Christmas fantasy dark

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Christmas Fantasy Dark A.A.V.V. Il Rumore dei Libri Le Passioni di Brully My Secret Diary ~3~


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Titolo: Christmas Fantasy Dark Autori: A.A.V.V. Illustratrice © Violet Nightfall Progetto grafico cover © Violet Nightfall Facebook: Purple Monkey Studio - Digital Art Web-Site: http://myromanticheroes.blogspot.it/ ©Tutti i diritti riservati agli autori e a chi ha realizzato questa antologia. Questa antologia è il prodotto dell’immaginazione dei vari autori. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi. Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale.

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Ci Presentiamo Ciao a tutti i lettori. Tanti di voi già ci conosce tramite i nostri blog: Il Rumore dei Libri di Lidia Ottelli e Serena Vianello, Miriam Rizzo blog Le Passioni di Brully, Consuelo Baviera e Ilaria Militello blog My Secret Diary. Tutte noi gestiamo i nostri blog con una passione che ci accumuna, i libri e soprattutto l’aiutare gli emergenti/esordienti dando loro spazio per farsi conoscere. Anche in questo caso la nostra iniziativa, è dedicata proprio a loro, agli scrittori che non hanno alle spalle delle case editrici, a quelli che sono appena nati e a quelli che pur avendo già scritto diversi libri non hanno voluto mancare nella nostra antologia. L’idea di questa antologia, è nata per caso una sera a Lidia che ha chiesto alle ragazze degli altri blog, di partecipare e loro con entusiasmo

hanno

accettato

rendendo

questo

progetto

completo. Come dice il grande Tim Burton : “Quando decidi di dar vita a un'idea devi veramente ripulire l'anima per poter sentire profondamente qualcosa dentro, come fosse tuo, e poterlo esprimere.”

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Prefazione Il Natale è la festa più bella e magica che ci sia. E’ il periodo in cui ognuno di noi diventa più buono. Le case si riempiono di addobbi e di risate. I negozi sono pieni di luci e nell’aria si sente l’odore dei dolci, si sente la magia. Il Natale è una festa piena d’allegria, colori e luci, ma se invece per una volta pensassimo a un Natale diverso? Se invece del tenero e paffutello Babbo Natale pensassimo a un Babbo schiavista, che sfrutta i suoi poveri elfi? O a un Babbo approfittatore che si diverte a passare la notte con le fate? Se invece del classico Babbo ne incontrassimo uno crudele ed egoista? Se il Natale fosse un giorno triste e pauroso? I racconti che leggerete in questa antologia parleranno proprio di un Natale alternativo, di un Natale dark, diverso dal solito caramelloso a cui tutti siamo abituati. Una raccolta di racconti emozionanti e alcune volte angoscianti, paurosi. Leggerete di un Natale diverso, fatto di paura e angoscia. In questi racconti non incontrerete il dolce Babbino, ma un egoista presuntuoso, con la voglia di divertirsi e basta.

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In questo Natale particolare incontrerete di tutto, macellai, cavalieri, orchi e vampiri. Un’antologia ricca di racconti unici e originali. Un Natale alternativo quello che vi propongono gli autori, un Natale dove per una volta non è tutto così perfetto e magico, dove non ci sono canti, risate e bimbi che aspettano i loro regali, dove non esiste un Babbo Natale paffutello e tenero, nessun pranzo con i parenti, nessuna tombola fra amici. Quest’anno il Natale sarà come mai lo avete letto, non aspettatevi racconti a lieto fine, non aspettatevi racconti dove ci saranno eroi che salveranno tutti, non aspettatevi piccole fiammiferaie o spiriti del Natale buoni, qui nessuno ha la gioia e l’amore nel cuore, qui nessuno avrà lo spirito del Natale dentro. Siete dunque avvisati! Nessuna di queste storie che leggerete porteranno gioia e serenità. Non perdetevi questa straordinaria antologia. Quest’anno vivrete un Natale diverso, un Natale tutto dark! Buona lettura cari amici e state attenti a Babbo Natale!

L’Autrice Ilaria Militello

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I Racconti I Racconti che seguiranno, sono in ordine di arrivo. Prima di cominciare, vi vogliamo presentare i vari racconti per titolo e autore.

Macelleria 'El Gordo', solo carni di prima qualitĂ di Giordana Ungaro.

Buon Natale! Stupidi! Di LunaLibera e Lidia Ottelli.

Lo spirito del Natale di Lidia Ottelli

Regali di Marco Bertoli

I due Natali di Tanya D'Antoni

Marcio Natale di Jury Livorati

Killer Snow White di Erika Rizzo

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Christmas' Vampire di Flavia Cantini

The Nightmare Of Christmas di Susan Mikhaiel

I Quattro cavalieri di Natale di Serena Vianello

Uno strano destino di Jessica Maccario

RapeBefanRonzolo di Francesca Ghiribelli

Un “tenero� Natale. Daniela Iannuzzi

La magia del Natale Noemi Gastaldi

Orco rosso di Alessandro H. Den

Buona Lettura!

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Biografia Autrice Ungaro Giordana è nata a Venezia il 30 luglio 1979. Fin da piccola spiccano in lei la passione per i libri e il talento per il disegno, ereditato dal nonno materno noto fumettista, che la portano ad iscriversi ad una scuola artistica diplomandosi con ottimi voti. Finita la scuola per sette anni lavora come decoratrice artistica in un piccolo laboratorio. Oltre il disegno, la scrittura e la lettura ha un'altra grande passione, i cavalli. Cresce frequentando la scuola di equitazione e praticando quello sport a livello agonistico con un discreto successo regionale nelle competizioni di salto ad ostacoli. Ora vive a Spinea con il suo piccolo cane Lucky e lavora come commessa part-time in un negozio del centro storico di Venezia coltivando il sogno di un'affermata scrittrice.

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diventare un giorno


Macelleria 'El Gordo', solo carni di prima qualita’ Ungaro Giordana

M

r.Frenk chiuse la porta della cella frigorifera facendo scorrere il chiavistello d'acciaio e lo spiffero gelido che si librava nell'aria come un fantasma, sparì.

