinvolgere. E il lettore, sempre lui, giudice silenzioso, rimane orfano del mistero appena odorato, delle storie solo abbozzate: e della “classe difficile”, neppure l’ombra. ■ cater-morg@yahoo.it C. Morgantini è redattrice freelance


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Considerate la vostra semenza di Elena Girardin

Yves Grevet LA SCUOLA È FINITA! ed. orig. 2012, trad. dal francese di Fabrizio Meni, pp. 63, € 6,50, Sonda, Casale Monferrato (Al) 2012

Cristina Petit UN BUCO NEL CIELO pp. 61, € 6,50, Sonda, Casale Monferrato (Al) 2012

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mmaginate un futuro in cui la scuola pubblica, gratuita e obbligatoria non esista più. Immaginate che a “garantire” l’istruzione dei vostri figli siano aziende e catene di fast food. Che al posto del maestro ci sia un promoter pedagogico. Al posto dei testi scolastici dei cataloghi. Che la matematica si studi durante i saldi, l’educazione fisica si pratichi trasportando materiali da un magazzino all’altro. Yves Grevet, scrittore francese e insegnante di scuola primaria, ambienta la sua distopia La scuola è finita! nel 2028. Un futuro non troppo lontano a cui l’umanità approda privandosi di coscienza e di spirito critico. Tutto ha inizio con la Grande Crisi del XXI secolo, spiega Lila, un personaggio del racconto: “La gente non è stata in grado di rifiutare quello che le veniva imposto” ed ecco prefigurarsi una realtà non troppo dissimile da quella paventata da Bradbury in Fahrenheit 451, in cui i libri sono un pericolo e la conoscenza ancora di più. I libri non esistono perché considerati troppo pericolosi. La scuola è solo per una minoranza di ricchi. A tutti gli altri non rimane che vendere la propria infanzia alle multinazionali, proprio come avviene già oggi nei paesi più poveri, dove dilaga il lavoro minorile, dove molti bambini sono manodopera a basso costo alla mercé di padroni senza scrupoli. Ogni tentativo di ribellione è un serio rischio di morte. Basti ricordare la vicenda dell’attivista pakistano Iqbal Masih, sfuggito alla schiavitù e ammazzato a soli tredici anni perché lottava per i diritti dei più piccoli. Eppure, ci dice Grevet, anche in un futuro senza libertà di coscienza, dove sono gli interessi di un’oligarchia a comandare, una via d’uscita esiste. La risposta sta nell’impegno di chi ricorda che ci sono dei valori in cui credere, vecchi professori in pensione che mettono in piedi una Scuola della Resistenza in scantinati improvvisati. E poi ci sono bambini che hanno voglia d’imparare. Figli ribelli, pericolosi fuorilegge che sembrano obbedire a quell’antico monito dantesco “Considerate la vostra semenza: fatti non foste per vivere come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. La speranza, la lotta contro le avversità, la libertà interiore sono tematiche che ci traghettano dal primo al secondo volume della serie “La scuola che non c’è”, edita da Sonda. Si tratta di Un buco nel cielo dell’italiana Cristi-

na Petit, anche lei insegnante di scuola primaria, appassionata di fotografia e conosciuta per il suo blog (http://blog.libero.it/maestrapiccola/). Ale dovrebbe prepararsi per l’università e iniziare un futuro brillante. Lele, amico e fratello di vita, muore. Ale perde fiducia in tutto e tutti, si trascina per strada con gli occhi vuoti, il cappuccio della felpa calcato in testa e un paio di cuffie nelle orecchie. Si lega a una banda di vandali da quattro soldi, beve, fuma canne, si lascia vivere invischiato in un dolore senza fine. Qualcosa in lui si è inceppato. La giovinezza gli appare invitante come una mela marcia. Non c’è nulla in cui sperare, niente in cui credere. Tutti noi, almeno una volta nella vita ci siamo sentiti così. Tutti noi abbiamo dovuto affrontare un lutto o una situazione difficile che ci ha steso a terra. E poi, cosa accade? Cos’è che ci fa rialzare in piedi? Per Ale la salvezza sta nelle parole della sua maestra elementare, che ricorda all’improvviso come se un interruttore gli si fosse appena acceso dentro. La maestra che lo ammonisce con affetto e pazienza, che gli dice di essere sempre fedele al bambino che ha dentro. Di credere nella vita. Di avere il coraggio di andare avanti e di accettare le proprie ferite. Come insegnante, penso sia bello poter spiegare ai ragazzi come fare a raccogliere quel coraggio e, anche se quella forza va cercata in se stessi e ognuno si

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salva da solo, a volte i libri, forse più delle persone, possono aiutare. E questo racconto di Cristina Petit, nella sua semplicità, offre questo. Senza morale né retorica, l’autrice ci racconta un’esperienza comune di perdita e ci indica un modo per affrontarla. Niente di misterioso. Come diceva George Orwell: “I libri migliori sono quelli che dicono quello che già sappiamo”. Anche se lo scenario tra La scuola è finita! e Un buco nel cielo è completamente diverso, dopo averli letti si ha la medesima sensazione. Si avverte una spinta comune, un desiderio di riscatto, la necessità che ai propri sogni non bisogna rinunciare. Mai. La consapevolezza che, per realizzare

qualcosa di buono, bisogna tener vivo il bambino che è dentro di noi. E che, soprattutto, è necessario rimanere affamati di conoscenza. Due volumi che nella loro brevità non approfondiscono i temi che propongono, ma che offrono riflessioni a tutti coloro che fanno parte dell’universo scolastico e per la loro immediatezza si prestano bene a essere letti in classe. Possono costituire un punto di partenza per confronti, per condividere esperienze e, perché no?, per letture in sequenza o laboratori di scrittura. ■ elena.girardin@sugarpulp.it E. Girardini è insegnante

Intervista all’editore Antonio Monaco per chiarire gli scopi della collana “La scuola che non c’è”. Da dove nasce l’iniziativa di pubblicare sette racconti dedicati al mondo dei ragazzi e alla scuola? Dalla sensazione che il sovrapporsi, negli ultimi quindici anni, di “riforme interrotte” e stratificate ha fatto perdere ogni orientamento possibile alla scuola italiana. Per questo abbiamo voluto interrogare scrittori che vivono o hanno vissuto nella scuola per riflettere sulle radici o sugli orizzonti della scuola attraverso la letteratura. Una ripresa forte dell’immaginazione può forse rappresentare una chiave per porre la domanda sul futuro della scuola in forme inedite. L’occasione ci è data dal fatto che nel 2013 la casa editrice Sonda compie venticinque anni, e ci siamo chiesti quale contributo “editoriale” avremmo potuto dare alla scuola italiana: agli insegnanti, ma anche ai genitori e ai ragazzi.

Su quali basi è avvenuta la scelta dei testi? Su quali tematiche vertono i sette titoli finora previsti? Chi sono gli autori? E i lettori “ideali” di questi racconti? Semplicemente l’autrice/autore deve conoscere la scuola dall’interno e deve essere uno “scrittore”: una persona che crede e pratica il valore della parola e del linguaggio. Ogni autore è totalmente libero di esprimere il proprio punto di vista e il genere letterario più congeniale. Semplicemente si chiede di interrogarsi sui fondamenti della scuola. I primi due autori sono stati Yves Grevet e Cristina Petit. I prossimi due saranno Patrizia Rinaldi e Margherita Oggero. Come lettori, pensiamo a tutti gli attori della scuola: ragazzi, genitori e insegnanti. Per immaginare, ciascuno dalla propria prospettiva, e per dialogare tra loro.

V

Un felice connubio di Rossella Sannino

Maria Buccolo, Silvia Mongili ed Elisabetta Tonon TEATRO E FORMAZIONE TEORIE E PRATICHE DI PEDAGOGIA TEATRALE NEI CONTESTI FORMATIVI

pp. 250, € 38, FrancoAngeli, Milano 2012

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opravvive alla diffusa crisi economica, anzi, trova nuove strategie per diffondersi, resistere, continuare il suo articolato destino comunicativo e artistico: è il teatro. Il suo pubblico non conosce un reale calo di presenze, tant’è che dalla sua vitale necessità si è generato, in Spagna, il “microteatro”, ovvero una rappresentazione teatrale di breve durata, rivolta a un pubblico di poche persone, in uno spazio piccolo, anche insolito, privato, che però permette tante repliche, accessibili a tutte le tasche, con la garanzia di uno spettacolo che, grazie al suo minimalismo e alla sua facile diffusione, riscuote successo e conferma l’interesse per la performance artistica che sia capace di sorprendere e coinvolgere gli individui (http://cortadoamaro.com). Questo libro racconta di un felice connubio realizzatosi, a partire dall’inizio del XXI secolo, fra l’antico genere del teatro e la formazione. In realtà, “il teatro che viene collegato al mondo della formazione non è una creazione recente”; già nel XVI secolo i gesuiti inserirono il teatro nel curricolo formativo della propria classe dirigente. È poi dal 1970 che si inizia a parlare di “teatro didattico”, ovvero di un mezzo finalizzato all’apprendimento; da qui si svilupperà il “teatro a scuola”, che conosce addirittura la stesura di protocolli d’intesa interministeriali a metà degli anni novanta (si veda Claudio Facchinelli, Drammatopedia, “L’Indice” n. 6, 2011). L’evolversi di questa idea di un teatro utile alla didattica è ben spiegato nel capitolo Il teatro nei processi formativi di Maria Buccolo. Perché non sfugga il limite che separa il teatro come prodotto estetico dal teatro come formazione tecnica, si chiarisce che in questo contesto non si tratta di “teatro di regia, ufficiale, elitario, professionistico”, bensì di utilizzo delle tecniche teatrali nella formazione professionale. Come spiega Silvia Mongili a proposito del modello di formazione ludica proposto con il Trap (Teatro ricerca azione partecipativa), le tecniche ludico-teatrali che interessano “guardano alla ricerca e al ritrovamento di sé, del proprio corpo, e delle proprie emozioni, dei propri pensieri, della propria storia”. Ma se il teatro ha una storia secolare, nuova è la figura del formatore: è una professione incer-

ta, sfuggente, costantemente in via di definizione e di riconoscimento. Il formatore ha “una grossa responsabilità non solo contenutistica, ma anche esistenziale, poiché forma i soggetti” e, quindi, richiede competenze che abbiano a che fare con la comprensione, di sé e degli altri, con il contesto, la progettazione, la comunicazione; ovvero con quegli aspetti che curano, nella persona, il suo saper stare in relazione. Compito del formatore è l’“aiutare a imparare” e pertanto la sua attenzione non è tanto volta alla trasmissione di contenuti, quanto alla gestione delle emozioni (attivate dalla psiche, manifestate dal corpo, veicolate dalla parola) che entrano in gioco quando si apprende o si agisce in un gruppo. Le possibilità offerte dalla pratica dell’azione teatrale vengono incontro a questa necessità: con il teatro applicato ai contesti formativi, l’obiettivo da raggiungere è “la presa di coscienza dei propri modi di comportarsi, di comprendere la molteplicità delle variabili che vengono implicate nelle relazioni interpersonali ed elaborare dei nuovi comportamenti per cambiare se stessi e contribuire al miglioramento della vita nei contesti di applicazione”. Nasce così il “form-attore”, ovvero il professionista della formazione che ricorre al teatro come a una metodologia di tipo esperienziale. Le tre autrici, ciascuna con curricolo pedagogico e universitario, vantano anche una personale esperienza con l’attività di teatro, ed è sulla base di questa conoscenza diretta che possono illustrare in modo chiaro e pragmatico i risvolti che uniscono l’applicazione delle tecniche teatrali ai contesti educativi e formativi.

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l volume contiene diversi contributi per illustrare, in modo sintetico e sistematico, l’attuale panorama dell’offerta teatrale attenta alla formazione. Per citarne alcuni: Maria Buccolo illustra il teatro nell’impresa e nella cooperazione internazionale; Elisabetta Tonon scrive su teatro e animazione, teatro nella scuola, nella sanità e nel penitenziario; Silvia Mongili sul teatro nel sociale nell’ambiente. Di redazione collettiva sono le schede sulle Esperienze pratiche di teatro e formazione, repertorio molto utile di progetti realizzati in vari ambiti di lavoro e educativi. A conclusione, utili schede per il monitoraggio e la valutazione del teatro nella formazione e brevi interviste a illustri “formattori”. È un libro che “serve”, perché offre concreti spunti e suggerimenti a chi lavora in ambiti educativi fondati sulla relazione, a chi vuole sapere qualcosa di più sulle recenti modalità di formazione, a chi, già addentro alle cose, vuole avere un panorama dei progetti in corso e dei principali punti di riferimento nel campo. ■ ross.sannino@gmail.com Insegna latino e greco al liceo Berchet di Milano


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La società che non è mai pronta di Monica Fabbri

BIOETICA E DIBATTITO PUBBLICO TRA SCUOLA E SOCIETÀ a cura di Monia Andreani, Marcello Dei e Massimo S. Russo pp. 255, € 18, Unicopli, Milano 2012

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onostante la bioetica affronti problemi che toccano da vicino il quotidiano dei cittadini e delle cittadine, il dibattito pubblico su questi temi, in Italia, è di una povertà imbarazzante. Questa la situazione fotografata con precisione dal testo in questione. Le sfide poste oggi dalla scienza sollevano domande rilevanti e ineludibili. Queste domande, più che di risposte, avrebbero bisogno di approfondimenti e di strumenti affinché ognuno di noi possa, quando vi si trovi di fronte, essere in grado di valutare la situazione e prendere una decisione personale, meditata e rispettosa di se stesso e degli altri individui coinvolti. Al contrario, il dibattito su questo aspetto è stato carente nel nostro paese, trasformandosi frequentemente in una sterile e superficiale contrapposizione di posizioni, come se vi fosse solo un bianco e un nero e non una serie di tonalità grigie, in cui distinguere i confini del lecito, del morale, del possibile e dell’accettabile. Il pregio di questa serie di interventi è proprio quello di spiegare come sono stati affrontati nella società i casi più noti, quelli saliti alla ribalta delle cronache (Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Therry Schiavo, ma anche il referendum sulla legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita). Si tratta di casi emblematici che ci hanno toccato da vicino e che, certamente, hanno aperto un cuneo di luce nel buio che permeava la trattazione di questi argomenti.

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ello stesso tempo, è stata perduta una preziosa occasione per mostrare la ricchezza di sfumature che attiene a queste situazioni per quanto riguarda il diritto all’autodeterminazione, le relazioni con gli altri e il rapporto fra società e politica. Soggetti complessi, certo, ma trattati con metodi semplificativi invece che esplicativi, con il pretesto che la società non è ancora pronta. Come se i cittadini e le cittadine italiani non vivessero in Occidente e non si scontrassero con le problematiche di inizio e fine vita come tutti gli altri. Proprio questo aspetto è ben evidenziato in più di un intervento: gli italiani sono ben consci delle sfaccettature morali e etiche che vengono poste e nella vita reale compiono continuamente delle scelte in questo senso. Si tratta quindi di questioni su cui spesso hanno do-

vuto comunque riflettere in assenza di un’adeguata discussione collettiva. È particolarmente apprezzabile, in questo libro, la declinazione di genere che viene esposta in alcuni interventi: approfondimento spesso non evidenziato a sufficienza, nonostante il ruolo della donna sia così determinante non solo negli eventi dell’inizio vita ma anche in quelli del fine vita, essendole ancora principalmente delegato il ruolo di cura dei familiari. La bioetica rientra a pieno titolo nel percorso di autodeterminazione della donna, interpretandone spesso le tematiche di fondo. Il contributo confessionale (che non manca mai in questa materia, e questo testo non fa eccezione) ha il pregio di essere dichiaratamente cristiano cattolico e non ha la pretesa di propinare valori universali non negoziabili e validi per tutti. Certamente, anche se esula dall’intenzione del libro, è utile ricordare che una società che diventa sempre più pluralista meriterebbe un approfondimento anche sulle altre confessioni religiose, cristiane e non (penso alle religioni ebraica e alle islamiche, ma anche ai cristiani protestanti), su cui vige una notevole ignoranza. È di particolare interesse la parte dedicata alla scuola, laddove vengono presentati gli esiti di indagini nelle scuole superiori circa la conoscenza di questi argomenti. Non credo ci si debba stupire dei risultati: la bioetica non è una disciplina prevista dai programmi ministeriali e resta affidata alla buona volontà di una sparuta pattuglia di insegnanti che svolge dei percorsi a essa dedicata. Quindi, se la scuola non se ne occupa, quali fonti di informazione possono avere i ragazzi? Le stesse degli adulti, con gli stessi limiti e semplificazioni. Non stupiamoci quindi né della generale ignoranza che gli studenti mostrano in questo campo né di quanto la conoscenza sia dipendente più dal livello culturale dell’ambiente familiare che dal percorso scolastico. Mi chiedo che cosa si aspetti a introdurre questa materia nella formazione di questi giovani cittadini e cittadine: sono loro che si troveranno sempre più coinvolti in scelte difficili, che la scienza continuerà a porre, direttamente o indirettamente, e noi abbiamo il dovere morale di offrire loro gli strumenti scientifici e filosofici perché possano affrontarli. In conclusione, si tratta di un testo che mette efficacemente in evidenza i numerosi ed eterogenei interventi necessari perché anche nel nostro paese possa nascere un dibattito degno di questo nome sulle complesse problematiche bioetiche. ■ fabbri_monicavanda@yahoo.it M. Fabbri è ricercatrice biologa presso l’Ospedale San Raffaele

Il FIL e il pensiero laterale di Gino Candreva

Carlo Carzan e Sonia Scalco ECONOMIA FELICE EDUCARE I BAMBINI A UNO STILE DI VITA CONSAPEVOLE

pp. 140, € 16,50, La Meridiana, Molfetta (Ba) 2012

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ome insegnare ai bambini a vivere felici in tempi di crisi? È questa la sfida alla quale si sottopongono Carlo Carzan, di formazione economista e di professione “ludomastro”, come ama definirsi, e Sonia Scalco, esperta in attività ludiche per bambini e ragazzi, fondatori e animatori della prima ludoteca palermitana per ragazzi, “Così per gioco”. Sfida ardua e, per certi versi, paradossale. Perché con questo testo Carzan e Scalco ambiscono nientemeno che a insegnare ai bambini e ai ragazzi, dai sei ai dodici anni, le ricette di una decrescita felice, e insegnarle con il gioco. Eppure riescono a rendere interessante e accattivante una materia piena di parole tristi, come recita la quarta di copertina, quali “crisi, disoccupazione, povertà, sprechi, rifiuti, inquinamento”. Il risultato migliore di questo testo è rimettere l’economia “sui suoi piedi”. Ci insegna cioè che tutte queste parole tristi, effetto di un’economia centrata sul profitto e sull’ipertrofia della produzione, non sono delle calamità naturali, ma dipendono, in larga misura, dai nostri comportamenti quotidiani. Ed è proprio ciò che gli autori intendono indicare con gli esercizi mirati all’educazione a un’economia consapevole: la strada per riappropriarsi di tempi e luoghi economici che vengono sottratti dal consumo, anzitutto mostrando che il prodotto interno lordo, il famigerato Pil, non è l’unico indicatore della ricchezza di un paese. O meglio, che la ricchezza di un paese non può li-

mitarsi alla somma dei beni e servizi che produce. Recentemente l’Onu ha introdotto l’indicatore “indice di sviluppo umano”, che misura altri fattori di crescita, come le risorse ambientali, l’istruzione, la diffusione del welfare e altri indici di progresso. E cosa dire di quei paesi che adottano il Fil (felicità interna lorda), che indicano un diverso approccio filosofico allo sviluppo? Si tratta, in sintesi, di adottare i principi di Jacques Attali, tra cui “provare a pensare in modo laterale” per non farsi sopraffare dalla crisi e adottare un approccio allo sviluppo che sia nel contempo globale e sostenibile. E, magari, coniugarli con le teorie economiche della decrescita felice di Serge Latouche, che ispira l’intero lavoro. Concludono il libro due densi capitoli sul tempo e sull’autoproduzione. La decrescita è infatti strettamente legata alla lentezza; tuttavia, la lentezza (il libro cita la Pedagogia della lumaca di Giovanni Zavalloni) non è assenza di tempo, ma tempo “altro”, impiegato a passeggiare, parlare, occuparsi degli altri, guardare le nuvole. Quale modo più educativo per impiegare il tempo? E occuparsi degli altri vuol dire anche passare dall’economia dell’accumulazione all’economia del dono, con la consapevolezza che il dono è un regalo a noi stessi, in quanto soddisfacimento di un bisogno di un membro della comunità alla quale apparteniamo. La decrescita implica quindi la liberazione del tempo dal lavoro, il quale può essere riversato nell’autoproduzione, che in periodo di crisi diventa un “antidoto contro la povertà e la disoccupazione”. Il testo, popolarizzando e rendendo fruibili ai preadolescenti concetti complessi, evita accuratamente il rischio di cadere nella banalizzazione, anche per il coinvolgimento pratico nelle attività proposte. Molte delle quali pronte da sperimentare in classe. Magari con un bravo ludomastro.

Complicità e rassegnazione di Jole Garuti

Sergio Tramma LEGALITÀ ILLEGALITÀ IL CONFINE PEDAGOGICO pp. V-152, € 19, Laterza, Roma-Bari 2012

L’

avere scritto in copertina le parole “legalità” e “illegalità” senza alcuna congiunzione o segno di interpunzione che le separi e contrapponga indica chiaramente ciò che l’autore vuole argomentare: il confine tra legalità e illegalità a volte è difficile da individuare e da riconoscere. Secondo il dizionario “legalità” significa “rispetto delle leggi e delle norme vigenti”; ma Gherardo Colombo in Educare alla legalità afferma che legalità significa “rispetto della legge vigente in un determinato territorio in un dato periodo storico”. Quindi il concetto di legalità si modifica con il variare dell’organizzazione sociale. Non c’è analisi sociologica che non denunci oggi come un male cronico del nostro paese la diffusione di illegalità, che cresce con la complicità di molti e può contare sulla rassegnazione di troppi. “La legalità esiste davvero solo se la responsabilità individuale si salda alla giustizia sociale” afferma don Ciotti. E don Milani nella lettera ai giudici affermava

con passione: “Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che dovranno tenere in tale onore le leggi da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”. Questa è la “legalità democratica”, che esprime la società “orizzontale”, cioè democratica, in cui il potere sta nei cittadini che sono consapevoli e capaci di far valere i propri diritti, indipendentemente dalla propria posizione economica e sociale. Il libro di Sergio Tramma esamina questi principi attraverso una particolareggiata analisi della società italiana e una denuncia acuta. Viviamo in un contesto che promuove una vera e propria educazione all’illegalità, per imitazione, per constatazione o per adeguamento. I modelli comportamentali diffusi dai mass media favoriscono l’evoluzione negativa della trasgressione adolescenziale, che può passare dalla ribellione alle regole familiari a comportamenti violenti. Molti giovani, poi, subiscono il fascino dell’illegalità violenta e della vera e propria educazione messa in atto dalle organizzazioni mafiose presenti in tutta

Italia. In quel contesto i valori da rispettare sono chiarissimi: la fedeltà, il rispetto del capo e l’omertà. Regole da non trasgredire, pena la morte. In cambio il giovane ottiene denaro, potere, appartenenza al gruppo. Il pedagogista Tramma non si limita però alla denuncia, ma esamina con passione il che fare? ovvero come riuscire a cambiare, rinnovare, ricreare una società in cui si possa vivere da cittadini liberi e uguali. Soltanto la scuola può riuscirci, con la ricerca di un nuovo ‘confine pedagogico’. Non servono programmi di Educazione alla Legalità, che pure l’autore analizza a partire dalla famosa circolare ministeriale n. 302 del 1993, ma docenti che si assumano la responsabilità di una scelta intellettuale e civile. È opportuno che i ragazzi facciano “esperienza di democrazia, piuttosto che essere indottrinati con luoghi comuni sulla democrazia”, come dice Chomsky: la finalità più alta della scuola è l’educazione alla responsabilità, che favorisce un approccio critico ai concetti di illegalità e di legalità, “sottoponendo entrambe a un’analisi rigorosa delle loro ambivalenze, doppiezze, contraddizioni”. Soltanto con l’impegno consapevole degli educatori e degli educandi si potrà iniziare la formazione di un cittadino e di un uomo nuovo. ■ jolgar@fastwebnet.it J. Garuti dirige il Centro Studi S. A. O. di Milano


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Ascoltare è difficile di Fausto Marcone

Florence Ehnuel LE BAVARDAGE PARLONS-EN ENFIN. POUR UNE CLASSE À L’ÉCOUTE pp. 168, € 14,20, Fayard, Parigi 2012

È

inusuale per “L’Indice” recensire libri non pubblicati in Italia, ma l’argomento valeva l’eccezione per lo spessore pedagogico e per l’ampiezza di risonanza italiana. È un libro che ci piacerebbe fosse stato scritto da un nostro insegnante, che una tale ostinata ricerca avesse aggiunto un’analisi ulteriore, specifica e intima della condizione italiana del fare scuola. Il bavardage è il chiacchierare, ma non il ciricip ciriciap gaddiano, il confabulare sempre interessato, né tanto meno la conversazione e le sue arti, icona e carattere della modernità, quanto piuttosto l’emissione continua, controllata e incontrollata, di parole. Molti luoghi e ambienti ne sono afflitti, il bavarde compare nella letteratura, nella cinematografia, e inevitabilmente finisce per essere una categoria con la quale classifichiamo velocemente. E naturalmente il chiacchierare è un’afflizione scolastica. Molti insegnanti lamentano la fatica per avere silenzio e ascolto e le conseguenti distrazioni dalla lezione. Ora, un’insegnante finalmente ha la determinazione e la forza intellettuale di prendere la penna, di indagare su di sé, sul suo modo di fare lezione, e su altri insegnanti, sul mondo circostante, e di comporre un libretto per sollevare la tavola umida che copre il verminaio. L’argomento è sicuramente sottovalutato, da sempre, ma la sottovalutazione oggi equivale, come sembra si ostini a dire Florence Ehnuel, a un’incapacità di lettura del mondo contemporaneo. Il chiacchierare in classe non solo è aumentato, in quantità, in intensità e in volume, ma è cambiato, è diverso da quello delle passate generazioni e ci dice molto sulle crepe cognitive di oggi e sull’insidia e le smagliature che porta al tessuto logicoverbale della società. L’autrice cerca una disciplina della parola, ma si trova di fronte una classe, una piccola massa

che, quanto piccola si vuole, è tuttavia una massa che si comporta come tale, non come il singolo individuo da cui sia possibile ottenere responsabilità e attenzioni. Inoltre, è una massa abituata a essere massa del tempo storico della sua esistenza. Già questo rende difficile una disciplina della parola, che ha regole dialogiche, retoriche, che a loro volta poggiano sulla regola base dell’ascolto. Ma ancora più difficile è ottenere una tale disciplina se si pensa alle cause del fenomeno specifico del chiacchierare in classe, quelle che enumera Ehnuel e quelle che potremmo aggiungere. Tutte comunque riportano ai campi valoriali e al rimescolamento continuo che in essi la realtà storica produce. Il chiacchierare, come lo conosciamo adesso, è l’espressione ormai caotica di un proprio io diventato onnivoro e che ha bisogno di non-regole, che vanno dunque ad accompagnarsi ai nonluoghi (nel libro il chiacchierare viene definito un non-atto), liberando un’aggressione lenta e divorante nei confronti della personalità dell’istituzione scolastica. Gli adolescenti ripetono a scuola ciò che vedono e vivono altrove: tutto sembra avere pari dignità e tutto quindi può essere e viene detto: pensieri, parole, esperienze non costruiscono interiorità, ma devono essere immediatamente espulse. Ecco l’humus della chiacchiera. Ma questo genera altre conseguenze, perché l’espulsione immediata delle parole le rende banali, senza quel rigirare dentro che carica di significati, e fa diminuire interesse e interessi e dunque produce meno ascolto consapevole. Mi sembra, aggiungerei alle diagnosi di Ehnuel, che la parola stia subendo o abbia subito, da qualche tempo, una mutazione, non più per comunicare o anche modificare o dominare, ma semplicemente per occupare, uno

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strumento insomma della politica di presenza. Più si parla, più si è visibili, indipendentemente da ciò che si dice, un po’ “parlo, dunque sono”. Gli strumenti di comunicazione di massa hanno diffuso questi modi di parlare e di essere. Troviamo più davanti a noi casi di timidezza? C’è forse vergogna negli adolescenti se si mostra loro l’insignificanza di ciò che dicono? Ma anche la contraddittorietà non crea problemi, e non c’è interesse a riempire la materia della parola. Ehnuel propone linee rieducative, alcune delle quali partono

da lontano, dal primo rapporto genitore-figlio, altre invece sono più semplicemente di gestione della classe. Credo però che abbia ragione nel pensare che le condizioni di disciplina e di possibilità di ascolto siano una delle sfide della scuola di massa. L’insegnante opera con e su una parola che è ormai lontana dalla nuova mutazione, con la quale combatte un corpo a corpo sfibrante e dagli esiti davvero incerti. Ehnuel lancia un allarme da raccogliere contro l’idra del bavardage, forma del vuoto e dell’assenteismo, che costituisce “un vero e proprio freno all’apprendimento” e una minaccia alla capacità democratica di giudizio sul giusto e l’ingiusto. ■ ennepemoi@libero.it F. Marcone insegna all’istituto Bertarelli di Milano

Insegnare tra le masche di Giorgio Kurschinski

Maria Tarditi LA VENTURINA pp. 352, € 14,90, Baldini, Milano 2012

“I

bambini impediscono ai maestri di invecchiare ‘dentro’, perché riescono a trasformare le loro fatiche in letizia corroborante, in profondo appagamento, in serenità di spirito. (…) Poi non ci sono soltanto i bambini. Ci sono i genitori, i nonni, i Superiori, i colleghi. Adulti, ahimé! Non sempre, non tutti, amichevoli. (…) Prendiamo i ministri della Pubblica Istruzione: ciascuno di loro, appena insediato, ti RIFORMA la scuola. E obbliga gli insegnanti a sperimentare sulla pelle degli innocenti i metodi più astrusi, le novità più rivoluzionarie, elaborate a tavolino, no, spesso da incompetenti, o scopiazzate dai paesi all’avanguardia, lontani dalla nostra mentalità (e dalle nostre condizioni economiche e sociali) più degli extraterrestri. E i poveri maestri si devono faticosamente barcamenare tra il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’, per non passare da oscurantisti, ma soprattutto per non danneggiare gli scolari”. Queste schiette parole sono di Maria Tarditi (1929), per lunghi anni insegnante elementare nelle montagne del cuneese, durante i quali ha insegnato a leggere, scrivere, far di conto e ragionare a oltre duecento allievi. La sua energia comunicativa, arricchita dalla saggezza accumulata con sensibilità nel tempo, l’ha portata a scrivere i propri ricordi e, trasfigurandole letterariamente, le infinite vicende di cui era venuta a conoscenza. I suoi libri sono nati a contatto con la società contadina, concentrata sui ritmi ciclici della natura, sconvolti solo dai repentini cambiamenti imposti dalla Storia. A renderla nota è stata la casa editrice di Boves Araba fenice, che ha appena riproposto il romanzo d’esordio, Pecore matte, del 2001. Come i successivi, ha per protagonisti gli abitanti di origine contadina delle Langhe, con le loro vite caratterizzate dal lavoro, dalla sofferenza, dalle speranze di amori e successi, spesso frustrati dalla meschinità della mentalità corrente, cui sembra impossibile tener testa. Il suo primo libro, pubblicato dopo essere rimasto per quasi venti anni nel cassetto, è però Un’infanzia felice (2012), vivace racconto della propria infanzia. Direttamente dedicato all’esperienza di insegnante è invece Cara scuola (2005). I tredici capitoli, affettuosamente ironici, ripercorro-

no i ricordi e le esperienze di scuola attraverso riflessioni e divertenti aneddoti. È comunque nei testi scritti con più libertà che la capacità di affabulazione dell’autrice si realizza appieno. Il suo miglior romanzo, La venturina, è stato ora rilanciato da Baldini. Il titolo si riferisce all’espressione dialettale che indica un trovatello dato in affidamento, dietro compenso, a una famiglia. Venturino è anche il protagonista di La luna e i falò di Cesare Pavese. Gemma, la protagonista della Venturina, dovrà presto rendersi conto che, nonostante tutti gli sforzi suoi e di chi le vuol bene, la propria origine incerta non le permetterà mai di vivere una vita davvero degna, a causa dei biechi pregiudizi sociali. L’opera di Tarditi ricorda i temi di Una minestra di erbe selvatiche della maestra del Briançonnais Émilie Carles (1980), appartenente a quella stessa cultura di matrice provenzale d’oltralpe, di qualche generazione precedente, ma già in lotta per la difesa della dignità umana, minata dal pregiudizio. La venturina è un romanzo di formazione dall’epilogo tragico. Accompagnando Gemma dall’infanzia alle soglie del diploma magistrale, Tarditi ci fa entrare nell’universo delle Langhe, con lo snodarsi delle stagioni legate alla semina, al raccolto, alla conservazione delle castagne, alla vendemmia e alla lavorazione del mosto. Ci rende partecipi, attraverso la sua narrazione coinvolgente, colorita di espressioni dialettali, delle vicende e dei sentimenti nobili o meschini dei familiari e dei compaesani di Gemma. La storia comincia nel 1938 per chiudersi nel dopoguerra. Gli scontri politici dell’epoca sembrano appena sfiorare le vicende individuali.

