L'Indice di gennaio 2013

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in collaborazione con

Baratto Brera

Anno XXX - N. 1

Tullio Pericoli, 1989

Gennaio 2013

€ 6,00

Morandini Murakami

Celati

Pennac

Ciriello

Porpora

Ficara

Quinet

Fiore

Ritchin

Foster Wallace

Rousseau

Meneghello

Simic

Mengaldo

Trigilia

Michaux

Vidal

Modiano

Zingales

Robert Louis Stevenson

LIBRO DEL MESE: Thayil e la Bombay dei fumi d’oppio Il genio di ZEROCALCARE tra polpi e armadilli Come ripensare una società di eguali, di Pierre ROSANVALLON Il SILENZIO è un nostro pregiudizio: i cento anni di John CAGE www.lindiceonline.com MENSILE D’INFORMAZIONE - POSTE ITALIANE s.p.a. - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Torino - ISSN 0393-3903


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Editoria Una proposta di legge per promuovere la lettura di Gino

G

Roncaglia e Giovanni Solimine

li insegnanti, i bibliotecari, gli autori, gli editori, i librai, gli intellettuali, le espressioni della società civile che si riconoscono nell’Associazione Forum del libro – una realtà piccola ma impegnata da tempo nel tentativo di favorire l’incontro e la collaborazione fra i diversi soggetti del mondo del libro – stanno lavorando alla redazione di una proposta di legge sulla promozione del libro e della lettura, da mettere a punto attraverso un ampio dibattito pubblico. Fra gli obiettivi di tale dibattito ci sono sia la definizione dei contenuti della legge, sia il confronto con chi rappresenta le diverse categorie interessate (Aie, Aib, Ali) e con i soggetti istituzionali (il Centro per il libro e la lettura e le amministrazioni pubbliche a livello di stato, regioni e autonomie locali). Intendiamo inoltre mobilitare attorno al lavoro di predisposizione della proposta di legge le energie diffuse dell’associazionismo e del volontariato, che in più di una occasione hanno dimostrato di rappresentare un patrimonio fondamentale per l’organizzazione della cultura in Italia. Fin dall’inizio dell’attività dell’Associazione, il nostro stile di lavoro è stato caratterizzato da una grande attenzione alle iniziative nate dal basso e alle buone pratiche nel mondo della lettura: dal primo Forum tenuto a Bari nel 2004 e poi con gli appuntamenti successivi, tenuti a Cagliari, Ivrea, Perugia, Matera e Vicenza, centinaia di esperienze di base si sono raccontate e incontrate, confrontandosi con colleghi di altri paesi e con i rappresentanti del mondo dell’editoria e delle istituzioni. Da alcuni anni a questo appuntamento periodico si accompagna il Premio nazionale Città del libro, organizzato insieme al Centro per il libro e la lettura e all’Anci. Nel corso delle sue quattro edizioni, le selezioni operate per il premio ci hanno consentito di censire ben 674 esperienze – spesso innovative e riproducibili – di promozione attiva della lettura in altrettanti comuni italiani. Se le iniziative che abbiamo potuto censire rappresentano sicuramente un grande impegno collettivo a favore del libro e della lettura, occorre tuttavia rilevare che le politiche pubbliche in questo settore sono spesso inadeguate e raramente efficaci. Il mondo del libro si presenta così troppo spesso diviso e arroccato nella difesa di interessi parcellizzati, quando invece esiste un forte interesse comune, che è anche un impegno civile: allargare le basi sociali della lettura. È per questo insieme di motivi che ci è sembrato che fosse giunto il momento di definire un quadro organico di strumenti e azioni per favorire la diffusione della lettura, la produzione e la circolazione del libro, il pluralismo delle idee attraverso il coordinamento e la valorizzazione delle esperienze sul territorio. Per dare uno sbocco coerente a

questo lavoro comune, si è scelto di utilizzare la formula della proposta di legge di iniziativa popolare, che ci sembra insieme garantire la maggiore visibilità dell’iniziativa e favorire il massimo della partecipazione. Per noi il cammino è importante quasi quanto il risultato. Siamo consapevoli, infatti, che la lettura non si promuove per legge; ci sembra però che uno strumento legislativo possa essere utile per individuare ed esplicitare i principi di quella “politica per il libro e per la lettura” che è sempre mancata in Italia, e per catalizzare su questo tema l’attenzione dei media e dei soggetti politici. Le prime reazioni ci paiono confortanti: l’attenzione attorno al nostro progetto è molto alta e il processo di costruzione e condivisione dei contenuti sta producendo buoni risultati. I punti nodali della nostra proposta riguarderanno: le politiche per il libro e la lettura e le funzioni di raccordo interistituzionale; il sostegno ai lettori e la tutela dei loro diritti; i luoghi della lettura: scuole, biblioteche, librerie; la lettura in rete e il mondo digitale. Pensiamo che una politica di promozione della lettura debba essere una parte basilare della costruzione di un futuro diverso per il nostro paese e non vada inquadrata solo in una sfera “culturale”: tale politica, infatti, non riguarda solo un modo di occupare il tempo libero o di affrontare i problemi dell’apprendimento, ma investe il tema delle competenze necessarie per vivere da cittadini consapevoli in una società realmente inclusiva e coesa, con ricadute importanti sulle potenzialità di crescita economica e sulla vita della comunità nazionale.

come elemento di raccordo fra l’amministrazione statale centrale e gli enti locali, il mondo della scuola e la rete delle librerie e delle biblioteche, le imprese attive nel campo dell’editoria, tutti elementi essenziali della filiera del libro.Su ognuno dei punti indicati in precedenza stiamo cominciando a raccogliere idee e contributi, per fissare i principi di fondo e individuare alcune misure specifiche che il testo della legge dovrà contenere. Proponiamo qui solo qualche esempio, senza voler con questo anticipare gli esiti di una elaborazione che vogliamo collettiva: quando si parla di incentivi ai lettori, pensiamo che in concreto ciò potrebbe tradursi nel sostegno alle attività di autoaggiornamento e di formazione (compreso, quindi, l’acquisto di libri e la sottoscrizione di abbonamenti a riviste professionali), prevedendo la possibilità di detrarre in sede di dichiarazione dei redditi una parte delle spese sostenute; si possono prevedere incentivi fiscali per l’acquisto di libri nelle famiglie con figli in età scolare; misure analoghe potrebbero riguardare i neolaureati, le persone in cerca di prima occupazione, i lavoratori a progetto o in mobilità; parimenti, si potrebbero prevedere misure a sostegno dei disabili e di persone con difficoltà di lettura. Rispetto alle tante manifestazioni di promozione della lettura, pensiamo che esse o alcune di esse potrebbero essere destinatarie del 5 per mille dell’Irpef e che si potrebbe prevedere la deducibilità delle donazioni effettuate a loro favore. Invece di invocare una politica assistenzialistica per editori e librai, ci piacerebbe che essi fossero messi in grado di fare meglio il loro lavoro, sostenendo gli investimenti in formazione del personale o in innovazione tecnologica. Ci piacerebbe inoltre che i vari soggetti della filiera collaborassero nel trovare soluzioni innovative al problema della gestione dei diritti, in particolare per favorire la digitalizzazione e la circola-

❏ Abbonamento annuale alla versione cartacea (questo tipo di abbonamento include anche il pieno accesso alla versione elettronica): Italia: € 55 Europa: € 75 Resto del mondo: € 100 ❏ Abbonamento annuale solo elettronico (in tutto il mondo): Consente di leggere la rivista direttamente dal sito e di scaricare copia del giornale in formato pdf. € 45 ❏ Abbonamento annuale alla versione per ipad: € 44,99 Per abbonarsi o avere ulteriori informazioni è possibile contattare il nostro ufficio abbonamenti: tel. 011-6689823 – abbonamenti@lindice.net. Per il pagamento: Carta di credito, conto corrente postale N. 37827102 intestato a “L’Indice dei Libri del Mese” o Bonifico bancario a favore de L’Indice scarl. presso UniCredit Banca (IT 13 P 02008 01048 000002158762)

Riteniamo che in questo campo serva una precisa assunzione di responsabilità da parte dei poteri pubblici, ad esempio rafforzando il Centro per il libro e dandogli una diversa configurazione, che gli consenta di esercitare un’azione più incisiva e di divenire un reale punto di riferimento per iniziative e risorse pubbliche e private; per essere realmente rappresentativo, il Centro dovrà porsi

zione delle opere fuori catalogo e delle cosiddette opere “orfane” (quelle per le quali non si abbiano dati sicuri sulla situazione dei diritti). Vorremmo poi incentivare la pratica della lettura e la diffusione del libro – cartaceo e digitale – nel mondo della scuola, anche attraverso il rafforzamento delle biblioteche scolastiche, che troppo spesso esistono solo sulla carta o non esistono affatto. Gli

U

n anno nuovo: anno di elezioni e anno di crisi perdurante. Le continuità e le discontinuità dettano il ritmo dell’avanzare del tempo, gli storici lo sanno bene e dopo lunghe dispute, alla fine, provano a periodizzare. Periodizzare è uno dei modi possibili di interpretare. Se applichiamo queste considerazioni al giornale, ci accorgiamo che l’anno inaugurato con questo numero è il trentesimo e che questa data, tonda e impegnativa, si accompagna con una fase di evoluzione e consolidamento. “L’Indice” c’è per cominciare, puntualmente tutti i mesi esce in edicola, e da un mese a questa parte ancora più tempestivamente lo si può leggere online. Già solo il fatto di esserci, per un giornale privo di pubbliche sovvenzioni non è un fatto scontato, tantopiù in un tempo di crisi perdurante e in un paese nel quale qualsiasi impresa o categoria professionale che opera nel campo culturale sente minacciato il suo semplice diritto (o possibilità) di continuare ad esistere. “L’Indice” continua poi ostinatamente a parlare di libri, di tanti libri come ha sempre fatto fin dal suo esordio. A volte si spinge un po’ più in là, senza scavalcarli né sostituirli, mantenendo, pur in forme e contenitori variabili, la propria ragione d’essere impressa

esempi e i suggerimenti potrebbero continuare. Per raccoglierli, per ascoltare quante più voci possibili e confrontare le proposte, valutandone la fattibilità e la compatibilità economica in un momento particolarmente difficile come è quello che stiamo attraversando, stiamo organizzando appuntamenti in tante città italiane su temi specifici: in novembre abbiamo promosso un incontro a Milano all’interno di BookCity sui temi della proprietà intellettuale, a dicembre siamo stati all’Orvieto Food Festival per dire che con la cultura si può anche mangiare, e a Napoli per parlare di lettura con i protagonisti della vita culturale e istituzionale partenopea. Altri incontri si terranno nei prossimi mesi, fino ad arrivare all’appuntamento di chiusura, che prevediamo di tenere in maggio all’interno del Salone di Torino, per lanciare il testo definitivo della proposta di legge e sottoporlo così all’attenzione del prossimo parlamento. Tra i tanti compagni di strada che stiamo incrociando in queste settimane, ci sembra di poter includere anche gli editori indipendenti che nell’ultimo numero dell’“Indice” hanno presentato il loro manifesto. Infatti, c’è una forte sintonia con alcuni dei nove “strumenti” individuati nel manifesto: una sintonia che vale per lo strumento 1, in cui si afferma la necessità di una sede comune “dentro la quale coinvolgere i viventi dell’ecosistema del libro”; vale per molte delle forme di sostegno previste per editori e librai nello strumento 3; vale per le misure di detraibilità e deducibilità previste dagli strumenti 5 e 8. Interessante, ma da approfondire, anche la proposta di una “authority” che vigili sui fenomeni di concentrazione.

nel nome stesso della testata. Ma l’universo dei libri sollecita anche interessi collaterali alla discussione pubblica dei contenuti delle opere. E così “L’Indice” si fa veicolo di appelli, proposte di legge, testimonianze dirette di editori, ricercatori, traduttori. È una vecchia vocazione militante anche questa, che ha l’ambizione e la speranza di diventare, nel tempo, un osservatorio privilegiato sulla filiera del libro dal suo concepimento (come operano e a che cosa serve la ricerca, storica o scientifica che sia) alla sua fruizione (pubblicare libri, poterli distribuire, leggere, condividere…). A questo dedichiamo, in forma stabile, la pagina dell’editoria. Altre cose invece sono nuove e sarebbero state impensabili qualche decennio fa: abbiamo un blog che si è fuso nel sito e che ospita anche dei supplementi di interventi e discussioni che si aprono sul giornale. E dedichiamo un Primo piano ad un autore di fumetti di 29 anni che vive in simbiosi logico-esistenziale con un armadillo. È difficile giudicarsi in corso d’opera (cosa si è perso e che cosa si è acquisito?), chiedersi se e quando questo giornale abbia attraversato la sua età dell’oro. Forse però, perdurando la nostra vitalità, non è così urgente periodizzarci. Se in tanti collaboreranno alla stesura di una proposta di legge, insieme riusciremo a fare un buon lavoro e a sostenerlo fino al suo approdo parlamentare. ■ L’Associazione Forum del libro è in rete (www.forumdellibro.org/), su Facebook (www.facebook. com/AssociazioneForumDelLibro) e su Twitter (@ForumdelLibro). Il lavoro di elaborazione collaborativa della proposta di legge su libro e lettura è coordinato attraverso un Wiki (www.legge-rete.net/).

Refusario

Sul numero dell’“Indice” di ottobre • a pagina 3 e a pagina 22 il nome di Pietro Deandrea compare erroneamente come Pietro De Andrea. Sul numero di novembre • a p. 8 la recensione di Martino Gozzi a The Master risulta monca. Questa la frase finale del testo: “Dopo aver raccontato la sete di ricchezza, l’avidità e la propensione allo sfruttamento insite nel capitalismo americano – con Il petroliere – Anderson ha voluto mostrarci la brutalità dei nostri istinti più reconditi, e l’enorme difficoltà con cui riusciamo, nel bene e nel male, a domarli”. Ce ne scusiamo con gli autori, i lettori e i recensori.


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SommariO EDITORIA 2 Una proposta di legge per promuovere la lettura di Gino Roncaglia e Giovanni Solimine

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STORIA di Rinaldo Rinaldi, Maurizio Griffo, Danilo Breschi, Daniele Rocca e Santina Mobiglia

FONDAZIONE BOTTARI LATTES 36 MARIO LATTES Un brano tratto

27

POLITICA di Roberto Barzanti e Federico Trocini EBRAISMO di Claudio Vercelli

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INFANZIA di Fernando Rotondo, Franco Pezzini ed Elena Baroncicni

VILLAGGIO GLOBALE 4 da Buenos Aires, Francoforte e Londra Appunti, di Federico Novaro

EDITORIA 5 Ripensare l’eguaglianza: una lectio magistralis, di Pierre Rosanvallon

7

Per i cento anni di John Cage, di Francesco Peri e Vito Di Bernardi

8

Meneghello nei ricordi dell’amico Zanettin e nelle Nuove Carte, di Antonio Daniele e Franco Marenco

9 10

Gli apocrifi di Sherlock Holmes, di Franco Pezzini

11

Gore Vidal nel vivo della storia americana, di Andrea Carosso

12

Come sostenere la ricerca scientifica, di Adriano Zecchina e Arianna Montorsi

13

Il sangue di Cristo nelle dispute terminologiche, di Andrea Nicolotti

14

I concetti e la storia. Intervista a Francesca Trivellato, di Massimo Vallerani

Un bilancio editoriale dei trecento anni dalla nascita, di Rousseau, di Anna Strumia

LIBRO DEL MESE 15 JEET THAYIL Narcopolis, di Carmen Concilio e Ardashir Vakil

PRIMO PIANO 16 ZEROCALCARE La profezia dell’armadillo

e Il polpo alla gola, di Daniele Brolli, Luca Raffaelli e Andrea Pagliardi

NARRATORI ITALIANI 17 IVANO PORPORA La conservazione metodica

del dolore, di Alfredo Nicotra SERGIO BARATTO Diario di un’ insurrezione, di Andrea Tarabbia PEPPE FIORE Nessuno è indispensabile, di Raffaella D’Elia

18

GIANNI CELATI Comiche, di Andrea Giardina MARCO CIRIELLO Il vangelo a benzina, di Caterina Morgantini ALESSANDRO BERTANTE La magnifica orda, di Raffaele Riba

SAGGISTICA LETTERARIA 19 GIORGIO FICARA Montale sentimentale, di Niccolò Scaffai GIOVANNI TESIO I più amati. Perché leggerli? Come leggerli?, di Giovanna Lo Presti EZIO RAIMONDI Le voci dei libri, di Gabriele Bucchi

20

PIER VINCENZO MENGALDO Leopardi antiromantico e altri saggi sui “Canti”, di Giorgio Panizza DONATO PIROVANO (A CURA DI) Poeti del Dolce stil novo, di Silvia Buzzetti

SCHEDE 21 NARRATORI ITALIANI di Sandro Moraldo, Marco Lazzarotto, Giovanni Choukhadarian e Francesco Morgando

22

LETTERATURE di Stefano Moretti, Federico Novaro, Antonio Resta, Mariolina Bertini e Luigi Marfé

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ALPINISMO di Fabio Minocchio e Guido Bonino

25

INTERNAZIONALE di Maria Paola Guarducci e Luisa Pellegrino FUMETTI di Paola Carmagnani e Chiara Bongiovanni

LETTERATURA FRANCESE 29 PATRICK MODIANO Fiori di rovina,

da Il borghese di ventura

CINEMA 38 UGO CASIRAGHI Storie dell’altro cinema, di Silvia Badon MASSIMILIANO FIERRO Tra le immagini. Per una teoria dell’intervallo, di Andrea Laquidara LAURA, LUISA E MORANDO MORANDINI Il Morandini 2013. Dizionartio dei film, di Gianni Rondolino

di Mariolina Bertini DANIEL PENNAC Storia di un corpo, di Paola Ghinelli

LETTERATURE 30 MURAKAMI HARUKI 1Q84. Libro 3.

Ottobre-dicembre, di Vittorio Coletti CHARLES SIMIC Il mostro ama il suo labirinto. Taccuini, di Silvio Perrella ITO OGAWA La cena degli addii, di Gaia Maria Follaco

CLASSICI 31 ROBERT LOUIS STEVENSON Il Master di Ballantrae,

FOTOGRAFIA 39 FRED RITCHIN Dopo la fotografia, di Elena Volpato JOAN FONTCUBERTA La (foto)camera di Pandora. La fotografi@ dopo la fotografia, di Marco Maggi

PAGINA A CURA DEL PREMIO CALVINO 40 MARIAPIA VELADIANO Il tempo è un dio breve, di Benedetta Centovalli FABIO NAPOLI Dimmi che c’entra l’uovo, di Chiara Bongiovanni ALBERTO MOSSINO L’amore vero l’ha fatto solo con me, di Mario Marchetti

di Elisabetta D’Erme HENRI MICHAUX Passaggi, di Anna Maria Scaiola

SPORT 32 GIANNI BRERA L’anticavallo. Sulle strade del Tour

del ’49 e del Giro del ’76, di Federico Enriques DAVID FOSTER WALLACE Il tennis come esperienza religiosa, di Vladimiro Bottone

SOCIETÀ 33 CARLO TRIGILIA Non c’è Nord senza Sud, di Alessandro Cavalli MARGHERITA GRAGLIA Omofobia, di Leonardo Spanò

ARCHITETTURA 41 ALBERTO FERLENGA, MARCO BIRAGHI

BRENNO ALBRECT L’architettura del mondo, di Cristina Bianchetti GIOVANNI LAINO Il fuoco nel cuore e il diavolo di Gabriele Pasqui in corpo, E

ARTE 42 EZIO BASSANI Arte africana, di Ivan Bargna GIOVANNI URBANI Per un’archeologia del presente, di Federica Rovati LETIZIA GAETA Juan De Borgoña e gli altri, di Edoardo Villata

ECONOMIA 34 LUIGI ZINGALES Manifesto capitalista, di Antonio Calafati Babele: Strategia, di Bruno Bongiovanni

STORIA 35 EDGAR QUINET Le rivoluzioni d’Italia, di Bruno Bongiovanni NAPOLEONE BONAPARTE Memorie della campagna d’ Italia, di Daniele Rocca

LAURA OPERTI Per una cultura della non violenza, di Claudio Ciancio e Marco Scarnera Dove mezzo e fine coincidono, di Marco Scarnea

QUADERNI 43 44

Camminar guardando, 24, di Edoardo Villata

46

La traduzione: Il lavoro del lutto, di Franca Cavagnoli Petizione del Sindacato Traduttori Editoriali

Effetto film: Io e te di Bernardo Bertolucci, di Giusi Marchetta e Gianni Rondolino

Le immagini L’Indice di questo numero è illustrato con i disegni di FRANCESCA GHERMANDI che ringraziamo per la collaborazione e disponibilità. Francesca Ghermandi dalla metà degli anni ottanta ha pubblicato fumetti e illustrazioni per diverse testate e case editrici in Italia e all’estero tra cui “Frigidaire”, “il manifesto”, “Comic art”, “L’unità”, “Linus”, “Internazionale”, Fantagraphics Books, Garzanti, Sinsentido, Mondadori. Tra i suoi libri: Hiawata Pete (Coconino press, 2008), Helter skelter (Phoenix, 1997), Bang! Sei Morto (Seuil, 2003), Pasticca (Einaudi, 2003), Cronache dalla palude (Coconino press, 2010), Pronto soccorso & beauty case, (testo di Stefano Benni, Orecchio acerbo, 2010), la raccolta di disegni Un’estate a Tombstone (Comix/D406, 2006).


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maggio che, all’occasione, sa mettere da parte la sua riservatezza e mostrare il lato aggressivo. Nel Bestiarium le occasioni si sprecano, basti osservare i volteggi del gabbiano Elfriede Jelinek, le cui corrosive escrezioni decorano con bizzarri motivi gli arredamenti borghesi di Vienna.

da BUENOS AIRES Francesca Ambrogetti Cinquant’anni dopo la pubblicazione del libro La città e i cani di Mario Vargas Llosa, che ha segnato l’avvio del famoso boom, la letteratura latinoamericana continua a essere un fenomeno vivace e interessante. Le voci nuove si moltiplicano e altre più note si affermano. Tra queste, quella dell’argentino Federico Jeanmaire, giunto al quindicesimo romanzo e vincitore di vari premi, che ha appena pubblicato Las madres no les decimos esas cosas a las hijas, l’ultimo volume di una trilogia che non ha una continuità narrativa ma che affronta argomenti paralleli: la vecchiaia, la malattia, la solitudine, l’assurdità della vita. Nell’ultimo romanzo, come nei due precedenti Más liviano que el aire e Fernández mata a Fernández, non c’è un narratore. Lo scrittore giustifica questa scelta affermando che l’anarchia fa parte dell’essenza degli argentini. Il secondo volume, poi, è molto particolare. Si tratta di una specie di romanzo giallo con qualche tono di commedia, in cui la storia viene raccontata attraverso i dialoghi dei personaggi che a volte si dilungano in descrizioni che consentono al lettore di seguire meglio l’argomento. Di questo autore i critici affermano che nei suoi ultimi romanzi lavora con un albero narrativo che nasconde un bosco politico e sociale spietato con i vizi della modernità periferica. Una caratteristica di Jeanmaire è quella di scegliere storie minimaliste, dietro le quali non è difficile scoprire una severa ma lucida critica della società argentina. Lo scrittore ha rivelato che nel prossimo volume in preparazione affronterà un argomento forse più difficile dei precedenti, quello della morte. Ma lo farà probabilmente, come in tutte le sue opere, con la consueta dose di humour che alleggerisce e rende facile la lettura. E con la solita apparente semplicità con la quale ama descrivere in profondità alcuni aspetti della condizione umana.

da FRANCOFORTE Anna Castelli È del 1922, a opera di Franz Blei, il Bestiario della letteratura (tradotto nel 1980 da Lorenza Rega per Il Saggiatore) che, rifacendosi alla ricca tradizione medievale del genere, stila un catalogo di scrittori e figure della cultura europea dei primi decenni del secolo scorso, descrivendoli come se fossero degli animali. Oltre a D’Annunzio e Gide, in questa spassosa classificazione di bestie letterate incontriamo la Kafka (topo blu-lunare, il cui sguardo “affascina, perché ha occhi umani”), il Benn (“lancetta velenosa che viene trovata di solito in determinate parti dei cadaveri degli annegati”) e anche il Thomasmann e lo Heinrichmann, coleotteri xilofagi che, posizionati alle estremità opposte dello stesso albero, ne scavano il tronco guardandosi in cagnesco. Anche l’autore trova un’adeguata collocazione nel suo bestiario: Blei, che in tedesco designa il pesce d’acqua dolce abramide, diventa qui un animale amante della libertà, in grado di muoversi agilmente in tutte le acque. Franz Blei, poliedrico intellettuale attivo in molteplici scenari dell’Europa degli anni venti e trenta, non potrebbe essersi definito meglio. Con il Bestiarium der deutschen Literatur (Rowohlt, 2012, illustrazioni di Klaus Ensikat) Fritz J. Raddatz ripete l’esperimento zoologico-classificatorio di Blei circoscrivendolo alla letteratura tedesca degli ultimi decenni. Già responsabile della casa editrice Rowohlt ed ex caporedattore delle pagine culturali della “Zeit”, oltre che germanista e scrittore, nei suoi diari,

da LONDRA Florian Mussgnug

Nel 2012 le donne hanno dominato la scena letteraria ed editoriale. Hilary Mantel, autrice di una dozzina romanzi straordinariamente riusciti, ha vinto il Man Booker Prize 2012 con Bring Up the Bodies, secondo volume della trilogia su Thomas Cromwell. Mantel, che appena tre anni fa aveva ricevuto lo stesso premio per Wolf Hall, è la prima donna ad aver vinto il Booker due volte; tale successo la consacra come uno degli scrittori contemporanei più affermati. La sua fama fulminea, e l’enorme influenza esercitata oggi dalla sua scrittura sui narratori contemporapubblicati un paio di anni fa, Raddatz ha de- intere compagnie di adolescenti della Hitlernei, ci fa dimenticare che per anni Mantel è scritto quel panorama letterario di cui lui jugend (cenno, questo, a uno scomodo passastata una narratrice per connaisseurs: una stesso è stato una figura di spicco. Irritante to di Grass recentemente emerso). Spesso le scrittrice di grande cultura, con la passione egolatra, gauche caviar tra gli intellettuali: corrispondenze sono oscure, se non addiritper la sperimentazione formale, le cui esploquesto è stato il pressoché unanime com- tura indecifrabili, ma il serraglio costruito razioni abbracciano generi diversi, dalla commento dei recensori, che nei diari hanno con- mostra comunque un’architettura precisa e media nera alla satira sociale, dalla letteratura statato soprattutto la pomposa autocelebra- dettagliata del recente (anche se non recenautobiografica all’epica storica. Da qui la sua zione di un giornalismo d’élite che oggi, a tissimo) panorama letterario tedesco. Tra le battuta contenuta nel discorso di ringraziacolpi di like button e tweet, sembra definiti- numerose strizzatine d’occhio al giornalismo mento alla cerimonia del premio: “lo aspetti vamente abbattuto. Molte delle figure pre- delle terze pagine e gli ossequiosi inchini alla per secoli e poi te ne arrivano due insieme”. senti nei diari ricompaiono, ovviamente sotto prassi classificatoria delle scienze naturali, La fama di J.K. Rowling è, inutile dirlo, di alsembianze animali, anche nel presente Bestia- Raddatz ingabbia gli autori in accuratissimi e tra natura. Il lancio di The Casual Vacancy rium: da Max Frisch (panda svizzero), ad lucidi ritratti, dimenticando però a volte il (settembre 2012), suo primo romanzo dal Hans Magnus Enzensberger (inclassificabile lettore, primo fruitore di una letteratura loncompletamento del ciclo su Harry Potter, è farfalla), per arrivare a Günter Grass, esem- tana dai palcoscenici e dai loro animali. Lui stato un evento colossale, atteso con ansia da plare di anguilla proveniente dalla baia di stesso non riesce a mancare: si descrive come giornalisti e commentatori in varie parti del Danzica, in grado di ingoiare allegramente uno splendido uccello lira dal vanitoso piumondo. Persino per un’autrice di culto come Rowling, tuttavia, il successo dipenderà dalle reazioni dei lettori. Chissà se i milioni di ragazzi, oggi divenuti adulti, che alla fine degli anni Novanta divorarono le prime storie di di Federico Novaro Harry Potter, apprezzeranno questo esperimento di realismo sociale in stile ventunesimo secolo: uno studio rima delle feste, la fiera Più li- cendiato il mondo per te! Vuoi il nero, e il colobri più liberi è un buon osser- bruciare con me?”. La presenta- phon. della tetra vita di provincia, con vaHacca, nella vatorio per provare a intuire come zione che ne dà il sito: “Un territosto numero di personaggi e trame inandrà e com’è andata, senza le tos- rio letterario manicheo, in cui viga veste grafica consolidata, sempre trecciate, che guarda da lontano a sine e gli estrogeni dei libri panet- la vibrazione della voce (e del cor- limpida e ammirevole (progetto di Elizabeth Gaskell e George Eliot. Fitoni. Difficile quest’anno trarne po), lo sfibramento, sfinimento (o Maurizio Ceccato/Ifix), prosegue nora le reazioni sono state miste. Il segnali forieri d’ottimismo. Diffi- resistenza) dell’io e dell’altro den- il programma di antologie con ESC. grande interesse suscitato da Mantel coltà è la parola più spesa, e nella tro il mondo brutale, la contraddi- Quando tutto finisce, a cura di e Rowling, indica una tendenza più bulimia produttiva delle decine e zione, l’estremismo delle posture, Rossano Astremo e Mauro Maragenerale nella narrativa britannica decine di marchi così autistici da delle ideologie, il referto violento e schi: undici fra autori e autrici (nacontemporanea: per molti scrittori rendere il sottotitolo della fiera più pragmatico di un rapporto incri- ti fra il 1965 e il 1982) chiamati a affermati, oggi, la letteratura è soun dubbio che un’affermazione, il nato tra soggetto e oggetto”. Il pri- confrontarsi sul tema della fine. prattutto un gioco spericolato con la lavoro intelligente, paziente, fati- mo libro, Il ragazzo a quattro zam- L’antologia è qui preziosa per moltradizione dei generi, un esercizio di coso dei molti marchi che invece pe di Simone Bisantino, è un capo- ti motivi: compare nella collana bricolage e apertura verso i più diintendono il proprio lavoro in ma- lavoro d’arte editoriale (progetto “Novecento.0” (già cinquanta versi campi della cultura [literature is niera critica rischia di affogare. La di Michele Colonna): neanche 80 uscite, un raro, acuto, lavoro di above all a tantalizing play with gendifficoltà a essere percepiti come pagine, stretto e lungo (12 x 20 scavo nella letteratura italiana); la re traditions, an exercise in changing prodotto complesso, crocevia di cm), brossura, pagine interne scelta dell’immagine: la sezione di tack and opening up to the most diautorialità alte e diverse, in mezzo stampate su una carta dal bianco un utero che rivela un feto, feroceverse cultural fields]. Si direbbe che a un mare di robaccia, diventa via attenuato, copertina in cartoncino mente ironica per un volume che le donne giochino un ruolo imporvia più ardua e, probabilmente, nero opaco, scritto in rosa-viola esce per Natale, in equidistanza tante in questa nuova ed eccitante perfetta fra attrazione e respingiscoraggiante. In questo clima è in- delicatamente sberluccicante; nelfase della letteratura in lingua ingleteressante che viva un’attenzione la metà inferiore della copertina mento; la natura dei racconti, se. L’Orange Prize for Fiction, l’unialla scrittura contemporanea in un grande foro rivela un’illustra- commissionati, discussi, seguiti co premio annuale, in Gran Bretadai curatori; gli autori, nessun italiano, scrittura che appare in sé zione (di Giuseppe Incampo) sulla gna, destinato a opere letterarie prodisperata, dal rarefarsi del mercato carta di guardia, stampata con lo esordiente. Una somma di gesti ardotte da donne, ha acquistato imditi che dimostrano la forza di un già angusto per via di una lingua stesso rosa dei titoli e nero, su portanza e prestigio crescenti: giunmarchio lontano dal gran bailambianco, sovrastata da indicazione poco parlata, ancor meno letta, into al diciassettesimo anno, è stato asdirizzata dai grandi marchi a farsi del titolo, autore, editore; oltre, la me delle librerie di catena. segnato, nel Maggio 2012, alla scritInfine si segnalano nottetempo, vanamente internazionale, spesso pagina dell’occhiello è bianca, e ritrice americana Madeline Miller. Il oltre ogni tempo massimo, e che porta in basso, in corpo minuto, la che affida a Chiara Valerio la collasuo romanzo d’esordio The song of na “narrativa.it”, due uscite previinvece trova ospitalità e sostegno dedica; poi due pagine nere, con in (settembre 2012) è una riAchilles ste all’anno, di esordienti, graficacorpo gigante una citazione di Dupresso marchi la cui brevità dei biscrittura stravagante e divertente di lanci risulta più favorevole, alme- mas; fra le pagine un tondo nero: è mente indistinguibili dalla collana una delle storie più note e leggendala parte mancante della copertina, di narrativa della casa, e Transeuno alla varietà. rie – l’Iliade di Omero –, che nel roCaratteri mobili, che dimostra funge da segnalibro e riporta una ropa, che con Il diciottesimo commanzo diviene la storia di una propleanno di Riccardo Romagnoli si ben più dei suoi due anni di vita, e citazione dal testo, e l’url del sito; il fonda ma goffa amicizia maschile tra concentra sul suo unico esordiente testo è giustificato a sinistra, marun gusto grafico e tematico ben il timido e tormentato Patroclo e l’epiù internazionale degli angusti gini sottili; la pagina della fine ha il dell’anno, segnalato all’editore da roico e apparentemente perfetto Antonio Moresco; chiudiamo con patri confini, apre una collana de- vezzo di una citazione dell’illustraAchille. Dalla corte di Enrico VIII dicata alla letteratura italiana con- zione, seguono due pagine con, Tunuè, che annuncia ora per il alla magica Hogwarts, dalla sonnotemporanea, “gli incendiati”, che brevissima, una nota al testo e due 2014 l’apertura del marchio alla narrativa, con una collana, ancora lenta Pagford sperduta nel cuore interventi critici, che non occupaha in esergo una citazione da Andella West Country ai campi di battonio Moresco: “Guarda… Ho in- no una metà pagina, poi di nuovo innominata, in cerca di esordienti. taglia di Troia. E oltre.

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VILLAGGIO GLOBALE

Appunti


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Pierre Rosanvallon Ripensare l’eguaglianza: una lectio magistralis Francesco Peri e Vito Di Bernardi Per i cento anni di John Cage Antonino Daniele e Franco Marenco Meneghello nei ricordi dell’amico Zanettin e nelle Nuove Carte Franco Pezzini Gli apocrifi di Sherlock Homes I concetti e la storia. Intervista a Francesca Trivellato di Massimo Vallerani Andrea Carosso Gore Vidal nel vivo della storia americana Adriano Zecchina e Arianna Montorsi Come si finanzia la ricerca scientifica Andrea Nicolotti Il sangue di Cristo nelle dispute terminologiche Anna Strumia Un bilancio editoriale del tricentenario di Rousseau

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Ripensare l’eguaglianza in un’epoca di ineguaglianze di Pierre

an Pato∞ka Memorial Lecture tenuta nel novembre 2011 all’Institut für Wissenschaften von Menschen di Vienna da Pierre Rosanvallon, professore al Collège de France. Riprendiamo il testo in versione ridotta pubblicato sull’IWMpost, n. 108 che anticipa per il lettore italiano le riflessioni contenute nel suo ultimo libro (non ancora tradotto) La Société des égaux, pp. 432, € 22.80, Seuoi, Paris 2012.

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utti sanno che le ineguaglianze sono esplose dagli anni ottanta e che ciò è dovuto essenzialmente all’enorme aumento dei redditi alti. Dappertutto si trovano statistiche a documentarlo. Il punto è che la crescente ineguaglianza si pone in netto contrasto con il suo precedente declino in Europa e in America, ed è certamente rilevante il fatto che il recente incremento sia conseguente a un lungo periodo di riduzione delle diseguaglianze di reddito e ricchezza in entrambi i continenti. L’attuale sistema segna una clamorosa rottura con il passato, invertendo la tendenza del secolo scorso. Sembra essersi avviato un ritorno al XIX secolo, con significative ripercussioni sulle nostre democrazie. Il “popolo”, inteso in senso politico come entità collettiva che impone con sempre maggior forza la sua volontà, è sempre meno un “corpo sociale”. La cittadinanza politica ha fatto dei passi avanti, mentre quella sociale è regredita. Questa lacerazione della democrazia costituisce un’inquietante minaccia per il nostro benessere; e il suo protrarsi potrebbe alla fine mettere in pericolo il regime democratico stesso. Di questa sofferenza, l’ascesa dei movimenti populisti è al tempo stesso un indicatore e la forza trainante. Per capire la “grande inversione” attuale, dobbiamo partire dalla precedente “grande trasformazione”. Il riformismo della paura Lo sviluppo del movimento operaio e la sua traduzione in voti socialisti (con il suffragio universale) alla fine del XIX secolo esercitò una pressione sui governi conservatori. “Dobbiamo scegliere tra una rivoluzione fiscale e una rivoluzione sociale”, concluse Emile de Girardin in Francia. L’esempio tedesco è il più rilevante al riguardo. Per Bismarck, l’opzione riformista fu chiaramente un calcolo politico: l’intento immediato era di contrapporsi alla diffusione delle idee socialiste mostrando l’interessamento del governo per le classi lavoratrici. In Germania, in altri termini, il programma teso a ridurre le diseguaglianze sociali e a compensare le tribolazioni lavorative degli operai fu dettato da quello che potremmo chiamare il “riformismo della paura”. La maggior parte degli altri paesi europei seguirono la linea tedesca. Dopo il 1918, tutti questi fattori politici e so-

Rosanvallon

ciali conversero nello spingere i gover- emerse infine fu una nuova visione delni a estendere e accelerare le riforme la stessa impresa. Una concezione nuova della natura della società cambiò il avviate prima della guerra. modo di pensare l’eguaglianza e la soliGuerre mondiali e nazionalizzazione del- darietà sul finire del XIX secolo. I pala vita dri fondatori della sociologia europea – Lo sviluppo delle ineguaglianze è Albert Schäffle in Germania, John A. strettamente legato al distacco di alcu- Hobson e Leonard T. Hobhouse in Inni individui dalla media e alla legitti- ghilterra, Alfred Fouillée in Francia – mazione del loro diritto a distinguersi concordavano tutti sul fatto che la soe a separarsi dagli altri, dunque all’an- cietà fosse un insieme organico. teporre il privato alle norme pubbliSocialisti della cattedra in Germania, che. L’esperienza della prima guerra fabiani e New Liberals in Gran Bretagna, mondiale rovesciò questa tendenza: in repubblicani solidaristi in Francia: alla un certo senso, la guerra nazionalizzò fine del XIX secolo ci fu una convergenle vite della gente. Le attività private za tra questi vari movimenti politici e in-

vennero ampiamente modellate dai vincoli pubblici, e le relazioni sociali tesero quindi a polarizzarsi tra due estremi: ripiegamento all’interno della cerchia familiare o coinvolgimento nei superiori problemi della nazione. In pratica non rimaneva alcun terreno intermedio tra la famiglia e il paese. Il fatto che la guerra mettesse a rischio la vita di tutti riportava in auge i principi fondamentali dello stato di natura. L’esperienza della Grande guerra segnò pertanto una svolta decisiva nella modernità democratica, reintroducendo in modo diretto e palpabile l’idea di una società di esseri umani eguali. La fraternità nel combattimento e la commemorazione del sacrificio sono fenomeni complessi, ma contribuirono ad aprire la strada a una maggiore solidarietà sociale. I versamenti previdenziali concessi ai reduci portarono a una generale riconsiderazione dei sussidi sociali e degli altri trasferimenti redistributivi. La de-individualizzazione del mondo La rivoluzione redistributiva fu resa possibile da queste condizioni storiche e politiche, ma fu anche il frutto di una rivoluzione intellettuale e morale che permise di concepirla. In breve, la redistribuzione divenne possibile perché l’economia e la società furono “de-individualizzate” da pensatori che rigettarono le vecchie idee della responsabilità e del talento individuale. Ciò che

tellettuali. Tutti quanti riformularono in termini molto simili la questione di come è costituita la società. L’idea di una società composta da individui sovrani, autosufficienti, lasciò il posto a un approccio basato sull’interdipendenza. In questo nuovo contesto vennero completamente ridefinite le nozioni di diritto e dovere, di merito e responsabilità, di autonomia e solidarietà. L’eguaglianza come redistribuzione divenne non solo pensabile, ma anche possibile. L’introduzione dell’imposta progressiva sul reddito e i cambiamenti nelle tasse di successione furono da allora strettamente connessi alla crescente popolarità dell’idea che ognuno nasca con un debito verso la società. Una nuova visione della povertà e dell’ineguaglianza Lo sviluppo del Welfare State e delle istituzioni redistributive fu favorito dal fatto che venisse vieppiù riconosciuta la natura sociale dell’ineguaglianza. La gente era sempre più disposta a vederne la causa strutturale nell’organizzazione sociale, anziché nelle oggettive e legittime differenze individuali o nei comportamenti personali. Nella prima metà del XX secolo le critiche socialiste all’assetto sociale si diffusero grazie a questa nuova rappresentazione della società. E cambiava anche la visione della povertà.

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▼ È evidente che non esistono più i fattori politici e storici della “grande trasformazione”. Dopo la caduta del comunismo, non c’è più spazio per un riformismo della paura. Le paure sociali esistono ancora, ma riguardano cose come la violenza, la sicurezza o il terrorismo. Invocano uno stato autoritario invece che solidale. Analogamente, le minacce ecologiche suscitano paure rispetto al destino delle future generazioni, che vengono però espresse in modo generale e astratto, non in termini di redistribuzione sociale.

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- Politica

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è poi, ancor più rilevante, l’impatto della trasformazione del capitalismo e della società. Il capitalismo che cominciò a emergere negli anni ottanta era diverso dalle sue precedenti forme organizzate per due aspetti. Innanzitutto cambiava il rapporto con il mercato, nonché il ruolo attribuito agli azionisti. In secondo luogo il lavoro veniva organizzato in modi nuovi: il fordismo, basato sulla mobilitazione di grandi masse di operai, lasciò il posto a un’esaltazione delle capacità creative individuali. La creatività divenne così il principale fattore di produzione. Per descrivere questo cambiamento furono coniate espressioni come “capitalismo cognitivo” o “soggettività produttiva”. La qualità è dunque diventata una caratteristica centrale della nuova economia, segnando una netta rottura con la precedente economia della quantità. Si sono quindi maggiormente diversificate le procedure lavorative e così pure i prodotti. Questi mutamenti hanno fatto esplodere una crisi in società prima governate dallo spirito dell’eguaglianza redistributiva. Al tempo stesso, la nuova epoca dell’ineguaglianza e della solidarietà svigorita è stato un periodo di elevata consapevolezza delle discriminazioni sociali e di tolleranza di molti tipi di differenza, un fatto spesso trascurato dai critici. Il quadro è quanto meno contraddittorio, e mentre si sono fatti dei passi indietro, ci sono stati innegabili progressi rispetto alla condizione delle donne, all’accettazione delle differenze nell’orientamento sessuale, e in generale dei diritti individuali. Se vogliamo capire i mutamenti recenti delle nostre società, dobbiamo prendere atto di tutte queste tendenze divergenti. Un buon modo è quello di guardare alle trasformazioni “interne” della “società degli individui”, che non comparve improvvisamente alla fine del XX secolo, ma ha costituito la cornice entro la quale si sono sviluppate per oltre due secoli le istituzioni moderne. In poche parole, ciò che abbiamo bisogno di comprendere è la transizione da un individualismo dell’universalità a un individualismo della singolarità, che rispecchia anch’esso nuove speranze democratiche. Nei regimi democratici associati all’individualismo universalistico, il suffragio universale significava che ogni individuo aveva titolo alla stessa porzione di sovranità di tutti gli altri. Nelle democrazie il cui modello sociale è l’individualismo della singolarità, l’individuo aspira a essere importante e unico agli occhi degli altri. Ciascuno rivendica implicitamente il diritto a essere considerato una celebrità, un esperto o un artista, ovvero, si aspetta che le proprie idee e giudizi vengano tenuti in conto e riconosciuti come validi. In questo nuovo contesto l’eguaglianza non ha perso nulla della sua importanza. La forma più intollerabile di ineguaglianza è ancora il non essere trattato come un essere umano, il venire rifiutato come indegno. L’idea di eguaglianza implica quindi il desiderio di essere considerato uno che conta, una persona simile agli altri anziché esclusa in nome di una qualche differenza specifica. Essere riconosciuti “pari” agli altri vuol dire perciò che si è tali per la comune appartenenza al genere umano (rimandando al senso originario di “umanità” come qualità unitaria indistinta). Ma ciò ha assunto un significato più ampio e complesso, fino a includere il desiderio di una propria distinzione – una storia e caratteristiche personali proprie – riconosciuta dagli altri. Nessuno vuole essere “ridotto a un numero”. Ciascuno vuole “essere qualcuno”. Di qui la centralità dell’idea di discriminazione, considerata il

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marchio di un’offesa tanto alla somiglianza quanto alla singolarità. In seguito a questi diversi fattori, l’idea di eguaglianza è oggi entrata in una crisi profonda. Quali le opzioni? La prima è un ritorno ai mali del tardo Ottocento, l’epoca della prima ondata della globalizzazione, come dire: nazionalismo aggressivo, xenofobia e protezionismo. Quest’ultimo era sorretto da un’idea puramente negativa dell’eguaglianza. La espresse brutalmente Barrès: “L’idea di ‘patria’ implica una forma di ineguaglianza, ma a danno degli stranieri”. In altre parole, l’obiettivo era di compattare al loro interno (alcuni) gruppi di persone sfruttando una relazione di diseguaglianza. La peculiarità del protezionismo nazionale della fine del XIX secolo era che rappresentava un caso estremo, l’esito di una polarizzazione sia dell’identità sia dell’eguaglianza, restringendo l’idea di eguaglianza all’unica dimensione dell’appartenenza nazionale vista come omogeneità, ridotta essa stessa a una definizione negativa (“non stranieri”). La creazione di un’identità richiede sempre una demarcazione, una separazione, in qualche modo un gioco di specchi. Ma l’identità deve anche essere legata a un’idea propriamente positiva di vita in comune per produrre un sentimento democratico di appartenenza. È ciò che distingueva la nazione rivoluzionaria del 1789 dal nazionalismo di fine Ottocento. La prima era associata alla formazione di una società di eguali, mentre il secondo concepiva l’integrazione in modo non-politico, semplicemente come fusione di individui in un blocco omogeneo. Tale visione nazional-protezionistica è oggi alla base dei movimenti populistici in Europa e negli Stati Uniti. La seconda opzione è una politica della nostalgia che invoca una rinascita del repubblicanesimo civico e/o degli antichi valori e istituzioni delle socialdemocrazie del passato. La invocava il defunto Tony Judt nel suo libro-testamento Guasto è il mondo. Per quanto altamente nobile, tale visione non tiene purtroppo in adeguata considerazione il carattere irreversibile dell’individualismo della singolarità, che non va confuso con l’egoismo e l’atomismo. Il punto cruciale è I LIBRI DI ROSANVALLON TRADOTTI IN ITALIANO L’età dell’autogestione: la politica al posto del comando, Marsilio, Venezia 1980 Lo stato provvidenza: tra liberismo e socialismo, Armando, Roma 1984 La rivoluzione dell’uguaglianza: storia del suffragio universale in Francia, Anabasi, Milano 1994 Liberismo, stato assistenziale, solidarismo, Armando, Roma 1994 Prefazione a una teoria della disillusione verso la democrazia, Anabasi, Milano 1994 La nuova questione sociale: ripensare lo stato assistenziale, Lavoro, Roma 1997 Il popolo introvabile: storia della rappresentanza democratica in Francia, il Mulino, Bologna 2005 Il politico: storia di un concetto, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2005 La politica nell’era della sfiducia, Città aperta, Troina (EN) 2009 Controdemocrazia: la politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma 2012 L’ultimo libro citato apre una trilogia di cui fanno parte La légitimité démocratique (Seuil, Paris 2008) e La société des égaux (Seuil, Paris 2011), non ancora tradotti in Italia. Nel testo di Pierre Rosanvallon che presentiamo in queste pagine ai lettori italiani, sono ripresi temi e riflessioni sviluppate nella trilogia, e in particolare ne La société des égaux.

che la grande inversione non è la conseguenza di un “patto violato” (si veda George Packer, The broken contract, “Foreign Affairs”, 2011, n. 6) o di una perversione morale. È il prodotto di fattori storici e politici tanto quanto di trasformazioni strutturate che investono il modo di produzione e la natura del legame sociale. Il neoliberalismo è stato, finora, l’interpretazione più attiva di tali cambiamenti: considera la società di mercato e la prospettiva di una competizione generalizzata come il compimento della modernità in quanto modello auspicabile di umanità e di realizzazione personale. Ma ne andrebbero evitati i malintesi. Non è soltanto un’ideologia vincente e negativa, è anche una strumentalizzazione perversa della singolarità. Che le aziende attuali, ad esempio, usano come un mezzo di produzione, senza tenere in alcun conto l’autorealizzazione dei lavoratori. Di qui, nuovi tipi di conflitti sociali sui temi del rispetto e delle vessazioni morali. Il problema è che le critiche al neoliberalismo molto spesso trascurano l’aspirazione positiva alla singolarità e non tengono conto di come esso modifichi profondamente i giudizi riguardanti forme praticabili di eguaglianza nonché forme tollerabili di ineguaglianza. ggi, esiste in realtà un’unica risposta positiva alle sfide dei tempi. Le teorie della giustizia riesaminano la questione dell’ineguaglianza spostandola dal terreno sociale a quello dei rapporti interindividuali. Si fondano su una nuova considerazione delle “ineguaglianze giuste” in quanto dettate da criteri di merito e responsabilità. Una prospettiva che è stata ovunque chiamata delle pari opportunità, pur con una grande varietà di definizioni, dalle minimaliste a quelle radicali. Ma giustizia non è sinonimo di eguaglianza. Non dice nulla circa la natura di una società democratica. Ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo modello di solidarietà e integrazione in un’epoca di singolarità. Tuttavia, se oggi si vuole una maggiore redistribuzione, questa va re-legittimata. In che modo? Ridefinendo l’eguaglianza in una dimensione universalistica, ovvero con un ritorno alle visioni delle Rivoluzioni francese e americana: a un’idea dell’eguaglianza come relazione sociale e non come misura aritmetica. In quei momenti storici, l’eguaglianza venne intesa innanzitutto come relazione, come un modo di costruire una società, di produrre e vivere insieme. Veniva considerata una qualità democratica, e non solo una misura distributiva della ricchezza. Questa idea relazionale dell’eguaglianza era articolata in rapporto ad altri tre concetti: somiglianza, indipendenza, cittadinanza. La somiglianza corrisponde all’eguaglianza come equivalenza: essere “simili” vuol dire avere le stesse proprietà essenziali, tali da rendere ininfluenti le restanti differenze. L’indipendenza è l’eguaglianza come autonomia: definita negativamente come assenza di subordinazione e positivamente come equilibrio nello scambio. La cittadinanza implica l’eguaglianza come partecipazione: è data dall’appartenenza comunitaria e dall’attività civica. Fu così che il progetto dell’eguaglianza come relazione venne interpretato nei termini di un mondo di esseri umani simili (o semblables, come direbbe Tocqueville), di una società di individui autonomi e di una comunità di cittadini. Queste idee furono scardinate dalla rivoluzione industriale, che aprì la prima grande crisi dell’eguaglianza. Per superare la seconda grande crisi, dobbiamo riconquistare lo spirito originario dell’eguaglianza in una forma adeguata all’epoca attuale. Oggi i principi di singolarità, reciprocità e comunanza possono ricostituire l’idea di una società di eguali e far rinascere un progetto per crearla. Devono essere questi principi a fornire la legittimazione di base per nuove politiche redistributive. Realizzare una società di eguali dovrebbe essere la nuova denominazione del progresso sociale in una dimensione universalistica. Perché la cosiddetta “questione sociale” non riguarda soltanto la povertà e l’esclusione: si tratta anche di ricostruire un mondo comune per ■ l’intera società.

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(Traduzione dall’inglese di Santina Mobiglia)


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Per i cento anni di John Cage L’armonia delle spore di

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l suo cognome si traduce “gabbia”, eppure nessato è ancora fresco e il futuro in qualche modo già geti, che pure adorava i meccanismi, lo avrebbe basun compositore ha fatto altrettanto per mostrarpresente, sono probabilmente le migliori. È questa ciato in fronte. Al tempo stesso, però, Cage ribadici che siamo più liberi di quanto credessimo. “Why la fase in cui Sylvester “coglie”, come si coglie un sce contro le letture “genialoidi” la serietà e la fatica del suo lavoro di compositore: “Io faccio tante not?”, “perché non fare anche così?”, potrebbe esfungo, il pensiero del suo interlocutore. sere la sua divisa, accompagnata a discrezione dalUna prima scoperta interessante è che Cage non stesure come chiunque altro”. Un secondo tema forte, di derivazione orientale, l’immagine di un sasso, di un cerchio, di un cactus o lavora nel vuoto, al di qua o al di là della storia. È di un fungo, oppure da niente del tutto. La logica di un compositore americano, figlio di una tradizione: è quello della “disciplina” dell’ascolto, intesa non Cage, di cui è da poco trascorso il centenario della ha un passato da smaltire, un presente con cui con- come attenzione strutturata (anzi, a Cage e David nascita, è rigorosamente non dialettica, non conosce frontarsi e un padre da uccidere. Quel padre, iro- Tudor piaceva iniziare a suonare prima dell’arrivo la contraddizione e l’aut aut. Si può lavorare in un nia della storia, è Arnold Schönberg, che accettò di del pubblico), ma come non-intenzione, cioè come modo, ma anche in un altro. Si può farlo ora o tra impartirgli lezioni gratuite, e da cui Cage non im- uno spogliarsi dei propri abiti percettivi e delle vent’anni. La sua percezione del mondo è non geparò nulla, se non a conoscere se stesso, come si co- proprie priorità individuali per porsi interamente, rarchizzata, non tassonomica, indifferente alle grinosce il proprio volume sbattendo la testa contro la gratuitamente all’ascolto del suono. Qualunque glie del pensiero moderno: una “riduzione” che depareti di una stanza buia. Il ricordo di Schönberg è evento acustico, alla lunga, diventa interessante: ve qualcosa al trascendentalismo americano e molto vivo in tutti gli scritti di Cage, anche se la musica basta avere pazienza. Il silenzio non esiste, è un alle lezioni di Suzuki Daisetsu sullo zen, ma che è dell’“allievo” si definisce proprio in opposizione nostro pregiudizio. “Noi sappiamo che questo tasoprattutto un sentimento personale della vita. “Sodiametrale, puctum contra punctum, a quel magiste- volo è in uno stato di vibrazione. Di conseguenza mething always happens”, diceva: sta sempre succero e alla tradizione europea sedimentata nell’auto- sta producendo un suono, ma ancora non sappiadendo qualcosa. E il Cage raggiante che la fotograre del Manuale di armonia. Per capire Cage bisogna mo quale sia”. I pezzi per cactus amplificati del fia ci ha conservato in tanti esemplari sembra agrovesciare Schönberg. L’intervista del 1966 si apre 1975-76 e Inlets del 1977, per tre esecutori armati giungere: “Già, non è fantastico?”. Il movimento non a caso con queste parole: “La prima cosa che di conchiglie, si inscrivono in questa logica. Tropdella polvere, il sorgere del sole, il passo di quel tiho imparato da lui, una cosa che penso di non usare po smilzo e rapsodico per essere un breviario del zio laggiù sono eventi ugualmente degni, ugualmenpiù, è stata la comprensione della struttura”. Strut- Cage-pensiero, ma così ricco di spunti da ammette nuovi e ugualmente eccitanti ai suoi occhi. Ogni tura intesa come sintesi e lavoro della forma, alla te- tere, anzi sollecitare ripetute letture, anche alla lucosa ha un suono, è suono: bisogna solo imparare ad desca, laddove Cage amerà sempre la giustapposi- ce di altri documenti, il volumetto con cui Castelascoltare la sua voce. “Everything is holy”, avrebbe zione, la musica in “parti”, la suddivisione astratta vecchi omaggia il centenario cageano è una piccopotuto concludere Cage con Allen Ginsberg, se la del tempo, gli eventi irrelati. “Io non faccio mac- la delizia. La traduzione, al netto di alcune imprecategoria di “santo” – intrinsecamente differenziale chine”, afferma, alludendo alla scrittura sinfonica cisioni ortografiche e di qualche sbavatura tecnica, – avesse avuto un senso per lui. di Wagner e Mahler: “Faccio qualcosa di molto più è scorrevole e briosa. E questo, purtroppo, è tutto. Nel senso che il Bisogna guardarsi, però, dal fare di Cage una sorsimile al tempo atmosferico. Faccio un nulla”. Li2012 non ha visto altre proposte editoriali di rilievo. ta di saggio, un uomo di pensieri. La sua parabola è Probabilmente è un’illusione ottica, un’inevitutta nel segno della promessa fatta a Schöntabile sfasatura, e basterà attendere qualche berg nel 1933, l’impegno a dedicare la sua vita mese per sfogliare altri frutti del giubileo caalla musica, un giuramento che negli anni quageano. Nel frattempo, però, vale la pena fare ranta Cage volle onorare anche a rischio di padi Vito Di Bernardi un piccolo passo indietro e ricordare il sontire la fame. Uno dei più coriacei luoghi cotuoso John Cage pubblicato da Mudima nel muni sul suo conto, ripetuto ancora di recente 2009, a cura di Gino Di Maggio, Achille Boda Pierre Boulez, è che fosse una sorta di filoonversare con John Cage era ascoltare e parlare con una pernito Oliva e Daniele Lombardi, un volume sofo, più che un musicista. Il suo contributo sona dalla mente agile, che generava continuamente nuove che tra l’altro esplora il rapporto tra il comalla storia del Novecento sarebbe quindi es- possibilità”. Così, nel 1995, Merce Cunningham ricordava l’amico, il positore e l’Italia, dall’happening emiliano senzialmente teoretico, non compositivo. Con- musicista e il compositore che aveva contribuito in maniera determidel 1978, Il treno di John Cage, al surreale tro questa chiave di lettura ha protestato più di nante a rivoluzionare il suo modo di intendere e praticare la danza, passaggio di Cage a Lascia o Raddoppia, dove altri James Pritchett, il principale studioso del- guidandolo verso i territori dell’happening, dell’alea, della meditazionel 1959 l’ospite americano vinse una piccola la produzione cageana post 1951, quella per ne Zen. Nel 1944 Cunningham coreografò il suo primo spettacolo – fortuna grazie alla sua erudizione di micologo molti più indigesta perché compromessa con il composto da sei assolo – su musiche di Cage. Da quel momento in dilettante (ci comprò un furgone per le tour“caso”, e il numero addirittura vertiginoso di poi i due artisti cominciarono a mettere in pratica l’idea di separare née con Merce Cunningham). In quell’occaincisioni sul mercato sembra dargli ragione. La la danza dalla musica. Queste, durante lo spettacolo, avrebbero seguito due percorsi indipendenti, mantenendo soltanto pochi punti di sione lasciò di stucco Mike Bongiorno suodiscografia è ormai impadroneggiabile. nando un “complesso formato da un pianoAl tempo stesso, senza per questo invocare contatto in determinate zone della struttura ritmica. Si trattava di una forte, due radio, un frullatore, un innaffiaspareggi o semplificazioni, chi scrive fatica ad modalità mai sperimentata prima, una modalità nuova sia rispetto alla tradizione del balletto classico, sia rispetto alla prassi della modern toio, un fischio, un gong, un bollitore”. aggirare l’impressione che le parole di Cage e dance, dove esisteva sempre una stretta correlazione tra la forma coIl libro si segnala innanzitutto per le sue la sua stessa persona siano talvolta (spesso?) reografica e quella musicale. Cage voleva “liberare la musica dalla nestraordinarie fotografie, molte delle quali più interessanti delle sue partiture, e che il suo cessità di procedere di pari passo con la danza e liberare la danza dal inedite. Alcuni scatti del compositore quasi “gesto”, cioè il suo modo di fare, anche nel dover interpretare la musica”. Influenzato da Marcel Duchamp, vosettantenne, che all’epoca sfoggiava una hesenso del fare musica, abbia più peso e mag- leva anche liberare le performing arts dalla schiavitù di un senso comingwayana barba bianca, sono tra i ritratti giore pregnanza di questo o quel lavoro in sé, struito a priori. Musica e danza si sarebbero incontrate direttamente in assoluto più belli e vivaci di Cage (l’obinteso come creazione originale. Dopo Cage è sulla scena, nel momento stesso della “prima” dello spettacolo. Fu biettivo è quello di Roberto Masotti). Più li si diventato difficile, peraltro, affermare con Cage a spingere Cunningham ad abbandonare la Graham e a formaguarda, più è inevitabile pensare che il suo franco-teutonica perentorietà che cosa sia re una sua compagnia quando, a metà degli anni Quaranta, la grande eterno e inconfondibile sorriso sia misterioun’opera d’arte musicale, dove essa inizi e do- coreografa americana sembrava aver rinunciato alla sua rivoluzionasamente parte della sua fisionomia di artista, ve finisca, distinguere il buono dal meno buo- ria ricerca sul movimento per piegare la danza ad esigenze letterarie anzi della sua stessa concezione musicale, no. Il vero rischio, piuttosto, è appiattire l’una e drammaturgiche. L’inizio degli anni Cinquanta per Cage e Cunninquanto e più di specifici aspetti compositivi e l’altra cosa – le note e le idee – su una di- gham fu segnato dalla scoperta del Teatro e il suo doppio di Antonin che si potrebbero formalizzare in termini mensione blandamente “concettuale” (per Artaud, dal rifiuto del teatro della rappresentazione, dalla creazione tecnici. La grande novità di John Cage, quelquanti milioni di persone Cage è solo l’autore dei primi happening che videro coinvolti insieme a musicisti e danla che ha cambiato la nostra percezione del di 4’33’’?), o feticizzare il gimmick dadaista (il zatori anche poeti e artisti visivi come Charles Olson e Bob Rausuono e della temporalità, stava in un infinipianoforte preparato, le radioline). È questa schenberg. In quegli stessi anni Cage e Cunningham, ispirati dalla lettura de I Ching, introdussero nel processo creativo dei loro spettacoto dire di sì a ciò che accade e nell’accettare l’immagine di Cage che non funziona. li le operazioni aleatorie: suoni e gesti – classificati secondo il sistema il fatto stesso dell’accadere come un dono L’intervista del 1966 riproposta da Castel- degli esagrammi cinesi — venivano posti in sequenza e assemblati caprezioso (l’insistenza sull’aleatorio va letta vecchi per il centenario aiuta a raddrizzare la sualmente tirando dadi e monetine, lanciando in aria sottili bastoncianche in questa chiave). Tra i molti contribubarra (David Sylvester, John Cage, trad. dal- ni di legno. Complessivamente, Cunningham ha coreografato circa ti segnaliamo una bella intervista a Walter l’inglese di Adelaide Ciuni, Castelvecchi, pp. sessanta opere su musiche composte da Cage. Come ebbe a notare lo Marchetti, una nota d’epoca di Sylvano Bus55, € 7, Roma 2012). Il volumetto è una sor- stesso Cage, la ricerca dell’indeterminazione, che il musicista stava sotti e cinque testi di Daniel Charles, altro ta di tiré à part dalle Interviste ad artisti ame- sempre più raffinando e radicalizzando nelle sue performance musistorico interlocutore di Cage. I saggi più anaricani del critico e curatore David Sylvester cali, ad un certo punto entrò in contrasto con le leggi fisiche della litici, che oscillano tra l’esegesi, la parafrasi e (1924-2001), che l’editore romano ha manda- danza, più costrittive di quelle che regolano il movimento della soil ricordo, con qualche inevitabile derapata to parallelamente in libreria. Allergico ai pro- stanza sonora. L’interesse e la passione per i modi e le forme dell’efilosofica, si intrecciano ai documenti e a un clami, ai programmi e alle convenzioni della nergia del corpo danzante allontanò Cunningham dagli happening corredo grafico sontuoso. Un punto di riferiprosa (pur essendo uno stilista di talento, co- ma non dalla collaborazione e dal sodalizio con il musicista. Cage ■ mento nella bibliografia italiana. me lui stesso sapeva), Cage dà il meglio di sé stesso d’altra parte riconosceva alla danza un potere straordinario: soprattutto nelle interviste, e quelle rilasciate dall’accettazione delle costrizioni fisiche del corpo umano, dalla sua francescoperi@live.it a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, con le risposta ad esse, la danza riusciva a creare la gioia. loro risposte concise e spiazzanti dove il pasF. Peri è dottore di ricerca in filosofia