Recuperò dal ripiano nel retro i due enormi pezzi di carne che vi aveva poggiato e tornò in bottega attraversando la tenda di sottili perline che si divaricarono tintinnando

al

suo

passaggio; l'uomo aveva una mole tale da occupare quasi per intero lo stipite della porta. «La donna è mobile…qual piuma al vento…muta d'accento, e di pensiero…» ,canticchiò a bassa voce seguendo la musica in sottofondo e continuò poi fischiettando mentre posava la carne sul piano d'acciaio del bancone e impugnava la mannaia. Alzò

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il braccio tozzo e la calò più volte spezzettando il trancio con colpi secchi e decisi; qualche schizzo di sangue finì sul vetro espositore del bancone, macchiandolo. Quando fu soddisfatto passò all'uso del batticarne col quale assottigliò le bistecche con colpi leggeri ed esperti. Fuori era già buio nel tardo pomeriggio invernale che precedeva la vigilia di Natale e, per l'occasione, Mr. Frenk, aveva sostituito il copricapo abituale con uno più natalizio, addobbato la vetrina del negozio con luci colorate e appeso al soffitto festoni luccicanti che penzolavano assieme a salsicce e prosciutti; inoltre, un piccolo abete su di una mensola, s'illuminava ad intermittenza. Terminato il lavoro col primo trancio passò al secondo, alzò la mannaia, ma in quel momento la porta della bottega si aprì facendo tintinnare i campanelli appesi al soffitto ed entrò una giovane e sorridente biondina con in mano degli opuscoli. Il sorriso della ragazza vacillò nel vedere la lama scintillante sospesa a mezz'aria e, quando Mr. Frenk la calò con forza, sobbalzò, cercando poi, con visibile sforzo, di recuperare l'allegra compostezza perduta. «Buonasera», disse, «faccio parte della comunità parrocchiale del Nostro Cristo Redentore, stiamo raccogliendo le offerte per

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finanziare la mensa Natalizia dei poveri, in modo da far trascorrere anche a quelle povere anime delle feste più serene e sentirsi meno soli» Esordì con enfasi teatrale. Mr. Frenk la guardò appena continuando a calare ritmicamente la mannaia mentre altri schizzi di sangue finirono sul vetro dell'espositore. La ragazza se ne accorse e represse il disgusto cercando di rinvigorire il sorriso, ormai artificiale, ma l'operazione non riuscì, fruttandole solo una pessima smorfia. «Se sarà generoso Dio avrà misericordia di lei, vuole leggere un opuscolo?» Concluse deglutendo e porgendogliene uno dove campeggiava l'immagine del volto sofferente di un Cristo che portava sul capo una corona di spine. Mr. Frenk poggiò la mannaia, si pulì le mani strofinandole sul grembiule già sporco, uscì da dietro il bancone e le si avvicinò prendendo il volantino e studiandolo per qualche istante. L'uomo la sovrastava di almeno trenta centimetri e sicuramente pesava più del doppio della ragazza, era veramente enorme! Lo striminzito cappellino natalizio lo rendeva grottesco. L'unica cosa che lo accumuna a Babbo Natale è la grossa pancia, pensò la giovane sentendosi a disagio. Mr. Frenk rivolse infine su di lei uno sguardo acuto dei piccoli occhi scuri che si perdevano nel viso grasso e flaccido; aveva

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un naso minuscolo e labbra lucide umettate di saliva. Le porse indietro il volantino e ghignò. «Certo signorina, farò un'offerta speciale per rendere grazie a nostro Signore», così dicendo la oltrepassò, girò la chiave nella serratura bloccando la porta e voltò il cartello da “Aperto' a 'Chiuso'. Il terrore deformò il viso della ragazza e i volantini le scivolarono dalle mani sparpagliandosi sul

pavimento di

piastrelle a scacchi bianchi e neri. Non fece in tempo a muoversi perché lui, con una mano l'agguantò per il colletto del cappotto e con l'altra alzò il volume dello stereo. La voce di Pavarotti sovrastò le sue urla mentre la trascinava scalciante verso il retro. Il giorno seguente avrebbe cambiato CD, pensò Mr. Frenk, ci volevano delle arie più natalizie. Sì, avrebbe fatto così.

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Biografia Autrice

LunaLibera

è nata a Bergamo nel 70. Ama leggere

soprattutto fantasy e urban fantasy. Da diversi anni è moderatore presso il blog e il gruppo Il Rumore del Sangue dove si parla di libri e di paranormale. È appassionata di telefilm e di anime che segue da quando ha poco più di sedici anni.

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Buon Natale!Stupidi! Di LunaLibera e Lidia Ottelli

S

tupido Elfo!» grido senza fiato a Esodo, il mio primo Elfo “Non fatemi domande sul nome, sua madre è morta dandolo alla luce e il padre pensava solo a scappare”.

«Babbo, lavoro da dodici ore consecutive smettila di stressarmi!» «Lo sai che non voglio che mi chiami così! Vai a lavorare!» Esodo esce dal mio ufficio sbattendo la porta. Lo so che tutti pensate che io, Babbo Natale, dovrei essere gentile e cordiale con tutti, ma… non è sempre così. Sono secoli che porto regali a tutti voi! Sono secoli che non ricevo un piccolo, minuscolo grazie! Sono stanco e poco cordiale da molti anni ormai. Elfi scorbutici e fate invidiose, avrei una serie immensa di brutte cose da dirvi.

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Stasera è la vigilia di Natale e lo sapete che vorrei fare? Starmene sdraiato nudo con una birra in mano e un pacchetto di patatine sulla pancia! Se poi ci fosse una donna sarebbe un vero N A T A L E! Più il tempo passa, più mi rendo conto della profonda, rivoltante, rabbia che ho dentro di me. La mia barba inizia a pizzicare, il mio stupido vestito si accorcia e poi, diciamocela tutta, io odio il rosso. E se… un sogghigno compare sulle mie labbra, uno splendente sorriso mi appare improvvisamente, e se quest’anno cambiassi le regole? Il mio riflesso nel grande specchio davanti a me, mi ha fatto venire in mente uno strano sogno di qualche giorno fa. Ho un immenso bisogno di fare del male, ma non male fisico intendiamoci, male… mentale. Mi sto rendendo conto che posso farlo, ho i poteri necessari per farlo! Sto scodinzolando al solo pensiero… La presunzione è il mio più gran difetto, amo troppo me stesso, in fondo sono Babbo Natale. Porto dolci e regali ai bambini, guido una slitta con delle renne ed entro nelle vostre case dal camino. Un uomo di 100kg e 1.80 di altezza, vorrei vedere voi! Questa notte ho in serbo un’idea alquanto bizzarra. Aspettatemi, sto arrivando mortali!