R

ispetto ad altre narrazioni, i buoni e i cattivi non sono sempre dalla parte che ci si aspetterebbe. A volte il regime fascista sembra essere percepito da alcuni personaggi come una presenza dello stato che, rispetto al passato, pare essere più vicino alla gente, ordinandogli la vita. Non si risparmiano certo le critiche alle folli imprese belliche senza ritorno di Mussolini, ma anche nei gruppi autonomi di partigiani sedicenti comunisti (si specifica che non sono quelli delle Brigate Garibaldi) si trovano quasi solo dei prepotenti perdigiorno in cerca di rivalse. Accanto alla descrizione della vita in famiglia, in cui campeggia la meravigliosa personalità della nonna, indimenticabile pure quella dei periodi trascorsi in collegio a Mondovì, con la passeggiata della domenica, in libera uscita con il fratellastro Nino, anch’egli studente, o i racconti legati al costante segreto agire delle masche, le streghe del folclore piemontese. ■ gkurschinski@yahoo.de G. Kurschinski è germanista e dottorando in italianistica all'Università di Varsavia


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Narratori italiani Elzeviri di fine corsa di Andrea

Tommaso Landolfi DIARIO PERPETUO a cura di Giovanni Maccari, pp. 393, € 28, Adelphi, Milano 2012 iario perpetuo raccoglie gli elzeviri che Tommaso Landolfi pubblicò sul “Corriere della Sera” nell’ultimo decennio di vita, dal 1967 al 1978. In qualche modo, come spiega Giovanni Maccari nella postfazione, si tratta di un libro che lo stesso autore avrebbe voluto realizzare, sia nel solco di una serie di opere diaristiche che aveva dato alle stampe a partire dagli anni sessanta, sia per contratto con Rizzoli (nel 1978 comparve Del meno, prima raccolta dei suoi pezzi usciti sul quotidiano, mentre il postumo Il gioco della torre, del 1987, venne realizzato con criteri discutibili). Il volume vede finalmente la luce oggi, a trent’anni di distanza, in un periodo di ritrovato interesse verso lo scrittore di Pico Farnese. Indubbio è che questi brevi testi (che spaziano dal racconto al frammento, dall’“operetta morale” all’apologo), pur nulla aggiungendo alla sua opera, conservano però abbondanti tracce della tavolozza landolfiana, contribuendo a definire meglio i colori della sua ultima produzione, che, come è noto, almeno a partire dal fondamentale Landolfo VI di Benevento (1959), si confronta spesso con lo scacco della pagina bianca, con l’afasica rinuncia al dire, con la destrutturazione stessa delle convenzioni narrative. Attorno a quali temi ruota la raccolta? Se il cuore è certamente la casa avita e decadente con il suo umbratile ultimo abitante, una presenza rilevante è pure quella del gioco, della malattia e della morte, del ricordo, degli animali, del disamore e del disprezzo, degli incontri fuggevoli e delle occasioni mancate, dei mondi e delle lingue immaginari. Niente di nuovo, quindi, per chi ha confidenza con Landolfi. Semmai è avvertibile un sovrappiù di incertezza, un ulteriore scivolamento verso la frammentazione di ogni mappa o, all’opposto, la dolorosa convinzione che non si dia speranza possibile, in qualsiasi forma si manifesti, dal sogno all’incongrua presenza dell’inspiegabile. In tal senso questi elzeviri, nati anche da una necessità economica (Il “Corriere” li retribuì adeguatamente), costituiscono a loro modo una stanca e ultima sfida posta dalla scrittura al vuoto, si direbbe quasi al nulla che la assedia (la stessa sfida che in quegli anni aveva determinato la scelta della poesia in luogo della prosa). Una sfida a cui Landolfi, pur dichiarandosi sconfitto in partenza, prende parte ritrovando ruoli o voci perduti, o da tempo abbandonati. Come la voce del narratore, lo scrittore aristocratico, ironico e apatico, attraversato dalla noia e dalla malinconia, precipitato in basso, afflitto da umori atrabiliari, soffocato dalle insofferenze (verso il presente, soprattutto), ma anche capace di sorprendenti slanci di pietas, come rivela il mirabile Isolia splendens, dove si racchiude tutto il dolore per l’insensatezza di una vita che

D

Giardina un gesto inavvertito può distruggere, o come testimonia la sua partecipe attenzione all’esistenza animale, dalle civette ai topi, dal porcellino di terra alle tartarughe. Ecco, in tal senso, si avverte non un cambiamento della prospettiva sulle cose, ma un minor ritegno di Landolfi nel disvelarsi. Qualcosa, in effetti, è accaduto. Come ci avevano in parte raccontato anche le pagine dei precedenti diari, il solitario abitante del palazzo familiare, l’uomo ammalato che fatica ad avere commercio con chicchessia, ora deve stare nel mondo, pur sempre ristretto, della famiglia, la nuova famiglia, la sua famiglia. Una moglie giovane, una bambina, un bambino. La vita, anche se in ritardo, lo ha momentaneamente catturato con le sue banalità quotidiane, con i giochi chiassosi dell’infanzia, con le fantasmatiche paure di essere tradito (Un marito cornuto e una moglie fedele), con le necessità economiche, con l’assenza di tranquillità che rende complicato scrivere (Le crocelline). Di riflesso, Landolfi recupera con accentuata frequenza i ricordi della sua infanzia. Descrive, di scorcio, rapidissimo, i genitori. Il padre ultranovantenne che sale in soffitta ad aprire il baule dove sono conservati gli abiti della moglie morte sessant’anni prima (La seta nel baule). La madre, con i suoi “meravigliosi e malinconici occhi”, morta a ventisei anni (Sull’orlo di un imbuto). Gli amori adolescenziali (Esperienze drammatiche), le sparute figurette dimenticate da tutti. E poi fa qualcosa di inaudito. Nel referto (come chiamarlo altrimenti?) Di alcune immagini Landolfi descrive la malattia che lo colpì a Sanremo, registrando le memorie del coma, le visioni e i suoni che gli percorsero la mente in quelle giornate. Una sorta di estrema manifestazione di sé, di confessione quasi, di denudamento dell’anima. Ma non ci si inganni. Questo sussulto vitalistico è costantemente compresso, soffocato, quasi negato nel momento stesso in cui sgorga. Non solo dall’idea antica che recidere i legami divenga la strada maestra per non soffrire (lo scrisse già nella Spada, uno dei racconti di inizio anni quaranta, e lo ribadì nelle decisive pagine di Cancroregina, del 1950, dove il protagonista Filano ama la vita quando è fatalmente lontano dal mondo, destinato ad orbitare attorno alla Terra sull’astronave smarrita nello spazio). Ad agire con la forza di una corrente che procede in senso contrario è la logica stessa delle cose. Non c’è più tempo per amare o per smettere di amare. Negli elzeviri di Diario perpetuo lo scrittore non si atteggia a “fare il vecchio”, non recita la parte. Lo scrittore è davvero vecchio. Le sottili pareti della scrittura non stanno più in piedi. Le remote fantasie non hanno più consistenza, e anche gli spettri sono cari sogni svaniti proprio quando sarebbero stati più necessari, perché “i vecchi purtroppo non credono ai fantasmi”. Dappertutto si moltiplicano i segni di morte. E con loro viene quel senso di amaro niente, quella stanca paura che la vita sia in fondo molto meno di quanto ci si aspetti. ■

Le tre strade dei rivoluzionari di

Francesco Morgando

Ascanio Celestini PRO PATRIA pp. 123, € 17,50, Einaudi, Torino 2012

I

l presupposto di partenza, per Celestini, è la

nota tesi gramsciana della rivoluzione mancata, progetti e ideali disattesi, speranze dei figli tradite dai padri. Ma la riflessione sul Risorgimento da cui comincia il racconto è un continuo lanciare ponti su alcuni dei nodi più critici della storia del paese: dalla Resistenza agli anni di piombo, fino a toccare il presente. Intanto la prospettiva: a ripercorrere e raccontare i centocinquant’anni di unità è la voce di un detenuto, un “erbivoro”, un ergastolano a cui (come altrove in Celestini) è stata diagnosticata una seminfermità mentale. Un io sconclusionato ma critico, che nella sospensione spazio temporale del carcere prova a tirare le fila di ciò che è stato, portando avanti un’ analisi distaccata e dissacratoria. L’ossatura su cui si perdono le continue (ma spesso acute e puntuali) divagazioni narrative è un dialogo fallito con Giuseppe Mazzini, e la prova, insieme a lui, di un discorso agli italiani. Un discorso spesso interrotto dall’affiorare di personaggi ed episodi estranei al Risorgimento più moderato e accomodante, protagonisti che dal Mazzini “ufficiale” di vie e piazze italiane non possono essere raccontati. E non ci sono eroi, anzi: durante il cammino verso l’unificazione s’incontrano solo vittime di “un’inutile strage”, ventenni o poco più morti ammazzati da una promessa non mantenuta. Pisacane, Orsini, Malatesta e i fratelli Bandiera: esponenti di un’attività rivoluzionaria cancellata (o smussata) dal revisionismo sabaudo, e che in Pro Patria provano a riemergere dalla loro damnatio memoriae di sconfitti.

Continuamente incalzato dalla voce narrante, l’ideologo e cospiratore Mazzini diviene, con il suo silenzio sempre più pesante, simbolo di attendismo e inefficacia rivoluzionaria, freddo stratega sordo alle morti. Ma a fare i conti con il Risorgimento in chiave Celestini sono anche i rivoluzionari che hanno tradito la causa, Depetris, Crispi, Cairoli: padri della patria e di un trasformismo che avrà poi grande fortuna. Non si contano dentro il flusso narrativo le anticipazioni ottocentesche all’Italia che sarà: interessante è l’analogia tra la generazione risorgimentale e quella della contestazione, che si fa strada nel racconto e nella riflessione con un dissonante crescendo di prestiti lessicali. In fondo, i due movimenti sono entrambi espressione di una lotta armata, segnata da morti e sconfitte; una simile e radicale promessa di rinnovamento, che la memoria collettiva ha da sempre tenuto a distanza. “Siamo rivoluzionari, rivoluzionari sconfitti, ma pur sempre rivoluzionari”, si legge in un passo del libro, e finito il furor giovanile per i rivoluzionari ci sono tre strade: la morte, il parlamento o la galera. E proprio quest’ultima, forse per l’urgenza del tema, si innesta e conduce parte del discorso. “Senza prigioni, senza processi”: altre parole di Mazzini, altre parole disattese. La galera come cuore dello stato, insieme centro nevralgico e ultima periferia dei reietti reclusi in uno spazio disumanizzante. Il carcere è ed è stato incubatrice rivoluzionaria, quasi un privilegio per pochi, ma che nell’assottigliarsi della differenza tra dentro e fuori rischia di perdere la sua portata eversiva, facendosi inferno totale. Pro Patria va certo a inserirsi nei recenti dibattiti sull’affollamento delle carceri e su Italia 150, ma il tema fondante del libro è il sommerso, e la volontà civile (ed emotiva) di restituirgli, se non gloria patriottica, almeno memoria.

Camminare tenendosi per mano di Fabio

Franco Buffoni IL SERVO DI BYRON pp. 158, € 16, Fazi, Roma 2012 ono Fletcher signori, il servo “S di lord Byron, e scrivo. Scrivo! Il padrone mi credeva capace di fare la mia firma, o poco più”. Così, all’inizio del romanzo di Franco Buffoni, Il servo di Byron introduce se stesso, il mite e arguto Fletcher capace di istruirsi leggendo le carte del padrone: “Fedele e innamorato, quanto può esserlo uno speciale servo del suo padrone genio”. Ma il protagonista è appunto Byron: il servo non ruberà la scena al padrone. La parabola dell’eroe, legata alla necessità di una trama già scritta, quella della biografia, è quella di una discesa inesorabile: la gioventù e i primi successi poetici, il matrimonio per rispettare le convenienze e comunque, come lato frivolo di una bisessualità che ne scandisce ascesa e imprese, i viaggi e l’autoesilio, l’incontro con Shelley (amore non corrisposto) e, infine, l’ultimo viaggio, l’avventura impossibile dell’indipendenza greca, al comando di una truppa molto mercenaria e poco pattriottica. Con ironia, osserva Fletcher che il nemico in Grecia sono i turchi, mentre il viaggio in Grecia di molti anni prima, viaggio di iniziazione e di vera liberazione omoe-

Zinelli rotica, era nato per entrare in contatto con gli “usi orientali” del cosiddetto Turkish mood. Byron è un uomo che invecchia male e perde progressivamente il desiderio per la bellezza altrui. In parallelo alla caduta dell’eroe, scorre altrettanto inesorabile la lista degli amici letteralmente caduti per via, caduti perché la legge inglese ancora prevedeva per la “sodomia” pene che potevano andare dal rogo, all’annegamento, allo squartamento: “Tuttavia, da qualche decennio ormai, si preferiva ricorrere alla più pratica impiccagione preceduta da gogna, come imponeva, e tuttora impone, la legge inglese”. Con tetra ironia, Charles Skinner Matthews, amico del tempo di Cambridge, scrive la parola paiderastia: “Pi greca maiuscola con cui la parola inizia viene allargata a dismisura sul foglio di carta da lettera, fino ad assumere la forma di una forca stilizzata. Avevamo ventitré anni, allora”. Va sottolineato che il racconto del servo Fletcher dà sostanza romanzesca a quel pamphlet a puntate, in prosa e in poesia, che Franco Buffoni sta scrivendo da alcuni anni a pungolo dell’accettazione dell’amore gay. Non è in gioco solo il punto di vista civile di una battaglia di diritti, ma tutto il paesaggio dei rapporti interpersonali nella società. Non basta conquistare un riconoscimento, bisogna compiere un cammino verso la luce (e in questo

la militanza di Buffoni, come quella di Byron, è un po’ romantica): “Non so quando, ma sono convinto che verrà un giorno in cui a Piccadilly due ragazzi potranno camminare tenendosi per mano. Sarà allora la vittoria di Byron e di Matthews, del tamburino White e del tenente Hepburn, degli impiccati di Vere Street e, se permettete, un po’ anche la mia”. Sulle ali del romanzo la prosa di denuncia civile si fa più ariosa, sorretta dall’idea che gli eroi sono sempre giovani e belli. Ma per fare un romanzo non bastava cucire e commentare gli aneddoti di una biografia. Ci voleva appunto l’invenzione della voce narrante: Fletcher. Per l’anglista che è Buffoni, la maschera del servo è un artificio che non può non far pensare alla Pamela del romanzo di Samuel Richardson, serva sì ma peculiarmente letterata, la cui virtù nel resistere alle avances del padrone sarà ricompensata dal matrimonio. Va ricordato che il sottotitolo del romanzo di Richardson è Virtue rewarded e che questo, oltre alla vena moralistica contiene anche passi di sicuro erotismo? Il patto con il lettore prevede che questi creda che Fletcher, come Pamela, sia diventato scrittore. La virtù di Byron, a differenza che in Richardson, non è però ricompensata. È tutta nelle mani del lettore, se vorrà unirsi alla battaglia, la possibilità che la virtù finisca finalmente per trionfare. ■ zinelli2001@yahoo.it F. Zinelli è directeur d’études in filologia romanza alla Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi


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Narratori italiani Nella stanza vuota dei ricordi di un figlio di Roberto

Andrea Canobbio TRE ANNI LUCE pp. 347, Ä 18, Feltrinelli, Milano 2013

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è una coppia che si bacia, nella copertina di questo libro. Banale, certo. In questo caso, però, più che l’atto in sé, più che le due figure abbracciate, conta l’inquadratura. Dall’alto, perpendicolare alla coppia, come se un Barone rampante li avesse sorpresi lì, sotto al suo albero e avesse fatto clic. E poi conta la geometria, la striscia bianca, il parapetto dove sono seduti i due, che attraversa l’immagine in diagonale, e divide in due sezioni cromatiche l’immagine: sopra il blu dell’acqua, sotto il marrone del terriccio. Non si fa mai troppa attenzione alle copertine dei libri. Dei romanzi, in questo caso. Questa immagine, scelta per la copertina di Tre anni luce di Andrea Canobbio, è strettamente connessa al racconto. Lo racchiude, più che aprirlo, come potrebbe suggerire se intendessimo la copertina come la porta di un libro. Meglio ancora: lo contiene e lo evoca al contempo, il racconto. Poi, c’è la dedica. Anch’essa, in questo caso, una chiave importante. “A Pier Vittorio Tondelli e Daniele Del Giudice”. Sono tre gli scrittori-maestri di quella generazione: Antonio Tabucchi, Daniele Del Giudice e Pier Vittorio Tondelli. Tre punti

Ferrucci di riferimento diversi, unici. Canobbio ha esordito nella prima antologia Under 25, Giovani blues, curata da Tondelli e pubblicata da Massimo Canalini per la casa editrice Il Lavoro Editoriale di Ancona che poi sarebbe diventata Transeuropa. La apriva, quell’antologia, Canobbio, con il bel racconto Diario del centro. La storia di uno studente italiano che va per qualche tempo a Londra per lavorare e imparare l’inglese. Tiene un diario dal quale salta fuori tutto il suo stupore per una città, Londra, che non ha un centro. Quelle poche pagine già non lasciavano dubbi. Canobbio era uno scrittore. Così come l’autore del racconto di chiusura, Gabriele Romagnoli. Dalle raccolte successive sono usciti altri autori, come Romolo Bugaro, Guido Conti, Giuseppe Culicchia, Silvia Ballestra. Non proprio degli allievi, ma alcune note tondelliane risuonano in ciascuno di questi autori. Tutti, oggi, con una ricca bibliografia alle spalle. All’esordio con Tondelli, Canobbio ne unisce un altro. Il suo primo libro, Vasi cinesi, pubblicato da Einaudi nel 1989, ha infatti la supervisione di Del Giudice, con il quale ha lavorato in fase di editing. Un percorso, quello di Canobbio, che, riosservato ora, sembra un lento avvicinamento a questo suo ultimo romanzo. Da Vasi cinesi passando per Traslochi e poi Padri di padri, e Il naturale disordine delle cose, tutti pubblicati da Einaudi. E fra quest’ultimo e Tre anni luce, pubblicato da Feltrinelli, c’è una pausa di nove anni, in cui, però, hanno trovato spazio due brevi testi, pubblicati entrambi da Nottetempo, Presentimento e Mostrarsi. Meglio non cercarli, però, Tondelli e Del Giudice, nelle pagine di Tre anni luce. Sarebbe un errore. O, piuttosto, un impiccio. Perderemmo la fragranza del fluire della scrittura. O, meglio ancora, non serve cercarli, perché ne sentirete una vaga e decisiva eco qui e là. Ma, soprattutto, la coglierete, vi accompagnerà a libro finito quando la foto dei due che si baciano diventerà contenitore definitivo del romanzo che avete appena letto. Il narrare di Tondelli e la scrittura di Del Giudice suoneranno insieme, saranno partitura unica. Alla fine, l’allievo Canobbio, è riuscito a fare sue le lezioni dei due maestri, così diversi fra loro, racconto e scrittura, trama e stile, vicenda e sguardo. Mano nella mano, pagina dopo pagina. Come i personaggi di questo romanzo. Ma prima di entrare dentro la storia, c’è ancora qualcos’altro. L’esergo di Vladimir Nabokov: “So, nondimeno, di un giovane soggetto cronofobico che provò qualcosa di molto simile al panico guardando certi filmini di famiglia girati qualche settimana prima della sua nascita”. Il tempo, che può essere vertigine, che può far paura. Fin dal titolo di questo romanzo. Dilatare il tempo, i tempi. Prendere tempo. Rallentamenti e ripartenze. Que-

sto è, soprattutto, Tre anni luce. Che incomincia così: “Il ricordo è una stanza vuota. Scomparsi gli scaffali ingombri di riviste, le sedie e il tavolo, scomparsi i quadri, il calendario e lo schermo del computer pieno di parole. Scomparso anche mio padre, seduto a battere sui tasti, annullato da migliaia di momenti identici, ogni giorno cancellato dalla ripetizione degli stessi gesti”. Incomincia con uno spazio vuoto, quello del dottor Claudio Viberti, chiamato da tutti solo Viberti, che fino a quel momento, fino alla prima pagina di questo romanzo, ha vissuto una vita piatta, vuota. Porta con sé e dentro di sé l’eco malinconica di quel vuoto, forse scalfito alla riga successiva, quando entra in scena una sua collega del pronto soccorso, Cecilia Re. È suo figlio a raccontarci i tre anni che partono da quel preciso momento: “E così sarebbe rimasto, vuoto nel vuoto, come uno zero, per chissà quanto tempo ancora, se Cecilia non fosse apparsa e non gli avesse chiesto aiuto. Erano le sei di un pomeriggio di fine marzo”. Un figlio che ci racconta la storia da un suo presente spostato molto in avanti, in avanti anche rispetto a noi lettori. E li rivivremo passo dopo passo, quei tre anni. Raccontati dal figlio prima dal punto di vista di Viberti, poi da quello di Cecilia, poi ancora Viberti, poi ancora Cecilia e infine da quello di Silvia, la sorella di Cecilia. Una storia d’amore. Complessa, dilatata nei tempi per via delle lentezze e incertezze sentimentali dei due. Raccontati minuziosamente, nei pensieri, nelle azioni, nei desideri, nei gesti. E le rispettive famiglie, Viberti già divorziato e che abita nello stesso stabile dove vive la madre e la ex moglie con la sua nuova famiglia, in fase di separazione invece Cecilia. Nessun figlio lui, due lei. E il sentimento di paternità di Viberti è una delle molle della narrazione. Canobbio attraversa

le vite con una scrittura apparentemente piana, priva di picchi, apparentemente adeguata alla scansione che della propria vita danno i personaggi del libro. Ma solo apparentemente, perché poi ci vuole grande maestria a mantenere costante quell’andatura e, soprattutto, riuscire ugualmente a tenere legato il lettore al testo, attraverso la pura forza della scrittura. Senza colpi di scena, escluso l’ultimo, quello cruciale che scoprirete soltanto leggendo il libro, ma che comunque, grazie allo stile evocativo di Canobbio, riusciamo a intuire in anticipo pur ripetendoci “è mai possibile”? Tre punti di vista, dunque, raccontati da un quarto, proiettato nel futuro, che dal futuro ci racconta della sua famiglia prima della sua nascita. Di lui, va detto, non sapremo nulla. Puro cronista dell’antefatto della sua esistenza. Puro omaggio a chi lo ha messo al mondo. E allora non si può che aderire al racconto. E come Viberti, ci innamoriamo subito di questa Cecilia, medico del pronto soccorso, fin dal primo appuntamento in quel bar dove passeranno quasi tutte le pause pranzo dei tre anni luce: “E gli piaceva sempre di più. Gli

piaceva quando si ravviava una ciocca di capelli dietro un orecchio, l’apparizione di quella piccola e perfetta conchiglia rosa. Gli piaceva quando mangiando si toccava le labbra con due dita, alla ricerca di una briciola inesistente o per sottolineare che non poteva parlare, in quel momento, con la bocca piena. Gli piaceva come spalancava gli occhi un attimo prima di ridere. Aveva un neo nella fossetta alla base del collo. Aveva un collo molto bello. Aveva una macchia verde nell’iride dell’occhio destro (sapeva di averla?)”. Sì, di Cecilia ci si innamora anche noi, lettori. Della sua semplicità. Perché siamo dentro gli stessi sentimenti di Viberti, dentro la sua solitudine, consapevoli, più di lui, di quanto egli sia nulla più che un “internista timido”, per Cecilia, o “l’anonimo Viberti”, per Silvia, sorella minore di Cecilia. E trattandosi di un romanzo sulla dilatazione dei tempi (anche verbali), non può allora non essere un romanzo sulla memoria e della memoria. Quella nella quale vuol far ordine l’io narrante, raccontando la storia di sé prima di sé, quella che svanisce per motivi di età: Marta, la madre di Viberti, quella della letteratura, che Canobbio mette in moto attraverso una perfetta struttura geometrica, dentro la quale noi lettori ci muoviamo con agio. In Tre anni luce Canobbio fa sintesi, dunque. Come se, “in questa luce” (citando il libro omonimo di Daniele Del Giudice, uscito negli stessi giorni del romanzo), l’autore abbia illuminato definitivamente un percorso iniziato con Tondelli prima, e proseguito con Del Giudice poi. Ora, quella luce illumina questa storia, questo romanzo, che è solo di Canobbio. E da questo, ora, ripartire verso altre storie. ■ www.robertoferrucci.com R. Ferrucci è scrittore


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Scienze Una donna chiusa nello stereotipo di Telmo

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Chiara Ceci EMMA WEDGWOOD DARWIN RITRATTO DI UNA VITA, EVOLUZIONE DI UN’EPOCA prefaz. di Niles Eldredge, pp. 246, € 18, Sironi, Milano 2013

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a storia divulgativa, quella frettolosa pratica della memoria che poi si tramanda senza troppi riguardi verso i personaggi secondari, l’ha sempre dipinta come una donna molto religiosa, capace di influenzare e persino di frenare l’illustre marito, Charles Darwin. Poco più che una bigotta, devota parrocchiana e madre di dieci figli. Mai stereotipo fu più ingiusto e fuorviante. In questo libro Chiara Ceci, naturalista e storica del pensiero biologico, ci restituisce il sorprendente ritratto di una donna colta e intelligente che ha avuto il destino di attraversare quasi per intero l’epoca vittoriana, al fianco di un celebre cugino e marito. Il suo nome è Emma Wedgwood, rampolla ben educata della famiglia di ricchi imprenditori della ceramica che avevano trasformato il loro villaggio-azienda di Etruria in un modello di welfare. Ma i Wedgwood furono molto altro per l’Inghilterra di primo Ottocento. Filantropi, illuminati, progressisti, erano di religione unitariana e antitrinitaria, devoti cioè a una divinità tollerante che presiede all’ordine del mondo e garantisce vita eterna ai giusti, lasciando nel frattempo correre senza briglie il progresso scientifico e tecnologico. Già in settecentesca amicizia con il nonno di Darwin Erasmus, diedero i natali alla mamma del grande naturalista inglese, Susannah, scomparsa prematuramente, e a una schiera di donne emancipate che circondarono e addolcirono fin dagli inizi la vita di Charles Darwin. Furono il lato femminile della sua ascendenza e della sua storia personale. Il padre di Emma, Josiah Wedwood II, ebbe un ruolo chiave nel convincere il padre di Darwin a far partire quel ragazzo dalla carriera scolastica non proprio brillante per un viaggio che gli avrebbe cambiato lo sguardo sul mondo, umano e naturale. In Brasile entra subito in contatto con l’infamia della schiavitù e delle torture, rimanendone sconvolto. Al ritorno, spronato da Emma e dalle altre agguerrite cugine Wedgwood, diventerà un ardente antischiavista e insieme finanzieranno campagne abolizioniste in madrepatria, nelle colonie oltremare e in Nord America. Emma nel frattempo studia, viaggia per l’Europa (anche in Italia per il Grand Tour), impara le lingue e la musica. Si sposa senza orpelli e cerimonie nel gennaio del 1839

e si trasferisce con Darwin a Down House nel Kent dal 1842. Ha quel tanto di senso dell’umorismo da conservare per sé il biglietto che Darwin aveva scritto, con cinico puntiglio, elencando pregi e svantaggi del matrimonio (concludendo che, tutto sommato, una moglie è pur sempre meglio di un cane). Lei è credente, mentre Darwin gli confessa ben presto il suo crescente scetticismo verso ogni religione rivelata. In due struggenti lettere di quelle settimane esprime al compagno tutti i suoi timori, confidandogli di aver paura che questa loro diversità possa separarli, se non in questa vita in quella ultraterrena. La scienza, annota Emma, non può spiegare tutto. Ma la strana unione dei Darwin e dei Wedgwood funzionerà anche questa volta e i due resteranno uniti per quarant’anni a Down. Affronteranno insieme sfide terribili, come la morte della secondogenita Annie, nel 1851, quando aveva dieci anni, così come la scomparsa di altri due bimbi in tenera età. Tra buone letture, ricette di cucina e serate al pianoforte, oltre ai sette figli rimasti Emma seguì giorno dopo giorno il travaglio ventennale dell’evoluzionista riluttante al suo fianco, tra esperimenti nella serra e lunghe ore di scrittura nello studio. Suggerì cautela nel trarre conclusioni non ancora suffragate dai fatti, ma nella sostanza lo incoraggiò. Lesse in anteprima le bozze dell’Origine delle specie, correggendo la punteggiatura un po’ zoppicante. Per merito delle traduzioni di Emma, Darwin poté leggere le missive che gli arrivavano da diversi naturalisti italiani. Grazie a un lungo lavoro storico su fonti di prima mano, il libro, impreziosito da una prefazione di Niles Eldredge, non ha equivalenti nemmeno in lingua inglese. Il vasto materiale bibliografico e archivistico è stato abilmente condensato in meno di 250 pagine, di piacevole lettura. In questo affresco di un’epoca attraversata da cambiamenti epocali, dalle ferrovie alle biciclette di Cambridge, è bello vedere il grande naturalista nei panni, questa volta, del marito di Emma Wedgwood.