Happening, alea, meditazione Zen

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- John Cage

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Lo scrittore nelle memorie di Bruno, amico nella vita e personaggio dei suoi romanzi Da oggetto di ostilità a nume tutelare di un paese di

Antonio Daniele

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on capita spesso che un personaggio di uno dei paesaggio, propria di entrambi, ma che per Zanet- mico del cuore nella clandestinità; ma qui le loro romanzi più famosi della letteratura del nostro tin assumerà presto anche il carattere di una vera e strade si separano: uno prenderà la via delle montaNovecento si riappropri del suo ruolo, racconti anpropria professione (con l’attività di geologo e la gne, scomparendo dal paese, l’altro, dopo un periodo di renitenza, verrà arruolato nell’aviazione della che lui la “sua” storia in concorrenza con l’autore e partecipazione all’impresa del K2). porti il suo granello di verità in una vicenda che è già È proprio in occasione di una scalata pericolosa al repubblica di Salò. Il loro riavvicinamento avverrà stata travasata dalla vicenda collettiva di una comuCarè Alto, nel gruppo dell’Adamello, fatta nell’esta- alla fine della guerra, del tutto naturalmente, senza nità in una ricreazione fantastica, in una narrazione te del 1942 (in piena guerra) in compagnia di Me- strappi: “Gigi sapeva che, al di là di differenze ideoche, pur con i tratti di una veridicità sostanziale, porneghello e suo fratello Bruno, con a guida il più logiche, c’era fra noi un sostanziale accordo sui ta con sé anche quelli di un’innegabile invenzione aresperto alpinista Gigi Marchetti (amico d’università principi di base che regolano la vita sociale”. Anni tistica e di un’interpretazione soggettivissima della di Meneghello), che Zanettin ha la rivelazione della dopo (1964) Meneghello vorrà Zanettin al suo fianrealtà. È il caso di Bruno Erminietto (alias Bruno Zadissidenza ormai matura di Meneghello rispetto al co in occasione della presentazione dei Piccoli maenettin) che è entrato in Libera nos a malo di Meneregime fascista. In quella circostanza, ardua e fasci- stri a Vicenza, generando forse un qualche scandalo ghello per le sue imprese infantili (e poi saltuarianosa, una disputa politica tra Marchetti e Zanettin tra gli astanti consapevoli delle diverse storie politimente ma incisivamente) in altre opere meneghelliaverrà fermata da Meneghello con un perentorio: che dei due personaggi. In realtà la vera avversione ne come uno degli amici più intimi dell’autore, an“Lascia stare, Bruno è ancora ‘mussoliniano’”; e Za- di Meneghello era rivolta altrove, e in particolare dando a occupare un suo posto particolare in quel nettin non potrà che prendere atto della diversa verso “un partito clerical-borghese che (…) poco, e casellario di protagonisti reali che, per forza creativa, opinione dei suoi amici: “La cosa finì lì, ma a me, tardi, sarebbe stato impegnato nella Resistenza, andivengono quasi dei soggetti leggendari, depositari pensieroso (ma non tanto da togliermi l’incanto di zi, in qualche modo, era l’antitesi degli ideali per i di un mito letterario che si alona per riflesso del miquella luce fra ghiacci e rocce), era ormai chiaro che quali [egli] aveva combattuto”. La presenza di Zanettin nella narrativa di Meneto dell’autore. Con questa sua affettuosa rievocaziofra i giovani intellettuali italiani serpeggiava aria di ne di Meneghello (Bruno Zanettin, Luigi Meneghelfronda”. E poi vengono i giorni delle grandi scelte. ghello (a parte le esilaranti apparizioni in Libera lo: un’amicizia durata una vita, presentaz. di Manlio Meneghello tenta di trascinare, senza successo, l’a- nos a malo come personaggio reale) ha una salienza singolare in uno squarcio di capitolo (datato Pastore Stocchi, pp. 70, € 10, Accademia aprile 1963), nelle già citate Carte: forse un Olimpica, Vicenza 2012), l’autore ha voluto in vero e proprio inizio di romanzo. In esso un qualche modo ripagare il suo amico di una nograve, reale incidente automobilistico di Zatorietà romanzesca che gli è capitata in sorte nettin (qui ribattezzato Davide Dall’Igna e forse come il deposito più prezioso di una vita portato a morire) innesca tutta una curiosa trascorsa insieme, fin dalla primissima infanzia, ono le “nuove” e (forse) ultime “Carte” dal laboratorio Meneghelvicenda di assunzione di paternità sostitutiessendo entrambi i soggetti compaesani, nativi lo, trasferite al “Domenicale” del “Sole 24 ore” grazie all’insistenza va nei confronti del figlio dell’amico, come di quel paese dell’alto Vicentino, Malo, che ap- di Riccardo Chiaberge, insistenza, allora pur dubbiosa, che quegli “afose il romanziere cercasse un completamento poggiato a un rilievo collinare sta poco lontano rismi, appunti, note di diario, abbozzi (…) esperimenti, fantasie, sgordi sé nella persona dell’estinto, cui assegna dalla spalla rocciosa che sostiene l’Altopiano di bi” appartati e schivi potessero adattarsi a un pubblico abituato allo stitratti a lui pertinenti, altri ne corregge a suo Asiago. Le pagine di Zanettin non danno esca le più aperto e informativo dell’elzeviro: e ora, in questo volume (L’appiacimento. Su questo punto specifico le ina prurigini aneddotiche, non soddisfano quelle prendistato. Nuove Carte 2004-2007, prefaz. di Riccardo Chiaberge, pp. terpretazioni illustrative di Zanettin vanno curiosità che spesso si ricercano nelle biografie 321, € 20,Rizzoli, Milano 2012), corredate di note e chiose dei solerti in profondo, cercando di scavare nella psiscritte da chi è stato vicino alla figura famosa; responsabili del Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei cologia del suo comprimario: in ogni caso si collocano invece su quel crinale più difficile dell’Università di Pavia, necessarie per collegare i singoli brani al resto questo squarcio narrativo ci pare un lamdella rievocazione sfumata e sfaccettata che, della produzione dello scrittore maladense. L’apprendistato evocato dal pante esempio di immedesimazione e, impartendo da se stessi (com’è giusto) getta una titolo è un termine ricorrente nella produzione di Meneghello, sempre plicitamente, di nuovo, di emulazione. Anluce discreta anche sul proprio comprimario. allusivo al carattere continuo e mai finito dell’apprendimento di un’arche sulle cause del “dispatrio” di MeneghelCome riconosce anche Pastore Stocchi nella te, che fosse l’arte della scrittura per lui come l’arte del tornitore per il lo in Inghilterra (“isola incantata”) Zanettin sua prefazione, Zanettin “non racconta una padre, quando questi passò l’esame in cui gli era richiesto di produrre si sente di avanzare le sue ipotesi, indicanstoria, non tiene un diario di incontri e di av- il suo “capolavoro”, una “vite senza fine”; un esperimento, quello di padole in due fatti precisi e certamente non venture, non si fa propalatore indiscreto di fat- pà Meneghello, conclusosi con il “Basta così” del “capo” che lo stava a discostandosi dall’intimo sentire dello scritterelli curiosi. Invece si volge verso se stesso, guardare, e “aveva già capito che era bravo”. E la conclusione del figlio: “Vorrei poter fare così anch’io, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di tore: la disgregazione del Partito d’Azione, interroga i propri ricordi, riferisce ciò che essi veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da nel quale egli militava, e la vittoria della Desono divenuti giacendo e lievitando per tutti scrittore veramente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esamocrazia Cristiana nel 1948, che lo conferquesti anni nella sua mente”. minatori, mi diceste: ‘Ok, basta così’”. mò nell’idea che l’Italia fosse “un paese irreEppure, anche con questo intento minimale, Il destino ha voluto che Meneghello figlio scrivesse queste frasi pochi cuperabile, nel quale i suoi ideali civili mai le memorie di Zanettin investono di una nuova giorni prima di morire, ma in fondo noi tutti avevamo già detto e ripeavrebbero potuto affermarsi”. Zanettin si luce la figura dell’artista Meneghello, ci danno tuto, da Libera nos a malo fino agli ultimi volumi delle Carte, “Ok, basta diffonde poi sui riflessi che ebbe il soggiordelle conferme sulle sue precoci inclinazioni così”, non perché smettesse di scrivere ma perché ci pareva che quel suo no inglese sulle idee e i comportamenti di letterarie, sui suoi rapporti con i coetanei, “capolavoro”, quella sua singolare maniera fosse stata raggiunta e conMeneghello, al punto da farsi propalatore in creando così in qualche modo un contraltare solidata, un punto fermo nelle nostre lettere. Infatti queste Nuove Carte paese di convinzioni socialmente avanzate, interpretativo e una riprova memoriale rispet- non aggiungo molto a ciò che già conosciamo, salvo il godimento di legin anticipo sui tempi: la parità dei sessi, la to alla rutilante ricostruzione del paese origina- gere e rileggere, di apprezzare quella mano inimitabile: al centro del dis“giustificabilità” di taluni reati, se determicorso c’è sempre il triangolo Italia della guerra e del dopoguerra, Inghilrio che caratterizza Libera nos a malo. nati da stato di necessità, da ingiustizia paForse nulla è veramente casuale nell’esisten- terra e Italia della ricostruzione e del nuovo benessere, con tutte le variatente ecc., cui si aggiungeva, ad esempio, la za degli individui; e se lo scrittore (Meneghel- zioni di prospettiva e di stile che quel brano di storia ormai conclusa ha difesa e diffusione delle teorie freudiane. lo) e lo scienziato (petrografo ed esploratore, comportato. Una serie di confronti sotto traccia, di dislivelli accanitaNaturalmente la carica eversiva, per certi Zanettin) si sono così complementarmente in- mente indagati, di opposizioni riempite dalla necessità del racconto: c’è versi anarchica, travasata anche nei libri di tegrati per tutta la vita, anche al di là di scelte il cauto compiacimento nel contemplare i secolari, eccentrici riti esclusiMeneghello, e segnatamente in Libera nos a drammatiche e politicamente rilevanti (come i vi delle classi alte inglesi, e il fastidio per l’improvvisa, impetuosa e spesmalo, non poteva andare disgiunta da una fronti contrapposti della guerra civile, dopo so sbracata svolta consumistica del tramontato boom italiano; c’è l’aspro qualche riprovazione paesana, da punte di l’8 settembre), una ragione deve pur esserci. E confronto fra gli archetipi umani dell’anteguerra, vere e proprie icone risentimento verso una tale descrizione, in tale ragione deve consistere proprio nello spe- dell’indigenza, e le tronfie cafonaggini dei nuovi ricchi del Nordest (socerto modo impietosa, di un mondo così ciale rapporto di amicizia/competizione che prattutto) in anni passati; c’è l’ammirazione per le solide istituzioni britanniche e il rigetto per la perpetua minorità della nostra politica; c’è fortemente contrassegnato da chiusura, arha caratterizzato il loro legame: una specie di simpatia per una gioventù già da subito matura, spigliata, e antipatia per retratezza e superstizione religiosa. Ed è sfida iniziata tra le contrade di Malo (come gli impacci di un’educazione rimasta al palo di una vecchia retorica; c’è proprio su quest’ultimo aspetto, quello di una battaglia di ragazzi della via Paal) e dura- dissociazione (interiore) fra il gusto di denigrare le cose che da noi non una laicità irriverente e conclamata, che giuta probabilmente, sia pure in forme mentali, vanno e il riflesso condizionato dell’autodifesa patriottica, a tutti i costi; stamente Zanettin individua il peccato e intutta la vita. Su questo punto di gara e di con- e c’è il bisogno continuo di apprendere, di capire, prima di tutto il measieme le ragioni della riprovazione che initesa per qualche primato (di guerra infantile ning delle cose: “Era una piega del mio comprendonio di allora, un diszialmente investì l’opera di Meneghello. Coper bande, di corsa ginnica ecc.) Zanettin si turbo intellettuale. Dopo il mio arrivo in Inghilterra questo disturbo era me poi siano andate le cose, è sotto gli occhi sofferma con qualche insistenza, rilevando, entrato in una fase acuta. Lassù ‘le cose’ erano così diverse dalle nostre, di tutti. La notorietà di Meneghello ha tracon buone probabilità di giustezza psicologi- così inattese, che l’idea di provare a indagarne il senso riposto nasceva volto tutte le piccole ostilità e le irritazioni ca, la presumibile “invidia” reciproca che sta- spontanea, spuntava dai marciapiedi”. paesane, l’avversione si è mutata, dopo mezva alla base delle loro rivalità. Fra le altre cose, Ci aiuta a leggere queste pagine la sensazione che nascondano un zo secolo, in amore sviscerato, lo scrittore si vengono in luce le appassionate escursioni in- fondo di saggezza e di finezza espressiva a lungo rimasto impopolaè trasformato “agli occhi di alcuni, come il sieme sulle montagne delle Piccole Dolomiti e re, ignorato, e oggi, nella consapevolezza di un difficile declino, più ■ nume tutelare del paese”. dell’Altopiano, cominciate in età precocissima attuale che mai. FRANCO MARENCO (tredici-quattordici anni), prodromi singolari di una passione conoscitiva del territorio e del A. Daniele insegna storia della lingua italiana all’Università di Udine

Un disturbo intellettuale

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- Luigi Meneghello

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Il fenomeno della fantafiction coinvolge anche Sherlock Holmes Fedeltà o sovversione?

l diffondersi di storie apocrife (cioè non appartenenti a un canone definito come “originale”) appartiene evidentemente a un bisogno antico quanto l’umanità: ascoltata una storia bella, trovarne altre – a costo di inventarsele. Ma è indubbio che la tendenza abbia assunto connotati particolari con la cultura postmoderna e i nuovi rapporti con il virtuale; e soprattutto con il consolidarsi dell’era di internet, che agevola ai cultori non soltanto la circolazione dei testi o l’associazione in gruppi d’interesse, ma la stessa produzione, grazie al più rapido intreccio delle idee e allo sprone della pubblicazione in rete. Il fenomeno della fanfiction, che ormai vede il formarsi sul web di interi bacini di storie (appunto) di “fan” di generi e personaggi, spesso a firma di autori che resteranno sconosciuti alle librerie e con esiti di svariatissima dignità narrativa, pare in questo senso particolarmente rilevante. È dunque ovvio che il panorama degli apocrifi A. D. 2012 risulterà piuttosto diverso da quello, per esempio, degli anni settanta, quando pure la tendenza già interessava significativamente il mercato. E visto che tra i personaggi meglio rappresentati sull’orizzonte degli apocrifi – e meglio studiati anche in quest’ottica – figura Sherlock Holmes, pare interessante affrontare i nuovi sviluppi proprio in merito alla sua figura. Partendo magari da una provocazione cinematografica, alla luce del fatto che l’immaginario holmesiano deve alle trasposizioni inizialmente teatrali, poi su schermo, almeno qualcosa della sua potenza: e cioè da un film di successo come Sherlock Holmes: A Game of Shadows di Guy Ritchie, 2011, sequel di un originalissimo Sherlock Holmes uscito due anni prima. Un film emblematico, questo Sherlock Holmes. Gioco di ombre, perché non solo vede in scena con il protagonista e il fido Watson il contorno di figure “d’obbligo” (la moglie del dottore, l’ispettore Lestrade, la padrona di casa signora Hudson) ma anche il fratello Mycroft Holmes, la Donna per eccellenza Irene Adler, il professor Moriarty e il suo braccio destro colonnello Moran: caratteri dalle modiche apparizioni nel canone sherlockiano, e invece amatissimi negli apocrifi; ma soprattutto perché continua e fa evolvere come personaggio un Holmes piuttosto diverso da quello classicamente incontrato al cinema. Robert Downey Jr. interpreta infatti il detective come un geniale e maliziosamente candido scavezzacollo bohémien, molto lontano dal modello delle illustrazioni di Sidney Paget alle edizioni originali che tanto influirono, per esempio, sul filologico e aspro Holmes di Peter Cushing, e più in generale su un po’ tutta la galleria di cinema e tv. Quello delle trasformazioni di un personaggio o una realtà mitici è evidentemente un tema complesso, ed è inevitabile rammentare quanto scriveva L. Sprague de Camp a proposito di un altro mito popolare, Atlantide: “Non potete cambiare tutti i dettagli della storia di Platone e poi pretendere che sia ancora la sua. Sarebbe come dire che il leggendario re Artù era ‘in realtà’ la regina Cleopatra; basta cambiare il sesso, la nazionalità, l’epoca, il temperamento, il carattere morale di Cleopatra, più qualche altro piccolo particolare, e la rassomiglianza balza agli occhi”. Eppure – al di là del gusto dei singoli spettatori – il ritratto offerto dal dittico (presto trittico, pare) di Ritchie non contraddice davvero lo spirito del personaggio doyliano, aprendo semplicemente a una diversa possibilità interpretativa. Tanto più che il rapporto fedeltà/sovversione al canone può essere giocato con criteri diversi: tra i quali brilla negli apocrifi holmesiani il tema delle “storie che il mondo non può ancora conoscere”, e che cioè solo a distanza di decenni dall’età vittoriana in cui si presumono scritte potrebbero trovare pubblicità, aprendo al disvelamento di aspetti “sconosciuti” del personaggio o del suo mondo.

Un primo eclatante caso in questo senso è offerto dal solido romanzo del soggettista e sceneggiatore britannico Anthony Horowitz, La casa della seta (ed. orig. 2011, trad. dall’inglese di Manuela Faimali, pp. 294, € 18, Mondadori, Milano 2012), dove Watson lascia “istruzioni che il pacchetto non venga aperto prima che siano trascorsi cent’anni. Forse i lettori del futuro saranno più assuefatti allo scandalo e alla corruzione”. In questo caso il ritratto di Holmes è relativamente tradizionale, anche se arricchito di maggiori sfumature di sensibilità; l’autore concede affettuoso respiro anche a figure della saga minori e solitamente un po’ maltrattate (come l’ispettore Lestrade) e una patente di nobiltà persino al brillante cameo di un tradizionale vilain (chi sarà mai?). La storia di un giro di intoccabili dediti a turpitudini può sembrare banale nel mondo d’oggi, ma è appunto l’effet-

to provocatorio voluto dal narratore, indipendentemente dal fatto che l’età vittoriana non fosse poi troppo più candida. Un’atmosfera cupa regna in tutto il romanzo, i colpi di scena sono effettivamente coinvolgenti e il trionfo di Holmes non appare scontato né indolore. Un ulteriore motivo d’interesse è poi offerto dall’accesso a un’altra (relativa) novità per l’orizzonte degli apocrifi, cioè il fatto che si tratti del primo sequel autorizzato dagli eredi di Conan Doyle, come ostenta un sigillo rosso in copertina. Cosa che può non significare granché (un’operazione simile di sequel “autorizzato” al Dracula di Stoker non ha visto un risultato brillante, e del resto Adrian Conan Doyle aveva già proseguito – con l’aiuto di John Dickson Carr – l’opera del padre Sir Arthur), ma è interessante per lo sviluppo stesso, postmoderno del concetto di apocrifo. Motivi completamente diversi muovono Watson a imporre i sigilli per cent’anni “dagli eventi descritti nel primo resoconto (e cioè nell’anno 1887)” nel volume a firma della scrittrice inglese Rohase Piercy, Mio diletto Holmes. Memorie recentemente rinvenute del Dr. John H. Watson (ed. orig. 1988, trad. dall’inglese di Chiara Rolandelli, pp. 182, € 16,50, Tre Editori, Roma 2011), che sviluppa con delicatezza ed equilibrio una provocazione già lanciata da alcuni critici su una presunta omosessualità sottostante la peculiare British male relationship vittoriana tra Watson e Holmes (si è parlato al proposito di Holmosexuality). La storia costituisce un dittico, con un primo episodio relativo al caso dell’Ape Regina, una ricattatrice che sta mettendo in subbuglio la buona società di Londra, mentre il secondo rilegge liberamente la storia della presunta morte e dell’inattesa riapparizione dell’Arcidetective. L’innamorato Watson si muove in un impero sempre più ostile verso l’omosessualità: e sarebbe peccato svelare di più sulla trama, magari meno travolgente sul piano del poliziesco ma ben gestita sul piano di sentimenti e timori dei personaggi. Con un elegante rispetto, pur nella li-

bertà che si prende, dei modelli originali, a rammentare come la “fedeltà” a un mito possa conoscere differenti modulazioni. In un terzo caso, Watson annota addirittura che la “storia che sto per narrare non deve essere mai raccontata. (…) Potete non credere a questa storia, ma devo metterla per iscritto prima che il ricordo svanisca”. In questo caso a firma di Tracy Revels, seria docente di storia al Wafford College, South Carolina, e dottissima studiosa del canone doyliano, Sherlock Holmes e i tesori di Londra costituisce un ulteriore frutto della serie di apocrifi sherlockiani editi da Gargoyle (ed. orig. 2011, trad. dall’inglese di Elena Cecchini, pp. 166, € 14, Roma 2012), e reca anch’esso un marchio di qualità, stavolta dell’associazione nazionale Uno Studio in Holmes (The Sherlock Holmes Society in Italy). Qui la libertà sul modello di partenza è ancora più accentuata, anche se la competenza sherlockiana dell’autrice riesce a rendere non stridente lo scarto dal modello originale. Con un fitto tessuto di ammiccamenti al canone ma anche di citazioni a elementi e personaggi del più ampio immaginario britannico – dai corvi della corona alla bellicosa dea/strega Morrigan (appunto) dei corvi, dal Jack il Saltatore della leggenda metropolitana vittoriana a una Titania regina delle fate folkloricamente allarmante – Holmes e Watson sono qui alle prese con il Meraviglioso più scatenato, in un gioco fantasy molto originale. Basti dire che, piuttosto surrealmente, ad aiutarli è Ipazia, la filosofa tardoantica martirizzata da fondamentalisti cristiani. Per chi preferisca però l’Holmes più tradizionale, la stessa Gargoyle aveva presentato a fine 2011 la bella, classica raccolta di Anne Perry, Loren D. Estleman e altri, Un Natale in Holmes, a cura di Martin H. Greenberg, Jon L. Lellenberg – che firma l’ottima introduzione – e Carol-Lynn Waugh (ed. orig. 1998, trad. dall’inglese di Bernardo Cicchetti, pp. 322, € 16), autorizzato da Dame Jean Conan Doyle ed esso pure marcato Uno Studio in Holmes: il filo unificante del Natale tra carole e scintillii conosce di caso in caso variazioni intriganti, come in L’avventura degli spettri di Natale di Bill Crider, che ammicca a Dickens, o in Lo Sherlock Holmes italiano di Reginald Hill, dove l’Arcidetective è ospite a Roma. Sempre poi di sapore filologico, merita attenzione un’altra raccolta a firma John R. Watson (“nessuna parentela col celebre Watson”, ma “pseudonimo di un giornalista e scrittore italiano”, Gianni Rizzoni), 30 Duke Street. La penultima avventura di Sherlock Holmes (pp. 156, € 14, Metamorfosi, Milano 2012), che reca un testo già edito nel 1987 per una pubblicazione celebrativa in occasione del centenario dell’eroe. Dove si presentava in chiave di fiction una notizia poi diramata come autentica sui giornali nel ’95 e rimbalzante ancora nei giorni delle ultime Olimpiadi: che cioè a sorreggere il maratoneta Dorando Petri al termine della corsa nelle precedenti londinesi del 1908 sarebbe stato lo stesso Conan Doyle. “Watson” aveva semplicemente creduto di riconoscerlo nella celebre foto con Petri al filo di lana del traguardo, inserendo per gioco la notizia nel racconto. Ma la pubblicazione del centenario aveva coinvolto la società britannica Dunhill, tra i grandi nomi mondiali dei prodotti per uomo, dunque non è impossibile che quello spunto cominciasse a circolare anche oltremanica. Di lì il “riconoscimento” ufficiale? In ogni caso qualcosa che riporta alla complessità dei rapporti tra realtà e fantasia, di cui è in fondo spec■ chio proprio il gioco degli apocrifi. franco.pezzini@tin.it F. Pezzini è saggista e redattore giuridico

- Conan Doyle

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Il vaglio critico delle fonti e l’insopprimibile alterità del passato I concetti e la storia: cosmopolitismo corporativo Intervista a Francesca Trivellato di Massimo Vallerani rancesca Trivellato dal 2004 insegna storia dell’Europa moderna alla Yale University. Il suo ultimo lavoro (di prossima traduzione in italiano), The Familiarity of Strangers: The Sephardic Diaspora, Livorno, and Cross-Cultural Trade in the Early Modern Period (Yale UP, 2009) indaga le relazioni commerciali globali (da Lisbona a Goa in India) di una piccola società ebraica di Livorno. Ha vinto il Leo Gershoy Award per il miglior libro di storia moderna europea e il Jordan Schnitzer Book Award.

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- Storia

n Italia, come in altri paesi europei, l’integrazione di minoranze religiose, di immigrati da paesi vicini e lontani, e anche solo di cittadini e cittadine di prima generazione, continua a dimostrarsi un processo pieno di ostacoli. Di fronte a questi problemi, c’è chi chiede agli storici di trarre lezioni dal passato e chi, all’opposto, considera lo studio della storia una mera evasione dai problemi scottanti del presente. Quali risposte possono davvero offrire le indagini sul passato ai dilemmi posti dal multiculturalismo di oggi e dai suoi nemici? La domanda se la pongono in molti, stando al proliferare di libri di storia che si occupano di incontri e scontri tra culture. Una tra le più affascinanti e complesse categorie che affiorano nel dibattito accademico e divulgativo legato all’interculturalità è quella del cosmopolitismo. Di etimologia greca (cosmos + polites), il termine letteralmente significa cittadino del mondo (in origine non cittadina del mondo, poiché le donne non possedevano diritti di cittadinanza nella Grecia antica). Oggi lo troviamo usato con gran disinvoltura, specie nella forma di aggettivo, e con una connotazione pressoché invariabilmente positiva. Di recente, cioè, sono divenute assai rare le accuse di slealtà alla nazione etichettate di cosmopolitismo, che accompagnarono invece l’ascesa del nazionalismo ottocentesco e dei regimi totalitari del secolo scorso. Semmai, oggi il termine condensa in sé il significato di rispetto e curiosità verso l’estraneo che il filosofo Kwame A. Appiah vorrebbe erigere a etica della società globale (Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei, Laterza, 2007). In termini più colloquiali, cosmopoliti sono definiti tutti quei contesti nei quali osserviamo un convivere pacifico e fecondo tra elementi culturali di diversa estrazione. L’aggettivo viene così affiancato con nonchalance a una gran varietà di fenomeni, situazioni e opere. E gli storici come usano la categoria? I termini “cosmopolitismo” e “cosmopolita” spuntano un po’ ovunque. Ne fanno uso particolarmente intenso gli storici dell’Europa moderna, ma talora anche gli studiosi di altre realtà geopolitiche, quando si riferiscono alle grandi città, specie quelle portuali, nelle quali affluivano mercanti di ogni provenienza allo scopo di fare affari. In quest’accezione, il sostantivo e l’aggettivo possono assumere connotazioni generiche, ma possiedono una precisa genealogia intellettuale. È agli scrittori dell’Illuminismo, e in particolare a Voltaire, che dobbiamo una formulazione esplicita dell’idea (già in circolazione da tempo) secondo cui la ricerca di profitto porta naturalmente all’attenuarsi di pregiudizi etnici e religiosi. Per il philosophe francese, nella principale piazza di mercato della Londra dei primi del Settecento “l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano reciprocamente come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli solo quelli che fanno bancarotta”. In poche parole, quando c’è da far soldi non si guarda in faccia nessuno. La logica e le pratiche del mercato sarebbero dunque un pilastro del mondo moderno occidentale, nel quale forme di cittadinanza più inclusive di quelle legalmente definite vennero sviluppandosi con il crescere della globalizzazione economica. Perché Livorno è diventata un caso di studio così rilevante? In questo quadro, Livorno spicca come la città più cosmopolita dell’Europa cattolica in età moderna, rivaleggiata solo da Amsterdam nel Nord protestan-

te. Mentre il resto della penisola italiana arrancava in un tanto lamentato declino economico e nella perdita di indipendenza politica, i granduchi toscani tra fine Cinquecento e inizi Seicento trasformarono la cittadina tirrenica in un vibrante centro commerciale e in un magnete di immigrazione imprenditoriale. I due segreti di Livorno: basse tariffe doganali e impareggiabile tolleranza religiosa. Ma come potevano le istituzioni favorire o permettere un vero cosmopolitismo in contesti di fortissime diseguaglianze fra uomini e donne e di divieti di contrarre matrimonio fra persone di diverso credo religioso? Questi quesiti sono tanto più appassionanti nel caso livornese quando si consideri che la cittadina divenne uno dei più importanti insediamenti ebraici d’Europa, con una popolazione ebraica che dalla metà del Seicento si assestò sul 10-15 per cento del totale degli abitanti. Nell’affrontare queste questioni mi sono rivolta non tanto agli scritti di pensatori settecenteschi o alle compilazioni legislative, quanto

un caso, questa diversa propensione al rischio si dimostrò fatale; eppure essa riflette il carattere legalmente e socialmente segmentato della società dell’epoca. Sono dunque convinta che il termine cosmopolitismo possa applicarsi a Livorno e alle vastissime reti commerciali nelle quali si muovevano i suoi mercanti solo a patto che se ne riconoscano le specificità storiche. Per questo, ho optato per l’espressione “cosmopolitismo corporativo”, espressione che, alla luce della genealogia intellettuale sopra invocata, potrebbe apparire come un ossimoro, ma che, proprio per la sua apparente contraddittorietà, vuole richiamare l’attenzione sull’alterità del passato.

piuttosto alle carte d’archivio, nella speranza di documentare le pratiche quotidiane del commercio interculturale. I risultati di quella ricerca sono sfociati in un libro pubblicato in inglese, The Familiarity of Strangers, nel quale sottopongo la nozione di cosmopolitismo a un confronto critico con le fonti. Ne emerge un quadro che si scosta in alcuni punti salienti dall’irenica immagine del mercato londinese dipinta da Voltaire. Complice la sopravvivenza (cosa rara nel caso livornese) di oltre 13.000 lettere commerciali di una ditta ebraica (Ergas & Silvera) attiva tra 1704 e 1746, ho potuto ricostruire i legami creditizi tra i soci e i loro corrispondenti. Questi ultimi comprendevano ebrei appartenenti a vari sottogruppi della diaspora, cristiani di diverse confessioni nelle maggiori capitali europee e soprattutto cattolici tra toscani e liguri, ma anche bramini indiani nella lontana Goa portoghese. Fulcro della mia indagine è il credito in quanto misura della fiducia – e dunque della percezione di rischio – che i mercanti ponevano l’uno nell’altro, nel desiderio di allargare la propria cerchia d’affari e al tempo stesso di salvaguardare i propri investimenti. In un mondo in cui l’assenza di veloci mezzi di trasporto e di tribunali internazionali rendeva arduo il perseguire frodi commesse da estranei, tanto più quando le distanze geografiche erano notevoli, le relazioni di credito ci danno la misura del senso di vicinanza e distanza che gli agenti percepivano verso i loro intermediari.

In che cosa si differenzia il “cosmopolitismo corporativo” dal “cosmopolitismo” nel senso comune? Per “cosmopolitismo corporativo” intendo una realtà nella quale profonde divisioni tra comunità religiose coesistevano con forme di stretta collaborazione economica tra mercanti di queste diverse comunità. Meno accattivante di termini in voga quali interculturalità, ibridazione e fluidità, l’uso di questa espressione si pone in diretto contrasto con la tendenza a caratterizzare la molteplicità di scambi e influenze reciproche come cosmopolite, con poco riguardo per antagonismi, rigidità e asimmetrie di potere, tendenza particolarmente evidente tra gli studiosi di diaspore commerciali, tra cui spiccano quelle greca e armena, o di gruppi sociali quali i traduttori (dragomani) al servizio dei consolati europei nell’impero ottomano, ma anche dello stesso impero britannico o del Mediterraneo in quanto culla delle tre religioni monoteistiche. Rimane da chiedersi se il concetto di “cosmopolitismo corporativo” si applichi in modo particolare agli ebrei e agli ebrei nella società italiana della Controriforma, dove il retaggio della teologia medievale e l’istituzione cinquecentesca del ghetto (sebbene solo in parte applicata a Livorno) fecero da contrappeso alle politiche e alle ideologie che Jonathan Israel ha chiamato “filosemitismo mercantile” (Gli ebrei d’Europa nell’età moderna. 1550-1750, il Mulino, 1991). Di certo non si tratta di ristabilire un rapporto privilegiato tra ebrei e affari. Semmai, il mio intento è stato quello di evidenziare le specificità delle forme di organizzazione commerciale degli ebrei livornesi tenendo conto sia dei loro costumi (per esempio con riguardo alle alleanze matrimoniali, che andavano a fondare molte delle società commerciali), sia dei condizionamenti esterni imposti per legge e per tradizione. Così notiamo che la “nazione” ebrea di Livorno godeva di un’autonomia giuridica molto maggiore a quella di altre “nazioni” commerciali (incluse quelle di inglesi, fiamminghi o armeni, tutti gruppi di mercanti assai influenti a Livorno). Apprezzata dai capi della comunità come strumento di autoregolazione anche in materia di transazioni economiche tra ebrei, quest’autonomia poteva, a sua volta, rafforzare la reputazione collettiva di questo gruppo e dunque facilitarne i traffici con estranei, ma poteva anche avallare i tentativi del principe di segregare la minoranza ebraica. Insomma, occorre cautela prima di generalizzare sulla base di un caso, ma mi sembra di poter dire che la categoria di “cosmopolitismo corporativo” possa offrire un utile strumento analitico per sottoporre la presunta causalità tra esigenze del mercato e tolleranza religiosa a una verifica più rigorosa.

E in questo mondo di relazioni lontane, come funzionò la fiducia per la ditta Ergas & Silvera? Ripercorro in breve le principali conclusioni cui sono giunta dopo una lunga ricerca negli archivi dove la ditta aveva operato, da Firenze a Goa, da Amsterdam a Bordeaux: un apparato istituzionale favorevole e la logica del profitto fecero sì che i mercanti ebrei invitati a insediarsi a Livorno stringessero legami creditizi stabili con un’ampia gamma di agenti commerciali. Tra questi, i correligionari non si dimostrarono sempre i più affidabili o i meglio preparati. Ma con familiari e correligionari gli Ergas & Silvera presero rischi che non avrebbero preso con altri. In

Quali considerazioni generali possono trarsi da questo esercizio empirico? Lo sforzo di mettere in discussione sul piano concettuale ed empirico consolidate categorie interpretative offre indubbiamente un modo più sicuro di altri per misurare il tanto discusso “impatto” della ricerca storica. Più che leggi generali, agli storici si possono e si devono chiedere interpretazioni capaci di mettere in causa luoghi comuni sulla base dei quali il passato viene troppo facilmente ad appiattirsi sul presente. Nel migliore dei casi, attraverso questo sforzo analitico anche il presente che ci cir■ conda inizia a mostrarsi sotto nuova luce.


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La carriera del grande intellettuale americano La storia americana raccontata dal vivo

dedicò la maggior parte della sua carriera a criticare l’imperialismo americano e a decretarne l’imminente fine. Scrisse il primo dei suoi venticinque romanzi a diciannove anni, quando prestava servizio militare nella marina statunitense durante la seconda guerra mondiale. Il titolo del romanzo, Williwaw (tradotto in Italia nel 1950 come L’uragano), faceva riferimento alle folate di vento gelido delle isole Aleutine, al largo dell’Alaska, dove Vidal fu imbarcato per tre anni. Classico romanzo di guerra capace anche di sondare la psicologia umana, Williwaw ebbe successo immediato. Dopo una seconda prova meno brillante, Vidal pubblicò nel 1948 la sua opera più controversa, The City and the Pillar, che fu anche il suo primo romanzo tradotto in italiano, nel 1949, dall’editore milanese Elmo, con un titolo, La città perversa, che appieno coglieva il disagio della cultura occidentale con le tematiche di cui trattava. Riedito in Italia nel 1998 da Fazi (che proprio con quel titolo inaugurava la pubblicazione sistematica delle opere di Vidal) con il ben più consono titolo La statua di sale, The City and the Pillar era uno dei primi romanzi della letteratura americana a tematica esplicitamente omosessuale, storia di un’ossessiva ricerca di un amore perduto. Ispirato a elementi autobiografici e dedicato a J. T. (Jimmie Trimble), caduto a Iwo Jima e primo amore dell’autore, il romanzo scardinava, al pari del Kinsey Report – uscito anch’esso nel 1948 – molti dei luoghi comuni sulla sessualità nell’America conformista del boom postbellico, celebrando in maniera non ambigua l’omosessualità. Rifiutando le convenzioni narrative del genere, che tipicamente imponevano un finale tragico quale “rimedio” alle norme sociali trasgredite, La statua di sale presentava all’America un volto di sé che il paese non era preparato a vedere. Malgrado le ottime vendite, infatti, il libro rese l’autore persona non grata all’establishment letterario americano, che gli fece terra bruciata attorno. Accusato di pornografia, il romanzo venne rinnegato dal suo editore, J. P. Dutton, e il “New York Times” rifiutò di pubblicizzarlo.

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idal passò allora alla drammaturgia e alla sceneggiatura cinematografica e televisiva, che lo impegnarono per l’intero arco degli anni cinquanta. The Best Man, allegoria dell’ascesa politica dei Kennedy (con i quali ebbe un rapporto perlomeno contrastato), e Visit to a Small Placet, meditazione pessimistica sull’America della Guerra fredda, sono forse le più significative tra le sue opere di quel periodo (ed entrambe poi portate sugli schermi), opere che comprendono anche un quarto romanzo, Il giudizio di Paride, del 1952 (tradotto in Italia per la prima volta da Fazi nel 2006). Dopo una fallita candidatura al Congresso degli Stati Uniti con i democratici nel 1960 (l’anno che vide John F. Kennedy strappare di un soffio la presidenza a Richard Nixon), Vidal prese a trascorrere, insieme al compagno Howard Auster, buona parte del suo tempo in Italia, prima a Roma e poi a Ravello, sulla costiera amalfitana, dove visse per quasi trent’anni. In Italia lavorò a una serie di lunghi romanzi storici, che avviò con la pubblicazione, nel 1964, di Giuliano, incentrato sulla figura dell’imperatore “apostata” che si ribellò alla diffusione del cristianesimo tentando di restaurare il culto degli dei. Nel 1967 uscì Washington, primo di sette “Racconti dell’impero” che affrontavano quella che per Vidal fu l’ossessione della vita: la complessità del potere politico e il rapporto tra democrazia e forme di governo in America. I “Racconti dell’impero” furono per Vidal un tour de force nella storia patria lontana e prossima, che lo impegnarono per oltre tre decenni in monografie su figure storiche (Washington, Burr e Lincoln) e temi “caldi” della politica statunitense (dall’elezione “rubata” del 1876 alla forza ideologica di Hollywood, dalla nascita dell’impero americano alla presidenza Roosevelt, la Guerra fredda, sino all’inizio del XXI secolo).

Apprezzati dal pubblico e dalla critica (Harold Bloom ha definito Vidal “un maestro del romanzo americano, ancora immaturo, che ha trovato il suo tema più consono nella nostra storia politica”), i suoi romanzi politici sono stati spesso ricevuti con freddezza dagli storici, che lo hanno accusato di troppa libertà nell’invenzione narrativa, cioè di eccedere in quell’“immaginazione storica” senza la quale Vidal era convinto che “anche la storia convenzionale è priva di valore” (Giuliano). Lincoln, in particolare, si rivelò ampiamente controverso: molti risentirono la caratterizzazione dell’eroe americano quale leader ambiguo, malato di sifilide e in definitiva poco interessato a eliminare la schiavitù in America.

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n secondo filone di romanzi, usciti fra i tardi anni sessanta e i novanta, videro Vidal impegnato nella critica sociale, spesso declinata attraverso i toni della satira. Myra Breckinridge, pubblicato nel 1968 e considerato da molti il suo lavoro più brillante, storia di un transessuale sociopatico deciso a diventare una stella di Hollywood, era una presa in giro molto esplicita delle resistenze conservatrici alla rivoluzione sessuale di quegli anni. Analogamente, i successivi Myron (1974, seguito di Myra), Kalki (1978), Duluth (1983) e Live from Golgotha: The Gospel According to Gore Vidal (1992) attaccavano senza remore il conservativismo dell’età reaganiana, la religione e i culti New Age. La feroce critica al cristianesimo di Live from Golgotha scatenò una presa di posizione pubblica del Vaticano. Vidal non ha scritto il “grande romanzo americano” e la sua verve di polemista rimane certamente il suo lascito maggiore. Personaggio di casa nei talk show, si ricordano le sue diatribe televisive, talvolta anche fisiche, con gli antagonisti di sempre: Truman Capote, Norman Mailer e con il conservatore William Buckley, che una volta lo apostrofò pubblicamente come “frocio” (correva l’anno 1968). Sono però soprattutto i saggi di Vidal, per la maggior parte veri e propri atti di accusa all’imperialismo americano, a rimanere tra i classici del dibattito politico del tardo Novecento americano. Usciti prevalentemente su “The Nation”, “Esquire” e “The New York Review of Books”, i saggi – raccolti poi in vari volumi e già ampiamente tradotti in Italia da Fazi – racchiudono il meglio dell’iconoclasmo polemico di Vidal, uomo cui non mancò mai il coraggio delle opinioni scomode. Come quando, negli anni novanta, si schierò in difesa di Timothy McVeigh, il bombarolo di Oklahoma City poi giustiziato; o quando, dopo l’11 settembre, attaccò ripetutamente l’amministrazione Bush – in tempi in cui il dissenso alla lotta al terrorismo veniva pubblicamente liquidato come “anti-americano” – per avere istituito quello che lui definiva uno “stato di sicurezza nazionale” e insinuando che dietro l’11 settembre ci fosse stata la complicità proprio di quell’amministrazione. Personaggio caustico e poco caloroso (amava ripetere: “Sotto il ghiaccio che mi avvolge c’è solo acqua gelida”), Vidal cantava fuori dal coro su quasi ogni tema, dall’istruzione (“Tutti gli imbecilli che conosco sono andati all’università. Avendo visto i risultati, io ho preferito evitarla”), alla rivoluzione digitale (“Su Wikipedia non c’è una cosa giusta”), alla religione (“Evitatela. Non è niente di buono”), al governo. La modestia non era il suo forte e spesso si autodefiniva lo scrittore più brillante ed elegante del suo tempo. Ma la lucidità con cui ha esplorato l’ascesa e la caduta dell’impero americano rimangono un lascito degno di nota. Ascoltare Gore Vidal, ha scritto Fiamma Arditi in L’altra America (2004), era “come entrare in un volume di storia americana rac■ contata dal vivo”. andrea.carosso@unito.it A. Carosso insegna lingue e letterature anglo-americane all’Università di Torino

- Gore Vidal

l 21 dicembre 2000 la testata liberal americana “The Nation” pubblicò un pezzo di Gore Vidal, whitmanianamente intitolato Democratic Vistas (Prospettive democratiche). L’articolo denunciava i molti conflitti di interesse della politica e della giustizia statunitensi che viziarono il “Florida recount”, allora appena archiviato, l’incompiuto riconteggio dei voti della contestata elezione presidenziale del 2000 che spianò le porte alla disastrosa presidenza di George W. Bush. Quel pezzo terminava con un paragrafo che, riletto con il senno di poi, lascia di stucco per la straordinaria lungimiranza. Vidal presentava due possibili scenari per la presidenza Bush. Un primo scenario, più ottimistico e che liquidava rapidamente, prevedeva un mandato sostanzialmente inconcludente, dominato dalla più classica delle impasse legislative. Il secondo, che Vidal definiva “la peggiore delle ipotesi” e su cui si soffermava più a lungo, prevedeva che “il cancelliere Cheney” avrebbe preso le redini del paese. “Se quella sventurata ipotesi si realizzasse – scriveva Vidal – aspettatevi un paio di guerre minori, che serviranno a giustificare finanziamenti elevati alla difesa. E aspettatevi sgravi fiscali per i più ricchi”. La conclusione era particolarmente tetra: “Ma che vada bene o male, vedremo raramente il simpatico George W. Bush, perché a menare la danza saranno i militari – Cheney, Powell e tutti gli altri – e il paese vivrà in un costante stato di emergenza: James Baker ci ha già avvisati che il terrorismo è alle porte”. Scritte quasi un anno prima dei fatti dell’11 settembre, queste righe riassumono l’acume a volte profetico di Gore Vidal, scomparso lo scorso agosto all’età di ottantasei anni, e membro, insieme a Truman Capote e Normal Mailer, di quel “triumvirato” di intellettuali newyorchesi che ha fortemente segnato la cultura pubblica del tardo Novecento americano. In quella fine dell’anno 2000, Vidal aveva intuito l’esplosiva miscela di interessi economici che stava muovendo le leve del potere statunitense. Incensata e criticata, la carriera intellettuale di Vidal ha percorso l’ampio arco di tempo dalla seconda guerra mondiale al decennio del post 11 settembre. Sessant’anni di storia degli Stati Uniti e dell’Occidente, di cui lo scrittore è stato testimone e osservatore polemico, mai allineato con le ortodossie correnti. Della critica all’imperialismo americano Vidal ha fatto la sua missione di intellettuale. Faceva parte di quella generazione di uomini di lettere americani (tutti maschi) la cui dimensione di “intellettuali pubblici” ha spesso scavalcato la fama letteraria. Una schiera che, oltre a Vidal, comprendeva, oltre ai già citati Capote e Mailer, nomi del calibro di James Baldwin e William Styron, le cui opinioni forti hanno per decenni risuonato nelle riviste letterarie, nei magazines e nei talk show televisivi, spesso caratterizzate da toni poco condiscendenti sullo stato della vita pubblica americana. “Sono per mia natura un polemista, uno che odia con tutte le sue forze; un insopportabile pedante, convinto che non c’è un singolo problema che non si potrebbe risolvere se semplicemente si facesse come suggerisco io”, diceva Vidal al suo biografo Fred Kaplan nel 1999 (Gore Vidal: A Biography). Nato nel 1925 a West Point, la prestigiosa accademia militare, dove suo padre (che ricoprì anche un incarico nell’amministrazione Roosevelt) era istruttore aeronautico, Eugene Luther Vidal Jr. cambiò presto nome in Gore, in omaggio al ramo materno della sua famiglia e soprattutto al nonno, il senatore democratico dell’Oklahoma Thomas Gore, a cui fu molto legato e che lo introdusse, ancora bambino, ai circoli che contano del potere statunitense. Verso quel potere Vidal non provò mai alcun timore reverenziale: rampollo dell’oligarchia liberal americana (ripeteva, probabilmente per scherzo, di essere cugino di Al Gore ed era certamente imparentato con il clan Kennedy), Vidal

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Andrea Carosso

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Competizione, internazionalizzazione e allocazione di fondi per la ricerca in Europa Come e dove investire nella scienza di Adriano

Zecchina e Arianna Montorsi

L’intervento di Adriano Zecchina e Arianna Montorsi sottolinea uno dei punti più delicati e importanti della nostra epoca: come e dove sostenere la ricerca scientifica in uno scenario di globalizzazione. Le domande sono tante, da quelle relative al ruolo dell’Europa e della sua Era (European Area of Research) nei confronti degli Stati Uniti e dell’Oriente, ma anche dei nuovi continenti emergenti, Africa inclusa; il delicato rapporto fra investimenti, controllo della crisi economica e sociale, azioni tese a incrementare i processi di innovazione e sviluppo; il ruolo della mano pubblica nazionale e internazionale, rispetto alle iniziative del privato e delle imprese; quale prospettive dare ai giovani che si affacciano al modo dello studio e della scienza. In sottotraccia, emerge un’esigenza forte di riflessione, strategia, definizione di obiettivi. Come definiamo l’innovazione e la competizione scientifico-tecnologica? Quali sono gli strumenti di controllo adeguati e quali i metodi e i fini di una valutazione che non sia solo di processo, ma anche di impatto? E ancora, come si può incrementare e rendere fruttuoso il rapporto fra scienza e società, oppure come realizzare quella interdisciplinarietà sempre invocata retoricamente e assai poco frequentata nelle pratiche, o come definire il rapporto tra formazione e sviluppo? Sono argomenti titanici, che meriterebbero (e hanno meritato) studi poderosi. Molto più modestamente, potrebbe aprirsi un dibattito sull’articolo di Zecchina e Montorsi, che apparirà anche sul nostro sito corredato da importanti materiali illustrativi, in cui gli interventi degli studiosi di scienze umane e sociali dovrebbero essere altrettanto centrali di quelli dei ricercatori della scienza “dura” (Aldo Fasolo).

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- La ricerca scientifica

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n questo periodo si parla molto di internazionalizzazione. In ogni ambito, l’internazionalizzazione dovrebbe consentire un confronto fra realtà diverse, introducendo stimoli maggiori di competizione. In questa riflessione faremo riferimento specifico ai dati riguardanti la ricerca nella realtà europea con l’intento di verificare il posizionamento dell’Italia e delle sue università. In particolare, vogliamo analizzare la partecipazione e i finanziamenti ricevuti dall’Italia nell’ambito dei progetti di eccellenza denominati Erc (European Research Council). Questi finanziamenti, oltre a essere destinati ad aumentare consistentemente nel prossimo programma quadro (20142020), sono previsti per ogni argomento di ricerca (umanistico, scientifico e tecnologico). I finanziamenti nell’attuale programma quadro ammontano a oltre 7 miliardi di euro. Si tratta (in linea di principio) di progetti “liberi”, scelti solo sulla base della loro eccellenza. Le tematiche abbracciano le scienze naturali e l’ingegneria, le scienze mediche e le scienze sociali e umanistiche. Per la selezione operano 25 commissioni (o panels) formate da esperti nelle varie discipline. Sinora sono stati finanziati principalmente due tipi di progetti, denominati rispettivamente starting e advanced. I primi sono destinati alla fascia di ricercatori più giovani, mentre i secondi sono riservati a ricercatori affermati. L’entità del finanziamento per ciascun vincitore è compresa tra 1,5 e 2 milioni di euro, la durata prevista è fino a cinque anni. Nel periodo 2007-2012 sono stati erogati circa 2000 starting grants e 1100 advanced. Questi numeri sono grandi a sufficienza da permettere alcune riflessioni di tipo statistico sulla partecipazione italiana e sul grado di successo. Analizzando per esempio i dati relativi agli starting grants (che sono i più numerosi), si può vedere come l’Italia si piazzi tra il 5° (2007, 2011) e il 7-8° posto (2009, 2012). È utile il confronto con i risultati ottenuti da nazioni con popolazione paragonabile. La distanza rispetto alla Gran Bretagna è grandissima e tende a crescere. Si parte da un numero di grants italiani pari al 50 per cento di quelli inglesi (2007) per arrivare nel 2012 a circa il 15 per cento di quelli inglesi (che tendono anno dopo anno a crescere numericamente in modo impressionante). Questo significa che chi è forte diviene sempre più forte. La distanza rispetto a Germania e Francia segue un

andamento simile anche se meno marcato. Per quanto riguarda il confronto Italia-Germania si parte nel 2007 con un numero di grantees italiani pari al 65 per cento di quelli tedeschi (valore accettabile considerata la popolazione delle due nazioni) per raggiungere un valore pari al 33 per cento nel 2012. Simile andamento con oscillazioni si ha nel confronto con la Francia. Anche la Spagna (con popolazione decisamente inferiore) fa un po’ meglio dell’Italia. Da notare il successo di Olanda, Israele, Belgio e Svizzera, che fanno come o meglio

dell’Italia pur avendo popolazioni paragonabili a quelle di una delle nostre regioni. Tra le prime venti host institutions universitarie (dove primeggiano Cambridge, Oxford, i Politecnici di Losanna e Zurigo e la Hebrew Univeristy of Jerusalem) nessuna riguarda l’Italia. Altrettanto si può dire delle istituzioni nazionali di ricerca, dove Cnrs e Max Plank conducono la graduatoria e dove il Cnr non appare tra le prime cinque, superato persino dal Consiglio delle ricerche spagnolo (Csic). Il panorama è preoccupante perché si vede chiaramente come l’Italia stia perdendo posizioni. E anche perché, essendo il contributo finanziario dell’Italia sostanzialmente proporzionale alla sua popolazione, risulta evidente come in sostanza noi stiamo finanziando le nazioni più ricche. Questo quadro è reso ancora più negativo quando si consideri come un consistente numero di vincitori che trovano posto in host institutions straniere sia di nazionalità italiana. Ciò significa che, dopo aver formato sino al dottorato dei buoni giovani ricercatori, l’Italia non è in grado di assorbirli, e lasciandoli andare arricchisce ulteriormente istituzioni che sono già forti per conto loro. Il fenomeno è ancora più impressio-

nante nei numeri assoluti: per esempio l’anno scorso a fronte di 49 vincitori di nazionalità italiana, solo 28 hanno deciso di portare il loro grant (1,5-2 miliardi di euro ciascuno) in università o enti italiani. Con il risultato che abbiamo esportato oltre il 40 per cento dei ricercatori eccellenti formati in Italia. In conclusione, questo è un caso di doppio finanziamento a enti stranieri già ricchi per conto proprio. I risultati complessivi non possono non indurre le seguenti domande: che cosa si può fare per colmare almeno parzialmente il gap che si è venuto a creare con l’Europa?; quanto tempo e quale programmazione sono necessari?; la sfida e la competizione devono essere accettate come filosofia e guida? I problemi legati alle considerazioni precedenti sono stati oggetto di discussione in sede europea. Per esempio nell’articolo intitolato EUROPE: UK universities win most ERC grants di Jan Petter Myklebust (18 settembre 2011) si legge: “Il relatore della commissione Marisa Matias, portoghese, del gruppo della Sinistra, ha affermato nel rapporto dell’Itre (la commissione del Parlamento europeo sull’industria, ricerca ed energia): ‘Da un punto di vista scientifico e tecnologico, sono i paesi più avanzati quelli che continuano a ottenere i maggiori benefici dai programmi europei’”. A questa osservazione Helga Nowotny, presidente dello European Research Council, risponde che l’unico modo per individuare i ricercatori migliori è in base al principio della “sola eccellenza”, e che ciò comporta una “tensione intrinseca” tra le richieste da parte dei decisori politici di innovazione pratica per stimolare la crescita economica e gli interessi profondamente radicati degli scienziati per ricerche guidate da motivazioni intellettualmente più libere [curiosity-driven]. Si tratta di principi che apparentemente non lasciano spazio ad altre considerazioni che non siano basate sulla competizione e l’internazionalizzazione. Tutti i dati sono reperibili al link http://erc.euro■ pa.eu/erc-funded-projects. adriano.zecchina@unito.it arianna.montorsi@polito.It A. Zecchina ha insegnato chimica e fisica all’Università di Torino e ha fondato il NIS (Nanostructured surfaces and interfaces) A. Montorsi insegna fisica al Politecnico di Torino


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La vera portata delle dispute terminologiche nel rito dell’eucarestia Versato per molti o per tutti?

l rito dell’eucaristia prevede, al momento della consacrazione, la recita di queste parole sul calice: Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti, qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum. La traduzione italiana ufficiale del Messale recita: “Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. C’è una discrepanza evidente: dove il latino dice pro multis, cioè “per molti”, l’italiano traduce “per tutti”. Su questo punto, la versione nelle lingue volgari autorizzata dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II fu fondata su una spiegazione – sostenuta tra l’altro dall’esegeta Joachim Jeremias (1900-1979) – secondo cui questa frase attribuita a Gesù, sebbene trasmessa in greco nel Nuovo Testamento, andrebbe letta e tradotta alla luce di un originale in aramaico, lingua che non possiede una parola propria che significhi “tutti”. E a chi mostrò qualche perplessità, nel 1970 la Congregazione del Culto Divino rispose con un intervento in difesa dei “tutti” al posto dei “molti”. Numerose versioni del Messale, approntate dalle diverse Conferenze episcopali, accolsero pacificamente la prospettiva romana a cominciare proprio dall’Italia, il cui esempio servì da modello alle traduzioni in inglese, tedesco e spagnolo. Eppure tale interpretazione non fu del tutto condivisa, e con il passare degli anni fu messa sempre più in discussione; fino ad arrivare all’ottobre 2006, quando la medesima Congregazione, in accordo con il papa, inviò alle Conferenze una lettera in cui affermava l’esatto contrario di quanto aveva suggerito in precedenza: pur riconoscendo la validità della formula “per tutti”, ora insisteva sull’opportunità di sostituirla con “per molti” nell’ottica di una traduzione ritenuta più corretta e fedele, richiedendo ai vescovi di adeguarsi programmando, per i successivi uno o due anni, un’opportuna catechesi per “preparare” i fedeli all’imminente correzione del testo. Il problema, che sembrerebbe una quisquilia terminologica, pare assai più grave di quanto sembri. La traduzione interpretativa “per tutti” rimanda certamente all’universalità del ruolo salvifico del sacrificio di Cristo; quella letterale “per molti” spinge invece a distinguere fra la salvezza che Dio offre a tutti e gli effetti su quei “molti” eletti, su quei “molti” credenti – certamente non “tutti” – che partecipano all’eucarestia e accettano per libera scelta la salvezza che viene loro offerta. Su entrambi i sensi da attribuire a quest’espressione si sono sviluppate diverse scuole di pensiero teologiche, rappresentate nell’antichità da pensatori come Origene, Girolamo, Apollinare, Giovanni Crisostomo; quando però, negli anni sessanta del secolo scorso, fu il momento di procedere alla traduzione della liturgia nelle lingue moderne, si volle scongiurare il rischio che qualcuno fraintendesse e vedesse nei “molti” una limitazione della divina volontà di salvezza. A distanza di anni le cose sono cambiate; con il sostegno del pontefice Benedetto XVI, la volontà di riportare il testo a un senso ritenuto più letterale ha fatto aumentare il numero di coloro che osteggiano la traduzione in vigore, e le loro ragioni sono agevolmente riassunte in uno studio di Manfred Hauke (Versato per molti, Cantagalli, 2008). C’è però un ostacolo: la vecchia traduzione non soltanto fu suggerita proprio dalla medesima Congregazione che oggi la respinge, ma soprattutto fu a suo tempo accolta e condivisa dalle diverse Conferenze episcopali. Oltre che della fedeltà al testo, queste ultime si erano preoccupate di quella che sarebbe stata la comprensione da parte dei semplici fedeli. In quest’ottica oggi si pone il breve saggio di Francesco Pieri, Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucari-

stiche (pp. 46, € 4,50, Dehoniana, Bologna 2012). L’autore insiste sulla necessità che ogni scelta di traduzione debba riflettere quanto più fedelmente possibile l’originale, ma eviti al contempo il pericolo di disorientare il lettore con espressioni inusitate o di facile fraintendimento; e qui Pieri ha buon gioco nel mostrare come altre traduzioni altrettanto ufficiali, in particolare del testo biblico, talora si allontanino dalla lettera sulla spinta di qualche preoccupazione dogmatica. Nella prefazione al volumetto, di Severino Dianich, ci si chiede “perché l’amore per le persone e per coloro che sono meno capaci di sottili analisi concettuali (…) non dovrebbe dissuadere dal provocare anche un’ombra di turbamento nelle anime”. Ciò non vuol neppure dire, secon-

do l’autore, che dietro a tutto ciò non vi sia una riflessione teologica, né che la questione si riduca a una scelta fra una traduzione servile ma poco fedele o una interpretativa ma pastoralmente efficace: occorre anche ricordare che la tradizione cristiana non possiede una fonte che contenga un’esatta e “stenografica” trascrizione delle parole di Gesù (diversamente, ad esempio, da quanto pretende di fare il Corano per Maometto), ragion per cui l’esegeta deve tenere in conto il passaggio dalla lingua parlata (l’aramaico) a quella scritta (il greco). La trasmissione delle parole è poi avvenuta in contesti comunitari diversi: nel Vangelo di Matteo e Marco si dice che durante l’ultima cena il pane è dato e il sangue è versato “per molti”, in Luca “per voi”, mentre in Paolo si pone l’accento sia sul “voi” sia sul “tutti”. Non c’è dunque un’unica formula “originale” a cui fare riferimento, e le stesse parole del Messale sono il risultato di una complessa ricezione a uso liturgico a partire da fonti bibliche e tradizionali molteplici. Alla luce di ciò risulta più difficile contrapporre una “traduzione fedele” a una “interpretazione”, essendo sia la formula liturgica finale sia le fonti che la ispirano a loro volta già il prodotto di un processo di interpretazione operata dagli autori e dalle comunità che con essa hanno celebrato il culto divino.