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«Elfi, è pronta la mia slitta?» Urlo a squarciagola. «Sì, Signore!» mi risponde mastro Elfissimo. Bleah! Che nome… Torniamo a noi. La slitta è carica, le renne sono al loro posto e spero che questa volta non gli abbiano dato da mangiare le solite castagne… non immaginate che puzzette fanno a ogni curva. Mi preparo, la giacca vecchia sa ancora di canfora, la mia colf è talmente rincoglionita che non sa distinguere la destra con la sinistra, figuriamoci lavare! E pensate che gli ho anche comprato la lavatrice nuova. M’infilo i miei anfibi, ok va bene sono moderno, non uso più gli stivali di gomma, alla mia età il freddo mi fa venire i geloni ai piedi. Eccomi qui pronto per viaggiare. Scendo le scale entusiasta perché quest’anno sarà una nuova era di festa. «We Babbone, sei pronto?» Esodo. «Sali! Stasera ci divertiamo vecchia sola!» Dico sedendomi sul duro sedile. «Divertiamo» mi fa l’eco.

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«Ho un’idea grandiosa. Siediti e sta zitto!» Gli ordino tirando le briglie «si parteeeeeeee.» È ormai notte fonda sulle vie di questa città piena zeppa di decorazioni, luci, neve e chi più ne ha più ne metta. Arrivati a metà tragitto, è ora che il mio piano inizi. La prima casa… Mi fermo come sempre sul tetto, le mie renne si parcheggiano sollevate a pochi centimetri dalle tegole. Il mio fedele “si fa per dire” Elfo, mi passa i primi regali. «Dimmi, che regali devo portare?» Esodo tira fuori dalla sua cintura la lunga lista, controlla la via e mi risponde: «Una macchinina telecomandata, dei pennarelli, moltissimi dolci». «Dammi qua il sacco!» Scendo dal camino che questi imbecilli si sono dimenticati di spegnere del tutto. Arrivo in fondo ed entro in casa. Una casetta modesta, un albero striminzito e pensata un po’, due biscotti e un bicchiere di latte su un tavolino con un foglio “PER BABBO NATALE TI VOGLIO BENE MAIKOL”. Sprecati! «Bene bene Maikol… vediamo un po’ come disegnano questi pennarelli».

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Inizio a imbrattate la parete con un pennello nero, poi blu e infine giallo. Non soddisfatto ho in mente altri scherzetti. «Ecco le gomme gommose». M’infilo dieci gomme in bocca, a fatica le mastico e inizio a soffiare, soffiare, soffiare… un grosso pallone rosa mi si forma tra le labbra. Con calma e attenzione me lo levo dalla bocca, l’appoggio sul divano e poi BANG lo faccio esplodere sul divano bianco in pelle. «Vi ci vorranno mesi per togliere tutta questa cicca» rido come un pazzo in silenzio per non farmi sentire. «Idea!» prendo il pennarello rosso, la macchinina bianca e ci scrivo “bimbo cattivo” su tutti i lati. Ragazzi! Non vi rendete conto che soddisfazione. Aspettate un po’, quella che vedo è Sifi, la fata del sonno. «Ehi ciao Sifilide» spio dalla finestra. «Natale mi chiamo Sifi! Smettila di storpiarmi il nome». Si ferma sul cornicione e guarda l’interno della casa. «Ma che è successo qui?» spalanca gli occhi. «Niente vandali» rido tra me e me. «Sifi che ne dici se ci divertiamo un po’?» Le schiaccio l’occhio. «Cioè?»

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«Su capiscimi! Chi non lo fa a Natale non lo fa per l’anno avvenire!» La fata mi sta guardando scioccata, ma voi non le conoscete, loro amano il sesso più delle loro ali. «Entra che ti lucido le alette mia fatona» passo la lingua sulle labbra. «Cosa ti sei bevuto?» mi risponde, ma dentro di se so che non vede l’ora di avermi. «E su rinunci a uno stallone come me?» meno il fianco imitando una spinta sessuale. Le si guarda in giro, a destra, a sinistra e poi alza le spalle «Okay». Ragazzi miei il seguito non ve lo racconto, ma credetemi, non c’è al mondo una perversa, insaziabile, vogliosa donna alla pari di una fata. Finisco e raggiungo il mio assistente che se ne sta lassù a contemplare le stelle e la luna, mentre io mi sono appena contemplato le ali di una fatina niente male. «Dov’eri finito?» Mi chiede. «A mangiare due biscotti e bere del latte.» Ripartiamo.

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Casa dopo casa, dopo casa, dopo casa, fata dopo fata, dopo fata e dopo fata, la nottata stava arrivando al termine. «E anche questo Natale è finito!» Dichiarò Esodo «si ricomincia a pensare al prossimo vecchio spennato Babbo». «Sai Esodo, credo che quest’anno sia stato il migliore» rispondo. Lui mi guarda stranito «Migliore? E come mai?» «Lo vuoi proprio sapere?» «Certo!» «Ho distrutto ventimila regali, diecimila case, mi sono fatto tutte le fate del sonno del mondo, e ho una voglia matta di ricominciare da capo.» Gli

occhi

di

Esodo

si

spalancano

di

terrore

«Ve…ve…veramente hai fatto tutto questo?» «Buon Natale Esodo e buon Natale Mondo a presto!» E la mia risata demoniaca echeggia in tutto l’universo.

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Biografia Autrice Lidia Ottelli è nata e cresciuta in provincia di Brescia nel 1976. Accanita lettrice appassionata di fantasy, paranormal e thriller, scrive e ha scritto soprattutto per sé stessa. Alcuni brevi racconti sono pubblicati sul suo Forum “Il Rumore del Sangue” e su altri siti sempre della stessa piattaforma dedicati a chi ha la passione per la scrittura. E’ ideatrice del Blog e della pagina Facebook “Il Rumore Dei Libri” dedicato agli scrittori emergenti dove recensisce e presente i nuovi scrittori. Scrive in collaborazione con altre Blogger e scrittrici, su una rivista online di nome Eclettica, dove ha una rubrica dedicata agli esordienti/emergenti. E’ un’amante di film horror, serie tv, di manga e anime. Nel 2013 ha scritto dei brevi racconti per delle antologie: Ottobre 2013 I Demoni di Halloween antologia Halloween Novels per di Le passioni di Brully; Novembre 2013 Il Settimo cadavere l’antologia Merry Christmas Mr.Death per La Mela Avvelenata BookPress editore digitale

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Lo Spirito del Natale Di Lidia Ottelli

N

icholas Dick è un normalissimo uomo con una normalissima vita e una normalissima famiglia. Sin da piccino era sempre stato abituato a vivere una

vita con poche ambizioni, una modesta casa, un modesto lavoro e uno stipendio che a malapena lo faceva vivere. Non si lamentava mai, accettava tutto quello che la vita gli riservava con un sorriso e con ottimismo e, per questo motivo, era soprannominato Mr. Allegria. Cresciuto in una famiglia severa e molto religiosa, per lui il Natale era la festività piÚ importante di tutto l’anno. Canti natalizi risuonavano nella sua piccola casa, sua moglie in cucina preparava buonissimi biscotti, i figli, seduti composti sul divano, decoravano piccoli disegni e letterine per Babbo Natale. Questa era la vita di Nicholas fino al Natale del 2013.