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hiara Ceci, che vive a Cambridge e lavora alla Royal Society of Chemistry, ha inseguito la vita di questa donna vittoriana in tutti i luoghi dove si è manifestata, dalle atmosfere dell’infanzia serena a Maer Hall agli anni senili di nonna amorevole e vedova (morì nel 1896, quattordici anni dopo il marito), fino all’irrimediabile dolore per non poter riposare per sempre accanto al suo uomo, nel piccolo e delizioso cimitero nelle campagne del Kent. I funerali di stato avevano infatti accompagnato Darwin verso l’abbazia di Westminster e lei, in un gesto di indipendenza e di dissenso che illustra appieno il suo carattere, si era rifiutata di partecipare alle esequie. ■ telmo.pievani@unimib.it T. Pievani insegna filosofia della scienza all’Università di Milano Bicocca

Le suggestioni della telepatia di Mario

Elvio Fachinelli SU FREUD a cura di Lamberto Boni, pp. 113, € 12, Adelphi, Milano 2012

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lvio Fachinelli (1928-1989) riconosceva a Freud il merito indiscusso di avere aperto il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali, una “nexologia” umana (da nexus, legame, intreccio). Adelphi, che di Fachinelli aveva edito gran parte degli scritti, ne ha ora raccolto in Su Freud alcuni saggi dispersi: si va da una nitida presentazione del fondatore della psicoanalisi per “I Protagonisti della Storia universale” nel ’66, a riletture di temi freudiani (la caducità e Rilke, il senso della gratitudine e la fobia del dono) apparse su “il manifesto” nell’anno della morte. Sono scritti che confermano la radicale libertà di giudizio con cui Fachinelli si confrontò con il “maestro”, di cui tradusse e curò molti scritti, ma di cui mise in evidenza anche chiusure e cecità. Già nel ’69 Fachinelli prendeva le distanze da una psicoanalisi “della risposta”: prima ancora della domanda viene l’ascolto ed è dal concreto della pratica clinica, dal colloquio sempre singolare fra due persone, che emerge la verità. La psicoanalisi, rileva lo scritto del ’66, è in tal senso l’esito di un percorso di liberazione dai valori culturali e dai criteri scientifici che Freud aveva recepito nel suo noviziato di fisiologo e anatomista. Ma nel “chiaroscuro freudiano” non sarà del tutto scalfita la corazza materialista e antivitalista tardo-ottocentesca, che impone la ricerca di forze fisiche come uniche cause dei fenomeni, nella speranza della conquista della verità come oggettività impersonale. L’ultimo saggio raccolto in Su Freud, Imprevisto e sorpresa in analisi, è un invito ad “accogliere” le novità che emergono dalle parole dell’altro nella conversazione, soprattutto quando faticano a rinchiudersi nelle maglie dell’ortodossia. In ciò agivano le suggestioni dell’antipsichiatria, di Lacan e dei francofortesi (Benjamin e Adorno), ma anche la riflessione sulle pratiche anti-autoritarie nella scuola: era questo il tema di L’erba voglio (Einaudi, 1971), a cui Fachinelli collaborò, ed “Erba voglio” sarà il nome della rivista e della casa editrice da lui fondate e animate. Proprio la “sorpresa” dell’incontro con un paziente, nevrotico ossessivo, che scandisce le sue giornate con gesti e cerimoniali ripetuti, era all’origine di La freccia ferma (1979). Questo “novello Zenone”, per evitare di commettere peccato, annulla il tempo nel tentativo di rinnegare la morte: il suo agire si rivela analogo alle pratiche con cui le società arcaiche elaborano

Porro il lutto e alle ritualità del fascismo di fronte alla morte della patria. In questi tre casi di creazioni fobiche si ritrova quella coesistenza di orrore e fascinazione, di terrore e annullamento di fronte a un’autorità, che compongono le tessere “perturbanti” del sacro. Ed è sempre attorno alla “cellula genetica” costituita dal “filo del tempo” che si muoveva Claustrofilia (1983): l’orologio di Freud, che cronometra la seduta come il lavoro di una fabbrica taylorista, stride con il tempo del trattamento analitico che sempre più si rivela “interminabile”. Freud pensava di aver portato la peste, una malattia rapida e violenta, invece aveva portato la lebbra, una malattia della lentezza. A prolungare la cura sarebbe, ipotizza Fachinelli, l’emergere, nel gioco di transfert e contro-transfert della situazione analitica, dell’area claustrofilica: il rapporto con l’analista si trasforma in rifugio, in uno spazio-tempo chiuso e immobile, dove rinasce la co-identità, che precede la nascita, tra madre e figlio. Si tratta di un livello analitico che aveva attratto Ronald Laing, scomparso anch’egli nell’89, e a cui Freud non aveva prestato attenzione, a causa del pregiudizio del suo tempo che non vi fosse vita psichica nel feto. Nella situazione perinatale, la comunicazione avviene in forme non verbali e Fachinelli ipotizza che intensi desideri inconsci possano trasmettersi attraverso il sogno. Ecco aprirsi allora un campo di situazioni imbarazzanti per la razionalità, quei fenomeni parapsicologici (come la possibilità che una paziente preveda nel sogno quanto capiterà in seguito all’analista) che già aveva-

no suscitato l’attenzione turbata di Freud, suggestionato dalla telepatia e dalla chiaroveggenza. Spetta allo psicoanalista fare uscire dal tempo chiuso dell’unità simbiotica, squarciare il velo della condizione claustrofilica per consentire al paziente l’accesso al multiversum delle esperienze esistenziali: egli assume così la parte ingrata che gli antichi assegnavano alle Parche, dee del destino perché in origine dee della nascita. Le pagine iniziali di La mente estatica (1989) ribadivano le critiche nei confronti dell’atteggiamento difensivo, “militaresco”, della psicoanalisi. Per essa, l’io è una cittadella assediata da impulsi e desideri da cui difendersi, in obbedienza al progetto di prosciugare l’inconscio come la civiltà ha prosciugato lo Zuiderzee. Ma a una ragione “narcisistica e imperialista”, che privilegia l’esigenza di protezione e controllo, Fachinelli opponeva altri modi di “abitare” il mondo, un allentamento della vigilanza che consenta alla ragione di “accogliere”, di rendersi disponibile alla logica del fantasticare e all’esperienza liminare dell’estatico. Si svela qui una ricchezza della cultura umana che consente di recuperare, senza ricorrere al religioso, il senso del mistico e del sacro; e anche dell’estetico, su cui tornano in più occasioni le pagine di Su Freud. Ma il mondo freudiano, sorto dal contatto con situazioni umane impoverite, caratterizzate da inibizioni e scacchi vitali, resta vincolato a quel che per Fachinelli è un “limite antropologico”: l’opacità dell’infanzia fa pesare sulla cultura un nietzschiano sospetto d’origine (come attesta la difficoltà teorica del concetto di sublimazione) e lo sguardo di Freud resta segnato dal distacco di chi analizza dal sottosuolo l’edificarsi della civiltà. ■ porrosem@libero.it M. Porro è studioso di filosofia francese contemporanea


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Una riflessione sulla tematica omosessuale nella narrativa italiana contemporanea Scrittori e letteratura di genere di Manfredi a lettura di Cani randagi (pp. 303, € 15, Rai-Eri, Roma 2012), il libro di Roberto Paterlini vincitore del premio La Giara per il 2012, sollecita una riflessione sugli ultimi sessant’anni di una letteratura di genere in Italia (o, meglio, di quella produzione narrativa che il tradizionale atteggiamento prude induce taluni a definire come tale). Mi riferisco alla tematica omosessuale, che ancora oggi non tutti reputano semplicemente una delle possibili angolazioni visuali attraverso cui analizzare la vita dell’essere umano. Non pretendo, con questo, di approfondire l’argomento, tanto più che esiste una letteratura critica qualificata, il cui prodotto più completo è L’eroe negato. 0mosessualità e letteratura nel Novecento italiano di Francesco Gnerre (Dalai, 2000). Ma di recente lo stesso critico, recensendo un’importante antologia di poesia gay italiana, Le parole tra gli uomini (pp. 440, € 15, Robin, Roma 2012), ne citava il curatore, Luca Baldoni, per un’acuta e pessimistica considerazione: “In Italia ci troviamo di fronte a una doppia strategia di oppressione. Da una parte si tende a non parlare di omosessualità, a darla per scontata senza però nominarla, dall’altra si accusano coloro che si occupano in maniera seria e specifica di questi temi di proporre una prospettiva ghettizzante”. Il giudizio su questo bilanciamento tra ipocrita cautela e presunto orgoglio di nicchia mi invoglia a ripercorrere in sintesi una lunga stagione narrativa, per tentare di individuare la configurazione del tema specifico nei suoi sviluppi e in ordine al rapporto tra scrittori e pubblico. Potremmo fissare un terminus post quem in quel 1955 in cui Pier Paolo Pasolini pubblica Ragazzi di vita. Il sottoproletariato di borgata, che dispone con naturalezza della propria fisicità anche sessuale, incarna, a partire dal suo stesso linguaggio, il mito dell’innocenza primordiale: è così che lo scrittore inserisce i propri personaggi e le loro pulsioni in una realtà all’apparenza cruda, ma li idealizza abbandonando le premesse di poetica del neorealismo. Tra la fine degli anni cinquanta e i sessanta nascono alcune delle opere narrative più famose di Alberto Arbasino, a culminare con Fratelli d’Italia (1963), che, rivisto poi e completato più volte, era una sorta di raffinatissima bibbia per gli omofili di quella generazione: non è che il tema costituisca l’ossatura della narrazione, ma la disinvoltura a volte cinica dell’io narrante gli consente di registrare senza particolari emozioni i comportamenti omosessuali nel tourbillon della quotidianità, entro un gruppo di intellettuali e artisti borghesi e, per inciso, facoltosi. Molto diverso è il tono dei libri di Giuseppe Patroni Griffi, che, proprio a cominciare da quegli anni, produce racconti e romanzi nei quali la condizione omosessuale è ritratta con estrema tensione emotiva, vuoi quando è in bilico tra commedia e tragedia, vuoi quando suggerisce storie non solo di passione carnale, ma, e soprattutto, di profondo sentimento amoroso. In Scende giù per Toledo (1975) ambienti almodovariani ante litteram presentano, in un impasto di fragilità e forza, le vicende d’un femminiello napoletano. È invece una Napoli di guerra, che non può non ricordare La pelle di Malaparte, la scena di La morte della bellezza (1987): i due protagonisti, il giovane insegnante italo-tedesco Lilandt e il bellissimo quindicenne napoletano Eugenio, si riscattano con il loro amore dallo squallore circostante; non importa che la loro stagione di felicità debba necessariamente finire: il suo valore è nell’essere stata. Nel discorrere di letteratura, ci siamo lasciati alle spalle uno snodo temporale su cui invece è opportuno soffermarsi. Negli anni settanta anche in Italia, come già negli Stati Uniti e in molti paesi europei, presero piede i movimenti di liberazione sessuale, e segnatamente il Fuori. Nonostante il persistere di sacche d’omofobia, oggi ai più sembra strano che molti omosessuali ritenessero necessario unirsi in un “fronte unitario e rivoluzionario” nel quale lottare per i propri diritti; ma non dimentichiamo che, ancora nel 1972, il Diario di un omosessuale dello psichiatra Giacomo Dacquino si presentava come la cronaca di una terapia: una parte della scienza, per non parlare di altri settori culturali, considerava ancora l’omosessualità come una malattia. Ecco perché il Fuori uscì all’aperto con la contestazione del congresso di sessuologia di Sanremo. Non è questa la sede per illustrare le parole d’ordine

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del movimento che, certo, non si limitava ad accettare una benevola tolleranza; rimangono comunque le pagine dei militanti, a partire da Mario Mieli con il suo basilare Elementi di critica omosessuale (1977), per arrivare a quanti, in una forma tra l’autobiografia e il saggio, anche a distanza di molti decenni non si limitano a rievocare i bei tempi della lotta, ma ne ripropongono i contenuti. Basti qualche titolo, come Io, omosessuale (1977) e Verso un radicalismo gay (1999) di Francesco Merlini o come Un omosessuale normale di Angelo Pezzana (2011). Figli di questi mutamenti di costume si possono considerare due libri usciti rispettivamente nel 1980 e nel 1984 e cioè: Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli e Seminario sulla gioventù di Aldo Busi. È l’epoca in cui, ai tradizionali termini quasi sempre spregiativi con i quali ci si riferiva ai cosiddetti “diversi”, si sostituisce l’universale etichetta di “gay”, politically correct e rivolta per alcuni a indorare la pillola e per altri a segnare l’uscita definitiva dal ghetto delle minoranze sessuali. Nei citati testi narrativi, l’io parlante esce dal modello delle sedute di autocoscienza per accedere al mondo dei comuni esseri viventi. L’omosessualità non è più lacerante tragedia, peccaminosa perversione o, all’opposto, esaltante ideale estetico, ma comune condizione di vita, descritta nei suoi risvolti individuali e sociali, di giovani che, come tutti, vivono l’alternanza di felicità e depressione. Per questa generazione Tondelli è diventato un punto di riferimento, per il valore intrinseco dei suoi scritti e forse anche per la sua morte precoce. In Busi, dopo quegli esordi, sono prevalsi gli esiti di una narcisistica genialità, sempre più intonata alle corde del grottesco. Un’esperienza più recente e molto interessante è quella di Walter Siti, lo studioso che ha curato per “I Meridiani” l’edizione completa delle opere di Pasolini. Specie in un romanzo del 2008, Il contagio, il teatro è la periferia romana, che non ha più nulla della borgata pasoliniana e della sua incantevole desolazione. L’immensa e indistinta periferia di Roma è il luogo della contaminazione, dove cocaina e supermercati fungono da catalizzatori e la promiscuità non contempla sostanziali distinzioni tra impulso omoerotico e istinto etero. Del 2010 è Autopsia dell’ossessione, in apparenza un’opera più marcatamente orientata verso un’analisi del sadomasochismo omosessuale; ma, grazie a complessi interventi formali, lo specifico tematico si fa metafora di una generica condizione umana, propensa ad appuntare la sua ossessiva attenzione più sull’immagine che sulla persona. E veniamo a Cani randagi, il libro che ha offerto lo spunto per questa breve rassegna. In Paterlini è più esplicito l’interesse diretto al tema: avvalendosi di strumenti formali semplici ma non ingenui, l’autore articola il romanzo in tre tempi distinti e intrecciati, per identificare e rappresentare le esperienze omosessuali di tre diverse generazioni. La più antica, e ovviamente la più tragica, è una vicenda collocata fra il 1936 e il 1940 e affidata al contenuto di un’audiocassetta; il giornalista che ha registrato tale testimonianza agisce negli anni ottanta; nel primo decennio del 2000, un nipote del suo compagno trova casualmente la registrazione, dimenticata da decenni in un cassetto. L’efficacia narrativa si affida a una sapiente alternanza di racconti in terza persona, citazioni documentali e riflessioni di un io pensante. Ma lasciamo al piacere della lettura l’analisi stilistica del testo, e fermiamoci invece sui tre momenti della narrazione e sui tre modi differenti di vivere l’omosessualità. Nella Catania d’anteguerra, Luigi condivide la condizione degli arrusi, omosessuali passivi disprezzati

dagli stessi maschi con i quali intrattengono commercio carnale. L’oppressione e il pregiudizio sono corroborati dall’ideologia fascista: un provvedimento di polizia condanna Luigi, dopo umilianti persecuzioni, al confino nelle isole Tremiti. Al ritorno non troverà ad attenderlo Franco, il compagno in cui aveva creduto, che nel frattempo si è sposato e rifugge da lui nel terrore di essergli associato. Dopo quasi cinquant’anni Luigi accetta l’intervista dell’inviato d’un giornale, Francesco, interessato a scrivere di questa sofferta vicenda. Chiuso nella solitudine dei ricordi, si confida con gentile reticenza; ma ormai ha introiettato fino all’autodistruzione il bilancio di una vita vuota e deludente, e si uccide prima dell’ultimo incontro con il giornalista. Francesco entra in scena, per la sua intervista, nell’afosa estate catanese del 1987. È sul punto di realizzare un progetto professionale a lungo coltivato, ma il suo pensiero è sviato da preoccupazioni ben più importanti: il suo compagno, Matteo, ha appena scoperto di essere sieropositivo, e lui è in preda al terrore e alla disperazione. Matteo sopravvive però alla malattia e morirà solo nel 2011, ma per un incidente d’auto dalla dinamica piuttosto misteriosa. I due protagonisti di questa parte del romanzo godono di tutte le prerogative e le sicurezze personali e sociali della loro generazione, oltretutto garantite dalla solidità economica. La loro è quella che oggi chiamiamo una coppia di fatto, non scalfita dalle fugaci avventure extraconiugali e capace di superare persino la bufera dell’Aids, sventando l’ultima pericolosa offensiva del moralismo internazionale. L’ultima generazione è quella di Giacomo, nipote di Matteo. In lui, con tutta evidenza, si identifica l’autore: non per nulla è il personaggio che più spesso fa ricorso al racconto in prima persona. Tra l’estate del 2009 e il settembre del 2011, l’impegno principale di Giacomo è l’autoanalisi, nello sforzo di dare un preciso indirizzo alla propria vita: è convinto di non essere capace d’amore, ma solo di desiderio carnale, e rimane turbato quando scopre in sé un sentimento più profondo verso un partner sessuale. In quest’ultima sezione del romanzo sono più esplicite le scene di sesso: i giovanissimi protagonisti vivono un’epoca di acquisita libertà d’approccio. La delusione patita nel rapporto con Enrico, un ragazzo più giovane di lui e totalmente disponibile, disorienta Giacomo, che soffre di una sindrome alla “non amo che le rose che non colsi”. Rimasto a lungo in bilico, subisce infine il fascino della bellezza (nel libro di Pa-

terlini è forse un po’ troppo insistita la presenza dell’ideale efebico) e sceglie Federico, bellissimo e fascinoso. La motivazione finale è anche la morale conclusiva di una generazione, valida indipendentemente dall’orientamento sessuale: “La natura razionale che mi dominava rifiutava di accettare che l’istinto – ammesso che davvero in me ne esistesse uno – potesse avere il sopravvento sulla ragione e scegliere, o che l’unico argomento dell’amore potesse essere l’amore, almeno per me. Quindi avrebbe deciso il cervello, decise il cervello”. ■ manfredi.dinardo@libero.it M. Di Nardo è professore di letteratura italiana


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Società Credenti di ogni tipo, alleatevi di Franco

EMERGENZA ANTROPOLOGICA PER UNA NUOVA ALLEANZA TRA CREDENTI E NON CREDENTI a cura di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca pp. 150, € 16,50, Guerini e Associati, Milano 2012

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l 16 ottobre 2011 il quotidiano “Avvenire” ha pubblicato una lettera scritta dagli stessi curatori di questo libro, e intitolata Una nuova alleanza per l’emergenza antropologica. A commentarla sono stati poi chiamati quattordici intellettuali o politici, credo tutti cattolici e tutti rispettosi delle gerarchie della chiesa, ma, desumo dai loro testi, alcuni più, altri meno inclini a tramutare il rispetto in supina obbedienza. La lettera e i quattordici interventi, insieme a una breve risposta dei curatori, sono raccolte oggi in questo volume: mi sembra che le recensioni siano state finora poche (l’ultima, interessante, di Massimo Adinolfi su “l’Unità” del 17 dicembre 2012), ma che si continui a discuterne in vari ambienti politici e intellettuali (ultimamente a Roma, presso la Civiltà Cattolica, il 20 dicembre 2012). È un testo utile sia per chi vuole iniziare e sia per chi vuole tornare a riflettere sul rapporto politica-religione e politica-chiesa cattolica nel contesto di ideali democratici. Non è possibile qui sintetizzare la varietà dei temi, degli umori, dei principi filosofici, delle idee di società, delle istanze immediatamente politiche che attraversano i quattordici interventi. Ci si limiterà pertanto a riferire sulla schema con cui Barcellona e gli altri hanno costruito la loro lettera-manifesto e introdotto, o reintrodotto, l’intenzione di una “nuova alleanza tra credenti e non credenti”.

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a lettera parte dalla costatazione di una grave attuale crisi generalmente umana: si tratta di uno stato di cose che minaccia alla radice l’umanesimo e che è alla base della stessa crisi della democrazia: il pericolo è così grave, l’emergenza così prossima alla catastrofe, che occorre una nuova alleanza fra tutti coloro che sono ancora in grado di resistere, sia fra i credenti (precisamente: cattolici), sia fra i non credenti. Si rifletta sulle date: quando la lettera fu scritta si era nei giorni della capitolazione del governo Berlusconi, si era già nel terzo-quarto anno della crisi economica, e le massime autorità della chiesa si erano ormai attestate nella volontà di ritirare il sostegno a quel governo Berlusconi la cui nascita avevano invece salutato con soddisfazione (il papa stesso, di nuovo già all’indomani dell’esito delle elezioni nazionali del 2008). Questa svolta della

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gerarchia ecclesiastica è ricordata nel testo mediante una strana formula: “La Chiesa italiana si impegnava sempre più a rimodulare la sua funzione nazionale”. È tuttavia chiaro che i due mondi chiamati ad allearsi sono qui pensati come dotati di una compattezza che probabilmente non hanno: si fa infatti riferimento alle organizzazioni che di fatto più sono comunque in grado di rappresentarli, la chiesa a livello mondiale (la crisi è appunto mondiale), il Pd a livello del nostro paese. Verso Benedetto XVI (in particolare in ragione della sua fiducia nella convergenza fra fede e ragione) sono rivolte grandi aspettative. E ancor prima si ricorda che Bersani in un suo libro-intervista (Per una buona ragione, Laterza, 2011) ha riconosciuto la rilevanza pubblica del magistero della chiesa, ha auspicato un confronto con la dottrina sociale cattolica, ha sperato nella cessazione del bipolarismo etico nel nostro paese, ribadito infine la responsabilità autonoma della politica. Alcuni interventi (Pasquale Serra, Franco Totaro e per altri versi Gabriella Cotta) lamentano che la proposta di un dialogo credenti-non credenti sia fatta ancora una volta con scarsa attenzione alla varietà, potremmo anche dire alle divergenze che sono interne ai due campi. In realtà, a guardar bene il testo, e se si accetta una certa semplicità di riassunto, gli autori si concentrano sui vertici per una specifica ragione: li ritengono immuni dalla grave malattia morale che ormai invade molta parte della società e minaccia la base stessa del regime democratico. Tale malattia, che ci rende incapaci di affrontare le più gravi tensioni dell’epoca contemporanea (la globalizzazione senza ordine e la manipolazione scientifica della vita), consiste essenzialmente nella diffusione di due orientamenti simmetrici o convergenti, il radicalismo e il relativismo etico. La diagnosi conduce infine a desiderare che quanti abbiano ancora, per qualsivoglia storia e ragione, orientamenti antiradicali e antirelativisti si uniscano nel lavoro di riprodurre una comune fondazione etica, un nuovo senso comune vertente su un’idea di umanità. Barcellona e gli altri vogliono comunque precisare che la loro proposta di un orientamento antirelativista alla verità è conciliabile con il pluralismo e che la stessa ricerca di “valori non negoziabili” non nega “l’autonomia della mediazione politica” nelle decisioni che pure hanno a che fare con siffatti valori. Questa clausola di laicità viene introdotta in modo unilaterale, e non si chiede agli interlocutori di sottoscriverla come condizione della nuova “alleanza”: forse la vigile presenza di qualche cardinale nel travaglio del quadro politico italiano in questa fine legislatura

(una “rimodulazione” sempre temporalista della politica vaticana) potrebbe indurre a rivedere questa generosa concessione. Si può tuttavia riflettere su ciò che nel documento è più importante, sull’appropriatezza e sulla rilevanza della diagnosi: qualche dubbio a riguardo deve insorgere anche in coloro che, come chi scrive, ritengono che una corruzione del senso morale comune derivi almeno in parte da certo radicalismo libertario di sinistra (non parliamo neppure di quel radicalismo reazionario che per mille rivoli rimanda alla legge del più forte e che, deferente verso le gerarchie cattoliche, pur si risolve in potere sovversivo antidemocratico, come abbiamo costatato anche in questi ultimi vent’anni della storia italiana). Non è neppure sicuro che il radicalismo e lo stesso relativismo morale abbiano oggi solide fondamenta riflessive: spesso lasciano trapelare, in un vuoto di teoria, affanni esistenziali (paura, ambizione, insicurezza) e si risolvono di fatto, a sinistra, in incomprensibile frazionismo e in protagonismo compulsivo. Ma l’analisi degli stati di coscienza comuni (atteggiamenti, senso comune, credenze diffuse ecc.) mostra comunque ben maggiore complessità. Per fare solo un esempio: è difficile sostenere che il “determinismo scientista”, che a parere degli autori permea larghe parti dell’opinione pubblica, abbia veramente indotto a quella diffusione e a quell’incremen-

to di conoscenza razionale del mondo storico-sociale che l’abito scientifico comunque promuoverebbe. I deficit cognitivi della popolazione, anche nei suoi strati in possesso di buone credenziali scolastiche, sono enormi; e ne è chiara e indubitabile testimonianza il successo che le semplificazioni populiste hanno avuto in porzioni rilevanti di “popolo minuto” e di “popolo magro” (piccola borghesia industriosa e lavoratori subordinati marginali) che non sono affatto radicali, né partecipano in alcun modo della supposta arroganza dei relativisti.

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orse il dubbio principale che suscita questa diagnosi di emergenza antropologica è nell’aver cercato un punto archimedeo per definire quel senso, complesso, di grave crisi della democrazia che pure è condiviso ragionevolmente oggi da molti; e di averlo cercato proprio a misura (o a beneficio) del proprio interlocutore “cattolico”. In alcuni commenti raccolti in questo libro, l’idea di una “natura umana” (che non occorre negare, ma certo è da precisare) e il termine “valori” (che non occorre omettere, ma certo è da problematizzare) permettono così l’abbrivio delle più fruste giaculatorie sulla “caducità intrinseca della vita umana”, “natura umana permanente”, “essenza umana”, “verità essenziale” ecc., e naturalmente, infine, per tornare al sodo, un perentorio reclamo di

leggi antiabortiste e di rifiuto delle unioni omosessuali (dunque ben al di là di quanto avevano concesso Barcellona e gli altri). Qualcuno, Massimo De Angelis (della Fondazione Liberal), trova in una offerta di dialogo l’occasione per far intravedere guerriglie nel caso che certi valori non negoziabili siano disattesi. In alcuni altri casi la stessa offerta di dialogo permette di sfoggiare lo stile divinatorio o oracolare che purtroppo circola ancora in zone del discorso religioso e che produce talora vere e proprie emergenze illogiche (per esempio nell’ossimoro del cardinale Scola, molto citato e non razionalmente decifrabile, sulla “gaia rassegnazione” verso cui noi tutti secolarizzati saremmo incamminati). Ma il libro non si riduce a queste nebbiose derive. Se lo proponiamo, è perché vi circolano molte sane riflessioni (a partire dalla lettera-proposta) e perché, soprattutto, esso ci impegna su quel tema della crisi della democrazia e del senso morale comune che va indagato complessivamente, anche nei suoi aspetti strutturali o endemici, e senza altezzose o misere sicurezze. E certamente va indagato nel dialogo comune fra non credenti e credenti; o, secondo un’altra formula, fra ogni tipo di credenti. ■ rositi@unipv.it F. Rositi è professore emerito di sociologia all’Università di Pavia

L’inaccettabile autodeterminazione dell’individuo di

Roberto Alciati

Daniele Menozzi CHIESA E DIRITTI UMANI LEGGE NATURALE E MODERNITÀ POLITICA DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE AI NOSTRI GIORNI pp. 277, € 22, il Mulino, Bologna 2012

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iter redazionale della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino avviato dall’Assemblea nazionale francese nel luglio 1789 si arena temporaneamente sul richiamo alla divinità da inserirsi nel prologo. Al termine della discussione, la religione e la sua organizzazione ecclesiastica vengono “retrocesse” all’articolo 10, come fattispecie della più generale proclamazione della libertà di manifestazione del pensiero. Menozzi muove da qui, evidenziando i momenti salienti della reazione della chiesa cattolica alla questione dei diritti umani. Due sono le direttrici principali lungo le quali si avvia l’indagine: la posizione del papato e quella di alcuni ambienti della cultura cattolica. Già un anno dopo la promulgazione di quella carta, Pio VI non tarda a condannare l’impianto del documento e in particolare l’articolo 10. Da questo momento, e sino praticamente a oggi, la preoccupazione delle gerarchie sarà quello di argomentare teologicamente tale rifiuto. Il Sillabo di Pio IX costituisce il prologo della formulazione della legge naturale da parte di Leone XIII. Per Menozzi questo rappresenta il rientro della chiesa cattolica sulla scena contemporanea: è la “via cattolica” alla soluzione dei problemi del mondo. E in questa scia si colloca anche la Rerum novarum, documento che certamente riconosce i diritti “moderni” delle classi subalterne, ma che oblitera l’origine storica di questi diritti facendo appello solo alla legge del

Vangelo, fonte unica della legge naturale voluta da Dio. All’inizio del Novecento risalgono poi i primi dibattiti in ambito laico sui diritti umani, ma la linea della chiesa non cambia. Come si legge nel codice di diritto canonico del 1917, l’essere umano è costituito persona, vale a dire titolare di diritti e doveri, esclusivamente in virtù del battesimo (can. 87). I diritti umani sono talmente controversi da non essere mai menzionati nella crescente insofferenza di papa Pacelli verso il razzismo nazista e per un suo accenno alla questione bisogna attendere la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. La posizione, tuttavia, non muta rispetto alla tradizione. Su questo sfondo si collocano i noti dibattiti in Costituente fra La Pira e Dossetti, ricordati dall’autore, e il tentativo, presto naufragato, di rispondere al documento delle Nazioni Unite con una carta cattolica dei diritti umani. È solo nella Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) la prima accettazione dei principi della Dichiarazione dell’Onu, ma da questo momento l’atteggiamento delle gerarchie vaticane sarà ondivago. Di fronte a una crescente sensibilità da parte di molte organizzazioni ecclesiali, il primato della legge naturale non è scalfito e tutto a essa è ricondotto, anche, come dimostra Menozzi, negli anni di pontificato di Paolo VI e dei suoi successori. In fin dei conti, l’assunto che risulta inaccettabile per la chiesa cattolica è l’affermazione del principio di autodeterminazione dell’individuo che sta alla base dei documenti dell’89 e del ’48, la sola rivendicazione che svuota di ogni valore il principio della legge naturale. La lettura di questo libro risulta pertanto estremamente utile per comprendere anche i dibattiti attualissimi su fecondazione assistita, fine vita e diritti gay.