A questo punto Dianich e Pieri si domandano se valga la pena di sostituire una traduzione ormai entrata nell’uso, che non ha mai creato problemi pastorali e che la stessa Congregazione riconosce come pienamente ortodossa, in favore di una formula più materialmente vicina al linguaggio biblico ma non necessariamente più fedele alle intenzioni gesuane ed ecclesiali oltreché potenzialmente meno comprensibile per i più sprovveduti. Di una o dell’altra traduzione, peraltro, qualcuno ha già fatto una bandiera: quella oggi in vigore è generalmente avversata dai tradizionalisti e nei casi più estremi (come quello dei circoli sedevacantisti) è addirittura considerata capace di invalidare l’intera celebrazione della Messa, perché sentita come erronea e colpevole di diffondere la falsa opinione teologica per cui tutti indistintamente sarebbero destinati alla salvezza. Di opinione completamente contraria sono in larga parte i vescovi, coloro che in prima istanza sono i responsabili, tramite le Conferenze episcopali delle diverse nazioni, della traduzione dei testi liturgici dal latino alle lingue volgari. In una consultazione dell’episcopato italiano avvenuta nel 2010, soltanto 11 su 187 vescovi hanno votato in favore della nuova formula suggerita dal papa. In sostanza la traduzione letterale, giusta o sbagliata che sia, sta per essere imposta dall’alto a un episcopato quasi totalmente contrario, in quella che molti vivono come una pesante limitazione della capacità dei vescovi di scegliere ciò che è meglio per i propri fedeli. L’intervento di Pieri – che è al contempo uno studioso ma anche un sacerdote – costituisce un invito a evitare la spaccatura e a perseguire una terza via, proponendo una formula che non chiuda in direzione di una sola linea interpretativa: “per una moltitudine” gli pare un’espressione maggiormente vicina all’originale e più facilmente accettabile e comprensibile da parte dei fedeli. Non soltanto un compromesso di mediazione, ma anche il frutto di una lettura biblica e teologica che verrebbe oscurata dall’adozione della formula “per molti”; tanto più che essa viene apertamente sostenuta con insistenza non tanto dagli esegeti e dagli specialisti (i quali, peraltro, per l’occasione non sono stati consultati in modo sistematico), quanto da ambienti tradizionalisti apertamente critici verso la riforma liturgica postconciliare. La questione è interessante non solo dal punto di vista esegetico e strettamente religioso, ma si configura altresì, per un osservatore attento, come la cartina di tornasole di un profondo scollamento in ambito liturgico tra la Santa Sede e l’episcopato cattolico. In fondo, è lo stesso scollamento che già si era sperimentato, alcuni anni or sono, in occasione della reintroduzione del cosiddetto Messale tridentino voluta dal papa e accolta con gioia dai tradizionalisti e dai lefebvriani, ma nei fatti ostacolata, e talora persino boicottata, dall’autorità dei singoli vescovi. Può risultare difficile, però, opporsi apertamente al pontefice, e già si registrano le prime defezioni dalla corrente maggioritaria. L’arcivescovo Bruno Forte, uno dei teologi italiani più influenti, nel 2010 si era apertamente schierato in favore del mantenimento della formula “per tutti”; a distanza di due anni, sul “Corriere della Sera” dello scorso agosto, è comparso un suo intervento che va nel senso esattamente opposto. Ieri proponeva di “mantenere la traduzione attualmente in uso”, mentre oggi scrive: “Preferisco la traduzione per molti e ritengo che ben spiegata possa essere di aiuto e di stimolo a tanti”. Più ponderata riflessione, sostengono alcuni; voglia di porpora, sospetta■ no i più maliziosi. nicolotti@christianismus.it A. Nicolotti è assegnista in storia del cristianesimo all’Università di Torino

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Un bilancio editoriale del tricentenario della nascita del filosofo di Ginevra L’uomo è un animale perfettibile di Anna

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l tricentenario della nascita di Jean-Jacques Rousseau (28 giugno 1712 - 2 luglio 1778) è stato occasione di numerosi convegni, conferenze, mostre, spettacoli, nonché della pubblicazione di nuove edizioni dei suoi scritti e di nuove ricerche sulla sua opera, rivelando quanto il suo pensiero sia ancor oggi vitale e quanto sia ineludibile il confronto con le categorie della modernità così come l’autore le ha elaborate. Cuore delle manifestazioni è stata la città natale, che, all’insegna di 2012 Rousseau pour tous, ha promosso sia iniziative diffuse su tutto il proprio territorio, sia accordi di collaborazione a livello nazionale e internazionale. Con l’anno rousseauiano Ginevra si è pienamente riappropriata dell’eredità intellettuale del suo più illustre cittadino, confinando in un passato remoto la condanna del Contratto sociale e dell’Emilio come “temerari, scandalosi, empi, tendenti a distruggere la religione cristiana e tutti i governi” pronunciata il 19 giugno 1762 dai membri del Piccolo consiglio cittadino, in seguito alla quale i due testi furono “lacerati e dati alle fiamme” dinanzi al municipio (su Rousseau e Ginevra si veda l’ultima parte del lavoro di Gabriella Sivestrini, Diritto naturale e volontà generale. Il contrattualismo repubblicano di Jean-Jacques Rousseau, Claudiana, 2010). Il 28 giugno 2012, per il compleanno di Rousseau, è uscita la nuova edizione critica delle Oeuvres complètes e delle Lettres, diretta da Raymond Trousson, Frédéric Eigeldinger e Jean-Daniel Candaux (24 vol., pp. 15.284, sino al 31 dicembre € 1.250 l’edizione rilegata; € 450 quella in brossura; a richiesta il prezzo dell’edizione elettronica, Champion-Slatkine, Paris-Genève 2012). L’opera è organizzata per temi, comprende testi inediti ed è corredata da un apparato critico che getta luce anche sulle opere minori, come gli scritti scientifici, tra i quali le importanti Institutions chimiques. A essa hanno collaborato ventuno specialisti, tra i quali due studiose italiane, Amalia Collisani (Università di Palermo) e Gabriella Silvestrini (Università di Torino). È inoltre in preparazione, e uscirà nell’arco di alcuni anni, un’edizione delle Oeuvres complètes in ordine cronologico in ventuno volumi, per Classiques Garnier, diretta da Jacques Berchtold, François Jacob e Yannick Séite. Si tratta di imprese destinate a soppiantare le raccolte sinora esistenti, portate a termine da meno di vent’anni: i cinque volumi delle Oeuvres complètes, curati per la “Bibliothèque de la Pléiade” da Marcel Raymond e Bernard Gagnebin, usciti tra il 1959 e il 1995, e i cinquantadue volumi della Correspondance complète, la cui pubblicazione, iniziata nel 1965 sotto la direzione di Ralph Alexander Leigh, si concluse nel 1998. Michael O’Dea, professore emerito all’Université Lumière Lyon 2, ha osservato che il grande fermento negli studi rousseauiani degli anni sessanta e settanta del Novecento (basti pensare ai nomi di Claude Lévi-Strauss, Jean Starobinski, Jacques Derrida) si fondava sul lavoro editoriale in corso e al tempo stesso lo alimentava. Le nuove edizioni forniscono una versione filologicamente corretta di tutti gli scritti e non soltanto di quelli più frequentati, in modo da aprire nuove e molteplici prospettive, collocando ciascun testo in un corpus nel quale è possibile scoprire collegamenti inattesi tra gli elementi. In qualche modo, nota O’Dea, si tratta però del programma tracciato fin dal 1962 da Lévi-Strauss, in un discorso all’Università di Ginevra, nel quale il grande antropologo definì Rousseau il fondatore delle scienze umane ed enumerò, oltre all’etnologia, dieci diverse discipline segnate dal

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suo apporto (Claude Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau fondateur des sciences de l’homme, ora in Anthropologie structurale deux). Le considerazioni di O’Dea introducono una raccolta di saggi di tredici studiosi di ambiti disciplinari diversi (Jean-Jacques Rousseau en 2012. “Puisqu’enfin mon nom doit vivre”, pp. 288, € 75, Voltaire Foundation, Oxford 2012), raggruppati in quattro grandi sezioni: Identità, Politica e società, Musica e belle arti, Ricezione e interpretazione, che illuminano molteplici aspetti della produzione di Rousseau. Per il tricentenario, l’Assemblée nationale e la Bibliothèque nationale de France hanno organizzato sul tema Rousseau et la Révolution un colloquio e una mostra di manoscritti e documenti, provenienti in gran parte dai fondi del parlamento francese (Rousseau et la Révolution. Catalogue de l’exposition de l’Assemblée nationale, a cura di Bruno Bernardi, prefaz. di Bernard Ac-

coyer, pp. 241, € 40, Gallimard, Paris 2012). Inoltre, manoscritti, minute, copie e partiture autografe di Rousseau di istituzioni diverse sono stati digitalizzate e rese consultabili su Gallica. Queste iniziative permettono di riconsiderare il rapporto tra Rousseau e la rivoluzione, complesso a causa di una pluralità di letture tra loro incompatibili, anche tra gli stessi rivoluzionari. Nel 1791 Louis-Sébastien Mercier definì il filosofo “uno dei primi autori della rivoluzione”. Tre anni più tardi Joseph Lakanal affermò: “È in qualche modo la rivoluzione che ha spiegato il Contratto sociale”. Se i testi di Rousseau non furono la causa della rivoluzione, fornirono un linguaggio e le categorie adeguate a esprimere la novità dell’esperienza politica rivoluzionaria. Infine, l’indagine di Bruno Bernardi sul fondo Rousseau dell’Assemblée nationale ricostruisce tempi e modi di acquisizione dei manoscritti, che la Convenzione considerò questione politica, svelando i molteplici nessi che collegano il Ginevrino alle diverse fasi della rivoluzione. Particolarmente ricca la mostra ginevrina Vivant ou mort il les inquiétera toujours. Amis et ennemis de Rousseau (XVIIIe-XXIe siècles), allestita dal 20 aprile al 16 settembre 2012, con il coordinamento scientifico di Alain Grosrichard, presidente della Société Jean-Jacques Rousseau, e di Gauthier Ambrus e la collaborazione di oltre cinquanta studiosi (catalogo a cura di Gauthier Ambrus e Alain Grosrichard, pp. 343, € 40, Infolio, Gollion 2012). Le prime due sezioni della mostra hanno raccolto un vasto apparato iconografico, manoscritti, lettere, edizioni originali, testi annotati a margine di Rousseau, “uomo dei paradossi”, dei suoi contemporanei e dei lettori del XIX secolo, nelle cui pagine la sua opera subisce una serie di metamorfosi. Il percorso inizia con il frontespizio

del primo Discorso, nel quale Rousseau si presenta come un barbaro, straniero nel luogo in cui vive. Nel 1764 Rousseau annoterà sul verso un Avertissement: quel testo fu un primo passo “verso un abisso di miserie”. Tra i documenti esposti, una carta da gioco, trovata di recente, sulla quale Rousseau negli ultimi anni della sua vita vergò alcune righe, lamentando “l’intento maligno con il quale si parla di me, sia direttamente, sia indirettamente, in tutti i libri moderni”. La terza sezione della mostra ha rivelato un Rousseau ancora capace di inquietare. Dopo l’opera della Société Jean-Jacques Rousseau, fondata a Ginevra nel 1904, soprattutto in occasione delle celebrazioni del bicentenario della nascita, volute dalla Terza Repubblica e contestate dall’Action française, Rousseau è poi interprete delle crisi del Novecento, padre della democrazia totalitaria per Jacob Talmon e precursore di Hitler per Bertrand Russell, ma anche uomo dei tempi moderni, apprezzato da Bergson per le Rêveries e difeso come autore coerente da Cassirer nel 1932, sino alla svolta, con le interpretazioni di Raymond, Starobinski, Lévi-Strauss, Althusser. Dagli anni ottanta assistiamo a un ritorno a Rousseau, pur attraverso quelli che Céline Spector definisce “prismi”, come quello rawlsiano, che reintegra Rousseau nel pensiero liberale, o di Charles Taylor, per il quale Rousseau pone l’esigenza di riconoscimento a fondamento delle moderne società multiculturali. Tra i libri usciti per il tricentenario in Italia segnaliamo: La filosofia politica di Rousseau, a cura di Giulio Maria Chiodi e Roberto Gatti, pp. 237, € 28, FrancoAngeli, Milano 2012; Giuseppe Panella, Jean-Jacques Rousseau e la società dello spettacolo, pp. 167, € 15, Panini, Firenze 2011. Se in Italia nel secondo dopoguerra è stata privilegiata soprattutto la dimensione politica di Rousseau, i saggi della raccolta citata pongono il discorso politico in relazione con i suoi “fondamenti antropologici, morali, religiosi, autobiografici”: particolare rilievo assume il tema dell’autenticità, che fa emergere la dicotomia tra essere e apparire nel legame sociale. In questa prospettiva, debitrice dell’interpretazione di Starobinski (del quale è imminente l’uscita di un nuovo saggio su Rousseau, fondato sull’antitesi accuser et séduire), si colloca anche l’indagine di Panella, condotta su testi solitamente lasciati a margine (la Lettre à d’Alembert sur les spectacles, i Dialogues e le Rêveries du promeneur solitaire), che evidenzia la condanna degli spettacoli come specchio della società dell’apparenza e, negli ultimi scritti, l’invocazione alla trasparenza e la “comunicazione solitaria” della fantasticheria. Rousseau scrittore inesauribile, dunque, i cui testi oggi sono accostati con maggior rigore filologico che in passato. Da questo punto di vista ancora pienamente valide sono le indicazioni che ci vengono dal Rousseau, purtroppo incompiuto, di Giuliano Gliozzi, studioso del quale nel 2011 cadeva il ventennale della scomparsa (Differenze e uguaglianza nella cultura europea moderna, Vivarium, 1993). Mediante una magistrale ricostruzione dello “stile di pensiero” del Ginevrino, che potremmo definire dialettico, Gliozzi confutava infatti sia il mito storiografico di un Rousseau primitivista, sia quello della presenza nell’uomo di costanti metastoriche: non la coscienza o la ragione, ma la libertà e la perfettibilità differenziano l’essere umano dall’animale. Assunto che spiega perché ■ Rousseau ci interroga ancora. annastrumia@tiscali.it A. Strumia è dottore di ricerca in filosofia


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Libro del mese Il Baudelaire di Bombay di Ardashir arcopolis ha inizio e fine con il nome della città che riempie di grazia ogni pagina del romanzo. È una lettera d’amore a Bombay, un romanzo che celebra le squallide strade di una città evanescente. Thayil resta giustamente fedele al vecchio nome non ufficiale della città, “Bombay”, un nome che, per mia esperienza, la maggior parte dei cittadini preferisce a “Mumbai”, troppo connotato politicamente e poco rappresentativo della storia cosmopolita che noi bombayti desideriamo preservare. Sin dalla prima frase, una lunghissima frase che si protrae per sei pagine, il lettore si gode un banchetto imbandito con cura di delizie sensuali preparate e servite da un poeta d’eccellenza. La prosa di Thayil è carica di dolore, desiderio e sogni. Senza mai perdere il filo della narrazione, ci guida in un universo di droghe, languore e seduzione, fino al cuore fumoso degli adda, le taverne di Bombay con i loro narratori, sdraiati sui fianchi, impegnati a inalare nei polmoni il fumo dei chillum, o pipe d’oppio. La struttura del romanzo sembra scaturire da un bisogno intimo. Thayil scrive che l’idea della storia emerse mentre stava lavorando a un libro sulle religioni dell’India: “Una mattina, senza alcuna ragione, scrissi un capitolo intitolato ‘Una passeggiata in Shuklaji Street’. Buttai giù altri capitoli, molto in fretta. Tornarono alla memoria ricordi che non sapevo di aver conservato, frammenti di colonne sonore in hindi, brandelli di conversazioni, l’angolazione di una luce polverosa nel tardo pomeriggio, una stanza in cui la vita esisteva al piano terra, un volto illuminato da una lampada a olio”. Qualcuno definirebbe tutto questo serendipità, ma sarebbe una descrizione troppo riduttiva dei mesi di lavoro duro, d’incertezza e dubbio che molti scrittori vivono, immagazzinando nel loro inconscio le intuizioni emotive e intellettuali che danno vita a scene, personaggi e voci. Come dice Thayil in un commento al suo romanzo, “Ho capito che il libro aveva deciso da solo quale forma prendere e che sarebbe stato stupido resistergli, che sarebbe stato stupido fare qualsiasi cosa altra che non fosse seguire il volere dei personaggi”. La protagonista principale è Dimple, un eunuco o hijra. È un personaggio sfaccettato, allo stesso tempo prostituta, tossicomane, amante, figlia, filosofa, madre e, cosa più importante di tutte per il narratore, frequentatrice del covo in Shuklaji Street, la persona che prepara e accende la pipa d’oppio. La colonna vertebrale del libro è la storia della vita di Dimple, dall’infanzia sino al momento in cui lascia il bordello e va a vivere da Rashid come amante e dove finirà i suoi giorni. Tutto ciò che la riguarda è raccontato con incanto e calore: il legame filiale con un uomo cinese, Mr Lee, che la introduce all’oppio per placare il dolore del brutale intervento di cambiamento di sesso subito da bambina e le lascia in eredità le sue preziose pipe; l’amicizia con il

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narratore e con il figlio di Rashid. Dimple è una protagonista insolita, un’opera d’immaginazione e verità, piuttosto che di realtà. Sono certo che non esista una hijra così letterata e filosofa nei vicoli di Fortress o nelle strade di Shuklaji, sebbene il mondo sotterraneo di Bombay sia popolato di persone sorprendentemente talentuose e colte. Non importa, la vita non è finzione. La hijra di Thayil è una creazione magnifica con la quale il lettore sente un’intesa forte e che trasmette una verità emozionante. Sentiamo il dolore di Dimple, i suo sogni dimenticati e i tentativi di trasformazione viscerale di sé. L’autore riesce a trasmettere con intensità il misto di paura e attrazione che Dimple desta, il desiderio animale degli uomini che la inseguono, che tentano di distruggerla. “Tutti gli uomini sono come cani”, racconta al narratore. Per darcene prova, Thayil ci fa conoscere alcuni di questi “cani” carismatici e singolari. Rumi, esperto viaggiatore, è un personaggio le cui imprese ciniche e violente sono descritte con dettagli terribilmente vividi. All’angolo di Juhu Road, prende una prostituta che assomiglia a una “casalinga con una di quelle borse della spesa a righe” e “un mazzo di chiavi appeso a un anello d’argento, legato al corpetto della sari”. Nel retro della macchina abusa di lei e la deruba. “Gemeva, ma inconsciamente. La mise per terra vicino a un carretto abbandonato, intorno c’erano pile di merda, umana dall’odore, e come per un ripensamento, mise la mano nel suo corpetto, realizzando solo in quel momento di non averle ancora toccato i seni, un peccato, perché erano gonfi e umidi sui capezzoli”. In fuga dal centro di riabilitazione, accosta e spoglia una giovane commessa incredula “e quando la scopò con le dita, lei strillò me, me, me, come una capretta”. Ex monaco ed eroinomane, Soporo Omar, che gestisce il centro di riabilitazione chiamato Safer, fa da contrappunto al cinismo sprezzante di Rumi (un nome ovviamente ironico, nel suo evocare Jalal al-din Rumi, grande poeta e mistico della tradizione persiana). Thayil è abilissimo nel drammatizzare la tensione tra i due attraverso i discorsi di Saporo, a metà strada tra quelli di uno psicoterapeuta e quelli di un critico letterario. Non è facile dire se Thayil intenda descriverlo come truffatore o profeta. “E ora, proseguì Soporo, ecco la mia confessione: potrei ancora farmi di eroina. Magari stasera, quando sarete tutti tornati a casa vostra e io resterò da solo nella mia stanza, leggendo un libro o bevendo il tè, o anche senza leggere, guardando fuori dalla finestra le macchine che passano per strada”. Essendo anch’io bombayita, pressappoco della generazione di Thayl, e avendo anch’io sprecato tante notti della mia giovinezza battendo alcune delle strade dove l’autore ambienta il romanzo, posso affermare con certezza che dipinga un quadro vivido di quell’ilaka, o quartiere. Sa trovare nella scrittura l’esatto equilibrio o ambivalenza tra l’af-

fetto per le persone e i luoghi in cui vivono e il disgusto per la sporcizia, la corruzione, lo squallore inevitabili in tali circostanze. Riesce a documentare decenni senza indugiare su incidenti politici o sentire il bisogno di richiamare ogni evento storico. Ovviamente ci sono i disordini di Bombay, ma solo nella misura in cui hanno un impatto sulla vita e sulle condizioni di vita dei protagonisti. Questo è un libro sulla dipendenza dall’eroina e i suoi piaceri – “La verità è eroina, è bellezza” – e sui diversi tentativi dei personaggi di abbandonarla. Perché piace leggere di gente che si sforza di sopravvivere alle crisi di astinenza? Ci sono così tante storie in cui ci piace vedere soffrire il paziente, il personaggio che abbiamo imparato ad amare. Perché alla fine la sofferenza ha un esito così chiaro e positivo. Vogliamo urlare: “Resisti, siamo dalla tua parte!”. Forse è un buon modello di sofferenza per qualsiasi circostanza della vita. Resisti, diventerai una persona migliore. In Narcopolis si condivide il peso della sofferenza con i drogati, i reietti, i filosofi di strada e i parassiti che abitano Bombay. “Parassitare”, andare al cinema, “mangiare l’aria”, bere succhi di frutta, questi passatempi, o “tempi persi”, che assaporano molti bombayiti, specialmente quando cala la notte, tornano continuamente nelle pagine del libro. Questa ode a Bombay così potente e toccante mi ha indotto a pormi parecchie domande sull’attrazione del narratore per quella città perduta, con i suoi fumatori di oppio e l’intenso cameratismo da taverna, sicuro come un ventre materno. In un’intervista radiofonica Thayil ha dichiarato che la stesura di questo libro, più che essere catartica, lo aveva portato a rivivere ricordi e luoghi dimenticati, lasciandolo vuoto e demotivato per l’intero anno successivo. Nel primo verso della poesia Baudelaire, chi parla confessa: “Ti ho sconfitto, infine”. Ora che Thayil si è trasferito a Bangalore, si può leggere quel verso come un epitaffio della sua relazione con Bombay? È così che si sente rispetto alla città di cui così tanto è stato rinominato e cancellato? Come è successo per l’atmosfera e i luoghi di Beach Boy, il romanzo che scrissi quindici anni fa sulla mia infanzia a Bombay, così tanto della nostra città è scomparso, cancellato, diventato storia. Altri di noi scriveranno e faranno risorgere quei giorni di sogno, quella città perduta, la palude ingioiellata e multiforme, prima che fosse trasformata in una distesa omogenea di acciaio e cemento? Lo spero. Dovremmo essere grati a romanzi come Narcopolis che mantengono la tradizione – “Una forma di conservatorismo unica straordinariamente affascinante” – di elaborare le diversità del passato. ■ (Traduzione dall’inglese di Luisa Pellegrino) A.Vakil@gold.ac.uk A. Vakil è scrittore e poeta

La pipa perfetto per l’O di Carmen

Jeet Thayil NARCOPOLIS ed. orig. 2012, trad. dall’inglese di Vincenzo Mingiardi, pp. 300, € 16,50, Neri Pozza, Vicenza 2012

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ome il genio esce dalla lampada, questa lunga e variegata storia fuoriesce dal bocchino della lunga pipa che un tempo era appartenuta al vecchio cinese Mr Lee, il più famoso gestore di fumeria d’oppio di Shuklaji Street, al punto che tutti parlano di lui ma nessuno sa se esista davvero. Mr Lee è un maestro paziente, insegna a Dimple la lentezza, la perfetta ricetta per preparare il tè e il riso alla maniera cinese, perché gli indiani, secondo lui, sono pazzi, presi dal vortice della modernità hanno scoperto la velocità e non sanno più nemmeno cucinare. Più ancora, le insegna a preparare la perfetta pipa per fumare l’O, l’oppio. Con Mr Lee si aprono pagine sulla Cina, su un ipotetico eunuco musulmano giunto in America prima di Colombo, sui genitori di Mr Lee, a loro modo dissidenti: sua madre in età matura aveva deciso che l’istruzione era la cosa più importante e si era iscritta all’università per studiare storia, il padre scrittore inviso al regime aveva finito per diventare oppiomane e autodistruggersi. Mr Lee, innamorato, era dovuto fuggire dalle violente purghe di regime che si abbattevano nella Cina di Mao Tse Tung e dei tazebao diffamanti che provocavano il linciaggio di comuni cittadini e funzionari dell’amministrazione. Mr Lee aveva guidato una Jeep fino in India, poi l’aveva scambiata con un’Ambassador ed era finito a Bombay, solo, nella sua fumeria: esule. “Un uomo che non ritorna al suo luogo di nascita è come un uomo che si veste elegante e rimane seduto al buio, le disse Mr Lee. Aveva sempre pensato di tornare in Cina da vecchio; voleva morire in patria, ed essere sepolto vicino agli antenati. Promettimi di riseppellirmi in Cina” – implorava Dimple. E così Dimple emigra in un’altra fumeria d’oppio della strada. Emancipatasi dal bordello e dalla Tai che lo gestiva, Dimple viene accolta dal musulmano Rashid. Dimple è la storia stessa che emigra di fumeria in fumeria, di genere in genere, nato uomo, evirato a otto anni, Dimple è una donna fascinosa che fa voltare gli uomini per strada, che sa come sedurre con la sari, ma anche con il burqa, quando Rashid la ribattezza Zinat; si salva la pelle quando, all’uscita da una chiesa, conferma di essere cristiana come rivelano gli abiti che ha indossato. I travestimenti di Dimple non mutano la sua natura di hijra e tanto meno la sua abissale solitudine. Con lei, attorno a lei e alla sua pipa, migrano le storie dei personaggi che frequentano le tane: una decina, tossici, spacciatori, violenti, criminali nel quartiere labirintico di

Concilio Bombay dove si aggirano poveracci e diseredati, moribondi, ma anche hippy e turisti occidentali. Narcopolis, più che una città, è una strada dove si accumulano, si incontrano vite spezzate, detriti di vita, sporcizia, escrementi, cadaveri, dove ci si narcotizza contro il dolore fisico (“Sono in male, diceva Mr Lee, come se fosse una nazione. Come se dicesse, sono in Malesia”) e i mille tradimenti della storia. L’India non è più il paese che i padri fondatori hanno strappato al colonialismo e portato all’indipendenza, la generazione dei figli è persa nelle nuove droghe, eroina, cocaina, poi “la chimica”, incapace di reagire alla corruzione, alle guerre comunitarie macchiate di fanatismo che ancora hanno sventrato Bombay tra il 1992 e il 1993, mentre il traffico di droga dal Pakistan diventa sempre più lucrativo. Tra gli anni settanta e novanta cambiano i nomi e gli effetti devastanti delle droghe, le fumerie vengono chiuse, lo spaccio emigra altrove, in club più esclusivi, il manager russo fa affari con i neo-spacciatori, il corriere dal Pakistan è nigeriano, le gerarchie si rimescolano, ma tutto resta più o meno invariato, anche i centri di riabilitazione sembrano un fallimento. La stessa Bombay, rivisitata dall’io narrante, è mutata, ma è sempre quel ventre flaccido eppure accogliente. Il romanzo termina là dove cominciava Maximum City di Suketu Metha (Einaudi, 2006; cfr. “L’Indice”, 2007, n. 5), in quella Bombay letteraria ma reale, che si contorce alla luce del giorno, in pieno centro, accanto al quartiere degli affari e dall’amministrazione, nel suo mondo in bilico sul confine di genere, sul confine tra lecito e criminale, tra bene e male, profitto e spiritualità, violenza e amore, in cui regna sovrano lo spettro della solitudine. Non c’è rimedio alla povertà, alla depravazione, alla violenza, non c’è apologia della droga quale soluzione per tutti i mali, c’è però un senso della fumeria d’oppio come di un mondo tramontato, che appartiene ormai al passato di Bombay, dove esisteva ancora un codice e una filosofia che teneva insieme un bengalese, un eunuco, un cinese, un musulmano, un cristiano siriano e un brahmano donando loro una qualche dignità. Un mondo in cui spicca l’umanità di Dimple, la sua paura della solitudine e della morte, e l’abilità di uno scrittore-poeta come Jeet Thayil capace di affascinare anche toccando temi e situazioni raccapriccianti per il piacere del lettore, guidato anche dalla sapiente traduzione di Vincenzo Mingiardi, abile nel variare i registri, nelle soluzioni equilibrate e mai sopra le righe. Sarebbe facile, ma pericoloso per un traduttore, cadere in grossolane scurrilità, visto il materiale lessicale, per così dire, rabelaisiano. Invece una prosa fluida e vivida accompagna il lettore verso l’originalità di questa narrazione per bombayiti e non. ■ carmen.concilio@unito.it C. Concilio insegna letteratura inglese e post-coloniale all’Università di Torino


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L’Indice allunga to: appr ofondim enti in

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rete

Primo piano www.lin diceonli ne.blog spot.co m

Un’ipotesi in attesa di verifica di Daniele

Zerocalcare LA PROFEZIA DELL’ARMADILLO pp. 143, € 16, Bao Publishing, Milano, 2012

UN POLPO ALLA GOLA pp. 188, € 16, Bao Publishing, Milano, 2012

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ue domande che forse sono identiche: quanti sono i passati che può vivere una sola persona e quante volte può rivivere il proprio passato? Per un narratore il passato non è un tempo, spesso è un luogo in cui si trova intrappolato e da cui non riesce a uscire, specie se si tratta di infanzia, adolescenza… degli anni giovani. Chi racconta si guarda indietro troppo presto e presto scopre tutto ciò che i riti di passaggio gli hanno impedito di vivere al momento giusto. E si vieta di non capire tante cose che lo aiuterebbero ad andare avanti con meno dolore. Può risultare paradossale pensare al lavoro di Zerocalcare in questo modo, ma ammantato da una cospicua quantità di ironia emerge sempre il profilo scuro della morte: un’amica perduta, un cadavere abbandonato in una macchia d’alberi vicino alla scuola. E come per Antoine Doinel ne I quattrocento colpi di Truffaut, per cui la scoperta del mare non è una liberazione evidente dalla propria assenza di sé, la soluzione non risolve nulla per chi legge: trovare un responsabile (come nel secondo caso citato) non è il fattore determinante dell’eliminazione del “polpo alla gola” che attanaglia il protagonista, di quello deve liberarsi da solo. Con le sue pagine Zerocalcare recupera l’idea di un fumetto d’autore – di formazione – italiano, segnalandone, grazie al processo identitario del successo attribuitogli da gran parte dei suoi lettori, una sorta di tradizione inaugurata dal Penthotal di Andrea Pazienza. Diviene così uno specchio per capire il carattere di un certo ambito giovanile, semplicemente perché ne mette in gioco i modi di vita, con tanto di idiosincrasie, paranoie e paure. Una voce e un registro linguistico che, in alcuni frangenti, tra i narratori italiani contemporanei si avvicina a certi romanzi di Niccolò Ammaniti da Branchie a Io e te. Contiguità di sensazioni di lettore tutte da verificare ma che riconoscono quasi una scuola romana dell’approccio narrativo. Pazienza nel 1977 dava testimonianza in Penthotal della dimensione dello “studente fuori sede”, Zerocalcare invece parla di ragazzi cresciuti – ma sarebbe più opportuno definirli ben saldi nella loro idea di non crescere – insieme: pigramente oscillanti tra sentimenti e comodità borghesi e il desiderio di uscirne, di emanciparsi. Non sono nerd ma a un passo dall’esserlo. O forse non sono nerd come i protagonisti di Big Bang Theory semplicemente per-

Brolli

ché l’Italia è diversa dagli Stati Uniti. Certo, non appena si vede, si ascolta, si legge qualcosa di nuovo la prima tentazione nel parlarne è quella di ricondurlo nel solco rassicurante di ciò che si conosce. Anche se bisogna ammettere che Zerocalcare, malgrado il ritratto di un ambiente domestico borghese con tanto di televisore al plasma, non rinuncia mai a una certa dose di inquietudine, al di là dell’incombere più o meno ricorrente del discorso sulla morte. I suoi aiutatori invisibili, teneri e inflessibili, sarcastici e inopportuni ripropongono in parte il meccanismo magicamente riuscito di interazione tra il protagonista e un subconscio petulante in grado di ironizzare su se stesso che tra anni Ottanta e Novanta ha raggiunto il suo vertice nel Calvin & Hobbes di Bill Watterson: con l’armadillo inaspettato aggiornamento di una tigre di pezza, quasi a dire che passata una certa età, se proprio ci si vuole abbandonare a un “compagno di giochi invisibile” si deve riconoscerne per intero la bizzarria. La forza della proposta iniziale di Zerocalcare sta anche in quella serialità, quella costanza ravvicinata di proposta al lettore, che oggi giornali e riviste non sono più in grado di offrire al fumetto (perché l’epoca delle riviste è finita e per lo scarso interesse che hanno ormai contenitori di altro genere come i quotidiani nel proporle al proprio interno) e che la rete offre. Le pagine in bianco e nero postate regolarmente sul blog di Zerocalcare hanno creato affezione nel lettore e hanno permesso la crescita libera da pressioni economico-produttive di storie e personaggi. Ribadendo un’altra trasformazione; le autoproduzioni d’autore che, a seguito dell’attenzione riscossa o semplicemente segnalate da un esempio cartaceo, finivano per approdare alla maggiore visibilità di una diffusione non più clandestina, sono passate alla rete, dove internet si propone come mezzo di visibilità più democratico e forse anche più professionale (niente a che vedere con fotocopie o stampe fatte in proprio). Una serie di considerazioni sparse, quindi, che vorrebbero segnalare Zerocalcare come protagonista di una svolta, sommessa, che finalmente non scimmiotta le vite degli altri. Anni di graphic novel d’importazione, con il taglio autobiografico di autori statunitensi e francesi ci hanno fatto credere che quelle fossero le nostre vite e hanno portato alla produzione di graphic novel italiani in cui i protagonisti sembravano alieni, personaggi asettici assenti dal nostro orizzonte sociale. Zerocalcare ha il grande merito di aver restituito un forte connotato italiano alla vena “autobiografica” (autobiografica per convenzione, è riferito al taglio narrativo, non significa che tutto quanto si narra è successo all’autore) del nostro fumetto. ■ D. Brolli è editore e giornalista

Un fenomeno di

Andrea Pagliardi

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a superato nella classifica dei libri più venduti su Amazon le Cinquanta sfumature di grigio, le ricette della Parodi e l’ultimo Camilleri. Il suo blog è visitato da decine di migliaia di utenti. Ha 29 anni, è italiano e scrive fumetti con l’improbabile pseudonimo di Zerocalcare. Come ha fatto? Partiamo dall’inizio e cerchiamo di ricostruire la sua storia. Michele Rech disegna da sempre per i compagni di scuola, per le ragazze che gli piacciono, per i centri sociali che frequenta, per gli amici che fanno concerti e per quelli che vanno alle manifestazioni. Disegna tantissimo, ma fuori dal giro dei centri sociali quasi nessuno sa chi è, perché quasi nessuno sta a guardare l’autore della locandina dell’ultimo concerto hardcore punk al Forte Prenestino. Finché nell’autunno del 2011 un amico di fumetti lo aiuta ad autoprodurre in bianco e nero il primo volume, La profezia dell’armadillo e a lanciarlo mettendo in rete il primo blog italiano interamente a fumetti: una manciata di pagine esilaranti ogni lunedì. Nasce così l’armadillo, il nemico immaginario, l’alterego isterico e saccente, la voce della coscienza, a volte dell’in-coscienza, l’interlocutore immaginario eppure reale, la personificazione in carne e corazza delle ansie e delle nevrosi di un quasi trentenne neanche troppo scapestrato che passa il tempo chiuso in casa, tra PC e disegnetti. Le strisce autobiografiche (armadillo incluso) ottengono un ottimo successo di pubblico nel web, rimbalzano sui social network, creano un primo nucleo di adepti che a loro volta diffondono il verbo, lo spirito della nuova profezia di inizio millennio: “Si chiama profezia dell’armadillo qualsiasi previsione ottimistica fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti, nei

secoli dei secoli. Amen”. Il blog fa da traino al primo volume e le quattrocento copie portate in macchina per essere vendute senza stand al salone del fumetto di Lucca 2011 diventano cinquemila in quattro giorni. A quel punto l’editore milanese Bao offre a Michele di ripubblicare la profezia a colori e gli chiede un nuovo volume che arriva nell’autunno 2012, Polpo alla gola. Ecco come ha fatto Zerocalcare. E ci è riuscito per la ragione più semplice, ovvia e banale: fa morire dal ridere ed è strepitosamente bravo. La bravura di Zerocalcare non sta tanto nei disegni che sono evocativi ed efficaci il giusto e ricordano – in meglio – il tratto volutamente grezzo e deformato del fumettista serbo Alexander Zograf, ma nel montaggio grafico delle immagini e nel ritmo della narrazione. Le trovate, le idee e le intuizioni sono innumerevoli e quasi sempre perfettamente azzeccate. Ci sono sintesi icastiche, ma anche la capacità di descrivere sfumature e stati d’animo raffinati, come quella sensazione sottile che rende amare le occasioni mancate. Con La profezia dell’armadillo Rech riesce in un’impresa non da poco: unire in un unico volume i due linguaggi fondamentali del fumetto, la vis comica delle strisce e il respiro narrativo del graphic novel. La novità della Profezia sta proprio in questo: aver inserito il formato striscia all’interno di una storia completa e complessa, portatrice di diversi registri narrativi e ricca di elementi drammatici, come sono per l’appunto le storie dei graphic novel. L’io narrante e l’armadillo vengono così a confronto con il mistero della morte per anoressia di un’amica di infanzia: senza perdere nulla della loro esilarante levità le strisce si inseriscono così in un tessuto narrativo pienamente strutturato. Una novità che si conferma, come le sue ottime capacità di narratore, in Un polpo alla gola, un graphic novel più tradizionale, basato su una vicenda di segreti inconfessabili, colpi di scena e rapide virate narrative che si snoda nel tempo attraverso le tre fasi della crescita: infanzia, adolescenza ed età matura.

Un esilarante imbarazzo universale di Luca

P

artirei dal dio del giorno dopo, colui “che risolve nell’ombra”, quello invocato dal protagonista (“domani quando mi sveglio si sarà risolto tutto da solo. Amen”), quindi Zerocalcare, perché risolva, silenziosamente e di notte, i problemi causati dal crash del computer. Quando il panico dilaga, quando la ragione non trova appigli, insomma quando il mondo non risponde alle nostre implorazioni, non si può fare altro che affidarsi al dio del giorno dopo. Mettersi a dormire sperando che la notte spazzi l’incubo e che davvero domani sia un altro giorno. Da morire dalle risate il dio del giorno dopo. Lo ammetto: il dio del giorno dopo l’ho implorato anch’io. Aveva un altro nome, ma era la stessa speranza. E, tra l’altro, ogni tanto ha funzionato. Forse perché le macchine sentono il nostro nervosismo, forse perché anche loro hanno bisogno di placarsi, forse perché nella vita ci sono davvero i colpi di fortuna, o forse perché il dio del giorno dopo esiste davvero. Quello che fa Zerocalcare vignetta dopo vignetta è farci rivivere con meravigliosa forza comica un’esperienza che, in un modo o nell’altro, abbiamo vissuto anche noi lettori.

Raffaelli Tutti abbiamo avuto un’adolescenza complicata, tutti abbiamo avuto dei momenti di pubblica vergogna, tutti ne abbiamo avuti di intima. Chiunque abbia vissuto un minimo di consapevolezza di quale sia la differenza tra il nostro intimo sentire e il nostro essere presenti al mondo, tra le debolezze interiori e la necessità di essere socialmente presentabili, è stato un zerocalcare. E lui sa ormai come prendere un suo imbarazzo universale e, divertendosi, tradurlo in efficace situazione comica. Non so come dire, ma questo è un meccanismo classico e popolare nella nostra cultura. È quello usato dagli autori della commedia all’italiana, e forse neanche della più cattiva (quella di Risi e dei Mostri, ad esempio). Mi viene quasi da pensare a Sordi. E al meccanismo di Zelig, anche. In questo non esprimo un giudizio critico, ma quasi una sorpresa personale. Perché Zerocalcare è figlio di due culture alternative. La prima è quella del Forte Prenestino, luogo dove ogni ufficialità è (giustamente) guardata con sospetto, dove “Crack!”, il festival del fumetto organizzato da Valerio Bindi, è la festa degli autori ed editori indipendenti, della piccolissima e au-

togestita editoria, spesso arrabbiata, innovativa, fuori dalle regole e dai meccanismi. La seconda è quella di internet. Il successo popolare di Zerocalcare è stato decretato dalla rete, dove è diventato fenomeno di massa. E dunque? Dunque mi sarei aspettato fosse venuto fuori un autore più sicuro di sé, intenzionato, nonostante tutti i propri dubbi, a voler cambiare il mondo intorno a lui (quello stesso mondo che ha creato le sue fragilità). E invece neanche per sogno. Non solo se le accolla tutte lui (sentendosi inadeguato al mondo che nelle sue storie appare non più imperfetto di lui), ma addirittura arriva a vivere le proprie inadeguatezze come “colpe”. “È colpa del sistema la mia fragilità”, ironizzava Giorgio Gaber in una delle sue canzoni che tanto bene sapevano interpretare gli anni settanta. Zerocalcare non ha davvero quel problema, casomai si pone davvero come un Paperino in un mondo in cui solo i lettori lo possono capire. È bravo, bravissimo, Zerocalcare. Ma credo che arriverà presto il momento in cui dovrà fare una scelta, anzi due: andare più a fondo nella propria personalità, scoprendo anche la parte di personaggio nascosta in cui non tutti si possono identificare, oppure fare uscire il Paperino nel mondo, per guardare cosa accade. E a quel punto arrabbiarsi davvero: forse così guarirà anche dalla sua cronica malattia adolescenziale. ■ L. Raffaelli è giornalista


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Narratori italiani Marciare leggero di Andrea

Morti a catena di

Raffaella D’Elia

Peppe Fiore NESSUNO È INDISPENSABILE pp. 211, € 17, Einaudi, Torino 2012

È

un’umanità stravolta, quella che sfila in questo libro, nel quale il rimando al genere del romanzo industriale, di cui in bandella si evidenzia lo scarto in nome e nel segno della contemporaneità, è un punto di riferimento sempre più sfocato, un’eco in lontananza, non appena si proceda nella lettura. Nessuno è indispensabile non potrebbe che situarsi oltre questo spazio umano, sociale e letterario. Perché nell’epoca in cui viviamo sono saltati i contenitori di un contenuto, il lavoro, sempre più materia vischiosa intorno a cui restano appese le vite di ognuno. La deriva esistenziale, il profondo senso di solitudine, la confusione generata da un’artificiosa e apparente pluralità di realtà (e possibilità: di funzioni, mansioni, ruoli, carriere, identità) è una materia troppo incandescente per non far deviare (e arricchire) il tema del lavoro su percorsi diversi. La vicenda della Montefoschi, azienda romana leader nella produzione di latte e derivati, con le sue solidissime realtà di cartapesta che si infrangono all’improvviso in una serie di suicidi dei dipendenti, è allora la rete a maglia larga che trattiene le vicende (troppo spesso fatali, come si diceva) di un manipolo di uomini e di donne. Alle prese con le meschinità, la competizione, le regole non scritte, i rituali tipici di ogni azienda, e, soprattutto, quel senso di inutilità e frustrazione divenuti ormai il corollario meno inusuale e più naturale in questi contesti. Alla scoperta del primo suicidio di un’impiegata, l’imbarazzo

Il nero del secchio di Alfredo

Nicotra

Ivano Porpora LA CONSERVAZIONE METODICA DEL DOLORE pp. 328, € 18, Einaudi, Torino 2012

“H

o amato ogni sasso tirato”, grida Benito, protagonista e voce narrante di questa vicenda, e tra i molti sassi scagliati, l’esordio narrativo del giovane Ivano Porpora è uno di quelli che smuovono il panorama paludoso della narrativa italiana di questi anni, in cui a predominare sono spesso personaggi confinati in un modesto mondo interiore, reclusi in interni borghesi stracolmi di libri, impegnati a ingaggiare piccole lotte quotidiane, a dissezionare se stessi e la propria interiorità (il solo mondo di cui gli sia rimasta notizia), attori di una mimesi di tragedie minime. Una narrativa interiore e intimista, mai inferiore, ma pretenziosamente superiore per il punto di vista che adotta. La conservazione metodica del dolore è, al contrario, un romanzo sull’insorgenza della memoria. Insorgenza intesa sia in termini clinici, cioè come manifestazione improvvisa di un sintomo, di una malattia, ma soprattutto nel senso politico del termine, cioè di un’insurrezione contro qualcosa, sia esso l’ordine costituito sia, come nella fattispecie, il tempo, quel ne-

e il disagio generale paiono estendersi, in qualche modo, anche allo svolgimento del rito funebre: “La cerimonia vera e propria durò il minimo indispensabile”, per quella giovane donna il cui mondo fuori dal lavoro “era un territorio nebbioso, nebbioso era pure il suo passato e nebbiosa era la stessa Lucia Frangipani, come la maggior parte delle persone che s’incontrano sul luogo di lavoro”. E così, fino al secondo, e poi il terzo, il quarto suicidio, fino all’ultimo, mentre nulla, o poco, si apprende, che potrebbe aiutare a capire il perché di queste morti a catena. La nebulosa che serra le vite di questi esseri umani, quell’indecifrabilità che diviene quasi la cifra distintiva in realtà asfittiche come queste, sottrae rigore, veridicità, come spesso accade, alla logica aziendale, espandendosi sempre più nell’aria come un presagio di morte. È su questo rumore sinistro, che Fiore (classe 1981, di cui si ricorda La futura classe dirigente, minimum fax, 2009) ha voluto sintonizzare il suo lavoro. Nulla sarà possibile dire con certezza, alla fine, in merito a queste morti. Ed è qui, il nucleo intorno a cui si raccolgono le vicende dell’impiegato modello Michele Gervasini, della stagista Adele, del sindacalista Melogna e di uno fra i colleghi più fuori dalle righe, Pigafetta. Nel punto esatto in cui il mistero, la superficialità, un ancestrale meccanismo di difesa rendono i colleghi di ogni giorno così sempre insieme vicini e lontani da risultare inafferrabili nella loro complessità e semplicità, con le loro esistenze schiacciate e diluite nella macchina della routine quotidiana. Nessuno è indispensabile è un romanzo tragico e comico insieme: l’autenticità, il più delle volte, gioca la sua danza macabra e gioiosa con i chiaroscuri, svelando inaspettati riflessi.

mico dalle ali di corvo che tutto provvede a cancellare. Soprattutto i morti. Da quando il 22 dicembre 1979 un attacco epilettico ha cancellato gli anni dell’infanzia e della sua giovinezza, lasciandogli solo un vuoto (dal “dicembre del ’69” al “dicembre del ’79”) che lo rende cavo e indolente, Benito Allegri, fotografo quarantacinquenne, è la vittima e allo stesso tempo l’emblema di questo male. Ogni ricordo di quel passato scatena in lui una crisi epilettica. Come quando improvvisamente riemerge dal “nero del secchio” della sua memoria Margherita, vittima di un incidente stradale e suo lontano amore, o come quando, “per dare un senso a quei dieci anni di vita che avevo cancellato”, è costretto a ricomporre il senso dei suoi scatti, dodici foto che senza alcun nesso logico e stilistico ha raccolto per Omissis, la mostra decisiva che lo rivelerà al pubblico. Qualcosa di indicibile e di estremamente doloroso si cela nella necessità di oblio che ormai lo accompagna, qualcosa che gli impedisce di ricordare ma a cui non può sottrarsi. Narrato in prima persona, questo romanzo è il diario della sofferta riappropriazione e ricostruzione di sé che Benito compie attraverso un percorso a ritroso nei luoghi della memoria e dell’infanzia, alla riscoperta di un tempo tanto remoto quanto ricco di figure evocative; personaggi di una comunità, quella di Viadana, cittadina reale sita al confine tra la Lombardia e l’Emilia Romagna, sulla riva del Po, nella “bas-

sa della Bassa”, ancora immersa nei suoi riti collettivi, contadini e popolari. Rivivono così le storie e le vicende di don Binda, del Negar, di Pumén, del Catìf (che richiamano alla mente l’immaginario di Novecento di Bertolucci), figure minori di un passato, quello degli anni settanta, troppo in fretta derubricato per far posto ai falsi miti e al riflusso degli anni ottanta. Rovine allegoriche che tuttavia resistono, come afferma Benito, a quella “sensazione che un vento, un forte vento, mi stesse portando via gli anni settanta, e assieme a quelli me”, e testimoniano un mondo complesso e articolato, fatto di rapporti sociali intensi ma carico di rivolta. Come nelle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, Benito ha scelto di “richiamare le immagini di chi è morto per salvarsi” da un presente vuoto e omogeneo. La lingua di Porpora alterna il monologo personale alla lingua collettiva e corale della sua comunità, di cui restituisce, attraverso un impasto stilistico ricco di citazioni, canzoni, riferimenti colti, dialetto e italiano medio, la potenza dell’idioma, vibrante in quelle sue espressioni genuine e liriche allo stesso tempo e tipiche dei modi dire proverbiali crudeli e dolci con cui si esprimeva la visione popolare: “E da noi quando piove sembra che il Signore abbia inghiottito una nuvola e si sia messo a pisciarla”. ■ alfredonicotra@tiscali.it A. Nicotra è critico letterario

Sergio Baratto DIARIO DI UN’INSURREZIONE pp. 119, € 10, Effigie, Milano 2012

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insurrezione a cui fa riferimento il titolo di quest’opera prima di Sergio Baratto è in realtà doppia: c’è quella, per così dire pubblica, che pertiene al fermento che, all’inizio del primo decennio di questo secolo, ha animato e portato nelle piazze d’Italia e del mondo centinaia di migliaia di persone sotto le bandiere dei forum sociali, e c’è quella personale dell’autore, che ha attraversato gli ultimi dieci anni con in tasca un taccuino dove ha catalogato impietosamente le idiosincrasie dei movimenti e, soprattutto, la propria particolare, lucida e radicale posizione nei confronti del mondo. Ma andiamo con ordine. Diario di un’insurrezione è un’opera difficilmente catalogabile, che sta sospesa tra il pamphlet di carattere storico, l’analisi politica, il reportage e l’autobiografia: divisa fondamentalmente in due parti (Noi e Io), comincia raccontando la presa di coscienza dell’autore, nell’inverno 2001, della necessità, in un mondo che corre verso la mercificazione di cose, stati e persone, di scegliersi una parte; continua descrivendo, da un punto di vista che si fa via via sempre più personale, i fatti di Genova, lo shock dell’11 settembre e della successiva guerra al terrorismo, le grandi manifestazioni (non ultima la famosa marcia dei tre milioni, organizzata a Roma dal Comitato “Fermiamo la guerra”, dove Baratto fa storcere il naso a un intervistatore di una radio di sinistra portando uno striscione con la scritta “Abbasso Saddam e abbasso la guerra”).

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iene poi il momento della disillusione: i movimenti si sfaldano, ognuno si arrocca sulle proprie posizioni, i vari leader mostrano la corda o una natura arrivista e interessata che avevano tenuto ben nascosta. Ed è qui, si può dire, che comincia davvero il Diario: questo è infatti il momento in cui Baratto mette programmaticamente se stesso al centro del decennio e prova a guardare tutti negli occhi: “Non ho ricevuto un’educazione politica (…) Mi è stata offerta l’opportunità di disinteressarmi di guerre balcaniche vicine ma lontanissime, di organizzazioni mondiali del commercio, di fondi monetari internazionali. (…) Quando ho aperto gli occhi e non sono più riuscito a fare a meno della dimensione politica [termine che Baratto riconduce alla radice semantica di polis], mi sono ritrovato sostanzialmente privo di preparazione ideologica e di corazze cognitive, ma anche di

Tarabbia griglie interpretative più o meno sclerotizzate”. Ed è proprio su questa mancanza che il Diario edifica una visione del mondo pura e radicale: tenendo in tasca i libri di Marco Aurelio e del Subcomandante Marcos, di Victor Serge e di Senofonte e di Simone Weil, Baratto ridisegna una storia collettiva vista attraverso gli occhi di chi ha un’idea precisa di cosa debba essere il bene comune e quante e quali cose debba fare l’autore, come individuo, per perseguirlo nonostante tutto. Così, per esempio, in uno dei passaggi chiave del libro, Baratto risemantizza il significato della parola “pace”: “Se (…) la pace diventa il contrario semantico ed etico non più della guerra ma della violenza, al Potere basterà far rientrare in questa violenza ogni tipo di resistenza o ribellione”. Soprattutto, senza paura di essere anacronistico, Baratto ripercorre le istanze dei movimenti: per la prima volta nella storia, per esempio, gli esseri umani hanno sentito di fare parte della biosfera e hanno provato a lottare per essa in un’ottica che, pur tenendo conto del particolare, faceva riferimento agli universalia humana. Ma c’è di più: nell’ultima parte, con atteggiamento quasi monastico nella sua ricerca di una disciplina interiore, Baratto fa con se stesso quello che, durante la seconda guerra mondiale, fece Simone Weil nella Prima radice: stilla un elenco di parole, propositi etici e politici che si impegna a mettere in pratica come persona per perseguire il bene comune. Le “parole d’ordine” di questa militanza, che è sì individuale ma che negli auspici è il fondamento di un’idea collettiva, sono: reciprocità, libertà, uguaglianza, fratellanza, sicurezza, disciplina, indisciplina. A esse si accompagna una serie di opere, di “cose da fare” e di atteggiamenti da seguire: disertare, solitudine interiore, marciare leggero, (rinunciare alla) televisione, (rinunciare alle) droghe (“Sogno un Paese antiproibizionista in cui nessuno [senta] il bisogno di assumere alcunché”), attenzione, coltivare l’albero dell’odio, coltivare l’albero dell’amore, scendere in strada. Ognuna di queste parole e azioni è, naturalmente, declinata in un modo altro rispetto al senso comune, e se non mi addentro nel descriverle in dettaglio è per non togliere al lettore il piacere di avvicinarsi e discutere con esse: “Persino la palude più stagnante nasconde flussi sotterranei, ribollimenti, risucchi. Gli insetti ronzano, l’erba cresce. Non so se un altro mondo sia possibile. So che mi vergognerei di me, se non tenessi questo sogno o miraggio come stella polare del mio cammino”. ■ tarabbia.andrea@gmail.com A. Tarabbia è scrittore


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Narratori italiani Malapropismi e atti mancati di Andrea

Giardina

Gianni Celati COMICHE pp. 209, € 15, Quodlibet, Macerata 2012 omiche è stato il primo libro pubblicato da Gianni Celati, nel 1971. È la storia di un uomo, un insegnante, che trascorre un periodo di vacanza al mare, in una pensione con le pareti piene di fessure. Le giornate si succedono tra la stesura del diario e le continue azioni di disturbo messe in atto dagli altri villeggianti, in particolare da tre maestri elementari, Bevilacqua, Mazzitelli e Macchia. Costantemente tenuto sotto controllo, il paranoico protagonista, che non possiede nemmeno un nome sicuro (lo chiamano Otero, Aloysio, De Aloysio,Tatò, Corindò, lui si definisce Breviglieri), deve sfuggire all’interessata sorveglianza della direttrice Lavinia Ricci, di cui si vocifera sia fidanzato. Le giornate sono scandite da scontri, inseguimenti, fughe, nascondimenti, incursioni di umani, di spiriti (il fantasma Fantini) e dei responsabili dell’ordine che riescono a far breccia persino nei sogni. Suo interlocutore è un aereo parlante. La storia si conclude quando il protagonista, tenendosi una mano sul cappello, scappa con il ciclomotore alzandosi in volo, mentre dalla valigia aperta escono gli indumenti sporchi. Nel leggere o rileggere ora Comiche, l’approccio non è certo agevole, nel senso che la strada imboccata da Celati impone un’ininterrotta attenzione, faticosa soprattutto oggi, abituati come siamo alle prose piallate e standardizzate e alle situazioni ben definite. Come ha più volte raccontato l’autore, l’idea di scrivere in modo dissestato e strambo deriva dalla lettura del diario di un paziente di un ospedale psichiatrico di Pesaro. Ma nasce anche – lo leggiamo in una lettera di Celati a Calvino – dal tentativo di dar voce a “una maschera della degradazione”, le cui parole sono “sbagliate, fatte di malapropismi, lapsus e atti mancati”, così da “produrre per iscritto l’effetto di una smorfia di Stan Laurel”. Il risultato è lo scardinamento della grammatica, con continue sterzate verso direzioni di volta in volta imboccate e poi subito evitate, in cui, come scrive Nunzia Palmieri nella preziosa postfazione, “la parola alluda ad altri spazi, come la voce e il gesto”. È la “scrittura manicomiale”, che fa saltare qualsiasi convenzione e logica. Il romanzo diventa così lo spazio in cui tutto può succedere. I personaggi vanno e vengono, si scambiano i nomi e le identità (i

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“travisamenti”), si spiano, si studiano, si picchiano, si desiderano, si inseguono sui cornicioni. È un correre continuo, una frenesia del movimento che, ricalcando le slapsticks americane del primo Novecento, mette in primo piano il corpo. Corpi che si scontrano, corpi che cadono per terra, corpi che si animalizzano (Aloysio è scambiato per una lepre, per lui è stato messo il cartello che vieta l’ingresso in spiaggia ai cani e ai professori). Soprattutto corpi che vanno e vengono dalle loro fantasticherie sul sesso. Appena accennate nel testo del 1971, ma che emergono nella riscrittura del 1972-73 (leggibile in parte in questa edizione, ma già proposta da “Riga”, n. 28), quando Celati , oltre a normalizzare la sintassi e a dar voce alle trame scolastico-governative, rimette al loro posto le scene pornografiche che Calvino, mentore della sua uscita per Einaudi, aveva fatto espungere. L’insistere sulla corporeità, del resto, è inseparabile dall’altro motivo ricorrente, quello del reclusorio. “La casa di cartone” è un albergo, ma è anche un manicomio e una prigione. O un lager. Quando arrivano, gli ospiti vengono condotti alle docce. Il Guardiano Notturno li controlla senza smettere di minacciarli. Il Bagnino è un aguzzino che detesta lo sporco. I maestri elementari controllano se il diario di Aloysio rispetta le regole della grammatica. Tutti, compresa la bambina Luciana, richiamano all’ordine, al disciplinamento del corpo e delle sue pulsioni. Ormai sappiamo bene con quale percorso di studi Celati sia arrivato a Comiche. Come scrive lui stesso ai redattori di “Riga” (n. 14), intorno al libro c’erano “Artaud e il teatro della crudeltà, Saussure e la linguistica, Lévi-Strauss e le società primitive, Lacan e la psicoanalisi, Propp e la morfologia delle fiabe, Benjamin e le sue tesi sulla storia, Foucault e l’archeologia, Deleuze e la logica della differenza, Sade e le perversioni sessuali, Bachtin e il carnevale, il dialogismo”. Ma, aggiungiamo, anche Joyce e Swift, la novellistica italiana e i poemi cavallereschi, le “lezioni” di Enzo Melandri, gli incontri con Guido Neri e con Calvino. Allo stesso modo non possiamo rileggere Comiche cancellando quanto è stato fatto dopo da Celati. Quello che balza all’occhio è allora un’idea di letteratura come ricerca e come studio che ha poco da spartire con quanto è accaduto negli ultimi decenni. Per Celati scrivere significa sfuggire alle trappole dell’io e della psicologia, ritrovarsi in quanto sta fuori di noi ed è comune a tutti noi, perdersi nel fantasticare, camminare senza posa, procedere senza la rigidità di una trama, senza l’assurdità di costruire personaggi, senza la superbia dell’essere autore. Comiche, di tutto questo, rappresenta l’avvio. ■ giardinaandrea@fastwebnet.it A. Giardina è critico letterario

Cactus di Caterina

Morgantini

Marco Ciriello IL VANGELO A BENZINA pp. 113, € 15, Bompiani, Milano 2012

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i sono strade solitarie, piante rampicanti cresciute su declivi di montagna. Strade dimenticate, che d’inverno rosicchiano centimetri di spazio a languide spiagge. Strade affollate, porti di mare in cui si viene e si va. La Domiziana appartiene a quest’ultima categoria: il suo mare è fatto di sangue e colpi bassi, intrecciati sopra i disastri creati dalla miseria. Non “una” via, ma “la” via per eccellenza della Campania, costruita da un imperatore: quella raccontata oggi da Marco Ciriello nel suo primo romanzo, Il Vangelo a benzina, è una statale senza se e senza ma, babele di lingue e afflizioni. Una brulicante isola d’asfalto su cui il commissario Claudio Valenzi, ex rugbista, nostalgico mussoliniano, trascina la pena di uomo arrivato al bivio: di qua il mondo dei vivi, di là quello dei morti ammazzati, nel limbo quelli dal corpo rovinato, per i quali non esiste cura né estrema unzione. Da qualche tempo nelle giornate di Valenzi è arrivato un ospite indesiderato, un cancro alla prostata che ne ha ristretto il margine d’azione: c’è spazio, ora, solo per un’unica grande passione, il cactus, curato come e più di un figlio. Le giornate di un commissario conoscono comunque svolte impreviste, e nessuna, inutile dirlo, ha mai nulla da spartire con il piacere. La prima: l’uccisione di sei nigeriani, poca cosa nel bilancio quotidiano di spreco e violenza.