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Era la mezzanotte della vigilia di Natale, la famiglia Dick si stava preparando ad andare a letto. Nicholas, come tutte le sere, si era recato in cucina a prendere un bicchiere di latte caldo che lo faceva dormire meglio. Aprì il frigorifero, prese la solita scatola del latte e la versò nella tazza di Babbo Natale. Si recò vicino al microonde e appoggiò dentro di esso la tazza, chiuse lo sportellino e digitò due minuti, era quello il tempo per far riscaldare la sua bevanda. Fischiettava allegramente “Jingle Bells” fino al piccolo suono che lo avvisava che il latte era pronto. Sì spostò leggermente a destra prima di avviarsi verso la sala e poi su per le scale. Improvvisamente, la luce della casa iniziò a lampeggiare. Uno strano brusio risuonava nelle orecchie di Mr. Allegria. A ogni gradino che si accingeva a fare, la luce tremava. Pensò che la neve venuta abbondante nei giorni scorsi, si fosse depositata sui cavi della luce e interferiva con l’impianto elettrico. Sorrise e si avviò. «Nicholas?» una leggera voce lo stava chiamando. Si voltò guardandosi attorno, ma non vide niente. «Nicholas?» ripetè la voce soave.

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«C’è qualcuno?» chiese con un filo di voce Nicholas. Non avendo risposta, salì un altro gradino ma inaspettatamente davanti al suo volto comparve una corona di fuoco e dal nulla, una bellissima donna vestita di pelle nera con altissimi tacchi a spillo, capelli neri lunghi ricci e occhi blu scuro come il cielo di notte uscì guardandolo dritto negli occhi. Mr. Allegria indietreggiò spaventato, non capendo cosa stesse capitando. «Chi-chi sei?» Balbettò impaurito. La donna sorrise e si avvicinò a lui «Sono lo spirito del Natale» disse muovendo le labbra lentamente ipnotizzando l’uomo. «Lo spirito del Natale?» Fece eco Nicholas. «Sì, caro Nicholas. Sono qui per farti vedere come sarebbe stata la tua vita con dei piccoli cambiamenti.» L’uomo non capì e continuò a chiedere «Ma io sono felice, ho una bellissima vita, una bellissima moglie e due bellissimi figli. Forse hai sbagliato casa, caro Angelo del Natale.» «Angelo del Natale?» Chiese stranita la donna. «Sì» rispose l’uomo «lo spirito del Natale è un Angelo che fa diventare buoni i cattivi» dichiarò tra un sorriso e l’altro. «E se io non fossi un Angelo?» domando la donna non appena vide nello sguardo dell’uomo una luce angelica.

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«Allora chi sei?» ribatté Mr. Allegria. «Mi chiamo Adhara e ti voglio portare nel tuo passato, nel presente e nel tuo futuro.» Dichiarò. «Ma io già conosco il mio passato, e ora sono nel presente e il futuro non lo voglio sapere; quello che Dio vorrà io l’accetterò» le disse. «Suvvia mio caro, che sarà mai. Faremo solo un piccolo viaggetto nel passato e se non ti piace quello che vedrai, sparirò per sempre. Se invece non verrai, io ti perseguiterò per tutti i Natali avvenire, fino che deciderai di venire con me» gli sussurrò nell’orecchio provocandogli dei brividi inaspettati. Incredulo e forse anche un po’ impaurito rispose «Va bene.» Adhara si sfregò le mani compiaciuta da quella risposta. Il suo corpo si muoveva sinuosamente vicino all’uomo «Chiudi di occhi!» Gli ordinò sussurrandogli nell’orecchio destro con sensuale voce. L’uomo obbedì. Non capiva, ma era completamente avvolto da quella voce e da quella sconosciuta.

Pochi secondi dopo aprì gli occhi e si ritrovò nel 1983, aveva sette anni ed era nella vecchia casa dei genitori. «Eccoci arrivati!» Esclamò la donna eccitata.

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La casa era come avvolta da uno strano silenzio. La madre era in cucina a preparare il cibo per la sera, il padre stava finendo di sistemare le ultime luci sull’albero; due piccoli bambini seduti sul divano, in silenzio, stavano giocando a disegnare dei piccoli alberi. «Quello sei tu?» Chiese la donna allungando il dito affusolato verso il bambino biondo. «Sì» rispose. Adhara si spostò avvicinandosi al ragazzino «Mmm» mugugnò. «Ma non ti vedono? Cioè non ti vedo?» domandò Nicholas. «No. Nessuno ci può vedere» sobillò «ma eravate sempre così… tranquilli?» chiese. Lui annuì sorridendo. «Noioso» dichiarò la donna. In un lampo s’infilò in cucina, prese un dolce dal piatto e fu fermata da un piccolo urlo «No! Mia madre non vuole che si mangi prima di cena!» Adhara già aveva infilato il biscotto tra le labbra «Come? Ma stai scherzando? Due bambini uno di sette e l’altro di cinque, seduti sul divano senza parlare, senza nemmeno un biscotto… Ma che vita hai fatto?»

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Allegria abbassò lo sguardo «I miei erano, anzi sono molto severi su certe cose.» «Sarà.» Tutta la famiglia si mise a tavola. Prima di mangiare ci fu la preghiera; la cena era talmente lagnosa che Allegria era seduto sul divano a guardare la sua famiglia; la donna sul piano della cucina si limava le unghie aspettando che finisse quello scempio. «Ora lavatevi le mani e aprite i regali» disse la madre finita la cena. «Finalmente qualcosa di interessante» dichiarò lo spirito. I bambini corsero impazienti all’albero e, seduti composti, iniziarono ad aprire quei pochi regali. Adhara sbadigliò più volte finché la sua pazienza si esaurì. Con un salto scese dal piano e si avvicinò all’uomo «Ma state scherzando?» Guardò dritta negli occhi Nicholas «Una Bibbia?» L’uomo non rispose e fissò il regalo. «Un bambino di sette anni con una Bibbia? Ma che cavolo di regalo è questo?» Si irrigidì disgustata «che ne dici, di vedere cosa avevo in mente per te?» «Io non lo so» indietreggiò.