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Economia Il sistema patogeno della liquidità feticcio di Mario

Massimo Amato e Luca Fantacci COME SALVARE IL MERCATO DAL CAPITALISMO IDEE PER UN’ALTRA FINANZA pp. 193, € 17, Donzelli, Roma 2012

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a crisi ha quantomeno risvegliato l’interesse degli economisti per il pensiero di Keynes, sia pure con effetti a volte paradossali. Nella prefazione a una nuova edizione (2007) delle Conseguenze economiche della pace, il bestseller di Keynes sul Trattato di Versailles del 1919, l’ex chairman della Federal Reserve, Paul Volcker (oggi consigliere di Obama), si stupiva dell’attualità dell’analisi di Keynes. Introducendo l’edizione italiana (Feltrinelli) del 1983, Marcello De Cecco notava che il Keynes del 1919 forniva una potente critica ante litteram alle politiche restrittive imposte dall’Fmi ai paesi in via di sviluppo allora colpiti da una formidabile crisi di debito, e in particolare all’America Latina. Crisi causata, in ultima istanza, dalle politiche monetariste di malign neglect statunitensi (rivalutazione del dollaro e impennata dei tassi

Cedrini d’interesse), decise dall’allora capo della Fed. Se solo Volcker avesse letto Keynes negli anni settanta… Nel volume di Amato e Fantacci, i lettori troveranno una proposta di riscoperta di Keynes alquanto convincente, che disseppellisce alcuni fra i tratti davvero rivoluzionari del pensiero dell’economista di Cambridge. Il saggio non ha il respiro storico dell’ampio affresco tracciato in Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne (Donzelli, 2009), ma proprio per questo riesce ad attirare l’attenzione su alcuni punti centrali, selezionati durante il viaggio compiuto dalla crisi dal Nuovo al Vecchio continente. L’impasse di debito europea non è altro, nell’ottica degli autori, che la seconda fase della crisi dei subprimes, o meglio si tratta di due momenti della stessa “tragedia”: “I debiti pubblici di oggi derivano dai debiti privati di ieri”, nonostante la diagnosi moralistica attualmente dominante in Europa non distingua tra i paesi strutturalmente in crisi, anche prima dei subprimes, e quelli che hanno condotto i bilanci allo sfascio proprio nel tentativo di salvare banche e istituzioni finanziarie.

Amato e Fantacci rintracciano le origini lontane della crisi: quei fattori, cioè, che non apparivano problematici “quando andava bene”, ma in realtà “andava già male”. In particolare, l’abbandono dell’idea che la finanza debba servire l’economia reale. Perché in fondo, l’epoca dei global imbalances, della liquidità come panacea, della reificazione dei mercati finanziari, cui si attribuiva una razionalità della quale nessuna istituzione pubblica, men che meno il governo, era dotata, quell’epoca, si scopre tardivamente, e l’ideologia che sembrava assicurare la tenuta del sistema economico globale, doveva quasi necessariamente concludersi così. Se il dispotismo dei mercati finanziari appare oggi, finalmente, problematico, è perché, da un lato, assicura anche quello dei creditori sui debitori; e dall’altro, non consente alla finanza di svolgere il ruolo che le compete, come mostra peraltro l’inefficacia delle tante iniezioni di liquidità in Europa (di fatto senza effetti sulla disponibilità delle banche al prestito). Come uscire dalla crisi, come (e perché) “salvare il mercato dal capitalismo”? Perché, spiegano gli autori richiamando il Polanyi della Grande trasformazione, “il capitalismo è un’economia di mercato con un mercato di troppo”, quello della

Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica iritto, s.m. In senso generale, quando riD guarda la forma prima della sociabilità, è la tecnica della coesistenza umana, cioè quel che, attraverso regole, rende possibile appunto la convivenza tra gli uomini. Deriva dal latino directus, a sua volta proveniente dal participio passato del verbo dirigere. In latino volgare sarà poi la volta di dirictus. Con etimologie diverse si trova anche nel greco antico το` δι´ καιον (o giusto, da ∆ι´ κη, personificazione divina della giustizia), nel latino jus (donde giustizia, cfr. “L’Indice”, 2010, n. 11), nell’inglese law (legge) o right, nel francese droit, nel tedesco Recht e appunto nell’italiano diritto. All’interno delle lingue moderne, al tempo della loro fase aurorale, e all’interno dell’italiano antico – con Jacopone, Guinizelli, Angiolieri, Brunetto Latini –, prevale però, sgusciando dal latino tardo, il significato, presente anche nei secoli successivi e in Manzoni, che allude a ciò che ha un andamento rettilineo, un equilibrio, a ciò che sa anche tirare, rigare e filare diritto, a ciò che è ben teso e senza pieghe, o verticale, o rigido, che sta ritto e cioè in piedi, e che è dunque eretto nel portamento, che intraprende una via diritta, che persino ha i capelli diritti (ossia non ricci) e che è antitetico al “rovescio”. Così, ad esempio, ha modo di esprimersi Dante: “dritto sì come andar vuolsi rife’mi / con la persona, avvegna che i pensieri / mi rimanessero e chinati e scemi” (Purg., XII, 7-9). Ben presto diventa tuttavia il principio, inizialmente morale, che regola i rapporti sociali secondo norme prescritte. È quindi ciò che da una parte è giusto e che dall’altra prevede sanzioni per chi le norme non osserva. Diventa insomma un complesso di norme ed è “positivo” se tale complesso dallo Stato è posto e imposto. Ma vi è anche un diritto naturale, o di natura, che è anch’esso costruito come un complesso, ma di princìpi fondati sulla natura del-

l’uomo, o dell’universo intero, e talvolta, ma la cosa non è da tutti sempre accolta, della volonta stessa di Dio, creatore dell’uomo e dell’universo. E il diritto si diversifica. È legislativo (fondato cioè sulle leggi sancite dagli uomini di assemblea), consuetudinario (reso legale dallo Stato secondo consuetudini), giudiziario (reso tale dagli organi giudiziari sulla base delle sentenze e dei pareri precedenti), scientifico (strutturato e organizzato dai giuristi e in particolare dalla loro dottrina). Né vengono a mancare, con gli anni che passano, ed anzi in anticipo storico rispetto alle altre discipline sociali, il diritto economico, civile, penale, internazionale, commerciale, costituzionale, privato, pubblico, del lavoro, di proprietà, di credito, d’autore. Si trasforma non di rado in facoltà esclusiva, in privilegio, in monopolio. Ed avere un diritto vuol dire avere anche una liceità, una facoltà, un’autorizzazione, un permesso. Ha a che fare infatti con sistemi normativi extra-giuridici, come la legge morale o religiosa, la produzione, gli usi e i costumi. E riguarda l’età, il sesso, le competenze, le parentele, le amicizie, le gerarchie, gli ordini militari, l’impiego o meno della forza, ciò che a ciascuno spetta anche sul piano economico o pecuniario. Vi è infatti una filosofia del diritto e una teoria generale del diritto. “Chacun a le droit de défendre son bien” scrive del resto Pascal ne Les Provinciales. E Molière non esita a discorrere dei diritti della ragione. Ci si deve dunque aspettare che arrivino, oggi più sacrosanti che mai, i diritti dell’uomo. Ed è così la volta in Inghilterra del Bill of Rights (1689), in America della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dello Stato della Virginia (1776), in Francia dei diritti del 1789. Il diritto ora finalmente siamo noi. BRUNO BONGIOVANNI

moneta e del credito: la liquidità, che dovrebbe agire da fondamentale sostegno della finanza all’economia reale, diviene così il feticcio condannato da Keynes in pressoché tutti i suoi scritti, da quelli etico-politici a quelli più prettamente economici. Non è però un caso che i più richiamati nel saggio siano i piani di Keynes di riforma globale. Certo di dover risolvere quel conflitto ormai storico tra creditori e debitori che il crollo del gold standard prebellico aveva istituzionalizzato, Keynes pose effettivamente la relazione tra creditore e debitore al centro delle sue proposte di riforma internazionale. Ciò su cui insistono Amato e Fantacci oggi non è altro che il (sempre osteggiato come proposta politica, e mai realmente analizzato nella sua essenza costitutiva) principio cardine del nuovo ordine di Keynes, un principio di corresponsabilità che lega creditore e debitore, non soltanto per la risoluzione degli squilibri, ma per la gestione stessa del sistema economico. Gli autori osservano che il sistema della liquidità-feticcio (e neoliberista) ha trasformato tutti, “democraticamente”, in rentiers, quelli di cui Keynes profetizzava dapprima l’eutanasia, nella General Theory, per poi elaborare soluzioni concrete, nei piani per Bretton Woods, e dunque regole, istituzionali, multilaterali, che avrebbero scongiurato l’emergenza di simili atteggiamenti da parte dei creditori, mostrando a questi ultimi che assumersi responsabilità, all’interno della relazione che necessariamente li lega ai debitori, avrebbe consentito loro benefici altrimenti impensabili. A patto, semplicemente (un patto sostenuto dall’assoggettamento dei surplus a prelievo infruttifero), di essere disposti a utilizzare i crediti al servizio del commercio internazionale, e dunque di rinunciare a esercitare il potere puramente finanziario che deriva loro dal possesso di simili surplus. Nel saggio, Amato e Fantacci dimostrano i limiti delle soluzioni sinora adottate per la crisi globale (in generale troppo ossequiose della liquidità-feticcio), ma anche le virtù di alcune proposte troppo velocemente bollate come inefficaci o come impossibili da implementare, come quella di solidificare leggermente i mercati dei capitali attraverso una Tobin tax (non solo sulla conversione di valuta, ma) su tutte le transazioni finanziarie. Ma i disastri comportati da un sistema internazionale correttamente descritto come “patogeno” spingono verso la definizione di un piano radicalmente alternativo, ispirato come detto a Keynes (moneta realmente sovranazionale, principio di clearing multilaterale, controllo dei capitali). Di grande interesse è l’analisi della situazione europea: “Siamo vittime unicamente della nostra incapacità di darci credito a vicenda”, argomentano gli autori, ricordando come l’Unione economica e monetaria,

esattamente come il sistema di “Bretton Woods 2”, abbia permesso l’accumulo di squilibri cui oggi si risponde con il “fosco quadro” dell’austerità. La pur lontana Unione Europea dei Pagamenti (istituita nel 1950 per consentire alle esauste nazioni europee di farsi, appunto, credito a vicenda e ricominciare quel ciclo virtuoso che le condurrà al miracolo economico), tuttavia, costituisce un precedente che dimostra come una soluzione keynesiana per i problemi europei sia possibile, e che lo strumento per il cambiamento esiste già, a patto che lo si possa riformare secondo le linee appena ricordate (oneri simmetrici, in altre parole, per creditori e debitori): è il sistema di pagamento (Target 2) utilizzato dalla Bce per gestire i regolamenti internazionali all’interno del sistema europeo delle banche centrali. La riforma esige un “passo politico concreto in direzione di una sanzione istituzionale della solidarietà economica europea”. Parole simili a quelle utilizzate da Keynes nel 1919 prima e negli anni quaranta poi, quando si rese conto che era troppo rischioso affidare i problemi dell’aggiustamento internazionale alla sola buona volontà dei creditori. L’immagine di quello che potrebbe apparire (come apparve ai più, e certamente agli americani) come un sistema disciplinare, che salva i debitori ma chiede troppo ai creditori, è letteralmente ribaltata nel momento in cui, come propongono gli autori, si considerino gli effetti dell’applicazione dei principi del piano Keynes alla finanza locale, e dunque dell’introduzione di forme di moneta locale di conto (complementari rispetto a quelle nazionali) che scongiurino, attraverso schemi di clearing multilaterale, e dunque di compensazione di crediti fra imprese locali, il temuto ostacolo posto dalla mancanza di denaro alla creazione e al mantenimento di attività che di credito sono invece certamente degne.

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trumento di cooperazione tra debitori e creditori, questo tipo di moneta locale comporta vantaggi per le imprese (minori costi di finanziamento, domanda accresciuta per i loro prodotti, ecc.) come per i lavoratori, che beneficiano del sostegno concesso all’occupazione locale e, indirettamente, della possibilità che si verrebbe a creare di attuare una buona politica dei redditi locali. La moneta locale offrirebbe poi importanti vantaggi sistemici: un sostegno comunitario fondamentale, in particolare, che ribalta la gerarchia tra finanza ed economia reale, produce esternalità positive e contribuisce potenzialmente a migliorare il bilancio pubblico, senza dimenticare la possibilità di interazioni sempre più strette tra gli agenti economico-sociali del territorio e il terzo settore. L’attuale esperimento di finanza locale condotto dagli autori a Nantes merita attenzione. ■ mario.cedrini@unito.it M. Cedrini è ricercatore di economia politica all’Università di Torino


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Migrazioni Una straordinaria coerenza di Francesco

Giuseppe Di Vittorio LE STRADE DEL LAVORO SCRITTI SULLE MIGRAZIONI a cura di Michele Colucci, pp. 196, € 24, Donzelli, Roma 2012

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armine Donzelli ha pubblicato una raccolta di scritti e interventi di Giuseppe Di Vittorio sulle migrazioni, a cura di Michele Colucci. I testi vanno dal 18 aprile 1914, data di una lettera di rettifica al “Corriere delle Puglie” (che la pubblicò il 19), quando Di Vittorio aveva ventidue anni, al 18 gennaio 1955, a due anni dalla morte. Sono più di quarant’anni, la parte più tempestosa e tragica del “secolo breve”, un periodo in cui molti lavoratori italiani sono stati, per necessità, migranti e, per ragioni politiche, fuorusciti, esuli, confinati. Come l’introduzione del curatore giustamente sottolinea, la posizione di Di Vittorio è straordinariamente coerente al mutare delle circostanze, dello stato del mondo, del suo ruolo personale: l’accettazione dell’emigrazione per necessità come male minore; la difesa, alla pari, dei lavoratori migranti e di quelli locali; la difesa dei diritti civili e delle condizioni di vita dei migranti, senza distinzione di luogo e di motivo della migrazione; l’opposizione alla concorrenza tra lavoratori; la soluzione dei problemi del lavoro in un quadro complessivo: italiano, europeo, mondiale, a seconda dei casi. Per rendersi conto della solidità della posizione di Di Vittorio bisogna ricordare che nel periodo in cui è stata espressa, dall’inizio del Novecento alla ricostruzione postbellica e all’inizio del boom economico, ci sono state politiche di incoraggiamento all’emigrazione da destra (i reclutatori a percentuale, citati in La questione della manodopera in Italia) e rifiuti frontali da sinistra; la trasformazione dell’emigrazione in guerra di conquista (la quarta sponda, L’imperialismo italiano di Michels) e la persecuzione dei fuorusciti accompagnata da polemiche e conflitti con i paesi ospitanti.

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li interventi pubblicati riguardano tutte le emergenze, assai diverse le une dalle altre, in cui la migrazione è risultata al centro dell’evoluzione sociale italiana, viste alla luce degli stessi principi. Anche solo i titoli dei testi sono una specie di sommario della storia del lavoro in Italia: La disoccupazione in Italia (“Lo Stato operaio”, ottobre 1927, ai tempi della rivalutazione della lira); La guerra d’Africa e la classe operaia italiana (“Lo Stato operaio”, gennaio 1936); L’atroce dramma di Basilea e Les indésirables. Un problema sociale ed umano (“La Voce degli italiani”, 26 gennaio e 23 aprile 1938); fino a Per una convenzione internazionale dell’emigrazione (28 settembre 1946), al Piano del lavoro, ai primi congressi della Cgil, quando la disoc-

Ciafaloni cupazione, in particolare in agricoltura, ma anche nell’industria, è il problema sociale maggiore. Prima di citare qualche episodio e qualche passo di particolare rilievo, è importante sottolineare le ovvie, enormi differenze della situazione dell’autore nel tempo e qualche dettaglio sorprendente, ovvio anche quello se appena ci si pensa, ma, a prima vista, spiazzante. Quando scrive il primo intervento l’autore è un giovane bracciante anarchico; poi sarà un fuoruscito, un confinato, un militante comunista che si prepara a difendere la Repubblica in Spagna; poi il segretario generale della Cgil. Tra l’intervento del giugno ’47 su La politica del lavoro del nuovo governo De Gasperi e quello del giugno ’48 su Il piano Marshall e il lavoro c’è stato il 18 aprile. E, certo, i dettagli mostrano anche qualche strumentalità di schieramento, ma non grottesca; la posizione di fondo tiene. Quando parla dei lavoratori e ai lavoratori Di Vittorio scrive “fratelli”. Ovvio, naturalmente. Lui era stato anarchico da giovane; i fuorusciti non avrebbero dovuto avere altra bandiera che l’antifascismo; la Cgil unitaria non consentiva altri appellativi. “Su, fratelli!” cominciava l’inno di Pietro Gori, che è anche l’inno della Camera del lavoro di Torino, nata anarchica più di un secolo fa. “Fratelli!” cominciò Bruno Trentin nell’autunno del 1989, in una piazza del Popolo gremita di stranieri, di militanti di tutte le organizzazioni sindacali e di tutti i gruppi pensabili, concludendo la manifestazione in memoria di Jerry Masslo, ammazzato per qualche lira. Non che “compagni” sia un brutto appellativo, anzi! O che ci si debba vergognare della storia del Partito comunista italiano, di quella degli operai comunisti che i Foa e i Lussu impararono a stimare in galera. Ma se ci rendessimo conto della gravità di ciò che accade, la smettessimo di rivendicare le nostre storie di gruppo e di famiglia e cercassimo qualche bandiera universale per difendere le libertà sociali, in pericolo come un secolo fa, non sarebbe male. A metà degli anni cinquanta il problema principale è quello della disoccupazione, dell’emigrazione e della difesa dei lavoratori migranti. Sono gli stessi problemi affrontati in un’ottica generale cinque anni prima nel Piano del lavoro, che affronta anche il nodo fondamentale del controllo privato di industrie fondamentali, come quella elettrica, di cui il Piano propone la nazionalizzazione, realizzata dal primo centrosinistra, dopo la morte dell’autore. L’ultimo intervento, Eliminare la concorrenza tra i lavoratori, ripropone lo stesso tema del Piano, dal punto di vista delle regole anziché da quello del progetto. Sono problemi che sono sembrati remoti per qualche decennio, anche per miopia, ma sono tuttora centrali; per gli italiani disoccupati e per i lavoratori stranieri immigrati.

Integrazione delle varie forme di previdenza sociale per i lavoratore emigrati all’estero e per le loro famiglie, il penultimo testo pubblicato, è un problema presente da sempre in ogni migrazione, risolto, alla fine, per gli italiani in Argentina, mai risolto, con l’assai parziale eccezione della Tunisia, per i lavoratori stranieri immigrati in Italia: casi perfettamente simmetrici. Ho letto, nell’ultimo quarto di secolo, numerose varianti di un accordo con il Marocco, mai concluso. Per i provenienti dall’Europa orientale, per i paesi aderenti valgono le assai carenti regole dell’Unione, sostanzialmente mirate, contro mezzo secolo di lotte di Di Vittorio, alla concorrenza tra i lavoratori. Per gli altri c’è la legge della giungla. Ugualmente vivo e presente è il problema delle rimesse. Altri scritti riguardano episodi sconvolgenti più che una norma. O meglio riguardano i diritti umani, il diritto alla vita, alla libertà, agli affetti. Il 26 gennaio 1938, su “La Voce degli italiani”, Di Vittorio scrive: “La Voce d’ieri ha pubblicato una corrispondenza da Basilea che getta nel lutto l’emigrazione italiana, tutte le emigrazioni, e susciterà dei fremiti di pietà e di sdegno in tutti gli uomini di buon cuore (…) Un vecchio italiano di circa 70 anni, essendo solo, povero e senza lavoro, era stato costretto a chiedere aiuto e assistenza a una istituzione svizzera di beneficenza. La polizia elvetica intervenne e gli comunicò il decreto di espulsione dalla Sviz-

zera e l’ordine di consegnarlo alle autorità italiane della frontiera. Dei buoni amici italiani intervennero, raccolsero 50 franchi per il povero vecchio, fecero intervenire un avvocato in suo favore (…) Il giorno prima che spirasse il termine ultimo della breve proroga che gli era stata accordata, due agenti si impossessarono del vecchio italiano, per condurlo di forza alla frontiera. Durante il tragitto (…) il povero Cadorin si uccise ai loro piedi, a colpi di rivoltella. (…) Giovanni Cadorin era emigrato in Svizzera da ben 47 anni”. Non bisogna dimenticare In aiuto degli ebrei italiani!, del 7 settembre 1938, vibrato, scritto dall’esilio. E la prima lettera, quella del 1914, che non riguarda un caso atroce, ma identico a quello che è entrato nella letteratura italiana in Fontamara di Ignazio Silone. C’è stato uno scontro tra contadini di Cerignola e del Barese. Il “Corriere delle

Puglie” ha attribuito lo scontro al rifiuto dei contadini di Cerignola “di lavorare in quelle campagne perché molto distanti dall’abitato”. Precisa Di Vittorio che i cerignolesi hanno lavorato a distanze anche triple; che in quel caso il lavoro, che avrebbero accettato di corsa, non gli è stato concesso perché alle elezioni avevano votato contro il candidato del signor Millet, al cui palazzo avevano in effetti dato l’assalto. In Fontamara il padrone si chiama Torlonia. E il conflitto con i baresi? “Quanto riguarda i lavoratori del Barese, in mezzo ai quali io vivo da un anno, e che sono stati vittime di un conflitto doloroso, causato da gente che non figurerà tra gli imputati, mando il mio fervido saluto”. ■ francesco.ciafaloni@ retericerca.it F. Ciafaloni è presidente del Comitato Antirazzismo di Torino

Cittadini, stranieri, residenti, schiavi di

Daniela Marchiandi

Cinzia Bearzot I GRECI E GLI ALTRI CONVIVENZA E INTEGRAZIONE pp. 180, € 12, Salerno, Roma 2012

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ell’Italia di oggi il confronto con lo straniero è un tema quanto mai attuale: divisa, spesso drammaticamente, tra chiusura e integrazione, la nostra società stenta a trovare un equilibrio, preferendo spesso ripiegare su una convivenza indifferente (e poco impegnativa). Similmente, il mondo si dibatte tra la globalizzazione dilagante e il fiorire dei nazionalismi, delle rivendicazioni identitarie, finanche dei minuti localismi a cui i media ci abituano quotidianamente, nostro malgrado. È impossibile dunque sottrarsi alla riflessione. Il libro di Cinzia Bearzot offre, in questa prospettiva, una guida ricca di spunti. L’intento è dichiarato nell’introduzione, dove la voce evocata è quella del più autorevole storico dell’Atene classica, Tucidide: la conoscenza del passato è “un’acquisizione permanente” poiché la natura umana è immutabile. I problemi umani, dunque, si ripropongono costantemente e la conoscenza del passato migliora la valutazione del presente e del futuro. Partendo da questo assunto, l’autrice illustra le numerose soluzioni adottate nella Grecia antica, un mondo plurale, dove le relazioni con lo straniero, greco di altra città o non greco, conobbero forme molto diverse, non solo nel tempo, come è logico che sia, ma anche nello spazio. Atene, Sparta, Argo, Corinto, i Tessali, i Greci dell’Asia Minore e quelli dell’Occidente, solo per citare alcuni dei casi richiamati, declinarono variamente lo statuto

del metoikos, lo straniero residente, letteralmente “il convivente”. In sei capitoli, Bearzot condensa una quantità imponente di dati provenienti sia dalle fonti, letterarie ed epigrafiche, che dal dibattito critico, senza tuttavia, e in questo è la perizia, che il testo ne risulti appesantito. I temi cruciali (la cittadinanza, lo statuto dello straniero residente, la condizione giuridica dello straniero non residente, il ruolo degli schiavi stranieri) sono trattati in maniera sintetica, ma mai generalistica o banalizzante. Al contrario, il discorso si nutre di esempi che arricchiscono gli assunti teorici e rendono la lettura agevole. Nel contempo, la problematicità della ricerca, con le sue molte voci, è sempre sottesa, lasciando intravedere la vivacità del dibattito retrostante. Il libro riesce così a coniugare una profonda conoscenza specialistica degli argomenti con la grande esperienza didattica dell’autrice, da molti anni docente di Storia greca all’Università Cattolica. Semplicità e chiarezza lo rendono adatto a un pubblico eterogeneo: gli studiosi vi troveranno un quadro efficace e aggiornato; gli studenti un’introduzione problematica a temi complessi e una preziosa bibliografia ragionata; i cultori del mondo antico una rassegna quanto mai utile e stimolante per riflettere sulle molte contraddizioni del nostro tempo. Rimandiamo, infine, chi è interessato all’argomento a un altro bel libro di tema analogo. Saber Mansouri nel suo Athènes vue par ses métèques (Tallandier, 2011) prova a rovesciare la prospettiva. Con la sensibilità propria di un cittadino francese di origine tunisina, lo studioso guarda la più classica delle poleis attraverso gli occhi dei suoi “conviventi”, chiamati a morire sul campo di battaglia e a pagare le tasse, ma esclusi dall’esercizio dei diritti politici.


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Storia Umanità infamata e pubblico decoro di Giovanni

Gherardo Ortalli BARATTIERI IL GIOCO D’AZZARDO FRA ECONOMIA ED ETICA.

SECOLI XIII-XV pp. 264, € 22, il Mulino, Bologna 2012

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ontinuare a considerare il gioco come tema d’indagine storica interessante, ma tutto sommato leggero, sarà grazie a questo libro più difficile. E chi meglio di Gherardo Ortalli, che da due decenni ne promuove lo studio, poteva cimentarsi con questa sfida, offrendo una sintesi critica delle ricerche condotte su questa materia per il periodo bassomedievale? Non ci si aspetti però una storia convenzionale, perché l’angolo di visuale proposto è quello di un fenomeno tra i più affascinanti ma anche meno noti: la casa da gioco pubblica. Pochi sanno che tra il XIII e il XV secolo l’Europa si popola di casinò a cielo aperto collocati nelle piazze centrali delle città dove, in deroga ad antichi divieti, giocare d’azzardo era permesso. Con pragmatismo, le autorità pubbliche non reprimono pulsioni che oggi sappiamo avere spesso un’origine patologica, ma sperimentano strategie di contenimento che ricordano le politiche di riduzione del danno. Ma il meccanismo non si ferma qui: presto i permessi si trasformano in entrate fiscali, grazie all’appalto delle bische e ai prelievi sulle vincite delle partite ai dadi, unico strumento con cui all’epoca si poteva correre l’ebrezza di sfidare la fortuna. Insomma, un quadro che può apparire sorprendente a chi è legato alla solita immagine di una società medievale cupa e bigotta e che inevitabilmente richiama un’attualità sempre più affollata di sale corse, video-poker e gambling online. Proprio perché il gioco è cosa seria, il volume non cede però alle mode del momento, e anzi affronta la questione con metodo rigoroso e “inevitabile pedanteria” (sono parole dell’autore) ricostruendo l’origine, lo sviluppo e la crisi della bisca pubblica e guardando all’universo dell’umanità marginale che le animava. Sono i barattieri (o ribaldi), persone che dell’azzardo facevano la loro ragion d’essere, spesso in congiunzione con altri mestieri infamanti (boia, lenoni, mercenari, ladri), incarnando così l’esatto contrario dell’universo valoriale delle maggioranze. Il baricentro geografico è l’Italia centro-settentrionale, ma non mancano sconfinamenti nel resto d’Europa, così come utili raffronti con l’intera dimensione ludico-ricreativa: corse dei palii, feste, scacchi e giostre cavalleresche. È un’operazione di grande complessità perché poche sono le ricerche in materia e le fonti conosciute (soprattutto edite) scarseggiano; il lettore perciò si prepari a muoversi tra sermoni di predicatori, contratti di appalto, rime in volgare, testimonianze processuali e soprattutto molti statuti comunali. Zigzagando con estrema abilità tra le fonti e selezionando casi particolarmente in-

Ceccarelli dicativi, Ortalli chiude definitivamente con vecchi stereotipi, consolida precedenti intuizioni approfondendone i contorni, getta luce su alcuni aspetti chiave finora poco conosciuti. Si archivia l’idea della baratteria come gruppo para-corporato dotato di una certa autonomia rispetto alle autorità locali; si perde così l’appeal di umanità reietta, ma resistente e ci si trova di fronte a un’umanità subalterna e infamata, strumentalmente sottomessa alle necessità dei comuni. Si conferma l’eccessiva rigidità della sequenza secondo cui la bisca organizzata “dal basso” ottenga di derogare ai divieti per poi divenire casa da gioco istituzionalizzata, ma data in concessione ai barattieri. Se la tendenza generale tiene, il quadro che emerge è decisamente meno omogeneo, quasi a “macchia di leopardo”. Si battono terreni inesplorati che rivelano un’imprenditoria dell’azzardo fatta di rispettabilissimi appaltatori di professione e permettono di seguire nel tempo gli introiti che il gioco portava nelle casse cittadine. Il declino quattrocentesco della bisca pubblica è a sua volta sottoposto a revisione. Diversamente da quanto ritenuto (anche da chi scrive), il contrarsi del gettito delle gabelle sul gioco perde rilievo tra le concause della crisi. Oltre all’indubbia concorrenza di nuove forme di azzardo (carte da gioco e lotterie), è un’alleanza in nome del pubblico decoro, in cui si saldano l’attiva azione dei predicatori e i nuovi modelli culturali rinascimentali, a espellere baratteria e barattieri dalle piazze. Come lo stesso Ortalli non ha difficoltà ad ammettere, in questa robusta ricostruzione restano ancora elementi da scandagliare e lacune da riempire. Ci si sarebbe ad esempio potuti spingere oltre sulla relazione tra economia ed etica, tenuto conto che in materia di azzardo la chiesa si rivela precocemente cedevole. Precorrendo una tendenza che investirà altri ambiti giurisdizionali, il gioco potrebbe essere stato uno dei primi terreni in cui le autorità laiche sperimentano la possibilità di scindere ciò che è legale da ciò che immorale. E si sarebbe anche voluto sapere di più sui barattieri e i loro rapporti con il resto dei giocatori che, copiosi, lo si desume dagli importi davvero consistenti degli appalti, dovevano affollare le bische. La divaricazione tra l’azzardo dei marginali e quello delle persone rispettabili, che il volume lascia intuire, spinge a sondare eventuali parallelismi con quanto si è negli ultimi anni ipotizzato per il credito degli usurai e quello dei mercanti-banchieri. Ma non si può pensare che un lavoro di sintesi svisceri temi che avrebbero richiesto scavi d’archivio massacranti, come del resto non si può pretendere che una delle tante concessionarie che con il gioco hanno realizzato cospicui utili finanzi simili ricerche. O forse si? ■ giovanni.ceccarelli@unipr.it G. Ceccarelli è ricercatore di storia economica all’Università di Parma

Le molteplici vie del predominio europeo di

Federica Morelli

Attilio Brilli DOVE FINISCONO LE MAPPE STORIE DI ESPLORAZIONE E DI CONQUISTA pp. 233, € 16, il Mulino, Bologna 2012

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pecialista della letteratura di viaggio, a cui ha dedicato numerosi volumi, Attilio Brilli torna con un libro dedicato al viaggio di esplorazione e conquista, che gli europei intrapresero nell’età moderna, prevalentemente per mare, oltre i confini delle mappe del mondo conosciuto verso la scoperta di nuove terre. Gli scopi dei viaggiatori europei erano la conoscenza, lo studio, ma soprattutto la conquista e lo sfruttamento, quando non la rapina. America, Australia, Africa, Asia: attraverso l’analisi di libri e relazioni di conquistadores, mercanti, letterati e negrieri, così come dell’invenzione letteraria (con Robinson Crusoe e Gulliver), l’autore ricostruisce la secolare avventura del predominio europeo sul globo. Dalla scoperta del Nuovo mondo alla circumnavigazione del globo, dai viaggi intorno al mondo alla scoperta dell’Africa “nera” e all’esplorazione del continente di sabbia verso l’India, Brilli è molto convincente nel dimostrare la stretta relazione tra viaggi di esplorazione e politiche imperiali, tra iniziative individuali, legate alle capacità straordinarie di alcuni personaggi, e il ruolo di funzionari reali, missionari, compagnie commerciali o società geografiche. È molto convincente anche nel ricostruire come queste imprese conducano a una vera e propria presa di coscienza della superiorità tecnologica degli europei rispetto a culture diverse, che la maggior parte dei testi presi in esame de-

scrivono come immobili e quindi inferiori. Tuttavia, la struttura del libro resta, per alcuni aspetti, poco comprensibile al lettore, che rimane in balia dei viaggi senza trovare dei fili conduttori alla narrazione. A prima vista, sembra che i vari capitoli siano ordinati cronologicamente: si parte dalla scoperta e conquista dell’America (capitoli I e II), per poi arrivare alle colonie letterarie settecentesche di Defoe e Swift (V), sino all’esplorazione dell’Africa e del Medio Oriente nell’Ottocento (VII e VIII) e infine alla critica delle politiche imperialistiche alla fine del secolo. Tale percorso è però interrotto da vari capitoli tematici, come quello dedicato alle traversie del viaggio in mare (III), quello sul cannibalismo degli indigeni (IV), oppure quello sulle “aberrazioni o sublimazioni coloniali” (IX), che ci riporta al viaggio forzato degli schiavi, dei servi e dei detenuti e agli scritti dei gesuiti in America e in Asia. Vi sono poi delle pagine interessanti dedicate alla presa di possesso dei territori, che si inscrive in un rituale più ampio, nel quale si riflettono le istanze politiche di un’epoca, il sapere tecnico e scientifico, l’esperienza marittima e terrestre. Tuttavia restano un po’ isolate dal contesto della narrazione. In definitiva, un’introduzione che avesse spiegato le scelte dell’autore sarebbe stata molto utile al lettore. Molto apprezzabile sarebbe stata anche una spiegazione sulla scelta e sull’uso di alcune fonti rispetto ad altre. Un discorso di tipo metodologico avrebbe infatti contribuito a fare maggiore chiarezza sull’estrema diversità dei testi utilizzati: le lettere di Colombo ai monarchi spagnoli, il diario di un naufrago o quelli di Livingston, romanzi come Robinson Crusoe o i Viaggi di Gulliver, le relazioni dei gesuiti o quelli dei mercanti non possono certamente avere lo stesso fine o significato.