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ietro la sparatoria c’è la tracotanza del boss Casalese, che ha affidato al criminale serbo Dragoslav il compito di creare una falla nella comunità della zona. Ancora non basta, però: occorre un ennesimo passo di dolore da percorrere sulla Domiziana dove le donne vendono (se stesse) e gli uomini comprano (mezz’ora di sesso, cinque minuti d’affetto). Un omicidio povero nel suo essere singolare e spaiato da altre morti: l’assassinio del produttore di film porno Gennaro Romeo, uomo dalle molte vite, senatore della Repubblica e affiliato della camorra, compiuto da un attore stanco di “fottere” su commissione e dal suo pavido agente. Per non soccombere a questa macelleria quotidiana, Valenzi trova riparo nell’abbraccio ruvido della Malinese, regina della strada e delle altre ragazze che di giorno si fanno schiave e di sera, invece, vogliono farsi trattare da signore. E mentre una tigre fugge da una gabbia dorata, c’è chi, pur standoci in mezzo, riesce a osserva-

re questo spettacolo d’infimo ordine come fosse già passato: tra le voci narranti si confonde quella di un ex concorrente del Grande fratello, che da par suo sa già che la realtà esiste davvero solo se a raccontarla è la televisione. Il nero “nuovo testamento” di Ciriello, diviso fin qui tra narrativa e giornalismo, non si fa dunque mancare niente: finzione che rimanda alla cronaca, grottesca disperazione, beffarda violenza per un romanzo dalle tinte fosche rubate alla tavolozza di Bosch. In modo feroce, convulso eppure composto, questo ritratto d’un pezzo d’Italia ci avvolge con strade senza nome, tv sempre accese, commercio (umano e non) a ogni incrocio: la brutalità quale rapida conclusione alle controversie, l’indifferenza come panacea di tutti i mali. Dal perfetto mosaico di storie i caratteri si delineano subito nitidi sullo sfondo, e in una compagnia di “ultimi” i personaggi spiccano nella loro irreversibile solitudine: le prostitute, i malavitosi, la polizia, tutti trascinati in un folle giro di corsa verso la fine, affatto preoccupati di apparire innocenti perché la colpa, quando hai pochi colpi in canna, è un concetto relativo. Seppure declinato in altro modo, il Sud qui descritto è lo stesso che riempie prime pagine d’indignazione, un luogo dove i giorni si contano ammassando cadaveri e lo stato si piega al volere di poteri davvero forti: una terra remota, vicinissima solo quando le propaggini arrivano fino a lambire le sottane del Nord. Nel Vangelo a benzina ci si può lasciar andare ai mille rivoli della trama sicuri che nessuna retorica verrà mai a disturbarci: Ciriello racconta per il puro piacere di farlo lasciando ad altri l’etico istinto a documentare, divertito all’idea di pestare la coda al politicamente corretto. Siamo dalle parti di una narrazione sapiente, di un autentico talento nell’uso dell’inventiva letteraria, nonostante l’autore mostri le interiora di miracoli in cui nessuno crede più: dentro troviamo le pulsioni che non vorremmo avere, gli istinti primordiali che ci spingono a cercare, usare e rifuggire gli altri. Fuori, invece, c’è una lingua spigolosa, non facile, creata su misura per descrivere l’acre scenario, le gesta disordinate di contro-eroi: un impasto di vulgata e dialettismi, una parlata smozzicata, rapida, a tenere il ritmo delle battute e degli incontri, che Ciriello riesce a utilizzare senza scivolare nel folklore. A tutti, dunque, credenti e nostalgici delle giuste cause, è da consigliare questo testo poco sacro, veritiero e beffardo: per sapere come siano fatti davvero certi angoli del paese, dove una buona, improbabile scusa vale più di mille preghiere. ■ cater.morg@yahoo.it C. Morgantini è redattrice editoriale

In forma epica di Raffaele

Riba

Alessandro Bertante LA MAGNIFICA ORDA pp. 53, € 10, Il Saggiatore, Milano 2012

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a trasformazione delle forme epiche si compie in ritmi paragonabili a quelli della trasformazione che la superficie terrestre ha subito nel corso di migliaia di secoli”. Così scriveva Walter Benjamin nell’ottobre del 1936 sulla rivista svizzera “Orient und Occident” in un saggio diventato classico. A quasi ottant’anni di distanza da Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov e con un postmodernismo che sembra non godere più di ottima salute, qualcosa sembra riemergere, anche in Italia. È il caso di La magnifica orda, libro di Alessandro Bertante che va a costituire uno dei primi titoli della rifondata collana “Le Silerchie”, nata nel 1958 dall’intuizione di Alberto Mondadori. Quello di Bertante non è propriamente un romanzo, sia per forma che per sostanza. È una narrazione in tre movimenti che ha molto a che fare con l’epica, con il racconto delle gesta di un eroe. Nel primo movimento Alessio Slaviero è il cronista di un Napoleone apocalittico e decadente con lo sguardo rivolto all’ultima porta d’Europa dove l’inesorabile avanzata della magnifica orda d’Oriente – gente senza volto e senza nome, “massa sprezzante di gerarchia ed eroismo, un animale che non concede tregua e non conosce compassione” – procede annichilendo tutti gli eserciti e tutti i condottieri della storia occidentale. Ci sono gli istrici degli svizzeri a fianco degli eterni nemici lanzichenecchi, gli opliti ateniesi vincitori a Maratona e i guerrieri spartani di Leonida. Ci sono i principes romani, i sanniti e i normanni. E, sotto la direzione d’orchestra di quel generale che Bertante considera il “culmine dell’idea di Occidente”, ci sono i guerrieri che hanno segnato le battaglie della nostra storia: Riccardo Cuor di Leone, Cesare Borgia, Goffredo di Buglione, Vlad Tepes l’impalatore, Enrico Tudor e Alessandro Magno, pronti a una battaglia che non avrà altro esito che la sconfitta. Nel secondo movimento la visione diventa allucinazione e, in una Milano grigia e fredda, Alessio Slaviero si prepara a un colloquio di lavoro che potrebbe essere la sua ultima occasione, lo scontro finale con il suo destino di quarantenne solo e disoccupato. Nel terzo e ultimo movimento Slaviero è uno studente che nel Parco Sempione incontra C.T., un clochard un po’ profeta e un po’ il Napoleone decaduto che vede nelle potenti onde di Radio Vaticana la principale minaccia alla nostra civiltà. Una storia capitale di decadenza e di perdita per la quale vale la definizione della forma epica secondo Benjamin: “lo straordinario, il meraviglioso, è riferito con estrema precisione, ma il nesso psicologico degli eventi non è imposto al lettore che rimane libero di interpretare”. ■


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Saggistica letteraria La vita è più breve del tuo fazzoletto di Niccolò

Giorgio Ficara MONTALE SENTIMENTALE pp. 151, € 16, Marsilio, Venezia 2012

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ra le figure intellettuali più care ai letterati, fino alla generazione modernista e oltre, ha spiccato a lungo quella del “geniale dilettante”, lettore ispirato e raffinato connaisseur, sgombro dalle fatiche del professionista e perciò (o nonostante ciò) capace di attingere un’essenza artistica inavvertita dalla “gente del mestiere”. Per Montale, addirittura, era in quei rari esemplari d’intenditori senza oggetto che sopravvivevano, anche in forma estrema e paradossale, i valori di cultura e civiltà per lo più sopraffatti dalla società di massa. Nel caso del recente volume montaliano, quest’attitudine diventa un modo di lettura, non privo di rischi, beninteso; il primo dipende da una certa disinvoltura bibliografica: neppure una nota a piè di pagina (croce e delizia del critico di professione), ma solo una rassegna finale di titoli, non troppo avara ma neanche del tutto commisurata all’effettiva presenza e incidenza dei contributi citati. Se tra i doveri dell’interprete c’è quello di mettersi in rapporto, di dialogare anche in modo discreto e selettivo con chi studia lo stesso autore e le stesse opere, Ficara risulta inadempiente. Ma è un’inadempienza studiata, che scavalca e talvolta sovverte la lettura puntuale del testo per tracciare un percorso idiosincratico di metalettura attraverso i Mottetti, le venti brevi poesie che formano la seconda sezione delle Occasioni. Un itinerario punteggiato di riferimenti e paralleli letterari e filosofici “assoluti” (cioè sciolti da un’effettiva relazione di intertestualità con i versi montaliani): da Rousseau a Leopardi, da Tolstoj a Proust, da Ortega y Gasset a Merleau-Ponty; per arrivare, a ritroso, fino allo Shakespeare del sonetto LXIII, dove un cruel knife (“For such a time do I now fortify / Against confounding age’s cruel knife, / That he shall never cut from memory / My sweet love’s beauty, though my lover’s life”) ha però delle ottime chance di rappresentare un concreto precedente per l’immagine-chiave del mottetto Non recidere, forbice, quel volto…”. In questo senso, Montale sentimentale, che pure allude e aderisce ripetutamente a due grandi commentatori quali Isella e Contini, rappresenta una sorta di anticommento; per una curiosa coincidenza, l’uscita del volume ha seguito di pochi mesi quella delle Occasioni annotate da Tiziana De Rogatis, particolarmente attenta alla spiegazione letterale dei testi montaliani. Per marcare la distanza, è emblematico il caso del mottetto Addii, fischi nel buio, cenni, tosse…: se Ficara legge in prima istanza nei versi finali (“– Presti anche tu alla fioca / litania del tuo rapido quest’orrida / e fedele cadenza di carioca? –”) una “comunanza di Clizia e gli automi” – che

Scaffai Montale, come spiega in una lettera a Guarnieri, identifica negli “uomini murati nei loro compartimenti gli uomini intesi come massa (e ignoranza)” –, De Rogatis e, prima di lei, Isella vi scorgono persuasivamente la sintonia tra il poeta e la donna, nel segno di una differenza proprio rispetto a quegli automi, figure di una realtà alienata. Né i commenti autorizzano, ad esempio, la collocazione del mottetto VII (“Il saliscendi bianco e nero dei…”) nella quinta di uno “scalo ferroviario”, proposta da Ficara senza forti giustificazioni testuali. E sarà poi vero, a proposito del paesaggio del primo mottetto (“Lo sai: debbo riperderti e non posso…”), che il “‘ferrame’ di bastimenti e antenne, bailucchi e rotaie nel porto di Genova è il segno moderno della disumanità stessa”? Classificare le suggestioni irricevibili non sarebbe però il modo migliore per considerare il libro, che ha nel titolo la sua chiave di lettura più appropriata. “Montale sentimentale”, la formula che Ficara adotta per definire il “personaggio” del mottetto I, “flâneur tra i moli del suo porto-carcere, dove sfolgorarono un giorno il segno e il pegno di lei”, vale infatti anche come indicazione di un genere: dalla parte del saggista, che si dispone nei confronti del suo autore come in una sorta di transfert, proiettandovi esperienze emotive e intellettuali e dalla parte del poeta e della sua poesia, calati entro un’avventura dell’animo che prevale sull’attendibilità filologica e soggioga la documentazione biografica (anzi, Ficara si spinge a sostenere lo “scarso, anzi nullo peso reale” di Clizia, e non a caso si serve con molta parsimonia del carteggio tra la donna e il poeta), ormai così pervasiva negli studi montaliani, anche se non sempre necessaria o risolutiva (in tal senso, la critica “sentimentale” funzionerebbe quasi da antidoto, se non implicasse uno scivolamento verso l’estremo opposto). Ne risulta un libro di intensa carica affabulatoria, che fonde la critica e il journal intime, il dato e la speculazione (con una significativa inversione di polarità tra la fiction, a carico dell’interprete, e la non fiction, sul versante oggettivo dei testi montaliani). Qualità distintiva di quest’affabulazione è di non risolversi nel semplice racconto; in effetti, i Mottetti “raccontano” proprio uno scacco, rappresentano una realizzazione mancata; con il loro finale “in levare”, stabiliscono un rapporto di dissonante analogia con l’insieme maggiore di cui fanno parte. Il libro delle Occasioni, infatti, non si esaurisce nella rassegnata liturgia dell’ultimo mottetto (“…ma così sia. Un suono di cornetta…”: “La vita che sembrava / vasta è più breve del tuo fazzoletto”), ma si affida al “filo di pietà” dell’ultimo movimento di Notizie dall’Amiata. Speranza di una condivisione, pur destinata a restare per sempre fuori dal principio di realtà. ■ niccolo.scaffai@unil.ch N. Scaffai insegna letteratura italiana moderna e contemporanea all’Universtà di Losanna

Libri e odore di soffritto di

Gabriele Bucchi

Ezio Raimondi LE VOCI DEI LIBRI a cura di Paolo Ferratini pp. 128, € 13, il Mulino, Bologna 2012 on Le voci dei libri Ezio Raimondi invita il lettore a un nuovo, avvincente viaggio intorno ai libri che hanno segnato il suo percorso di intellettuale e di studioso. È un breve e appassionato racconto in cui la storia personale dell’autore s’intreccia costantemente con quella di alcuni grandi momenti della cultura europea tra gli anni quaranta e gli anni settanta del Novecento (da Heidegger a Curtius, da Gadda a Faulkner). Le voci che si susseguono in queste pagine non sono però quelle dei libri rari e preziosi cari al bibliofilo o al collezionista (basterebbero le foto di Ezio Raimondi nella sua biblioteca a confermarlo), bensì quelle dei libri intesi, prima che come oggetti di possesso, come una “creatura vivente, quasi un amico, con una storia che, nella vicenda concreta degli scambi e delle letture, diventa una storia aggiunta alla sua propria”. Questa storia comincia nella quotidianità della vita familiare bolognese degli anni trenta (“Fra il piacere della scoperta intellettuale e l’odore di soffritto della cucina”) con le prime letture dei romanzi di Hugo e Dickens e continua con le prime visite alla Biblioteca dell’Archiginnasio durante gli anni universitari. Il dopoguerra, vissuto dalla generazione di Raimondi come una stagione di rinnovate speranze in un contesto finalmente democratico, segna l’incontro decisivo con il pensiero di Heidegger. Grazie alla lettura del filosofo tedesco e alla scoperta, in questi stessi anni e fuo-

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ri delle aule universitarie, del grande libro di Curtius Letteratura europea e Medioevo latino, Raimondi matura un’idea di letteratura distante tanto dalla prospettiva idealistica crociana quanto dall’emergente sociologia d’ispirazione marxista. È l’avvio di un dialogo con l’opera di Curtius (peraltro poco e mal conosciuta in quegli anni e anche dopo) che continuerà per tutta la vita e sarà destinato a lasciare una traccia duratura nella visione raimondiana della storia letteraria intesa come storia di una tradizione retorica di lungo periodo, da Omero a Goethe. Dopo Curtius e la storia francese delle “Annales”, l’incontro americano con la critica di Bachtin occupa il cuore del libro. La sua modernità, per Raimondi, risiede soprattutto nelle idee di polifonia e di pluralità (in contrasto con quella totalità “hegeliana” che aveva ispirato l’idealismo italiano): idee che sostanziano una visione della letteratura e degli studi letterari come un cammino infinito, dove le verità da esplorare sono molteplici e sempre nuove. Accanto alle “voci” dei libri di una vita il lettore ha modo di scoprire anche quelle delle persone, dei luoghi, delle amicizie che hanno fatto da sfondo a questi incontri, spesso propiziandoli: dalle gite in bicicletta sulla strada della Futa alle aule delle università americane. È proprio questa attenzione al quotidiano che rende il libro di Raimondi non l’ennesimo contributo da parte di un grande studioso alla critica di se stesso, ma la rievocazione leggera e appassionata di una lunga avventura intellettuale fatta di libri e di amicizie, dove le idee si intrecciano costantemente alle persone, ai luoghi e alle cose in un scambio continuo di affetti e di idee, all’insegna di quella “passione del comprendere” descritta da Marc Bloch in un passo che apre il volume.

Il corno aguzzo del toro di Giovanna

Giovanni Tesio I PIÙ AMATI PERCHÉ LEGGERLI? COME LEGGERLI? pp. 136, € 14, Interlinea, Novara 2012 più amati di Giovanni Tesio affronta, in poco più di un centinaio di pagine, due interrogativi fondamentali: perché val la pena di leggere un testo letterario? E come leggerlo? A partire da queste domande si sviluppa il libro (diviso in tre sezioni, dedicate alla lettura, alla letteratura e alla poesia) nel quale una sorta di treillage di belle citazioni serve a sostenere e a spingere verso un nuovo passaggio il pensiero di Tesio. Ne risulta una versione domestica, familiare di quell’opera composta da sole citazioni vagheggiata da Walter Benjamin: quelle citazioni che, nel progetto di Benjamin avrebbero dovuto parlare da sole e trovare un nuovo senso nel confronto reciproco, qua ci vengono incontro, si inseriscono in un ragionamento che confermano e dal quale vengono, a loro volta, illuminate. Ogni breve capitolo affronta questioni cruciali: dal piacere gratuito della lettura, al rapporto tra letteratura e realtà, dalla poesia come gioco alla poesia “ispirata”, dai “nemici” della lettura al-

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Lo Presti la letteratura come merce. Ognuno di questi aspetti viene presentato con pochi tratti sicuri: la chiarezza dell’esposizione potrebbe raccomandare I più amati come ottimo libro di testo per avvicinare i ragazzi alla letteratura, privo com’è della prolissità, dell’inutile fumosità, della cattiva astrazione, degli avvilenti tecnicismi di tanti manuali di letteratura e di storia letteraria. L’idea di letteratura, e di poesia, che emerge dal libro di Tesio è chiara: non esiste letteratura se non laddove la parola è attraversata da una tensione interna e l’unica parola dotata di dignità letteraria “è quella che sa stringersi in disciplina e che fa fremere i contrari”. Non necessariamente ciò deve avvenire nell’ambito di un discorso “alto”: anche la giocosità di una filastrocca, anche lo sberleffo irriverente di un testo satirico, anche l’apparente umiltà del dialetto possono generare quel cortocircuito di senso senza il quale non esiste letteratura. Viene ribadita l’idea che la letteratura (e la poesia, che ne è la manifestazione par excellence) possa esistere soltanto all’interno di un’antropologia che attribuisca peso sia alla ricerca di senso sia al gioco (che sempre rispetta regole rigorose). Due citazioni per sintetizzare la posizione dell’autore. Da un lato, che è quello della letteratura come tecnica e come continua remini-

scenza delle testimonianze letterarie del passato, la conclusione (ancorché Tesio rifugga dalle conclusioni intese come parola ultima e definitoria) è quella che tanti secoli fa trasse Pascal: “Le parole diversamente disposte creano un diverso significato, e i significati ordinati diversamente producono diversi effetti. Non si sostenga che io non ho detto niente di nuovo; la disposizione degli argomenti è nuova; quando si gioca alla pallacorda è sempre la stessa palla che passa da una mano all’altra, ma c’è chi la sa tirar meglio”. Dall’altro lato, che è quello del contenuto della letteratura, del suo intrattenere legami con il reale, con la vita, valgano come sintesi le parole di Michel Leiris: “Forse ciò che avviene nel campo letterario è senza valore se rimane ‘estetico’, anodino, esente da sanzioni, se non c’è nulla, nello scrivere un’opera, di equivalente a quello che per il torero è il corno aguzzo del toro”. In tempi in cui un ministro della Repubblica non esita a dichiarare che con la cultura non si mangia, in tempi in cui nelle nostre università gli studi umanistici vengono ritenuti uno spreco di risorse, mentre la scuola, stordita dalle sirene del didatticismo e delle nuove tecnologie, si avvia a naufragare su scogli fatali, il piccolo libro di Giovanni Tesio è quasi un raggio di sole che spunta tra i nuvoli folti che rendono buio e minaccioso il nostro cielo. ■ giovannalp@hotmail.com G. Lo Presti è insegnante e saggista


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Saggistica letteraria L’infinito è finto e la siepe è reale di Giorgio

Pier Vincenzo Mengaldo LEOPARDI ANTIROMANTICO E ALTRI SAGGI SUI “CANTI” pp. 209, € 19, il Mulino, Bologna 2012

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el mutamento diventato rapidissimo che travolge il nostro sistema letterario e comunicativo, anche i grandi autori rischiano: rischiano forse per eccesso di obbligo scolastico, e comunque per quanto sono stati già definiti e consumati. Eppure, se un’occasione riapre il rapporto diretto, mette nelle condizioni di un ascolto senza distrazioni, riportato per così dire all’essenziale, la voce di chi ha saputo creare si impone. È l’esperimento che capita e che vale la pena di fare con le due antologie che Pier Vincenzo Mengaldo ha dedicato a Leopardi: Antologia leopardiana. La poesia e Antologia leopardiana. La prosa (entrambe Carocci, 2011). Attraverso una scelta e una guida ai testi, è più facile ritrovare la voce di un poeta dalla forte singolarità, caratterizzato anzi da una doppia e intrecciata singolarità: da un lato condividere, e persino appartenere alle forme della tradizione, per riscriverle in modi del tutto individuali e insomma innovativi, secondo un programma che Leopardi teorizzava di una “classicità/antichità” per i contemporanei; dall’altro produrre una poesia così fortemente soggettiva e lirica al momento stesso in cui espone pensieri, propone “filosofia”. Sono queste compresenze che hanno molte volte messo in crisi gli interpreti, portati a svalutare l’uno o l’altro Leopardi, ma che ormai sono la ragione forte del nostro interesse. È appunto la singolarità su cui un lettore espertissimo come Mengaldo ha finito per interrogarsi, muovendo dagli strumenti che maneggia con tanta padronanza: quelli della lingua e dello stile. Il libro uscito dal Mulino di cui si parla è (per ora?) la tappa finale di un interesse passato attraverso le due antologie e prima mostrato in un altro volume dell’editore bolognese (Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei “Canti” di Leopardi, 2006), che è premessa e complemento necessario a questo. Il volume si compone di un primo saggio più generale che dà il titolo “programmatico” al libro; di un gruppo di studi che analizzano, considerando aspetti e livelli differenti, le forme della poesia di Leopardi; infine di tre diverse analisi concentrate su Sera del dì di festa, A Silvia, Quiete. Nel gruppo dei saggi centrali il lavoro ruota in sostanza attorno a due problemi: i modi dell’enunciazione del discorso poetico (in quale persona e sotto quale veste il poeta parla) e la costruzione di quella particolare “forma senza forma” in cui, secondo la definizione insuperabi-

Panizza le di Carducci (qui nel libro appunto richiamata), consistono le poesie di Leopardi. Muovendosi all’interno delle forme metriche della tradizione classicista italiana (canzone, ode, endecasillabo sciolto), Leopardi le dissolve dall’interno fino all’elaborazione della nuova “canzone libera”, inaugurata con A Silvia (1828). Problema fascinoso, cui molti hanno dedicato studi eccellenti, in vario modo presupposti da Mengaldo (Bigi, Blasucci, D. De Robertis, Girardi). Qui si osservano in modo sistematico aspetti prima considerati magari in modo isolato, tutti inerenti al livello struttivo delle forme (metro + sintassi): polisindeto/asindeto, ordine delle parole, legami interstrofici, effetti di legato/staccato nel continuo del verso prodotti dalla presenza/assenza di sinalefe, legami “pararimici” tra i versi sciolti. Ne risulta un’utilissima massa di informazioni, che permette di individuare ancora meglio, direi, non tanto delle “leggi”, ma delle costanti espressive di Leopardi, dalla cui distribuzione sono caratterizzate le fasi distinte della sua produzione e le loro riprese interne (Canzoni, Idilli, canti pisanorecanatesi, ciclo di Aspasia, canti napoletani). Si capisce tuttavia che Mengaldo è come attratto dal movimento liberatorio, entro cui Leopardi si muove. Da un lato ci mostra infatti la fitta presenza di processi di tessitura che travalicano le stesse strutture libere create da Leopardi, tanto da parlare di “una metrica doppiamente ‘libera’”, per un altro documenta con grande ricchezza la creazione di legami “rimici” tra versi sciolti, di cui quindi negano l’istituzionalità, rompono lo “schema” obbligato. Nell’insieme è una conferma dettagliata della “forma senza forma”: ogni testo di Leopardi è un individuo irripetibile, né con lui si fonda una nuova metrica che abbia un seguito. È chiaro che nell’espressione poetica, così come la viene costruendo nel tempo, si concentrano per Leopardi molte istanze. Una chiave utile a decifrarne la complessità è fornita dall’analisi di Mengaldo sui modi dell’enunciazione. Finalmente abbiamo un quadro completo del rapporto io/noi nei Canti: una distribuzione interessante, perché solo negli Idilli (del tutto) e (quasi del tutto) nel ciclo di Aspasia, resoconto di una “storia” fortemente personale, è esclusivo l’io. Nel resto, dalle Canzoni alla Ginestra, l’enunciato vive di una continua transizione/compresenza (uso le parole di Mengaldo) tra prima singolare e prima plurale. Ne è manifesto A se stesso, canto tragico in cui si conclude l’esperienza dell’ultimo amore deluso, dove la dimensione così totalmente privata diventa di per sé invece generale (“Or poserai per sempre, / Stanco mio cor

[…] Al gener nostro il fato / Non donò che il morire”). Impossibile seguire qui nei dettagli e nella sua evoluzione il problema. Possiamo però riprendere una riflessione più ampia, di cui tener conto per comprendere la “singolarità” di Leopardi di cui si è parlato. A parte casi particolari (noi = io + tu, ecc.), che cos’è il noi di Leopardi? Lo dicono la compresenza e i suoi modi documentati da Mengaldo: è un noi di condivisione, indicatore della comune appartenenza al “gener nostro”. Leopardi non può pensarsi estraneo e diverso a questa appartenenza. Nel libro precedente Mengaldo ha studiato il parallelo problema del rapporto io/tu nei Canti, che sono per l’appunto quasi del tutto testi allocutivi. L’espressione di sé in Leopardi è giustificata sempre come dialogo, cioè come desiderio di interlocuzione. Il contenuto e il movente di tale dialogo nascono però solo da quanto Leopardi ritiene di conoscere: cioè da sé. Non è altra l’auctoritas: è la verità incontrovertibile della propria esperienza a essere in quanto tale “oggettiva”, insomma comune. L’io è dunque fondamento di tutto, ma sta nei suoi limiti; è un io/soggetto ben distinto dal mondo/oggetto. L’infinito è tanto “finto”, cioè immaginato dall’io, quanto la siepe è ostacolo reale. Leopardi appunto “antiromantico”, perché rifiuta l’idea del poeta come “creatore” del mondo, come “veggente” di quei percorsi analogici che trasformano gli oggetti in proiezioni dell’io. Anche con questo punto di vista, dico per chiudere su una questione che mi pare rimanga in Mengaldo come sospesa, si è aiutati a capire il dramma vitale che i Canti esprimono, quella sorta di opposizione tra vitalità e nichilismo, tra canto e pensiero. Il dramma è l’esistenza vera e viva di quanto non dovrebbe esistere. Non c’è conciliazione possibile, ma neanche dualismo. È l’assurdità dell’essere. ■ giorgio.panizza@unipv.it G. Panizza è ricercatore di letteratura italiana all’Università di Pavia, sede di Cremona

Presi per incantamento di Silvia

POETI DEL DOLCE STIL NOVO a cura di Donato Pirovano pp. 798, € 22, Salerno, Roma 2012

I

l volume unisce, riproducendo le migliori edizioni critiche oggi disponibili, tutte le rime di Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi e Cino da Pistoia, poeti di cui si presentano, previa avvertenza, anche testi di dubbia o recente attribuzione. Il curatore, Donato Pirovano, ha corredato la raccolta di un’introduzione generale e di note relative ai singoli autori e ai singoli testi, guide preziose per una lettura contestualizzata e non approssimativa. Per il venire incontro a esigenze diverse, senza rinnegare il rigore filologico, questa edizione dei Poeti del Dolce stil novo si raccomanda dunque sia come livre de chevet per un pubblico colto, sia come utile strumento di lavoro. Non sfuggirà in particolare l’importanza e l’interesse della presenza di Cino, con i suoi centosessantacinque componimenti, più altri vari sub iudice quanto all’effettiva paternità: in attesa di un’edizione che soppesi attentamente tutta la tradizione manoscritta facendo riferimento ai più recenti criteri ecdotici, i testi vengono qui riprodotti secondo quella curata da Zaccagnini nel 1925. Il poterli avere sott’occhio insieme alla produzione poetica degli altri stilnovisti consente raffronti istruttivi e rende possibile una proficua lettura del discorso introduttivo che, per illustrare il dialogo tra poeti “nuovi” e poeti della vecchia scuola, non può prescindere dagli interventi del pistoiese. “Dolce stil novo”: la definizione è di Dante, posta sulle labbra di

Buzzetti Bonagiunta (Purg. XXIV, 49-51), che traccia una linea di discrimine tra conformità e non conformità alle nove rime, coincidenti – ne è convinto, a ragione, Pirovano – con la Vita nuova nel suo complesso, di cui Donne ch’avete, la canzone citata in realtà dall’Orbicciani, rappresenta un cardine. Le rime dell’Alighieri mancano in questo volume (alle Rime e alla Vita nuova sono dedicate edizioni a parte), ma Dante è figura centrale a cui rapportare gli altri scrittori: intorno a lui ruota tutta l’introduzione, dove il curatore si interroga sull’esistenza di una vera e propria “scuola” stilnovistica e sull’attendibilità di un concetto storiografico tardo-ottocentesco, ripreso dalla tradizione editoriale novecentesca, che unisce voci tra loro differenti. Pirovano ridà la parola ai protagonisti di quella feconda e fondante stagione della nostra letteratura e ripercorre le esplicite controversie e il dialogo intertestuale fra Dante e tutti i rimatori che all’epoca contribuirono alla definizione o a una valutazione critica della nuova poesia, sollecitati, sul finire del XIII secolo, dalla provocante originalità del libello dantesco, dove i germi di innovazione già serpeggianti in molti componimenti apparivano ormai in tutta la loro evidenza, organizzati in “una prospettiva coerente e teleologicamente orientata”. Guittone, Onesto da Bologna, Cecco Angiolieri polemizzano con l’Alighieri o con i poeti raccolti in questo volume, ma anche Dante, Cavalcanti, Lapo e Cino dialogano e discutono, non sempre d’accordo tra loro: la Vita nuova diventa l’occasione per far emergere, da parte di Cavalcanti, le significative differenze tra lui e Dante (Donna me prega, annotata da Pirovano in sintonia con le più recenti interpretazioni della canzone). Non “scuola” dunque, ma poesia “nuova”, certamente, sia per l’asserita discontinuità nei confronti di Giacomo da Lentini e dei poeti siciliani, di Guittone e dei guittoniani, sia, soprattutto, per una comune esplorazione dell’interiorità, per un’ispirazione che muove da un principio assoluto e trascendente (Amore “spira” e “ditta dentro”) e un rinnovamento espressivo nella direzione di una forma piana, raffinata e musicale (rime “dolci e leggiadre”, Purg. XXVI 97-99), che si esprime in un repertorio metrico chiuso; poesia destinata a un pubblico d’elezione per quanto attiene al livello culturale e , soprattutto, etico. Divergenze invece sulla definizione di Amore, in particolare tra Dante e Cavalcanti: sarà solo l’Alighieri ad andare oltre, e a giungere alla definizione di un amore che ha inizio e fine in Dio, l’amore per Beatrice, espressione della “carità creata”. ■ silvia.buzzetti@unito.it S. Buzzetti insegna filologia italiana all’Università di Torino


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N. 1

Narratori italiani Letterature Alpinismo Internazionale Fumetti Storia Politica Ebraismo Infanzia

Narratori italiani Arturo Cattaneo, LA NOTTE INGLESE, pp. 193, € 17, Mondadori, Milano 2012 La notte inglese è il secondo romanzo di Arturo Cattaneo che, dopo Ci vediamo a settembre del 2010 pubblicato con la piccola casa editrice Sedizioni, approda ora alla prestigiosa collana “Scrittori italiani e stranieri” di Mondadori. La narrazione, fresca e vibrante, non solo per il modo di esprimersi dei giovani personaggi della storia, ma anche per il ricorrente inserimento di frasi e modi di dire in inglese e nelle altre lingue della variegata koiné umana presentata, si svolge nella cornice di uno degli eventi più importanti della vita studentesca del college di Cambridge, il Society Night Dinner. Il milanese Riccardo, voce narrante e protagonista diciannovenne della spirale di accadimenti scaturiti da una cena di gala tanto tradizionale e patinata quanto imprevedibilmente carnascialesca nel susseguirsi degli avvenimenti che ne scaturiscono, cadenzati dal rituale delle bevande servite (Sherry, Red wine, Port and Madeira, High spirits) e frammisti a continui flashback su episodi della sua esperienza universitaria in terra straniera, è proiettato in un’esperienza assolutamente unica e irripetibile. Dopo le prime fasi, svoltesi nella stretta osservanza dell’ufficialità dell’occasione, l’etichetta è infatti ben presto rimpiazzata da un insieme di parole, immagini e situazioni che si confondono poco a poco, ma sempre più incessantemente, sull’onda degli alcolici consumati, fino alla percezione di una frenesia erotica tangibile che pare pervadere la piccola umanità racchiusa nel college, avida di cogliere un attimo magico, che pare fuggente quanto imprevedibile. Per Riccardo, il cui brillante ingegno si accompagna a una convinta sensazione di inadeguatezza rispetto ai compagni che, nelle loro notevoli diversità caratteriali, di origini, cultura e orientamenti sessuali, hanno già sperimentato l’amore fisico, questa notte diventa emblematica dell’approccio pieno e concreto alla vita. E il mattino seguente, targato laconicamente Milk, le sensazioni forti legate al primo rapporto sessuale, pur consumato in una notte di follia, e allo scioccante ritrovamento di un amico che ha tentato il suicidio, gli fanno provare “un senso di vuoto, o di possibilità infinite” che sente di dovere “riempire in qualche modo”, prima che l’esistenza diventi, con la maturità, qualcosa di molto simile ai postumi dell’ebbrezza: “Un hangover, una coscienza torpida sensualmente aggrappata alle immagini della notte precedente”. Per lui, una notte per sempre inglese.

SANDRO MORALDO

C’È UN GRANDE PRATO VERDE. 40 SCRITTORI RACCONTANO IL CAMPIONATO DI CALCIO 2011/12, a cura di Carlo D’Amicis, pp. 224, € 14, Manni, Lecce 2012 La rosa è ben nutrita (quaranta elementi) e di tutto rispetto: ci sono veterani (Michele Mari, Eraldo Affinati, Marco Lodoli), esperti (Giuseppe Culicchia, Mario Desiati, Gian Luca Favetto), garanzie (Francesco Abate, Christian Frascella, Fabio Geda), giovani promesse (Paolo Piccirillo), outsider (Francesco Bianconi dei Baustelle), tutti al servizio del mister Carlo D’Amicis. La squadra, però, non vince né convince; ma sia chiaro: sa difendersi benissimo. È che ci sono troppe prestazioni da 6 in pagella. Ci si limita a fare il compitino, ma niente di più. Non mancano i 5 e i 5,5: troppi leziosismi, si eccede nel dribbling, e, per carità, si intravedono anche delle belle giocate, ma alla fine, ed è questo che importa, nessuna conclusione degna di nota. Non si può dare la colpa né ai giocatori, né al mister: è la partita che è complicata. Raccontare il campionato di serie A 20112012 come se fosse un romanzo, come ci fosse una storia, non è un’impresa facile; e l’ultimo torneo, dominato dalla Juventus (a parte una breve parentesi rossonera), Juventus che tra l’altro ne è uscita imbattuta, non

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sembra essere il più adatto. Ogni autore si prende in carico una giornata e la racconta a modo suo: cronache, diari, reportage, digressioni, racconti. Una raccolta nel complesso molto variegata (più che “un grande prato verde” verrebbe da dire “quaranta sfumature di verde”), anche se non tutti i brani sono riusciti, e spesso non viene nascosta, da parte degli autori stessi, una certa difficoltà nel trattare il tema (ricorre infatti qualche “L’editore Manni mi ha chiesto di…”). Le intenzioni, però, sono più che buone: tracciare “una mappa per decifrare la presenza del pallone nelle nostre vite”. E cosa ne emerge? Un po’ di insofferenza, per esempio. “Il calcio non mi piace”, ripete Fabio Genovesi, come un mantra per tenere lontano da sé uno spettro con il quale non vuole aver niente a che fare; o Nicola Lagioia, che parla di “morte del calcio come sport”, e della sua rinascita come “porno deluxe nelle pay tv”. E c’è anche parecchia nostalgia. “Quant’era bello il calcio di una volta”, conclude Christian Frascella, e non è il solo. Viene da chiedersi, allora, se e quanto questo calcio parli ancora di noi, dell’Italia intera, oppure se ciò di cui parla ci riguarda ancora. D’Amicis, nella sua introduzione, esordisce citando Pasolini: “Se il calcio, come scriveva Pasolini, è (ancora) l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo, il campionato è la sua liturgia”. Avete notato il “se” e l’“ancora”? Già, il problema è proprio questo. Forse è rimasto soltanto il rito, e poco altro.

autentica del suo testo scritto, come scrivesse montando e dirigendo un prodotto cinematografico o, appunto, televisivo. L’esito è straniante ed efficace: la rapidità dei dialoghi, la cura del montaggio, con i flashback frequenti e tuttavia mai nocivi allo sviluppo del racconto, la disinvoltura con cui si passa dallo sguardo fremente sui dettagli della scena a inquadrature più ampie e lente, tutto ciò rivela uno scrittore-regista di consumata esperienza, nonché di una certa scaltrezza. Siccome però Petrella ha studiato all’Istituto Denza di Napoli, dai padri barnabiti, il suo sguardo sulla storia non può non essere anche morale. Nella storia delle Api randage, un ruolo centrale rivestono quindi gli odi di famiglia (gli Aragona) e di classe (l’alta borghesia imprenditoriale napoletana che lui stesso, in gioventù, conobbe, con le sue molte grandezze e le sue forse anche maggiori miserie). Non di meno, chi pensasse a questo come a un romanzo politico, sarebbe in errore. Compaiono sì nomi e fatti reali ma, inseriti nella vicenda, non servono se non a collocarla in uno spazio e in un tempo definiti: e la cosiddetta società civile non fa miglior figura dei corrotti e corruttori che sono il nerbo della narrazione.

GIOVANNI CHOUKHADARIAN

Massimiliano Santarossa, VIAGGIO NELLA NOTTE, pp. 134, € 14, Hacca, Matelica (Mc) 2012

MARCO LAZZAROTTO Il Nordest postindustriale raccontato nelle sue periferie, in un viaggio che dura una giornata. Un romanzo crudo sul mondo della Angelo Petrella, LE API RANDAGE, pp. 476 € 18,60, produzione, in cui la classe operaia, argoGarzanti, Milano 2012 mento poco di moda, torna invece al centro dell’attenzione, con tutta la sua solitudine. È Italianista con studi a Roma, Parigi e Siena, l’ultimo viaggio nella vita di chi è entrato in Angelo Petrella nasce come romanziere noir fabbrica a quattordici anni, ma a cui non riparadossale: ne sono testimoni due romanzi mane più nulla, né senso né prospettive. Tutbrevi affatto riusciti come Cane nero (2006) e to comincia all’alba, un’ora prima di entrare Nazi paradise (2007). nello “stomaco della Con La città perfetta balena di cemento”, i (2008), il giovane ingiganteschi capantellettuale napoletano noni industriali che alza il tiro. Si tratta indominano il colpo fatti di un romanzo d’occhio di tutto il ronon soltanto di grandi manzo. Continua con dimensioni, ma anle ore di lavoro, la che di struttura artispesa al discount, colata, narrato oltrel’amore con una protutto con una lingua stituta: cronaca di che, nelle intenzioni una redenzione castesse dell’autore, è povolta, prima della debitrice alle culture fine. Venti ore per rap afroamericane. Si dare un ultimo saluto parla finalmente di ai luoghi di una vita, Napoli: quella del crialla distesa di cemine organizzato dal mento di una perife1988 al 1994, racconria che si confonde tata con timbri, colori tra altre periferie. Il rie dinamiche decisacordo di un padre mente nuovi, lontani morto sul lavoro e da modelli giornalistidegli amici distrutti ci o letterari che siadalle droghe sintetino. Quattro anni doche accompagnano Le immagini della sezione SCHEDE po, ottenuti successi il viaggio in un monsono di Franco Matticchio di critica e pubblico, do di uomini ridotti a nonché traduzioni all’estero, Petrella resta a spettri, dilaniati dalla cassa integrazione, Napoli, ma cambia prospettiva e ambienta il dall’assenza di futuro e dall’alcolismo. Vite racconto a Posillipo, restringendo il tempo vissute che si trasformano in parabole di una dell’azione dal 1992 al 1993. A dominare per notte sociale ed etica che non sembra finire tutto il romanzo è la famiglia di Raul Aragona, più, tante piccole storie che vanno a trattegricchissimo e influentissimo immobiliarista, al- giare l’affresco di una vita sempre ai margini. le prese con un tentativo di scalata finanziaria Santarossa mette in scena un dialogo impostra i più ambiziosi nella storia d’Italia. La fami- sibile, con un dio lontanissimo, simbolo di glia è assai male assortita: il figlio maggiore è una dialettica a senso unico, che non si cura scellerato, un giovane perduto di nessuna più degli individui, ormai schiavi del lavoro in speranza, laddove il figliastro ha scelto di en- fabbrica. Domande lanciate da un non luogo trare in polizia, abbandonando l’azienda di devastato dalla cementificazione, dove le famiglia prima di farne davvero parte. Come “giostre d’ore” della produzione, scandite nel non bastasse, Aragona dispone di una mo- testo dall’uso delle ripetizioni, del refrain, non glie, giovane e attraente, contesa fra i maschi sembrano avere fine. Una critica dura, radimeno sospettabili; e ha come fiduciario un ra- cale della contemporaneità operaia, raccongazzo brillantissimo, su cui fa pieno assegna- tata con uno stile espressionistico e decommento. Non manca neppure un coro fitto e posto, in cui l’enfasi retorica di alcuni pasmolto attivo di personaggi a contorno, utili a saggi non lascia spazio alla consolazione. definire l’ambito metanarrativo in cui si svolge L’unico spiraglio di luce: il mito premoderno l’azione: quello della fiction. Petrella conosce delle campagne, lontane e irraggiungibili, Gérard Genette e, da appassionato di cine- portate via dall’industrializzazione. FRANCESCO MORGANDO ma qual è, opera una specie di transcodifica


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- Letterature

N. 1

Jonathan Littell, TACCUINO SIRIANO. 16 GENNAIO - 2 FEBBRAIO 2012, ed. orig. 2012, trad. dal francese di Margherita Botto, pp. 193, € 17, Einaudi, Torino 2012 “Da qualche ora, ormai, tutto questo sta diventando un racconto”. Jonathan Littell, autore franco-americano divenuto famoso con Le Benevole, chiude con questa frase i suoi appunti di guerra, vergati in fretta durante un’incursione clandestina a Homs, città dove la guerra civile siriana è esplosa con la violenza più atroce. Nelle parole “diventare racconto” risiede uno dei lati più interessanti di questo libro. Oggi, dopo che le vittime riconosciute hanno quasi raggiunto le quarantamila unità, la pubblicazione in volume trasforma radicalmente la natura di questi appunti, apparsi per la prima volta sulle pagine di “Le Monde”. Se certamente è diminuito il loro valore giornalistico, poiché in pochi mesi le dimensioni del conflitto hanno di gran lunga superato quelle terribili vicende, la pubblicazione di questo “taccuino” ne rafforza e al tempo stesso ne supera il valore documentale. Tradotte in libro dopo essere apparse sotto forma di articoli di giornale, le pagine di taccuino di Littell acquistano peso e durata, restituendo a noi lettori la possibilità di riflettere con calma sul devastante paesaggio che, attraverso i suoi occhi, ci si para dinanzi. Il timore principale degli insorti è quello dell’immagine che la comunità internazionale può avere di loro. Per i ribelli dell’Esercito siriano libero Littell è pertanto un testimone prezioso, un occhio che viene spostato da un quartiere all’altro per registrare gli abusi sulle donne, le violenze gratuite su civili, le condizioni degli ospedali clandestini, i funerali celebrati alla chetichella. Dal canto suo, però, Littell è e resta un romanziere, che sceglie però di proporre ai suoi lettori “un documento, non un testo rielaborato”. Lo scrittore non è nuovo a questo genere di esperienza e la stessa Einaudi, dopo il romanzo Le Benevole, ha tradotto un altro suo reportage di guerra, Cecenia, anno III. Attraverso lo strumento della narrazione romanzesca e sconfinando talvolta nel terreno dell’opera testimoniale, Littell parla di un medesimo argomento: l’aberrazione umana calata nella quotidianità, la paradossale normalità dei carnefici dei quali, pur macchiandosi di or-

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rendi nefandezze, si potrà sempre dire “sono uomini, come noi”. Questo “taccuino” non è solo un utile strumento per capire le ragioni degli insorti, ma una prova di come la scrittura, finzionale o meno, sia sempre un passaggio di esperienze, rendiconto di un momento breve e già scomparso.

STEFANO MORETTI

Orhan Pamuk, L’INNOCENZA DEGLI OGGETTI. IL MUSEO DELL’INNOCENZA, ISTANBUL, ed. orig. 2012, trad. dal turco di Barbara La Rosa Salim, pp. 270, € 32, Einaudi, Torino 2012 Può uno scrittore premio Nobel essere un pessimo grafico? La domanda in sé oziosa trova giustificazione con l’ultimo titolo di Orhan Pamuk, L’innocenza degli oggetti, che Einaudi pubblica come strenna natalizia del 2012, nella traduzione di Barbara La Rosa Salim. Riguardo il progetto grafico l’avaro colophon non dà indicazione alcuna, i ringraziamenti sembrano riferirsi all’allestimento del museo di cui questo volume è catalogo, museo che è una sorta di inveramento, a Istanbul, a cura dell’autore, del Museo dell’innocenza (Einaudi, 2009), a sua volta, racconta Pamuk nell’introduzione, inizialmente pensato in forma di catalogo. In questa vertigine autoriale che somma e mescola falso e invenzione, spazi fisici e mentali, memoria e metafora non possiamo che considerare Pamuk autore anche della progettazione grafica del catalogo. L’edizione italiana compare nella collana “Frontiere”, gemella dei “Supercoralli” dei quali mantiene le caratteristiche font bastone nei titoli. Il Garamond dei risvolti e della quarta è einaudiano. E dentro? Dentro non c’è più traccia di abitudini grafiche einaudiane e quindi possiamo pensare, poiché non abbiamo indicazioni contrarie, che sia fedele all’originale, e possiamo bollarlo come mal fatto. Brani di testo giustificati a pacchetto a comporre pagine che si vogliono algide e che invece evidenziano gli spazi fra le parole troppo variabili, grande uso di cornici e di linee in colore, spesse o sottili, griglie poggiate su pagine in tutto colore a cadenzare i capitoli numerati, font diverse e in corpi diversi, immagini, immagini dappertutto, a pa-

Sylvain Tesson, NELLE FORESTE SIBERIANE, ed. orig. 2011, trad. dal francese di Roberta Ferrara, pp. 253, € 16, Sellerio, Palermo 2012 Non vuole che la si chiami fuga (“Fuga è il nome che le persone incagliate nelle secche dell’abitudine danno allo slancio vitale”), ma due anni fa Sylvain Tesson, scrittore e giornalista francese, già noto per alcuni reportage di viaggio, poco dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, Une vie à coucher dehors (2009), è letteralmente sparito. Per sei mesi, da febbraio a luglio, è andato a vivere in una capanna di pochi metri sulla riva occidentale del lago Bajkal, tra le foreste siberiane, in un luogo tanto sperduto e lontano da lasciarlo solo con se stesso: “Finalmente saprò se ho una vita interiore”, si legge nel diario della sua esperienza, che in Francia ha vinto il premio Médicis, e ora è stato tradotto in Italia da Sellerio. “La libertà esiste sempre. Basta pagarne il prezzo”, scriveva Henry de Montherlant alla fine degli anni cinquanta. Sono ormai due secoli che la nature writing – da Henry David Thoreau a John Muir, da Grey Owl a Christopher McCandless – vede nella vita dei boschi il

gina intera o su sfondo colorato, scontornate o a tutta pagina, nel testo o accanto, ma soprattutto ombreggiature, ombreggiature sempre uguali e prive di giustificazione, neanche allusive della materialità che si vuole evocare; il tutto messo in pagina con un grande impiego dell’allineamento, in alto, sotto, a destra, al centro, di qua, di là. Un pasticcio che sembra un cattivo esempio di self-publishing, una testimonianza del fatto che non sempre si possono fare bene tanti mestieri.

FEDERICO NOVARO

gli altri, percepiti nella loro sostanziale indifferenza. Dinanzi a una realtà che incombe enigmatica e sfuggente, inquietante nelle sue quotidiane “epifanie”, non può che constatare il proprio spaesamento, la propria estraneità. Tutto si manifesta vuoto involucro, pura finzione, e l’esistenza si svela nella sua mancanza di ragioni e di significati. Così, insieme con uno struggente sentimento del tempo, campeggia nel romanzo la stupita e dolorosa percezione della vanità del mondo, della sua “inutilità”.

ANTONIO RESTA

Max Blecher, ACCADIMENTI NELL’IRREALTÀ ed. orig. 1936, trad. dal rumeno di Bruno Mazzoni, pp. 168, € 13,50, Keller, Rovereto 2012 IMMEDIATA,

Compare per la prima volta in Italia un piccolo capolavoro della letteratura europea tra le due guerre. Max Blecher (Botosani, 1909-1938), rumeno di origine ebraica, fu autore di due romanzi, oltre che di racconti, poesie e drammi, scritti per la maggior parte negli ultimi anni, immobilizzato a letto per una tubercolosi spinale che lo portò alla tomba non ancora trentenne. Accadimenti nell’irrealtà immediata è un romanzo “metafisico” o “esistenzialista” (in anticipo di qualche anno su La nausea di Sartre, che è del 1938), in cui si fondono e si confondono realtà, sogno, allucinazione. Colpisce la “tenuta” di un ritmo che incalza e seduce in virtù di un’irrefrenabile tensione conoscitiva, così come affascina la singolarità di una scrittura trasparente e composta, e insieme percorsa da inquietudini e trasalimenti propri di una sensibilità novecentesca, tanto che lo scrittore è stato accostato a Proust, Mann e Kafka. L’io narrante ricorda, in un flusso continuo appena scandito dalla divisione in brevi capitoli, oggetti, paesaggi, momenti e persone della propria infanzia e adolescenza, segnate da frequenti “crisi di irrealtà”, dal disagio fisico e sociale e dalla scoperta della sessualità. È un accumulo tumultuoso e vertiginoso, un magma pulviscolare o caleidoscopico di immagini fermate sulla pagina secondo un ordine concettuale e stilistico prima che cronologico, così che le tradizionali categorie spazio-tempo sono dilatate e pressoché annullate. Nel susseguirsi delle pagine sempre più si impone un’atmosfera di angosciante solitudine, avvalorata dall’immissione di particolari iperrealistici, che sfumano nel surreale, nel grottesco e nell’espressionistico. L’io che impietosamente osserva e si osserva finisce con l’avvertire la condizione negativa dell’individuo, l’incapacità o l’impossibilità di stabilire un autentico rapporto con le cose e

modo migliore per saldare questo debito, e così riappropriarsi del tempo, sfuggire alla sensazione di arrivare sempre tardi, ritrovare quelle basi materiali dell’esistenza di cui una società basata sul consumo non pare più curarsi. Tesson ha preso l’invito alla lettera, convinto che la voce di un paesaggio sia sempre più trasparente di quella degli individui. Ogni giorno ha trascorso le sue mattine a guardare i ghiacci, a rileggere una piccola biblioteca di classici portati da casa, a riempire taccuini di appunti; i pomeriggi, invece, li ha passati più prosaicamente a tagliare legna e spalare neve. Senza fretta, senza scopo, ha lasciato che il paesaggio declinasse davanti ai suoi occhi le proprie sfumature, rivelando il ritmo di ciò che gli stava intorno; quasi inavvertitamente, si è abituato alla noia di giornate sempre identiche, eterno specchio del loro divenire. Ma in questo vuoto, in questo nulla, ha anche trovato lo spazio per incontrare se stesso: “Gli imprevisti dell’eremita sono i suoi pensieri”. In uno stile lapidario e tagliente, che tende a fissarsi nell’aforisma, Tesson difende in questo libro una paradossale filosofia della “decrescita” e della “lentezza”, che sceglie le ragioni del mondo contro quelle degli individui:

Honoré de Balzac e Pablo Picasso, IL CAPOLAVORO SCONOSCIUTO, ed. orig. 1931, a cura di Luigi Bonanate, con un saggio di Brunella Pelizza, pp. 191, testo francese a fronte, € 12, Aragno, Torino 2012 I contemporanei di Balzac sarebbero stati sbalorditi di fronte alla fortuna novecentesca del Capolavoro sconosciuto. La vicenda dell’immaginario pittore Frenhofer, rivale di Rubens, che aspirando a una resa totale del vero finisce per trasformare il “capolavoro” al quale più tiene in un’indecifrabile “muraglia di pittura”, ai loro occhi era soltanto un aneddoto ispirato ai racconti fantastici di Hoffmann; per i lettori del secolo successivo sarebbe diventata invece un vero “catechismo estetico”. Nel 1931 il mercante d’arte ed editore Ambroise Vollard ebbe l’idea di celebrare il centenario dell’opera con un’edizione di pregio: avrebbe affiancato al testo dodici acqueforti, numerosi disegni e 67 incisioni su legno di Picasso. L’edizione Aragno riprende proprio l’edizione Vollard. Soltanto le acqueforti hanno un nesso con il testo balzachiano: sono infatti incentrate sul legame erotico tra il pittore e la sua modella, che è anche uno dei temi centrali del racconto. Le altre immagini non hanno in origine alcun rapporto con le pagine alle quali Vollard li volle associare; ma la giustapposizione non è pretestuosa, perché lo scrittore e il pittore portano avanti, ciascuno nel proprio contesto, una rivoluzione estetica segnata dalla modernità. Nell’illuminante introduzione del curatore questo aspetto è studiato a fondo. E viene in piena luce un complesso intreccio di non casuali “corrispondenze”. Se nel 1936 Picasso si installa, a Parigi, nell’atelier di rue des Grands Augustins descritto nella novella di Balzac, non è soltanto per amore del pittoresco. Proprio lì dipingerà Guernica, sperimentando, tra arte e violenza, quell’esplorazione dei limiti estremi dell’arte intrapresa, a rischio della vita, dal suo immaginario predecessore Frenhofer.

MARIOLINA BERTINI

avide “camole nella farina”, come intravide Claude LéviStrauss, che consumano e guastano tutti gli spazi in cui vivono. La capanna in riva al Bajkal è l’osservatorio ideale di una nuova ecologia dello sguardo che si fa carico, teneramente, di tutto ciò che è piccolo, effimero, appeso a un filo: “La poesia scritta sulla neve ha di buono che non dura”. Nella solitudine dei boschi, del resto, chi altri potrebbe garantire la realtà delle cose, la loro permanenza? Tutto il fardello della rappresentazione del mondo finisce per gravare sul suo unico osservatore: è il suo sguardo a dover ogni giorno riaffermare l’esistenza di ogni foglia, di ogni fiocco di neve, di ogni cincia. Il paesaggio stesso sembra trasformarsi in una perenne domanda, in una richiesta di comprensione. Poche parole, nel vocabolario di un presente sempre più frenetico, parrebbero più inattuali del termine “contemplazione”. Ma se non sappiamo misurarci con il silenzio di ciò che ci circonda, sembra suggerire Tesson, abbiamo perso il contatto anche con noi stessi. Nelle Rêveries du promeneur solitaire, Rousseau scriveva: “Ridotto a me solo, mi nutro della mia stessa sostanza, che tuttavia non si esaurisce”. LUIGI MARFÉ


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Kilian Jornet, CORRERE O MORIRE, ed. orig. 2011, trad. dallo spagnolo di Franco Ferrucci, prefaz. di Simone Moro, pp. 197, € 19,50, Vivalda, Torino 2012 Anche se ai più suonerà strano, Killian Jornet Burgada corre come Alan Turing. Oltre al fatto di essere entrambi autentici enfant prodige nelle rispettive discipline, qual è la sottile linea rossa che lega il venticinquenne fortissimo skyrunner e scialpinista catalano al matematico britannico? A riguardo aiuta qui ricordare la passione di Turing per la corsa con eccellenti risultati nella maratona. Simone Moro, nella sua breve ma densa prefazione, cristallizza limpidamente la figura di Jornet descrivendolo come “uno che corre sognando e non il contrario”. Ed ecco squadernato l’arcano: entrambi corrono sognando. Mentre possiamo solo immaginare cosa sognasse Turing, di Jornet apprendiamo invece, ad esempio, come correndo sui sentieri del Tahoe Rim Trail si finga “membro di una tribù Sioux, che silenzioso, insegue un alce che si allontana e si nasconde tra gli alberi immensi”. Sognare, dunque, di essere un altro, magari in un altro tempo per dimenticare il dolore, la fatica, il freddo, le crisi di fame, i crampi. Il segreto della corsa di Kilian, nelle gare più massacranti come negli allenamenti quotidiani, è il distacco dal “qui e ora” del suolo calpestato via una sorta di empatia cosmica, porta di accesso privilegiata a una più vivida e spesso allucinata percezione di luoghi, atmosfere, sensazioni. Ogni corsa di Kilian si rivela dunque essere non un mero moto fisico (per quanto strabiliante in rapidità, potenza e leggerezza), bensì un più ampio processo creativo, animato da una ben precisa ispirazione legata a ciò cui il suo particolarissimo sesto senso, di falcata in falcata, diventa permeabile. Non esiste, sembra dirci la figura filiforme, anzi quasi ascetica,

di Kilian, il modo perfetto di correre, ma ognuno ha il suo modo perfetto di correre. Massima che, per la raffinata disambiguazione in forma logica, Turing avrebbe certamente condiviso. Anche lui, suppongo, avrebbe guardato a Jornet come a uno degli ideali della ragione sportiva cui si può certo tendere pur essendo coscienti della sua irraggiungibilità. Un plauso, infine, alla casa editrice per la riuscita scelta di iniziare con il ben scritto volume di Jornet la collana “I Licheni 2.0”, svelta e fresca variante della storica collana “I Licheni”.

FABIO MINOCCHIO

Roberto Serafin, WALTER BONATTI. L’UOMO, IL MITO, prefaz. di Alessandro Gogna e notizia di Simone Moro, pp. 172, € 16,50, Priuli & Verlucca, Torino 2012 Il breve volume di Serafin (ri)traccia con stile impressionistico il percorso tra i segnavia di quell’epopea unica che è stata l’esperienza alpinistica e umana di Walter Bonatti. Al di là delle sempre puntuali notizie, a volte inedite per il loro taglio interiore e non cronachistico, circa le innumerevoli ascensioni e la multiforme attività esplorativa dell’alpinista bergamasco, dalle prime vie in Grigna agli ultimi viaggi in Kamtchatka e Madagascar, l’autore si incentra sulla ricostruzione del ruolo mitico, oserei dire archetipico, incarnato da Bonatti nel Novecento che, a dispetto della storia, è stato il tempo alpinistico più denso di sempre. Il racconto di Serafin, pur iniziando come un canto in sordina circa i dubbi esistenziali del giovane Walter sfocia nei tratti epici della chanson de geste: Grand Capucin, Grandes Jorasses, cima ovest di Lavaredo, Petit Dru (pilastro sudovest o Bonatti), K2, Gasherbrum IV e Cervino (parete nord, via Bonatti). Degli eroi dell’epica antica Bonatti esemplifica mirabilmente tutti i tratti: oltre a quelli più scontati ed esteriori come il coraggio, la prestanza fisica, l’arditezza, l’alpinista è vero campione di astuzia, è provvisto di un fenomenale sesto senso (e forse anche di un settimo) e infine, ed è cruciale, è animato da un profondo spirito di sacrificio per il compagno di cordata in difficoltà. Ed ecco come qui, nell’anteporre la salvaguardia della vita di un altro essere umano

Horace-Bénédict de Saussure, LA SCOPERTA DEL MONTE BIANCO. DAI VOYAGES DANS LES ALPES, trad. dal francese di Paolo Brogi, pp. 247, € 20, Vivalda, Torino 2012 Nel 1760 il giovane Horace-Bénédict de Saussure, naturalista ginevrino, bisnonno del linguista Ferdinand, visitando per la prima volta il massiccio del Monte Bianco, concepì l’idea di raggiungerne la cima, spinto in buona parte da motivazioni scientifiche. Negli anni successivi compì vari tentativi infruttuosi in prima persona (naturalmente con l’aiuto di guide locali), e per stimolare la ricerca di nuove vie decise anche di offrire un premio a chi per primo fosse riuscito a portare a termine l’impresa. Il premio contribuì a diffondere un interesse crescente per il Monte Bianco e per il mondo alpino in generale, e per questa ragione Saussure può essere considerato una figura centrale nella storia delle origini dell’alpinismo. Tra il

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a qualsiasi cima o conquista, emerge nella sua essenza quello che potremmo definire l’alpinismo umano di Bonatti. Senza questo suo nocciolo interiore d’umanesimo, per cui il compagno di scalata diviene realmente un fratello in pectore, le sue gesta sarebbero solo vuoti esercizi di stile, inutili arabeschi incisi su roccia e ghiaccio. In assenza di questa forza antica né Bonatti né Gaston Rebuffat (l’altro fulgido esponente di questo umanesimo della montagna) avrebbero trovato l’ispirazione per compiere le grandi solitarie, durante le quali solo apparentemente erano soli sulle immense pareti: entrambi i loro pur sempre umani, e dunque fragili, corpi erano infatti sospinti sempre più in alto da un potente elisir, prezioso distillato della smisurata quanto inconsapevole romantica volontà di scoperta di tutti gli esseri umani.

non lo visita solamente, delle infrastrutture, degli edifici culturali, di quelli pubblici e di culto. Di tutte le categorie appena menzionate, e di altre ancora, il volume fornisce ampia documentazione iconografica e critica sotto forma di 219 schede più o meno dettagliate precedute da un ampio e variegato saggio introduttivo che aggiorna puntualmente sullo stato dell’arte della disciplina, oltre a proporre inedite riflessioni sul concetto di architettura alpina.

(F.M.)

Non appena incomincerà a sfogliare questo imponente volume che illustra, con una miriade di spaziose quanto strepitose tavole fotografiche, l’epica bonattiana, il lettore si domanderà se fosse davvero necessario, o se non sia altro che l’ennesimo esempio di quel sempre ambiguo e pericoloso gusto per il revival e l’amarcord che ciclicamente si insinua nel nostro immaginario collettivo. Chi tuttavia tenti una epoché sui pur fondati giudizi estetici circa queste derive del gusto contemporaneo, almeno in questo caso sarà ben ricompensato dall’affascinante scoperta (o riscoperta) di un intero universo movimentato nelle sue infinite pieghe dall’agire istintivo quanto curioso di Bonatti alpinista, esploratore (a volte quasi antropologo), scrittore di reportage e di diari. Il volume è concepito come una sorta di atlante figurato, la cui ambizione è quella di rendere possibile una sorta di immedesimazione empatica con il vissuto bonattiano via un rigoglioso florilegio fotografico composto in gran parte di scatti eseguiti dallo stesso Bonatti esploratore o dai compagni di scalata, quasi mai comunque da fotografi professionisti. Le immagini sono chiosate a volte da pagine dello stesso Bonatti (tratte dai suoi diari, da lettere o dai suoi servizi per “Epoca”), altre volte da elzeviri di scrittori a lui vicini come Dino Buzzati. Queste immagini occorre però sempre osservarle, scrutarle, soffermarsi a lungo su di esse seguendo il prezioso consiglio che Lalla Romano offriva ai suoi lettori nella premessa al suo romanzo in forma di saggio Lettura di un immagine: “Le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione”. E quest’esercizio percettivo, conoscitivo sarà ancora più appagante per il lettore nei casi delle tante immagini, magari a doppia pagina, lasciate senza didascalia alcuna.

Antonio De Rossi e Roberto Dini, ARCHITETTURA ALPINA CONTEMPORANEA, pp. 159, € 25, Priuli & Verlucca, Torino 2012 Sfogliando questo interessantissimo quanto accuratissimo atlante dei siti architettonici eretti sulla fascia alpina negli ultimi trent’anni è quasi spontaneo domandarsi quali sarebbero le reazioni di un Bruno Taut o di un Carlo Mollino nell’osservare quello “scintillante cristallo multiprismatico” che è il Monte Rosa Hütte oppure la variatio sotto forma di fittissima intelaiatura dell’antico tema dei graticci lignei che caratterizza il Centro di informazione Enel di Entracque o, ancora, quel periscopio sulla Mer de Glace che è il nuovissimo Bivacco Giusto Gervasutti alle Grandes Jorasses. Ebbene, rispetto al nostro stupore quasi infantile di fronte a tali prodigiose costruzioni, di certo Taut e Mollino, da visionari avanguardisti quali erano, più che stupiti, sarebbero piuttosto compiaciuti, orgogliosi dell’inveramento della loro acuta preveggenza circa gli sviluppi dell’architettura alpina strettamente connessi alla complessità dei mutamenti dell’universo alpino. Come lucidamente suggerito dagli autori nella premessa al volume, la storia dell’evoluzione dell’architettura alpina può infatti essere letta anche come utile cartina al tornasole dei mutamenti degli aspetti demografici, turistici, postindustriali che hanno interessato l’intero microcosmo alpino dal dopoguerra a oggi. Emblematico è ad esempio il ritorno alla visione della struttura abitativa residenziale come home e non come house, con il conseguente sviluppo consapevole, ovvero a misura umana, che abita il territorio e

1779 e il 1796 pubblicò i quattro grossi volumi dei Voyages dans les Alpes, in cui erano raccolte osservazioni geografiche, alpinistiche, naturalistiche; un’edizione abbreviata, che sfrondava il testo dalle lunghe discussioni scientifiche, ormai in parte superate, e si concentrava invece sui resoconti proto-alpinistici, uscì nel 1834. La scoperta del Monte Bianco costituisce un’ulteriore riduzione del testo originale, che contiene però tutte le parti essenziali per la storia della lunga conquista della vetta più alta d’Europa, che sarebbe avvenuta nel 1786 a opera di Michel Paccard, medico di Chamonix, e del suo compaesano Jacques Balmat, guida e cercatore di minerali. Saussure sarebbe riuscito a ripetere l’impresa solo l’anno successivo, in una spedizione di cui faceva parte tra l’altro lo stesso Balmat. Per lungo tempo il ruolo centrale di Paccard nella conquista del Monte Bianco fu sminuito a favore di quello di Balmat e (indirettamente) di Saussure. La storia

(F.M.)