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La donna tacque per un momento, poi continuò a parlare «Se non ti piace puoi sempre dirmi basta e ti faccio tornare a casa». «Me lo prometti?» chiese l’uomo. «Giurin giurello» un sorriso diabolico apparve sul volto della donna «ora rilassati…» Adhara soffiò l’alito addosso agli occhi di Nicholas e l’ambientazione cambiò. Colonne di marmo si alzavano sinuose al centro della sala, tappeti raffinati coprivano i luminosi pavimenti, luci accecanti e brillanti illuminavano le stanza eleganti. «Dove siamo?» Domandò sbigottito Allegria. Nella quiete dell’enorme casa, le grida di due ragazzini rimbombavano nelle pareti. Nicholas alzò lo sguardo e vide negli occhi dei due bambini una luce particolare, un lampo di felicità che lo spiazzò. «Questa è casa tua con dei piccoli accorgimenti» girò su sé stessa. «Tuo padre è un famoso ricco contabile di una fabbrica molto famosa, tua madre è una donna dolce e per niente autoritaria. Tu sei un bambino felice immerso da regali, dolci e pieno d’amore. Tuo fratello guardalo… è stupendo!»

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Gli occhi di Allegria non credevano a quello che stavano vedendo. La sua vita poteva essere stupenda anche con soldi, regali e meno regole? Stava vacillando. «Vedi mio caro, tu stai mangiando un dolcetto prima di cena, il tuo regalo di Natale è uno stupendo camion dei vigili del fuoco, quello che volevi e sognavi da una vita» la donna si spostò vicino al piccolo «guardati, sei felice e sereno.» L’uomo non riusciva a respirare, soffocato dalla vita inutile che aveva di fronte. La sua intera esistenza era stata manovrata da stupide e inutili regole. Adhara gli rivolse un dolce sorriso «Il passato non si può cambiare, dolcissimo mio Nicholas, ma puoi cambiare il presento e il futuro.» «Voglio questa vita» sussurrò appena l’uomo «cosa devo fare spirito?» Gli occhi blu intenso della donna, si illuminarono di una luce soffocante. Le labbra di Allegria si aprirono per parlare, ma un'ondata di vertigini lo colpì. Tenne gli occhi chiusi solo per un secondo, ma quando li aprì, era tornato nel presente. «Era un sogno» sibilò.

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In un primo momento pensò che fossero i suoi occhi stanchi, ma dopo uno sfregamento vigoroso, capì che forse doveva andare a letto perché la stanchezza gli stava facendo brutti scherzi. Si mise vicino al calorifero cercando di scaldare le mani arrossate per il freddo. Inarcò il sopracciglio e scosse la testa, nella sua mente aveva ancora stampato il viso di quella donna, di quel sogno del suo passato. Era successo così tutto in fretta! Il suo corpo si irrigidì e un brivido gli attraversò tutto il corpo. «Meglio andare a dormire.» Salendo le scale, spostò la tenda della finestra guardando di fuori per l’ultima volta. Confuso dai suoi pensieri contrastanti, rapidamente salì i gradini raggiungendo la sua camera da letto.

Qualcosa batté contro le pareti e le travi in quercia bianca si mossero. Il rumore echeggiò nella grande sala della casa. Gli occhi dell’uomo si spalancarono. Alzandosi, spostò le tende viola funeree guardando l’esterno dalla finestra, credendo che un tuono o un lampo aveva colpito il cielo grigio, provocando quel forte tonfo. Il suo cuore, per qualche istante, aveva battuto all’impazzata per lo spavento. Aprì la finestra e sporse la testa

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scrutando nel buio della notte. Non erano gli echi del temperamento, né di un fulmine, né di un tuono. «C’è qualcuno?» Domandò non riuscendo a vedere nessuno data l’oscurità della serata. Chiuse la finestra, si avvicinò alla sedia d’entrata, prese un maglione fatto di cotone pesante, e uscì fuori. Si strofinò energicamente le braccia, il freddo era tagliente e l’umidità penetrava nei vestiti. «C’è qualcuno?» Ripetè con un tono di voce più chiaro e squillante. Si avvicinò alla casetta degli attrezzi con aria sospetta. Fece un lungo respiro, le sue dita snelle tremavano sulla maniglia dalla porta. Contò fino a tre e prese il coraggio di aprire. All’improvviso, una luce dorata avvolse il suo corpo e una sensazione di calore e agio scese su di lui, quella luce calda, era come il sole d'estate dopo il gelo dell'inverno. Le sue palpebre si socchiusero, vide una visione confusa nella luce che non riusciva a mettere a fuoco. Realizzò dopo alcuni minuti il fatto che c'era qualcosa in piedi davanti a lui, le sue mani tremarono leggermente e, prima che potesse aprire bocca per chiedere chi fosse e cosa ci faceva dentro la sua proprietà, una donna guardò verso di lui con

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un'espressione di sorpresa mista a fascino, come se lui fosse la cosa più interessante che avesse mai visto prima. «Amore cosa succede?» Quella bellissima donna vestita di bianco era dinnanzi a lui che lo accarezzava dolcemente, la casetta era diventata una bellissima reggia piena di luce, un albero zeppo di bellissime luci e molti regali. «Tu chi sei?» chiese Allegria. La donna lo guardò stranita «Nicholas? Non riconosci più tua moglie?» “Non era un sogno, il mio presente..” A quel pensiero due bambini sporchi di cioccolata si cinsero alle sue lunghe gambe chiamandolo papà. Era vero era tutto vero! La giornata proseguì e lui si divertì come non aveva mai fatto in vita sua. Rincorreva i figli per tutte le stanze, mangiava biscotti e ogni tipo di dolci; beveva, rideva e baciava la moglie. Tutto quello che la sua vita precedente non gli aveva donato era qui, a portata di mano. «Amore» chiamò la moglie «metti fuori la spazzatura?» Si alzò «Certamente» sorrise.