Strategie familiari e disciplina sociale di Elisabetta

Silvia Evangelisti STORIA DELLE MONACHE ed. orig. 2008, trad. dall’inglese di Monica Borg, pp. 281, € 26, il Mulino, Bologna 2012

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l libro traccia una storia dei monasteri femminili, nell’Europa occidentale e nelle sue colonie, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Settecento: l’autrice allarga lo sguardo, in qualche caso, fino alle soppressioni di età napoleonica. L’obiettivo è quello di mettere in luce, adottando la prospettiva degli ordini regolari femminili, alcuni aspetti della storia europea: fra questi, un rilievo particolare è riconosciuto alla “storia del disciplinamento sociale”, allo sviluppo di ordini religiosi a orientamento sociale, infine al ruolo giocato dalle monache nelle missioni europee in Asia e in America. Il capitolo introduttivo disegna una breve panoramica del monachesimo femminile nel passaggio dal medioevo all’età moderna: Silvia Evangelisti analizza le strategie familiari e sociali che guidavano le monacazioni e illustra le regole di condotta che disciplinavano la vita nei monasteri. Il capitolo successivo si concentra sull’imposizione della clausura nei decreti tridentini, attenti anche alla strutturazione architet-

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tonica degli edifici conventuali, che doveva favorire l’isolamento fisico delle monache dalla comunità in cui era insediato il monastero. Seguono tre capitoli dedicati alle attività artistiche delle monache, dalla letteratura alla pittura e scultura, dal teatro alla musica. Nel sesto capitolo l’attenzione dell’autrice si sposta verso le fondazioni monastiche femminili in Europa e nelle colonie europee dell’Asia e dell’America: oggetto di analisi sono l’espansione missionaria delle carmelitane scalze e delle orsoline. Il capitolo settimo presenta alcuni casi di comunità femminili “aperte”, dedite all’apostolato sociale, nel conflittuale rapporto con le autorità romane: le orsoline di Angela Merici, le dame inglesi di Mary Ward e le visitandine di Jeanne de Chantal. Storia delle monache rappresenta un’agile sintesi dei caratteri della vita monastica femminile in età moderna: si tratta di un’opera senza dubbio utile, che evidenzia alcune questioni poste dallo studio degli ordini regolari femminili e dell’attività svolta dalle donne all’interno dei monasteri. Manca tuttavia, come evidenzia l’apparato critico annesso al volume, un contatto diretto

con le fonti: esso avrebbe consentito di mettere in luce degli aspetti che sembrano completamente trascurati dall’autrice, in primo luogo l’attività economica e amministrativa svolta dalle monache, peraltro niente affatto limitata dall’imposizione della clausura. Oltre alla produzione artistica e letteraria, senza dubbio importante, sarebbe stato necessario, infatti, prendere in considerazione le testimonianze della “vita materiale della comunità”, che danno origine alla gran parte della documentazione prodotta dai monasteri: esse ne restituiscono il carattere di corpi patrimoniali e giurisdizionali all’interno delle comunità locali, costituendo in tal modo una fonte centrale per individuare il ruolo economico e sociale dei monasteri. L’approccio comparativo adottato da Evangelisti ricostruisce un contesto entro cui vengono inserite le istituzioni monastiche femminili in epoca moderna: in questo ampio quadro, tuttavia, risulta spesso difficile individuare le specificità locali, che avrebbero consentito di meglio definire quei “molteplici aspetti della storia delle donne e della vita religiosa femminile” sui quali, come osserva l’autrice stes■ sa, molto resta da indagare. elisabetta.lurgo@sp.unipm.it E. Lurgo è assegnista di ricerca all'Università del Piemonte Orientale


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Storia Una trama intricata di rapporti di Claudio

Giuseppe Vacca VITA E PENSIERI DI ANTONIO GRAMSCI 1926-1937 pp. XVIII-359, € 33, Einaudi, Torino 2012

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ell’ultimo ventennio gli anni del carcere sono stati in Italia l’oggetto privilegiato di una vera rinascita degli studi gramsciani, dopo una prolungata eclissi che aveva fatto del nostro paese un’autentica anomalia nel panorama internazionale. Al centro di tale processo vi è stata una vera e propria “rivoluzione delle fonti”, che è passata attraverso sia un riesame della veste grafica e della struttura cronologica, un approfondimento delle categorie concettuali e dell’intreccio tra i diversi filoni di ricerca dei Quaderni, sia la pubblicazione con nuovi criteri filologici non solo delle lettere di Gramsci, ma anche di quelle dei corrispondenti e dei carteggi “paralleli”, tra cui rivestono particolare interesse quelli tra Gramsci e Tania Schucht, tra Sraffa e Tania e tra Tania e i familiari. Tale procedimento si è rivelato essenziale sia per illuminare numerose “zone d’ombra” e per riesaminare sotto una nuova luce l’intera vicenda carceraria, sia per contestualizzare le diverse fasi di stesura dei Quaderni. Il volume di Vacca si inserisce pienamente in questa nuova direttrice filologica, prospettica e metodologica. Esso ha al centro il complesso sistema di relazioni e i diversi soggetti e interlocutori che ruotavano attorno al comunista sardo, e lo fa attraverso non solo la rivisitazione delle fonti già conosciute, ma anche utilizzando documenti archivistici solo parzialmente utilizzati o anche del tutto originali, tra cui spiccano le lettere e le carte personali di Piero Sraffa e quelle di Tania, Giulia ed Eugenia Schucht provenienti dagli archivi familiari e recentemente versate alla Fondazione Istituto Gramsci.

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iò permette di ricostruire il ruolo centrale svolto, in continua interazione, da Sraffa e da Tania in quanto tramiti tra Gramsci e il mondo esterno sia sul piano dei rapporti con il Centro estero del PcdI, sia su quello, estremamente delicato, delle pratiche legali per la salvaguardia della sua dignità e dei suoi diritti, per il trasferimento in clinica e la concessione della libertà condizionale, sino ai progetti e alle iniziative rivolte verso le autorità sovietiche per sollecitarne la liberazione. Si intrecciano qui molteplici piani di analisi: i) l’assenza di azioni incisive da parte del governo dell’Urss per la liberazione di Gramsci, motivata da una parte da una costante ricerca di buone relazioni con l’Italia fascista che risaliva al 1924 e che si era sem-

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mai accentuata, dopo l’avvento al potere di Hitler, con l’adesione alla politica della “sicurezza collettiva”, ma dall’altra anche dall’immagine di Gramsci, ritenuto un “comunista dissidente” in rapporto alla lettera del 1926 e alla successiva opposizione alla linea “classe contro classe” e alla stalinizzazione del Comintern; ii) il ruolo ambivalente di Mussolini, stretto fra la necessità di alleviare le condizioni carcerarie di Gramsci onde evitarne la morte e allontanare il discredito che ne sarebbe derivato per il regime e il costante rifiuto ad accedere alla sua liberazione in assenza di atti di sottomissione da parte del comunista sardo, che lo avrebbero distrutto sul piano politico e morale (un fattore quest’ultimo che forse avrebbe meritato una maggiore attenzione e un maggiore peso, anche in riferimento alle inerzie e alle omissioni da parte sovietica); iii) l’azione polivalente di Sraffa come punto di riferimento politico, intellettuale e morale per le strategie di sopravvivenza e le prospettive di vita pubbliche e private di Gramsci, ma anche come crocevia di una trama quanto mai intricata di rapporti con Togliatti e il Centro estero del PcdI, con la famiglia Schucht e con Tania (che sarà il tramite diretto, e che, moderna Antigone, legherà la sua vita alla difesa dell’integrità fisica e morale e del lascito di Gramsci), nonché con i diversi soggetti che, a partire da Mariano D’Amelio, agiranno dall’interno stesso delle istituzioni fasciste nelle complesse pratiche di natura giuridica per la salvaguardia della salute e della sopravvivenza stessa del prigioniero; e infine iv), la figura tragica di Giulia Schucht, gli schiaccianti problemi di comunicazione tra i coniugi legati alle diversità di carattere, alle malattie, alla lontananza e alla separazione forzata, ma anche alle diverse censure a cui la coppia era sottoposta, al clima familiare “ammorbante e distruttivo” e all’ostilità da parte del padre Apollon e della sorella Eugenia (su cui ha gettato nuova luce la pubblicazione dell’Edizione nazionale degli scritti gramsciani). Riguardo alla vita e ai pensieri di Gramsci in carcere, Vacca sottolinea del tutto giustamente come egli, lungi dal rifiutare ogni legame con il Centro estero del PcdI, secondo una vulgata troppo a lungo tramandatasi, abbia cercato di costruire, per tutta una prima fase, un’intensa interrelazione, sino a mettere a punto un linguaggio in codice e a far pervenire notizie dei percorsi intellettuali che andava consegnando ai Quaderni, nonché del suo dissenso aperto sulla politica della svolta e delle relative acquisizioni in merito ai contenuti e alle finalità della lotta antifascista (a cominciare dalla questione della Costituente). Parimenti condivisibile è il legame che l’autore stabilisce tra l’estraneità di Gramsci all’orizzonte della bolscevizzazione,

già manifesta nel 1926, e la ricerca teorica profondamente innovativa dei Quaderni del carcere, la riflessione sul nesso tra crisi organica e “grande trasformazione” del sistema capitalistico, sull’involuzione “economico-corporativa” dell’Urss staliniana e del marxismo-leninismo sovietico, sulla nuova prospettiva strategica all’insegna dell’antideterminismo e delle categorie di egemonia, “guerra di posizione” e “rivoluzione passiva” che ne derivava. Il quadro che ne risulta smentisce le illazioni su una rottura di Gramsci con il movimento comunista e semmai ci restituisce l’immagine di un comunista “eterodosso”, ma determinato a proseguire, fino a quando le forze glielo avrebbero consentito, la battaglia per una profonda riqualificazione del movimento stesso, riqualificazione atta ad attrezzarlo (emblematico il confronto-scontro con Croce) alle nuove sfide del mondo contemporaneo. In questa stessa luce è importante inquadrare sia i tentativi di Gramsci di utilizzare tutti i possibili margini di condizionamento che potessero aprirsi nelle sfere decisionali del regime, sia la determinazione nel rivendicare i propri diritti e nel respingere le pressioni per la domanda di grazia e ogni altro atto che potesse suonare umiliante. Qualche perplessità può tuttavia suscitare la tesi di Vacca secondo cui l’elaborazione teoricopolitica di Gramsci intendesse promuovere una fuoriuscita non solo dallo stalinismo, ma anche

dal bolscevismo, laddove invece il suo inequivocabile richiamarsi all’eredità (sia pure incompiuta) di Lenin, come fonte originaria di ispirazione degli ambiti più innovativi della propria ricerca, sembrerebbe attestare la sua persistente appartenenza all’universo politico ideale e al messaggio universalistico della rivoluzione d’Ottobre. E del resto sarebbe difficile spiegare altrimenti la scelta, nella fase finale della sua vita, di espatriare in Urss dopo la liberazione dal carcere, a cui alcuni autori hanno voluto polemicamente contrapporre il progettato ritorno in Sardegna (una tesi quest’ultima che viene peraltro smentita dalla nuova documentazione utilizzata in questo volume). Altra cosa è discutere della rottura dei rapporti politici e personali di Gramsci con il Centro estero e segnatamente con Togliatti, che emerge qui con ulteriore nettezza e che ebbe al centro il so-

spetto (non importa quanto fondato) che la “famigerata” lettera di Grieco del 1928 fosse stata originata non già da improntitudine o leggerezza, bensì da un “atto scellerato” volto a “sacrificarlo”. Ne è eloquente testimonianza sia la puntuale ricostruzione delle iniziative per la liberazione di Gramsci e delle sue raccomandazioni a mantenerle segrete al Centro estero, sia la sua espressa volontà di affidare al solo Sraffa la responsabilità di curare la pubblicazione dei Quaderni escludendone Togliatti: un lascito di cui si fece portatrice Tania, insieme alle sorelle Schucht, e che sarebbe stato all’origine di un’inchiesta da parte degli organi dirigenti del Comintern, inchiesta che rimase senza seguito, ma che avrebbe potuto avere sviluppi imprevedibili. ■ c.natoli@tiscalinet.it C. Natoli insegna storia contemporanea all'Università di Cagliari.

La forma dell’ascensione operaia di

Romeo Aureli

Corrado Scibilia TRA NAZIONE E LOTTA DI CLASSE I REPUBBLICANI E LA RIVOLUZIONE RUSSA pp. 238, € 20, Gangemi, Roma 2012

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i quale rivoluzione parliamo quando parliamo della rivoluzione russa? Perché di rivoluzioni ce ne furono due (tre, considerando quella del 1905) e la posizione dei repubblicani italiani rispetto a questi eventi mutò in relazione a quanto nel tempo andava maturando in Russia. Quanto ai dilemmi che emersero, gli stessi repubblicani si interrogarono, e si scontrarono, giungendo anche a rotture clamorose, come quella tra Napoleone Colajanni, sempre più lontano dalla rivoluzione quando divenne bolscevica, e Pietro Nenni, per il quale invece il mazzinianesimo era da considerarsi “ormai superato come mezzo di lotta sociale”. Non deve sorprendere questo forte e appassionato interesse dei repubblicani per gli avvenimenti che travolsero l’impero zarista a partire dal marzo 1917. In realtà, come spiega l’autore, il Partito repubblicano italiano, all’epoca guidato da Giovanni Conti e Oliviero Zuccarini, e successivamente da Fernando Schiavetti, era l’altra “forza antisistema dell’epoca” e la rivoluzione russa lo costrinse a mettere in discussione il concetto stesso di rivoluzione e poi a definirne meglio i contenuti. La storiografia non ha mai dato sufficiente rilievo a questo specifico dibattito, a causa di fonti documentali, rappresentate in particolare dalle carte di pubblica sicurezza, che mettono in luce un quadro di forte antisocialismo e di relativa attenzione alla rivoluzione russa, che invece fu presente sulla stampa repubblicana in modo

massiccio, come evento non solo della storia del movimento operaio, ma della stessa storia politica del Novecento, tanto da sollecitare parallelismi con la rivoluzione francese. All’iniziale entusiasmo, condiviso dalla base e molto legato al fatto che la Russia di Kerenskij sembrava intenzionata a continuare la guerra contro “la criminosa oligarchia tartaro-tedesca minacciante l’Europa”, subentrò dapprima una certa diffidenza e ostilità nei confronti di Lenin e delle sue posizioni pacifiste, al punto che fu definito un “traditore”, e in seguito subentrò un’aperta presa di distanza nei confronti della seconda fase rivoluzionaria, quella bolscevica, che fece emergere significative differenze ideologiche. La disputa pro o contro il bolscevismo proseguì negli anni dell’immediato dopoguerra e si concentrò sulla forma che avrebbe dovuto avere quella che fu definita “l’ascensione operaia” e più in generale la questione sociale, che imponeva una scelta sull’accettazione o meno della lotta di classe, che risultò per lo più rifiutata, anche se si può ritenere tale scelta “lo sforzo ideale maggiore dei repubblicani in quel periodo”. Le elezioni politiche del 1919 e del 1921, la costituzione del PcdI e l’avvento del fascismo attenuarono l’attenzione verso la Russia, ma l’analisi non perse di lucidità ed equilibrio, e alla condanna di un regime comunque fallimentare si affiancarono aspre critiche al comportamento imperialistico delle grandi potenze che avevano isolato la Russia, mentre occorreva riprendere i rapporti commerciali con essa e favorirne la piena integrazione nell’Europa. Scibilia fa così uscire da un cono d’ombra storiografico un aspetto della complessa vicenda dei repubblicani italiani e conferma l’intenso e drammatico dibattito politico che scosse il partito in anni ricchi di accadimenti di straordinario rilievo. ■


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“Cambi di Stagione” con nuove contaminazioni sonore Nelle Langhe ritorna il festival musicale

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Pagina a cura della Fondazione Bottari Lattes

elodie barocche, sonorità argentine e spagnole, jazz, arie di opere liriche italiane, musiche e canti celtici e tanta chitarra classica con una maratona di tre giorni dedicata alle sei corde. È il timbro sonoro della quarta edizione del festival internazionale di musica “Cambi di Stagione”, che per il 2013 propone un cartellone all’insegna delle contaminazioni. Inaugura sabato 23 e domenica 24 marzo 2013 alla Fondazione Bottari Lattes di Monforte d’Alba (Via

Marconi, 16) con i suoni argentini del sassofonista Javier Girotto e del suo gruppo Aires Tango e con le melodie barocche-jazz del quartetto tedesco Baroque and Blue, che ha appena inciso l’album Americana. “Cambi di Stagione” ritorna con la propria formula originale, che lo contraddistingue nel panorama delle rassegne musicali, proponendo concerti ad ogni inizio di stagione. E per il 2013, accanto ai concerti diverse novità, come la mostra di chitarre storiche appartenenti al collezionista e liutaio Gianni Accornero, le esibizioni di brani operistici e la tre giorni dedicata alla chitarra che coinvolgerà anche giovanissimi studenti di questo strumento. Quattordici gli appuntamenti in cartellone che porteranno in Langa una trentina di artisti di fama internazionale, tra cui: i chitarristi Guillermo Fierens, definito “l’erede del grande Segovia” (Argentina), Jukka Saijoki (Finlandia), Martin Haug (Norvegia) e Nello Alessi; gli arpisti Enrico Euron e Anne–Gaëlle Cuif (Francia); la violinista Brigitte Stærnes (Norvegia); il Quartetto d’archi RimskijKorsakov di San Pietroburgo (Russia); l’Orchestra da Camera dell’Opera di Montecarlo (Principato di Monaco). Spazio anche ai

giovanissimi, con la Classe di chitarra del Maestro Francesco Biraghi, docente al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Queste le date del festival: sabato 23 e domenica 24 marzo (primavera); venerdì 21, sabato 22 e domenica 23 giugno (estate); sabato 21 e domenica 22 settembre e sabato 26 ottobre (autunno); sabato 14 e domenica 15 dicembre (inverno). Ideata dal direttore artistico Ubaldo Rosso, flautista, docente e attento interprete di musica antica con strumenti storici, la rassegna è organizzata dalla Fondazione Bottari Lattes di Monforte d’Alba e dall’Associazione Amici della Musica di Savigliano (Cn) insieme con l’Associazione Premio Bottari Lattes Grinzane. “La quarta edizione del festival – spiega Rosso – prosegue sulla strada del dialogo tra diverse sonorità e accentua le contaminazioni sonore. Non solo per rendere più ricco, accattivante e vario il programma musicale, ma anche per avvicinare sempre di più il grande pubblico e i giovani alla musica da camera. Uno “sguardo” sonoro che valorizza inoltre i singoli strumenti e incuriosirà anche le orecchie più esigenti”. ■

Mostra permanente alla Fondazione Bottari Lattes

Mario Lattes è qui l pennello di Lattes segue gli impulsi, le emozioni, gli abbandoni di una irrimediabile inquietudine”. Così Vittorio Sgarbi nel 1988 ha descritto i lavori di Mario Lattes, pittore ma anche scrittore, editore e ideatore di iniziative culturali, scomparso nel 2001. Ora alcune delle opere più rappresentative della pittura e della poetica di questo eclettico artista sono in esposizione permanente alla Fondazione Bottari Lattes di Monforte d’Alba (Cn), nata nel 2009 proprio per ricordarlo e promuovere cultura e arte sulla scia della sua multiforme attività. Una selezione di una cinquantina di opere di Mario Lattes, alcune raramente esposte, ripercorre un’avventura artistica poliedrica che abbraccia mezzo secolo di attività pittorica, dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, e documenta i diversi modi espressivi e i numerosi interessi del pittore. Artista raffinato, capace di dare vita a immagini oniriche, Mario Lattes ha sperimentato tecniche e linguaggi eterogenei, con i quali ha espresso il dolore dell’esistenza e la propria rivendicazione di libertà da ogni pregiudizio. La sua opera racchiude momenti d’ispirazione ora astratta, ora espressionista, ora visionaria, per approdare a suggestioni visive, senza mai essere imprigionata in categorie o movimenti. Dagli oli su tela o su carta, alla grafica, fino agli acquerelli, tempera e tecniche miste, la produzione pittorica di Lattes si distingue an-

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che per i temi affrontati: le contraddizioni della vita, il dolore e le difficoltà nella quotidianità, le memorie e la consapevolezza della propria frammentata identità, la ribellione alle idee preconfezionate, alla volgarità delle mode. Tanto che, nel 2008, il critico d’arte Marco Vallora commentava: “Lattes è sempre là dove non te lo attendi, anche tecnicamente”. “Per alcuni artisti – spiega Vincenzo Gatti, collaboratore della Fondazione Bottari Lattes per le iniziative legate alle arti visive – l’operosa riservatezza, anziché volgersi in solitaria riflessione, nutre i nervi sensibili e le attenzioni: così accade per Mario Lattes, che vive lo scorrere del secolo passato con mente vigile, tra pittura e scrittura, osservatore visionario di una realtà sezionata in tutte le ambiguità e le inquietudini. Dalla natura morta al paesaggio, dagli interni ai ritratti, i generi della pittura sono declinati secondo un processo immaginativo dominato dalla fecondità del dubbio: l’atto della formulazione si pone infatti sempre come ipotesi e i progressivi passaggi (l’incisore direbbe gli stati), per quanto convincenti, sono in realtà altrettanti aggiustamenti, avvicinamenti che consumano quell’indeterminatezza che sempre costringe l’artista a guardare l’opera compiuta come transito verso la successiva (che sarà la più amata, in attesa dell’ulteriore consumazione ). È il travaglio del ricercatore che, nell’evento ritenuto conclusivo, vede già l’incanta-

mento di nuovissime sirene. Se poi, resistendo alle tante seduzioni dell’immaginario di Lattes (nidi d’ombra, sogni, domestici teatrini, marionette maligne…) vogliamo consentire alla ragione di prevalere sul sentimento, allora comprendiamo che la grammatica strutturale dell’artista è dominata dal gusto per la manipolazione dei materiali, dei quali viene, insieme, assaporata la chimica capricciosa sensualità e la capacità di mutazione. Quasi in equilibrio tra gli artifici tecnici, l’artista usa gli espedienti più sofisticati d’imprimitura, domina lo scorrere ondoso dell’inchiostro e dei pigmenti che le carte subiscono o affrontano, percorre il mare profondo delle oscurità calcografiche o, dell’incisione, tenta i bagliori crudeli del metallo direttamente penetrato. Se quella di Lattes è pittura di memorie, come la memoria stratifica e rimuove, come nel ricordo vuol ripensare sé stessa , in sé perdersi e, fatalmente, ritrovarsi.” Le opere esposte appartengono alla collezione della Fondazione Bottari Lattes. Ingresso gratuito Fondazione Bottari Lattes, via Marconi 16, Monforte d’Alba (CN) orario: da lunedì a venerdì 14.30-17 sabato e domenica su prenotazione (0173-789282)


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Fotografia Miti, stereotipi, caratteri di Daniele

Gabriele D’Autilia STORIA DELLA FOTOGRAFIA IN ITALIA DAL 1839 A OGGI pp. XXXII-432, 117 ill. col. e b/n, € 32, Einaudi, Torino 2012

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ai come in questo periodo è apparso evidente come il problema di una “specifica” delimitazione di campo per la storia della fotografia non possa in fondo che coincidere con quello di una definizione teorica del medium, delle sue funzioni ricorrenti, delle sue implicazioni sociali e culturali. L’idea di un radicale mutamento di identità della fotografia nell’era del web 2.0 ha stimolato, in Italia e all’estero, un’inedita proliferazione di scritti e talvolta accese polemiche tra i fautori di una sostanziale continuità e quelli di una cesura netta, un mutamento radicale che sarebbe intervenuto sia rispetto ai regimi visuali ed epistemologici della fotografia storica, sia rispetto alle sue consuete impalcature storiografiche. Una questione che, apparentemente, parrebbe delinearsi ai margini di questo territorio, concerne la definizione di una precisa identità della fotografia italiana, delle sue caratteristiche peculiari in un contesto di progressiva omologazione e globalizzazione del sistema mediale. Rispetto al quale, ad esempio, alcuni fotografi (i nostri autori più o meno unanimemente riconosciuti e celebrati), alcune immagini (quelle in cui nel tempo gli italiani si sono identificati, o che li hanno identificati al di fuori del nostro paese), alcuni temi, problemi e nodi irrisolti (il primato della nostra avanguardia fotografica, gli eccessi della nostra iconografia politica, l’arretratezza del nostro mercato editoriale, la tipicità del nostro paesaggio e via dicendo) consentirebbero di stabilire dei punti fermi, di stagliare il racconto della fotografia italiana rispetto a quello della fotografia tout court. Un simile approccio sottende l’idea che la fotografia

Fragapane sia un’entità univoca e concettualmente immutabile (tanto che una sua evoluzione tecnologica, paradossalmente, può inficiarne lo statuto). Delineare oggi una storia della fotografia impone così, direi di conseguenza, il fatto di assumere una posizione rispetto a questo intreccio di problemi. Gabriele D’Autilia enuncia la propria posizione già nel titolo del suo ultimo libro, in quel sottile slittamento semantico dalla fotografia “italiana” alla fotografia “in Italia” che forse spiazzerà qualche lettore (e probabilmente proprio i più esperti della materia). Uno scarto che, elidendo ogni pregiudiziale implicazione dell’aggettivo (di che fotografia, infatti, e di quale Italia stiamo parlando?), preannuncia l’apertura di un orizzonte di ricerca più vasto e articolato: quello di una storia trasversale che non coincide né con l’eterna vicenda dei nostri grandi fotografi, né con quella delle rappresentazioni più o meno ufficiali del nostro paese, né con le consolidate narrazioni accademiche e istituzionali della nostra cultura fotografica, ma interseca questi piani e li fa interagire con altri. Una storia, potremmo dire in estrema sintesi, dei diversi utilizzi che l’Italia ha fatto della fotografia, tanto a livello della sua produzione quanto della sua ricezione, esprimendosi perlopiù nella forma di “un pacificato miscuglio di tradizione e modernità”, come sottolinea lo studioso nelle pagine introduttive del volume. Il discorso si sviluppa a partire da alcuni riferimenti e territori di ricerca molto precisi, talvolta già ampiamente scandagliati dagli storici della fotografia (il neorealismo, l’iconografia del boom economico), talvolta trascurati o ricondotti nell’ambito di una storiografia “minore” (gli opuscoli tecnici, la pubblicità). L’autore introduce da subito alcune categorie storico-critiche inconsuete nella nostra letteratura fotografica (il “carattere” degli italiani, la storia economica, la dialettica tra spinte e resistenze alla secolarizzazione nella nostra cultura istituzionale) e dedica particolare attenzione alle strategie ideologiche e intellettuali

della borghesia italiana postunitaria, nei cui confronti, come scrive, la fotografia si pone “a metà strada, e talvolta anche come intermediaria, fra cultura tecnico-scientifica e cultura letteraria e artistica”. Una linea analitica che attraversa tutta l’opera concerne il rapporto persistente della fotografia con lo stereotipo, che D’Autilia osserva con uno sguardo particolarmente ravvicinato in alcuni ambiti quali la veduta artistica e turistica, la rappresentazione della guerra, la propaganda, l’attualità sui rotocalchi, la fotografia di famiglia, quella di impianto antropologico e meridionalista. Si tratta di un rapporto da sempre soggetto a continue tensioni, a spinte perlopiù reazionarie ma talvolta anche fortemente innovatrici, che si chiariscono in alcuni passaggi determinanti (last but not least, il “ventennio berlusconiano” e la sua immagine, che di fatto riflette molte ambiguità delineatesi nel mondo fotografico con la cesura analogico/digitale). Tra di essi, occupano una parte preponderante e strategica nel libro il Risorgimento e il periodo postunitario, filtrati dalle diverse espressioni nazionali – tutt’altro che omogenee e ideologicamente univoche – della dagherrotipia e del collodio (“In questo complesso processo di costruzione dell’immagine e della memoria l’unico mito ‘spontaneo’ è Garibaldi”, rileva l’autore); e il fascismo, che in piena era dell’istantanea, per la prima volta nel nostro paese, edifica un “regime della percezione” fortemente orientato verso la modernità e del tutto assoggettato al sistema dei media. Malgrado l’evidente predilezione dell’autore per un’“idea di fotografia” piuttosto classica, di impianto realista, sociale e documentario, ciò che più rende originale e attuale questo saggio è proprio il fatto di accostarsi alla fotografia senza imporle una visione centripeta, senza piegarla a un modello univoco, riconoscendole anzi preliminarmente una vocazione plurale che può emergere solo da un costante dialogo tra fonti e intenzionalità eterogenee. Quello elaborato dalla nostra fotografia è così uno sguardo sempre motivato e che “si può definire di volta in volta scientifico, artistico, sociologico, antropologico, affettivo, estetico, turistico ecc.”. ■ d.fragapane@tiscali.it G. D. Fragapane insegna storia e teoria della fotografia allo Ied di Roma