WALTER BONATTI. UNA VITA LIBERA. IMMAGINI, OGGETTI, MEMORIE, a cura di Rossana Podestà, in collaborazione con Angelo Ponta, pp. 336, € 39, Rizzoli, Milano 2012

- Montagna

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di come ciò sia potuto avvenire, e delle ragioni (invidie, interessi, snobismi di classe, coincidenze sfortunate) di tale ingiustizia, di cui lo stesso Saussure non è del tutto innocente, è ricostruita dettagliatamente nella postfazione di Pietro Crivellaro che arricchisce il volume (chi volesse approfondire l’argomento può leggere l’ormai classico L’invenzione del Monte Bianco di Philippe Joutard, Einaudi, 1993). La prosa di Saussure è gradevole, e le osservazioni geografiche, scientifiche, alpinistiche, antropologiche che costellano il testo sono spesso interessanti. Chi conosca i luoghi può naturalmente apprezzare meglio i racconti. Per il lettore di oggi è interessante, e anche un po’ malinconico, confrontare le grandiose descrizioni dei ghiacciai nel Settecento (vicini alla loro massima espansione in epoca storica) e le esperienze personali degli ultimi anni. GUIDO BONINO


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Risultato di un lavoro concertato tra studiosi di diversi ambiti e attivi in varie università italiane, Prisma Sudafrica si compone di dieci interessanti saggi i cui temi spaziano dalla letteratura (J. M. Coetzee, Achmat Dangor, Zoë Wicomb) alla storia, dallo sport all’economia, passando per arti visive, sociologia, turismo, politica, cultura in generale. La raccolta celebra il ventennale della democrazia sudafricana, anticipandone l’esordio al 1990, quando la scarcerazione di Nelson Mandela palesò l’esistenza di operazioni sotterranee e pregresse tra governo e opposizioni miranti a smantellare l’apartheid; un lavorio che avrebbe portato, quattro anni dopo, alle prime elezioni a suffragio universale. Giustamente i saggi distinguono un primo decennio, più propriamente di “post apar-

theid” e un secondo, cosiddetto “post transizionale”, nel quale la costruttività deve combattere con alcune delusioni che sembrano mettere in forse i facili entusiasmi della neonata democrazia. All’interno delle due fasi, la disamina dei complessi intrecci tra storia, identità, memoria, nelle rinnovate fisionomie di locale e globale, restituisce un’immagine del Sudafrica come operoso laboratorio, emblema e faro di un continente intero che sta riscrivendo con difficoltà, ma anche passione e speranza, la propria storia postcoloniale. Gli interventi di Marcello Flores d’Arcais, Arrigo Pallotti, Cristiana Fiamingo, Jane Wilkinson, Francesca Romana Paci, Giuliana Iannaccaro, oltre a quelli dei quattro curatori, bene illustrano la capacità del paese, raffigurato nell’immagine sfaccettata del prisma, anziché in quella più piatta e oggi superata dell’arcobaleno, di configurarsi come luogo di nuovi passaggi e approdi: di migranti, di artisti, di sportivi, di imprenditori, di turisti.

MARIA PAOLA GUARDUCCI

Primo volume della nuova collana “Ronin” dedicata alle trasposizioni manga dei grandi classici della letteratura, Cime tempestose condensa in maniera chiara ed efficace la trama complessa del romanzo di Emily Brontë privilegiandone gli aspetti gotici. L’ambientazione cupa è sottolineata nella grafica curata delle architetture e dei paesaggi, spesso presentati attraverso scenografiche e inquietanti inquadrature dall’alto, e allo stesso registro viene assegnato senza mezzi termini anche l’eroe. Il celebre personaggio di Heathcliff è infatti caratterizzato da un ghigno diabolico e da una progressiva esasperazione dei tratti

spetto alla storia della ricezione del romanzo, dove la figura di Heathcliff venne assimilata dalla critica dell’epoca a quella dell’eroe diabolico di tradizione byroniana. Rispetto al testo di Emily Brontë, la lettura in chiave horror di Hiromi Iwashita permette inoltre di condensare visivamente la natura distruttiva e ultraterrena dell’amore che lega Heathcliff a Catherine, trascinandolo ineluttabilmente verso una vendetta spietata nei confronti di tutte le persone coinvolte nella vicenda e poi verso la morte, unica dimensione dove gli amanti potranno infine essere riuniti. Quando Iwashita distoglie la sua attenzione dal fascino diabolico dell’eroe, la rappresentazione della rete di odi, sadismo e passioni represse che lega fra loro gli altri personaggi appare tuttavia meno segnata dagli stilemi dell’horror e decisamente più riuscita. Spiccano infine

somatici, che con il procedere della storia lo trasforma in una sorta di zombie e che nel primo piano finale del suo cadavere lo assimila esplicitamente alla maschera folle e crudele del Joker. Questo tipo di rappresentazione rischia di risultare irritante nella sua semplificazione caricaturale del personaggio, ma trova una precisa collocazione innanzi tutto ri-

alcuni riferimenti che strappano il manga al suo più immediato testo di riferimento, restituendolo a un più ampio orizzonte intertestuale e culturale. Così, appare significativa l’immagine della farfalla imprigionata nella ragnatela con il corpo minaccioso del ragno che appare dietro una foglia, omaggio al celebre adattamento realizzato da Buñuel da cui Iwas-

Emily Brontë e Hiromi Iwashita, CIME TEMPESTOSE, ed. orig. 2009, trad. dal giapponese di Paolo Faresi, pp. 208, € 9,50, Kappa, Bologna 2012

Héctor Germán Oesterheld e Francisco Solano López, L’ETERONAUTA. IL RITORNO, ed. orig. 1976-1978, trad. dallo spagnolo di Paolo Faresi, pp. 223, € 32, 001 Edizioni, Torino 2012 Siamo intorno alla metà del 1959. A Buenos Aires, uno sceneggiatore di fumetti siede alla sua scrivania nel bel mezzo della notte. Di fronte a lui, all’improvviso, dal nulla, compare un uomo misterioso e gli racconta la sua storia. Proviene dal 1963 ed è sopravvissuto a una terribile invasione aliena grazie a una fortunosa fuga nel tempo. Ha vagato nei secoli alla disperata ricerca della sua famiglia ed è stato ribattezzato Eternauta da “una specie di filosofo della fine del XXI secolo”. Questa in breve la vicenda dell’Eternauta, pubblicato per la prima volta con enorme successo tra il 1957 e il 1959 e considerato un capolavoro del fumetto di fantascienza. Lo scorso anno l’editore torinese 001 ha fatto di questo volume un’edizione di grande successo. Quest’anno la storia potrebbe ripetersi, perché viene presentato il secondo volume pubblicato sulla rivista argentina “Skorpio” tra il dicembre del 1976 l’aprile del 1978, quando le peggiori

Siddharta Deb, BELLI E DANNATI. RITRATTO ed. orig. 2011, trad. dall’inglese di Andrea Grechi e Andrea Spila, pp. 351, € 18, Neri Pozza, Vicenza 2012

DELLA NUOVA INDIA,

Attraverso il resoconto di un lungo viaggio compiuto nell’arco di svariati anni, Siddharta Deb racconta quel che si cela dietro il volto “shining” dell’India contemporanea: corruzione, sfruttamento, povertà, ma anche impegno civile e coraggio. Durante il percorso, che lo porta a esplorare sia grandi città come Delhi, Bangalore, Hyderabad, sia villaggi dell’India rurale, Deb incontra un’umanità eterogenea, ma sempre caratterizzata da vitalità e inventiva senza pari: dal grande Gatsby indiano, l’industriale Arindam Chaudhury in grado di “sporcare persino le acque nelle quali nuota”, all’ingegnere della Silicon Valley di Bangalore, dal contadino all’attivista, dalla cameriera alla prostituta. Questa non-fiction letteraria è divisa in cinque macro sezioni, che si differenziano per le tematiche affrontate. Deb tocca temi spinosi e drammatici quali il problema dei

hita prende in prestito la metafora delle pulsioni che dominano i personaggi e li restituiscono alla violenza del mondo naturale. Altrettanto significativo è pero l’aspetto di quella natura: un sorprendente paesaggio bucolico della tradizione pittorica giapponese, che improvvisamente proietta il testo fuori dalla brughiera tempestosa del romanzo gotico e lo rinvia al proprio specifico orizzonte culturale.

PAOLA CARMAGNANI

Lorenzo Mattotti, LE AVVENTURE DI HUCKLEBERRY FINN, pp. 125, € 25, orecchio acerbo-Coconino Press, Roma-Bologna 2012 In questi ultimi anni si è fatto un gran parlare di romanzo a fumetti, intendendo, nella maggior parte dei casi, lunghe narrazioni

originali che prendono dal romanzo il respiro narrativo e spesso l’approfondimento psicologico dei personaggi. Il graphic novel da Will Eisner a Craig Thompson, tanto per intenderci. In passato, invece, il romanzo a fumetti era tutt’altra cosa, e cioè la trasformazione in fumetto di un classico della letteratura. Ora può sembrare riduttivo ma non si trattava di semplici artifici didattici, o

profezie fantascientifiche erano ormai state superate dalla realtà e l’Argentina era stata conquistata da forze del male ben peggiori dei pittoreschi alieni anni cinquanta. Al momento della pubblicazione delle prime vignette lo sceneggiatore della saga, Héctor Germán Oesterheld, viveva già in clandestinità e tre delle sue quattro figlie erano state rapite e uccise dai militari di Videla. Nell’aprile del ’78, quando venne pubblicata l’ultima puntata, lui stesso era ormai uno dei trentamila desaparecidos. La tragica vicenda umana di Oesterheld è esemplare del percorso di tanti altri argentini, ma l’intrecciarsi di questa con la sua attività di sceneggiatore ne fa un caso unico, l’unico martire del fumetto. Intorno al 1968, convinto dalle figlie, tutte appassionate di politica, Oesterheld si era avvicinato ai montoneros, un gruppo rivoluzionario che si autoproclamava ‘“avanguardia armata nazionalista, cattolica e peronista”. Da queste posizioni aveva anche scritto, proprio nel ’68, una vita a fumetti di Che Guevara, su disegni di Alberto ed Enrique Breccia. Nel 1973 il volume Che viene messo al bando. Le copie esistenti sono sequestrate e distrutte e Oesterheld deve abbandonare la sua casa per vivere in clandestinità. I due disegna-

suicidi dei contadini nelle zone rurali, la solitudine e l’isolamento degli ingegneri nei grandi centri informatici, la prostituzione, la violenza sulle donne, lo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche e la corruzione politica. Nonostante la cupezza e lo squallore del mondo che molto spesso lo circonda, l’autore riesce a non essere mai greve; il suo atteggiamento non è compassionevole, la sua voce, pur essendo empatica, non ha la presunzione di mostrare compatimento per la realtà subalterna e tragica con la quale si relaziona, ma si limita a fornire al lettore un quadro ampio e approfondito dei divari culturali e sociali che caratterizzano l’India di oggi. La prosa di Deb è lucida e attenta e sa fare del disincanto e della chiarezza la sua vera forza. La narrazione si svolge attraverso pagine di reportage, interviste, appunti di viaggio, cucite insieme da una penna leggera, cristallina, che sa unire e distinguere ciò che è apparenza da ciò che è realtà, l’essenza dell’India di oggi, al contempo bella e dannata.

LUISA PELLEGRINO

di pedissequi adattamenti, erano opere a tutto tondo spesso disegnate da grandi autori, basti pensare, limitandoci all’ambito italiano, al Moby Dick di Battaglia o all’Isola del tesoro di Pratt. Correva l’anno 1978 e, come ci racconta Mattotti stesso nell’interessante postfazione, un piccolo editore gli propose Le avventure di Huckleberry Finn. Per il giovane disegnatore, allora sconosciuto al grande pubblico, illustrare il libro di Twain significava confrontarsi non soltanto con un romanzo ma con tutto l’immaginario americano sgorgato in quasi un secolo di storia proprio dalle pagine di Huck Finn: da Kerouac a Bob Dylan, da Altaman a Sergio Leone. Il tutto rivisto attraverso la lente deformante dell’infanzia, perché la libertà donata dalle scorribande nel grande fiume che scorre lento in mezzo alle campagne la si può scoprire in Lombardia o nell’Arkansas, in Veneto o sulle rive del Mississippi. Il risultato è un fumetto fedele nella lettera al romanzo e allo stesso tempo modernamente grottesco, tra fango e acqua, in un tripudio di ghigni storti e linee curve. Oggi che Mattotti è considerato uno dei più noti illustratori del mondo, questa storia di più di trent’anni fa (magnificamente colorata a computer da Céline Puthier) restituisce il sapore della narrazione per immagini indissolubilmente legata alla grande letteratura. Per riscoprire che i “romanzi a fumetti” del passato sono stati e possono essere ancora non meno attuali e autoriali dei graphic novel di oggi.

(C.B.)

- Internazionale

PRISMA SUDAFRICA. LA NAZIONE ARCOBALENO A VENT’ANNI DALLA LIBERAZIONE (19902010), a cura di Lidia De Michelis, Claudia Gualtieri, Roberto Pedretti e Itala Vivan, pp. 225, € 20, Le Lettere, Firenze 2012

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- Fumetti

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tori seppelliscono gli originali in giardino dove li recupereranno soltanto sette anni dopo. Il sequel dell’Eternauta arriva poco tempo dopo e inserisce nelle lotte del viaggiatore del tempo contro gli alieni che nel XXII secolo hanno raso al suolo Buenos Aires e costretto i suoi abitanti a tornare a vivere nelle caverne, uno spirito militante e un’angoscia della perdita che travalicano il genere. Se già nel primo volume lo sceneggiatore si era ritagliato il ruolo di testimone, nel secondo diventa coprotagonista con il suo vero nome. Nel fumetto, come nella vita, si mette in gioco in prima persona. Il personaggio centrale si scinde così in due: da una parte l’Eternauta, molto più inflessibile che nel primo volume, pronto a sacrificare gli affetti più cari in nome della vittoria finale, e dall’altra Germán, lo scrittore, goffo, pronto a farsi coinvolgere emotivamente, a lottare in nome di singoli individui più che per una causa astratta, a cercare una nuova famiglia nel popolo delle caverne. Sconfitti gli alieni, i due riescono a tornare nell’apparente normalità dell’Argentina del 1976, ma subito si allontanano insieme per combattere ancora contro le forze di un male forse molto vicino. CHIARA BONGIOVANNI


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Schede

- Storia

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IMMAGINI

FILOSOFICHE E INTERPRETAZIONI

STORIOGRAFICHE DEL CARTESIANISMO,

a cura di Carlo Borghero e Antonella Del Prete, pp. 350, € 32, Le Lettere, Firenze 2012 Descartes ha certo segnato “un punto di non ritorno” nella storia del pensiero e “un passaggio obbligato per ogni discorso sulla modernità”. È anche stato letto, nel corso dei secoli, da punti di vista molto lontani fra loro, generando immagini divergenti e interpretazioni contraddittorie: filosofia “globale” o incarnazione dell’identità nazionale francese, filosofia atea o religiosa, quella di Cartesio si è proiettata su esperienze intellettuali diversissime, rendendo problematica la cristallizzazione di un paradigma definitivo e senza ombre. Allo studio del canone cartesiano costruito “nel tempo” all’insegna della “pluralità” è dedicato questo libro, che disegna uno stimolante ritratto del filosofo a partire dalla seconda metà del Seicento fino al Novecento. Tema centrale è l’ortodossia o l’eterodossia di una riflessione che manifestava “tentazioni naturalistiche”, ma al tempo stesso uno spiritualismo al limite dell’“entusiasmo” mistico. Associato a Spinoza in una condanna di ateismo senza appello, ma anche avvicinato a Malebranche e rivalutato come pensatore cattolico; lontano padre dei Lumi, ma anche accusato di idealismo e materialismo imperfetto dai sensisti settecenteschi, Descartes è davvero un banco di prova per la filosofia occidentale, che riflette in lui le sue diverse sfaccettature. Non a caso Hannah Arendt ha considerato proprio il dubbio cartesiano come il modello genealogico dell’alienazione del mondo contemporaneo. La “sfiducia dell’uomo nelle proprie capacità conoscitive” ha determinato “una fuga nell’isolamento dell’interiorità”, ma la salvezza sta appunto nel soggetto stesso, nei “processi che si svolgono nella mente dell’uomo”: il dubbio è alla base del Cogito ed entrambi sono cifra della modernità.

RINALDO RINALDI

Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, ELOGIO DI MONTESQUIEU, a cura di Domenico Felice e Piero Venturelli, pp. 77, € 10,99, Liguori, Napoli 2012 Domenico Felice e Davide Monda, MONTESQUIEU. INTELLIGENZA POLITICA PER IL MONDO CONTEMPORANEO, pp. XV-334, € 24,99, Liguori, Napoli 2012 Domenico Felice è non solo un accreditato interprete del pensiero e dell’opera di Montesquieu, ma anche uno storico capace di illuminare il contesto in cui quell’opera si colloca con un sapiente lavoro di documentazione critica e filologica. Di questa attività su più fronti offrono testimonianza i due volumi che qui segnaliamo. Il primo ripropone un elogio funebre pronunciato all’Accademia delle scienze di Berlino nel 1755 da Maupertuis, dove si tratteggia un profilo di Montesquieu. Peraltro, il fatto che Maupertuis sia stato soprattutto un cultore di scienze fisiche dimostra il prestigio e la risonanza che l’opera di Montesquieu conobbe. Il secondo è equamente diviso tra un lungo saggio, nel quale si fornisce un’interpretazione del pensiero politico (centrata sul dispotismo) e un’antologia storiografica in cui sono ristampati alcuni studi che hanno segnato tappe importanti nella critica montesquieuiana. Assai opportunamente, oltre a molti autori francesi, a cominciare da Sainte-Beuve (le cui interpretazioni hanno influenzato la successiva indagine), si fa spazio anche a due autori italiani, Sergio

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Cotta e Mario A. Cattaneo, studiosi che, da prospettive diverse, hanno segnato la storiografia sull’argomento. Spesso si ritiene che la critica al dispotismo svolta nello Spirito delle leggi sia solo una maniera velata di alludere al regime assolutista messo in auge da Luigi XIV. Felice e Monda dimostrano con solidi argomenti che, se nella nozione montesquieuiana di dispotismo c’è un elemento contingente, essa è soprattutto una categoria interpretativa dotata di grande forza euristica, ancora oggi utilmente adoperabile.

MAURIZIO GRIFFO

SISMONDI E LA NUOVA ITALIA, a cura di Letizia Pagliai e Francesca Sofia, pp. 368, € 35, Polistampa, Firenze 2012 Questo volume raccoglie gli atti di un convegno di studi dedicato all’influenza esercitata dall’opera del ginevrino Simonde de Sismondi sul dibattito culturale e politico italiano dal Risorgimento al fascismo. Stiamo parlando di un uomo dalla vita avventurosa e girovaga, e che può vantare il non invidiabile primato di essere stato oggetto di due persecuzioni politiche di segno opposto: accusato di essere un filoaristocratico nella Ginevra giacobina e di essere un giacobino nella Toscana lorenese, proprio là dove aveva cercato rifugio dalla prima persecuzione. Ma stiamo anche parlando di un intellettuale poliedrico, grande studioso di economia, amico di Ricardo, capace di attirare l’attenzione critica di un Marx prima e di uno Schumpeter poi. Il volume ci conferma il carattere innovativo, per certi versi lungimirante, dell’analisi economico-politica di Sismondi, il quale aveva saputo aggiornare molte tesi di Adam Smith. Si sfata anche, però, la leggenda di un Sismondi “socialista utopico” creata dallo stesso Marx. Il ginevrino fu molto più di un semplice precursore, fu antesignano di un liberalismo socialmente orientato. Il volume ha poi il merito, specie con i saggi di Luca Mannori, Francesca Sofia e Antonio Chiavistelli, nonché le note introduttive di Paolo Prodi e Pierangelo Schiera, di aprire un nuovo filone di ricerca. Si tratta del Sismondi costituzionalista, finora sostanzialmente ignorato dalla storiografia, soprattutto se con tale espressione si intende colui che cercava di adeguare alle straordinarie novità politiche e antropologiche introdotte in Europa dalla Rivoluzione francese sia la società sia le istituzioni italiane, policentriche ma disunite, ricche di storia gloriosa ma poco avvezze al moderno. Sismondi fu il sismografo, non abbastanza ascoltato, di un’Italia in fatale transizione.

DANILO BRESCHI

Gustav Landauer, LA COMUNITÀ ANARCHICA, trad. dal tedesco di Nino Muzzi, pp. 187, € 14, Eleuthera, Milano 2012 Romanticismo, cultura völkisch, afflato messianico si intrecciano nel pensiero di Gustav Landauer, che assunse la veste più chiara nel saggio La rivoluzione (1907). Egli sarebbe stato ucciso dalle Guardie Bianche nel 1919, durante l’esperienza della Repubblica dei Consigli di Baviera; fu l’amico Martin Buber, studioso del chassidismo e filosofo, a raccoglierne in seguito gli scritti occasionali. Accompagna questa selezione proposta da Eleuthera un rigoroso apparato di note, a cura di Gianfranco Ragona, ricercatore presso l’Università di Torino. La revisione portata avanti da Landauer è di particolare inte-

resse, procedendo sia nella direzione del socialismo marxiano, sia in quella dell’anarchismo: egli nega che una singola classe possa prendere il timone di una transizione politica servendosi dello stato; recupera l’idea di patria, declinandola in direzione socialista e libertaria; giudica l’anarchismo del proprio tempo necessariamente come un movimento di avanguardie, non di masse; e l’anarchia non “la cosa a portata di mano, fredda, chiara di cui hanno farneticato gli anarchici”, ma “un sogno profondo e misterioso” (si fa sentire qui l’eco degli amati mistici medievali). Critica anche la teoria roussoiana del “contratto sociale”: esso, dopotutto, non è mai stato siglato e sarebbe in ogni caso assurdo attribuire agli antenati una qualche vincolante autorità politica sui discendenti. Meglio un associazionismo fra “liberi gruppi d’interesse”, fondato su di un socialismo che tragga ogni linfa dal “lavoro cooperativo”. Come scriverà ancora nel 1918 in La Germania, la guerra e la rivoluzione, il solitario non è forse esposto a “ogni forma di demagogia”?

DANIELE ROCCA

Rosario Romeo, ITALIA MILLE ANNI. DALL’ETÀ FEUDALE ALL’ITALIA MODERNA ED EUROPEA, pp. XIV-224, € 12,90, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012

tra Tirreno, Alpi Apuane e Appennini. Si narra la storia di una gioventù che in alcuni suoi protagonisti, come il comandante partigiano Manrico Ducceschi, di area azionista, sperò e credette di riannodare i fili di un moto risorgimentale che già una volta aveva iniettato orgoglio e fierezza nelle più giovani generazioni della penisola e incarnato nel sacrificio libertà civile e indipendenza nazionale. Ma la politica resterà militarizzata anche dopo il 25 aprile, in uno scenario italiano ed europeo che era già stato spogliato in gran parte del principio della sovranità. Si progetterà in Italia, ma si deciderà altrove, in America o in Russia, e nel mezzo resteranno stritolati tutti coloro che cercheranno una terza via politica e culturale socialista e liberale, patriottica nei sentimenti e universalistica nei valori; tra questi, anche alcuni protagonisti del libro. Petracchi narra una storia più tragica che eroica, e il quinquennio 1943-48 è indicato come lo spartiacque tra l’epoca dei nazionalismi, gravitanti attorno alla presunzione europea di una centralità geopolitica, e l’epoca del bipolarismo, del pianeta diviso e controllato da due superpotenze egemoniche, che decretano l’inizio del tramonto del Vecchio continente. Quel che si costruì nel dopoguerra risentì profondamente della furia manichea e degli interessi stranieri innestatisi sul suolo nazionale tra il 1943 e il 1945.

(D.B.) I libri di grandi studiosi assemblati con saggi sparsi non sono sempre all’altezza della fama degli autori. Il volume che qui segnaliamo costituisce una significativa eccezione a tale regola. Uscito originariamente nel 1981 in una collana diretta da Spadolini, il volume viene opportunamente riproposto con una prefazione di Galasso dove sono offerte le informazioni essenziali per intendere la personalità dell’autore e le circostanze che portarono alla prima edizione. Il libro è diviso in due parti. La prima presenta una sintesi di storia italiana (scritta per l’Enciclopedia Garzanti), che va dalla fine dell’impero romano alla crisi del centro-sinistra. La seconda raccoglie tre saggi su Italia ed Europa, nazione e nazionalismo. All’articolazione tematica corrisponde, però, una sostanziale unità. La sintesi di storia generale non è una semplice esposizione dei fatti, ma contiene una ricostruzione del lento emergere dell’identità italiana. I saggi della seconda parte discutono, attraverso il tema della nazione, alcuni punti nevralgici dell’età contemporanea: l’idea di nazione nella nuova Italia e fino alla grande guerra, il nazionalismo dopo la seconda guerra e, infine, l’idea di Europa in Croce. In sostanza, per quanto affrontato in termini di lunga durata e di discussione di determinati aspetti, al centro del libro sta l’Italia, la sua storia e il rapporto con l’Europa. Per dare un’idea della chiarezza espositiva e del rigore analitico di Romeo sarà sufficiente citare un giudizio d’insieme sul Risorgimento, definito “non compressione e repressione di istanze più vaste prementi dal di sotto del vecchio assetto politico”, bensì creazione di un assetto politico che era “in anticipo sullo stadio di sviluppo raggiunto dal paese”, sollecitandolo “su vie di progresso non ancora intraprese”.

(M.G.)

Giorgio Petracchi, AL TEMPO CHE BERTA FILAVA. UNA STORIA ITALIANA 1943-1948, pp. 442, € 20, Mursia, Milano 2012 Quanta inciviltà si ebbe nella guerra civile italiana lo conferma la minuziosa ricostruzione storica di questo libro. Ma la sua limpida e sofferta prosa ci dice anche quanta civiltà si cercò di rigenerare con l’impegno resistenziale. Giorgio Petracchi ha ricostruito nel dettaglio, su archivi americani e documenti privati inediti, le vicende della lotta partigiana nella XI Zona,

Maria Rosa Fabbrini, BONSOIR MADAME LA LUNE. LA VITA INCOMPIUTA DI SILVIA PONS, pp. 163, € 24, Antigone, Torino 2012 C’è materia per un romanzo nella storia raccontata in questo libro, che Maria Rosa Fabbrini riesce invece a mantenere entro i binari di una biografia rigorosamente ricostruita senza scostarsi dalla metodologia storica di un puntuale e documentato intreccio di fonti: scritti autografi (lettere, racconti e poesie, abbozzi autobiografici) lasciati da Silvia Pons, testimonianze di amici e familiari, carte e documenti archivistici. Il libro amplia la ricerca già condotta da Marta Bonsanti (Giorgio e Silvia. Due vite a Torino tra antifascismo e Resistenza, Sansoni, 2004), concentrandosi sulla figura femminile di una coppia – lui ebreo, lei valdese – che ha avuto una parte importante nella vicenda politica e organizzativa del Partito d’azione torinese, a lungo oscurata da quelli che il figlio Vittorio non esita a definire i “califfi” della memoria in una nota conclusiva con la quale dichiara il suo sofferto intento riparatorio nell’aver voluto riportare alla luce i percorsi dei genitori perduti troppo presto, entrambi segnati dalla tragedia. Silvia Pons, cresciuta nelle valli valdesi, si era innamorata di Giorgio Diena alla vigilia della guerra, mentre era studentessa di medicina a Torino, e nel 1940 mettono al mondo il figlio, nonostante non possano sposarsi a causa delle leggi razziali, sfidando le convenzioni e le avversità dei tempi. Gli anni dell’impegno nella Resistenza sono quelli di un entusiasmo carico di promesse, che non reggono alle delusioni del dopoguerra, fino a separare i loro destini. Silvia tenterà ancora le molte strade consentite dalla sua brillante cultura e capacità professionali, tra slanci e inquietudini di una “vita incompiuta”, bruscamente stroncata prima dei suoi quarant’anni. Restano gli enigmi della sua espulsione dal Partito d’azione nell’autunno 1945, di cui mancano carte esplicative, e del triennio 1936-39, che la vide molto legata al giovane Giorgio Spini, ma di cui lei stessa ha forse cancellato ogni traccia. Tra i motivi d’interesse del libro, l’esemplarità di un insostenibile rientro nella normalità del dopoguerra e la messa a fuoco della condizione femminile di un’epoca, ben rappresentata a partire dalla genealogia familiare della protagonista.

SANTINA MOBIGLIA


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N. 1

La biografia di Mario Labò, fucilato a Forte Bravetta, a Roma, non ancora venticinquenne, insieme a nove compagni di lotta contro i nazisti, il 7 marzo 1944, viene ricostruita per squarci con abbondanza di documenti di prima mano, molti riprodotti fotograficamente e allineati l’uno dietro l’altro. Giorgio si era assunto il compito di fabbricare ordigni esplosivi per l’attività dei Gap (Gruppi di azione patriottica), insieme a Gianfranco Mattei, chimico. Catturati a seguito di delazione, furono entrambi sottoposti a insistenti torture. Mattei si suicidò per paura di non resistere. Giorgio non pronunciò sillaba e pagò con la vita il diniego. Non è esagerato dire che Giorgio aveva la stoffa e il respiro di un Gobetti. Studente di architettura, si segnalò per una precocità intellettuale sorprendente. Gli scritti che ha lasciato attestano la vivacità di interessi maturi. La frequentazione del gruppo di “Corrente” e la stessa rete di amicizie familiari (vi campeggia Bruno Zevi) forgiarono una personalità dotata di coraggiosa autonomia. Nei frammenti adunati in un volume fatto di cartoline, lettere, immagini, appunti diaristici, si rifrange una tensione etica di straordinario spessore. Commuove l’appunto vergato, sotto dettatura di Giorgio, da don Antonio Scranne, il sacerdote che assisterà al-

Theodor Herzl, VECCHIA TERRA NUOVA, ed. orig. 1902, trad. dal tedesco di Roberta Ascarelli, pp. 238, € 20, Bibliotheca Aretina, Arezzo 2012

l’esecuzione. Incaricato di dare ai genitori la tragica notizia era Argan: “Dirgli che comunicasse alla famiglia che lui è passato con la massima serenità”. E Argan in una lettera al padre definisce Labò “l’eroe di una generazione dell’intelligenza italiana”. Una lunga missiva (inedita) di Emilio Jesi svela il nome del delatore (Guido Rattoppatore). Sembra che avesse rivelato l’indirizzo della “Santa Barbara” di via Giulia. Anche lui fu tra i dieci fucilati. E non è un dettaglio da trascurare.

ROBERTO BARZANTI

Marco Luppi, DAL MEDITERRANEO A FIRENZE, pp. 471, € 35, Euno, Leonforte 2012 Scandita in quattro capitoli, l’analitica biografia di Marco Luppi si distende dagli anni della formazione di La Pira fino al culmine della stagione del centrismo (1952): e ne viene annunciata una seconda parte, che tratterà l’esperienza di sindaco di Firenze e le iniziative promosse nel segno della pace. Documentata su fonti primarie, la trattazione si sofferma sugli aspetti di una personalità anomala nel panorama italiano. Di vivo interesse è l’indagine sulle letture che forgiarono la religiosità lapiriana: Lamennais, Bossuet, Pascal e più di tutti Blondel. Questo debito verso

Theodor Herzl, FEUILLETONS 1891-1903, trad. dal tedesco di Giuseppe Farese, pp. 332, € 25, Archinto, Milano 2012

Afferma nel 1899 Theodor Herzl, padre del sionismo: “Le speranze di successo nella sfera pratica sono sfumate. La mia vita adesso non è che romanzo. Sarà dunque un romanzo la mia vita”. A questo intendimento rimase sinceramente vincolato scrivendo quella che doveva essere la prefigurazione della “Nuova Società” a venire, capace di offrire ospitalità non solo agli ebrei, ma anche a un’umanità condannata alla decadenza. Vecchia nuova terra, oltre che l’unico romanzo redatto da colui che è ricordato essenzialmente per Der Judenstaat, il documento politico più importante del movimento nazionale ebraico, è il ritratto di un’inquietudine che si sublima nel desiderio di utopia. Lascia traspirare gli umori dei tempi e degli ambienti in cui fu generato: la Mitteleuropa di fine secolo, gloriosa e declinante, inconsapevolmente prossima al successivo collasso bellico; un milieu intellettuale sospeso tra letteratura e azione, dove l’una si trasfonde nell’altra, evidenziando l’incompiutezza che diventa bisogno di andare verso nuovi orizzonti; la Bildung di Johann Wolfgang Goethe; la ricerca di una nuova forma della politica, più che di nuove formule, dove l’intreccio tra identità e tempo darà i natali a tentativi tra di loro anche molto diversi di risolvere l’ossessivo senso di stallo nel presente. Il romanzo di Herzl su una Palestina possibile, compiutamente civile e fatta di comunità amabilmente conviventi, coniuga il radicalismo della profezia, in sé incontrollato, con il razionalismo borghese dell’innovazione tecnologica. Si tratta dell’apoteosi dell’eudemonismo, che deve fare da subito i conti con il cinismo dei contemporanei e con l’abrasività della politica. Lo si legge non come malinconico epitaffio, bensì come suggello del bisogno di un cambiamento consapevole e non eterodiretto.

Creduto il padre unico del sionismo, che in realtà non fu mai un nazionalismo unitario, ma un movimento che vantò più progeniture, Theodor Herzl è anche e soprattutto un intellettuale irrequieto nel mondo mitteleuropeo a cavallo di due secoli. Il nesso tra pensiero e azione, all’interno di una modernità che si segnalava per la sua instabilità, sia culturale che politica, fu per lui un topos imprescindibile. Da liberale insoddisfatto non riuscì a risolverlo, ma tentò di declinarlo nella produzione letteraria di cui fu un buon autore, segnalandosi ai suoi contemporanei. Peraltro Herzl rivestì soprattutto i panni di giornalista elegante e raffinato. In scala di valore decrescente, quindi, seguono le sue attività di prosatore, di politico e, infine, di drammaturgo. Il problema del ruolo degli ebrei era per lui il sismografo su cui cercava di seguire l’andamento irregolare del legame tra mutamento generale e identità collettive, in un panorama sociale segnato dall’emergere definitivo dei processi di nazionalizzazione delle masse. Meritoria, quindi, la scelta di pubblicare in italiano i suoi feuilletons, una ventina dei settanta che nel 1904 lo stesso autore, prossimo alla morte, aveva provveduto a editare in due volumi. Dalla loro lettura emergono le qualità intrinseche della prosa herzliana, a partire da uno stile ricercato e nel medesimo tempo privo di compiaciuti lirismi, ma con una buona dose di ironia e il gusto per la breve comunicazione, quasi da contrapporre alla narrativa epicizzante di altre vulgate radicate in quegli anni. Si tratta di una letteratura del frammento, dove la società si presenta, sotto le false spoglie di un organismo unitario, come un insieme frantumato, la cui trama ricompositiva implica l’osservazione sistematica delle diverse situazioni e dei distinti caratteri che la compongono.

CLAUDIO VERCELLI

(C.V.)

il filone francese di un battagliero e laico cattolicesimo lascia il segno. Il carisma profetizzante che sosteneva l’azione di La Pira si confrontò di continuo con le vicende della politica e si fece castamente esperienza. I luoghi simbolici del suo itinerario furono San Procolo, San Marco e La Badia: spazi di una Firenze che serba l’impronta della sua spiritualità, per un verso basata su fondamenta tomistiche e per l’altro protesa ad assumere la povertà come distintivo di fede e di intervento. L’autore non lascia in solitudine l’oggetto della sua attenzione: ed ecco ben chiarita, durante la Costituente, la fruttuosa intesa, in ambito democristiano, con Moro e Dossetti. Nella Carta del 1948 La Pira vide incarnarsi “la concezione organica della sociologia cristiana”, a partire da Toniolo, e ne mise a più riprese in luce l’ordito che esaltava il pluralismo: modelli ispiratori ne sarebbero stati il costituzionalismo weimariano e l’impianto della Costituzione sovietica del ’36: “Lo statalismo – scrisse nel ’48 su “Cronache sociali”, – per un verso, e l’individualismo, per l’altro verso, sono (…) parimenti impediti per via della presenza di quei corpi intermedi che hanno una così essenziale rilevanza nella struttura giuridica e costituzionale del nuovo Stato”.

(R.B.)

QUALE FEDERALISMO?, a cura di Ermanno Vitale, pp. 192, € 25, Giappichelli, Torino 2012 Traendo spunto dalle riflessioni svolte in occasione di un convegno organizzato nel 2009 sotto il coordinamento di Michelangelo Bovero, il volume si inserisce nel

Maria Teresa Milano, REGINA JONAS. VITA DI (BERLINO 1902 – AUSCHWITZ 1944), introd. di Sarah Kaminski, postfaz.di Piero Stefani, pp. 144, € 10,50, Effatà, Cantalupa 2012 UNA RABBINA

dibattito che da decenni ha per oggetto il tema del federalismo, proponendosi due obiettivi. Anzitutto, quello di effettuare un’operazione di “pulizia concettuale” che permetta di fare chiarezza sul piano dei contenuti. E poi, coniugando riflessione teorica e impegno civile, quello di offrire, al di là delle più recenti esasperazioni polemiche, qualche “sobria indicazione normativa” circa le forme e i modi entro cui realizzare o meno la riforma in senso federale. Articolandosi su piani diversi, gli otto contributi che compongono il volume affrontano in maniera originale una pluralità di questioni e sono organizzati secondo quattro prospettive complementari: quella prettamente teorica; quella politico-istituzionale; quella sovranazionale, con specifico rimando alla realtà dell’Unione Europea; quella comparativa, dedicata all’esame di due casi meno noti (Spagna e Messico). Ciò che nell’insieme emerge con evidenza da questa rassegna coincide con la constatazione del carattere peculiare o addirittura anomalo della discussione italiana. Rispetto alla tradizione del pensiero federale, le cui matrici possono esser fatte risalire a Madison, Kant, Proudhon e Cattaneo, in Italia il federalismo è stato perlopiù concepito nella sua variante “secessionista”, anziché “associativa”. Per quanto ammissibile in linea di principio, la variante secessionista pone una serie di gravi incognite. Le spinte centrifughe verso piccole patrie volte alla difesa di interessi particolari rischiano infatti di mettere in moto pericolosi processi di scomposizione inevitabilmente in contrasto con quella “modernità politica” che implica diritti, pace e democrazia.

- Politica

Pietro Boragina, VITA DI MARIO LABÒ, pp. 357, € 40, Aragno, Torino 2012

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FEDERICO TROCINI

Matteo Di Figlia, ISRAELE E LA SINISTRA. GLI EBREI NEL DIBATTITO PUBBLICO ITALIANO DAL

1945 2012

A OGGI,

pp. 195, € 25, Donzelli, Roma

Di Regina Jonas, personalità di primo piano nella Germania ebraica degli anni trenta, nulla si è saputo fino ai rivolgimenti politici e culturali intervenuti dopo il 1989, che permisero, fra l’altro, l’apertura degli archivi di Berlino est. Nel 1991 la teologa Katharina Von Kellenbach ritrova tra gli schedari di un piccolo centro una busta dedicata alla sconosciuta Regina Jonas, nata nell’agosto 1902 a Berlino e ivi ordinata rabbino il 26 dicembre 1935. Una vita straordinaria che emana sentore di paradossale eccezionalità: una donna ebrea diventa rabbina nella Germania nazista, sfidando sia le palesi ostilità naziste, sia la tradizione culturale dell’ebraismo, che esclude la donna da momenti della vita sociale e dall’ordinazione rabbinica. Maria Teresa Milano, attraverso un’accurata ricerca di archivio, ne affronta la storia che non può essere compresa senza una riflessione su tre grandi temi: le donne nell’ebraismo, il clima culturale e religioso nelle comunità ebraiche della Berlino degli anni trenta, la Shoah. L’autrice, profonda conoscitrice della lingua ebraica e della Bibbia, sceglie di suddividere i tre temi in altrettanti capitoli, cui attribuisce titoli di indubbia suggestione: ’Alef come ’ishah, donna; Bet come Berlin; Ghimel come Ghetto. Ne esce il ritratto di una donna responsabile verso la comunità e le sue allieve, con le quali intrattiene un rapporto molto stretto. Quando le viene proposto di percorrere la via dell’esilio decide di rimanere. Nel 1942 è deportata a Terezín, e nel 1944 muore ad Auschwitz, una donna che non cerca né una rottura con la tradizione ebraica - il titolo della sua tesi di rabbinato è sintomatico Può una donna servire come rabbino? - né una via di assoluta parità con l’uomo, che ne oscuri le differenze di genere.

La ricerca e le riflessioni di Matteo Di Figlia sugli ebrei italiani dal dopoguerra a oggi si inseriscono in uno spazio nel medesimo tempo pieno e vuoto. Pieno di interventi di taglio pubblicistico, quindi perlopiù occasionali, polemici o apologetici, ma anche vuoto di riflessioni più ponderate e scientificamente fondate. Il libro si confronta quindi con una dimensione sospesa tra la cacofonia e il silenzio. Diciamo subito che la sua non è una storia degli ebrei di sinistra in Italia, ma, piuttosto, una ricognizione sulla rappresentazione e sull’autopercezione dei rapporti tra l’ebraismo e la sinistra. Cercare quindi un repertorio di motivi e di pensieri, piuttosto che un collage di personaggi e atteggiamenti, è il modo migliore per leggere un testo che, per più aspetti, non pretende la conclusività, operando semmai sulle trasformazioni tutt’oggi in atto. Il punto di partenza è l’onda lunga dei percorsi di emancipazione che, dal XVIII secolo in poi, consegnano l’ebraismo europeo alla sfera pubblica. Il respiro, tuttavia, è quello novecentesco, mettendo in tensione l’identità ebraica con le idealità di cui la sinistra si è fatta storicamente espressione, a partire dalla nozione stessa di coscienza di sé. Il rapporto si è quindi rivelato da subito tanto attrattivo quanto abrasivo. Dal 1945 in poi i tornanti sono stati molteplici, tanti quanto le vicende di cui due entità assai poco sociologicamente omogenee, come gli ebrei e le sinistre (meglio sarebbe usare il plurale), hanno attraversato. Di Figlia coglie le discontinuità così come le reciprocità fino ai giorni correnti, evitando giudizi di valore e attenendosi al rigore di chi osserva qualcosa che è troppo recente per essere ascritto definitivamente alla dimensione dell’archivio, ma anche troppo consolidato per costituire solo testimonianza.

DONATELLA SASSO

(C.V.)

- Ebraismo

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- Infanzia

N. 1

Libby Gleeson e Freya Blackwood, GUARDA, UN LIBRO!, ed. orig. 2011., trad. dall’inglese di Paola Gallerani, pp. 32, € 12, LO, Milano 2012 Officina Libraria, specializzata in pubblicazioni d’arte, l’anno scorso con il marchio LO è entrata nel mondo dei libri per bambini (quelli che leggono o hanno genitori o educatori che vogliono far loro amare i libri). Guarda, un libro! si offre quasi come un manifesto programmatico, una dichiarazione d’intenti poetica, non solo editoriale. I delicati e intensi acquerelli dell’australiana Freya Blackwood, accompagnati e sottolineati da non più di quaranta parole misurate, raccontano la storia di un libro, anzi di due bambini scalzi e abbastanza stracciati che in una bidonville raccolgono da terra un libro dalla copertina rossa: “Guarda, un libro!”. Le parole che seguono sono moniti, suggerimenti più che comandamenti, per proteggere il libro dalla polvere, dai cani, dalla pioggia. Come se ce ne fosse bisogno. Perché da subito il libro sprigiona tutta la fantasia e magia delle sue pagine, trasformando i pali della luce in alberi di un bosco, una tazza in una barca, una lamiera in una zattera che si leva in un volo a vela, una gallina in un veloce destriero da cavalcare all’inseguimento del cane che ha addentato il prezioso tesoro, una bottiglia di plastica in un velivolo. L’accozzaglia degradata di rifiuti, tetrapak, lattine, plastica si trasforma in un luogo magico, una città incantata in cui i due protagonisti con altri bambini più il cane si accomodano davanti a una baracca attorno all’anziana e un po’ sciupata donna che nella prima tavola ha lasciato cadere il libro dal suo carrello di stracci e carabattole varie e che ora legge le storie contenute in quelle pagine. Perché i bambini sono nati per leggere e per ascoltare storie. (Insieme, è uscito Il mare di Marianne Dubuc, in cui un gatto prima guarda incuriosito un pesce rosso e poi lo insegue in un viaggio fantastico fin sulla luna e oltre). Da tre anni.

FERNANDO ROTONDO

Luis Sepúlveda, STORIA

DI UN GATTO E DEL

TOPO CHE DIVENTÒ SUO AMICO,

ill. di Simona Mulazzani, ed. orig. 2012, trad. dallo spagnolo di Ilide Carmignani, pp. 82, € 10, Guanda, Milano 2012 In coda, l’ex guardia del corpo di Salvador Allende spiega brevemente la genesi del racconto: quando abitavano a Monaco, il figlio Max adottò un gatto, dignitoso, indipendente, dall’elegante profilo greco, al quale, quando diventò cieco, dedicò affetto e cura come un vero amico. Ora, venticinque anni dopo La gabbianella e il gatto (un successo da due milioni di copie in Italia), Sepúlveda scrive un’altra delicata favoletta in cui il ben noto impegno sociale e politico dell’autore si esprime con la leggerezza propria delle migliori bambinate per veicolare messaggi e valori universali, in particolare l’amicizia, che è propedeutica a una solidarietà più ampia e al superamento dei pregiudizi che nascono dalla diffidenza verso la diversità. Per questo è importante che un bambino possa crescere con un amico non umano. Max è un ragazzo, poi adulto giovane, che vive con l’amato gatto Mix. Quando questi perde la vista e quindi non può più uscire, ma deve rimanere a lungo solo in casa perché l’amico umano va all’università e poi al lavoro, il felino fa inaspettatamente amicizia con un topolino messicano, Mex, paurosissimo ma furbissimo e golosissimo, che racconta tutto quello che l’amico non può più vedere dalla finestra e lo guida fin sui tetti. Mix vede con gli occhi del piccolo amico e Mex diventa forte con il vigore dell’amico grande. Nel corso della narrazione Sepúlveda distilla piccole gocce d’oro che sa-

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rebbe ridicolo definire buoniste (forse ora preferiamo bambini cattivisti e sgarbisti?): i veri amici si aiutano e condividono anche le piccole cose che allietano la vita. In un’intervista in occasione di Bookcity a Milano Sepúlveda ha ricordato che l’amico Tonino Guerra gli è stato maestro nell’insegnargli “a non dimenticare mai l’epica delle piccole cose”. Da otto anni.

(F.R.)

Arthur Conan Doyle, STORIE DI PIRATI, ed. orig. 1922, trad. dall’inglese di Maurizio Bartocci, pp. 134, 36 ill. di Howard Pyle, € 23, Donzelli, Roma 2012 Il corpus degli scritti doyliani è sicuramente assai più ampio di quanto il lettore medio di Sherlock Holmes immagini: e ne fanno parte ad esempio delizie come questa raccolta, edita nel 1922 riunendo testi apparsi in riviste dal 1897 al 1902. Il tipo di genesi spiega anche il carattere un po’ particolare del testo, concentrato in gran parte ma non esclusivamente su un personaggio, il pessimo capitano Sharkey protagonista di quattro racconti, ai quali fanno seguito un’altra storia di truci prodezze marinare, La Slipping Sal, e – a sorpresa – la novella Un pirata di terra, su un tipo di aggressione ben diverso, in automobile, lungo le civili strade britanniche. In quest’ultima il lettore finisce anzi con il solidarizzare – non diciamo perché – con la causa del reo, e nella Slipping Sal il furfante si riscatta alla fine morendo “da uomo” (“era inglese!”); mentre ben più sgradevoli sono i pirati della tetralogia di Sharkey, personaggio anche fisicamente disgustoso, circonfuso di un alone ferocemente nichilista e circondato da una ciurma di bruti. Dimentichiamo i pirati nobili e romantici alla Salgari, o i pretesi democratici di recenti e ingenue interpretazioni libertarie: il mondo piratesco di Doyle non esclude talora motivazioni soggettive “comprensibili”, ma nel complesso puzza di sentina e ottusa crudeltà. Sharkey stesso morirà in modo orribile, eliminato per vendetta da un “bastardo senza gloria”: ma la sua maschera d’avvoltoio sembra immortalata in alcuni dei volti che il grandissimo illustratore americano Howard Pyle offrì nel suo Book of Pirates edito nel 1921, dunque subito prima della raccolta doyliana, e di cui Donzelli offre in questa edizione una ricca scelta. Truci e pittoresche biffe con mustacchi e anelli all’orecchio, rese di capitani, prigionieri gettati ai pesci, duelli tra pirati e abbandoni su spiagge deserte: un repertorio visivo che informerà lo stesso immaginario cinematografico, e in questo caso si affianca ai racconti non per semplice corredo iconografico, ma giocato in dittico quale vera e propria opera parallela. Da dieci anni.

FRANCO PEZZINI

Jonathan Coe, LO SPECCHIO DEI DESIDERI, ill. di Chiara Coccorese, trad. dall’inglese di Delfina Vezzoli, pp. 96, € 12, Feltrinelli, Milano 2012 Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori, cantava De André. Claire, ragazzina bruttina e insicura, trova in una discarica dove va a rifugiarsi in solitudine (forse perché si considera uno “scarto” anche lei) un pezzo di specchietto “magico” che le riflette una realtà meravigliosa, immaginata o sognata, anche quando è squallida, insoddisfacente (il cielo grigio appare azzurro, la modesta casa un maestoso palazzo, il viso afflitto dall’acne bellissimo, unita la famiglia che invece va a pezzi). Intorno e fuori le cose non vanno meglio: al posto della biblioteca c’è un centro commerciale, un residence di lusso sorge dov’era l’ospedale. C’è qualcosa di molto sbagliato nel mondo.

(Qui si sente il Coe politico, critico duro del tatcherismo). Ma Claire incontra Peter, pure lui ragazzo solitario, “sfigato”, che le dà appuntamento nella discarica e le mostra un frammento di specchio, simile al suo, che combinato con i pezzi in possesso di tante altre persone forma un gigantesco mosaico capace di cominciare a riflettere una visione migliore della città, della realtà come dovrebbe essere. In una recente intervista su “Tuttolibri” lo stesso Coe ha spiegato il senso della metafora: “La nostra coscienza, la nostra immaginazione. Quella parte della mente che si sviluppa molto in fretta fra gli otto e i quindici anni e ti consente di guardare gli altri in modo non solo razionale”. Ovvero, pensiamo, immaginiamo, mettiamoci insieme e lavoriamo per migliorare le cose. Per una volta la quarta di copertina non mente: “Una parabola politica per ragazzi, una fiaba contemporanea per adulti”. Questo libro (che esce in Italia prima che nel resto del mondo, è un racconto di formazione e trasformazione, di passaggio come un rito d’iniziazione, a cui le illustrazioni iperrealistiche di Chiara Coccorese conferiscono il necessario equilibrio tra desideri e realtà. Da dodici anni.

(F.R.)

Silvana Gandolfi, IL CLUB DEGLI AMICI IMMAGINARI, ill. di Giulia Orecchia, pp. 233, € 13, Salani, Milano 2012 “La vita familiare è un’interferenza nella vita privata”: è citando Karl Kraus che l’autrice-viaggiatrice Silvana Gandolfi, Prix Sorcières 2012 per Io dentro gli spari (Salani, 2010), da il la, e la tonalità di fondo, al suo nuovo romanzo, Il club degli amici immaginari, ritornando, con una scrittura profonda e affilata, nei luoghi del suo L’isola del tempo perso (Salani, 1997), uno dei libri più amati dai giovani lettori negli ultimi quindici anni. Oscar, in procinto di ritirare il premio Nobel per la sua “formulazione del primo azzeratore della forza di gravità”, torna con la mente a Portopidocchio, caletta sperduta delle sue vacanze infantili con il severissimo padre Giudice e la mite madre Rosemarie, pittrice “di frodo” per scampare alle caustiche critiche del marito. È qui che Oscar si imbatte nell’arguta Mia, sirenetta e amica immaginaria, nonché suo alter ego femminile, che solo lui può vedere e che lo condurrà sull’Isola del Tempo Perso, sede di oggetti e sentimenti smarriti (vedi il desiderio di onnipotenza dei bambini di tre anni) e di Aioc: Amici Immaginari Orfani di Creatore. Questi, capitanati da Daniele, cercheranno di riacciuffare i Cannibali, creature che hanno assorbito i sentimenti negativi abbandonati sull’isola e che, sulla terra, stabiliranno una dittatura. La genesi dell’amicizia, la ricerca dell’identità, il disicanto verso gli adulti, la voglia di sogno: lo sviluppo emotivopsicologico dei personaggi e l’avventura sono l’ordito e la trama di un arazzo narrativo che ci riporta in volo a un tòpos letterario – qui isola, in altri libri dell’autrice giungla o labirinto ? metafora di noi stessi. Da dodici anni.

ELENA BARONCINI

Mara Dompè, Annalisa Sanmartino e Giulia Torelli, EVELINA VERDE MELA, pp. 14, € 14, Prìncipi & Princípi, Arezzo 2012 Un piccolo libro illustrato dove, con un gusto particolare per i colori, si racconta la storia di una rinocerontina sbadata che confonde i corni da mettere sul naso, provando imbarazzo per essere additata da tutti. L’incontro fatale con un altro rinocerontino, Adalberto, distratto come lei, le farà capire che la diversità non è poi così male. Da sei anni.

DIREZIONE Mimmo Cándito (direttore) mimmo.candito@lindice.net

Mariolina Bertini (vicedirettore) Aldo Fasolo (vicedirettore) COORDINAMENTO DI REDAZIONE Andrea Bajani, Santina Mobiglia, Elena Rossi, Massimo Vallerani REDAZIONE via Madama Cristina 16, 10125 Torino tel. 011-6693934 Monica Bardi monica.bardi@lindice.net, Daniela Innocenti daniela.innocenti@lindice.net, Elide La Rosa elide.larosa@lindice.net, Tiziana Magone, redattore capo tiziana.magone@lindice.net, Giuliana Olivero giuliana.olivero@lindice.net, Camilla Valletti camilla.valletti@lindice.net

Vincenzo Viola (L’Indice della scuola) vinci.viola@gmail.com

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Redazione Mario Cedrini (coordinatore) Luca Borello, Federico Feroldi, Franco Pezzini EDITRICE L’Indice Scarl Registrazione Tribunale di Roma n. 369 del 17/10/1984 PRESIDENTE Gian Giacomo Migone CONSIGLIERE Gian Luigi Vaccarino DIRETTORE EDITORIALE Andrea Pagliardi DIRETTORE RESPONSABILE Sara Cortellazzo UFFICIO ABBONAMENTI tel. 011-6689823 (orario 9-13). abbonamenti@lindice.net

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Letteratura francese Nella polvere dell’astrattismo di Paola

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Daniel Pennac STORIA DI UN CORPO ed. orig. 2012, trad. dal francese di Yasmina Melaouah, pp. 341, € 18, Feltrinelli, Milano 2012

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el suo ultimo romanzo Pennac sviluppa un tema a lui caro e che attraversa in modo più o meno esplicito diverse altre sue opere: quello del corpo e delle sue trasformazioni. Muovendo da una trovata aneddotica – quella di un uomo che ha tenuto il “diario del proprio corpo” dall’età di dodici anni – Pennac infrange il tabù dell’espressione delle sensazioni. Infatti, leggendo Storia di un corpo la mente inevitabilmente va al silenzio che avvolge il corpo nei discorsi, nella letteratura e negli altri mezzi espressivi. Tanto più che il romanzo di Pennac non riguarda un corpo eccezionale, che subisce trasformazioni uniche e speciali, ma un corpo vissuto nella sua quotidianità per anni, un corpo che potrebbe essere quello di ciascuno di noi. L’originalità del romanzo, quindi, sta proprio nel fatto di aver dato voce a tutte le sensazioni e le espressioni di un “corpo medio”, per così dire. Questo diario fittizio traspone dunque una serie di avvenimenti tutto sommato condivisibili, dalla volontà adolescenziale di rafforzare il fisico, alla scoperta del sesso, e via fino alle amarezze, agli acciacchi e alle gioie dell’età avanzata. Da una parte questa narrazione aiuta a non sentirsi soli e dall’altra a scoprire che molto di ciò che ci appassiona dei casi della vita passa per il corpo ed è vissuto dal corpo. E così, la tardiva incontinenza di uno scout dodicenne in preda al terrore e alla propria prolifica immaginazione è ciò che il suo corpo riesce a produrre per attirare l’attenzione della mente verso paure profonde, radicate e forse molto più giustificate rispetto all’episodio che lo ha portato a farsela addosso.

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l giovane protagonista dell’episodio, però, non si fa scoraggiare dall’umiliazione subita e si getta – è il caso di dirlo – anima e corpo in un progetto che porterà avanti per tutta la vita. All’inizio l’intento del dodicenne è soltanto quello di “non avere più paura”. Ben presto però, dato che il ragazzo ha paura di tutto, incluso di guardarsi allo specchio, la sua volontà di superare le proprie paure lo porta a instaurare una comunicazione tra corpo e mente. Il titolo originale del romanzo faceva riferimento a un diario, non a una storia, e nel

romanzo in effetti il diario svolge un ruolo essenziale proprio perché è tale. Forse questa lettura ci stimolerà, se non a imitare il narratore, ad ascoltare maggiormente il corpo. Di certo, partendo dalle sensazioni, facendo lo sforzo di credere ai propri sensi, l’innominato diarista riesce a rispondere alle proprie esigenze profonde. Solo a partire da quel momento può superarsi. Pennac riesce a mantenersi lontano dalla gravità che le riflessioni sul tema del corpo potrebbero suggerire, e dipinge con tocco leggero una vita umana, le sue contraddizioni, miserie e nobiltà. Il corpo infatti non satura tutta la narrazione, acquisisce semplicemente il giusto peso, l’importanza che il corpo di ognuno ha per chi lo abita. Magistrali le pagine che evocano la consapevolezza della fine prossima, una consapevolezza che pare proprio maturata da quell’attenta osservazione di sé nella propria materialità. Le osservazioni del narratore infatti non sono mai scientifiche ma, per così dire, affettuose, sentimentali,

al punto che l’avvicinarsi della morte non impedisce all’“abitante del corpo” che sta al centro di questo romanzo di dissimulare la propria certezza per riguardo al prossimo. La traduzione di Yasmina Melaouah è come sempre impeccabile e contribuisce notevolmente a immergere in lettore nel tripudio di sensazioni e di passioni costituito dal romanzo. Ad esempio, il nomignolo scherzoso che uno dei personaggi attribuisce alle lozioni per il viso diventa in italiano “pozioni per il riso”, trovata traduttiva che è indice di grande creatività pur restando fedele allo spirito dell’opera e quanto mai stimolante per il lettore. Perché questo romanzo ha il carattere provocatorio dell’evidenza, pare dire al lettore: “Questo è il tuo corpo, sta a te viverlo”. E questo implicito invito è un invito a godersi la vita e a godere del momento, a sfruttare al massimo ogni giorno nella sua intensità, perché “l’uomo nasce nell’iperrealismo per dilatarsi pian piano fino a un puntinismo alquanto approssimativo per poi disperdersi in una polvere di astrattismo”. ■ paolag1976@gmail.com P. Ghinelli è traduttrice e dottore di ricerca in letterature francofone all’Università di Bologna

Un cortile sospeso nel tempo di Mariolina

Patrick Modiano FIORI DI ROVINA ed. orig. 1991, trad. dal francese di Maruzza Loria, pp. 113, € 13,50, Lantana, Roma 2012

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ue accessi all’opera labirintica di Modiano si sono aperti da poco al lettore italiano: il suo penultimo romanzo, L’orizzonte, pubblicato da Einaudi (2012), e questo Fiori di rovina. Consiglierei di approfittare di entrambi, cominciando dal secondo, che offre dell’universo modianesco una chiave particolarmente suggestiva. Non c’è romanzo che illustri meglio di Fiori di rovina quel che Modiano ha affermato in Accident nocturne (2003): “Sono sempre stato molto sensibile ai misteri di Parigi”. Ma proprio da Fiori di rovina emerge che i “misteri di Pari-

gi” di Modiano non sono né quelli di Sue né quelli dei polizieschi degli anni cinquanta; sono i misteri che guidano i passi di ogni generazione sui passi di quella precedente, fra tragedie che si ripetono, fantasmi irriconciliati che ci interpellano e luoghi, anch’essi fantasmatici, che sprofondano nel nulla travolgendo indifferentemente memorie collettive e memorie individuali. Fiori di rovina racconta una vicenda che si artico-

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la su tre livelli temporali diversi. C’è il tempo della stesura del racconto (dal novembre 1989 al 1819 marzo 1990); c’è il tempo del dramma di cronaca nera su cui indaga il narratore, il suicidio di due sposi, dopo una sorta di orgia, avvenuto il 24 aprile 1933; c’è infine il periodo 1964-1965, in cui il narratore ha conosciuto “Pacheco”, un personaggio dall’identità sfuggente e contraddittoria. Il mistero di questa identità ha a che fare con gli anni dell’Occupazione, ma si rivelerà anche connesso con il duplice suicidio del 1933 da cui ha preso le mosse il racconto. Abbiamo davanti a noi tutti gli elementi di un giallo tradizionale; in questa struttura alla Simenon, Modiano dissemina però una serie di altri misteri. Perché, ad esempio, il narratore prova una sorta di sollievo quando segue un tragitto che lo porta dalla Rive gauche alla Rive droite? la spiegazione è più misteriosa del fatto stesso: riaffiora in lui il ricordo di un episodio vissuto dal padre. Albert Modiano, nel 1942, dopo essere stato arrestato dai nazisti, era stato liberato da un amico collaborazionista che l’aveva accompagnato in auto proprio dalla Rive gauche alla Rive droite, dove poteva sentirsi libero e sicuro. Il narratore rivive quell’esperienza paterna, proiettato in un mondo di angosce e di colpe che non dovrebbero appartenergli, eppure lo coinvolgono per sempre. Così come è figé per sempre al suo sguardo il cortile del Louvre, dove giocava con il fratellino Rudy. È proprio la presentazione di quel cortile a segnare quello che è forse il momento più intenso dell’intero romanzo. Il lettore sta seguendo la rievocazione di un tragitto compiuto dal narratore nel 1965: “A vent’anni provavo un senso di sollievo quando passavo dalla Rive gauche alla Rive droite della Sen-

na, attraversando il pont des Arts. La notte era già scesa. Io mi giravo un’ultima volta, per veder brillare, al di sopra della cupola dell’Istituto, la stella del Nord”. La spiegazione proposta questa volta per il senso di sollievo nel passaggio da una riva della Senna all’altra è diversa da quella suggerita in precedenza: lasciandosi alle spalle il quartiere di Saint-Germain, il narratore esce da una zona troppo strettamente legata al ricordo del fratellino amatissimo, scomparso improvvisamente nel 1957. È a questo punto che Modiano introduce nel suo racconto una sorta di gioco di prestigio. Credevamo di seguire, raccontata all’imperfetto, la traversata del pont des Arts di un Modiano ventenne. Ma il testo ci riserva una sorpresa: “Una volta attraversato il pont des Arts, passavo sotto la volta del Louvre, un luogo che, anch’esso, mi era familiare da molto tempo. Sotto questa volta, dal lato sinistro del passaggio dove noi non osavamo mai avventurarci, arrivava un odore di cantina, di urina e di legno marcio. (…) Noi eravamo sicuri che lì si nascondessero dei topi, e affrettavamo il passo per sbucare all’aria aperta, nel cortile del Louvre”. Non osavamo avventurarci, eravamo sicuri: il passaggio dal singolare al plurale ci segnala che il Modiano ventenne di cui seguivamo i passi ha lasciato il posto a un Modiano bambino che, accompagnato dal fratellino Rudy, compie l’abituale percorso che lo porta a giocare nel cortile del Louvre. Un cortile in cui tutto è come sospeso, immobilizzato, e le lancette del grande orologio indicano per sempre le cinque e mezzo. Sull’onda degli imperfetti di Modiano, siamo scivolati inavvertitamente da un piano temporale all’altro. Non meno inavvertitamente, alla prima persona singolare si è sostituita una prima persona plurale: un noi in cui Patrick si fonde con Rudy, rinuncia alla propria identità per penetrare nel mondo parallelo di un’infanzia la cui parvenza sopravvive, preservata dalla pietas della memoria. ■ maria.bertini@unipr.it M. Bertini insegna letteratura francese all’Università di Parma


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Letterature Meticciato narrativo di Vittorio

Murakami Haruki 1Q84 LIBRO 3. OTTOBRE-DICEMBRE ed. orig. 2010, trad. dal giapponese di Giorgio Amitrano, pp. 408, € 18,50, Einaudi, Torino 2012

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hi ha già letto questa seconda parte di 1Q84 (dopo Libro 1 e 2. Aprile-settembre, Einaudi, 2011; cfr. “L’Indice”, 2012, n. 2) avrà avuto l’ennesima conferma del ben noto principio per cui l’eroe non può morire quando mancano ancora quattrocento pagine alla fine. Infatti, anche se la si era lasciata con la pistola in bocca pronta ad ammazzarsi, Aomame ci ripensa all’inizio del nuovo tomo e la storia può continuare. La domina ora, oltre ai protagonisti della prima parte (Aomame e Tengo), una figura già intravista: l’investigatore Ushikawa, che deve riscattarsi dall’errore commesso quando aveva garantito alla setta dei Sakigake l’affidabilità di Aomame (che invece aveva poi ucciso il loro leader), trovando ora l’assassina. Il tutto sempre sullo sfondo di un cielo un po’ con una, un po’ con due lune, sotto i raggi delle quali cercano invano di ritrovarsi Aomame e Tengo, che però alla fine si rincontreranno, facendo a ritroso il percorso verso il mondo normale che Aomame aveva fatto in andata verso quello fantastico.