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Prese il sacco, baciò leggermente la moglie e uscì da casa. Sospirò sognante. Era tutto perfetto, la casa la famiglia, la sua Mercedes rossa fiammante parcheggiata nel vialetto, tutto meravigliosamente perfetto. «Ciao Mr. Allegria». Si girò e Adhara era di fronte a lui. «Spirito» disse guardandola. Lei passeggiava intorno a lui «Bellissima casa vero? E la tua macchina… wow è da urlo!» Lui sorrise arrossendo «Grazie a te.» «Non ringraziarmi. Te lo sei meritato.» «Come posso sdebitarmi?» Domando l’uomo. «Effettivamente sono qui per quello» lo interruppe lo spirito «dovresti firmare questo foglio, solo piccole formalità.» «Foglio?» Chiese. «Sì. Una piccola firma e tutto sarà definitivamente tuo. La tua nuova vita meravigliosa.» «Okay» rispose solamente, appoggiò il sacco nel contenitore e prese in mano il foglio e la penna «come mai è in bianco?» «Non ho avuto tempo di compilarlo. Non mi dire che Mr. Allegria non si fida di me dopo tutto quello che ho fatto per te».

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«No di certo» tentennò per un secondo e poi firmò. Improvvisamente il foglio iniziò a riempirsi di parole, frasi terrificanti, scritte marchiate dal sangue e dal terrore si univano a quell’unica pagina bianca. «Cosa sono queste parole?» urlò spaventato Nicholas. La donna sogghignò «La tua condanna a morte caro il mio Allegria!» L’uomo indietreggiò spaventato e negli occhi di quel crudele spirito, vide le fiamme del suo futuro. Un futuro pieno di cose materiali ma immorali, pieno di tradimenti, odio e poco amore fino alla morte solo accompagnato da il suo rimorso. «Tu non sei un Angelo! Sei un Diavolo!» Le gridò addosso. Lei rise e le sue risa risuonavano terrificanti nell’aria e nella sua testa. Cosa aveva fatto? Aveva venduto la sua felicità per stupidità e avidità. Quell’essere gli aveva fatto vedere quello che lui voleva vedere non quello che era e lui ci era cascato. Si sentì morire, e quella fu la fine della sua vita…

«Ciao Adhara.» «Ciao Dean.»

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«Quante anime hai rubato quest’anno?» La donna si toccò le labbra «Quindici» rispose soddisfatta. «Wow! Quest’anno record!» «Sì! Gli umani stanno diventando sempre più deboli, mio padre Lucifero ne sarà contento.» «Sicuramente…»

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Biografia Autore Marco Bertoli

nato a Brescia nel 1956, è geologo.

Vive e lavora a Pisa come Tecnico Analista di Laboratorio presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università, occupandosi di analisi chimiche di campioni di rocce e di acque. E’ sposato con Anna e ha due figlie, Debora e Serena. I suoi svaghi sono la lettura, sia di saggi di storia militare, antica e moderna, sia di gialli storici, i videogiochi RPG (in coppia con la moglie!) e i giochi di simulazione da tavolo. Ha pubblicato nel 2012 il suo primo romanzo, “La Signora che vedeva i morti”, giallo storico con elementi fantasy, che ha vinto il Premio Scrittore Toscano 2012 selezione on-line, il Premio della Giuria per il Romanzo storico al Concorso di narrativa e poesia “Città di parole”, 2ª Edizione – 2013, ed è stato finalista alla prima edizione del Contest letterario “Ti presento il mio libro” organizzato dai siti Convivio creativo e Leggere a colori. Il suo racconto “Nulla d’indecoroso” è inserito nell’antologia “365 Storie d’amore” e il racconto “Compagni” in “365 Racconti di Natale” della Delos Books.

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Il racconto “Ali” è stato pubblicato su Romance Magazine 13 e il racconto “- 40°C” sul 1° numero della rivista “Terre di confine Magazine”. Numerosi altri racconti che spaziano dal genere realistico alla fantascienza, passando per il fantasy, hanno vinto concorsi letterari nazionali: Anselmo: Vincitore del Concorso Letterario Nazionale “Notte in giallo 2013”. Buon samaritano: Vincitore del Contest “Come va avanti la storia?” indetto dal Sito “Il Giornale del Libro”. Deserto: Racconto ambientato ai nostri giorni. Insieme ad “Agenore” e “Quadro” vincitore del Concorso “Writer Factor” 2014 e pubblicato sul Calendario BraviAutori.it "Writer Factor" 2014. Eroina suo malgrado: Vincitore del Concorso Nazionale di Poesia e Prosa “Fazio degli Uberti”, XVIII Edizione. Forte come la morte: Vincitore del concorso “Ministorie per tutti 2012” indetto dal blog “Libro libero”. Ossa rotte: Vincitore ex aequo del Concorso nazionale “San Valentino. Cupido, ma dove ComoAnconadoppiaZaraOtranto... miri?” indetto dall’associazione culturale “Il Paese che non

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c’è” di Bergamo; e sono arrivati finalisti, con relativa pubblicazione, in antologie sia cartacee sia digitali.

Il suo sito è: http://www.marcobertoli.eu

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Regali di Marco Bertoli

L

ucinda sbuffò, calpestando il ciglio della strada con le suole degli stivaloni di pelle, due macchie di lucido giallo. Alcuni fiocchi di neve, l’avanguardia di un esercito,

avevano iniziato a intrecciare caotici mulinelli nel chiarore del lampione che marcava la sua postazione di lavoro. La stizza della ragazza si rapprese in una piccola nuvola iridescente, attorno al naso all’insù che le era valso il soprannome di “La francesina” anche se, per il passaporto, era nata a Fosciandora, in Garfagnana. Il rugginoso fusto di metallo assunse la consistenza del ghiaccio contro le vertebre della sua schiena seminuda. Ci mancava anche questa, pensò arricciando le labbra coralline, mentre un malizioso brivido di freddo le inturgidiva i capezzoli che un microscopico top argentato faticava a tenere coperti. Era la vigilia di Natale, una serata da trascorrere al caldo della famiglia, seduti davanti a una tavola im-bandita con ogni ben