Una congenita polisemia di Marina

Claudio Marra FOTOGRAFIA E PITTURA NEL NOVECENTO (E OLTRE) pp. 315, 16 ill. col., € 22, Bruno Mondadori, Milano 2012

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l libro si dichiara come seconda edizione di Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento” (Bruno Mondadori, 1999) e, malgrado la revisione generale, non tradisce la dichiarazione editoriale, perché l’analisi dei diversi movimenti estetici del Novecento rimane invariata, mentre vi si approfondisce quella che anima la scena artistica degli ultimi anni del secolo trascorso, fino ai nostri giorni. Il filo conduttore unificante è costituito dalla riflessione portante che se la fotografia, nel corso dell’Ottocento, ha continuato, pur se con altri strumenti, ad alimentare l’idea formalizzante del “quadro” e della rappresentazione, con movimento opposto nel Novecento ha aperto e determinato nuovi e diversi scenari dialettici nella produzione estetica dell’intero secolo. In questo sguardo generale, tuttavia, Marra fa ruotare il proprio pensiero teorico di contemporaneista intorno al concettuale, periodo nel quale l’autore individua la piena maturazione e la massificazione dei contributi epistemologici della prima metà del Novecento, interessati a varcare la soglia artistica e tradizionale del “quadro”. L’analisi degli eventi è serrata e concatenata: parte dagli aspetti performativi della fotodinamica dei Bragaglia e poi del secondo futurismo; affronta gli esempi dadaisti e newyorchesi di Duchamp e di Picabia; insiste sull’importanza del ready-made; accosta felicemente, in ambito metafisico, per il citazionismo e il tempo congelato, De Chirico e von Gloeden; prosegue con l’analisi del surrealismo (Atget, Breton, il già dadaista Man Ray, Tristan Tzara, Mark Ernst, Brassaï, Walker Evans) e dei fotografi novecenteschi considerati come tardivi epigoni del pittorialismo; raffronta l’informale e la fotografia di reportage; arriva al periodo concettuale (Body Art, performance, Narrative Art, concettuale propriamente detto e visto nella duplice accezione di “freddo” e “analitico”); si impegna in una rivisitazione degli anni ottanta (con Mapplethorpe, Newton, Sherman, i Becher e il “pensiero debole” della new wave italiana); conclude con l’avvento del digitale, ossia con la confusione e il mescolamento di vero e falso, di generi e linguaggi, tipici della nostra contemporaneità multimediale. Pur se ammirevole, la concatenazione logica del pensiero dell’autore sembra presentare alcune falle, soprattutto perché il giudizio critico non sempre è sostenuto da quello storico. Malgrado l’indubbia fascinazione del procedere del pensiero e dell’esposizione, si ha infatti l’impres-

Miraglia sione che tutto ciò che non può combaciare alla lettera con i presupposti e le strategie del concettuale sia espunto da Marra per insignificanza; è il caso del fotomontaggio, (nonostante provenga dal canone della prospettiva rinascimentale e della rappresentazione ottocentesca) o, ancora, quello di numerosi fotografi degli anni cinquanta (tacciati di arretratezza culturale perché legati all’idea rétro di quadro, mentre, pur se educati in un clima di sopravvivenza a oltranza del pittorialismo, seppero dare un contributo notevole alla rottura del modernismo). Altrettanto ambigua è la posizione dell’autore quando, mentre si impegna a individuare un’identità della fotografia, afferma poi che è impossibile pensare a una sua storia autonoma. Come ci insegna l’esegesi contemporanea, la fotografia, per la sua congenita polisemia e le sue molteplici “anime”, trasporta con sé e incanala anche percorsi non necessariamente inscrivibili nel sistema dell’arte, tanto da scrivere, o aiutare a scrivere, molte altre “storie” che, per i sottesi scambi relazionali, interessano tout court la storia, la sociologia, l’antropologia, la letteratura e anche, senza pregiudizi di merito precostituiti e denigratori, la storia della fotografia e quella dell’arte al di fuori del concettuale. Il capitolo sull’informale marca una cesura fra prima e seconda parte del libro. È qui che l’autore, affiancando la poetica “mondana” dell’informale a quella che anima di sé la fotografia di reportage, propone una tesi decisamente seducente, che regge molto bene alla verifica dei casi analizzati del più precoce Weegee, di Robert Frank e di William Klein, meno a quella dell’opera di Henri Cartier-Bresson, le cui immagini, “chiuse” e formalmente concluse, sono state viste dalla critica e dalla storiografia fotografica come decisamente antitetiche rispetto al modello informale (o postmoderno) definito da Eco e più tardi da Lemagny. Giustamente la teorizzazione finale del passaggio da un’arte fondata sul mito della creatività manuale a un’arte governata dal sistema mediale e dalle sue contaminazioni viene attribuita a Warhol, che apre definitivamente a quel ribaltamento finale di forze tra pittura e fotografia di cui anche oggi siamo partecipi; nel Novecento, infatti, è l’arte fino a quel momento intesa in senso tradizionale che, costretta a rinunziare al proprio monopolio, adotta una serie di identità e di strategie visuali che ricalcano le categorie messe in gioco dalla fotografia, senza che venga però attivata una totale omologazione dei due media, ma dando invece luogo a un complesso territorio culturale, basato su “precise e articolate affinità elettive”. ■ marinamiraglia@tiscali.it M. Miraglia è stata funzionario direttivo dei Beni Culturali presso l'Istituto Nazionale per la Grafica


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Arte Oltre il concettuale, verso il territorio di Adachiara

Anna Detheridge SCULTORI DELLA SPERANZA L’ARTE NEL CONTESTO DELLA GLOBALIZZAZIONE

pp. XV-300, € 35, Einaudi, Torino 2012

L’

obiettivo di Anna Detheridge alle prese con gli Scultori della speranza è chiaro sin dalla premessa: “L’evoluzione, dagli anni ’60 a oggi, di un’idea di arte che ha messo in dubbio la funzione stessa della rappresentazione artistica, minando le basi del proprio linguaggio”. Si tratta evidentemente dell’arte concettuale e delle “attitudini, sensibilità e orientamenti” che da essa scaturiscono fino a oggi. Un libro denso, generoso di riferimenti e citazioni, che alterna storie note ad altre inedite. Sull’esempio di Carla Lonzi, l’autrice mette intanto in discussione il suo ruolo di critico quale dispensatore di giudizi: alla forma finale dell’opera preferisce il processo e il contesto, al giudizio estetico l’ascolto, la relazione e l’interazione tra i soggetti in campo, l’ineludibilità soprattutto del giudizio etico. L’approccio è tematico: quattro macro-argomenti (L’arte concettuale e la sua eredità; Lo spazio fisico e le sue interpretazioni; Nuove visioni per la rigenerazione del territorio; Poetiche della relazione) sono affrontati in modo diacronico, interdisciplinare e internazionale. Se l’architettura è l’interlocutore privilegiato, nella sua estensione alla città, all’ambiente, al paesaggio e al territorio, l’arte abbraccia la filosofia, la sociologia, l’antropologia e la geografia, irrompendo “in territori che non le sono propri (…) per aprire le diverse discipline a un campo potenziale di scambi percettivi e di apprendimento”. Ricerca, insomma, nelle vicende storiche e contemporanee, una centralità del valore, dell’impegno, dello sconfinamento, della marginalità, sottolineando, dove possibile, la preminenza della ricerca italiana su quelle d’oltralpe. Già nel primo capitolo, infatti, se non manca di sottolineare la primogenitura concettuale della mostra Arte povera + Azioni povere del ’68 su quella di Seth Siegelaub The Xerox Book, Detheridge parla del concettualismo italiano come di “storia rimossa”: “L’arte smaterializzata e l’arte concettuale in Italia, nonostante i molti proclami, sono rimaste senza mentori e senza sostenitori”: il legame imprescindibile, seppur fortemente critico, con il passato e la tradizione umanistica avrebbe impedito a questi artisti di approdare a un’arte di sole idee. Un limite o un pregio: quando Kounellis dichiara infatti che il quadrato minimalista ha tradotto “le motivazioni popolari e l’idea della storia” in un “dato strettamente metrico”, rivendica una diversità proprio in nome della storia.

Due milioni di anni in quattro continenti

Zevi

Il movente antirinascimentale e antieuclideo guida anche gli “ambienti spaziali”, realizzati negli anni sessanta sulla scia di quello aurorale di Fontana del ’49, giustamente definiti da Detheridge un “primato dell’arte e dell’architettura italiana”. Ambienti letteralmente “a misura d’uomo” come In-cubo di Fabro, dinamici, reversibili, che coinvolgono lo spettatore con tutti i sensi, come quelli programmati e cinetici. E lo spazio, nelle sue varie declinazioni, è l’oggetto del secondo capitolo. A partire dal territorio, di cui i geografi tra i primi hanno compreso il limite di una visione esclusivamente contemplativa ed estetica. Se l’autrice ribadisce i guasti della globalizzazione in termini di disgregazione sociale e del territorio e descrive con precisione le specificità del paesaggio italiano e della sua storia, ammonisce, e qui risiede il suo contributo originale, dall’attestarsi sul piano di mera e moralistica denuncia, alibi spesso, per architetti e urbanisti, per un’astensione progettuale. Anche se, pur coraggiose e “di grande valore sociale”, le deturpazioni territoriali restano comunque tali. Vicende note come la Land Art, la relazione arte-architettura, le rassegne che invadono la città, si alternano vorticosamente alla trattazione dello “spazio sociale”, da Gibson a de Certeau a Lefebre. Sullo sfondo della controcultura degli anni settanta (le radio popolari, l’esperienza di Basaglia a Gorizia) della quale l’arte, l’architettura, il design e la fotografia si mettono spesso al servizio. Se gli “ambienti percettivi” anticipano quelli attuali di Eliasson e Bartolini e le ricerche di Laboratorio di Comunicazione Militante quelle odierne di Studio Azzurro, anche la fotografia registra una nuova attitudine verso il territorio, non più idilliaca e armonica ma, come in Viaggio in Italia del 1984, problematica e riflessiva, attenta al territorio antropizzato, alla storia locale, alla cultura orale e materiale. Il terzo capitolo si apre interrogandosi sul destino dell’utopia: è emblematico che la frase citata da Manfredo Tafuri, in cui lo storico considera l’architettura erede delle avanguardie ma nello stesso tempo traditrice dei suoi valori sperimentali se immessa nella produzione, sancisca la morte del progetto. Se annovera tra le utopie le cupole di Buckminster Fuller, il manifesto di architettura mobile di Yona Friedman, e, ancora, i situazionisti per le derive urbane, riprese oggi dagli Stalker, da Francis Alys e dal fotografo Sinclair, nel gap tra queste e la realtà, Detheridge si interroga opportunamente sul destino dell’architettura in un’epoca di mobilità sociale, di svuotamento dei centri storici, di centrifugazione verso periferie sterminate e invivibili, seppur vitali. Città regione? Città rete? Collage city? Ogni op-

di Enrica

Neil MacGregor LA STORIA DEL MONDO IN 100 OGGETTI ed. orig. 2010, trad. dall’inglese di Marco Sartori, pp. XXVI-706, 117 ill. col., € 49, Adelphi, Milano 2012

I zione è preferibile a una pianificazione dall’alto, ordinatrice e razionale. Lo stesso ribaltamento di punto di vista è rivendicato dallo spazio pubblico la cui estetizzazione (leggi arredo urbano) implica esclusione, gentrificazione, soffocamento dei conflitti, condizione, secondo la storica dell’arte americana Rosalyn Deutsche, per l’esistenza di quello stesso spazio. Se al cospetto del disastro ambientale alcuni artisti (Miele Laderman Ukeles) si sporcano letteralmente le mani inserendo l’opera in un processo di reale bonifica del territorio, sulla piaga delle “città informali” che proliferano ai margini delle nuove metropoli, Detheridge nomina come esperienze pilota sia l’associazione Arte/Cidade in Brasile che, sull’esempio di Smithson, compie “mappature” sulle criticità dei grandi agglomerati urbani, sia il programma “Favela-Bairro”, guidato dall’architetto Jorge Mario Jáuregui, che progetta abitazioni, infrastrutture e spazi pubblici ispirandosi alla creatività degli abitanti delle favelas. Alle poetiche delle relazioni Detheridge dedica l’ultimo capitolo, con grande attenzione alle vicende italiane. Temi trattati precedentemente, come arte e spazio pubblico, vengono ripresi nell’ottica non dell’arte calata nello spazio pubblico ma dell’arte frutto della relazione con il pubblico. La new genre public art, teorizzata e praticata dal ’93 da Suzanne Lacy e Mary Jane Jacob, e i cui pionieri sono i brasiliani Hélio Oiticica e Lygia Clark, è l’alternativa all’arte site specific, attenta ai luoghi ma non ai suoi destinatari. Per concludere, una frase che fuga con intelligenza i dubbi e le perplessità affacciate da una trattazione così fortemente e generosamente “sbilanciata” sul sociale. “Allargare i confini della produzione artistica significa, per un artista, rischiare di scadere nel dilettantismo (…) I buoni esiti della sua pratica artistica dipenderanno (…) dalle brecce che i suoi interventi saranno in grado di aprire, mettendo in crisi le certezze di chi agisce quale ‘esperto’ legittimato a decidere. Nel campo dell’architettura, per esempio, l’apporto dell’artista non è quello di sostituirsi al professionista, ma di delineare visioni e opzioni che questi spesso non coglie”. Sostituzione o fiancheggiamento? Per fortuna, non è questo il dilemma. ■ adachiara@tiscali.it A. Zevi è presidente della Fondazione Bruno Zevi

l volume nasce da una fortunata trasmissione radiofonica ideata dal quarto canale della Bbc e andata in onda nel 2010. L’autore, Neil MacGregor, è stato direttore della National Gallery di Londra ed è alla guida del British Museum dal 2002. Ogni puntata sviluppava un frammento della storia mondiale attraverso la presentazione di un manufatto proveniente dalle collezioni del British, selezionato da un team composto da curatori del museo e da redattori della radio. Il racconto, sostenuto da uno stile impeccabile di alta divulgazione, si alternava, come accade anche nei capitoli del libro, a brani scelti dalla letteratura specialistica; l’ascoltatore aveva inoltre la possibilità di accedere alle immagini dell’oggetto attraverso un sito web ancora oggi disponibile in rete. Da questa piattaforma, che intreccia con intelligenza la realtà arcaica del museo e dei suoi assetti disciplinari con la fluidità penetrante dei moderni mezzi di comunicazione, è emerso un libro particolare, trasversale nel genere e nel tema, che abbraccia due milioni di anni e che attraversa la civiltà di quattro continenti. Possiamo affrontarlo come una summa di racconti brevi che hanno per protagonisti cento oggetti (da quelli primitivi di uso comune fino a celebri opere d’arte come la Grande onda di Hokusai), oppure come un viaggio in venti tappe dedicato all’evoluzione umana dalla fine dell’era glaciale a quella della globalizzazione; ma possiamo trattare questo libro anche come un utile strumento per guardare ai musei, al loro ruolo di accompagnarci nel cammino di comprendere chi siamo e da dove veniamo, per trovare un senso e una ragione a tutto ciò che abbiamo inventato, progettato e costruito. È una storia molto diversa da quella a cui ci hanno abituato i libri di scuola. Attraverso i manufatti il nostro pensiero è costretto a sostare anche su momenti minimi e quotidiani dell’esistenza, a coordinare epoche e aree geografiche molto distanti tra loro, a interrogarsi sul destino di grandi civiltà per le quali la parola scritta è stata un aspetto inesistente o secondario, o sulle quali pesa schiacciante il verbo e lo sguardo dei conquistatori. Dall’Africa subsahariana emerge la fierezza e il modellato finissimo di una testa di Ife, una scultura contemporanea del nostro Rinascimen-

Pagella to che fa parte di quelle scoperte epocali che sovvertirono i pregiudizi razziali degli anni trenta e che posero la Nigeria al fianco delle grandi civiltà dell’antico Occidente. Dal territorio di Sidney, uno scudo ovale in corteccia d’albero, abbandonato da un aborigeno sul litorale di Botany Bay, rammenta l’avanzata dei conquistatori britannici nel 1770. La cultura organizzativa dell’impero persiano scaturito dalle conquiste di Ciro il Grande affiora da un minuscolo cocchio in lamina d’oro del 500-300 a.C. che ci mostra l’efficienza dei mezzi di trasporto con cui i Satrapi amministravano un territorio immenso e diversificato per lingue, fedi e tradizioni. Gli oggetti sfatano anche molti luoghi comuni, come quelli sulla scrittura, che nasce essenzialmente da bisogni di registrazione commerciale e di calcolo, così come le prime monete emesse da una zecca statale, quelle coniate da Creso re di Lidia nel 600 a.C., venivano a soddisfare nuovi bisogni di affidabilità nelle compravendite. Scopriamo anche che il linguaggio della Stele di Rosetta non è più emozionante di quello in uso nella nostra burocrazia europea e che la statua del faraone egiziano Ramesse II incarna esigenze di visibilità e di propaganda non molto diverse da quelle che conosciamo nella società della comunicazione di massa. Al rovescio, l’ultimo oggetto della serie, un accumulatore di energia solare fabbricato in Cina nel 2010, ci riporta all’eterno sogno di catturare la luce e alla funzione magica che gli egizi attribuivano agli scarabei, simboli di luce, portandoli con sé nell’oltretomba. Per finire, una nota statistica. Gli oggetti provengono da una quarantina di paesi del globo e la localizzazione è facilitata dalle mappe inserite in appendice. Al primo posto svettano l’Inghilterra e la Cina con dieci oggetti, seguite da Egitto e Messico con sei e Iraq con cinque; poi Giappone, Stati Uniti, Turchia, India e Germania con quattro; Perù, Francia e Sudan con tre; Tanzania, Iran, Siria, Giava e Nigeria con due; infine tutti gli altri con un oggetto. L’Italia non c’è, se non per i riferimenti alla cultura dell’impero romano fuori dai confini della penisola. Per un refuso della traduzione anche Roma è scomparsa dall’indice dei nomi. Nell’economia del libro non significa granché, se non che forse ogni storia deve fare i conti con i pensieri dominanti del suo presente e soprattutto con la disponibilità e le ragioni dei propri archivi, siano anche quelli del museo più grande del mondo. ■ enrica.pagella@ fondazionetorinomusei.it E. Pagella è direttore di Palazzo Madama, Museo Civico d’Arte Antica di Torino


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Quaderni

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Eva-Maria Troelenberg Camminar guardando, 25 Effetto film: Umberto Mosca Django Unchained di Quentin Tarantino

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Esporre l’arte islamica e la cultura araba a Parigi Camminar guardando, 25 di

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lcune delle più importanti collezioni museali occidentali di arti islamiche sono state di recente oggetto di un profondo rinnovamento nella concezione dei loro allestimenti. Nel 2011, il Metropolitan Museum di New York ha riaperto lo storico Dipartimento di arte islamica con il nome di Galleries for the Art of the Arab Lands, Turkey, Iran, Central Asia, and Later South Asia. Il Museo di arte islamica di Berlino sta invece ancora lavorando a una nuova e ampliata presentazione delle sue collezioni, prevista per il 2019, che comporterà uno spostamento del Dipartimento nell’ala nord del Museo di Pergamo, dove occuperà entrambi i piani, comprendendo anche la monumentale facciata omayyade del palazzo di Mshatta, destinata a divenire un punto cruciale di quella “promenade archeologica” che condurrà il visitatore attraverso l’Isola dei musei. Intanto, nel settembre 2012, ha ugualmente riaperto al pubblico dopo diversi anni di chiusura il Département des arts de l’Islam del Louvre. Il nuovo allestimento era oggetto di grandi attese, dal momento che la collezione annovera alcuni dei più famosi manufatti di arti islamiche al mondo, come lo splendido bacino in ottone lavorato noto come Baptistère de Saint. Louis. Questo manufatto, insieme a un piccolo gruppo di altri oggetti di primaria importanza, vanta un’antica provenienza occidentale, testimoniando secoli di contatti tra Oriente e Occidente: appartenuto al tesoro reale della Sainte-Chapelle nel castello di Vincennes, nel 1793, con la Rivoluzione, venne portato al Louvre, divenendo una delle pietre angolari del dipartimento e stabilendo al contempo il livello di raffinata qualità per l’intera raccolta. La crescita successiva di questa raccolta riflette la storia dell’epoca coloniale, visto che molti degli oggetti esposti raggiunsero Parigi mentre la Francia era impegnata da protagonista nel Great Game per l’influenza in Oriente. È dunque un nodo cruciale come oggi una collezione di questo tipo è presentata e interpreta se stessa, per un pubblico globale e in un’epoca dove la pratica museale transculturale risulta sempre più pervasa dal discorso postcoloniale. Ogni analisi critica di questo nuovo allestimento deve inevitabilmente cominciare dall’impressionante progetto architettonico: il dipartimento è situato nella, e sotto, la Cour Visconti del Louvre, con il piano terra protetto da un notevole padiglione in vetro e metallo che copre il cortile precedentemente aperto, circondato dalle facciate del Louvre. Con il suo aspetto di ampio tessuto fluttuante, questa nuova struttura, progettata dagli architetti italiani Rudy Ricciotti e Mario Bellini insieme a Renaud Pierrard, è stata definita come un “velo” o anche un “tappeto volante”, evocando istantaneamente immagini romantiche dell’Oriente da Mille e una notte, che così di frequente hanno alimentato la fantasia europea. Peraltro, volendo usare le stesse parole degli architetti, l’intenzione era di creare un “territoire poétique” dove gli oggetti fluttuassero in uno spazio pregno di atmosfera. Questo insistere sul valore estetico dello spazio collegato all’estetica dell’oggetto singolo appare assai in linea con una particolare tradizione francese di percezione dell’“Oriente” secondo il paradigma del grand tableau, anche risalendo ad allestimenti scenici come la famosa Rue du Caire delle Esposizioni Universali.

Eva-Maria Troelenberg

Ad ogni modo, il “velo” del Louvre fa sentire la sua presenza in un modo assai sofisticato e astratto. Trovandosi sotto questo “tappeto volante”, che consente il filtrare all’interno di una cospicua quantità di luce solare parigina, il visitatore sperimenta un’atmosfera sorprendentemente sobria, che consente sia il godimento estetico degli oggetti che un loro studio accurato. Molti dei manufatti di questo settore risalgono al primo periodo islamico, legandosi con l’adiacente dipartimento di arte copta. Delle scale strette conducono giù allo spazioso piano interrato, dove hanno modo di dispiegarsi lo splendore delle arti islamiche medievali e della prima età moderna, i colori e i materiali dei tappeti, delle ceramiche, dei lavori in metallo, rilucenti a contrasto sul fondo scuro dei muri e dei pavimenti. Si tratta di un moderno tesoro, dove un oggetto come il Baptistère de Saint Louis trova posto, come una specie di primus inter pares, tra una ricchezza abbacinante di opere d’arte. Nuovamente, il presupposto principale è la presentazione d’insieme, perlopiù priva di uno stringente ordine regionale o cronologico. In questo senso, l’allestimento del Louvre prende posizione a favore di un’autonomia estetica dell’oggetto artistico, senza però insistere eccessivamente su un paradigma formalista o idealista del “capolavoro”. È un allestimento capace di sorprendere, con vantaggi specie per quei visitatori già familiari con i contesti regionali e storici. Considerando invece un pubblico più generalista, questa modalità di presentazione mostra i suoi punti deboli. Uno degli esempi più evidenti è una serie di reperti intagliati, frammenti di un minbar (pulpito per la preghiera) di epoca mamelucca, esposti come fossero singoli rilievi ornamentali di piccole dimensioni, senza che sia fornita alcuna informazione in merito alla loro appartenenza d’origine a una struttura imponente e alle funzioni proprie di un minbar, o in merito alle pratiche coloniali di privare questi minbar delle loro parti intagliate e intarsiate, destinate a essere disperse nelle collezioni e nei musei occidentali. D’altro canto, a pochi passi di distanza da questi manufatti, posta a collegamento dei due grandi spazi sotterranei del percorso espositivo, si incontra la notevole ricostruzione di un pregevole portico mamelucco: prima che il visitatore possa sperimentare questo spazio architettonico, uno schermo al plasma presenta le notizie riguardanti il viaggio di questo pezzo dal Cairo a Parigi, dove fu esposto nell’Esposizione Universale del 1889, occasione dopo la quale rimase dimenticato fino a tempi recenti. Qui è dove percepiamo infine il senso di quel meta-discorso divenuto estremamente importante nella pratica museale transculturale. Comunque, bisogna dire, sembra esservi ancora poca coscienza di una critica postcoloniale, che di necessità significherebbe una (auto)critica istituzionale. In sostanza, il nuovo dipartimento di arti islamiche del Louvre contribui-

sce con una soluzione formalmente innovativa e inusuale al panorama delle diverse modalità di esporre le arti islamiche in Europa ma, forse inevitabilmente, rimane ancora conservatore nel suo approccio, confermando così gli standard e le tradizioni dell’istituzione di cui fa parte. Benché brevemente, è utile mettere a paragone l’allestimento del Louvre con le nuove sale espositive di un’altra realtà parigina, l’Institut du Monde Arabe (Ima), ugualmente riaperte di recente, anche se sembrano aver ricevuto molta meno attenzione da parte del pubblico. Ciò può forse spiegarsi, almeno in parte, con il fatto che l’Ima, essendo un centro culturale decisamente di orientamento postcoloniale, non è generalmente considerato un museo d’arte nel senso tradizionale, partecipando dunque solo in parte al recente “boom museale” (e infatti gli oggetti qui esposti tendono a essere meno “spettacolari” in termini estetici o storico-artistici). Questi oggetti appaiono invece come illustrazioni di una narrazione culturale che è stata ridefinita con il nuovo allestimento. Il “mondo arabo” non compare qui solo come mondo islamico: anche la cultura preislamica e il ruolo delle altre religioni del Libro hanno un ruolo preminente. Benché connotato da una valenza didattica di contesto decisamente più marcata, anche questo allestimento poggia con forza sul messaggio dell’oggetto in sé, questa volta non tanto come artefatto quanto piuttosto come testimonianza culturale. In alcuni casi, ciò porta a un accostamento alquanto laconico tra pezzi di periodi assai differenti, associando, ad esempio, oggetti della prima epoca islamica con altri del XIX secolo, al fine di illustrare una particolare regola religiosa o un principio, correndo certamente il rischio di essere frainteso come una visione essenzialista e astorica del mondo arabo. Tuttavia, nella sua visione d’insieme, l’allestimento dell’Ima mette in evidenza alcuni importanti potenziali, validi per soluzioni future che sappiano procedere oltre le categorie istituzionali o canoniche già stabilite, dando conto del dibattito critico attualmente in corso a proposito della definizione stessa di “arte islamica”. Per concludere, deve anche essere sottolineato come a istituzioni differenti corrispondano differenti potenziali nella capacità di rispondere e interpretare queste dinamiche. È il vantaggio del visitatore museale, mobile e flessibile (di per sé, ovviamente, un paradigma ideale) poter mettere criticamente a paragone e combinare insieme visioni differenti dell’arte e della cultura “islamica” o “araba” piuttosto che cercare un unico, astratto, concetto ideale, che non può certo esistere in un mondo di paradigmi politici in evoluzione e di ■ pubblici in continuo movimento. troelenberg@khifi.it E.M. Troelenberg lavora presso il Kunsthistorisches Institut di Firenze

(trad. dall’inglese da Stefano de Bosio)


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Alexandre Dumas era nero di

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Django Unchained di Quentin Tarantino, con Jamie Foxx, Leonardo DiCaprio, Christoph Waltz, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Stati Uniti 2012

Quaderni

- Effetto film

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l livello di convergenza e l’equilibrio di sintesi tra gli elementi narrativi e tematici che compongono Django Unchained ha qualcosa di eccezionale. Innanzitutto è un film che certifica il processo di continua ricerca che Quentin Tarantino svolge nell’ambito dei contesti di rappresentazione sociale. Vent’anni fa era partito con i vilains di ambientazione noir di Le iene e Pulp Fiction, con Jackie Brown aveva dato spessore umano ai personaggi, ma sempre in scenari di sottoborghesia urbana, quindi con Kill Bill ha iniziato a frequentare una sorta di aristocrazia del crimine, declinata in particolare al femminile. Con Grindhouse, attraverso una variazione sul tema, ha portato a estremo compimento quel ribaltamento dei rapporti di forza basati sul primato maschile che segnavano le prime opere. Inglourious Basterds è il film in cui l’ultima ebrea sfuggita ai persecutori si trova a diretto contatto con il capo supremo e il suo stato maggiore. Qualcosa di molto simile accade in Django, dove lo schiavo in catene arriva a cenare allo stesso tavolo con il proprietario terriero più ricco e spietato. In tali percorsi del racconto, che rappresentano un curiosissimo esempio di mobilità sociale e si pongono come la variante cinematografica di quei processi di comunicazione mediale che oggi avvicinano i vip ai cittadini utenti, sicuramente risiedono alcuni dei motivi che possono spiegare l’impressionante successo popolare di quest’ultima opera. Si tratta di paradigmi che narrano la società in maniere che per qualcuno appaiono assolutamente inverosimili, ma che per le moltitudini presentano un sano valore catartico. Ed è per questa ragione che ci verrebbe da dire che prima di essere, come sempre, un film decisamente colto, Django Unchained è un film scandalosamente politico. Basti pensare alla crisi finanziaria delle banche e ai costi sociali segnati a fuoco sulla pelle della gente e molto abbiamo già detto. Tutto questo con buona pace di coloro che si soffermano sulle incongruenze legate alla rappresentazione della Storia (Spike Lee in testa, che ha sempre sofferto l’autorevolezza di Tarantino presso la comunità afroamericana) e non riconoscono il più banale dei principi cinematografici secondo cui un film sul passato riflette sempre il punto di osservazione del presente e un discorso sulle evidenze del contemporaneo. È molto evidente come il discorso di Django Unchained riguardi l’America di oggi, ma anche una chiave culturale che consente di abbracciare un intero modello di civiltà, osservato nella sua prospettiva storica (vedi l’utilizzo del tema musicale Nicaragua presente in Sotto tiro del 1983, in cui si fa riferimento al postcolonialismo novecentesco yankee in America Latina). Qui emerge il genio artistico di Tarantino, che sintetizza tutto ciò in una trovata particolare della messa in scena (l’equivalente della bara a rimorchio del Django originale di Sergio Corbucci, 1966): un enorme “dente” di cartapesta che oscilla sulla carrozza del cacciatore di taglie, dente che a sua volta contiene uno sportello a forma di “occhio” funzionante come cassaforte per le banconote. Si tratta della trasformazione in un’esilarante invenzione scenografica dell’assunto più celebre di origine biblica. A un guardiano di schiavi che dispensa frustate recitando la Bibbia fa da controcanto l’osservazione del dottor King Schulz che afferma

di non vedere grosse differenze tra il commercio di schiavi e il commercio di cadaveri, che egli allegramente pratica: infatti sempre si tratta di carne in cambio di contanti. E così si spiega anche perché, nell’ultima parte del film, il ritratto del bandito Smitty Bacall stampato su un manifesto del tribunale assomigli in modo impressionante a quello di Abramo Lincoln. L’abolizionismo ha altrettante motivazioni economiche della schiavitù: gli afroamericani devono essere liberati dalle piantagioni del Sud perché servono come mano d’opera per l’industria che sta nascendo nel Nord. Ecco perché andare a spaccarsi la schiena in una miniera fino alla morte diventerebbe per Django una sorte più terribile dell’evirazione.