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il foglio 392

ra che lo si può leggere tutto anche in italiano, questo romanzo conferma il suo alto grado di leggibilità ma anche la sua natura di prodotto professionale, di alto artigianato se non addirittura di industria internazionale, scritto senza altra ragione che quella, rispettabilissima, di confezionare un best seller da vendere a tutto il mondo. Il due è la sua insegna, dalle lune al montaggio dei capitoli a personaggi alterni, secondo una tecnica cara a

Il vero foglio

Non fidatevi delle cattive imitazioni. il foglio è il «mensile di alcuni cristiani torinesi», diretto da Antonello Ronca. Tra i fondatori, nel febbraio 1971, Enrico Peyretti, direttore fino al 2001, e Aldo Bodrato. Tra i sostenitori Norberto Bobbio. Esordì quando sotto la Mole era vescovo padre Pellegrino. Per info: www.ilfoglio.info Per riceverlo in saggio: abbonamentifoglio@gmail.com

Coletti Murakami. Tutto è impeccabile, come l’arredamento copiato da una rivista di moda, ma niente è davvero vivo e appropriato fino in fondo. Per altro, non è solo una caratteristica del romanzo di Murakami questa della professionalità d’esecuzione come unica o prevalente ragione di un libro. È un tratto molto comune oggi, e non a caso tra i romanzi più fortunati ci sono i gialli, in cui l’elemento del professionismo nel montaggio è una chiave portante da sempre. Intendiamoci: grasso che cola, con i tempi che corrono, pieni di dilettanti allo sbaraglio. 1Q84 si legge d’un fiato, avvince e si dimentica dopo cinque minuti, ed è quasi tutto risolto nell’abilità del suo autore. È un prodotto davvero moderno: grosso e leggero. L’altro tratto importante (più singolare e interessante) è la dimensione del fantastico in un romanzo che ha le movenze del consueto racconto verosimile. La bravura di Murakami consiste nel fare della fantasy in un formato realistico, che tanto più è tale, attento ai dettagli, ai cibi, agli abiti e alle cose riconoscibili e familiari per il lettore, quanto più è libero di riparare in una parallela dimensione fantastica, dove i bambini possono nascere anche solo per inseminazione spirituale. Questo aspetto sembra più promettente, perché apre nuove possibilità al romanzo. Non nuove in assoluto, beninteso, perché l’anormalità dentro la norma non è un’invenzione di Murakami, ma da decenni sta tra le possibilità del romanzo (ricordo il bellissimo Dissipatio H. G. di Guido Morselli, scritto nel 1973, che racconta di una Zurigo in cui tutti gli esseri umani sono scomparsi, narratore a parte). Ma da ultimo questa opportunità ha inedite e più ardite espressioni, come quella della ragazza uccisa che ancora parla e agisce in un bellissimo, recente romanzo di Åsa Larsson, Finché sarà passata la tua ira (Marsilio, 2010). Sembra che il romanzo abbia bisogno di maggiore ossigeno e non possa più accontentarsi di restare dentro i limiti del reale, anche quando di per sé non li vorrebbe trascurare (come capita invece nei racconti di fantascienza), trovando un’inedita mistura di realismo e immaginazione che unisce le due tradizionali e parallele corsie del romanzo: il romance, manifestazione di libere fantasie, autorizzato a inventare quello che vuole (tipo Mago di Oz, per intenderci), e il novel, costretto a fare i conti con i parametri della realtà. In questo senso, il romanzo di Murakami è un bell’esempio di un meticciato narrativo degno dell’epoca della letteratura globale. ■ vittorio.coletti@lettere.unige.it V. Coletti insegna storia della lingua italiana all’Università di Genova

Vicino al cuore di

Gaia Maria Follaco

Ito Ogawa LA CENA DEGLI ADDII ed. orig. 2011, trad. dal giapponese di Gianluca Coci, pp. 168, € 14,50, Neri Pozza, Vicenza 2012 el Ristorante dell’amore ritrovato (Neri Pozza, 2010), romanzo che le è valso il Premio Bancarella della cucina 2011, Ito Ogawa ha deliziato i lettori italiani con una storia di rinascita attraverso il cibo, in cui la protagonista riguadagnava il senso dell’esistenza e il gusto della vita insieme ai bizzarri personaggi che frequentavano il suo ristorante. Il potere salvifico del cibo è anche fra i temi principali del nuovo libro di Ogawa, La cena degli addii, una collezione di sette racconti che vedono altrettanti protagonisti alle prese con il carico di emozioni, delusioni, speranze e sofferenze che ciascuno porta dentro di sé. In queste storie la cucina, quella sofisticata dei ristoranti come quella semplice di una madre o di una figlia, produce un intreccio di suggestioni intorno al quale si sviluppano le singole narrazioni, frammenti minimi di esistenza che durano giusto il tempo di un pasto. Il cibo evoca ricordi e sensazioni; prolunga attese e aspettative, allontana lo spettro di una separazione, genera l’illusione di legami indissolubili e persino capaci di resistere alla morte. Con la sua scrittura lieve e divertente, schietta e malinconica, Ito Ogawa racconta l’intesa speciale di una nipote con la nonna morente attraverso una granita a forma di monte Fuji, e il timoroso sbocciare di una promessa, nell’aria agrodolce di un ristorante cinese a Yokohama. Al fumo che si leva da un tegame per il sukiyaki si sovrappone il vapore di una vasca da bagno

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ormai vuota, a decretare la dolorosa separazione di una donna dall’uomo della sua vita, ma anche a donarle la certezza di essere stata amata. Nella storia più toccante, il rito quotidiano della preparazione della zuppa di miso è il segno di un amore reciproco tra padre e figlia, vissuto nel ricordo inestinguibile di una moglie e di una madre scomparsa troppo presto. Nella poetica di Ogawa il cibo costituisce un mezzo, uno strumento, un luogo di passaggio, ma è tutt’altro che mera funzione narrativa. È l’espressione concreta di un mondo di emozioni e istinti intimo e condiviso, ne è l’eco tangibile, capace di superare i limiti imposti dal rigore della mente. È ciò che li mette davvero in comunicazione gli uni con gli altri. Da un paio di decenni a questa parte, la cucina e la gastronomia hanno acquisito sempre maggiore spazio nella narrativa (giapponese e non solo), ma pochi autori riescono a descrivere come Ito Ogawa il sapore, l’odore e persino la consistenza dei singoli alimenti, per poi accostarli con naturalezza alla sfera emotiva. Vicino al cuore più che alla ragione, il senso del cibo resiste al decadimento di quest’ultima, come per l’anziana donna che celebra in un caffè il tredicesimo anniversario della morte del marito credendolo ancora al proprio fianco, in un crescendo struggente e insieme ironico che non può lasciare indifferenti. Complici la narrazione in prima persona e il tempo presente, flusso immediato dei pensieri dei personaggi, si azzerano le distanze anche sulla carta e il lettore partecipa alle vicende raccontate, portando a compimento la vocazione di queste storie e l’augurio rivoltogli dall’autrice: “Spero tu possa sentire un certo tepore diffondersi lì, tra lo stomaco e il cuore”.

Avanzo di galera delle utopie di Silvio

Charles Simic IL MOSTRO AMA IL SUO LABIRINTO TACCUINI ed. orig. 2008, trad. dall’inglese di Adriana Bottini, pp. 149, € 12, Adelphi, Milano 2012

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uando ho visto in libreria il nuovo libro di Charles Simic mi è subito venuta l’acquolina in bocca. Mi sono immaginato di passare alcune ore con i suoi pensieri fatti di poche parole, e ho pregustato la delizia. Ironia, metafisica trovata nella quotidianità, sradicamento che ha trovato un ubi consistam nella città-cosmo di New York, prosa che si avvicina alla poesia e viceversa, amore per la bellezza femminile, sono solo alcune delle cose che ho pensato di trovare in Il mostro ama il suo labirinto. Il sottotitolo del libro indica come uno stemma formale che i testi raccolti provengono dai taccuini del poeta. Si tratta infatti di uno zibaldone mobile ed errante, conciso e vasto allo stesso tempo. Diviso silenziosamente in cinque parti, gli occhi lo attraversano voraci, abbandonandosi alle connessioni inusuali e ai ricordi. Simic è nato a Belgrado nel 1938; dall’inizio degli anni cinquanta vive in America. È un esi-

Perrella liato che è stato accolto nella lingua di chi lo ospita. Tutto il sedimento geografico dell’origine Simic sembra averlo sciolto (o forse nascosto) in una lingua luminosa e a tratti ilare. In ciò deve aver contato la sua attività di traduttore. Ha trasportato nella lingua d’arrivo poeti serbi, croati, macedoni e sloveni, oltre che francesi. Simic è un camminatore urbano; ha uno sguardo in cui precisione e ambiguità convivono. Se c’è da descrivere un fantasma, si tratti dei genitori o di altre figure, non si tira indietro: “Ed eccoti, babbo, con i capelli bianchi, la camicia bianca, i calzoni bianchi, tutto solo nella calura meridiana in una via di palazzi bianchi e nessuno in vista, tranne un tipo smarrito come me, troppo spaventato dai fantasmi per chiedere la strada”. Eccolo dunque smarrito e spaventato, ma non così tanto da non saper attingere alla linfa della lingua. D’altronde in questi taccuini il primo spettacolo è quello di mettere molto mondo in poche parole, di usare la concentrazione dell’aforisma non per moraleggiare, bensì per stringere attorno alle immagini una rete stretta di pensieri. “La mia aspirazione – scrive Simic – è di creare un non-genere fatto di narrativa, autobiografia, saggistica, poesia e, naturalmente, pochade!”. Il punto esclamativo finale va letto come un sorriso,

una smorfia facciale che allude all’impossibilità di essere mai del tutto seri. Chi scrive si allena all’inusuale: “Vedere ciò che è familiare con occhi nuovi, idea quintessenziale dell’arte e della letteratura moderne, per l’esule e l’immigrato è un’esperienza quotidiana”. Inoltre, se la lingua è almeno doppia ecco cosa succede: “Essere bilingui è rendersi conto che il nome e la cosa non sono intrinsecamente collocati. A volte succede di ritrovarsi in un buco nero tra due lingue. A me capita oggi, quando parlo in serbo, che non è più la mia lingua. Parto aspettandomi di trovare una parola, so che lì ce n’era una, una volta, e invece trovo un buco e un silenzio”. All’esule e all’immigrato quel vuoto può anche manifestarsi come disorientamento urbano: la mappa della città natale si sovrappone a quella della città abitata ora, e può capitare che nessuna delle due sia utile per continuare a camminare: si apre un vuoto e si rischia di sprofondarci dentro. Ma Simic afferma: “Il senso di me che esisto viene prima di tutto. Poi vengono le immagini e poi la lingua”. Ecco, è forse in questo senso così pieno di esistere a prescindere da tutto che il poeta ex serbo ha trovato l’àncora a cui fissarsi quando la Storia lo sballottollava da lì a qui. Considerandosi peraltro un “avanzo di galera di tutte le Utopie, di tutti i Paradisi terrestri che siano mai stati immaginati”. ■ silvioperrella@libero.it S. Perrella è saggista


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Classici In nuova traduzione Escalation d’odio di Elisabetta

Robert Louis Stevenson IL MASTER DI BALLANTRAE ill. di William B. Hole, ed. orig. 1889, a cura di Simone Barillari, pp. 318, € 18, Nutrimenti, Roma 2012

Q

ual è la maggior colpa di James Durie, il Master di Ballantrae? Mackellar, fido servitore di Lord Durrisdeer, elenca quattro aspetti della sua diabolica personalità: ostilità verso il fratello Henry, esclusiva ricerca del proprio tornaconto, “pura e semplice delizia nell’essere crudele, come si riscontra a volte nei gatti, e attribuita dai teologi al demonio”, o infine ciò che James avrebbe non meglio definito come “amore”. La vera colpa del Master di Ballantrae (in una lettera ad Adelaide Boodle, Robert Louis Stevenson spiega che si deve pronunciare Ballan-tray) è forse invece quella di essere un recidivo revenant, di avere insomma non solo la pessima abitudine di tornare dal mondo dei (presunti) morti, ma anche e soprattutto la pretesa di poter far ritorno a casa. Narrato dalle voci di quella “vecchia zitella” di Mackellar e del poco credibile colonnello irlandese Burke, il dramma della discendenza di Lord Durrisdeer si apre nel 1745 nella sala di una magione scozzese, con il lancio in aria di una moneta che deciderà quale dei suoi due figli dovrà partire per sostenere la causa di Charles Edward Stuart, young pretender al trono d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, e quale resterà affianco al re Giorgio II, Hannover. Secondo la tradizione, a partire sarebbe dovuto essere il cadetto, il buon Henry, ma il caso decreterà che a sostenere la Jacobite rising sarà invece il figlio più amato, lo scapestrato primogenito James, il Master, termine che nell’araldica scozzese indica l’erede al titolo nobiliare sia apparente che presunto. James Durie spera di trarre vantaggi economici e personali nell’impresa, e lascia a cuor leggero il padre, il fratello (che chiama con disprezzo Giacobbe) e Alison, la promessa sposa, cosciente che, se la sua missione dovesse fallire, il titolo di Lord Durrisdeer passerebbe a Henry. Per la sua avventura “Bonnie Prince Charlie” (nato e morto a Roma, 1720-1788) poteva contare su molti clan tra gli Highlanders e sul supporto degli irlandesi che, con la sua vittoria, credevano di liberarsi dal giogo inglese, ma la storia ebbe il suo corso e nel 1746 le truppe giacobine vennero sterminate nella battaglia di Culloden. Il Master di Ballantrae viene dato per morto, e il titolo passa all’infelice Henry. In realtà, con l’aiuto

D’Erme

del colonnello Burke, James è fuggito e si è unito a dei pirati, ai quali ha sottratto con l’inganno e il delitto un tesoro, che ha poi nascosto sui monti in America. Ora è a Parigi da dove reclama la sua parte di beni di famiglia. Henry, sconvolto dalla notizia e a costo di ridurre i Durrisdeer sul lastrico, gli invia quanto chiede, ma al Master di Ballantrae non basta mai. Tanto che un (bel) giorno torna di persona a reclamare il resto, compresi l’affetto del padre e l’amore di Alison. La bella edizione del Master di Ballantrae curata da Simone Barillari per Nutrimenti riporta in appendice una sorta di work in progress del capolavoro di Robert Louis Stevenson (Edimburgo 1850 - Samoa 1894), proponendo alcuni brani da The Art of Writing e una selezione della sua corrispondenza nei mesi durante i quali stava creando il romanzo. Ancora più felice è la scelta di pubblicare anche il Prologo di Stevenson che, inspiegabilmente, non appare in altre traduzioni italiane e che, essendo una riflessione sul “ritorno”, fornisce un’interessante chiave di lettura dei tragici eventi narrati nel testo. L’irrequietezza e la tubercolosi avevano infatti trasformato l’autore dell’Isola del Tesoro in un vagabondo bohémien che, minato dalla malattia, sarebbe morto a soli quarantaquattro anni nei mari del Sud, quanto più lontano fosse possibile immaginare dalla nativa Edimburgo: “Anche se da lungo tempo vive in volontario esilio, il curatore delle pagine che seguono torna ogni tanto nella città in cui è fiero di essere nato, e poche cose sono più strane, più dolorose o salutari di queste visite” scrive Stevenson nel Prologo, e prosegue: “All’estero (…) suscita sempre più sorpresa e attenzione di quanta si sarebbe mai aspettato. Nella sua città avviene il contrario, e si stupisce di quanti pochi ricordi rimangano di lui. (…) Altrove si rianima nel vedere tante facce cordiali (…) lì esplora le lunghe strade, con il cuore in mano, in cerca di volti e amici che non ci sono più. Altrove si diletta della presenza delle cose nuove; lì si tormenta dell’assenza di quelle vecchie. Altrove è soddisfatto di quel che è; lì è divorato dal duplice rimpianto di quel che era allora, e di quel che avrebbe sperato di essere”. Parole che potrebbero ben esprimere i sentimenti di James Durrie al momento del suo ritorno nella magione di Durrisdeer, che si concluderà con un duello con il fratello Henry, che gli sarà quasi fatale. Il suo corpo mortalmente ferito viene abbandonato in un boschetto, ma quando Lord Durrisdeer e il fido Mackellar vanno a esaminarne la salma trovano solo una pozza di sangue. Anche questa volta

Henry pensa di essersi liberato del “nemico fratello”, ma il pensiero che lui stesso ne abbia causato la morte lo porta a perdere progressivamente la ragione. Il Master di Ballantrae è stato invece salvato dai contrabbandieri e, una volta sanate le ferite infertegli dal fratello, si imbarca per l’India dove vive con il fedele Secundra Dass, ma non per molto, perché un rovescio di fortuna lo spinge verso “casa”, per ripresentarsi a Durrisdeer, con “lo splendore di Satana” in compagnia dell’amico indiano. Ora per Henry, che è padre di un nuovo discendente al titolo, la priorità è salvare la propria famiglia dalla malvagità del fratello e con il favore della notte ne organizza il trasferimento a New York. Durrisdeer è lasciata alle cure di Mackellar che dovrà gestire anche la rabbia del Master, che non impiegherà molto a scoprire dove sono fuggiti Henry, Alison e i loro figli. Iniziato da Robert Louis Stevenson nel dicembre del 1887 sul lago Saranac, nello stato di New York, The Master of Ballantrae verrà terminato due anni dopo, a bordo dello yacht Casco, nei mari della Polinesia. Sempre percorse da una sottile ironia, le pagine del romanzo vivono di questi grandi spostamenti per mare e per terra, fra le antiche tradizioni scozzesi, l’esotismo dell’Oriente e le promesse del Nuovo mondo. Un romanzo in cui Stevenson porta alle estreme conseguenze le sue ossessioni sul doppio, l’antagonista interno, l’alter ego del quale non ci si può liberare. Se nello Strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde l’eterno conflitto tra bene e male si esprimeva nella scissione schizofrenica di una stessa persona, nel Master of Ballantrae ci troviamo di fronte a una moltiplicazione del Doppelgänger, perché il conflitto dilaniante – così ben descritto da Jekyll – lacera l’animo di entrambi i fratelli, che solo a una lettura superficiale possono essere catalogati come uno “buono” e l’altro “cattivo”. “Per quanto così doppio nell’intimo, non ero in alcun modo un ipocrita. I due lati del mio carattere coesistevano in perfetta buona fede; e quando abbandonavo ogni ritegno per tuffarmi nell’infamia, ero altrettanto me stesso di quando, alla luce del giorno, m’affaticavo per il progresso della scienza e il bene del prossimo” annota Jekyll nel suo memoriale, e il tourbillon degli avvenimenti che chiude in maniera quasi surreale The Master of Ballantrae mostra che la latenza del male è più diffusa di quanto sia possibile immaginare: la nobiltà d’animo vive al confine dell’abiezione, l’amore ai limiti dell’odio. Lo sviluppo della vicenda mostrerà inaspettati lati benevoli di James, ma anche gli istinti decisamente meno “nobili” di Henry (che era evidentemente riuscito a reprimere fino a quando non erano stati liberati dalla follia), per arrivare a un’escalation di odio, che porterà al loro rispettivo annientamento nella wilderness dell’entroterra americano. ■ dermowitz@libero.it E. D’Erme è studiosa di letteratura irlandese e tedesca

Senza pace di Anna

Maria Scaiola

Henri Michaux PASSAGGI ed. orig. 1950-1963, trad. dal francese di Bona de Mandiargues e Ivos Margoni, pp. 194, € 14, Adelphi, Milano 2012

“S

copriamo Henri Michaux”, esortava André Gide nel 1941, quando quel sorprendente poeta belga (18991984) era lontano dall’essere consacrato nella collana della “Pléiade” di Gallimard, che lo ha accolto solo nel 1998. Medico mancato ossessionato dalla malattia, marinaio e infaticabile viaggiatore, si trasferisce venticinquenne a Parigi, dove frequenta i surrealisti e Klee, Ernst, De Chirico: la sua prima mostra da pittore è del 1937. Contro un reale opaco e la chiusura del pensiero controllato, Michaux farà uso sperimentale di droga, esplorando gli spazi dilatati e allucinati dell’immaginario, in una ricerca avventurosa di conoscenza delle profondità interiori. Passages (1950; rivista e aumentata 1963), ora in un’eccellente traduzione italiana, raccoglie scritti eterogenei scanditi da titoli disparati e al loro interno da spazi bianchi, ma montati in un’unità organizzata: “L’opera è un insieme di itinerari, un percorso a linee spezzate”. Passaggi, allora, come rapidi attraversamenti, modulazioni musicali, movimenti di transizione: in un intenso esercizio sensoriale (visivo, olfattivo, acustico), si inseguono riflessioni su pittura e gestualità, sulla scrittura ideografica e sulla musica, considerazioni sul tempo, appunti di lettura, osservazioni critiche, citazioni, note biografiche e sulla propria poesia, massime, aforismi, racconti di aneddoti, di un sogno e di una materializzazione per magia o energia psichica concentrata, favole di animali, una fiaba con fate. Avverte l’epigrafe di non cercare sistematicità in un’opera disarticolata che sfugge all’uniformità, anche nella misura disuguale dei capitoli, e privilegia il frammento, l’invenzione linguistica in equilibrio instabile tra prosa e poesia: “Cosa c’è di peggio dell’essere compiuti?”. In Idee scorciatoie l’io ausculta il battito sordo di un dannato organo senza vigore: “E questo sarebbe il mio cuore? Questa pompa senza slancio, senza mordente?”, e per cronica stanchezza l’io si distacca dalle cose. Riuscire a svegliarsi è una fatica, se la notte ha devitalizzato il corpo in una massa brancolante di membra sparse da riassestare per erigere l’edificio di ossa. La microstoria del pompiere che per un’esplosione prova l’ebbrezza del volo si intreccia a ricordi di viaggio, a recriminazioni con ironia sui massacri della guerra (“Perché gli uomini stiano in pace, bisogna trovargli un nemico”) e sui nuovi esplosivi

(“Glorioso destino dell’imbecille: è capace di tagliare il ramo che lo sorregge”), sui farmaci capaci di cambiare l’umore e sul senso incerto delle voci di un dizionario. Un fantatecnologico “cerebrometro” potrebbe misurare la potenza ignota del cervello, o un futuribile convertitore delle voci consentirebbe di parlare con gli animali: cani inebriati dagli odori, lupe che allevano e “inlupano” bambini, cavalli drogati, levrieri guerci, ragni stecchiti, uccelli musicanti e, ancora, mosche laboriose, gatti selvatici, api abili, vespe perlustratrici, tigri seduttrici, rinoceronti lanosi, cigni regali e ringhiosi, topi nascosti, o assimilati a parole già catturate da altri nella trappola del linguaggio convenzionale. Solo i Bambini possiedono il privilegio dell’ignoranza e la curiosità di porre domande, ma: “È di risposte che muore l’uomo”. Il registro dell’invettiva, della maledizione, dell’imprecazione colpisce chi ha tendenza al buono caritatevole, i vecchi che ricattano i giovani, i ricchi che hanno paura dei poveri volgari e fetidi, gli imbecilli che assennatamente concludono di non essere tali. L’io insofferente è esasperato anche dalla perenne giocondità dei ruscelli e dall’urlo implacabile del vento, ma il mare e certe montagne “massaggiano” i muscoli mentali. I poeti viaggiano, senza essere posseduti dallo spostamento: basta loro “una rima per spianare una montagna, un aggettivo per popolare un paese, un’assonanza per ribaltare la Terra intera”. E si “passa” da un’attività creatrice all’altra: Pensando al fenomeno della pittura fa emergere sulla carta quasi in modo automatico una folla di volti, disegnati o ritratti; irritanti persino i Volti di ragazze e la variabile provvisorietà della bellezza; la nuova scuola del Fantasmismo dipinge i tratti e i colori del doppio, estrae l’anima dell’individuo, facendo affiorare sulla fisionomia lo spettacolo di sentimenti ed emozioni in formazione, e l’io straniato confessa di conoscere poco il proprio volto perduto, non più abitato. Se i fogli assorbono i colori con avidità e si stendono, specie il rosso, per gridare infelicità e disperazione, il gioco poetico con i suoni, le rime, si accompagna all’incontro con la malinconia, al corpo a corpo con il pianoforte (“Mi ci butto, mi ci avvento sopra”). La musica, arte divina del desiderio, dell’amore, dell’espansione, del puro slancio, libera dal peso delle cose, dall’insopportabile solidità del mondo. Per Michaux, l’avventura dell’essere vivi è appunto “dipingere, comporre, scrivere: percorrermi”. Preservando il contatto con la zona turbata, ingarbugliata, e mai placata di sé. ■ anscai@tin.it A.M. Scaiola insegna lingua e letteratura francese all’Università “La Sapienza” di Roma


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Sport

Questa prosa è come un rap di Federico

Gianni Brera L’ANTICAVALLO SULLE STRADE DEL TOUR DEL ’49 E DEL GIRO DEL ’76 pp. 224, € 16, Book Time, Milano 2012

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l volume, l’undicesimo della collana “I libri di Gianni Brera”, raccoglie le corrispondenze dal Tour de France del 1949 e dal Giro d’Italia del 1976 comparse sulla “Gazzetta dello Sport”, il primo e l’ultimo dei giri seguiti da Brera; l’uno (il Tour del ’49) indimenticato, forse l’acme di Bartali-Coppi, l’altro meno memorabile, l’ultimo vinto da Gimondi, che chiuse un decennio Mercx-Gimondi (cinque giri al Belga, tre a “Nuvola Rossa”, il soprannome con cui Brera chiamava Gimondi). Del Tour del ’49 mancano le descrizioni delle due decisive tappe alpine (e, della mancanza, non ho trovato la spiegazione nel libro). Fra i due, grandi cambiamenti: nel ’49 le salite maggiori sono ancora sterrate, le forature e le cadute frequenti, la polvere impone spesso ai corridori occhiali con montature di caucciù come la visiera antisole di Perec. I dis-

Enriques tacchi si misurano ancora in minuti e mezze ore (nel Giro del ’76 i primi cinque furono racchiusi, alla fine, in 90 secondi). Molto è rimasto uguale: il doping strisciante e i comportamenti ai confini fra tattica di squadra, combine e solidarietà sindacale dei corridori, che Brera riferisce senza moralismi. Bellissimo il quadro di una tappa di avvicinamento ai Pirenei: una fuga, il nostro Biagioni che non collabora perché ha i capitani dietro, i compagni di fuga che, ciò nonostante, gli passano un po’ d’acqua, Biagioni che rinuncia alla volata. Cambia, migliora anche l’autore: nel 1976 evita le cadute nella cattiva letteratura del 1949 (“Un sole scialbo tenta di farsi largo in un cielo imbronciato e grigio)” né “sfora” nella retorica (“Pensi spontaneo … esaltarti con lui, che, grandissimo e ineguagliabile campione, è almeno, come te, italiano”). La cifra stilistica di Brera è però costante: parole ricercate (“agrore”, “prosapia”, “rezzo”, “scombuiato”, “someggiare”); parole create e poi entrate nel ciclistese, come “soprassella” (“Mia volgarissima

invenzione di comodo: in un’antologia per le scuole medie spiega una nota che ‘trattasi di accessorio ciclistico’”); costrutti sintattici mai monocordi, forme verbali – mai o quasi al congiuntivo – rare, specie in una penna settentrionale (“Quando ebbe bucato”). Le citazioni meriterebbero un approfondimento a sé: cultura classica, da Tersite ai Paralipomeni della Batracomiomachia, e moderna (la cattedrale di Rouen amata da Flaubert, il “Gotico americano” dell’Art Institute di Chicago, il Buzzati pittore delle Dolomiti), altri sport, come, oltre al calcio, la molto amata atletica. Ci sono tanti nomi, in questi articoli, di corridori (spesso elencati a modo di omerico catalogo delle navi), di suiveurs, di amici appartenenti ai mondi più vari: in una tappa lacustre si affacciano alla finestra i coniugi Missoni, non si sa se evocati per il presente modaiolo o per il passato di atleti. Non si capisce tutto, oggi, e forse non lo si capiva allora: ma questa prosa è come un rap o un testo in grammelot: la musicalità volutamente prevale sulla comprensibilità. Anche i molti numeri (distacchi, medie, quote dei colli puntigliosamente indicate) raggiungono un effetto musicale, come nel Don Giovanni o in una canzone di Celentano. L’Anticavallo è una macchina leonardesca, ricordata in una delle corrispondenze del 1976. E il titolo ben scolpisce con una parola sola l’assunto storico-sociologico del libro: la bicicletta, nella prima metà del Novecento, ha consentito ai contadini della pianura una liberazione, una libertà di movimento prima appannaggio solo dei signori e dei loro cavalli. Con l’avvento dello scooter e dell’auto, il ruolo sociale della bici si riduce. Ma Brera intuisce il ruolo che il mezzo sta per assumere: vede nel Giro una pratica sfida agli sceicchi. La bicicletta, dunque, è mezzo per spostarsi in pianura. A ben vedere, per quest’uomo nato ai bordi del basso Ticino, vicino alla confluenza nel Po, le montagne e le salite sono accidente, non sostanza. Forse per questo nel racconto del Tour del ’49 sono scomparsi l’Izoard, l’Isère e il Piccolo San Bernardo (che, a salirlo in bicicletta, tutto è tranne che piccolo). Concludo ricordando una pagina geniale, che da sola vale il libro: l’intuizione che la struttura fisica di Coppi, un po’ sgraziata vista a sé, costituiva un perfetto adattamento alla forma della bicicletta: non l’Uomo centro e misura dell’Universo, ma la Bicicletta. Un’intuizione ulteriormente avvalorata dalla visione, “in macchina”, del Coppi di oggi, Wiggins, che per minimizzare la resistenza dell’aria avanza nelle cronometro con la schiena perfettamente orizzontale, come un pesce nell’acqua: per fortuna le sue basette ci ricordano che l’uomo c’è ancora. ■ fenriques.casa@virgilio.it F. Enriques è stato direttore generale della casa editrice Zanichelli

L’esperienza e la parola di Vladimiro

David Foster Wallace IL TENNIS COME ESPERIENZA RELIGIOSA ed. orig. 1996-2006, trad. dall’inglese di Giovanna Granato, pp. 89, € 10, Einaudi, Torino 2012

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ualcuno ha affermato che gli scacchi sono la forma di competizione più violenta. Altri hanno dimostrato come la boxe, a sua volta, faccia sperimentare al pugile un’esperienza di solitudine estrema, negli intervalli fra colpi che durano meno di un lampo. A ragione David Foster Wallace considerava il tennis un ibrido tra pugilato e scacchi con addizionata, aggiungerei, una crudeltà supplementare. Il tennis, infatti, non consente patte o no contest, ma solo vittoria o sconfitta, estasi o notte dell’anima. Allora che attinenza può avere con l’esperienza religiosa un gioco apparentemente risolto nell’agnosticismo di angoli, traiettorie e punti, nell’immanenza di pensiero strategico e pagana esaltazione atletica? Nessuna, rispondono la percezione e il senso comune. Più di un punto di contatto, replica invece Wallace, che fu anche juniores di buon livello. Un praticante a tal punto imbevuto (o segnato?) dallo spirito del tennis da eleggerlo a nucleo radiante di ben cinque saggi, apparsi su rivista ma non per ciò occasionali. Anzi, proprio l’originaria destinazione a un periodico propizia la riuscita assoluta dei reportage che si spartiscono il libro: Democrazia e bellezza agli US Open e Federer come esperienza religiosa. Per entrambi i testi, il genere di pubblico, la misura e il taglio predefiniti dal medium (il magazine del “New York Times”), lungi dal funzionare come fattori limitativi, cooperano nel portare a nitore la scrittura di Wallace, che ha modo di illuminarsi dall’interno come un solitario non più incastonato nella montatura ultra-concettuale di grandi narrazioni come Infinite Jest. Non avrebbe senso, però, contrapporre la lucentezza dei reportage all’elaborata articolazione delle opere narrative di Wallace. I due pezzi su rivista costituiscono, semmai, il bagliore di superficie che affiora dal mare magnum di Infinite Jest e lo presuppone. Ne presuppone, in particolare, alcune intuizioni di fondo: 1) nel tennis il vero avversario con cui il giocatore si misura non è quell’ombra mobile e intoccabile che lo fronteggia, ma se stesso: è contro il limite del proprio io che si compete; 2) nel tennis, in particolare quello super-veloce dei top player, il gioco è finalizzato ad aprire una breccia nei limiti del campione. Ciò avviene

Bottone

attraverso la feroce ripetizione dei medesimi colpi in allenamento, finché essi non siano incorporati all’interno degli schemi corporei, saltando la mediazione della mente. Non per nulla il vocabolo “ascesi” deriva dal greco àskesis, il cui significato è nient’altro che “esercizio”; 3) effetto di questa autentica ascesi del campione è il varcare le frontiere del sé cosciente per “scomparire dentro il proprio gioco”; 4) questa condizione di trascendimento del proprio limite libera il giocatore dall’intervento consapevole del pensiero, proiettandolo in una condizione di vuoto mentale e rarefazione del tempo assoluti e indicibili; 5) ecco il motivo per cui Federer, o qualsiasi altro campione, non riusciranno mai a verbalizzare ciò che hanno sperimentato durante il match (al proposito ricordo una praticamente afasica comparsa di Rafa Nadal al David Letterman Show); 6) ne deriva che l’inaudita bellezza del loro gesto, in cui Federer o Nadal sono alla lettera immersi, può essere descritta solo dall’esterno. Proprio come la trance “oltre le parole” di un mistico può essere rappresentata solo da uno spettatore-testimone. Ecco, dunque, che lo sport la cui formula si ridurrebbe a “matematica + geometria”, secondo il padre di André Agassi, si lascia inaspettatamente tradurre nel vocabolario dell’esperienza religiosa. Esperienza che, dal lato del giocatore, prevede ascesi, lotta con l’io e suo trascendimento, indicibilità.

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entre, sul versante dello spettatore, implica l’incontro con una forma incondizionata di bellezza. Bellezza mozzafiato (diecimila respiri trattenuti durante uno scambio al cardiopalmo, risolto da un colpo sottratto alle leggi della fisica). Bellezza assoluta. Bellezza e assoluto. L’assoluto che manifesta le sue epifanie nel mondo dei fenomeni fisici. Nel suono elastico di una pallina che rimbalza sull’incordatura; nel fruscio di una traiettoria sulla riga; in una volée che si disegna nell’aria e sulla retina prima ancora che il giocatore protenda il braccio. P.S. Pur avendo avuto anch’io dei “momenti Federer”, come li chiama Wallace, non posso che dichiarare una maggiore empatia verso Nadal. Federer e consimili (Mozart, Raffaello ecc.) hanno un che di sovrannaturale e di suprema naturalezza che li rende olimpici e, dunque, inumani. Perciò simpatizzo per Rafa Nadal e la sua faccia da studente dell’Istituto nautico. Per il suo tic, fin troppo umano, di accomodarsi immancabilmente gli slip prima del servizio. ■ v_bottone@yahoo.it V. Bottone è romanziere e saggista


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Società La leadership nazionale che manca di Alessandro

Carlo Trigilia NON C’È NORD SENZA SUD PERCHÉ LA CRESCITA DELL’ITALIA SI DECIDE NEL MEZZOGIORNO pp. 155, € 10, il Mulino, Bologna 2012

L’

anno scorso, nella ricorrenza del 150° dall’unità, si è parlato piuttosto poco del Mezzogiorno. Lo aveva fatto il presidente Napoletano nel discorso che aveva dato il via alle celebrazioni, ma poi il tema era scivolato in secondo piano, a parte due bei libri, uno di Salvatore Lupo (L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile, Donzelli, 2011) e l’altro di Paolo Macry (L’Unità e il Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo insieme i pezzi, il Mulino, 2012). Forse non se ne è parlato tanto per pudore. Quando si celebra l’unità è sconveniente ricordare che un secolo e mezzo non è bastato per cucire la frattura che da allora divide il paese. Forse l’errore risale proprio agli inizi, quando si è incominciato a parlare della “questione meridionale” e i piemontesi hanno mandato le truppe a sedare le rivolte dei contadini sanfedisti, mentre fin da allora bisognava riconoscere che si trattava di una vera e propria “questione nazionale”. Sulla “questione” è stato scritto tanto, sia in Italia sia anche fuori. Storici, economisti, antropologi, sociologi, politologi e tanti altri avranno ancora molto da fare, non solo sul passato, ma sul presente e futuro, visto che la controversia non accenna a finire. È da poco uscito l’ultimo lavoro di Carlo Trigilia, Non c’è Nord senza Sud. Perché la crescita dell’Italia si decide nel Mezzogiorno. Il titolo enuncia chiaramente la tesi: se il paese vuole uscire da vent’anni di quasi stagnazione deve porsi il problema di far ripartire lo sviluppo nel Mezzogiorno poiché anche il Nord soffre del mancato sviluppo della parte meridionale del paese. Sono decenni che Trigilia si occupa di questi problemi, ma mai così chiaramente come in questo libretto formula la tesi che si tratta non di una ma della “questione nazionale”. La letteratura pullula di interpretazioni economiciste: sia di ispirazione meridionalista (che vedono il Sud vittima della scarsa generosità, se non proprio dello sfruttamento, da parte del resto del paese e soprattutto del Nord), sia di ispirazione nordista (che attribuiscono al Sud la causa della pressione fiscale, del debito pubblico, dell’inefficienza della pubblica amministrazione, insomma, una “palla al piede” che impedisce lo sviluppo del paese). Se non vengono usate come armi ideologiche nella lotta politica, queste interpretazioni, soprattutto nelle loro formulazioni scientificamente più sobrie, contengono comunque

Cavalli

una parte di verità. Ma una parte soltanto, anche perché l’economia non spiega tutto, neppure i propri successi e i propri fallimenti. Trigilia da il giusto peso alle spiegazioni culturalistiche che erano già presenti nella più antica letteratura meridionalista e che sono state rilanciate dalle classiche ricerche di Banfield e di Putnam sul capitale sociale. Che, oltre a diversi gradini di Pil, ci sia anche un divario di mentalità, lo hanno ampiamente accertato numerose ricerche empiriche. Il familismo, la sfiducia negli altri e nelle istituzioni, le difficoltà ad associarsi e a cooperare sono presenti anche al Nord, è innegabile, ma al Sud lo sono molto di più. E tuttavia, avverte Trigilia, bisogna stare attenti ad attribuire ai fattori culturali un peso eccessivo nella spiegazione dell’arretratezza; nel complesso gioco dei nessi causali non si riesce mai a stabilire con nettezza in che misura gli atteggiamenti e le mentalità siano cause o conseguenze, anche perché sono sicuramente entrambe. E poi, spiegazioni in termini di mentalità inducono alla rassegnazione, perché la testa, si sa, è difficile da cambiare. Trigilia non abbandona le spiegazioni economiciste e culturaliste, ma ritiene che debbano essere integrate in un modello che attribuisca un peso preponderante alle responsabilità politiche, locali e nazionali. Il clientelismo, l’assistenzialismo, la corruzione sono malattie che si diffondono quando la classe politica è priva di un disegno strategico che vada al di là dell’acquisizione di consenso di breve periodo. La diffusione del welfare, ad esempio, è stata un’occasione che la classe politica locale e regionale non si è lasciata sfuggire per gonfiare l’amministrazione pubblica, per sovvenzionare clientelarmente un settore privato dipendente dalla spesa pubblica e non dal mercato, lasciando anche spazio alla criminalità organizzata. Le cose avrebbero potuto andare diversamente e potrebbero anche andare diversamente in futuro se la politica fosse in grado di pensare a uno sviluppo capace di valorizzare, su scala nazionale, europea e globale, le risorse e le opportunità di cui la società meridionale non è affatto priva. Tre sono i suggerimenti di Trigilia. Il primo settore da sviluppare è quello dei beni culturali e ambientali, il secondo quello dell’agricoltura specializzata e dell’industria agro-alimentre che su di essa si

appoggia e, infine, terzo, il settore della ricerca applicata che le grandi università meridionali possono sviluppare in sinergia con il territorio. Per realizzare questi o analoghi obiettivi, non occorrono sovvenzioni, incentivi, ulteriori aggravi della spesa pubblica. Basterebbe che lo stato centrale puntasse a portare i servizi di base (istruzione, sicurezza, giustizia) allo stesso livello delle altre aree del paese e che le classi politiche locali voltassero pagina puntando a favorire coloro che fossero disposti a rimboccarsi le maniche piuttosto che le rendite parassitarie. Sembra poco? In realtà sarebbe una mezza “rivoluzione culturale”. L’autore non ci dice da dove possa venire la spinta a un cambiamento politico di tale portata. Questo non lo si può chiedere a uno studioso e Trigilia, da buon weberiano, si astiene dalle profezie politiche. Su almeno tre operazioni, però, senza abbandonare il terreno dell’analisi, penso concorderebbe anche lui. Primo, il Mezzogiorni in primis e poi tutto il paese deve scommettere sull’esistenza di un Mezzogiorno “virtuoso” sul quale fare affidamento per “voltare pagina”; ci sono segnali incoraggianti, ma è incerto se siano sufficienti. Secondo, il Mezzogiorno deve sbarazzarsi di pezzi consistenti della classe politica che lo ha rappresentato negli ultimi decenni sia in sede locale sia in sede nazionale. Terzo, l’operazione è destinata al fallimento se le classi dirigenti (non solo politiche) del resto del paese non si assumeranno le responsabilità di sostenere egemonicamente le prime due operazioni. C’è forse stata una sola fase nella storia recente del paese in cui un pezzo consistente delle élites del Nord ha preso le redini della questione meridionale facendola diventare

“questione nazionale”. Sono stati gli anni della riforma agraria, della prima Cassa per il Mezzogiorno, con personaggi del calibro di Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni. Da allora l’assistenzialismo clientelare ha preso il sopravvento sullo sviluppo. Tornare quindi a Saraceno, l’esatto contrario degli Umberto Bossi e dei Roberto Maroni, i simboli viventi di una classe dirigente incapace di pensarsi in termini di leadership nazionale. ■ aless_cavalli@hotmail.com A. Cavalli ha insegnato sociologia all’Università di Pavia

Per abitare il non so di Leonardo

Margherita Graglia OMOFOBIA STRUMENTI DI ANALISI E DI INTERVENTO

pp. 286, € 27, Carocci, Roma 2012

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l 17 maggio, giornata mondiale contro l’omofobia, è ormai lontano. Strappare la recensione di questo libro alla contingenza delle date istituzionali, isole di tempo durante le quali è lecito parlare di un argomento perché legittimati dal calendario, potrebbe rivelarsi in più di un senso opportuno. Si farebbe altrimenti torto al libro in sé e al suo prezioso messaggio, che sguscia felicemente da ogni rigida e pietistica retorica della commemorazione e si presenta invece fortemente proiettato non solo sull’oggi, ma anche e soprattutto verso il futuro di una questione così dibattuta, fornendo e avanzando proposte e strumenti di lettura e di comprensione. L’autrice, psicologa e psicoterapeuta, didatta presso il Cis (Centro italiano di sessuologia) e la Fiss (Federazione italiana di sessuologia scientifica), si era già fatta notare per il precedente Psicoterapia e omosessualità (Carocci, 2009), in cui si faceva il punto sui più recenti contributi della ricerca scientifica sul tema e si illustravano le specificità dei pazienti gay e lesbiche, discutendo alcune modalità di intervento terapeutico ed evidenziando il contributo dello psicoterapeuta nella costruzione di un setting inclusivo e dunque il più possibile affrancato da stereotipi e pregiudizi. Si potrebbe immaginare questo secondo volume come un ideale seguito del primo, nel quale, però, viene focalizzato, si direbbe in maniera tematica, il fenomeno dell’omofobia sociale. Inoltre, non tanto di omofobia conviene parlare ma piuttosto di omonegatività: termine-ombrello che copre tanto il complesso di stereotipi e pregiudizi relativi all’omosessualità a danno di gay e lesbiche quanto anche tutto lo spettro di autosvalutazione che compromette la vita intrapsichica e relazionale di persone omosessuali. La tesi del libro può essere ridotta alla domanda formulata dall’autrice stessa: “Quali aspetti ‘orienta’ l’orientamento sessuale?”. Leggendo si giunge alla risposta: Graglia sembra ritenere che sia quest’ultimo a orientare chiaramente un giudizio sociale e conseguentemente precise politiche sociali. Il libro è diviso in due parti: la prima, non a caso intitolata Ipotesi, presenta informazioni

Spanò

sull’omonegatività da un punto di vista psicologico, sociologico, antropologico ed educativo. È curioso e insieme allarmante il fatto che, sebbene la “questione gay” appaia attualissima nel nostro dibattito nazionale, manchino completamente informazioni accurate che chiariscano le dimensioni coinvolte nel processo di esclusione/inclusione, siano esse di natura individuale, sociale o culturale. La prima parte del libro si propone di colmare, riuscendovi, questo ammanco e costruisce un’utilissima analisi, aggiornata e scientificamente fondata, sul fenomeno dell’“omofobia”, chiarendo radici, motivi e ricorsi di quell’insieme di rappresentazioni culturali, di credenze, di atteggiamenti e di pratiche sociali che invalidano, sviliscono o aggrediscono le identità e i comportamenti non eterosessuali. La seconda parte, Proposte, più dichiaratamente rivolta ai professionisti (formatori, psicologi, psicoterapeuti, sociologi, insegnanti, educatori e operatori sanitari), è volta a illustrare gli strumenti, concettuali e operativi, destinati alla progettazione di interventi di sensibilizzazione ai temi dell’identità sessuale, di decostruzione degli stereotipi e di riduzione dei pregiudizi, presentando linee guida e best practices nazionali e internazionali. L’autrice, con grande acume e competenza, analizza uno spettro di contesti nucleari in cui strategie atte ad attenuare i danni da omonegatività si rivelano importantissime: così, scorrendo di capitolo in capitolo, viene evidenziato il ruolo decisivo svolto da pratiche inclusive nei contesti di crescita (la scuola primaria e secondaria o il mondo dello sport), nei contesti lavorativi (interessante in questo caso lo spazio dedicato alle identità transessuali) o nei contesti sanitari (e l’autrice dedica un notevole paragrafo ai bisogni psicosociali degli anziani Lgbt, acronimo di “lesbiche, gay, bisessuali e transgender”, coniando la definizione di “pazienti invisibili”). Un’ultima, ampia sezione è dedicata al ruolo fondamentale che può avere la formazione: l’autrice, coinvolta in prima persona in questo tipo di lavoro, fornisce importanti spunti su come affrontare questi corsi aperti per lo più a insegnanti e operatori sociali. Nella bella conclusione Graglia non indulge alle retoriche di commiato o a facili quadrature del cerchio ma, ancora una volta, rilancia con un’attitudine tutta volta all’esplorazione e sostenuta dalla curiosità: saper tollerare l’indefinitezza e ciò che ancora non conosciamo, sostiene, sono pratiche che annunciano un futuro meno omonegativo; nessuna “parola che squadra”, per dirla con Montale, ma, semmai, la possibilità di abitare il “non so”. ■ l.spano83@gmail.com L. Spanò è specializzando in psichiatria presso il Policlinico Umbero I di Roma


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Economia Un esercizio di egemonia perfettamente riuscito di Antonio

Luigi Zingales MANIFESTO CAPITALISTA UNA RIVOLUZIONE LIBERALE CONTRO UN’ECONOMIA CORROTTA pp. 406, € 18, Rizzoli, Milano 2012

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o si capisce già dalle prime pagine di Manifesto capitalista, quanto sia profonda la crisi del pensiero neoliberista. Scrive Luigi Zingales come viatico al lungo viaggio che compie in questo libro: “E quando arrivai in America (…) provai l’emozione inebriante di avere ogni obiettivo alla mia portata. Ero finalmente in una nazione in cui i limiti ai miei sogni dipendevano solo dalle mie capacità”. In effetti, non c’è più nulla da dire e da pensare, nessun argomento razionale per difendere il capitalismo americano e i suoi mercati finanziari. Ai neoliberisti non resta che disconoscerlo, affrettarsi a rinnovare la promessa di una riforma del sistema, e riscoprire la “retorica della frontiera”. Molti sostenitori del capitalismo americano, quelli che avevano una coscienza liberale, per quanto incerta, erano preoccupati già da molto tempo. Non occorreva attendere la crisi finanziaria del 2008 per accorgersi di ciò che stava accadendo: “Tra il 1997 e il 2001 ci sono stati cambiamenti nel nostro sistema finanziario che mi hanno profondamente preoccupato” (“The New York Review of Books”, XLIX, n. 3) scriveva con mesto sconforto Felix G. Rohatyin, ambasciatore degli Stati Uniti in Francia e banchiere di lungo corso. Se lo chiedeva nel 2002, riflettendo su ciò che erano diventati i mercati finanziari, non nella loro isterica instabilità, bensì nella loro progettata indecenza. E poco più avanti aggiungeva: “Forse è troppo presto per emettere un giudizio definitivo, ma gli eventi recenti fanno pensare che il nostro sistema di regolazione stia fallendo”. Se lo chiedeva preoccupato, ma anche imbarazzato, ricordando le conferenze che aveva tenuto in Europa per dire della superiorità del capitalismo americano. Non è la crisi finanziaria che esplode nel 2008 a segnare la natura del capitalismo americano, bensì la funzione che in esso assume il sistema finanziario, trasformato in uno strumento di redistribuzione del reddito e della ricchezza alla scala globale: una “macchina sociale” per estrarre valore, per condurre ciò che Luciano Gallino ha recentemente chiamato La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, 2012). L’implosione del sistema finanziario e il salvataggio attraverso l’intervento dei governi nazionali sono stati una tappa annunciata, lungo un percorso ben tracciato, e non una catastrofe inat-

Calafati tesa. Non è la crisi del 2008 a mostrare che cosa era diventato il capitalismo ma, come ha cercato di farci capire Tony Judt (Guasto è il mondo, Laterza, 2012), l’esasperato individualismo e la perdita di ogni misura nelle disuguaglianze sociali che si manifestano sullo sfondo della scolastica neoliberista. Zingales crede di trovare una strategia di difesa proponendo, come primo passo, la tesi di una cesura nella storia recente: con Clinton inizia e con Bush accelera il processo di corruzione del capitalismo americano, di quel “capitalismo popolare” che Reagan aveva delineato per gli Stati Uniti (e per noi tutti). Una storicizzazione necessaria per interpretare le aberrazioni del capitalismo di questi anni come una deviazione recente e temporanea, una “malattia leggera” facile da curare. Ma è una tesi difficile da sostenere, che l’autore non prova neppure ad argomentare. L’autore si trova comunque in una strada senza uscita perché, fatto il primo passo, è costretto a spiegare la negligenza dei neoliberisti, incapaci di accorgersi della corruzione del capitalismo. Non evita la questione e prova a dare una risposta, nel capitolo sei, che intitola La responsabilità degli intellettuali e nel quale propone, con convinzione, la tesi della “cattura”, la tesi di menti prese in trappola dal sistema: “Vi sono degli incentivi economici tali da incoraggiare anche i regolatori con le migliori intenzioni a soddisfare gli interessi delle aziende che sono chiamati a regolare”. E prosegue con la domanda inevitabile: “Perché gli economisti (e in particolare quelli come me, che lavorano nelle scuole di business e hanno legami con il mondo degli affari) non potrebbero [essere catturati] a loro volta, mettendosi a difendere l’interesse del business, invece di quello di mercati liberi e competitivi?”. Il lettore cerca nel libro una ragione che lo rassicuri, una ragione perché ciò non possa avvenire, non sia avvenuto. Una ragione che non lo costringa, per comprendere i neoliberisti di questi anni, a riprendere in mano – e sarebbe un paradosso – La mente prigioniera di Czeslaw Milosz (Adelphi, 1981). Ma una ragione non la trova. (Comunque, a noi, qui, parlare di “responsabilità degli intellettuali” ricorda altro: di persone che esprimono azioni e pensieri ancorati a codici morali). La strategia difensiva di Zingales è tutta qui, in queste due tesi: è una forma corrotta di capitalismo quella che abbiamo visto fallire; non ci siamo accorti che il capitalismo si stava corrompendo. Ma è una linea difensiva immaginaria. Perché è del tutto evidente che il sistema finanziario che fallisce così fragorosamente

(e tragicamente) è il prodotto di un’intenzione, di un’agenda politica pensata e realizzata. Non erano “perfetti” i mercati finanziari che si stavano costruendo nell’opinione dei neoliberisti? Non erano capaci di “autoregolarsi”? E l’innovazione finanziaria che si manifestava dentro il sistema di regole progettate e introdotte non garantiva l’efficienza dei mercati? Non si è riesumato, per dare un fondamento analitico ai cambiamenti delle regole, il “teorema di Modigliani-Miller” – e la “perfezione” dei mercati finanziari che esso “dimostrava”, la loro capacità di attualizzare il futuro, come Dio nell’epistemologia di Laplace? E il mercato del lavoro, della terra e dell’energia non sono stati anch’essi deregolamentati come da teoria (neoliberista)? Il modello di capitalismo che fallisce è stato progettato e nello stesso tempo giustificato dagli economisti neoliberisti. Stupefacente leggere, ora, che chi sosteneva la solidità delle basi teoriche di quel progetto sociale, dei cambiamenti istituzionali che costruivano il capitalismo del futuro – il capitalismo “dopo la fine della storia” – aveva una “mente prigioniera”. Ma l’agenda liberale che il libro propone per riformare il capitalismo sembra venire dalla stessa scolastica, che è riuscita a farsi credere scienza, con un esercizio di egemonia perfettamente riuscito. “Quando lo Stato inizia a prendersi 50 centesimi su ogni dollaro guadagnato, tra-

sforma le persone in schiavi” afferma Zingales. Il lettore non ha il tempo di provare a dare un senso a questa affermazione, che gli sembra paradossale, perché già deve confrontarsi con un’altra inaudita verità: “In ogni ridistribuzione il dollaro dato a Caio è preso da Sempronio, quindi il trasferimento in sé non aumenta né diminuisce il benessere generale”. Quindi, se rinuncio a un concerto alla Scala e dono il corrispettivo del biglietto a una famiglia che non ha le risorse per mettere insieme un pasto, il “benessere generale” non aumenta? E questa sarebbe un’agenda liberale? Ma dove sono finite le riflessioni di Rawls, Walzer, Dworkin, Sunstein, Sandel e dei tanti altri intellettuali americani che hanno dato forma al pensiero liberale, insegnandoci a riflettere sulla “giustizia distributiva”, sulla sua necessità come fondamento etico del capitalismo? Dove è finita l’utopia anarchica di Robert Nozick, certo non disposto ad archiviare la necessità di un giudizio morale sui mercati? Dove è finito Friedrich Hayek, che almeno lo scientismo aveva ripudiato ed era capace di assumersi la responsabilità morale del modello di società che proponeva? E da dove viene, invece, la sconcertante agenda liberale che Zingales ci presenta in questo libro, questo “grado zero” del pensiero che nega ogni altro pensiero? Il lettore continuerà a chiederselo anche mentre legge la

postfazione all’edizione italiana, mentre si dipana il consueto, logoro, approssimativo racconto dell’Italia, un paese nel quale “manca la cultura della legalità anche perché ci sono troppe leggi assurde, che rendono difficile operare nel rispetto della legge stessa”. D’altra parte, come non ricordare che “secoli di dominazioni e soprusi stranieri non hanno aiutato”. No, non hanno aiutato, certo, come non aiutano ora queste smarrite riflessioni sul nostro difficile presente. Ma, alla fine, secondo l’autore, gli italiani riusciranno ad aprirsi un varco verso il futuro, verso la loro ancora inesplorata “frontiera”. E ad aprirlo saranno i “giovani”, le “donne” e gli “immigrati”, categorie di persone che secondo la segnatura dell’autore “non hanno nulla da perdere da un cambiamento”, come i diseredati di ogni tempo. Saranno loro a compiere la rivoluzione di cui Zingales delinea un sintetico programma, riproponendo le astratte categorie del pensiero neoconservatore, che conoscevamo e che abbiamo già visto all’opera: fisco meno esoso, competizione e meritocrazia, privatizzazioni e sistema elettorale uninominale. E sarà una rivoluzione che certo salverà l’Italia – dopo aver salvato gli Stati Uniti e il capitalismo. ■ info@antoniocalafati.it A. Calafati insegna economia urbana all’Università Politecnica delle Marche

Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica trategia, s. f. È un termine dal significato originario militare, significato che, pur diversificandosi nel tempo, ha continuato a sussistere e perdura. Deriva dal greco στrατηγο ς, figura che si identifica, nell’antica Atene, con ciascuno dei dieci membri della speciale magistratura istituita da Clistene, alla fine del VI secolo, con funzioni di comando, e di conduzione, nell’esercito – στrατο ς (parola primigenia) – o nella flotta. Se lo στrατηγο ς è dunque un comandante appunto militare (nell’esercito macedone è alla testa di una falange), la strategia diventa un complesso di tecniche e di azioni che coordinano, a partire da approfondite indagini, e con finalità offensive o difensive, lo svolgimento di una campagna bellica, prestando attenzione, più che alle armi o all’addestramento dei soldati (compito di esperti specialisti o di militari abilitati), alle condizioni degli avversari, alla natura del terreno o del mare su cui si deve combattere, al clima e alla sua influenza, alla durata temporale che è prevista per la battaglia imminente. In francese il termine (stratégie) compare nel 1562 e nello stesso anno viene tradotto in inglese (strategy), lingua in cui ricompare più volte, soprattutto a partire dal 1688, mentre in francese, come anche in italiano, la diffusione si ha soprattutto a partire dall’inizio del XIX secolo. Tra gli autori italiani si rintraccia in Muratori, e poi in Manzoni, Cattaneo, D’Annunzio, Fenoglio, ma in Gramsci, nei Quaderni, là dove si affronta la prospettiva di Gioberti (la personalità più citata nei Quaderni), la strategia diventa l’insieme di pratiche civili realizzate per conseguire uno o più obiettivi politici e istituzionali. La stessa cosa accade anche in altre lingue. In inglese con Macaulay e Carlyle. In francese con Hugo e con Valéry, sino a Gide, che ne amplifica gli ambiti e individua una strategia amorosa, una strategia eletto-

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rale, una strategia morale. La strategia diventa così, al di là della condotta militare, l’individuazione del modo più adeguato di agire e di comportarsi per conseguire obiettivi specifici anche in politica, in economia, nella società, nella vita privata, nel mondo mediatico della comunicazione e della pubblicità. Investe funzionari impegnati in mansioni amministrative o giudiziarie, ma anche tecniche retoriche ed espedienti letterari. Tutti, infine, anche gli individui comuni, con semplici finalità interne alla vita quotidiana e familiare, possono essere soggetti che attivano una qualsivoglia strategia, termine che può rientrare quindi nello stesso lessico della psicologia comportamentistica e che può avere a che fare con i convincimenti, sempre cangianti, dell’opinione pubblica. Gli studi strategici, a ogni buon conto, restano quelli che affrontano le guerre e le paci, gli equilibri e gli squilibri delle politiche di potenza, l’uso e l’abuso di armi deterrenti, i rapporti internazionali collegati ai mezzi che implicano l’impiego della forza. Strategie sono state, ai tempi di Truman prima, e di Eisenhower dopo, il containment e il roll back, politiche atte a frenare e a fare arretrare l’Urss e lo stesso comunismo internazionale. Già Clausewitz, d’altra parte, aveva sostenuto (Vom Kriege, 1832) che anche la minaccia della guerra, e non solo la guerra combattuta, aveva una fondamentale, e decisiva, valenza strategica. Tattica, diplomazia, forza militare e geopolitica si sono insomma intrecciate. Ma vi è da ultimo stata anche la strategia della tensione, espressione apparsa per la prima volta il 12 dicembre 1969 in un articolo dell’“Observer”. Si manifestò in Italia, con intensità, tra attentati, tentativi di golpe e terrorismi, dal 1969 al 1984. Ma la si può far risalire alla strage del 1947 a Portella della Ginestra. BRUNO BONGIOVANNI


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Storia Un mondo arcaico sempre pronto a risorgere di Bruno

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Edgar Quinet LE RIVOLUZIONI D’ITALIA ed orig. 1848-1852 e 1857, a cura di Maria Grazia Meriggi, pp. 448, € 25, Aragno, Torino 2012

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l testo più discusso di Edgar Quinet (1803-1875), uno dei più appassionanti storici francesi del XIX secolo, solo apparentemente più dedito all’interpretazione che all’excursus evenemenziale, amico fraterno di Michelet e lettore attentissimo di Tocqueville, è stato, negli ultimi decenni, grazie anche al bicentenario della Rivoluzione francese (1989), La Révolution (1865), di cui esiste (Einaudi, 1953 e ristampe successive) un’eccellente edizione italiana che si avvale della cura, dell’introduzione e della traduzione di Alessandro Galante Garrone. In questo testo, che non correttamente viene talora considerato assai diverso sul terreno politico rispetto alle precedenti Révolutions d’Italie, la vera rivoluzione è stata quella dell’89, mentre i rivoluzionari giacobini del ’93 ne hanno distrutto l’azione liberatrice, facendo ripiombare la Francia nell’oscurità del medioevo, dell’Antico regime e dell’assolutismo monarchico, tanto che il ripudio della libertà non aveva potuto che portare al 18 brumaio di Napoleone I il Grande – Quinet scrive mentre sul trono si trova ancora Napoleone III le pétit – e alla sottomissione all’impero. D’altra parte, già Karl Marx, nella Sacra famiglia (1844-45), opera sconosciuta a Quinet, aveva scritto che Napoleone, successore dei giacobini, aveva “perfezionato il terrorismo mettendo al posto della rivoluzione permanente la guerra permanente”. E François Furet, nell’ultimo dei suoi numerosi e cangianti approdi alla rivoluzione francese (La Gauche et la Révolution au milieu du xixe siècle, Hachette, 1986), si accosterà a Quinet sottraendosi in parte a Tocqueville e affermando che i dispotismi che avevano annientato l’89 non erano stati altro che un ritorno dell’esprit autoritario e clericale dell’Antico regime. Così, i democratici avevano dovuto attendere, onde ritrovare dopo il 1870 la libertà perduta, Jules Ferry e la Terza Repubblica. Tornano ora finalmente, in una nuova edizione, Le rivoluzioni d’Italia, un testo non preso in esame nel corso dei dibattiti che hanno accompagnato il centocinquantenario dell’unificazione italiana e di tutto il riscatto nazionale. Era composto da tre volumi. Il primo era stato pubblicato in concomitanza con la rivoluzione parigina del febbraio 1848. Il secondo nel 1851. E il terzo nel 1852 a Bruxelles, dove Quinet si era recato esule al momento del colpo di

stato di Luigi Bonaparte, ossia del futuro Napoleone III. La successione dei volumi, come sottolinea con intelligenza la curatrice, non fu solo cronologica, ma fu in linea con il rapido mutare degli scenari politici. In Francia come in Italia. La storia tornava infatti a ripetersi, come si era espresso Hegel, e come, soprattutto, aveva riaffermato Marx, per il quale, nel Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (1852), la prima volta (17891799) era stata tragedia e la seconda (1848-1852) farsa. A leggere Quinet, i cui corsi al Collège de France erano state sospesi su iniziativa di Guizot nel 1845 (l’anno in cui lo stesso Guizot aveva espulso Marx dalla Francia), pare invece che vi siano state due tragedie. L’affronto subìto nel 1845 aveva peraltro radicalizzato, in Quinet, il repubblicanesimo sociale e l’anticlericalismo antipapista, già da tempo sollecitato, quest’ultimo, dall’insegnamento religioso impartito dalla madre protestante. Nel primo volume delle Rivoluzioni d’Italia era però più evidente la componente della lotta sociale e di classe. In seguito, nei volumi immediatamente successivi, con alle spalle il fallimento a Parigi dell’insurrezione proletaria del giugno 1848, prevalse la battaglia politica repubblicana per la libertà e l’eguaglianza di tutti. Il classismo si fece evanescente e anche pericoloso. Rischiava infatti di favorire la demagogia dei Bonaparte risorti. L’Italia, del resto, dall’impero romano in poi, aveva avuto un genio pratico e ideale. Era altresì stata un modello culturale e artistico. Rivelandosi una cosa morta e una cosa viva. Ma senza la presenza di un’Italia in grado di diventare effettivamente Italia non vi era la possibilità di un’autentica liberazione – dai soprusi e dalle superstizioni – dell’Europa tutta. Si rendevano tuttavia necessarie due condizioni: abolire il dominio temporale del papato e scacciare lo straniero (in primis l’Austria, serva e padrona del papa). Ma scacciare lo straniero non era possibile senza ammettere che l’Italia poteva e doveva sbarazzarsi dell’eterno straniero, ossia del pontefice di Roma, il quale rappresentava la negazione dell’idea stessa di patria. Il papa si era comunque rafforzato grazie alla costituzione dell’Italia barbara, frutto delle invasioni. E, nonostante l’eroismo, a poco erano servite le repubbliche. La storia degli spazi italiani, così come nella descrizione effettuata poi per la Francia nella Révolution del 1865, era stata una storia di rivoluzioni, o avanzamenti, e di ripiegamenti, o ritorni del passato, cosa di cui erano stati responsabili i papi, il Sacro romano impero, gli stranieri e gli italiani stessi, coraggiosi e confusi, sapientissimi e inclini al cedimen-

to. È nelle troppe Italie, del resto, che comparirono, già divisi, in modo visibile e precoce, i borghesi e il popolo. Ed è qui che nacquero l’economia moderna e, con la rivolta dei Ciompi, la lotta di classe, constatazione che mette in luce donde provenga la prima e mai dimenticata storiografia di Salvemini. Ma importante – uno slancio popolare e un’occasione perduta – si rivelò anche la predicazione pauperistica di Savonarola. Fu poi l’assenza della riforma religiosa – affermazione, questa, che preannuncia le riflessioni di Gobetti – ciò che fermò lo straordinario procedere delle repubbliche, del Rinascimento, di Machiavelli, della porta spalancata sul Mediterraneo e sull’intero mondo. La controriforma, con il Concilio di Trento, fu uno dei tanti antichi regimi che ritornarono e si riconsolidarono. Emersero i catechismi, i parroci, le inquisizioni, la gesuitica istruzione fornita dai gesuiti. Sommersi furono gli italiani. Ed ebbe inizio un lungo periodo di decadenza e di preponderanze aliene. Si sentono così, in Quinet, echi che già si odono nel pur mistico Mazzini e che in seguito si troveranno, forti e limpidi, nel liberale e laico De Sanctis. Il gran lavoro di Quinet si conclude con la rivoluzione francese in Italia, con Napoleone, con le speranze d’Italia, con la resurrezione sociale, morale e politica. Tornano gli antichi regimi nel 1815 e nel 1849, ma un orizzonte di liberazione non lontano forse si può intravedere. E Les Révolutions d’Italie, lotta di classe iniziale a parte, si rivelano in realtà, sul terreno dell’impianto storiografico, non diverse da La Révolution del 1865. Alle ascese, dall’impero romano sino al 1848, sono sempre seguite le cadute e le risollevazioni di un mondo arcaico instancabilmente pronto a risorgere, anche a scapito di ciò che poi sarà da tutti definito “risorgimento”. Dai Ciompi si passò infatti, con la complicità della protoborghesia, alle signorie e ai principati. Dall’umanesimo coltissimo all’incultura controriformistica. Dalle repubbliche nate dalla Rivoluzione francese all’oscurantismo legittimistico. Così come, in Francia, dalla Costituente si passò prima al terrore giacobino e poi al dispotismo napoleonico, forme anch’esse di un antico regime mai spentosi. Il raggiungimento di un punto di non ritorno non era tuttavia impossibile. La reazione, sempre in agguato, poteva forse essere sconfitta, una volta per tutte, dal repubblicanesimo democratico. ■ bruno.bon@libero.it B. Bongiovanni insegna storia contemporanea all’Università di Torino

Solo i subordinati sbagliano di Daniele

Napoleone Bonaparte MEMORIE DELLA CAMPAGNA D’ITALIA ed. orig. 2010, trad. dal francese di David Scaffei, pp. 341, € 32, Donzelli, Roma 2012

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utto in me è calcolo”, diceva Napoleone. Come rileva Ernesto Ferrero introducendo questo volume (la prefazione è invece di Thierry Lentz, direttore della Fondation Napoléon), che costituisce una sezione dei Mémoires di Sant’Elena, fu la consapevolezza di essere un homo novus a convincere Bonaparte della necessità di ricercare e manipolare il consenso attraverso la parola; essendo stato autore, nella prima parte della propria esistenza, di studi e romanzi dal taglio illuministico, l’operazione non gli riuscì particolarmente difficile. Del Memoriale fu pubblicata una prima edizione, poco dopo la sua morte, in otto volumi. Composta dall’imperatore esiliato al largo delle coste africane nell’arco di sei anni, grazie all’aiuto di compagni reclutati a tale scopo (fra loro, alcuni generali e un consigliere di stato, il talentuoso Emmanuel de Las Cases, poi cacciato dall’isola per traffico di materiali, l’opera, oltre all’annus mirabilis/horribilis 1815, copriva il periodo com-

preso fra il 1793 (nel settembre di quell’anno, l’ambizioso corso era stato designato quale capitano dell’Armata d’Italia) e il 1801. Lasciava sostanzialmente da parte le fasi, pur gloriose, del consolato e dell’impero, per le quali Napoleone non aveva trovato un adeguato supporto di giornali e bollettini della Grande Armée; si tenga presente che, nel Memoriale, l’accuratezza nelle ricostruzioni delle campagne militari e della genesi delle singole iniziative belliche è rimarchevole, finendo per raggiungere, in molti passaggi, l’eccesso per in-

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formazioni e tecnicismi. Sul piano puramente formale, il modello è dato dai Commentarii di Giulio Cesare, sia per lo stile di scrittura preciso, asciutto, essenziale, sia per l’uso della terza persona, sia, ancora, per la minuziosa rievocazione di piani, battaglie, discorsi ai soldati e descrizioni dei più valenti compagni d’armi, come il compianto Joubert. Non solo. L’incipit della parte sulla campagna d’Italia è ricalcato sull’esordio del De bello Gallico, così come a esso rimandano le presentazioni storiche e territoriali di numerose città, da Venezia a Bologna. Analogo a quello riscontrabile in Cesare è inoltre l’approccio autoapologetico: scrive Ferrero, con esemplare pregnanza, che qui “la memoria diventa mitografia travestita da obiettività storiografica”. In questo libro (che in appendice inserisce anche le Observations sur les opérations militaires des campagnes de 1796 et 1797 en Italie, non comprese nell’edizione francese della Correspondance sull’Italia), basti pensare al racconto edulcorato degli eccidi francesi di Binasco e Pavia, o al passo in cui, come Cesare al termine della guerra civile si era mostrato furente per l’uccisione di Pompeo in Egitto, pur suo nemico, così Napoleone si sdegna per l’abbattimento della statua di Andrea Doria durante i tumulti filofrancesi a Mombello, imponendo di ripristinarla.