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di Dio, oppure spaparanzati comodamente su divani e poltrone a scambiarsi inu-tili regali infiocchettati con baci e abbracci. Per lei, invece, si trattava della consueta veglia soli-taria, identica a una sfilza, il cui inizio non ricordava nemmeno più. Ore da trascorrere in piedi, in ras-segnata attesa di un’anima così contorta da aver bi-sogno di sesso anche nella notte in cui un’umanità illusa festeggiava la nascita del proprio Redentore. Una coppia di fanali si avvicinò rapida, scanda-gliando il rettilineo della circonvallazione. La giovane si raddrizzò. Professionale, espose la merce: mani sulle insenature dei fianchi, scollatura in piena vista, gambe chilometriche appena dischiuse. L’auto proseguì la sua corsa, indifferente all’offerta. Il ritardatario fu raggiunto da un accidente come sincero augurio di buone feste. Lucinda lanciò un’occhiata all’orologio. Scosse av-vilita il caschetto di capelli dai riflessi viola: forse era il caso di rinunciare. Meglio il portafoglio vuoto che beccarsi una bronchite. Un rumore insolito riempì l’aria in cui volteggiava una quantità fantasmagoria impazzita di cristalli candidi. Impiegò diversi secondi prima di riuscire a identificarlo: sembrava un tintinnio

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di sonagli. Le ricordò alla lontana il suono dei campanacci delle mucche che pascolavano nel campo di suo nonno. Immunizzò il cuore, prima che il tossico sovvenire di un’epoca in cui credeva che la felicità fosse a portata delle sue manine di bimba lo avvelenasse di rimpianto. «OhOhOh!». Il grido stentoreo s’impose sullo scampanellio acuto e il frusciare continuo della neve, spaventandola. Un attimo dopo, una lucina rossa bucò l’omogeneo fondale corvino della notte. Neppure il tempo di stupirsi, che la ragazza scorse una slitta trainata da nove renne sbucare in volo so-pra il braccio parabolico del fanale. Una larga piro-etta e lo strano velivolo planò dolcemente verso l’asfalto imbiancato, atterrando a qualche metro da lei. Un omone dal viso rubizzo, barba e baffi immacola-ti, abito scarlatto dai bianchi bordi di pelliccia, la salutò con tono allegro: «OhOhOh! Salve, Lucinda! Sono venuto a portarti un dono, anche se non lo me-riteresti perché, a quanto mi risulta, sei una bambina un tantinello cattiva.» La prostituta non riusciva a capacitarsi. Era un’allucinazione causata dal gelo? Sbatté più volte le ciglia finte per schiarirsi la vista ma la massiccia sagoma di Babbo Natale non si dissolse.

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Incredula, osservò il personaggio fantastico armeg-giare con un grosso sacco ed estrarne un oggetto al-lungato. Una motosega? Le orecchie attonite regi-strarono lo scoppiettante rombo dell’accensione. Le pupille dilatate seguirono l’avvicinarsi della figura sorridente che impugnava con consumata abilità l’attrezzo infernale. Solo quando il frullio dei denti d’acciaio le morse il collo, Lucinda comprese che era troppo tardi per scappare. «Fortuna che vesto di rosso» brontolò Babbo Natale quando ebbe finito di riporre nell’enorme sacca i pezzi del corpo della giovane. Accomodato sul sedile della slitta, esclamò: «Forza belle! Si riparte. Rudolph, prossima destinazione: Africa Centrale. I bambini buoni della tribù dei can-nibali NgomboNgombo aspettano i loro regali!»

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Biografia Autrice

Tanya D'Antoni

nasce il 28 settembre del 1970 a

Messina . Fin da bambina ha sempre avuto una fervida immaginazione, in particolare ama le opere di William Shakespeare. Nel 2011, il primo romanzo pubblicato, dal titolo "Il vento dell'illusione" edito dalla casa editrice “La Riflessione” di Davide Zedda. Nel 2012 vince un concorso con la Butterfly edizioni “sussurri dal cuore e... dalle tenebre”, un'antologia con altri 46 autori con il racconto “La sirena di Tralee”.

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I due Natali Di Tanya D’Antoni

E

ra pieno inverno e quella notte soffiava un vento impetuoso. Adagiata con la schiena sul divano e la testa appoggiata su un cuscino guardavo dai vetri della

finestra quelle nubi minacciose. «E se questo Natale non arrivasse?» dissi con un filo di voce. Ma cosa mi stava saltando in mente? Perché non sarebbe dovuto arrivare? Mancavano solo due giorni, ma il ricordo di quello strano giovane visto sulla collina mi mise ansia.

Mi aveva guardato con gli occhi di ghiaccio e mentre sorrideva mi aveva detto: «Aspetti il Natale? Ma sai che non arriverà?» Avevo abbassato lo sguardo a terra, il cuore aveva iniziato ad accelerare i suoi battiti, ma che dice? No, non è così e avevo continuato a camminare passandogli davanti, un vento gelido si era alzato all'istante e mi aveva fatto indietreggiare almeno di un passo, sbadatamente avevo messo un piede in fallo

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cadendo all'indietro, e qualcuno mi aveva afferrato al volo. «Tu sei un demone vero? Il demone del mio passato Natale» aveva sorriso, non mi aveva risposto mentre delicatamente mi lasciava andare. «Tieni, questo ti farà capire tante cose» mi diede una piccola boccettina di vetro. L’interno conteneva un liquido bluastro, sembrava inchiostro. Avevo preso in mano l'oggetto e l’avevo osservato minuziosamente. «Che ti prende? Sei diventata seria...» «Basta» risposi con tono severo e crash, avevo gettato la boccetta a terra, la neve che si cospargeva lentamente di liquido blu.

Mi portai la mano al petto e presi il pendente, lo osservai, non riuscivo a capire cosa volesse significare e quali misteri nascondesse quel manufatto. «Mi diede questo ciondolo, un piccolo albero blu, formatosi dalla neve.» La porta si aprì improvvisamente e io restai scioccata nel vedere che era l'anno precedente, ero sola, era il giorno di Natale e tutto intorno era vecchio e sporco, nessuno veniva a trovarmi e sotto l'albero non vi erano regali, ma solo tanta

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nostalgia. Piansi, piansi tanto nel ricordare, ma poi la porta si chiuse sbattendo con forza. Due occhi mi guardavano dalla finestra socchiusa, un brivido mi percorse lungo la schiena, era di nuovo quel misterioso ragazzo dagli occhi di ghiaccio: «Anita, io sono Gabriel» mi disse fissandomi. «Ti ho conosciuto in un sogno, credo» risposi confusa. «No, hai dimenticato il vero Natale, quello dove eri felice con me e che hai scordato uccidendo il Natale stesso.» Non capii quelle parole, ma un brivido mi percorse la schiena. Possibile che avessi conosciuto Gabriel in qualche altra epoca? In quell'istante il medaglione iniziò a brillare, quell'albero ormai era diventato come un tatuaggio sulla mia pelle, inciso come un marchio sul petto; mi accorsi solo quando mi baciò che, anche lui, su un lato del collo quasi vicino al colletto della giacca, aveva lo stesso identico sigillo. La porta si aprì come per incanto e iniziai a ricordare ogni minimo particolare, se non avessi migliorato il mio carattere non avrei mai potuto rivedere il vero Santo Natale.