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ortuna che a un certo punto entra in scena Tarantino in persona, in una delle sue solite apparizioni da mentecatto, anche se ben presto si fa saltare in aria, come autopunizione per aver affermato la cosa più politicamente scorretta dell’intero film. Gli americani realizzano i traffici più loschi in modo estremamente elegante, facendo sempre molta attenzione a non violare i diritti e le leggi (Schulz non manca mai di sottolineare di avere la legge dalla sua). Non è un caso che a fare la fine del povero Mr. Orange delle Iene, costretto a morire dissanguato per scandire come una clessidra il tempo che passa, qui sia l’avvocato di Candie, che nella sparatoria liberatoria all’interno della Grande Casa diventa il bersaglio infinito di tutte le pallottole che transitano nelle stanze: è lui quello che deve espiare di più. È lui, con la sua ipocrita e pavida cortesia, a meritarsi il maggior numero di proiettili secondo Tarantino. Proprio grazie alla sua esagerata sottolineatura, attraverso lo sguardo dell’arte la violenza diventa uno strumento di straordinaria potenza simbolica, come la storia della letteratura e del teatro ci insegnano. La filmografia dell’autore è piena zeppa di situazioni divertenti cui si può attingere al momento giusto per continuare a sorprendere lo spettatore: allo stesso modo con cui in Pulp Fiction Samuel Jackson faceva fuori il giovane che lo aveva fregato sparandogli distrattamente, qui in un attimo Django toglie di mezzo la sorella di Candie, Lara Lee, che sul letto di morte del fratello non ha perso l’innato senso per gli affari e lo sfruttamento, scegliendo di vendere il protagonista alla compagnia mineraria. È il denaro il motore di tutte le azioni, lo stesso che acceca gli uomini del Ku Kux Klan con i cappucci scomodi per la vista, dopo che nella scena precedente il malloppo della taglia era stato inserito nel buco del dente a forma di occhio (anche la vendetta ha le sue ragioni economiche). La complessità testuale delle immagini create da Tarantino è stupefacente e la leggerezza da Bmovie è il travestimento più astuto per costruire i discorsi più audaci e sfrontati. Oggi l’autore cinematografico che funziona di più presso il grande pubblico è quello che riesce sempre a dare l’impressione che ci stia nascondendo qualcosa e che non ce la stia dicendo giusta. La forza del brand Tarantino continua a funzionare e anzi ad accrescersi in funzione dell’originalità che riesce a sprigionare, e ogni volta la quantità deve essere maggiore. Attenzione, però, perché è la coerenza del

discorso a fare la differenza, la sceneggiatura deve essere un meccanismo perfetto, nessun dettaglio può girare a vuoto. La sintesi tra diverse mitologie diventa la chiave vincente per garantire al film il respiro più ampio in cui dilatare temi e intuizioni in una rappresentazione di sapore epico. Cosa c’è di più provocatorio per i razzisti occidentali di immaginare il mito dei Nibelunghi interpretato da protagonisti con la pelle scura? Broomhilda von Shaft diventa la donna da liberare e la montagna stregata in cui viene tenuta prigioniera è una piantagione di schiavi. Dopo aver citato Spielberg mandando al rogo i nazisti all’interno di un cinema come succedeva loro di fronte all’Arca dell’alleanza scoperchiata del primo Indiana Jones, Tarantino fa un bel falò anche con quelli del KKK, ma implicitamente ci propone un confronto con il Lincoln che per un paio di settimane gli ha conteso il primato di spettatori. Il cinema di Tarantino non è semplicemente la somma dei film che ha visto e lo hanno colpito, ma la loro moltiplicazione. E se la voce di Jim Croce che canta I Got a Name arriva a evocare il western degli anni settanta della New Hollywood e le scene sotto la neve di Corvo rosso non avrai il mio scalpo di Pollack e di I compari di Altman, la complessa identità di una storia del cinema radicalmente rivisitata esplode in tutta la sua visionarietà nel finale di Django Unchained, dove a bruciare di rosso acceso dietro alle spalle dei sopravvissuti non è soltanto più Atlanta, come in Via col vento, ma Tara, la piantagione stessa.

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andieland deve bruciare fino in fondo andando all’inferno, con i suoi proprietari ossessionati dai riti dell’ospitalità e delle buone maniere, ma anche con le figure luciferine che hanno partecipato al sistema, dal bianco Mr. Stone “cypher” che fa sbranare dai cani gli schiavi fuggiaschi alla scimmia di casa, il negro dagli occhi di brace che ricorda ogni forma di collaborazionismo. Questo è il linguaggio del cinema, colto e popolare insieme, come ci ricorda l’immagine con l’ombra di Django/Sigfrido che si staglia sulla parete bianca nella scena della liberazione di Broonilde (a proposito: che sia d’esempio la grazia e la delicatezza antiscopofile con cui Tarantino disegna le violenze subite dal personaggio femminile). Alexandre Dumas? Era nero, afferma King Schulz di fronte a uno sbigottito Calvin Candie, riprendendo l’esilarante provocazione antirazzista di Dennis Hopper a Christopher Walken in Una vita al massimo, la prima sceneggiatura di Tarantino. Come farà lo spettatore a sopravvivere al film dopo l’uscita di scena di Christoph Waltz, con cui peraltro Tarantino ha cercato di superare il personaggio di Bastardi senza gloria, anche evocando i Django del western tedesco prodotti dopo il successo di quello di Corbucci? È questa l’ennesima sfida interculturale lanciata dal regista di Knoxville, là dove Margareth Mitchell lascia il posto a Continuavano a chiamarlo Trinità e il cannocchiale di Django diventa la memoria dei senti■ menti di tutti. umberto.mosca@yahoo.it U. Mosca è critico cinematografico


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Schede

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Letterature Fumetti Fantascienza Storia Città

Letterature Eliette Abécassis, LIETO EVENTO, ed. orig. 2005, trad. dal francese di Maria Laura Vanorio, pp. 159, € 16, Marsilio, Venezia 2012 Il breve e intenso romanzo di Eliette Abécassis è prima di tutto la storia di uno stereotipo, quello del lieto evento per l’appunto, dell’amore di coppia, di Parigi, dell’essere giovani ribelli e artisti e poi maturi e responsabili genitori. All’interno di questo cliché si muovono le prime pagine del libro, a tratti compiaciute quanto innegabilmente precise, che descrivono le strade del Marais di Parigi in cui vivono i due giovani protagonisti, coppia bobo in attesa di una figlia. E sarà proprio la nascita della bambina a far saltare quell’equilibrio che, se in parte è alimentato da una grande passione amorosa, è anche fortemente segnato da una superficialità patinata che non può reggere l’urto con la maternità. La protagonista racconta in prima persona il proprio cambiamento: diventare madre scardina ogni sicurezza e ne pretende di nuove. Il rapporto simbiotico con la bambina è descritto a tratti drammaticamente, nulla può più essere accomodato, la maternità richiede precisione, attenzione e dedizione totale e si pone come unico punto fisso di una famiglia ormai incapace di proporre modelli e figure stabili. Quello di Abécassis è il romanzo di una rincorsa impossibile tra desiderio e bisogno, tra la precisione di un neonato e la precarietà di una madre sempre inesperta, sempre in errore. Convivere con quell’errore, accettarlo e misurarcisi è la priorità, l’unica sicurezza possibile a cui la giovane protagonista può aggrapparsi. In equilibrio tra commedia e dramma, Abécassis racconta con attenzione e cura la più comune delle storie e anche la più inedita: criticata e discussa, riesce a reinterpretare il tema della maternità con grande arguzia letteraria. Nulla viene smarrito in una storia densa capace di attirare a sé la natura contorta e contraddittoria di un’epoca tanto ricca quanto perennemente in crisi.

GIACOMO GIOSSI

Ljudmila Ulickaja, IN QUEL CORTILE DI MOSCA, ed. orig. 2011, trad. dal russo di Raffaella Belletti, pp. 137, € 9, e/o, Roma 2012 Sette figure femminili, sette destini; un solo ambiente: i cortili delle vecchie case moscovite; e un orizzonte: l’ostinata sopravvivenza della vita russo-ebraica. È questa una schematizzazione che permette di cogliere ordine e contenuto della presente raccolta di brevi racconti di Ljudmila Ulickaja; ma la tacita profondità che pervade la lettura, ci porta a scoprire molto altro: la sommessa intimità del destino delle protagoniste. Così la lungimirante ebrea uzbeka Buchara organizza la vita della figlia malata: il secolare, sapienziale sincretismo culturale dei popoli centro-asiatici si dimostra capace di risolvere anche problemi della società e della famiglia attuali. Le continue e misteriose gravidanze della mite e placida Bron’ka vengono spiegate a distanza di anni dalla stessa alla più cara amica d’un tempo, che così scopre l’amara sfumatura della banalità della sua vita. Le paranoiche abitudini di Genele palesano la volontà di vivere secondo dettami consolidati e soprattutto una segreta lotta contro l’ipocrisia, l’egoismo dei parenti. Il sussidio mensile di Asja, ricevuto dalla cugina, allarga l’attenzione sull’ambiguità dei preconcetti nei rapporti familiari. Infine, con Zinaida si scorge una sconcertante prospettiva di vita, vista però come soluzione in una società dove il massimalismo religioso può aiutare chi lo stato ha invece dimenticato. Oltre al peso della Storia che vincola e opprime, in ogni narrazione un senso di solitudine pervade gli animi delle protagoniste. Tutte le azioni si possono leggere proprio come conseguenze della solitudine, o tentativi per fronteggiarla. Ma Ulickaja ammanta tutto con dolci pennellate di lirismo ora malinconico, ora disincantato, ora autoironico: con sincera partecipazione gestisce il teatro della vita di queste donne commoventi.

FRANCESCO BIGO

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W. G. Sebald, SOGGIORNO IN UNA CASA DI CAMPAGNA. SU GOTTFRIED KELLER, JOHANN PETER HEBEL, ROBERT WALSER E ALTRI, ed. orig. 1998, trad. dal tedesco di Ada Vigliani, pp. 155, € 18, Adelphi, Milano 2012 Nella prosa di W. G. Sebald (1944-2001), che ha rappresentato negli ultimi due decenni un importante punto di riferimento stilistico e concettuale per alcuni tra i più interessanti autori contemporanei, si mescolano in modo perfetto narrazione e riflessione critica, quasi sempre associate a un apparato iconografico di intensa potenza evocativa. In questa esperienza letteraria ricorre ossessivamente la figura del viandante, che assume di volta in volta diverse connotazioni, ponendosi di solito in una posizione periferica rispetto agli altri personaggi che si affacciano nelle opere. In questa significativa scelta di saggi critici risulta evidente l’impegno di Sebald a difesa del lavoro intellettuale e dei diritti umani: un’ulteriore prova della grandezza di quest’autore, di cui la traduttrice Ada Vigliani restituisce qui impeccabilmente il pensiero. Compagni di strada nell’intreccio tra la poetica dell’idillio e il clima elegiaco prodotto dalla percezione di un’incombente catastrofe, sono tre scrittori di lingua tedesca. Interpreti della cultura europea del XIX e del XX secolo, essi interessano a Sebald in quanto vittime di quella sorta di “coazione a scrivere” che li ha costretti a barattare la loro libertà con l’isolamento, radi-

Le immagini della sezione SCHEDE sono di Franco Matticchio candoli saldamente nella cultura contadina: l’alemanno Johann Peter Hebel, pastore protestante e autore di “storie di calendario” che hanno improntato la cultura popolare di varie generazioni di tedeschi; Gottfried Keller, svizzero, interprete della Land und Dorfkultur del realismo della seconda metà dell’Ottocento; Robert Walser, anch’egli svizzero, che ha fatto della “passeggiata” il fulcro della propria esperienza poetica ed esistenziale. Tutti hanno opposto ferma resistenza ai processi incalzanti della trasformazione socioeconomica dei due secoli trascorsi, accompagnata da un brutale sviluppo tecnologico. Il genius loci di questo itinerario è Jean-Jacques Rousseau, cui è dedicato il secondo testo, il quale nel 1765, per sfuggire alla condanna di Parigi per comportamento sovversivo, si rifugiò in Svizzera sul lago di Bienne; qui concepì il noto Progetto di Costituzione per la Corsica, che avrebbe dovuto regolare secondo principi democratici un paese ansioso di conservare l’appena conquistata indipendenza.

ELENA AGAZZI

Lou Andreas-Salomé, RAINER MARIA RILKE. UN INCONTRO, ed. orig. 1928, trad. dal tedesco di Chiara Allegra, postfaz. di Amelia Valtolina, pp. 115, € 13, Se, Milano 2012 Quando Lou Andreas-Salomé pubblica questo omaggio a Rainer Maria Rilke, scomparso nel 1926, la loro relazione amorosa era ormai finita da più di vent’anni, ma a essa si era sostituito quel forte rapporto che si era venuto a creare tra i due dopo l’improvvisa e per Rilke traumatica separazione. Del fatto che non si trattò mai di un vero distacco testimoniano tanto il loro intenso carteggio, quanto il titolo di questo testo. I ricordi che s’intrecciano ai passi delle lettere e ai versi di Rilke permettono a Luo di delineare i tratti di una personalità già singolare che lei stessa contribuì a forgiare. Il

giovane René, infatti, ancora agli esordi, fu ribattezzato Rainer proprio dalla sua amica, che riteneva il nome più maschile e germanico, adatto quindi a conferirgli maggiore credibilità. In questo racconto poetico, dai tratti dialogici, Lou racconta il suo Rainer, così come appariva un tempo ai suoi occhi di amante e, all’epoca della stesura, nel silenzio di un’assenza fonte di una luce nuova, proveniente da quello spazio dell’anima che attraverso la morte riconduce alla vita. Intessendo delle conversazioni virtuali con i suoi stessi scritti, Lou ripercorre i temi esistenziali di Rilke, dal confronto con un Dio dai tratti indefiniti che successivamente assume quelli dell’angelo, al rapporto con l’arte e al dissidio tra corpo e anima, fino all’esoterismo che spinse il poeta al limite del dicibile. Il testo non rappresenta un’autobiografia ma piuttosto un dialogo ininterrotto con una figura ineludibile, costituendosi al contempo come resa concreta proprio di quel messaggio di inscindibilità di vita e morte di cui Rilke si era sempre fatto portatore.

ALESSANDRA BASILE

Thomas Bernhard, GOETHE MUORE, ed. orig. 1982, trad. dal tedesco di Elisabetta Dell’Anna Ciancia, pp. 111, € 11, Adelphi, Milano 2013 Il libro raccoglie le ultime quattro stoccate del noto autore austriaco, scomparso nel 1989. Pubblicato nel marzo 1982 su “Die Zeit” per il 150° anniversario della morte di Goethe, il racconto del titolo di copertina irride fin dalla grafia scorretta (Goethe schtirbt) il nume tutelare della letteratura tedesca. Il “Genio” è infatti ritratto “più o meno immobile nel suo letto di morte, con lo sguardo sempre rivolto alla finestra” da un io narrante incline allo sberleffo, che a sua volta riferisce di biliose, apodittiche battute captate dai segretari dell’Immortale, Riemer e Kräuter, peraltro in sotterraneo dissidio tra di loro. Siamo dunque di fronte a una di quelle spirali, sgranate nel discorso indiretto e dense di incisi, care a Bernhard. In questa struttura a doppio fondo l’autore colloca il secondo dispositivo dissacrante, una sorta di ucronia che accoppia Goethe e Wittgenstein, assegnando al Genio un ultimo insopprimibile desiderio, quello appunto di accogliere il filosofo a Weimar. Ecco allora tutto un trapestio di pellicce calate dai guardaroba del poeta, “una ventina circa” compresa quella della bisnonna Cornelia, per spedire nell’inverno londinese lo sgomento Kräuter, latore di un invito per il 22 marzo, giorno del decesso di Goethe. In una girandola continua di allusioni ai diversi luoghi e personaggi del tempo (una chicca per i germanisti), la maschera mortuaria del poeta appare contratta da un ghigno sprezzante che investe i grandi amori trascorsi, carnali e intellettuali, ma con la quale lo stesso Bernhard, ammiratore di Wittgenstein come si già si leggeva in Korrektur (1975), sotto sotto si identifica, tanto da mettere in bocca a Goethe gustose particelle del Tractatus. Netta anche la simpatia per Montaigne: il protagonista del racconto eponimo si rintana nella lettura dei suoi saggi, in fuga dalla gabbia familiare e da una pedagogia genitoriale annichilente, incardinata nei rituali tipicamente austriaci, bersaglio di una scrittura che deborda in esiti comicamente paradossali: si veda la parodia della gita domenicale nell’idillio alpino stile vecchio scarpone, qui corredato con tanto di Bibbia, tromba e cetra appese allo zaino. E come non c’è salvezza per una Heimat popolata di avidi affaristi, così a chi narra, ormai “murato senza scampo” non resta che aspettare l’ora in cui tutti saranno “definitivamente soffocati”. A meno di non agire per tempo, incenerendo quel mondo di “cattolici nazionalsocialisti odiatori di ebrei e stranieri”, come capita nell’ultimo frammento incompiuto con l’immagine onirica del rogo che incendia un’Austria “falsa, volgare e abietta”. Sulla quale tuttavia il pendolo della memoria, con il suo moto inarrestabile, continuerà a battere. Ma in desolato sogno.

ANNA CHIARLONI


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Schede

- Fantascienza

Schede

- Fumetti

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FUMETTO! 150 ANNI DI STORIE ITALIANE a cura di Gianni Bono e Matteo Stefanelli, pp. 520, € 60, Rizzoli, Milano 2012 Il fumetto italiano meritava da tempo un’opera di questa portata, in grado di ripercorrere temi, autori, editori e riviste con un taglio tra l’approfondimento saggistico e la completezza enciclopedica. Avvalendosi della collaborazione di un nutrito gruppo di validi autori, Bono e Stefanelli tracciano il divenire della narrazione grafica in Italia a partire dalla metà dell’800 fino alle riviste indipendenti di questi ultimi anni. La struttura dell’opera è molto ben congegnata: ogni periodo storico è introdotto da un saggio seguito dalle biografie degli autori principali. A coronare l’insieme, una serie di brevi testi di approfondimento su aspetti che vanno dal rapporto tra comics, letteratura e arti visive agli “archivi dispersi del fumetto italiano”. Tra gli aspetti più interessanti di questa storia enciclopedica del fumetto italiano vi è sicuramente il primo capitolo L’avventurosa unità d’Italia, interamente dedicato al diciannovesimo secolo. La tradizione, infatti, tendeva a stabilire come data di nascita del fumetto italiano il 1908, anno in cui veniva pubblicato il primo numero del “Corriere dei Piccoli”; i curatori, invece, risalgono nel tempo fino alle riviste satiriche militanti del 1848 che, se non possono ancora essere definite veri e propri fumetti, sono comunque narrazioni grafiche di grande interesse per gli storici e gli appassionati di arte sequenziale. L’opera nel suo complesso resterà sicuramente una pietra miliare negli anni a venire. Un unico appunto: le numerose immagini che corredano il testo e che riproducono pagine tratte dalle diverse opere spesso sono volutamente tagliate per mettere meglio in luce alcuni elementi grafici o strutturali. La scelta è sicuramente coraggiosa e suggestiva,

Ray Bradbury, ORA E PER SEMPRE, ed. orig. 2007, trad. dall’inglese di Tania Di Bernardo, pp. 176, € 10, Mondadori, Milano 2012 Vi stupirete un po’, una volta chiuso questo libro. Quello che avete tra le mani non è un vecchio “Urania” degli anni cinquanta, in copertina un disegno di Karel Thole dentro un cerchio rosso, le pagine ingiallite e un inconfondibile odore di cantina; no: è uscito proprio quest’anno, sempre per Mondadori, ed è persino disponibile in e-book. Però vi riesce difficile crederci, vista l’atmosfera rétro che permea la raccolta “postuma” (da noi, negli Stati Uniti invece è uscita nel 2007) Ora e per sempre di Ray Bradbury. Non siete proprio riusciti a trattenere un sorriso, per esempio, quando avete incontrato la parola “razzo”, e un po’ vi sarete commossi quando avete letto le pagine introduttive ai racconti, in cui Bradbury espone la loro genesi: perché è così che facevano gli autori di fantascienza della golden age, spendevano sempre due righe per spiegarvi da dove nascevano i loro racconti, e non si può non provare un grande rispetto di fronte all’umiltà di questi scrittori. Quelli di Ora e per sempre sono due racconti ai quali Bradbury ha lavorato per più di trent’anni. “Alcune storie” – ci spiega l’autore in una delle due introduzioni – rimbalzano da un evento all’altro per una vita intera e soltanto molto tardi si assemblano a formare un tutt’uno”. Nel primo, Da qualche parte suona un’orche-

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eppure può risultare irritante una tavola riprodotta per due terzi con le figure e le scritte tagliate a metà. Mi chiedo se non sarebbe stato forse meglio non sacrificare il piacere della lettura, fosse anche di un’unica tavola o di una semplice vignetta.

CHIARA BONGIOVANNI

Luca Raffaelli, ENRICHETTO COSIMO ALLA RICERCA DEL MANGA MANGANTE, ill. di Andrea Cavallini, pp. 206, € 12, Einaudi, Torino 2012 Chi prende in mano questo artefatto ben cartonato e tipograficamente rifinito

e comincia a leggere può trovarsi quasi a sua insaputa a voltare le pagine una dopo l’altra prima incuriosito e sorpreso, poi affascinato dalla stravaganza della vicenda raccontata (il contenuto) e dalla inusualità con cui è scritta e disegnata (la forma). Non è la risposta italiana al (divertente) diario di una schiappa americana, come è stato detto, ma qualcosa di diverso. Quella è un’ordinaria storia di

strina, il giovane giornalista James Cardiff, ispirato da una poesia, sale su un treno e scende alla stazione di Summerton, un paesino nel bel mezzo del nulla. Ma perché non ci sono né asili né scuole né ospedali? Dove sono tutti i bambini? E gli abitanti, perché non si ammalano, non invecchiano e non muoiono? Il secondo, Leviatano ’99, è una trasposizione in chiave space opera del Moby Dick di Melville: il giovane Ismaele Hannicut Jones, fresco di accademia per astronauti, si imbarca sul razzo Cetus 9 per una missione di cui non sa nulla. Il capitano dell’astronave, però, è un folle ossessionato da una cometa, e condurrà il suo equipaggio in un’impresa suicida. Non si possono non riconoscere molte tematiche care all’autore, come il potere immortale dei libri, o il desiderio per il ritorno a una vita rurale, o, più nello specifico, l’amore per un’America ancestrale, ma spesso il linguaggio prende il sopravvento sulla storia, producendo pagine confuse come l’imbarazzante “spiegone finale” che rivela il mistero di Da qualche parte suona un’orchestrina, o i deliri pseudoteologici del capitano del Cetus 9. Solo per collezionisti, verrebbe da dire. L’appassionato potrebbe rimanerne deluso, mentre chi non ha mai letto Bradbury non è da qui che deve partire. Le pagine memorabili di Bradbury sono altrove, in un altro tempo, inutile stare a elencarle; spiace dirlo, ma non sono in Ora e per sempre.

MARCO LAZZAROTTO

un ordinario ragazzetto alle prese con i normali problemi della sua età. Questo è un avventuroso e surreale viaggio in Giappone del tredicenne (pseudo)eroe eponimo con un’amica che va sempre subito al sodo senza troppa maionese e un amico che filosofeggia sui peli del naso, alla ricerca di un fumetto cult per evitare di essere massacrato da un bullo cultore di quel manga, incontrando e scontrandosi con i più schizzati personaggi, affrontando le più bizzarre situazioni, in un vorticoso susseguirsi di sorprese, trovate, rivelazioni e persino agnizioni feuilletonistiche. Con un linguaggio comicissimo per le strampalaggini e i giochi di parole che sono stravolgimenti della realtà, i tormentoni che sono coazioni a ripetere rotti da fulminanti improvvisazioni, i non-sense che non alludono proprio a nessun doppio o sotto-senso ma aprono alla pura gioia del divertimento fine a se stesso. Enrichetto Cosimo è una specie di Alice dei nostri giorni al maschile, ma da un certo punto in poi lo vediamo, per esigenze narrative e scenografiche, stabilmente acconciato con bigodini, nastri e pantofole di plastica verde da donna con tacco. Tutto questo può piacere ai ragazzi? C’è da scommettere di sì. L’affastellamento di inverosimili invenzioni e colpi di scena e di linguaggio è fatto apposta per piacere, divertire, far ridere e sghignazzare: basti pensare allo stupidissimo giochino del mangante che altro non è che una deformazione di mancante in assonanza con manga. Luca Raffaelli, uno dei massimi studiosi esperti di fumetti e animazione, ha cercato e trovato un’innovativa terza via fra libro scritto e fumetto, del quale adotta anche il lettering, in perfetta simbiosi con Andrea Cavallini, illustratore e copertinista davvero creativo (absit iniuria verbis).

Il 17 settembre 1948, in un sobborgo di Gerusalemme, la “Banda Stern” (o meglio: ciò che ne resta) sta per compiere la sua ultima “azione”: l’omicidio di Folke Bernadotte, mediatore delle Nazioni Unite nella controversia israelo-palestinese. Un commando di quattro uomini attende lungo la strada il passaggio del convoglio di Bernadotte; e questa attesa, drammaturgicamente, è l’artificio di cui si serve Luca Enoch per fornirsi di un narratore. Incalzato dalle domande del neofita Zingar, Yehousua “Avner” Cohen inizia a raccontare la storia del Lohamei Herut Israel (o Lehi), la più sparuta, ma anche la più estremistica, delle organizzazioni militari clandestine che fino a quegli anni hanno combattuto per la creazione di uno Stato di Israele, utilizzando lo strumento del terrorismo. Avner ripercorre così la storia di un decennio di colpi, omicidi, attentati; ovviamente a cominciare da “lui”: Avraham “Yair” Stern, fondatore e ideologo (nel senso peggiore del termine) dell’organizzazione, che finì per essere indicata come “Banda Stern”; colui che, per liberare dagli inglesi la terra che Jahvè lasciò al suo popolo, tentò ripetutamente di allearsi con Hitler. Già. Interessantissima, dunque, l’operazione di Enoch, che attira la nostra attenzione su un luogo imbarazzante (e pertanto trascurato) della Storia. Qualcosa in più si poteva fare per avvicinare il lettore. L’introduzione di Claudio Vercelli ha forse un taglio troppo “dotto”, e non prepara alla lettura quanto fanno un paio di voci di Wikipedia. Il glossario è più scarno di quanto si vorrebbe, e in alcuni casi non coerente con il testo. Anche un piccolo ma funesto errore di lettering (a p. 18, dove si legge 1948 anziché 1938) spiazza il lettore, che subito dopo un salto indietro nel tempo di dieci anni crede di essere tornato al “presente” delle prime tavole. Il disegno stesso di Claudio Stassi, motivatamente brusco e graffiato, richiede a volte un certo lavoro di “interpretazione”, necessario per riconoscere personaggi e ricostruire piani e ambienti. Ma il libro merita comunque l’impegno necessario a superare queste (e altre) “asperità”. Anche se spinge all’esercizio della discutibile arte del fare le pulci.

FERNANDO ROTONDO

PAOLO VINÇON

Stanisl/aw Lem, SOLARIS, ed. orig. 1961, a cura di Francesco M. Cataluccio, trad. dal polacco di Vera Verdiani, pp. 317, € 14, Sellerio, Palermo 2013

greto, è la rappresentazione letteraria di nuove teorie che allora andavano imponendosi sul rapporto tra psiche e natura, ipotizzate dal fisico austriaco Wolfgang Ernst Pauli. Ovvero la scoperta dei neutrini, responsabili della scomparsa definitiva della moglie dell’astronauta, come è descritta da Lem in grandioso passo finale: “Lo sguardo fisso nel vuoto,

Molte traduzioni della più nota tra le opere del polacco Stanisl/aw Lem si sono avvicendate, negli anni, in Italia. Diverse case editrici, specialistiche e non, hanno offerto un testo che però non si è mai basato sull’originale del 1961. Questo presentato da Sellerio per le cure di Francesco Cataluccio è finalmente la versione integrale, compiuta, come uscì dalla mente di uno stravagante scrittore, esperto di cibernetica, filosovietico ma capace di un fondo d’ironia che lo portò sempre a superare i limiti del genere della fantascienza convenzionale. Classificato come romanzo di fantascienza filosofica, Solaris è stato portato al cinema da Andrej Tarkovskij, in una versione molto spinta sul pedale della metafisica, e di recente da Steven Soderbergh, che invece banalizza la vicenda stilizzandola in una storia d’amore drammatica. In verità il testo contiene molto di più: l’arrivo dello psichiatra sul pianeta Solaris, dove misteriosamente un oceano violaceo di neutrini trasforma in creature reali le proiezioni e i desideri dei suoi visitatori, sovvertendo gli equilibri fino a ridurre alla follia o all’alcolismo chi cerca di carpirne il se-

Luca Enoch e Claudio Stassi, LA BANDA STERN, pp. 136, € 16, Rizzoli, Milano 2012

sprofondavo in zone che avrei creduto inaccessibili: pervaso da una sorta d’inerzia e di crescente perdita d’identità, mi immedesimavo in quel fluido, cieco colosso, come se, senza una parola e senza pensarci, gli perdonassi ogni cosa”.

CAMILLA VALLETTI


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N. 3

Carlo Antoni, DELLA STORIA D’ITALIA, introd. di Giuseppe Galasso, pp. 69, € 9, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012 Tra gli interpreti del pensiero crociano Carlo Antoni (1896-1959) può essere considerato il più originale. In lui l’intrinseca fedeltà allo storicismo assoluto non è mai l’osservanza di un catechismo, ma un lievito fecondo per intendere meglio i problemi del suo tempo e proporre risposte adeguate. Il saggio che viene adesso riproposto all’attenzione del pubblico non è un contributo a carattere filosofico, come in genere gli scritti di Antoni, ma un testo di argomento storico. Per intenderne il significato occorre guardare, anzitutto, al momento in cui fu composto. Pubblicato clandestinamente nel 1943, come primo dei “Quaderni del movimento liberale italiano”, lo scritto è una riflessione sulla storia d’Italia sollecitata dalle drammatiche vicende della guerra e dalla prospettiva di una ripresa della vita libera. In questo senso il saggio si può collocare nella vasta produzione pubblicistica che, dopo la fine del fascismo, ridiscute la vicenda storica del nostro paese. Tuttavia, a differenza di molti altri autori, Antoni non ritiene che le radici del fascismo vadano ricercate nelle insufficienze del processo unitario. Al contrario, la valutazione del Risorgimento è sostanzialmente positiva e così anche quella del sessantennio liberale, per quanto non scevra di rilievi critici. Le insufficienze sono riportate, invece, alla lunga durata. A tal proposito sarà sufficiente richiamare il giudizio sulla vicenda dei comuni, considerati da Antoni organismi devastati da lotte di fazioni e tendenzialmente portati a una politica vessatoria sul contado circostante. Come si osserva giustamente nell’introduzione, il saggio non va valutato come un sereno contributo storiografico, bensì come un documento politico scritto in circostanze drammatiche, che si apprezza per la lucida tensione che lo attraversa.