Spesso, oltre alla propria capacità di negoziare, in costante sintonia con la conformazione politico-sociale delle singole città attraversate, egli non esita a sottolineare la trionfale accoglienza riservata dalla popolazione alle sue truppe; sembrano, anzi, investite di una funzione prometeica, matrici del risveglio civile in Italia e, quindi, origine di una mobilitazione destinata a generare una nazione infine libera e indipendente. ■ dlink14@libero.it D. Rocca è insegnante e dottore in storia delle dottrine politiche all’Università di Torino


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L’editore parigino L’écarquillé sta preparando per la fine dell’anno la traduzione francese dei romanzi autobiografici di Mario Lattes Il borghese di ventura e L’incendio del Regio, corredati da una quindicina di disegni e incisioni dell’autore stesso. Pubblicati una prima volta da Einaudi nel 1975 e 1976, questi romanzi sono ora in via di riedizione presso Marsilio, che ha già pubblicato L’incendio del Regio nel 2011. È con grande piacere che vi offriamo, qui di seguito, la lettura delle ultime pagine di Il borghese di ventura.

Pagina a cura della Fondazione Bottari Lattes

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inalmente vado anche al paese degli amici del ’15, di mio padre, a sentire notizie. La casa patriarcale non c’è più, al suo posto c’è una specie di mausoleo di marmo. La parola mausoleo fa venire in mente il marmo e viceversa. Perciò mausoleo è un edificio tutto vuoto, di marmo, deserto. È successo che, mesi prima, proprio come mio padre durante la prima guerra, nella casa patriarcale si erano messi i repubblichini. Un giorno passa un aereo, basso che si vedeva il pilota. I repubblichini gli sparano una fucilata senza naturalmente danneggiare l’aereo. Il pilota però vede e lascia andare una bomba. I rami lucenti, il camino, le pesche: bum. Uno dei fratelli ci ha rimesso anche un occhio, è lui che racconta. Lui e i fratelli sono proprietari di cave di marmo e la casa se la sono ricostruita tutta di marmo, pavimenti soffitti pareti. Si gela, qui dentro. Una tomba, non lo dico senza un certo sollievo: bisogna disfarsi, delle cose, o che qualcuno ce ne disfaccia, i più restii. Insomma, il guercio qualche notizia ce l’ha, mica precisa, vecchia di qualche mese, ma ce l’ha. A casa mia c’è ancora tutti, cose e persone, salvo mia nonna e la sua amica Annetta Ottolenghi. Gonfia e decrepita com’era l’hanno deportata. Mio padre la odiava, questa Ottolenghi. Ma è un’altra storia di famiglia, questa, qui non c’entra. Il fatto è che mio padre ci teneva, a certi drammi, e se ne faceva, se ne faceva. Mi hanno avvelenato l’esistenza, da ragazzo. Aveva bisogno di una vita dolorosa e tragica, lui. Basta. E poi la guerra ha messo fuori corso miserie di generazioni: interessi, diffamazioni, rancori. O morti, o cambiamo canzone. Mia nonna a deportarla non hanno fatto in tempo. È morta prima, per conto suo, all’ospedale valdese. Conoscevo bene la sua camera, io, ma la scena della sua morte la cambia radicalmente nel mio ricordo. Era una camera abbastanza ampia, con un gran letto di legno, scolpito, mi pare: camera da letto di un alloggio qualunque, con la tappezzeria dì carta a fiorellini. Il fatto è che la camera – me ne accorgo ora – non mi ricordo quasi più nulla com’era, anche se prima mi sembrava, mentre quella che conosco minutamente che ricordo alla perfezione è quella suscitata dalla sua morte: piccola, verniciata di verde, una vernice lustra che fa sporgere e rientrare a grandi ombreggiature le irregolarità del muro, che sono numerose e grossolane. Il letto, che nella camera vera era al centro, parallelo alla finestra, qui alla finestra volge i piedi e dunque poggia la testiera contro il muro dove c’è la porta. È una camera molto piccola – come ho detto – e alta. Il letto è di ferro (il falso ricordo non sa bene se dipinto anch’esso di verde, o di bianco: certo la vernice è sgraffiata e scrostata e ne appare la polpa rinsecchita, ora più chiara ora color della ruggine). Ho detto che anche qui c’è una finestra ma non ne sono ben sicuro, è sempre coperta da lunghe tende – forse bianche – e in ogni modo io non sto mai in quella camera se non volgendole le spalle, alla finestra, tutto intento al letto di mia nonna che è illuminato fortemente di giallo da una lampadina col paralume di ferro smaltato. Dentro il letto la moribonda caccia fuori una lingua grossissima appuntita (sono gli ultimi momenti), sbarra gli occhi. Indica il tavolino da notte. – È lì, è lì –. Così ha fatto, poco prima di morire, mi racconta il monocolo. Poi pare che sia scesa dal letto e che ce l’abbiano trovata sotto, in camicia da notte, intenta a cercare qualcosa, o a cercare di nascondersi. Sempre dando le spalle alla finestra, io continuo a guardare, nella camera del falso ricordo, le cose che mia nonna ha fatto morendo, con l’enorme lingua grassa e appuntita spenzolata fuori della bocca e che a tratti vibra la punta per paura della cosa che si è rintanata nel tavolino da notte e da lì la minaccia. La guardo sotto la luce della lampadina col paralume di ferro impazzire tra le lenzuola disfatte, strascicare le gambe bianche e molli sul pavimento dove era scesa all’inseguimento della propria morte. Infatti così è morta, a caccia di quell’insetto inafferrabile che poi l’ha punta. Dopo la visita torno a Brescia. Adesso voglio andarci, a casa mia, io che immaginavo il Sudafrica. Intanto però mi tocca di accompagnare Ferison al HQ, Verona. Dio sa perché poi ci ha fatto venire, dal momento che qui l’interprete non gli serve e infatti resto accanto alla jeep ad aspettarlo. Le visite ai quartieri generali portano sempre poco di buono, come a Siena in aprile. Si sente aria di congedo. E io che non chiederei se non di essere lasciato in quest’angolino, ormai lo conosco. Invece bisogna uscire allo scoperto, la soluzione più sag-

rebbe, in essa la precarietà del tuo stato è troppo evidente. Secondo: il sole e il caldo, che la fanno sfrigolare, questa terra orizzontale, la riempiono di odore di copertoni bruciati, scaldano la polvere puzzolente, mettono fuoco ai sassi, alle ghiaie, ai barattoli, che arrugginiscono intorno al cerchio del fondo dove c’è un punto non ancora intaccato dalla ruggine. Il cielo sta sopra il paese orizzontale senza speranza di quiete finché io non abbia raggiunto un rilievo alto – diciamo – quanto me, anche meno, insomma che basti a segnare una sosta in questa orizzontalità tremenda, assolata, piena di luccichii sinistri, nella quale per il gran caldo scoppiano incendi spontanei, e io ci possa appoggiare almeno per un momento le spalle e, premendo con la schiena, adagio adagio, con fatica, esserne assorbito e custodito, senza che nessuno interroghi, e solleciti, e domandi notizie di me né da me si aspetti qualcosa, che è sempre molto, molto più di quello che posso dare, anche con tutta la buona volontà, vedete con che nodo in gola me ne sto vicino a questo parafango convesso, duro, immobile. È coperto di fango secco salvo in alcuni punti dove affiora il metallo. Il metallo è nero e qua e la persino brillante, tanto che sembra riflettere qualche frammento di immagine, essa stessa immobile. Più che un’immagine vera e propria si tratta di un vago luccicone. Spostando la jeep un po’ avanti o un po’ indietro, un po’ a destra o un po’a sinistra, è probabile che il luccicore rimarrebbe tale e quale. Si potrebbe ottenere di più lavando completamente il parafango: certo qualcosa vi apparirebbe e, dopo, spostando la macchina si otterrebbero – allora sì – delle variazioni nell’immagine riflessa. Sostanzialmente non cambierebbe un granché, si capisce. Riflettente o no, riflettente questo o quello, in modo o no distinto, il parafango persisterebbe nella sua natura convessa, immobile e dura. Continuerebbe a gettare questa stessa breve ombra sull’erba sottostante, premendo sulla quale il pneumatico risulta lievemente schiacciato alla base (il nome DUNLOP è in parte coperto dai fili d’erba più lunghi). Adesso questi pneumatici sono ancora caldi ma già si vanno freddando: tra poco saranno freddi del tutto, cioè immobili sotto i parafanghi immobili e duri. La presenza di questo parafango, qui, sopra questa erba, e soprattutto sotto il mio sguardo, non sarò certo io a spiegarla, né a spiegare perché lo spazio davanti al parafango è tutto vuoto, tutta erba verde almeno fino alla pietraia laggiù. Spostare la jeep non servirebbe a nulla. Il parafango continuerebbe ad avere davanti a sé lo spazio dell’erba o, se anche la portassi fin là in fondo, quello delle pietre bianche. La curva del parafango e la rotondità del pneumatico suggeriscono vagamente le forme di un sopracciglio e di un sottostante occhio, intenti a un’ottusità indifferente e minacciosa. Per quanto chiara io abbia nella mente la mia situazione, questa non arriva a mettersi a fuoco così perfettamente come quando osservo questo parafango coperto di fango e l’occhio senza sguardo del pneumatico. È perché sotto il parafango c’è l’erba. Sono dati di fatto, prendere o lasciare. Anzi no, non si può lasciarli. Stavo per dire che bisogna affrontarli, ma non si tratta neanche di questo. Non affronto niente, io. La luce cambia colore sulla jeep che ha finito di raffreddarsi strofinando e scatarrando e ora è del tutto silenziosa. Un vento leggero piega l’erba intorno all’occhio pneumatico, scopre tutte le lettere del nome Dunlop. Tra poco la jeep avrà lasciato questa erba. Tornerà a scaldarsi e dirigerà altrove. Rimarranno le sue tracce sull’erba schiacciata. Tornerà a fermarsi in un altro punto e a determinare uno spazio davanti, dietro, ai lati. Questo è il punto. Il parafango è infangato. È il suo scopo. Tutti ne hanno uno. Ma non io, non io, questo è il punto, e adesso è venuto il momento che bisogna avercelo, dal momento che la guerra è finita e almeno la guerra è una cosa che non si fa fatica a capire, che decide e risolve tutto. Non per nulla è finita mentre nel cielo c’è questo gran sole e io mi trovo nel territorio orizzontale, dove non si può rimanere, si è spinti avanti, non si può rimanere. Avanti verso dove? Non si può rimanere, ecco il nodo, lo spazio che il parafango fa davanti a sé all’infinito, e quando il motore ha finito di mandare sbuffi e colpi, e i pneumatici di raffreddarsi, ma di là, di là, qui non si può rimanere, ecco il nodo della mia vita. ■

Dedicato a Mario Lattes gia sarebbe stata di rimanere a Fonte Cannavina, nel casale vicino al fiume: avrei potuto continuare a riposare sul mio saccone di foglie di granturco, guardare le notti scendere e i giorni salire dalle fessure degli assi inchiodati sulle finestre. Mi avrebbero creduto morto, è successo a tanti, di questi tempi, bisognava saperne approfittare, invece no: un errore, anche comprensibile, se vogliamo, perdonabile, ma certo gravido di conseguenze fatali. Avrei continuato a cercare pane e olio, anche se bisogna vedere se me l’avrebbero ancora dato, una volta finita la guerra. Il guaio è tutto qui, che la guerra è finita. Ormai è tardi, e nella guerra, non ci si può star dentro neanche a volerlo, nemmeno a essere nati morti, che poi a guardar bene una volta iniziato il concepimento è la soluzione migliore. Dove li mettono, i nati morti. Non credo nel cimitero perché per aver diritto al cimitero bisogna essere morti, si deve

Mario Lattes Uccello in gabbia, tecnica mista su carta 1985

cioè essere stati vivi mentre i nati morti non lo sono stati o almeno non compiutamente. Forse li mettono in barattoli di vetro, forse li buttano via, insieme a gambe e braccia tagliate, cistifellee calcolose, polmoni corrosi dal cancro, fibromi. Alcuni finiranno nelle campagne, in campagne buie sotto cieli neri come quello di Fonte Cannavina, teneri alimenti di un fiorellino ritroso, di un fragile soffione; e anche di uccelli, formiche, mosconi verde e oro. In breve non ne resta più nulla, le ossa non ancora formate affondano nel terreno, rimandano fuori un essere vegetale, il nato morto delega la propria vita mancata a tante vite diverse: mosca, formica, cicoria, più leggere a portarsi, ciascuno una piccola parte, senza l’impegno di una vita intera a carico di uno solo. Insomma, non è stato così. Quello che è stato è stato. Cerchiamo di ragionare. Questo territorio è troppo orizzontale, intanto. Perfettamente orizzontale a perdita d’occhio se si eccettua la leggera collina dove sorge il Castello, un’inezia troppo trascurabile per offrire resistenza, un riparo qualsiasi, anche solo un attimo di sosta. Le terre orizzontali invitano fatalmente a proseguire, sono terre di passaggio verso altrove, non consentono di rimanere, scavarti un buco, mettere radici. Sono aperte all’infinito e bisogna tenerne conto. Paesi di frontiera, lontana o vicina che questa sia. Che cos’è una frontiera? Un limite dell’orizzontalità del paese, senza il quale essa diventerebbe intollerabile, e perciò tocca correre verso questa frontiera, qui non puoi restare, l’orizzontalità ti uccide-


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Tra veti irrevocabili e situazioni storiche di Claudio

Ciancio

Laura Operti PER UNA CULTURA DELLA NONVIOLENZA prefaz. di Gustavo Zagrebelsky, con una lettera di Aldo Capitini e una nota di Nanni Salio, pp. 136, € 14, Trauben, Torino 2012

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l libro di Laura Operti è sorprendente nella sua genesi, una tesi di laurea discussa più di quarant’anni fa con Norberto Bobbio, ma anche nel contenuto che non ha perso la sua attualità, come osserva Gustavo Zagrebelsky nella prefazione. Non si vedono infatti rilevanti novità teoriche, mentre invece l’urgenza del problema è cresciuta con uno spaventoso aumento della violenza. Una grande novità rispetto al tempo in cui la tesi fu scritta è la diminuzione della paura per il pericolo atomico. Ma proprio questo, insieme al superamento della guerra fredda, ha allentato la guardia contro la guerra, proprio mentre altrove si moltiplicano i suoi focolai. Della nuova diffusione della violenza e delle nuove esperienze di nonviolenza parla la prima parte, Scenari della nonviolenza, che fa emergere i caratteri essenziali e ne evidenzia, come fa anche il capitolo della tesi Cenni storici sulla nonviolenza, dalle religioni indiane fino a Martin Luther King, il prevalere della dimensione etica pur nella finalità politica. Il carattere problematico della nonviolenza sta proprio nel nesso fra le due dimensioni. L’ispirazione etica è sicuramente necessaria per una buona politica, che è anzitutto una gestione nonviolenta dei conflitti. La dottrina nonviolenta esige che non si abbandoni mai la politica per ricadere nella guerra, che non si consideri la guerra come continuazione della politica con altri mezzi né la politica come continuazione della guerra con altri mezzi. Credo sia giusto sostenere che la nonviolenza è possibile e attuabile. E si può persino dire, come afferma il libro, che la guerra è un’isti-

tuzione storica, che come tale può essere superata. Resta però il dubbio che i confini tra morale e politica non siano ben tracciati e che non si colgano gli aspetti di discontinuità. Colpisce in particolare l’idea che occorra un nuovo codice morale, “il codice morale dell’era atomica”, come dice Günther Anders. Ora, un codice morale non impedisce che le norme siano trasgredite. E poi non mi pare occorra un codice nuovo: quello cristiano o quello kantiano sono ampiamente sufficienti. Sono invece necessari gli strumenti giuridici e politici, anzitutto perché i codici morali non garantiscono da sé soli la convivenza. Il passaggio alla dimensione giuridica e politica non è un abbandono del codice morale, ma della dimensione propriamente morale del codice, e implica un passaggio all’ordine della costrizione, che è legittima perché la sottomissione alla norma giuridica non richiede un’adesione interiore. Restano poi i casi estremi, che non solo allentano ma interrompono la continuità fra morale e politica. Emblematico il caso di Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo che organizzò l’attentato contro Hitler. Il principio che lo guidò fu la responsabilità verso la vita e la dignità di milioni di persone. I nonviolenti possono obiettare che in questo modo, anche se si vince, si giustifica il perpetuarsi della violenza e quindi il vantaggio immediato è pagato con uno svantaggio futuro. È un’obiezione analoga a quella di Kant, secondo il quale la legge morale non ammette deroghe, e a proposito della guerra scrive: “La ragione moralmente pratica pronunzia in noi il suo veto irrevocabile: ‘Non ci deve essere nessuna guerra, né tra te e me nello stato di natura, né tra noi, come Stati’”. La controobiezione di Bonhoeffer è che si deve agire responsabilmente nelle concrete situazioni storiche, nelle quali non può valere sempre la stessa regola. Il problema drammatico che si poneva a Bonhoeffer era quello del conflitto dei doveri. La nonviolenza appare del tutto giustificata quando chi subisce la violenza risponde con atti di resistenza nonviolenta. Ma è una cosa ben diversa non impedire, anche con la violenza e dopo aver esperito tutti i mezzi nonviolenti possibili, quella violenza che altri subiscono. Come non sono autorizzato a uccidere, così non sono autorizzato a sottrarmi in nome della nonviolenza al dovere di sottrarre gli altri alla violenza. Nella dottrina della nonviolenza c’è forse una sottovalutazione della potenza del male, che ci pone di fronte a un conflitto dei doveri e richiede un’azio-

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ne negativa: anche il sacrificio di sé è un’azione negativa, come lo è certamente l’uccisione del tiranno, ma tal■ volta sembrano non offrirsi alternative. claudio.ciancio@fastwebnet.it C. Ciancio insegna filosofia teoretica all’Università del Piemonte Orientale

Dove mezzo e fine coincidono di Marco

Scarnea

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corretto interpretare il titolo dell’opera come il caso di una formula consueta quando si versa il contributo per un’indagine. È altresì legittimo recepirlo come se a una cultura della nonviolenza fosse stato dedicato un percorso autobiografico. Inoltre risuona come la denuncia di un’urgenza o l’appello a un impegno. Più che escludersi, queste possibilità si richiamano a vicenda. Nel cuore del testo è collocata la tesi in Filosofia del diritto che l’autrice discusse con Norberto Bobbio a Torino nel 1969: “Il problema etico della nonviolenza”, un lavoro rigoroso, aggiornato e tuttora valido. Fu progettato grazie ai colloqui con Aldo Capitini (documentati dal dattiloscritto in appendice), al tempo docente a Perugia, al quale il relatore aveva indirizzato l’allieva, riconoscendogli massima competenza in materia. Vi sono esaminate la natura, la storia, le tecniche e l’efficacia della nonviolenza, con specifica attenzione ai rischi della guerra nucleare. A tale scopo le ragioni favorevoli e contrarie all’uso della forza sono presentate alla luce dei criteri analizzati da Max Weber: l’etica della convinzione (che valuta la decisione a prescindere dai risultati previsti) e l’etica della responsabilità (che giudica la scelta considerando le conseguenze attese). Lo studio è introdotto da un ampio articolo di recente stesura, dove le concezioni originarie vengono rivisitate lungo il filo della successiva crescita personale e professionale. Ne risulta una coinvolgente catena di scenari, entro i quali la nonviolenza si rivela sotto vesti polimorfe: gentilezza e mitezza; maieutica; curiosità (per la cultura dell’altro); speranza e fiducia; educazione alla pace e alla legalità; perdono e riconciliazione; tensione profetica; musica (quasi anima di una comunità in festa); difesa dei diritti umani; indignato dissenso; rispetto per l’ambiente; coraggio e suprema determinazione. A ciascun aspetto è associato un incontro, un interesse, una lettura, un ruolo, sempre attinenti al proprio vissuto. Nel racconto di sé la scrittrice unisce esperienza e riflessione, rimanendo fedele alla sua formazione filosofica, come mostra il passo giovanile: “Gandhi, per designare le sue campagne nonviolente, parlò proprio di ‘esperimenti con la verità’, nella consapevolezza che il dubbio, il timore dell’insuccesso, l’incertezza, s’accompagnano a ogni impresa umana; non per questo tuttavia essa perde il suo valore, che è fondamentalmente quello di una ricerca continua e senza fine”. Infatti Laura Operti si espone come appassionata testimone, mentre ricorda che anche oggi il nostro destino resta sospeso fra paradigmi culturali antitetici: da un lato la civiltà della bomba in quanto mezzo che non media, aborrita da Günther Anders, quando spiega che l’effetto devastante dell’atomica travalica il proprio fine e impedisce fini ulteriori, quindi l’impiego di nuovi mezzi; dall’altro la civiltà del disarmo, riconducibile al pensiero di Gustavo Zagrebelsky, quando afferma che la nonviolenza è un fine in sé dove mezzo e fine coincidono. Seppure entrambe lottino per l’autoconservazione, si oppongono due umanità: l’una smoderata e asservita all’incessante competizione nel produrre strumenti distruttivi, dunque senza alternative all’ostilità reciproca, perché catturata nel gorgo mortifero di diffidenza, deterrenza, predominio; l’altra conscia dei propri limiti e affrancata dalla paura dell’avversario tramite le risorse dell’empatia, della fiducia, della solidarietà, dunque aperta al futuro, perché capace di creare senso per una coesistenza pacifica. Dai lettori l’invito a prendere posizione è indeclinabile. ■ marco.scarnera@tiscali.it M. Scarnera è referente del Comitato pace e nonviolenza presso il Centro studi Sereno Regis di Torino

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Cinema Se qualcosa resta fuori campo di Andrea

Quindicesima edizione aggiornata di

Laura, Luisa e Morando Morandini IL MORANDINI 2013 DIZIONARIO DEI FILM pp. 2047, con dvd, € 37,60, Zanichelli, Bologna 2012

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i tratta della quindicesima edizione di un dizionario che continua a essere uno strumento per molti aspetti indispensabile per tutti coloro che amano il cinema e vedono molti film periodicamente, sia nelle sale cinematografiche sia in televisione sia su Internet. Oggi, più di un tempo, è veramente possibile vedere o rivedere moltissimi film nelle varie sedi, e questa possibilità rende ancor più utile questo libro che Morando Morandini ha saputo realizzare con grande precisione e autorevolezza. Non dobbiamo dimenticare che per molti anni lui è stato un critico cinematografico preparatissimo tanto sui quotidiani quanto sulle riviste cinematografiche e, il più delle volte, anche non poco acuto nel saper cogliere il carattere di ogni opera che recensiva. A distanza di tutti questi anni, e tenendo conto che questa edizione del suo Dizionario dei film è indubbiamente il frutto di una continua e attenta revisione di quanto scritto di anno in anno, non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a un’opera che, vorremmo dire, tutti gli amanti del cinema dovrebbero avere. E se molti hanno già una precedente edizione o addirittura più di una, si potrebbe comunque consigliar loro, se quella che hanno è vecchia di qualche anno, di comprarla perché contiene ovviamente parecchie nuove informazioni. A leggere la presentazione si può trovare

qualche dichiarazione interessante e utile. Ad esempio: “Già fatto nelle edizioni precedenti il discorso sulla radicale metamorfosi del cinema nel primo decennio del 2000, trasformazione di produzione, distribuzione, esercizio, ma soprattutto di fruizione da parte degli spettatori che navigano su Internet”. Ciò significa, come aggiunge Morandini, che si è ridotta notevolmente in Italia la distribuzione dei film e che sono sempre meno gli italiani che vanno al cinema. Ma, si può aggiungere, proprio su Internet e in parte sulla tv molti spettatori, soprattutto giovani e giovanissimi, si guardano i film. Un’altra cosa che scrive Morandini nella presentazione può essere altrettanto significativa: “Ai lettori che ci domandassero quali siano i motivi che ci spingono a fare i ‘rifacimenti’, le correzioni e le aggiunte, abbiamo questa risposta ispirata al buon senso: ognuno di noi cambia con il passare degli anni; oltre al contesto storico, sociale, politico in cui vivono, anche i critici di cinema cambiano. In meglio o in peggio? Soltanto chi ci legge e ci segue può dare un giudizio. Forse con il passare degli anni si diventa più generosi, meno intransigenti o rigidi e si vede il bicchiere mezzo pieno invece che mezzo vuoto”. A leggere qua e là il libro, o a rileggere questa o quella critica di questo o quel film, non c’è dubbio che rimane al centro della lettura il rigore, l’intelligenza, l’acutezza e la precisione con cui sono scritte le recensioni. E se è ovviamente possibile non essere d’accordo con Morandini sui suoi giudizi su alcuni film, è altrettanto possibile ringraziarlo sia per l’ampiezza delle scelte sia per la serietà con cui sono scritte le recensioni.

Critico carismatico e timido di Silvia

Ugo Casiraghi STORIE DELL’ALTRO CINEMA a cura di Lorenzo Pellizzari, pp. 431, € 29, Lindau, Torino 2012

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ella prefazione al volume a cura di Lorenzo Pellizzari, Gian Piero Brunetta scrive che Ugo Casiraghi sarebbe stato un ottimo professore di storia del cinema, ricordandolo come uomo carismatico e timido, un critico “che non amava stroncare i film, cui forse la vita militare e l’esperienza della guerra avevano insegnato il rispetto per l’avversario e il riconoscimento dei suoi meriti se lo scontro si fosse svolto lealmente”. Sul modo di lavorare, Brunetta racconta come Casiraghi rimanesse per ore su un articolo, curando forma e contenuto, con precisione lessicale, pesando ogni parola per far emergere “la carne e il sangue della materia filmica, privilegiando la dimensione umana”. L’occhio e la penna critica di Casiraghi si muovevano attraverso la storia del cinema mondiale, nel senso più ampio del termine, non la storia delle cinematografie più circolanti, quanto la petite histoire visibile soltanto in alcuni festival di grande respiro. Attraverso tematiche trasversali (sport, Primo maggio, Rivoluzione francese…), riusciva a mettere in connessione autori lon-

Massimiliano Fierro TRA LE IMMAGINI PER UNA TEORIA DELL’INTERVALLO

Gianni Rondolino

Badon tani nel tempo e nello spazio, facendo emergere la straordinarietà e il valore di registi, attori e professionisti dimenticati. Storie dell’altro cinema si apre con I cinesi a Torino, articolo apparso in tre puntate, tra l’82 e l’83, sulla rivista “Segnocinema”, dedicato alla più grande manifestazione sul cinema cinese, di cui Casiraghi fu uno dei primi estimatori in Italia, grazie a una “spedizione” avvenuta alla fine degli anni cinquanta insieme a Carlo Lizzani. La rassegna torinese “Ombre elettriche” presentò centoventi film coprendo un arco storico dagli anni venti agli ottanta: una selezione operata da qualificati studiosi internazionali, capitanati da Marco Müller, che attirò un pubblico di appassionati da tutto il mondo. Purtroppo l’evento fu poco pubblicizzato e raccontato dalla stampa italiana, come riporta con rammarico lo stesso Casiraghi. I film ripercorrono la storia stessa della Cina, in particolare dagli anni trenta, quando tale cinematografia fece la sua prima apparizione fuori dai confini nazionali con ben otto opere presentate al festival di Mosca. Un cinema impegnato che, soprattutto attraverso il genere del melodramma, racconta le battaglie sociali quotidiane e quelle patriottiche, con un rapporto molto stretto tra immaginario e ideologia. Dalla Cina, il viaggio continua nel

mondo russo, di cui Casiraghi racconta gli autori meno conosciuti in Italia: Evgenij Bauer fu il più importante regista del periodo zarista, presentato alle Giornate di Pordenone nel 1989; nello stesso anno morì Aleksandr Medvedkin, ultimo vecchio del cinema rivoluzionario sovietico, ideatore del cine-treno, mentre qualche anno prima si era spento Sergej Jutkeviπ, anticipatore del realismo socialista, che aveva incentrato i suoi film sulla figura di Lenin. Rimanendo a Est, Casiraghi si muove attraverso le cinematografie cresciute all’ombra di quella russa; con grande intuizione coglie le cifre distintive che stanno nascendo dalla dissoluzione della Jugoslavia, tratteggia le personalità più rilevanti del cinema armeno e, con lo stupore del ricercatore, rimane colpito dall’animazione ucraina e uzbeka. Spostandosi a Occidente, l’interesse di Casiraghi si concentra sull’Inghilterra, quando, nel 1988, il Bergamo Film Meeting dedica un’importante retrospettiva alle pellicole degli Ealing Studios, piccola società che, per un ventennio, rappresentò il cuore della produzione britannica; alla metà degli anni cinquanta finiva anche l’esperienza degli “arcieri di sua maestà”, Michael Powell ed Emeric Pressburger, che negli anni quaranta fondarono la P&P, con cui rivoluzionarono il colore, il musical e soprattutto il concetto di cinema medio inglese. ■ silvia.badon@gmail.com S. Badon è giornalista e critica cinematografica

pp. 148, € 18, Falsopiano, Alessandria 2012

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el 1946 Orson Welles dirige e interpreta uno dei suoi film più belli e coinvolgenti, The Lady from Shanghai. L’intricata narrazione si conclude in un luna park, nel labirinto di specchi dove Michael (Orson Welles), Elsa (Rita Hayworth) e Arthur (Everett Sloane) si incontrano per l’ultima volta. La sequenza è resa straordinariamente intensa dalla moltiplicazione di riflessi che gli specchi generano, e che rende indistinguibile (per lo spettatore, ma anche per i tre protagonisti) il personaggio dalla sua copia evanescente. L’incontro inevitabilmente ha un esito tragico, perché Elsa e suo marito Arthur si sparano a vicenda, in una successione indefinita di colpi di pistola che manda in frantumi le centinaia di immagini che invadono lo schermo, senza farci mai capire se il proiettile colpisca o no la verità. L’inquadratura si riempie di specchi frantumati, di volti sfigurati da improvvise fratture, finché finalmente la sparatoria ha fine, e il pubblico può osservare la Hayworth cadere in terra agonizzante. Lo sguardo del regista la segue nella caduta con una rapida panoramica verso destra. Un’inquadratura brevissima, ma tra le più significative della pellicola e dell’intera filmografia wellesiana. Cos’ha di così particolare questa inquadratura? Un piccolo dettaglio. Mentre nei trenta secondi precedenti lo spettatore poteva liberamente osservare la sparatoria e le innumerevoli crepe che invadevano il campo visivo, le crepe ora non scorrono via come il resto degli oggetti, ma si muovono con la macchina da presa: gli spari hanno dunque colpito anche l’obiettivo, l’occhio. Lo sguardo dello spettatore è andato in frantumi. Il narratore rende così nota la sua presenza, e così facendo interpella lo spettatore, gli impone di ricordarsi di sé, di svegliarsi dal suo sonno. Le spaccature irregolari dello schermo sono lo shock che istituisce un’apertura nella narrazione, una separazione, un’intercapedine tra lo sguardo e gli eventi. Il libro si muove nell’intervallo che si apre tra due diversi modi di intendere l’arte cinematografica. C’è un cinema – potremmo chiamarlo anestetico – che punta alla trasparenza assoluta, che, come ci dice Fierro, narcotizza lo spettatore, illudendolo che non vi sia lavoro dietro l’immagine, non vi sia ostacolo, né costruzione. È il cinema dei registi fedeli al dogma della narrazione fluida, ben levigata, priva di ogni irregolarità o sbavatura. Gran parte dei nuovi prodotti tridimensionali appartiene a questo filone. C’è poi un altro modo di utilizzare la macchina da presa, quello proprio del cinema intervallare, che accoglie e vive la discontinuità narrativa, che si alimenta del perenne andirivieni fra trasparenza e opacità. Senza ri-

Laquidara muoverlo. Senza temerlo. Fierro cammina lungo il percorso irregolare della storia del cinema e dell’arte, e con spirito vertoviano associa opere e autori distanti nello spazio e nel tempo, come rappresentanti di una virtuale “scuola dell’intervallo”, straordinariamente viva e interessante. Ci racconta così le innumerevoli modalità di operare con la discontinuità, le tante declinazioni dell’intervallo. Vi è un cinema che vive del confronto/conflitto tra diegesi e supporto, un’arte in cui anche gli strumenti e la materia di cui è fatta la pellicola entrano nello spazio narrativo. Un po’ come accadeva al cinema delle origini, quello che “non si vedeva bene”, fatto di proiezioni precarie, tremolanti. Fierro ci fa osservare come, commentando lo spettacolo cui avevano assistito, gli spettatori dei primi film facessero di continuo riferimento al supporto materiale della proiezione, ai fotogrammi, ai ripetuti (e fastidiosi) flash: tutti elementi che testimoniano la fisicità dell’esperienza, una qualità che l’industria cinematografica successiva si è sempre sforzata di eliminare. La ricchezza di una simile esperienza è invece riconosciuta e valorizzata da autori come Dziga Vertov: il suo cinema vive proprio nello spazio tra le inquadrature, è proprio lì che è possibile “cogliere la vita sul fatto”, un’affermazione spesso scambiata per ingenuo realismo da chi non tiene conto di quanto consapevole sia il lavoro del regista sovietico. Basti pensare alla celebre sequenza di L’uomo con la macchina da presa, in cui al primo piano di un bambino segue il dettaglio del fotogramma su cui è impressa la sua immagine, una scelta di montaggio che chiarisce come il cinema non possa afferrare la realtà senza mediazioni, ma solo per mezzo di un processo complesso e articolato. Tuttavia è proprio in questo continuo passaggio tra pellicola e diegesi che si colloca la magia del cinema: riconosco la finzione e il lavoro, so bene che sono solo fotogrammi, ma nell’intervallo colgo la vita stessa. Fierro prosegue così nella sua ricerca esplorando i graffi sulla pellicola di Stan Brakhage, i fermo-immagine di Maya Deren, le rielaborazioni di materiale d’archivio di Peter Tscherkassky: all’artista austriaco e ai suoi foud footage film è dedicato un intero capitolo del saggio. Il linguaggio cinematografico, come ogni linguaggio, non è solo uno strumento meccanico più o meno funzionale, ma una materia viva. E come ogni organismo vivente respira, e nel suo respiro si alternano luce e ombra, suoni e pause, pieno e vuoto. All’horror vacui che rende soffocanti le spettacolari proiezioni dei multisala contemporanei, Fierro ci consiglia di contrapporre un horror pleni che dia profondità e respiro al nostro modo di guardare il cinema e la realtà. Senza cedere al terrore che qualcosa resti fuori campo. ■ andrealaquidara@libero.it A. Laquidara è documentarista e regista


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Fotografia Promesse e minacce dal digitale di Elena

Fred Ritchin DOPO LA FOTOGRAFIA ed. orig. 2009, trad. dall’inglese di Chiara Veltri, pp. 220, 46 ill. col., € 25, Einaudi, Torino 2012

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opo la fotografia… ancora la fotografia, ma così mutata nella sua natura costitutiva, nella sua frammentata composizione di byte e pixel, da aprire scenari di senso totalmente inediti non solo nel campo dell’immagine, ma in quello del reale a cui l’immagine fa, o ha smesso di fare, riferimento. Fred Richtin sembra a tratti voler trovare un altro nome per questa nuova tecnica che chiamiamo fotografia digitale. Teme che il mantenimento della parola fotografia non ci renda sufficientemente consapevoli della portata rivoluzionaria dell’aggettivo che la segue. Il digitale, le sue promesse e le sue minacce rischiano di entrare come un cavallo di Troia nel nostro immaginario, illudendoci di ricevere solo e null’altro che doni, e di poterli facilmente gestire, forti di una cultura che conosce la fotografia analogica da poco meno di due secoli. Richtin si propone di aprire la pancia del cavallo di Troia mostrandoci quanto tutte le passate visioni critiche elaborate sulla fotografia analogica vengano a cadere, una a una, davanti al nuovo mondo digitale. Quale senso può più avere il moto di commozione di Ro-

Volpato land Barthes? Nel guardare gli occhi del fratello di Napoleone ritratto in una foto diceva: “Sto guardando gli occhi che videro l’imperatore”, ma se nell’immaterialità eternamente modificabile dell’immagine digitale nulla più assicura che gli occhi di un personaggio ritratto siano il riflesso dei suoi occhi reali, se tutte le immagini pubblicate, indistintamente, passano attraverso il ritocco di Photoshop, come può l’immagine fotografica essere un momento di contatto con il reale passato? Come può essere evidenza di uno sguardo e non solo parvenza di uno sguardo sul mondo? E se non esiste un negativo, se non esiste una pellicola offerta a una luce condivisa che immerga osservatore e oggetto osservato in una medesima dimensione, com’è possibile guardare un’immagine senza perdersi nel rumore delle infinite copie identiche che nascono insieme, esattamente nello stesso istante di ciò che un tempo si sarebbe chiamato originale? Neppure la fotografia spiegataci da Susan Sontag, come momento di potere e conoscenza, ha più molto a che fare con l’immagine digitale. La conoscenza nel dominio della modificabilità e falsificazione è esclusa. Il potere forse non muore mai, ma quello che derivava dalla possibilità di collezionare luoghi e persone come miniature dipinte nello stile che più si preferiva, quello ci è precluso o, quanto meno, ogni singola collezione di miniature è destinata

a perdersi, fondersi e disgregarsi con le innumerevoli collezioni del Web: tutti imperatori, nessuno più imperatore. Il merito di Ritchin in questo libro è di cercare un cammino mediano tra facili abbandoni a visioni apocalittiche ed entusiasmi per panorami futuribili. Cerca con pazienza di circoscrivere le condizioni e i filtri necessari a salvare lo statuto di evidenza dell’immagine fotografica. Cerca di allontanare la minaccia di una cultura visiva in cui nulla sia più credibile, ben consapevole che una simile prospettiva renderebbe l’informazione ancora più succube delle forme di potere di quanto non lo sia già ora. Ritchin vorrebbe giustamente mettere tutto in discussione, convinto che, se non lo si fa ora, non saremo più in grado di porre rimedio ai “doni” del digitale. La sensazione però, nel seguire passo passo i suoi esempi di fotogiornalismo spregiudicatamente intriso di Photoshop, è che il suo richiamo arrivi già, inevitabilmente, a cose fatte. Il cavallo è ormai dentro le mura cittadine, e non c’era verso di discuterne prima che ci fosse offerto in dono.

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ltre a una difficile regolamentazione, Ritchin prova anche a immaginare uno sviluppo consapevole della scissione tra realtà e immagini, dove cerca di trasformare l’inattingibilità del reale oltre la foto in una possibilità espressiva del mezzo. Se dietro ogni pixel non c’è un contatto diretto con il reale, sostiene Ritchin, ogni pixel potrà almeno farsi porta verso un’ulteriore informazione, in una concatenazione di dati che dilati i significati dell’immagine attraverso la possibilità del link, tipico strumento del digitale. Se la singola immagine non è più credibile neppure come feticcio nell’oceano contraffatto delle immagini, una fotografia contestualizzata, unita cioè ad altre immagini e a ogni possibile tipo di documento (da quelli scritti a quelli audio, ai filmati), può forse ritrovare il proprio significato. Una foto la cui superficie, opportunamente cliccata, rimandi ad altri contenuti digitali può condurre al formato più amato da Ritchin: il photoessay, un saggio fotografico in cui l’autore, ormai privato della responsabilità sul singolo scatto che giornali e riviste acquistano per poi modificare, possa rientrare in possesso della sua voce, orchestrando foto con foto e dichiarando la propria posizione con testi di accompagnamento, diventando credibile nell’articolazione di un ipertesto. Forse Ritchin ha ragione: la complessità può soffocare la mistificazione, ma, si teme, solo per qualche tempo, perché la mistificazione è fatta per inventare storie ancor più complesse del reale. ■ elena.volpato@ fondazionetorinomusei.it E. Volpato è conservatore presso la Gam di Torino e insegna storia dell’arte contemporanea alla Naba di Milano

Malinconia dell’immagine latente di Marco

Joan Fontcuberta LA (FOTO)CAMERA DI PANDORA LA FOTOGRAFI@ DOPO LA FOTOGRAFIA

ed. orig. 2010, trad. dallo spagnolo di Guia Boni, pp. 206, € 19,90, Contrasto, Roma 2012

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a fotografia è entrata nel suo dopo. Lo sostiene Fred Ritchin nel libro recensito qui accanto; lo conferma La (foto)camera di Pandora. La fotografi@ dopo la fotografia dello studioso e artista visuale Joan Fontcuberta (Barcelona, 1955). Per quest’arte ancora senza nome, Fontcuberta adotta il termine non marcato di postfotografia, preferendolo ad altri referenziali, ma eufonicamente improponibili, come infografica figurativa o pittura digitale realista. La postfotografia è la fotografia digitale, ma il riferimento alla sua tessitura semiotica (in opposizione a quella analogica della fotografia-fotografia) non è sufficiente a caratterizzarne la novità, benché contribuisca a spiegarne la rapida ascesa al parnaso delle arti contemporanee attraverso l’assimilazione al carattere “digitale” (dato dalla discontinuità delle pennellate sulla tela) della pittura. Neppure è possibile definire la postfotografia a partire dalla sua manipolabilità, come testimonia l’ampia casistica di fotomontaggi e falsificazioni che Fontcuberta trae, con esempi spesso poco noti, dalla storia della fotografia: l’avvento del digitale ha significato piuttosto una trasformazione nella ricezione, in uno spettatore vieppiù criticamente consapevole della mistificazione in agguato in ogni immagine fotografica. È questo d’altra parte un tema costante dell’opera visuale dell’autore (www.fontcuberta.com): dal reportage spurio (Sputnik; Deconstruir Ossama), alla pseudopaleontologia di Sirenes, all’uso “illuministico” del fotoritocco in Miracles & Co., la fotografia, più che “arte della luce”, è, per Fontcuberta, “arte della lucidità”. Che cos’è, allora, la postfotografia? Quali tratti la definiscono? Fontcuberta ne individua due fondamentali, che, come suggerisce il riferimento al vaso di Pandora nel titolo, rendono la tecnologia digitale potenzialmente dispensatrice di calamità come di occasioni di liberazione: ubiquità (l’autore parla anche suggestivamente di “deterritorializzazione”) e istantaneità. L’immagine postfotografica si svincola dallo spazio, mentre si vincola, approssimandovisi infinitesimalmente, al tempo; non il tempo nelle sue molteplici dimensioni, ma il tempo puntuale dell’istante presente. È su quest’ultimo aspetto che la riflessione contenuta in questo libro assume particolare rilevanza, poiché – fondandosi sull’assunto della fotografia come “metafisica” della cultura visuale contemporanea – l’autore trae conseguenze di portata antropologica

Maggi generale, concernenti in particolare la struttura che altri hanno definito “post-romantica” della soggettività nell’era digitale. “Fotografo dunque esisto” è, secondo Fontcuberta, la devise degli utenti delle videocamere installate negli smart phones e delle immagini subito “postate” sui social networks in “esplosioni vitali di autoaffermazione”. Anche in questo l’autore è attento a cogliere potenzialità di emancipazione, soprattutto rispetto alla concezione del rapporto privilegiato tra fotografia e morte resa canonica, tra gli altri, da Roland Barthes (a questo proposito non è possibile esimersi dal riferire, oltre che dei refusi che purtroppo infestano l’edizione, l’imperdonabile traduzione, a p. 22, del jardin d’hiver della famosa fotografia della Chambre claire con “stazione invernale”: où sont les neiges d’antan?): con i videofonini, si diceva, la fotografia ha a che fare con la vita, pur se in forme ingenue e spesso irriflesse. Prevale tuttavia, nel giudizio dell’autore, quella che egli stesso definisce un’“impostazione malinconica”, sebbene temperata dall’ironia (“Perché chiamarlo amore quando è solo sesso?”, si chiede Fontcuberta in conclusione di libro, in riferimento alle nuove tecniche digitali). L’istantaneità tra l’evento e la sua rappresentazione nella postfotografia annulla quella latenza dell’immagine (tra il tempo dell’esposizione e quello dello sviluppo e della stampa) che, nella pratica della fotografia analogica, nutriva di desiderio l’attesa, di sorpresa o delusione l’apparizione delle prime ombre sulla carta fotosensibile, di sensi e affetti l’immagine manifestata.

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immagine ad apparizione istantanea corre invece il rischio dello svuotamento, della riduzione a pura superficie, come Fontcuberta osserva con preoccupazione a proposito dello statuto della fotografia nell’era di internet nel progetto Googlegrames (2005), nel quale i ritratti desunti da Google delle venticinque persone più ricche del mondo formano l’immagine a mosaico di un homeless, o le immagini relative alle parole-chiave “Yahweh” e “Allah” sono le tessere di cui è composta la scena dell’attacco alle torri gemelle. L’immagine ormai diafana si offre a qualsiasi montaggio. Ma non è forse proprio il montaggio a fornire, secondo la lezione di Walter Benjamin, Aby Warburg e Carl Einstein ripresa da Georges Didi-Huberman, una “rivitalizzazione” dell’immagine, un’attivazione degli strati di significato e di tempo in essa latenti? Sotto questo aspetto il libro di Fontcuberta richiama l’integrazione di quello, per molti versi consentaneo, di Ritchin, più attento alle implicazioni del montaggio come dispositivo caratteristico dell’età postfotografica. ■ marco.maggi@usi.ch M. Maggi insegna letteratura e arti all’Università della Svizzera italiana


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La tragedia del dolore innocente di Benedetta

Centovalli

Mariapia Veladiano IL TEMPO È UN DIO BREVE pp. 225, € 17, Einaudi, Torino 2012

Pagina a cura del Premio Calvino

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ppena finito il nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, si deve prima di tutto fare decantare l’esperienza di questa lettura. Non so se avete visto Amour di Haneke, un po’ la stessa cosa (tranquilli, solo dal punto di vista delle sollecitazioni). Tante domande affollano la nostra coscienza, ma sono domande talmente primarie, affondano così dentro di noi, che viene naturale fare un passo indietro. Ecco questa per me è la chiave: fare un passo indietro. Se è vero che scrivere libri vuol dire puntare i piedi di fronte alla verità, ecco che subito dopo averla snidata, chi scrive e chi legge devono fare un passo indietro. Un passo di danza, felpato, elegante, come quello di un timoroso cucciolo di cane che avanza e indietreggia, più volte, e sono più i passi indietro che quelli avanti, eppure esplora, comprende, impara, rispetta. A volte serve assecondare il vento. Ci vogliono una buona dose di paura e una altrettanto grande di incoscienza per raccontare una storia come questa di Il tempo è un dio breve, ci vuole il coraggio della paura, quando la paura si accetta per quello che è: la meraviglia e l’orrore indicibile e non governabile della vita nel suo farsi e nel suo disfarsi. La prima ragione per cui il romanzo di Veladiano è un romanzo importante risiede nella sua diversità da tutto quello che ci capita di leggere in questi anni convenzionali e uniformi, di scritture cresciute in laboratorio, smussate e allenate in palestre per la fabbricazione di buone storie destinate al cinema o alla televisione. Contro ogni canone e prevedibile collaudo, Veladiano parla di amore e di Dio, affronta temi di spiritualità che hanno a che fare con la nostra vita quotidiana, affina lo sguardo oltre ogni facile e risaputa pratica religiosa, provoca dentro il lettore disponibile riflessioni fuori dal tempo, ma necessarie alla sua formazione. E lo fa con uno stile semplice che si nutre liberamente della conoscenza di testi sacri e saperi teologici (dalla Bibbia ai mistici), utilizzati e restituiti in modo accessibile e naturale, in forma di provocazioni, di stimoli, nonché di riferimenti e modelli della grande letteratura classica europea. Il tempo è un dio breve (o della velocità con cui le nostre esistenze si consumano) racconta la storia di Ildegarda, abbandonata dal marito, e della sua paura che il dolore possa toccare e travolgere la vita del figlio. Vale la vita il male che c’è? Vale per l’amore, come quello per il figlio Tommaso. Ma quando il male colpisce un bambino, allora il silenzio di Dio è ferita, dolore non medicabile. Ogni bambino è Dio, è vita, e morire in croce vuol solo dire che Dio è divinamente impotente davanti al male (“Io credo che Dio non possa fare niente e chi invoca il disegno di Dio non sa quel che dice”). Il dolore innocente è tragedia, impossibile accettazione. Ingiustizia senza spiegazione, dolore del mondo assoluto, presenza del male nel mondo (“Bisognava avere compassione di Dio per il male del mondo”). Qualcuno si ricorda Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forest? Il racconto laico della morte della figlia dello scrittore, mai più uscito da quel dolore e dall’ossessione del pronunciare questo dolore senza parole e senza pace. Ildegarda, io narrante del romanzo, “penna materna”, vuole prevenire quella tragedia e propone a Dio uno scambio, uno scambio in nome dell’amore che salva e basta. Così il romanzo di Ildegarda (“I nomi sono moltitudine”), giornalista in una rivista cattolica ed esperta di piante che coltiva con sapienza in redazione, è una potente e struggente storia d’amore. L’amore assoluto per il figlio Tommaso, l’amore irrealizzato per il marito Pierre, che abita il silenzio degli uomini e in silenzio abbandona la propria famiglia, l’amore pieno per Dieter, pastore protestante tedesco segnato dal lutto e incontrato in un paesaggio di neve. Luoghi, veri e immaginari, e persone che sono tutti attori nel-

le vicende narrate: Villacadra e la pianura padana, Milano, Londra, Heidelberg, ma soprattutto la montagna magica di Campodalba; o l’amicizia intensa di Marguerite e del Direttore per la giovane donna. Motore della storia di Ildegarda, “inviata in umane faccende”, è la fede che vale per chi ce l’ha e per chi non ce l’ha (“Chi non crede in Dio forse non lo ha mai incontrato in un amore abbastanza grande e rassicurante da suggerire qualcosa dell’amore di Dio”), fede che comprende tutte le ragioni del romanzo, ne è sorgente e alimento costante. Qui vale la pena dire quanto il primo libro di Veladiano, La vita accanto (Einaudi, 2011; Premio Calvino 2010 salutato dal successo di pubblico e di critica), risulti illuminato e accresciuto dal nuovo, come se quell’interrogarsi sul male, sulla bruttezza, sul potere della grazia e della redenzione, di un nitore a tratti anche troppo calligrafico, trovasse una pienezza e una corposità più mature, distese, e un coraggio senza riserve. Un progressivo disvelamento della macchina del pensiero che sottende la trama romanzesca, cosicché nella seconda prova la narrazione forza gli elementi della finzione a favore di un flusso continuo di pensieri, domande, sogni, desideri, riflessioni, sulla fede, sulla libertà di scelta, sull’amore come ordine e forma della vita, sull’ingiustizia e sull’impossibilità di comprendere la natura assoluta del male. Il tempo è un dio breve dovrebbe essere letto da chi crede e anche da chi non crede, perché non fa differenza, la differenza è solo nella ricerca della verità, che appartiene a tutti con un’urgenza accresciuta nel tempo presente. ■ bcento@tiscali.it B. Centovalli è editor e saggista

Una scalcagnata banda di equilibristi di Chiara

Bongiovanni

Fabio Napoli DIMMI CHE C’ENTRA L’UOVO pp. 155, € 14, Del Vecchio, Roma 2012

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n premio letterario per autori esordienti spesso giovanissimi come il Calvino è, per sua natura, un fecondo laboratorio di sperimentazioni narrative sulle nuove forme del sociale e di conseguenza ha accolto, negli anni, riflessioni, lamenti, spunti autobiografici, bozzetti e, nei casi più felici, narrazioni adulte e compiute sul tema del precariato. Finalista nel 2008 con il titolo più immediato ed efficace La banda dei precari, ma pubblicato soltanto ora, il romanzo di Fabio Napoli è stato tra i primi nella storia del premio a trattare con dolorosa ironia e palese competenza l’attualissimo e spinoso mondo dei giovani equilibristi dell’interinale,

perennemente in bilico tra un contratto e l’altro, tra un colloquio e un licenziamento, tra la rabbia ingestibile che spinge anche il più mite dei giovani laureati a impugnare una pistola e la stagnante rassegnazione che ti riporta dritto dritto al desolato e rassicurante divano di mamma. Fin dalla prima pagina il protagonista, Roberto Milano, si barcamena come può, rimbalza, in una sorta di folle e frenetica routine, da una comparsata di prima mattina in un filmino porno a una pizzeria a domicilio, da un bar a una ripetizione. Spia del suo disagio, una psoriasi da stress. Unico punto fermo una mamma remota ma salvifica. Bastano però quarantotto ore a sconvolgere il suo assurdo tran tran: un concorrente artistico dotato di una “sleppa da paura”, una pizza servita fredda e una canna di troppo in compagnia del suo allievo lo lasciano quasi totalmente disoccupato. L’affitto rischia di diventare un miraggio, l’unica speranza è un posto in un fast food. Il colloquio è una spassosa catastrofe (troviamo qui alcune delle pagine più riuscite dell’intero romanzo), ma Roberto, pur senza ottenere il lavoro, ci guadagna una ragazza con il ciuffo sugli occhi, denti storti e coraggio da vendere e il tuffo di testa nel mare magnum dell’illegalità. Nasce così la disastrosa e scalcagnata banda dei precari, che organizza piccoli furti lasciando ogni volta la sua firma, a riprova del valore anche ideologico dell’impresa. Una rapina a mano armata in pieno giorno, un suicidio e il lauto bottino divorato da un tritarifiuti sono le drammatiche conseguenze della ribellione. Neanche la tragedia servirà però a travolgere e sradicare l’irrequieta banalità delle vite a progetto, che finisce per riprendere il sopravvento in un finale amaro, malinconico e doverosamente precario. ■ chiara.bongiovanni@tin.it C. Bongiovanni è insegnante e traduttrice

Utilizzatori innamorati di Mario

Marchetti

Alberto Mossino L’AMORE VERO L’HA FATTO SOLO CON ME pp. 150, € 12, Arca, Torino 2012

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lberto Mossino, un chimico che da più di quindici anni si occupa di tratta di esseri umani, immigrazione e prostituzione attraverso la Piam onlus, è arrivato al suo secondo libro dopo il rutilante Quell’africana che non parla neanche bene l’italiano, finalista alla XXII edizione del Premio Calvino e poi pubblicato da terrelibere.org nel 2009. Il territorio che viene scavato in L’amore vero l’ha fatto solo con me, originariamente intitolato con un più disinvolto Puttane e puttanieri, è contiguo a quello che fa da sfondo al romanzo, ma la chiave di lettura o, meglio, la prospettiva e il taglio sono diversi: se in Quell’africana prevaleva uno scanzonato tono picaresco e il gusto puro della narrazione, pur nella precisione sociale e umana dello sfondo (in particolare quello della comunità nigeriana in Italia), questa volta lo sguardo, decisamente sociologico, è appuntato sul fenomeno della prostituzione con quella straordinaria capacità di Mossino di saper tenere insieme leggerezza e profondità. In ventisei pezzi, che sono insieme racconti e resoconti antropologici, ci si squaderna di fronte un mondo assai poco noto, se non con il gusto da peeping hole della cronaca, con toni lubrichi sotto una falsa eticità o una correttezza politica di copertura, o attraverso i freddi numeri delle statistiche. Conosciamo così delle persone, donne e uomini, le cui esperienze emotive e di vita, autentiche, gravitano attorno a un mondo considerato marginale, ma che tale in realtà non è. Particolarmente nuovo è lo sguardo umano sul cliente delle prostitute: scopriamo così i suoi innamoramenti, le sue viltà, i suoi conformismi, il suo bisogno di affetto. È un uomo e non solo un utilizzatore finale. Un libro ricco di morale, senza moralismi. E scritto notevolmente bene, con grande agilità, con la lingua di tutti i giorni, ma senza formule stereotipate. ■ m.ugomarchetti@gmail.com M. Marchetti è insegnante e traduttore


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Architettura Alcune semplici parole d’ordine di Cristina

L’ARCHITETTURA DEL MONDO INFRASTRUTTURE, MOBILITÀ, NUOVI PAESAGGI

a cura di Alberto Ferlenga, Marco Biraghi e Brenno Albrect pp. 406, € 38, Compositori, Bologna 2012

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n campo architettonico e urbano torna l’ambizione di ricostruire ampi quadri sistematici. Non si tratta solo di fare i conti con la fine del Novecento che genera sguardi retrospettivi, è qualcosa di diverso, che attraversa testi retti su un intreccio non del tutto formalizzabile di motivazioni, conoscenze, argomentazioni e interessi attorno a un tema; percorsi da un’aspirazione pedagogica; tesi a costruire un orizzonte di ascolto ampio. È interessante osservare come le difficoltà di un ruolo di mediazione culturale per l’architettura (l’afasia di cui molti riconoscono soffra) si accompagnino a slanci ottimistici nei confronti della sua capacità pedagogica. Così Architettura del Novecento. Teorie, scuole, eventi (2012), primo di tre volumi di Einaudi curati da Marco Biraghi e Alberto Ferlenga, un’antologia di commenti critici: sorta di nuovo dizionario sul discorso architettonico negli ultimi sessant’anni che non vuole confondersi con una storia, né con un’enciclopedia. O The future of Architecture. Since 1889 di Jean-Louis Cohen (edito in inglese e francese da Phaidon nel 2012): affresco storico molto diverso dal primo, non fosse altro che per la tenuta forte attorno al pensiero critico di un unico autore, ma di estensione temporale e geografica altrettanto ampia. Sfide di tale portata si costruiscono, a volte, su mostre tematiche che sempre più numerose si accostano alla forma tradizionale dell’esposizione monografica. Il Centre Canadien d’Architecture è stato in questo precursore e ciò si deve in buona parte alla direzione di Mirko Zardini. L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi ha questo stesso carattere e questa origine. È il ricco e denso catalogo dell’omonima mostra ospitata e promossa dalla Triennale di Milano (dal 9 ottobre 2012 al 10 febbraio 2013). Il libro muove registri diversi per ampiezza e carattere, ed è scandito in sei sezioni: la prima pone le coordinate della discussione; la seconda ne approfondisce alcuni aspetti; la terza è un curioso richiamo alle politiche infrastrutturali urbane nel mondo, dalla “A” di Amburgo alla “V” di Vienna: una rassegna che gioca con la sua stessa impossibilità. Poi la parola passa ai fotografi e infine, ad alcuni giovani studiosi. Un discorso corale, portato avanti da 138 autori, accostando scale geografiche e temporali assai distanti, ridisegnando impli-

Bianchetti citamente il panorama degli studi condotti in alcune scuole ed escludendone altre che pure al tema hanno dato, in un recente passato, contributi. Un eclettismo più o meno ricomposto attorno a un compito di orientamento dell’opinione pubblica che deborda dai singoli contributi, alcuni dei quali di grande interesse. Infatti, i dodici “temi dai quali è necessario partire” per una nuova politica infrastrutturale italiana esplicitano con molta chiarezza un compito di orientamento rivolgendosi alle istituzioni attraverso alcune semplici parole d’ordine: riciclo, conservazione, permeabilità, reciprocità, paesaggi, multifunzione, infralente e veloci, vie d’acqua, energia (risparmio e produzione), cambiamento climatico, consenso, adeguamento e sviluppo. Difficile dissentire dai dodici imperativi, seppure, a guardar bene, essi non siano del tutto reciprocamente compatibili. Il rischio è piuttosto quello di rinvigorire slogan di facile consumo. Architettura, infrastruttura, paesaggio sono le parole attorno alle quali si è accumulata negli ultimi anni una tensione a cui è difficile resistere. Che l’infrastruttura sia pertinente al territorio e all’architettura l’ha spiegato Gregotti a metà anni sessanta. Che abbia un carattere di necessità rilevato in negativo, quando si dice che la mancanza di infrastrutture adeguate compromette le capacità di un sistema economico e sociale, l’ha spiegato Secchi nel volume citato sull’Architettura del Novecento, sottolineando l’idea di solidità e permanenza che l’accompagna: l’infrastruttura è stabile, costosa, difficile da rimuovere, lascia segni che costituiscono un problema; le nuove infrastrutture si accostano o sovrappongono alle vecchie; hanno costi elevati e sono utilizzate in modo indivisibile, per questo sono considerate beni pubblici alla cui costruzione provvede il soggetto pubblico al doppio fine di aumentare l’efficienza del sistema e agire in modo anticiclico. Che l’infrastruttura costruisca paesaggio è stato detto da Marcel Smets anni fa: la sua griglia interpretativa costruita su cinque strategie (hiding, camouflage, assimilation,

detachment, fusion) era tesa a sistematizzare orientamenti della cultura del progetto e della cultura delle politiche in questo campo. Molto è stato detto. Le grandi opere con le loro promesse, l’ardimento tecnico, l’atteggiamento colonialista nei confronti del territorio. E le piccole, diffuse, a costruire un supporto indispensabile per l’abitare: la “seconda Natura che opera a fini civili” di cui parlava Goethe. E ancora, l’essere leva politica di grande potenza nel mondo, come evidenzia una qualsiasi rassegna delle grandi dighe progettate e costruite negli anni novanta nei paesi in rapida crescita (Cina, Brasile, India, ad esempio). Esiste un’enorme produzione critica. Ne sappiamo molto. Qual è allora lo scarto che il volume e la mostra in Triennale ci propongono? Una sorta di rovesciamento che appare, come spesso accade a mosse di questo genere, assai fertile: non si parte dall’infrastruttura, la si incontra ragionando del rapporto tra architettura e modernità. Ciò accade fin dagli anni venti e trenta, come scrive Ferlenga, richiamando i disegni “visionari e realistici al tempo stesso” di Le Corbusier. Il “Novecento delle infrastrutture” diventa un magazzino di pratiche utili, di strade avviate, di propositi disattesi. È il richiamo a una “vena visionaria” necessaria più che mai per uscire dall’autismo e dall’autoreferenzialità che hanno caratterizzato l’architettura di questi ultimi anni, chiudendola al contempo in insopportabili eccessi. La progettazione di infrastrutture non può evitare di muoversi in stretto contatto con valori ambientali, urbanistici, culturali. Questa condizione costruisce la necessità di riposizionarsi, tenendo conto di come il Novecento sia davvero finito e provando a ridare un ruolo internazionale alla cultura progettuale del nostro paese entro un mutato sfondo. Si apre qui uno straordinario programma di ricerca. E ciò che il rovesciamento di Ferlenga, Biraghi e Albrecht propone è l’individuazione di un oggetto entro questo vasto programma di ricerca (nel senso conferito al termine oggetto da Bourdieu) e lo slancio a tenere attorno a esso una nuova intelligenza che poco ha a che fare con le scorciatoie cui l’inflazionato termine smart allude. ■ c.bianchetti@fastwebnet.it C. Bianchetti insegna urbanistica al Politecnico di Torino

Problemi della democrazia partecipativa di Gabriele

Giovanni Laino IL FUOCO NEL CUORE E IL DIAVOLO IN CORPO LA PARTECIPAZIONE COME ATTIVAZIONE SOCIALE

pp. 238, € 31, FrancoAngeli, Milano 2012

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i sono saggi nei quali è difficile sentir risuonare la vita, quella dell’autore innanzitutto, ma anche quella degli attori, individuali e collettivi a cui l’autore fa riferimento. Non è certamente questo il caso del volume scritto da Giovanni Laino, docente universitario ma anche professionista e attivista ben noto a Napoli per il suo lungo impegno nell’Associazione Quartieri spagnoli e come consulente dell’amministrazione comunale nel disegno e nell’attuazione di politiche di rigenerazione urbana. Il libro di Laino, fin dal titolo, fa parlare donne e uomini in carne e ossa: le giovani impegnate nel progetto dei Nidi di mamme così come i ragazzi invischiati nei circoli viziosi della povertà (culturale prima ancora che economica), dell’insuccesso formativo e della disoccupazione. La capacità di dare la parola a questi soggetti, spesso i meno privilegiati, qualche volta gli “ultimi”, è sorretta da un’interrogazione che è insieme intellettuale ed etica, e che commisura complesse domande teoriche sul destino della democrazia alla materialità della vita quotidiana di chi nasce, cresce e muore in condizioni più disagiate, in contesti più problematici, in quartieri più difficili. Proprio per questa ragione Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo è un libro che sfugge a definizioni riduttive. Esito di un lavoro di riflessione e di impegno sul campo durato molti anni, il testo accosta forme di scrittura e approcci molto diversi. Nella prima parte, in tre brevi testi Laino propone la ricostruzione di un vocabolario per leggere la mutazione del contesto delle politiche urbane, a partire dai concetti di trespassing, cura e ambiguità. Nella seconda parte l’autore propone alcuni saggi che riflettono su problemi e paradossi della democrazia partecipativa, con riferimento a una ricca letteratura interdisciplinare e a una meditazione sulle implicazioni radicali di una cultura pluralista delle differenze. Nella terza parte il libro restituisce alcune storie di progetti e politiche di cui sovente l’autore è stato protagonista in presa diretta, spesso con un ruolo da protagonista. Infine, Laino propone un modello di intervento per i quartieri deprivati del Mezzogiorno basato sull’attivazione del protagonismo degli abitanti, ma anche su un ruolo di guida consapevole del progettista e del gestore delle politiche. Questa molteplicità di suggestioni, stili di scrittura e riferi-

Pasqui

menti rende il libro poco omogeneo, in qualche occasione ridondante, in qualche altra elusivo. Non tutte le riflessioni teoriche proposte appaiono egualmente robuste; tuttavia, quel che colpisce il lettore è l’urgenza delle domande cui il volume prova a rispondere e corrispondere, un’urgenza che viene dall’esperienza e dalla conoscenza personale dei problemi e dei paradossi della democrazia e della partecipazione in contesti di forte deprivazione sociale, economica e culturale. Ed è certamente questa esperienza che permette a Laino di sottrarsi alle retoriche partecipazioniste che hanno caratterizzato una lunga stagione di politiche urbane nel nostro e in altri paesi, evidenziando ambiguità e paradossi di una concezione accomodante della partecipazione che finisce spesso per sfociare nella costruzione del consenso e nella neutralizzazione del conflitto. I requisiti della “buona partecipazione”, che è in prima istanza attivazione ed empowerment di chi è tradizionalmente escluso dai circuiti sociali e politici, sono secondo Laino molto difficili da garantire. Come dimostrano le “storie di politiche pubbliche” che l’autore narra nel libro, irrobustimento delle pratiche democratiche e partecipazione sono esiti, eventuali, di un processo assai complesso, che mette in gioco i saper dire e i saper fare di tutti gli attori e che richiede tuttavia in prima istanza, a chi progetta e accompagna gli interventi, i progetti e le politiche, competenze tecniche, pragmatismo, capacità di adattamento, ma anche responsabilità e passione umana e civile. Si comprende allora per quale ragione Laino invoca, come propri punti di riferimento, figure del riformismo italiano attive nel secondo dopoguerra quali, tra le altre, Umberto Zanotti Bianco, Guido Calogero, Aldo Capitini, Ubaldo Scassellati, Danilo Dolci, Giorgio Sebregondi, Manlio Rossi Doria. Figure di intellettuali fortemente radicati nella società, prevalentemente ma non esclusivamente legate alla tradizione del cattolicesimo riformista, impegnate (innanzitutto nel Mezzogiorno) a costruire percorsi capaci di mettere al lavoro l’intelligenza sociale e di “fare comunità” a partire dagli ultimi e dagli esclusi. Anche rimeditando queste ricche esperienze umane, Laino nel suo libro ci consegna domande e inquietudini che sollecitano sia una riflessione culturale e tecnica rigorosa, sia una rinnovata interrogazione sul senso dell’azione pubblica nelle città e nei territori come impegno sociale e civile “dalla parte dei più deboli”. ■ gabriele.pasqui@polimi.it G. Pasqui insegna urbanistica al Politecnico di Milano


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Arte Contesi tra artisti e antropologi di Ivan

Bargna

Ezio Bassani ARTE AFRICANA pp. 303, 262 ill. col. e b/n, € 55, Skira, Milano 2012

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uando si parla di arte africana si ha a che fare con oggetti contesi, con una lotta per il riconoscimento che si gioca in gran parte al di fuori dell’Africa. Non potrebbe essere altrimenti, visto che perlopiù gli oggetti di cui parliamo si trovano in Occidente, in musei pubblici o collezioni private. Si tratta di una vicenda che ha i suoi inizi tra fine XIX e inizio XX secolo, quando nasce l’antropologia culturale e si afferma il primitivismo modernista delle avanguardie artistiche. La divergenza non è fra denigratori e benefattori ma, sullo sfondo di un umanismo condiviso, sul modo più appropriato di intendere e presentare questi manufatti. Gli antropologi li hanno spesso visti come forme della cultura materiale, come documenti, mentre artisti e critici d’arte ne hanno perlopiù valorizzato la dimensione estetica: oggetti etnografici da un lato, opere d’arte dall’altro. Gli antropologi hanno rimproverato ai fautori di una lettura estetica il carattere etnocentrico dei loro giudizi di gusto e del loro stesso concetto di “arte”; mentre costoro hanno visto nell’approccio etnografico un localismo che impediva di cogliere il valore universale dell’arte africana. Di questa contesa Ezio Bassani è stato un protagonista autorevole, che con grande coerenza si è dedicato per decenni, con mostre e pubblicazioni di rilevanza internazionale, alla selezione e presentazione dei capolavori dell’arte africana. E questo continua a fare anche in quest’ultima grande opera, con cui saluta quella che a suo avviso è l’odierna conversione dei musei etnografici tradizionali in musei d’arte, in cui “le opere riscattate dalla condizione di documento, sono promosse a testimonianza privilegiata della creatività umana”. Bassani enuncia con molta chiarezza i presupposti da cui muove la sua ricerca: se “i criteri in base ai quali viene definita la valenza formale di un’opera variano secondo la cultura entro la quale vengono formulati (…) la perfezione formale (da non confondersi con la piacevolezza, che è una questione di gusto) [è] una qualità intrinseca di ogni opera d’arte (…) Perché forma e organizzazione della forma sono il linguaggio dell’arte figurativa di tutti i tempi”. Il libro raccoglie una settantina di opere comprese fra il I millennio a.C. e il XVIII secolo, escludendo le opere del XIXXX secolo che costituiscono la

grande maggioranza delle opere note; se questo fornisce quella profondità temporale senza cui una storia delle arti africane non è possibile, ha però come conseguenza l’espulsione della modernità e della storia coloniale dell’Africa. Anche se Bassani riconosce che la storia delle arti africane è attraversata da guerre, migrazioni, scambi, tutto ciò non ha effetti sulla sua impostazione, centrata sulla nozione astorica e aculturale di “capolavoro” (l’“intrinseca bellezza delle opere”): nella lettura di Bassani la storia sembra ridursi a datazione. Dove l’approccio di Bassani appare più convincente è, lungo la linea che è stata di Frans Olbrechts e William Fagg, nell’analisi morfologica e stilistica che ha reso possibile l’attribuzione di certe opere a particolari atelier o scultori, cui si è dato spesso un nome convenzionale per l’impossibilità di risalire ad autori defunti in assenza di documenti scritti. Qui l’approccio dello storico dell’arte ha meritoriamente corretto l’antropologia, che in passato enfatizzava il predominio della dimensione collettiva su quella individuale, lasciando gli artisti nell’anonimato. Laddove invece l’analisi di Bassani suscita qualche perplessità, è quando fa di certi movimenti artistici occidentali (“realismo”, “cubismo”, “surrealismo”, “astrattismo”) delle categorie attraverso cui catalogare le opere africane. È significativo che questa classificazione, che lo stesso Bassani ritiene un procedimento “improprio e inadeguato” per quanto utile, si chiuda con le “opere che non rispondono a categorie formali occidentali o le assommano”, nelle quali viene raccolto tutto ciò non è stato possibile accomodare nei termini precostituiti precedenti.

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orse oggi siamo però nelle condizioni di rivedere questo rapporto fra arte e antropologia, andando oltre il primitivismo modernista delle avanguardie e le tassonomie della vecchia museologia etnografica. L’antropologia (anche nel museo) mette in luce l’agentività delle persone, le storie di vita, il carattere connettivo, reticolare e aperto della cultura, l’importanza della dimensione estetica. Viceversa molti storici dell’arte guardano oggi all’antropologia per sottolineare la dimensione contestuale e culturale delle opere e per comprendere l’arte nell’epoca della globalizzazione; anche l’arte contemporanea può offrire nuove ipotesi interpretative: fatta di opere site specific, performance, azioni, costruzione critica di relazioni, spesso si rifà proprio alla pratica etnografica. Le opposizioni del passato sembrano lasciare il campo ad accresciute, apparenti convergenze che ci consentono di riavvicinarci alle arti africane con una diversa sensibilità. ■ ivan.bargna@unimib.it I. Bargna insegna antropologia estetica all’Università di Milano Bicocca

Mi piace non mi piace di Federica

Rovati

Giovanni Urbani PER UNA ARCHEOLOGIA DEL PRESENTE SCRITTI SULL’ARTE CONTEMPORANEA

a cura di Bruno Zanardi, con saggi di Giorgio Agamben e Tomaso Montanari, pp. 272, € 34, Skira, Milano 2012

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l ricordo di Giovanni Urbani è legato alla fondazione dell’Istituto centrale del restauro e alle polemiche inesauste, alle denunce mai taciute, sulle carenze statali nella tutela del patrimonio artistico italiano: prediche inutili per un’Italia sciagurata che continua a dilacerare il proprio tessuto storico-artistico e a praticare con disinvoltura restauri improvvidi. Meno conosciuto è lo sguardo di Urbani sull’arte contemporanea, ora accostabile attraverso gli scritti di un decennio (1956-1967) scelti da Bruno Zanardi. Pubblicati su alcune testate culturali e poi rilegati dall’autore in un volume ritrovato tra le sue carte, quasi a dimostrarne il valore non marginale, gli articoli di Urbani discutevano opere e artisti contemporanei secondo un taglio ostile, non infrequente nella critica italiana di quegli anni, smarrita davanti ai drippings di Pollock, urtata dai combine paintings di Rauschenberg, spesso decisa a risolvere nell’irrisione la propria incapacità a comprendere. Raffinato, colto, disincantato, Urbani non si limitò a emettere un giudizio sbrigativo, ma si impegnò in un discorso sottile, mai banale, sulle ragioni della propria avversione, da cui discendeva un’uguale perplessità verso la possibilità di istituire una cattedra universitaria di storia dell’arte contemporanea, per il valore transitorio e il destino caduco attribuito alla materia. Ciò che lascia interdetti, nell’edizione recente, è la tranquilla facilità con cui si assicura la tenuta attuale delle opinioni di Urbani: opinioni legittime, ma viziate dal difetto intellettuale che quest’ultimo denunciava fra le tare della cultura di massa, dove la piatta alternativa del “mi piace/non mi piace” esclude a priori ogni possibilità di conoscenza. Meglio sarebbe stato ragionare sulle scelte di Urbani nel confronto con le opere e i testi critici che egli citava in modo esplicito o teneva coperti nel suo discorso, ed evitare discussioni retrograde. La demolizione di Pollock muoveva ad esempio da uno scritto di Allan Kaprow che, nel 1958, interrogandosi sull’eredità lasciata dal pittore recentemente scomparso, riconosceva la trappola in cui i coetanei erano caduti imitando un lavoro per definizione inimitabile come quello

pollockiano: da qui la prima intuizione di quella necessaria dilatazione dell’azione artistica allo spazio concreto dell’esistenza che avrebbe condotto lo stesso artista, l’anno seguente, a teorizzare le modalità dell’happening. Il paradosso di Urbani, o meglio la malizia del suo gioco dialettico, stava nel riferire in modo angolato, cioè parziale, il contenuto di quel testo, capovolgendone il ragionamento in una sostanziale confutazione di valore dell’action painting, di cui invece Kaprow dilatava il significato, e preferendo dimenticare che l’esempio dei vituperati combines di Rauschenberg aveva già preso corpo e nutriva quella riflessione. Nella fretta polemica Urbani cadeva in altre disattenzioni, o censure premeditate, quando coinvolgeva in un giudizio sommario personalità distinte della stagione informale, visto che la rivista “Art News”, in cui era apparso l’articolo di Kaprow, metteva a disposizione un apparato iconografico prezioso per chi fosse disponibile a verificare quanto fosse meditata e consapevole quella pittura. Del resto, quando individuava nei ready-made di Duchamp uno snodo cruciale del Novecento, oltre il quale l’arte non potrebbe più sussistere, Urbani non faceva che subire una riscoperta critica avviata dal mercato dell’arte statunitense e confortata dalla densità di valore che all’intuizione duchampiana era riconosciuta dagli artisti più giovani: proprio quel mercato e quella critica che egli stigmatizzava come fucine di fame scroccate e di artisti millantatori. Se agli scritti di Urbani ci si può quindi rivolgere non è per l’originalità dei contenuti, né per le forbite argomentazioni (con il rimpianto di non trovarvi più utili riflessioni sul restauro dell’arte contemporanea), ma per ciò che essi mostravano nel rovescio mentre si impegnavano a smontare i presunti inganni degli artisti, insieme alle perversioni di un sistema artistico che già si affannava ad allestire mostre e musei inutili, ossia i vezzi e le fragilità del gergo critico. Si può sorridere delle contraddizioni evidenziate, ma esse valgono come conferma, in negativo, di quella continua dilatazione di prospettiva, con nuove aperture di senso, che l’arte contemporanea (anzi, l’arte in ogni tempo) provoca. Se poi alcuni intellettuali non sanno staccarsi da quel formulario e altri ritengono di appiattire sulle ingenuità della critica militante le vicende ben diversamente concrete degli artisti, ignorando il lavoro che gli studiosi più seri conducono quotidianamente, il valore delle opere considerate non ne esce scalfito; ma a questi pregiudizi, e non soltanto alle croniche disattenzioni di chi ci governa, dobbiamo la perdita della Città sale di Boccioni e di tanta parte della collezione Panza di Biumo (due casi fra i tanti): dovremmo forse gioirne? ■

Alla pari con Berruguete di Edoardo

Villata

Letizia Gaeta JUAN DE BORGOÑA E GLI ALTRI RELAZIONI ARTISTICHE TRA ITALIA E SPAGNA NEL ’400 pp. 174, 289 ill, € 40, Mario Congedo-Università del Salento, Lecce 2012

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n testo spesso difficile da seguire nei suoi percorsi, non facilitato dalle frequenti e lunghe citazioni non tradotte dalla letteratura critica spagnola, né dal percorso zigzagante e non lineare della assai nutrita sequenza di immagini: non è l’inizio di una stroncatura, bensì la premessa per mettere in risalto i molto pregi di un libro profondo e di notevole rigore storico e metodologico (importante la rivendicazione della centralità dell’analisi formale e stilistica, in un momento in cui un malinteso neopositivismo sembra voler consegnare la validità scientifica di una ricerca di storia dell’arte tutta e solo al versante dell’indagine archivistica intesa in senso brutalmente letterale). La scelta di non trattare in un capitolo specifico la complessa vicenda di Juan de Borgoña, pittore legato a Pedro Berruguete di cui anche recentemente è stato considerato seguace un poco diminutivo (l’autrice invece lo considera, convincentemente, un suo collaboratore alla pari, forse già in Italia, dove potrebbero essersi incontrati nei cantieri urbinati di fine Quattrocento), è frutto di un’originale scelta “narrativa”, decisa a confrontarsi con le opinioni degli studiosi man mano che i problemi critici si presentano all’analisi. Il risultato è un libro singolare, non una classica monografia, ma una serie di densi saggi che esaminano problemi quali appunto lo status di Juan de Borgoña rispetto a Berruguete (e il legame di quest’ultimo con Urbino, rivendicato da Longhi ma talvolta messo in dubbio) e al notevolissimo Maestro di Bolea, o il rapporto con il côté provenzale, rafforzato dalla finale presa di posizione in favore dell’identificazione di Borgoña con il pittore Jean de Borgonha, attivo ad Avignone nel 1502. La lettura di questo volume scuote alcune certezze: per esempio, il Maestro di San Martino Alfieri, attivo in Piemonte a inizio Cinquecento fianco a fianco con Macrino d’Alba, sarà provenzale, come ho sempre pensato, o non piuttosto un pittore affine al maestro di Bolea, e forse ancor più a Iñigo de Comontes? E non avrà ragione Letizia Gaeta, riprendendo le argomentazioni di Francesca Cappelletti, a identificare il cardinale in adorazione della croce raffigurato nell’affresco absidale di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, in Pedro Gonzales de Mendoza e non in Bernardino de Carvajal, come ancora di recente si è affermato. ■

federica.rovati@unito.it

edoardo.villata@unicatt.it

F. Rovati insegna storia dell’arte contemporanea all’Università di Torino

E. Villata insegna storia dell’arte all’Università Cattolica di Milano


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Quaderni

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Edoardo Villata Camminar guardando, 24 Effetto film: Giusi Marchetta e Gianni Rondolino Io e te di Bernardo Bertolucci

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Dagli Sforza al Divisionismo sulla via Emilia Camminar guardando, 24 di

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hi non ha fatto per anni il pendolare sulla linea Genova-Pavia, in cui i treni costeggiano cortili da cui sempre spunta un cane che abbaia, spesso giocano bambini, e lungo la quale si può valutare la diversa incidenza della luce, piatta e cristallina nelle mattine invernali, bassa e carezzevole nei tramonti di tarda primavera; o la calura estiva, resa ancor più insopportabile dai vetusti vagoni (incantevoli invece quando fuori piove), non coglierà il fascino di una città come Tortona: o al contrario, inseguendo agriturismi e cantine, sopravvaluterà forse le bellezze che una terra dopotutto piatta, umida e afosa, può offrire. Credo che la maggior parte delle persone che visitano Tortona per motivi culturali sia richiamata dalla recente istituzione di una Pinacoteca dedicata al divisionismo, che qui e nella vicinissima e splendida Volpedo ha celebrato molti dei suoi trionfi. Si tratta di un museo promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, proprietaria del “palazzetto medievale” che lo ospita, previa ristrutturazione un poco modaiola (ma ogni ristrutturazione, in ogni epoca, lo è). La Pinacoteca presenta opere di indubbia importanza, che raccontano una storia che tocca divisionismo e simbolismo, di volta in volta orientando in senso sociale, o letterario, o prettamente “pittorico”, le scelte. Da un Segantini quasi boldiniano a quello apertamente simbolista, che contiene in sé tutto quanto Angelo Barabino, genius loci recentemente onorato di una mostra monografica, farà lungo la sua carriera, a un Longoni che sarebbe forse piaciuto a Matisse e di certo a Bonnard. Allo stesso modo la Piazza Caricamento di Plinio Nomellini è già quasi la Fiumana di Pellizza da Volpedo (la differenza la fa il fatto che Pellizza da Volpedo rielabora compositivamente la Scuola di Atene di Raffaello: anzi il cartone preparatorio, che avrà studiato chissà quante volte alla Pinacoteca Ambrosiana). Inutile dire che la visita deve completarsi, a poca distanza, con una gita a Volpedo: non solo per lo studio di Giuseppe Pellizza, ma per gli affreschi in parrocchiale di Quirico da Tortona pittore chiamato da Ludovico il Moro, insieme a mille altri, a decorare a cottimo la Sala della balla al castello di Milano nel 1490. Qui, un suo Cristo di dolori replica in termini di patetismo un poco grossier un eletto modello bergognonesco della Certosa di Pavia. Quanto erano veloci e capillari questi maestri minori a divulgare in “provincia” le novità artistiche delle capitali! E poi boschi e luce, senso di quiete e aria da respirare. Questa Pinacoteca è aperta al pubblico nei fine settimana, e l’ingresso è gratuito: bello pensare che un tema di richiamo per un pubblico vasto non sia stato sfruttato commercialmente. Esiste un catalogo (Il Divisionismo. Pinacoteca Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, pp. 181, € 38, Skira-Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, Milano-Tortona 2012). Le opere sono tutte riprodotte, in piccolo formato, accompagnate da didascalie che ne danno i dati tecnici, i passaggi di proprietà e la bibliografia il tutto preceduto da tavole a colori a piena pagina e da saggi di Giorgia Ugo, che il-

Edoardo Villata

lustra le metodologie progettuali del museo, e di Paul Nicholls, il cui scritto a dire il vero non va oltre una presentazione manualistica degli artisti rappresentati nelle sale espositive. Forse un libro di formato più compatto avrebbe ancor meglio svolto la funzione di accompagnatore (il companion degli anglosassoni) del visitatore, lasciando a un volume più lussuoso (e meglio se più “scientifico” la cura del dettaglio fotografico e del volume da sfogliare con calma in casa o in biblioteca.

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na volta che si è qui, non ci si deve accontentare della prima e più evidente proposta, quella appunto della Pinacoteca del Divisionismo. Esiste un Museo Civico importante e chiuso da anni in Palazzo Guidobono (in cui pure vengono realizzate mostre), con una sezione archeologica che illustra i ritrovamenti di Iulia Derthona, opere poco note del cinquecentesco Alessandro Berri, un Compianto ligneo quattrocentesco rimasto un po’ ai margini degli studi. Per riallestirlo e aprirlo al pubblico, per ora, i soldi – a differenza che per il divisionismo – non si sono trovati, né pubblici né privati. Però basta una visita al Duomo, appena usciti dal “palazzetto medievale”, per rendersi conto che la cultura figurativa di Tortona è rimasta per secoli sospesa tra la Lombardia e Genova. Troviamo quindi opere di Camillo Procaccini o Giovan Mauro Della Rovere, o Giuseppe Vermiglio, di cui la sacrestia capitolare contiene un importante ciclo dedicato a sant’Innocenzo. Ma a ricordarci il nodo culturale che si stringe intorno a Tortona, e al suo Duomo, che oltre alla pittura dello “stato di Milano” guarda anche al Piemonte e a Genova, c’è un dipinto di Vincent Malò. Quasi, parafrasando il titolo di un celebre saggio di Mina Gregori che puntava il Seicento milanese partendo da Manzoni, “i ricordi figurativi di Paolo Conte”. Adiacente al Duomo c’è il Palazzo Vescovile, un mio caro ricordo di gioventù che spero mi si perdonerà. Ci andavo quando, laureando, lavoravo su Macrino d’Alba, di cui la collezione vescovile possiede un bellissimo trittico, eseguito nel 1499 su incarico di Annibale Paleologo, figlio illegittimo del marchese di Monferrato, come pala dell’altar maggiore dell’abbazia di Lucedio: colori brillanti, cultura archeologica, distanza incolmabile da ogni forma di psicologismo, anzi di emotività tout court. Ma tra le altre cose c’è anche una calma tela di Guglielmo Caccia. La sorpresa forse maggiore si trova andando nella chiesa più famosa, Santa Maria Canale. Per arrivarci si percorre il centro, compresa la via Emilia (già solo questa constatazione toponomastica è una carica di storicità), ma anche tanta speculazione edilizia: non escluso l’abbattimento di un oratorio barocco,

di cui rimane ancora un piccolo resto, per ottenere un parcheggio. All’interno si confermano le dinamiche già individuate, ma proiettate all’indietro, tra volte gotiche e decorazioni cinquecentesche: se a Volpedo domina Quirico (“da Tortona”, non si dimentichi), qui, pochi anni dopo, la locale Confraternita del Sacramento si rivolge a un pittore milanese, in felice equilibrio tra Zenale, Bramantino e Leonardo (ovviamente semplificati) per ottenere una pala, davvero notevole, raffigurante la Sacra Famiglia. Il pittore è anonimo, ma gli appartiene un nutrito corpus pittorico, che lo qualifica quale precoce seguace di Marco d’Oggiono, collaboratore di Leonardo, di possibile origine bergamasca ma attivo anche a Savona e Milano nei primi due decenni del Cinquecento, in particolare per committenti filofrancesi. Soprattutto la tavola di Tortona è l’esemplare più bello, tra quelli oggi noti, di una famiglia iconografica che forse ci restituisce la memoria di una perduta opera “minore” di Leonardo. Poco distante, con il verde intorno che sembra premere (boschi quasi in città, ormai così rari!), troviamo il piccolo Oratorio di San Rocco, dalla facciata barocca biancosporco: all’interno si trova una Decollazione del Battista di Melchiorre Gherardini in stato di vera grazia: la strenua imitazione di Cerano giunge in quest’opera quasi all’identificazione totale. Ma troviamo anche un telero devozionale genovese, già attribuito al ligure Giuseppe Badaracco, con l’immagine ieratica di san Francesco da Paola circondato dalle vignette con gli episodi della sua vita, secondo una tipologia arcaizzante di qualche moda nel Seicento subalpino.

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e poi si vuole concedersi un’altra escursione, vale la pena di fermarsi, sempre sulla linea ferroviaria, a Pontecurone. Anche qui interessanti affreschi quattrocenteschi in Santa Maria Assunta, da una Madonna tardogotica, a Manfredino Bosilio, altro pittore degli anni sforzeschi, fino all’impressionante Crocifissione, esemplata sull’affresco del Montorfano che, nel refettorio delle Grazie milanesi, fronteggia il Cenacolo. Di nuovo la rapida, e qui qualitativamente sostenuta, divulgazione delle ultime novità artistiche. E poi ancora il Fiammenghino e, tra oratori e Municipio, ancora tanto Seicento minore, tra Piemonte, Lombardia e Liguria, rappresentata in modo particolare da Giovanni Battista Carlone. Poi si ritorna “ai nostri temporali”, non dimenticando uno sguardo alla bella biglietteria in legno della stazione di Tortona, ancora sopravvissuta alle ri■ strutturazioni “Centostazioni”. edoardo.villata@unicatt.it E. Villata insegna storia dell’arte all’Università Cattolica di Milano


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Liberamente ispirato di

Giusi Marchetta

Io e te di Bernardo Bertolucci, con Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco, Sonia Bergamasco, Pippo Delbono, Italia 2012

Quaderni

- Effetto film

I

n Italia nell’ultimo anno, un film su cinque è stascersi, dato che quello che sapevano l’uno dell’altro sullo schermo, non riesce a incuriosire, né a trascito tratto da un libro. Il mercato editoriale è in apparteneva a un’infanzia lontana da molti punti di narci con sé nel seminterrato. Dal canto suo questo crisi, le librerie indipendenti chiudono e i lettori vista. Alla fine di quest’avventura lasciarsi con la Lorenzo decide di nascondersi per evitare un gita di diminuiscono eppure le storie su carta (e in ebook) terribile prospettiva di andare avanti con le proprie scuola, mentre nel libro pur di veder sorridere la continuano ad affascinare produttori e registi che vite non sarà così insopportabile adesso che sento- madre (e desiderando senza saperlo un contatto vogliano cavalcare l’onda di un successo o rilanno che l’altro esiste e che il legame che si è formato umano reale) le racconta di essere stato invitato da ciare il prodotto di un talento invisibile ai più. Kunon potrà più spezzarsi. una compagna a sciare, poi se ne pente perché non brick ne aveva fatto addirittura una scelta di vita Per chi ama Bertolucci non sarà difficile indivi- è vero. È una differenza abissale tra i due personagdato che, com’è noto, tutti i suoi film sono tratti da duare un motivo d’attrazione nell’ambientazione gi e il confronto rende meno interessante quello cilibri, o meglio, dalla sua personale lettura di alcudella vicenda: la cosiddetta poetica dello spazio nematografico, la cui permanenza in cantina pare ni libri. Perché è questo il cuore della faccenda: chiuso si concilia perfettamente con le scene girate dovuta al capriccio di un ragazzo viziato mentre per non si tratta tanto di scegliere la storia giusta, in cantina ed è evidente che il regista si è divertito l’altro non ci sono alternative: deve restare in cantiquanto di trovare in quella storia gli elementi che all’idea di creare un mondo alternativo buio e clau- na perché nessuno lo ha invitato davvero. faranno il film. È il motivo per cui i risultati ottestrofobico. Un’operazione affascinante soprattutto Insomma, benché Bertolucci abbia dichiarato di nuti variano dall’immortale “era meglio il libro” nelle intenzioni, ma che non è paragonabile all’uni- avere scelto il suo protagonista per questo motivo, alla tipologia Shining, il capolavoro che ha preso verso chiuso di The dreamers, con cui dietro la por- c’è poco dello sguardo ribelle di Pasolini in questo spunto dal romanzetto. Lorenzo e ci sembra che una soDiciamolo subito: Io e te di lida regia e una fotografia di Settimana bianca in cantina Bertolucci non è uno Shining, buona qualità non riescano a segno che non basta un grande sopperire alla mancanza di comCome ha avuto occasione di dire Bernardo Bertolucci: “”Io e te” è un film sui desideri, sulle regista per partorire una granpiutezza di questa pellicola. La delusioni, sulle lotte e sui sogni di due giovani”. E sono proprio questi quattro temi a costide pellicola. Si obietterà che il verità è che nel libro di Ammatuire l’asse portante di una storia, o meglio di una breve rappresentazione, in cui il rapporto paragone non regge in quanto niti il rapporto che si era andato fra un ragazzo quattordicenne e una ragazza di oltre vent’anni produce a poco a poco una senemmeno Niccolò Ammaniti costruendo raggiungeva un apirie di veri e propri scontri, e in seguito di buone relazioni, che modificano non soltanto gli (Einaudi, 2010) è paragonabice e una svolta grazie a un biaspetti dell’incontro fra i due, ma anche e soprattutto il loro modo di essere e di comportarle al classico di Stephen King. glietto scritto da Olivia per il frasi. Si tratta di due giovani che sono stretti parenti l’uno con l’altra: lui, Lorenzo, interpretato in maniera eccellente da Jacopo Olmo Antinori, e lei, Olivia, interpretata altrettanto bene da Eppure, mutatis mutandis, tello, che sembra un arrivederci Tea Falco, sono fratellastri, ed è questa situazione a creare una relazione che diventa una spepunti di contatto ci sono: per e si rivelerà invece una promessa cie di incontro-scontro che si conclude in maniera del tutto positiva. Da un lato c’è Lorenzo entrambi non si tratta del libro non mantenuta da nessuno dei il quale, anziché andare in montagna con i compagni di scuola durante la “settimana bianca”, migliore dell’autore, non sono due. Scegliendo di cambiare il fisi nasconde in cantina rifiutandosi di dirlo alla mamma; dall’altro c’è Olivia, tossicodipenusciti dopo un lunga gestazionale con una motivazione che dente, che si rifugia anch’essa in cantina per cercare di guarire dalla droga. Ed è il vivere inne, né presentano una vera riappare debole (la volontà di non sieme per una settimana, con tutti i problemi che nascono dal loro modo molto diverso di eslevanza letteraria. Il libro di rischiare di cedere al binomio sere e di comportarsi, a creare una sorta di dramma personale che si arricchisce di una serie Ammaniti, in particolare, è un moralizzatore tossicodipendendi atteggiamenti e di situazioni, soprattutto di idee e di concetti che affrontano lo stare tanto racconto piacevole, ben scritza-morte), Bertolucci ferma l’ada soli quanto insieme ad altri. Ciò che Bertolucci ha detto, riguardo ai desideri, alle delusioto, con una conclusione emozione un attimo prima di emoni, alle lotte, ai sogni dei due giovani, significa cogliere appieno il loro atteggiamento molto zionante, ma rimane sempre zionarci, riconsegnando i persocritico nei confronti della società attuale, dei loro genitori, della scuola e forse anche della pocircoscritto a una sfera intima, naggi a una quotidianità mai litica. Ma significa anche saper cogliere le ragioni del loro atteggiamento e cercare di farne il privata, senza grandi ambiziorealmente messa in discussione motivo centrale di un’analisi e di uno studio che riguardano il volere e il potere essere liberi ni. È lecito quindi chiedersi dalla permanenza in cantina. di scegliere come vivere e come pensare. Il bello del film, e il suo indubbio valore estetico e per quale motivo sia stato scelCerto, molto si potrebbe contedrammaturgico, sta nella semplicità delle riprese, quasi tutte interne alla cantina, come se si trattasse di una “scena teatrale” di grande intensità figurativa. I due protagonisti sono tali da to per il ritorno dietro la macstare a un’analisi che tenga in costituire realmente il filo conduttore di una vicenda che non può lasciare indifferente lo spetchina da presa di un maestro conto il libro come se fosse un tatore. E Bertolucci, tornato ad essere un regista di grande qualità visiva, nove anni dopo “The del cinema che si è confrontariferimento imprescindibile, Dreamers–I sognatori”, attento a cogliere appieno il rapporto fra i personaggi, ha saputo reato più volte con la storia troignorando ottusamente o ridilizzare un’opera che non si potrà dimenticare. vandone spesso forti e persomensionando la portata della diGIANNI RONDOLINO nali chiavi di interpretazione. citura “liberamente ispirato” apCome sempre in questi casi, la posta spesso preventivamente a spiegazione può trovarsi nelle varianti (innovaziota di una casa parigina aveva dato vita a un ’68 libe- questo tipo di operazioni proprio per svincolarle ni e omissioni) e cioè non in quello che nel libro ro, osceno, violento, poetico, insomma a un ince- dall’idea originale e permettere al regista di snatuc’era, semmai nelle cose che Bertolucci ha ritenustuoso specchio di quanto avveniva per le strade. In rarla a suo piacimento. In fondo siamo più grati a to di modificare. quel caso, infatti, l’esterno non riesce a rompere l’e- Stephen King per lo Shining di Kubrick che per il Cominciamo dalla trama comune: Lorenzo, un quilibrio perfetto e malato di un mondo che riven- suo. Tuttavia, pur eliminando l’accostamento al liquattordicenne chiuso, con un disturbo narcisistico dica ferocemente il diritto di esistere. Al contrario, bro, non è possibile strappare la singola opera alla e un attaccamento quasi morboso alla madre, menin Io e te, l’esilio dei due ragazzi viene interrotto in filmografia di un regista: il livello dei suoi lavori prete ai genitori dicendo che parteciperà a una vacanza modo ingiustificato perché non necessario dall’in- cedenti rendono Bertolucci il peggiore argomento sulla neve con alcuni compagni di classe mentre in trusione di un estraneo che dà dei soldi a Olivia (pe- contro Io e te, perché piccole deviazioni di rotta direaltà trascorrerà la settimana nella cantina di casa. raltro, e forse proprio perché superfluo, assente nel ventano cadute per i maestri verso cui riponiamo Il suo esilio è interrotto però dall’arrivo di Olivia, filibro). A fare da contraltare rispetto a questa pre- grandi aspettative. glia di primo letto del padre, da lui seguita poco, senza, il ruolo ridimensionato della nonna di LoCreare un mondo suggestivo ed esteticamente male e da lontano. Olivia ha ventitré anni e una perrenzo, del portiere del palazzo (il Cercopiteco), dei affascinante in cui due ragazzi finiscono rinchiusi, sonalità dominante: in breve costringe il fratellastro genitori stessi, con l’eccezione di una riuscitissima spinti da una diversa violenza non è facile. Ancora a farle posto nel suo nascondiglio e insieme passescena onirica che li riprende dal pavimento mentre meno lo è gestire questo mondo in modo che diranno gli ultimi giorni di volontaria clausura tra cripasteggiano con il subconscio del figlio. venti più luminoso, facendo balenare nel buio la si d’astinenza (lei), interminabili partite ai videogio■ Altra nota dolente pare proprio la coppia di fra- possibilità di una salvezza, chissà, reciproca. chi (lui), piccole incursioni nel mondo esterno. Sotelli, interpretati in modo non proprio convincente giusimarchetta@libero.it li, separati dal resto dell’umanità, i due fratelli da Jacopo Olmi Antinori e Tea Falco. Soprattutto avranno modo di conoscersi meglio, anzi, di riconoG. Marchetta è scrittrice e insegnante lei, con la sua aria sballata già alla prima comparsa


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Il lavoro del lutto di

Quaderni

- La traduzione

D

a molti anni cerco di accordare la mia lingua con la scrittura di autrici dalla prosa spigolosa come Nadine Gordimer, Toni Morrison o Jamaica Kincaid, e di autori dalla prosa ingannevolmente facile come V. S. Naipaul o raffinata come J. M. Coetzee e David Malouf. Ho cominciato a tradurli quando non erano ancora stati consacrati dalle accademie che nel mondo stabiliscono chi debba o non debba entrare nel canone, sicché quando ho iniziato a lavorare sui loro testi erano semplicemente autori che scrivevano dalle ex colonie dell’impero britannico e che, assieme a molti altri, hanno dato vita alle letterature postcoloniali di lingua inglese. Per interpretare questi autori e poi tradurli bisogna sforzarsi di usare categorie che siano il più possibile dentro la loro composita cultura e non categorie generali, desunte dalla nostra esperienza del mondo anziché dalla loro. Tradurli nella mia lingua mi ha sottoposto spesso a una dura prova nella sua accezione più letterale, quella cioè di “sofferenza patita”. Nel mettersi alla prova per portare nella propria lingua materna ciò che si trova nella lingua impura, contaminata, di chi scrive dai margini del mondo, chi traduce si inoltra in sentieri sconosciuti, dove la lingua madre si confronta con la sua non disponibilità ad accogliere fino in fondo l’estraneità. Oppone una resistenza, da leggersi in termini psicoanalitici; si trincera dietro il rifiuto sottile di dare ospitalità allo “straniero”. Per tradurre l’espressione travail de deuil, su cui Paul Ricoeur torna di frequente nei suoi saggi sulla traduzione, il traduttore del filosofo francese, Domenico Jervolino, usa l’espressione “lavoro di lutto”. Siccome anche nella lezione freudiana si parla di Trauerarbeit, la scelta di Jervolino nell’aderire alla lettera propone una traduzione assai rispettosa del testo originario. La parola “lavoro” pone l’accento sullo sforzo intenso legato all’applicazione di un’energia per conseguire un certo fine ed evoca sia la fatica fisica sia il travaglio spirituale che ne consegue. L’espressione che usiamo comunemente per Trauerarbeit, e cioè “elaborazione del lutto”, se di fatto contiene il concetto di “lavoro”, lo contiene in modo più astratto, e dunque più diluito. Il “lavoro di lutto – secondo Ricoeur, – trova il suo equivalente in traduttologia apportando un’amara ma preziosa compensazione”; nella mia esperienza traduttiva esso è ancora più sofferto e necessario quando il testo contiene elementi ibridi, fonti di tensione e di potenziale conflitto. Solo la rinuncia al sogno onnipotente di una “onnitraduzione”, cioè di una razionalità che si sottrae alle costrizioni culturali e ambisce a colmare l’assenza di una lingua perfetta e universale, permette di vincere la resistenza. Bisogna dunque saper rinunciare a un guadagno senza perdita, per riconciliarsi nell’accettazione della differenza invalicabile tra il proprio e l’estraneo. Gli autori postcoloniali lavorano in quello che Homi Bhabha chiama l’“inter”, e cioè in mezzo tra due lingue e due culture, un framezzo scomodo ma necessario. È il luogo in cui due lingue e due culture si incontrano, si sovrappongono, a volte si mescolano, e in cui i loro tratti si fanno vaghi. L’aspetto più interessante di questo luogo è dato dall’elemento estraneo che permette di mettere in discussione le conoscenze assodate di chi traduce, troppo spesso prigioniero della sua visione del mondo e di un suo lessico familiare, e di sperimentare la sua capacità di creare qualcosa di nuovo per sé e per la propria lingua. Il che non vuol dire forzare in modo innaturale la lingua madre, appiattendosi sui calchi o incorrendo in falsi amici; vuol dire andare al di là del proprio lessico limitato, sollecitare le potenzialità della lingua madre, riscoprire la ricchezza di quel grande serbatoio di parole lasciato spesso inoperoso per pigrizia. Come la consapevolezza della perdita inevitabile rende possibile il farsi della traduzione, così la consapevolezza di dover errare e perdersi in un luogo scomodo ma necessario consente di fare delle scoperte che in parte compensano le perdite.

Franca Cavagnoli

La narrativa postcoloniale è scritta in una lingua che porta impresse le tribolazioni della Storia. Nasce dalla tensione creatasi tra il desiderio di cancellare l’inglese della madrepatria, e cioè un codice normativo, e la volontà di appropriarsene. Sostituisce una lingua impura alla lingua del centro, che si piega, come scrive Chinua Achebe, sotto il peso di una Storia altra per raccontare storie altre. Pur lavorando con la stessa lingua, lo scrittore postcoloniale la allontana sempre più dalla norma imposta dal centro: sono questi scarti improvvisi a far risaltare l’unicità e la differenza culturale degli autori postcoloniali, a rendere manifesto un desiderio di appartenenza e la volontà di avere una propria identità in un mondo sconvolto dall’intrusione dell’altro. Il rispetto di uno stile ibrido e la salvaguardia delle specificità culturali dovrebbero essere l’obiettivo primario di chi traduce romanzi postcoloniali. Polire un’asperità del testo o banalizzare scelte stilistiche complesse può arrecare un danno grave a un’opera narrativa. La scelta di strategie traduttive etnocentriche, quali addolcire la scrittura scabra di certi autori ricorrendo all’esplicitazione, all’espansione o alla chiarificazione, rendere più razionali i periodi, annullare il lavoro sui registri di autori che amano le incursioni nella lingua parlata e popolare, nei pidgin e nei creoli, snatura l’intenzione di testi nati all’insegna dell’accostamento di elementi profondamente diversi tra loro. L’apparente estemporaneità di certi autori afroamericani, per esempio, presuppone una profonda conoscenza del linguaggio musicale, della stratificazione ritmica, della relazione fra melodia, armonia e ritmo tipica del jazz. La naturalezza della loro prosa è il frutto di una grande attenzione per tutti i valori del testo, non solo per quelli semantici. Il lavoro sul corpo sonoro e le continue ripetizioni generano un ritmo incantatorio oltre a rendere magari evidente la percussiva ossessione che si agita nella mente di un certo personaggio. Tutto ciò può

rendere faticosa la prosa, ma una traccia di questa fatica deve restare nella traduzione. Il lettore che legge il libro tradotto, infatti, non dovrebbe essere privato della conoscenza dell’alterità, possibile solo se di quell’estraneità rimane traccia nel testo tradotto.

L

a scorrevolezza a tutti i costi e la leggibilità immediata, unite a mere ragioni di tipo commerciale, sono a volte evidenti nei titoli scelti per l’edizione italiana di alcuni libri. Si tratta di scelte che sovente ignorano i significati profondi racchiusi nel titolo originario. Quale ragione, tra quelle elencate sopra, può aver portato l’editore italiano dell’ultimo romanzo di David Malouf, Ransom, a scegliere come titolo Io sono Achille, quando quello di Malouf è in primo luogo il libro di Priamo? Il riscatto evocato nel titolo originario, infatti, non è solo quello che il re è pronto a pagare per riavere il corpo del figlio in modo da dargli degna sepoltura. Esso è già inscritto nel nome stesso del sovrano, come ci ricorda Apollodoro, in quello “scambio” che aveva luogo per riscattare i prigionieri di guerra e che aveva permesso a Esione di compiere il suo gesto d’amore strappando il fratellino Podarce a una morte certa o a una vita in catene, sicché da quel momento il nuovo nome di Podarce era stato per l’appunto Priamo. Una volta di più, nella scelta del titolo per l’edizione italiana, lo straniero per eccellenza, l’esule troiano, è stato respinto da una terra che ■ non ha saputo dargli accoglienza. franca.cavagnoli@unimi.it F. Cavagnoli è traduttrice, insegna traduzione all’Università di Milano e Pisa. Ha pubblicato saggi e romanzi

Sulla questione della traduzione di lingue delle ex colonie britanniche, si veda il Libro del mese a pagina 15 di questo numero.

La petizione

“A

lcuni libri vanno assaggiati, altri inghiottiti, pochi masticati e digeriti”, scriveva Francis Bacon. I pochi degni di masticazione sono sempre più difficili da trovare in un mercato che – come si legge nel rapporto annuale dell’Associazione Italiana Editori – è entrato in una zona d’ombra e, per la prima volta negli ultimi decenni, si allinea al segno negativo del generale contesto dei consumi. Diminuiscono, soprattutto, le traduzioni: se nel 1997 erano quasi il venticinque per cento dei titoli pubblicati (un libro ogni quattro), oggi non si arriva nemmeno al venti. E se nel 1997 il 40,3% dei libri stampati e distribuiti erano di autori stranieri, oggi siamo scesi al 35,8%. Inoltre, pur essendo il nostro un paese in cui – comunque – si continua a tradurre, le pubblicazioni si indirizzano sempre più a libri di facile consumo, a scapito di testi di qualità che spesso – ma non sempre – risultano appetibili per un mercato più circoscritto. La prima conseguenza è un ovvio impoverimento della cultura. Tradurre significa conoscere, dialogare, scambiare e far circolare idee e stili di vita; niente come una traduzione aiuta a comunicare – a rendere comuni e, dunque, di tutti – differenze e similitudini, stimolando la crescita culturale e civile dei popoli. Ma tradurre costa. La traduzione incide in modo cospicuo sul prezzo di un libro ed è ormai diventata la prima voce di spesa da tagliare. In un contesto simile i traduttori editoriali italiani, già fra i meno pagati d’Europa, vedono peggiorare drasticamente la propria condizione. Accade sempre più spesso che si affidino incarichi a soggetti che si improvvisano traduttori anziché a professionisti in possesso delle necessarie competenze, a scapito ancora una volta della qualità e in un declino dei saperi al quale è urgente porre un argine.

È dunque per proporre opere di qualità da ogni parte del mondo in traduzioni di pari valore – alleggerendo i costi di traduzione per gli editori desiderosi di farle circolare – che chiediamo di seguire l’esempio di altri Paesi europei, istituendo un fondo nazionale che sostenga le traduzioni verso l’italiano e il lavoro dei traduttori editoriali, e permetta la diffusione di libri con un peso specifico culturale maggiore. Chiediamo che tale sostegno sia articolato in vari ambiti, e in primis con un’integrazione ai compensi dettati dalle case editrici, così da favorire la pubblicazione di testi di consumo meno immediato in traduzioni adeguate. In questo modo il traduttore riceverà un compenso proporzionato alla complessità di opere che richiedono competenze particolari e tempi di lavorazione più lunghi, e l’editore sarà incoraggiato a pubblicare libri di qualità che esulino dalle logiche ferree del “mercato”. È inoltre necessario investire sulla formazione e sostenerla: che si tratti di formazione degli esordienti, in una sorta di “bottega” nella quale un traduttore esperto segua il neofita trasmettendogli il mestiere, o dei professionisti, con borse di studio che aiutino a coprire i costi di soggiorni di lavoro e ricerca all’estero, e con seminari e laboratori che favoriscano il confronto, lo scambio e l’aggiornamento costante. Andranno poi moltiplicati e potenziati spazi come le Case dei Traduttori, luoghi ideali di studio e di incontro fra chi scrive, chi traduce e chi legge. Abbiamo allo studio alcune proposte stilate sulla falsariga di quanto già accade nel resto d’Europa e contiamo di poterle sottoporre presto a chi di dovere. STRADE - SINDACATO TRADUTTORI EDITORIALI


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Tutti i titoli di questo numerO B

ALZAC,

HONORÉ DE / PICASSO, PABLO - Il capolavoro sconosciuto - Aragno - p. 22 BARATTO, SERGIO - Diario di un’insurrezione - Effigie p. 17 BASSANI, EZIO - Arte africana - Skira - p. 42 BERTANTE, ALESSANDRO - La magnifica orda - Il Saggiatore - p. 18 BLECHER, MAX - Accadimenti nell’irrealtà immediata Keller - p. 22 BONAPARTE, NAPOLEONE - Memorie della campagna d’Italia - Donzelli - p. 35 BORAGINA, PIETRO - Vita di Mario Labò - Aragno p. 27 BORGHERO, CARLO / DEL PRETE, ANTONELLA (A CURA DI) - Immagini filosofiche e interpretazioni storiografiche del cartesianismo - Le Lettere - p. 26 BRERA, GIANNI - L’anticavallo. Sulle strade del Tour del ‘49 e del Giro del ‘76 - Book Time - p. 32 BRONTË, EMILY / IWASHITA, HIROMI - Cime tempestose Kappa - p. 25

C

ASIRAGHI, UGO - Storie dell’altro cinema -

Lindau -

HERZL, THEODOR - Vecchia terra nuova - Bibliotheca Aretina - p. 27

I

l Morandini 2013. Dizionario dei film - Zanichelli p. 38

J

ORNET,

KILIAN - Correre o morire - Vivalda - p. 23

L

architettura del mondo - Compositori - p. 41 LAINO, GIOVANNI - Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo - FrancoAngeli - p. 41 LANDAUER, GUSTAV - La comunità anarchica - Eleuthera - p. 26 LITTELL, JONATHAN - Taccuino siriano. 16 gennaio - 2 febbraio 2012 - Einaudi - p. 22 LUPPI, MARCO - Dal Mediterraneo a Firenze - Euno p. 27

PENNAC, DANIEL - Storia di un corpo - Feltrinelli p. 29 PETRACCHI, GIORGIO - Al tempo che Berta filava Mursia - p. 26 PETRELLA, ANGELO - Le api randage - Garzanti p. 21 PIERI, FRANCESCO - Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche - Dehoniana p. 13 PIROVANO, DONATO (A CURA DI) - Poeti del Dolce stil novo - Salerno - p. 20 PODESTÀ, ROSSANA (A CURA DI) - Walter Bonatti. Una vita libera - Rizzoli - p. 23 PORPORA, IVANO - La conservazione metodica del dolore - Einaudi - p. 17 Prisma Sudafrica. La nazione arcobaleno a vent’anni dalla liberazione (1990-2010) - Le Lettere p. 25

Q

UINET,

EDGAR - Le rivoluzioni d’Italia - Aragno -

p. 35

p. 38

CATTANEO, ARTURO - La notte inglese - Mondadori - p. 21 CELATI, GIANNI - Comiche - Quodlibet - p. 18 CIRIELLO, MARCO - Il vangelo a benzina - Bompiani - p. 18 COE, JONATHAN - Lo specchio dei desideri - Feltrinelli - p. 28

R

AIMONDI, ENZO - Le voci dei libri - il Mulino - p. 19 RITCHIN, FRED - Dopo la fotografia Einaudi - p. 39 ROMEO, ROSARIO - Italia mille anni Rubettino - p. 26

S

ANTAROSSA, MASSIMILIANO Viaggio nella notte - Hacca - p.

D

’AMICIS, CARLO (A CURA DI) C’è un grande prato verde. 40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011/12 - Manni - p. 21 DE ROSSI, ANTONIO / DINI, ROBERTO - Architettura alpina contemporanea - Priuli & Verlucca - p. 23 DEB, SIDDHARTA - Belli e dannati. Ritratto della nuova India - Neri Pozza - p. 25 DI FIGLIA, MATTEO - Israele e la sinistra - Donzelli - p. 27 DOYLE, ARTHUR CONAN - Storie di pirati - Donzelli - p. 28

F

MARIA ROSA - Bonsoir Madame la Lune. La vita incompiuta di Silvia Pons - Antigone - p. 26 FELICE, DOMENICO / MONDA, DAVIDE - Montesquieu. Intelligenza politica per il mondo contemporaneo - Liguori - p. 26 FICARA, GIORGIO - Montale sentimentale - Marsilio p. 19 FIERRO, MASSIMILIANO - Tra le immagini - Falsopiano p. 38 FIORE, PEPPE - Nessuno è indispensabile - Einaudi p. 17 FONTCUBERTA, JOAN - La (foto)camera di Pandora Contrasto - p. 39 FOSTER WLLACE, DAVID - Il tennis come esperienza religiosa - Einaudi - p. 32

21 SAUSSURE, HORACE-BÉNÉDICT DE La scoperta del Monte Bianco - Vivalda - p. 23 SEPÚLVEDA, LUIS - Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico Guanda - p. 28 SERAFIN, ROBERTO - Walter Bonatti. L’uomo il mito - Priuli & Verlucca p. 23 SIMIC, CHARLES - Il mostro ama il suo labirinto - Adelphi - p. 30 STEVENSON, ROBERT LOUIS - Il master di Ballantrae - Nutrimenti - p. 31 SYLVESTER, DAVID - John Cage - Castelvecchi - p. 7

ABBRINI,

G

LETIZIA - Juan de Borgoña e gli altri - Mario Congedo-Università del Salento - p. 42 GANDOLFI, SILVANA - Il club degli amici immaginari Salani - p. 28 GLEESON, LIBBY / BLACKWOOD, FREYA - Guarda, un libro! - LO - p. 28 GRAGLIA, MARGHERITA - Omofobia. Strumenti di analisi e di intervento - Carocci - p. 33

M

ATTOTTI, LORENZO - Le avventure di Huckleberry Finn - Orecchio Acerbo-Coconino Press -

p. 25 MENEGHELLO, LUIGI - L’apprendistato. Nuove Carte 2004-2007 - Rizzoli - p. 8 MENGALDO, PIER VINCENZO - “Leopardi antiromantico e altri saggi sui “canti” - il Mulino - p. 20 MICHAUX, HENRY - Passaggi - Adelphi - p. 31 MILANO, MARIA TERESA - Regina Jonas - Effatà - p. 27 MODIANO, PATRICK - Fiori di rovina - Lantana p. 29 MOREAU DE MAUPERTUIS, PIERRE-LOUIS - Elogio di Montesquieu - Liguori - p. 26 MURAKAMI, HARUKI, - 1Q84. Libro 3. Ottobre-dicembre - Einaudi - p. 30

T

O

V

ESIO, GIOVANNI - I più amati. Perché leggerli? Come leggerli? - Interlinea - p. 19 TESSON, SYLVAIN - Nelle foreste siberiane - Sellerio p. 22 THAYIL, JEET - Narcopolis - Neri Pozza - p. 15 TRIGILIA, CARLO - Non c’è nord senza sud - il Mulino p. 33

U

RBANI,

GIOVANNI - Per una archeologia del presente - Skira - p. 42

AETA,

ESTERHELD, HÉCTOR GERMÁN / SOLANO LÓPEZ, FRANCISCO - L’Eternauta. Il ritorno - 001 edizioni p. 25 OGAWA, ITO - La cena degli addii - Neri Pozza p. 30

ERZL, THEODOR

to - p. 27

- Feuilletons 1891-1903 - Archin-

ERMANNO (A CURA DI) - Quale federalismo? - Giappichelli - p. 27

Z P

AGLIAI,

H

ITALE,

LETIZIA / SOFIA, FRANCESCA (A CURA DI) Sismondi e la nuova Italia - Polistampa - p. 26 PAMUK, ORHAN - L’innocenza degli oggetti. Il museo dell’innocenza, Istanbul - Einaudi - p. 22

ANETTIN, BRUNO - Luigi Meneghello: un’amicizia durata una vita - Accademia Olimpica - p. 8 ZINGALES, LUIGI - Manifesto capitalista - Rizzoli p. 34 ZEROCALCARE - La profezia dell’armadillo - Bao p. 16 ZEROCALCARE - Un polpo alla gola - Bao - p. 16


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20-12-2012

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