MAURIZIO GRIFFO

Carlo Collodi, QUATTRO UOMINI DEL RISORGIMENTO, introd. di Davide Bronzuoli, pp. 80, € 9, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012 Se, nel 1876, il ministro degli Interni (il “famigerato” Nicotera), con una diffida, non gli avesse impedito di scrivere articoli politici, Carlo Lorenzini avrebbe probabilmente continuato la sua attività di giornalista, non sarebbe diventato uno scrittore di libri per ragazzi e noi non avremmo avuto quel capolavoro che è Pinocchio. Le astuzie della storia, però, non esauriscono il tema della personalità di Collodi e delle sue idee politiche. Per inquadrare queste e quella risultano assai utili gli articoli ristam-

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pati in questo libretto. Si tratta di quattro brevi ritratti di personalità eminenti del Risorgimento, composti probabilmente nel 1880. Abbiamo, nell’ordine: Bettino Ricasoli, Camillo Cavour, Luigi Carlo Farini, Daniele Manin. La scelta non è casuale, il panorama biografico delineato dallo scrittore toscano trasmette un’idea del Risorgimento in cui gli obiettivi dell’unità e dell’indipendenza fanno ampiamente premio su altre considerazioni. In altri termini, nell’opzione di Collodi si rispecchia indirettamente una parabola politica individuale (che, a sua volta, risulta anche tipica della sua generazione). Patriota appassionato, combattente nella prima e nella seconda guerra d’Indipendenza, Lorenzini, partito da posizioni mazziniane, dopo i ripetuti fallimenti insurrezionali (e soprattutto a seguito della spedizione di Pisacane a Sapri), si convince che, per raggiungere l’unificazione, è preferibile lasciare da parte la pregiudiziale antimonarchica e accettare la leadership piemontese. Si tratta di un atteggiamento che troviamo sintetizzato esemplarmente in questo suo giudizio sull’indipendenza italiana: “Iniziata dalla mente creatrice di Cavour e compiuta da Vittorio Emanuele nel 1870 con la conquista di Roma, la capitale intangibile degli italiani”.

(M.G.)

Alfio Caruso, LA BATTAGLIA DI STALINGRADO, pp. 155, € 11,60, Longanesi, Milano 2012 “Non contate i giorni, non contate i chilometri. Contate solo il numero di tedeschi che avete ucciso. Uccidete i tedeschi, è la preghiera di vostra madre. Uccidete i tedeschi, è il grido del vostro cuore russo. Non esitate. Non rinunciate. Uccidete”. Così il poeta Ilja Ehrenburg, sul giornale “Stella Rossa”, durante la fase più drammatica dell’assalto nazista all’Unione Sovietica, quando, per mantenere la disciplina davanti al più forte esercito del mondo ormai alle porte, si giunse a fucilare più di tredicimila soldati sovietici, per diserzione o resa prematura. Malgrado si legga di un Hitler “alla ricerca di una Termopoli nazista” (trattavasi di Termopili), il nuovo volumetto divulgativo di Alfio Caruso si vale di un gran ritmo, sorretto da utili mappe relative alle varie tappe del fallito assedio. Ad alternarsi sulla scena sono i protagonisti di un colossale braccio di ferro, dell’una e dell’altra parte. I meglio tratteggiati sono i nazisti: Hans Hube, “il generale dalla mano monca”, “l’incazzoso” von Reichenau, Schmidt, “il servo più disgustoso di Hitler”, poi von Paulus e von Seydlitz con i loro contrasti, i cadaveri dei soldati tedeschi, cui vengono sfilati insieme scarponi e piedi congelati, i cani che si gettano nel Volga. Coerentemente con l’impianto e le finalità dell’opera, le fonti privilegiate sono

Michela Ponzani, GUERRA ALLE DONNE. PARTIGIANE, VITTIME DI STUPRO, “AMANTI DEL NEMICO” 1940-45, pp. XVI-320, € 25, Einaudi, Torino 2012 Michela Ponzani, giovane ricercatrice che ha già alle spalle una serie di importanti pubblicazioni relative alla Resistenza e all’Italia repubblicana, dopo aver curato il libro di Rosario Bentivegna, Senza fare di necessità virtù, si occupa in questo volume delle donne italiane durante il secondo conflitto mondiale. L’autrice si avvale prevalentemente di due archivi: il primo attinge alle memorie di guerra, rielaborate dagli stessi protagonisti, a distanza di cinquant’anni dai fatti. L’occasione che ha consentito di recuperare questa documentazione è stata offerta da una trasmissione di Rai Tre, La mia guerra, affidata alla conduzione di Enza Sampò e Leo Benvenuti, con la consulenza storica di Giovanni De Luna, e andata in onda nel 1990. Questo materiale è stato in seguito depositato presso l’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia. Il secondo è l’Archivio della Memoria delle donne del Dipartimento di Discipli-

quelle della memorialistica. Forse tuttavia, a chi voglia comprendere Stalingrado, basta l’ineguagliato capolavoro di Vassilij Grossman, Vita e destino, qui non citato, dove, a spiegare l’eroica resistenza russa, si legge che “la forza della rivoluzione si era alleata alla paura della morte, al terrore delle torture, all’angoscia di chi sentiva addosso il respiro del lager”.

del Pli. Il libro di Nicolosi colma così una lacuna storiografica e contribuisce a raddrizzare un’interpretazione ormai datata, come quella che considera marginale il ruolo svolto dal liberalismo organizzato nella fase di costruzione della Repubblica.

DANILO BRESCHI

DANIELE ROCCA

Gerardo Nicolosi, “RISORGIMENTO LIBERALE”. IL GIORNALE DEL NUOVO LIBERALISMO. DALLA CADUTA DEL FASCISMO ALLA REPUBBLICA (1943-1948), pp. 257, € 18, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012 “Risorgimento liberale” fu un giornale che nacque nel cuore della tragedia e della speranza di riscatto nazionale. Cominciò infatti a essere stampato e pubblicato nella clandestinità durante i quarantacinque giorni successivi al 25 luglio 1943. A ridosso della liberazione di Roma, divenne l’organo del ricostituito Partito liberale italiano. Continuò a uscire fino all’ottobre del 1948, a conclusione del processo di instaurazione del nuovo sistema repubblicano e democratico. La copertura di un periodo così cruciale nella storia dell’Italia contemporanea rende di particolare interesse lo studio e l’analisi degli articoli pubblicati su questo giornale, soprattutto se si vogliono capire possibilità di rilancio e limiti insuperabili del liberalismo politico post-fascista. Ad aggiungere interesse alla lettura di “Risorgimento liberale” vi è la prima direzione del giornale, affidata a Mario Pannunzio. Ma l’interesse non si arresta qui, perché il giornale non è tanto la creatura di un singolo intellettuale, pur brillante e centrale nella storia della cultura del dopoguerra, quanto piuttosto l’organo che nasce in seno al nucleo liberale romano, con in testa Leone Cattani. Altri nomi prestigiosi avranno la direzione: Manlio Lupinacci e Vittorio Zincone. L’abbandono di Pannunzio corrispose alla fuoriuscita della “sinistra liberale”, e la ricostruzione delle vicende del gruppo di intellettuali riunitosi attorno al giornale rende conto delle ragioni delle future scelte politiche

ne storiche dell’Università di Bologna che conserva lettere, memorie, diari e appunti privati. Le testimonianze riportate, pur nella complessità ed eterogeneità delle protagoniste, si possono ricondurre a tre figure di donne: innanzi tutto le partigiane, che decisero autonomamente e liberamente di partecipare, in modo attivo, alla Resistenza, trascendendo il ruolo di madri e mogli che il fascismo avevano loro assegnato, compiendo un vero e proprio atto di ribellione contro una cultura maschile delle guerra e della società, e vedendo in questa scelta una possibile via verso l’emancipazione. Il ritorno alla “normalità” nell’immediato dopoguerra fu talmente brusco che molte rimpiansero la clandestinità e la libertà della vita partigiana. L’esperienza resistenziale le spingerà a lottare per eliminare le discriminazioni nella vita professionale, scolastica e anche politica. Il gruppo più numeroso è costituito dalle “vittime civili”, che rimasero lontane dalla partecipazione politica, per scelta o per impreparazione, e che nella maggior parte dei casi subirono passivamente le conseguenze della guerra, attraverso gli stupri, le violenze, i rastrellamenti, i bombardamenti. Fanno parte di

Antonio Sbirziola, POVERO, ONESTO E GENTILUOMO. UN EMIGRANTE IN AUSTRALIA 19541961, pp. 331, € 24, il Mulino, Bologna 2012 Dopo Un giorno è bello e il prossimo migliore (Terre di Mezzo, 2007), Antonio Sbirziola, ultimo di sette figli, nato nel 1942 in provincia di Caltanissetta, emigrato giovanissimo a Genova, poi in Australia a diciannove anni (fra il ’61 e il ’70 vi si recarono oltre 119 mila italiani), consegna alle stampe un altro lavoro. Antonio Gibelli, che ha curato il testo in collaborazione con la Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, il cui archivio annovera migliaia di testimonianze autobiografiche di gran valore, ha parole di ammirazione per il memorialista siciliano. Scrittore per l’intima esigenza di testimoniare, è uno di quei formidabili realizzatori, scrive Gibelli, del “miracolo della scrittura illetterata” eppure comunicativa, ricca di espressioni dialettali e calchi dall’inglese, espressioni a volte ancor più pregnanti perché inesatte; sul piano geostorico, viene da aggiungere, è un ulteriore prodigio di quel vitalissimo universo letterario che è stata e continua a essere la Sicilia. Le pagine di Sbirziola sono del resto di una semplicità disarmante, attestando tutta la schietta ostinazione di un migrante, con il suo solido mondo di valori arcaici, e tagliando come una lama, per la capacità di cogliere in poche pennellate l’essenziale in ogni fatto, gesto, pensiero: “Ho finito i soldi, lei la gradito tanto da bere, mi fa una carezza nel mio viso di gioia (…). Mi viene il penziero di non fare di quello che puo cadere tra me e lei in un paio di minuti. mi viene in mente di essere libero, se faccio lamore non o il coragio di lasciarla che mi o preso la sua purezza del’ corpo”.

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(D.R.)

questa categoria le donne che diventarono bersaglio delle rappresaglie, che, rimaste senza mariti e padri, dovettero trovare un modo per sopravvivere alla fame, alla violenza, alla solitudine. Infine vi sono le donne che, per opportunismo o per amore, collaborarono con il nemico tedesco. I racconti che si susseguono nel libro testimoniano come, pur nella diversità che le contraddistingueva, le donne fossero accomunate tra loro dal fatto di essere i soggetti più esposti alla violenza e alla feroce brutalità della guerra totale. La violenza nei confronti delle donne si trasforma infatti in una “tattica militare”, che usa e riusa la logica del terrore, “che mira a rendere inospitale” il territorio che potrebbe o vorrebbe accogliere le bande partigiane, con “lo scopo di terrorizzare, annichilire e mortificare la forza della resistenza delle donne, attraverso lo scempio che si fa del corpo”. L’analisi delle memorie individuali serve da spunto all’autrice per compiere riflessioni più generali che superano le tradizionali e al tempo ineludibili dicotomie politiche fascismo/antifascismo e collaborazionismo/Resistenza. ELENA FALLO


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- Città

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Aldo Rossi, SCRITTI SCELTI SULL’ARCHITETTURA E LA CITTÀ. 1956-1972, a cura di Rosaldo Bonicalzi, pp. 494, € 34, Quodlibet, Macerata 2012 La riflessione di Aldo Rossi diventa, negli anni sessanta e settanta, un punto di riferimento fondamentale per la progettazione urbanistica europea, come ribadisce anche Jacques Lucan nel suo ultimo libro, Où va la ville aujourd’hui? (La Villette, Paris 2012), richiamando l’influenza dell’architetto italiano sulla tradizione francese. È una stagione, quella che Rossi contribuisce a delineare, nella quale il territorio della città non è più considerato uno spazio fisico da colonizzare come lo era stato per molti dei protagonisti dell’architettura moderna. Territorio e città diventano piuttosto spazio di sedimentazione. Qualcosa di denso, non liscio, con un alto valore antropologico. Su questo scarto, le tesi di Rossi saranno fonte di ispirazione lungo un’intera stagione nella quale l’attenzione al costruito (anche con le declinazioni estreme, conservatrici da un lato, strutturaliste dall’altro), si pone al cuore di un progetto urbano che torna a privilegiare aspetti qualitativi e spaziali. Confliggendo con un’impostazione di diversa matrice, amministrativista, si sarebbe detto tempo addietro, per lo più disattenta agli aspetti spaziali. L’idea di ciò che potremmo definire spazio di sedimentazione rimane nel tempo e segna, almeno in Italia e in Francia, le avventure del progetto urbano negli anni ottanta e novanta e la sua ricerca di un ordine leggibile, di regole, di variazioni, di principi. Tutto si schianterà sulla “scoperta” della città diffusa negli anni novanta, ma questa è una storia diversa, con altri protagonisti. Anche solo la possibilità di ripercorrere queste direzioni, assai meno lineari di quanto possa apparire, rende importante la lettura degli scritti di Rossi. La riedizione di Quodlibet si attiene alla precedente del 1984 (Clup), di cui riproduce l’apparato iconografico e di cui aggiorna la bibliografia.

CRISTINA BIANCHETTI

PAESAGGIO E BELLEZZA / ENJOY THE LANDSCAPE, a cura di Francesca Bagliani e Claudia Cassatella, pp. 128, € 25, Celid-Oat, Torino 2012, Il volume riprende materiali raccolti in occasione della V rassegna internazionale Creare paesaggi. Realizzazioni, teorie e progetti in Europa (Torino, 2010). La bellezza, l’aspetto scenico del paesaggio, la tutela e la valorizzazione vengono interpretate e illustrate con l’ausilio di molteplici approcci che investono la progettazione, la gestione e la pianificazione, l’analisi e la regolamentazione del paesaggio, ponendo l’accento sulla percezione e il godimento. Nelle tre parti del libro sono dapprima descritti alcuni interventi di progettazione per il godimento del paesaggio inerenti parchi e giardini, musei e belvedere. Successivamente, nella sezione dedicata allo spettacolo della natura, incentrata sull’aspetto scenico del paesaggio e della natura, in particolar modo aree naturali e rurali, sono illustrati episodi di pianificazione e gestione. Infine, nella parte dedicata allo sguardo sulla città, l’attenzione è focalizzata sull’analisi, la regolamentazione e la pianificazione del paesaggio e dello scenario urbano. L’approccio è segnato dalla convinzione che la tutela del paesaggio non possa sola-

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mente avvenire mediante l’imposizione di vincoli, ma occorrano politiche di gestione, tutela e valorizzazione che si occupino dei territori anche da un punto di vista percettivo, estetico e qualitativo e che riescano a coinvolgere maggiormente gli abitanti cogliendone le attese. Questo testo, che riprende e torna a riflettere sul concetto di bellezza ed estetica, affrontato con diverse declinazioni e in più fasi dal secolo scorso a oggi, è volto a sensibilizzare il lettore sul tema e a far emergere linee di approfondimento, di sperimentazione e gestione del territorio, soprattutto per coloro i quali amministrano e intervengono a vario titolo sulla progettazione e gestione del paesaggio. ELISABETTA BELLO

RAFFAELLO GIOLLI. ARTE E ARCHITETTURA 1910-1944, a cura di Cesare de Seta, pp. 352, € 25, Archivio Cattaneo, Cernobbio 2012 Con questo libro l’Associazione Archivio che conserva il patrimonio di Cesare Cattaneo, brillante promessa del razionalismo comasco, sottolinea l’importanza che ebbe la critica d’arte nella formazione del pensiero architettonico contemporaneo. Cesare de Seta, docente di storia dell’architettura a Napoli, presenta in questo volume la carriera e il pensiero di Raffaello Giolli (Alessandria 1889 - Mauthausen 1945), studente universitario a Pisa e a Bologna, allievo di Roberto Longhi, animatore culturale, insegnate di liceo, fondatore di “Poligono” e di altre riviste e iniziative editoriali d’arte. Giolli, principale sostenitore del riconoscimento dell’autenticità di ogni espressione artistica libera, si schierò contro l’asservimento dell’arte a scopi politici. Da antifascista affermò che lo stato non può interferire con la creazione artistica, ma che ha il dovere di promuovere condizioni favorevoli al riconoscimento professionale degli artisti. Nel documentato saggio introduttivo agli scritti di Giolli, il libro affronta il tema della critica d’arte, negli ambienti culturali italiani degli inizi del XX secolo; i fermenti culturali suscitati dall’interventismo nella prima guerra mondiale, dalle avanguardie futuristiche e novecentesche; le speranze accese dalla nuova architettura, alla luce degli sviluppi tecnologici, artigianali, commerciali e industriali. Parla dei rapporti che Giolli ebbe con i maggiori architetti del modernismo italiano e della sua collaborazione con “Domus” e “Casabella”, dalle cui colonne portò avanti la difesa dell’architettura moderna. Conclude con le testimonianze raccolte sulla sua drammatica fine nel Lager nazista. Gli scritti proposti e illustrati riguardano l’architettura razionale in Italia, 1933-45; la pittura e la scultura, 1939-44; l’artigianato e il design, 1933-39. Cristina Lacchini cura, in fondo, le note biografiche e la bibliografia.

ROBERTO GAMBA

Milena Farina, SPAZI E FIGURE DELL’ABITARE. IL PROGETTO DELLA RESIDENZA CONTEMPORANEA IN OLANDA, pp. 184, € 20, Quodlibet, Macerata 2012 Che l’Olanda sia stata uno straordinario laboratorio per l’architettura degli anni novanta è noto, in particolare per quella parte dell’architettura che si è occupata del tema dell’abitazione. Progettisti che hanno costruito lo sfondo della riflessione olandese come Oma, Mvrdv, NL Architects, West

8, Mecanoo hanno saputo sfruttare un clima culturale e una fase espansiva eccezionali, con atteggiamenti radicali, orientati a porre il progetto a disvelamento delle contraddizioni dell’abitare contemporaneo; e trasformare queste contraddizioni in dati, temi, forme, con atteggiamento spesso provocatorio, accattivante e ottimistico e con la capacità di sviluppare, collettivamente, una riflessione sui nuovi significati della casa urbana nella cultura abitativa contemporanea. Quel che il volume aggiunge a questo sfondo è uno sguardo attento e preciso su alcuni aspetti. Quasi a costruire un manuale della sperimentazione sull’edilizia residenziale olandese seguendo traiettorie che vanno dalla lettura degli spazi comuni interni ai blocchi residenziali, alla sequenza degli spazi che dalla strada conducono all’alloggio, all’articolazione tipologica interna (che segnala l’importanza della dimensione individuale ben differenziata anche entro complessi unitari), ai temi delle estensioni, dell’autonomia dell’edificio, alla flessibilità e all’uso dello spazio interno. Un esercizio decostruttivo puntuale, corredato da schemi essenziali e qualche piccola immagine fotografica. Ben piantato sulla ricostruzione di una genealogia che queste strategie progettuali vantano nella seconda parte del XX secolo, quando l’abitazione si trova bene al centro di quella revisione critica del Movimento Moderno che è personificata principalmente dalle vicende del Team X. Il volume sembra continuare il lavoro pregevole che l’editore ha avviato tempo fa con la pubblicazione di ricerche di giovani studiosi nel campo del progetto.

(C.B.)

Laura Basco, Enrico Formato e Laura Lieto, AMERICANS. CITTÀ E TERRITORIO AI TEMPI DELL’IMPERO, pp. 238, € 18, Cronopio, Napoli 2012 La città ad alta concentrazione di popolazione e capitale, la suburbia a bassa densità e la città autosufficiente di impronta comunitaria sono assunte in questo volume come tre espressioni idealtipiche del fenomeno urbano contemporaneo che hanno radici riconoscibili e molto articolate, diversamente riconducibili a una matrice statunitense. Detto in altri termini, tre forme dell’influenza che la cultura della pianificazione americana ha esercitato “in Europa e nel resto del mondo”. Si potrebbe obiettare una certa esagerazione, ma in fondo si tratta di una posizione acquisita, se si pensa che la critica dell’intellighenzia italiana degli anni settanta nei confronti della trasformazione territoriale nel nostro paese era intesa nei termini di un’“americanizzazione”. Le tre forme (concentrazione, bassa densità, comunitarismo) dettano tre racconti genealogici, a partire da una letteratura molto ampia, che trova qui una parziale, ordinata sistemazione, che è indubbiamente un tratto di interesse del libro. Anche se la domanda centrale è altra. E non è, come si potrebbe ritenere, riconducibile al vecchio tema storiografico (molto praticato) della circolarità dei modelli in campo architettonico, urbano (o artistico, se si ricorda il bel libro di Bruno Cartosio, New York e il moderno. Società, arte, architettura nella metropoli americana, 1876-1917, Feltrinelli, 2007). La domanda attiene le caratteristiche più idonee a leggere l’esperienza americana “ai tempi dell’impero”. Con un doppio riferimento: da un lato al dibattito cresciuto attorno alle tesi di Hardt e Negri; dall’altro all’idea di Roberto Esposito, il quale ha sostenuto che la perifericità tradizionale della filosofia italiana non fosse solo di intralcio. Analogamente, qui si sostiene la fertilità di un’angolazione mediterranea che si situa a un livello intermedio: tra l’elaborazione continentale (americana in primis) e quella del Sud del mondo.

(C.B.)

DIREZIONE Mimmo Cándito (direttore) mimmo.candito@lindice.net

Mariolina Bertini (vicedirettore) Aldo Fasolo (vicedirettore) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Andrea Bajani, Santina Mobiglia, Elena Rossi, Massimo Vallerani REDAZIONE via Madama Cristina 16, 10125 Torino tel. 011-6693934 Monica Bardi monica.bardi@lindice.net, Daniela Innocenti daniela.innocenti@lindice.net, Elide La Rosa elide.larosa@lindice.net, Tiziana Magone, redattore capo tiziana.magone@lindice.net, Giuliana Olivero giuliana.olivero@lindice.net, Camilla Valletti camilla.valletti@lindice.net

Vincenzo Viola (L’Indice della scuola) vinci.viola@gmail.com

COMITATO EDITORIALE Enrico Alleva, Arnaldo Bagnasco, Elisabetta Bartuli, Gian Luigi Beccaria, Cristina Bianchetti, Valter Boggione, Bruno Bongiovanni, Guido Bonino, Giovanni Borgognone, Caterina Bottari Lattes, Eliana Bouchard, Loris Campetti, Andrea Casalegno, Enrico Castelnuovo, Guido Castelnuovo, Alberto Cavaglion, Mario Cedrini, Anna Chiarloni, Sergio Chiarloni, Marina Colonna, Alberto Conte, Sara Cortellazzo, Piero CrestoDina, Piero de Gennaro, Giuseppe Dematteis, Tana de Zulueta, Michela di Macco, Manfredi di Nardo, Franco Fabbri, Giovanni Filoramo, Delia Frigessi, Anna Elisabetta Galeotti, Gian Franco Gianotti, Claudio Gorlier, Davide Lovisolo, Giorgio Luzzi, Fausto Malcovati, Albina Malerba, Danilo Manera, Diego Marconi, Franco Marenco, Walter Meliga, Gian Giacomo Migone, Alberto Papuzzi, Franco Pezzini, Cesare Pianciola, Telmo Pievani, Renata Pisu, Pierluigi Politi, Nicola Prinetti, Tullio Regge, Tiziana Redavid, Marco Revelli, Alberto Rizzuti, Gianni Rondolino, Franco Rositi, Lino Sau, Domenico Scarpa, Rocco Sciarrone, Giuseppe Sergi, Stefania Stafutti, Ferdinando Taviani, Mario Tozzi, Gian Luigi Vaccarino, Maurizio Vaudagna, Anna Viacava, Paolo Vineis, Gustavo Zagrebelsky L’INDICE ON LINE www.lindiceonline.com www.lindiceonline.blogspot.com

Redazione Mario Cedrini (coordinatore) Luca Borello, Federico Feroldi, Franco Pezzini EDITRICE L’Indice Scarl Registrazione Tribunale di Roma n. 369 del 17/10/1984 PRESIDENTE Gian Giacomo Migone CONSIGLIERE Gian Luigi Vaccarino DIRETTORE EDITORIALE Andrea Pagliardi DIRETTORE RESPONSABILE Sara Cortellazzo UFFICIO ABBONAMENTI tel. 011-6689823 (orario 9-13). abbonamenti@lindice.net

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N. 3

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Tutti i titoli di questo numerO A

E

B

F

BÉCASSIS,

ELIETTE - Lieto evento - Marsilio p. 35 AMATO, MASSIMO / FANTACCI, LUCA - Come salvare il mercato dal capitalismo - Donzelli - p. 26 Americans - Cronopio - p. 38 ANDREAS-SALOMÉ, LOU - Rainer Maria Rilke - Se p. 35 ANTONI, CARLO - Della storia d’Italia - Edizioni di Storia e Letteratura - p. 37

HNUEL, FLORENCE - Le bavardage - Fayard p. VII Emergenza antropologica - Guerini e Associati p. 25 ENOCH, LUCA / STASSI, CLAUDIO - La banda Stern Rizzoli Lizard - p. 36 EVANGELISTI, SILVIA - Storia delle monache - il Mulino - p. 28

MARRA, CLAUDIO - Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre) - Bruno Mondadori - p.31 MENOZZI, DANIELE - Chiesa e diritti umani - il Mulino - p. 25 MILLÁS, JUAN JOSÉ - Carta straccia - Passigli - p. 19 MUNRO, ALICE - Chi ti credi di essere? - Einaudi p. 19

N

ICCOLI,

ACHINELLI,

AGLIANI, CURA DI)

FRANCESCA / CASSATELLA, CLAUDIA (A - Paesaggio e bellezza - Celid-Oat -

p. 38 BARONE, CARLO - Le trappole della meritocrazia - il Mulino - p. III BASSANI, GIORGIO / CAETANI, MARGUERITE Sarà un bellissimo numero. Carteggio 19481959 - Edizioni di Storia e Letteratura - p. 8 BATUMAN, ELIF - I posseduti - Einaudi - p. 18 BEARZOT, CINZIA - I greci e gli altri - Salerno p. 27 BENISCELLI, ALBERTO (A CURA DI) - Libertini italiani - Rizzoli - p. 9 BERNHARD, THOMAS - Goethe muore - Adelphi - p. 35 Bioetica e dibattito pubblico tra scuola e società - Unicopli - p. VI BOCCELLA, NICOLA (A CURA DI) - Il sistema del microcredito - Led - p. 11 BODROZˇ IC´, MARICA - Il mio approdo alle parole. Stelle, colori - Aracne - p. 18 BONINI, EMANUELA - Scuola e disuguaglianze - FrancoAngeli - p. III BORGOMEO, CARLO (A CURA DI) - Microcredito - Donzelli - p. 11 BOZZOLA, GIULIA - Una classe difficile - Fazi - p. IV BRADBURY, RAY - Ora e per sempre - Mondadori - p. 36 BRILLI, ATTILIO - Dove finiscono le mappe il Mulino - p. 28 BUFFONI, FRANCO - Il servo di Byron - Fazi p. 21

ELVIO - Su Freud - Adelphi - p. 23 FARINA, MILENA - Spazi e figure dell’abitare Quodilibet - p. 38 Fumetto! 150 anni di storie italiane - Rizzoli - p. 36

ALBERTO / PRESBITERO, ANDREA - Microcredito e macrosperanze - Egea - p. 11 NICOLOSI, GERARDO - Risorgimento liberale - Rubbettino - p. 37

O

RTALLI, GHERARDO - Barattieri - il Mulino - p. 28

P

ATERLINI,

ROBERTO - Cani randagi - RaiEri - p. 24 PETIT, CRISTINA - Un buco nel cielo - Sonda p. V PONZANI, MICHELA - Guerra alle donne - Einaudi - p. 37

R

AFFAELLI, LUCA - Enrichetto Cosimo alla ricerca del manga mangante - Einaudi - p. 36 RODOTÀ, STEFANO - Il diritto di avere diritti - Laterza - p. 15 ROSSI, ALDO - Scritti scelti sull’architettura e la città - Quodlibet - p. 38

S

BIRZIOLA,

C

ANDREA - Tre anni luce - Feltrinelli - p.22 CARUSO, ALFIO - La battaglia di Stalingrado - Longanesi - p. 37 CARZAN, CARLO / SCALCO, SONIA - Economia felice - la meridiana - p. VI CECI, CHIARA - Emma Wedgwood Darwin - Sironi p. 23 CELESTINI, ASCANIO - Pro patria - Einaudi - p. 21 COLLODI, CARLO - Quattro uomini del Risorgimento - Edizioni di Storia e Letteratura - p. 37 CORTELLESSA, ANDREA (A CURA DI) - Narratori degli anni zero, in “L’Illuminista”, nn. 31-33 - Ponte Sisto - p. 20

ANTONIO - Povero, onesto e gentiluomo - Il Mulino - p. 37 SCIBILIA, CORRADO - Tra nazione e lotta di classe - Gangemi - p. 29 SEBALD, W.G. - Soggiorno in una casa di campagna - Adelphi - p. 35

ANOBBIO,

G

IOLLI,

RAFFAELLO - Arte e architettura 19101944 - Archivio Cattaneo - p. 38 GREVET, YVES - La scuola è finita - Sonda - p. V

T

ARDITI,

K

ANDEL,

ERIC - L’epoca dell’inconscio - Raffaello Cortina - p. 16

L

ANDOLFI, TOMMASO - Diario perpetuo - Adelphi p. 21 LEM, STANISL/ AV - Solaris - Sellerio - p. 36

U

M

V

D

’AUTILIA, GABRIELE - Storia della fotografia in Italia - Einaudi - p. 31 DESMOND, ADRIAN / MOORE, JAMES - La sacra causa di Darwin - Raffaello Cortina - p. 5 DETHERIDGE, ANNA - Scultori della speranza - Einaudi - p. 32 DI VITTORIO, GIUSEPPE - Le strade del lavoro - Donzelli - p. 27

MARIA - La venturina - Baldini - p. VII Teatro e formazione - FrancoAngeli - p. V TRAMMA, SERGIO - Legalità illegalità - Laterza p. VI TREVI, EMANUELE - Istruzioni per l’uso del lupo Elliot - p. 20

ACGEGOR,

NEIL - La storia del mondo in 100 oggetti - Adelphi - p. 32 MALAPARTE, CURZIO - Il ballo al Kremlino - Adelphi p. 17

LICKAJA,

LJUDMILA - In quel cortile di Mosca e/o - p. 35

ACCA, GIUSEPPE - Vita e pensieri di Antonio Gramsci - Einaudi - p. 29 VISITILLI, GIANCARLO - E la felicità, prof? - Einaudi - p. IV


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