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Biografia Autore Jury Livorati nasce a Viadana (MN) nel 1985. Laureato in Biologia Molecolare, sposato e con due figli, lavora come impiegato, ma coltiva da sempre una grande passione per la lettura e la scrittura. Gli scrittori che lo hanno maggiormente influenzato sono Stephen King, Dan Brown e Scarlett Thomasson. Dopo i primi esperimenti letterari da selfpublisher, con la raccolta di racconti Paura Paranoia Pazzia (Lulu, 2007) e il romanzo M@rcello (Boopen, 2011), approda nel mondo della piccola editoria con il romanzo L’eredità (0111 Edizioni, 2012). Nel 2013 pubblica ancora Il ritorno di Beynul (0111 Edizioni), primo volume della saga di Alethya – La trilogia del Vaso, i cui successivi capitoli vedranno la luce nel 2014 (Il segreto di Malun) e nel 2015 (La battaglia di Mistar). Il suo blog Scrivere è un viaggio (jurylivorati.blogspot.it) raccoglie informazioni sull’autore e sulle opere presenti, passate e in lavorazione.

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Marcio Natale Di Jury Livorati

E

eee… Hop!» Ezio accompagnò il tappo della bottiglia di spumante che decollava verso il soffitto, con un sorriso da manifesto politico stampato in volto. Un

sorriso che coinvolgeva la bocca, ma non gli occhi. Poi si abbassò verso il tavolo per riempire i calici, prima che lo spumante imbrattasse la tovaglia. Infine depose la bottiglia e si sedette. Il piccolo tavolo quadrato in cucina era addobbato per la cena della Vigilia: tovaglia rossa con decorazioni natalizie, tovaglioli di carta dello stesso colore, sottobicchieri di cartone a forma di testa di renna, candele accese e il servizio di piatti e posate delle grandi occasioni. Teresa non si era preclusa nulla. Perché quella era una serata speciale e non certo per il suo significato religioso.

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Edoardo si era trasferito a Milano ormai da un paio d’anni e le feste rappresentavano uno dei pochi momenti in cui tornava a casa. L’unico in cui lo faceva senza avere altri impegni più pressanti che lo tenessero occupato la maggior parte del tempo. Per Ezio e Teresa, che lo avevano visto andarsene dopo un terribile periodo di litigi e sfoghi repressi e che avevano temuto di perderlo per sempre, era una benedizione poter sedere al suo stesso tavolo, in armonia. «Auguri, allora» disse Ezio, sollevando il calice e fissando gli occhi in quelli del figlio. «Auguri!» Rispose lui, con un sorriso svogliato e quasi imbarazzato, apparentemente interessato al suo sottobicchiere. «Auguri tesoro» si unì sua madre, affrettandosi a colpire il bicchiere del figlio col proprio, quasi temesse di perdere l’occasione. Il tintinnio risuonò nella piccola cucina, pervasa dall’odore del cibo ormai consumato e da quello, più cattivo, di una certa ipocrisia. La famiglia riunita brindò e bevve alla salute di qualcosa di indefinito, che aveva la vaga forma di una riconciliazione inseguita da anni ma che probabilmente non sarebbe mai stata raggiunta. Vigilia di Natale o meno.

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«Spostiamoci in salotto» propose Ezio dopo aver posato il calice. Un singhiozzo lo scosse. «Possiamo aprire i regali» annunciò, accentuando il suo forzato sorriso.

Quel che videro era talmente assurdo che, in un primo momento, lo registrarono come qualcosa di normale. Il salotto, poco più grande della cucina, era stato trasformato dalla frenesia natalizia di Teresa e assomigliava alla vetrina di un negozio nel periodo delle feste. Il grande albero in un angolo, di fianco al camino mai utilizzato, era un trionfo di nastri rossi e argento, di lucine intermittenti e di icone di Santi. Un minuscolo ma dettagliato Presepe allestito su tre cassette per la frutta, si snodava nell’angolo opposto. Un elaborato festone attraversava la parte superiore della finestra, i cui vetri erano decorati con adesivi a tema. E un Babbo Natale a grandezza naturale, forse troppo magro rispetto alla sua rappresentazione classica, sostava a ridosso della parete con le mani giunte all’altezza dell’inguine, come in attesa. Poi Teresa urlò. Edoardo, appena dietro di lei, la prese per le spalle. «Che cosa...?» Chiese, prima di comprendere la ragione del suo gesto. Anche Ezio si era immobilizzato, una mano tesa e aperta come a voler suggerire al figlio di aspettare.

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Lo sconosciuto travestito da Babbo Natale li fissava con un sorriso maligno dipinto in volto. Tra il cappello calcato fino alle sopracciglia e la folta barba bianca emergeva una porzione di volto dalla pelle scura, raggrinzita; gli occhi neri e piccoli erano stretti e l’ilarità che si sforzavano di trasmettere, veniva tradotta in odio e follia dall’atteggiamento dell’uomo, dalla sua stessa, ingiustificata presenza. «Chi è, papà?» Chiese Edoardo scaldandosi. Ezio scosse la testa e ripeté il gesto con cui voleva chiedergli di trattenersi. «Chi cazzo sei?» Ribadì il ragazzo, alzando la voce e avanzando minacciosamente verso l’uomo. «Edo!» Piagnucolò sua mamma. Lo sconosciuto allargò il sorriso, inclinò la testa su un lato e allargò le braccia. «Babbo Natale» rispose in tono d’ovvietà. Quindi, con la mano destra, indicò il divano come se volesse invitare Edoardo a prendere posto e il ragazzo fu spinto da una forza invisibile. Atterrò pesantemente, sbattendo la faccia su uno dei braccioli. Un rivolo di sangue gli uscì dal naso e imbrattò il tessuto. Teresa strillò. «Prego, sedetevi» invitò l’uomo, rivolto a Ezio e Teresa. Lei si strinse a un braccio del marito, il quale continuava a spostare lo sguardo dallo sconosciuto al figlio e teneva le braccia allargate,

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forse cercando di convincersi di avere la situazione in pugno. Si mossero in direzione del divano come un corpo unico e si accomodarono accanto al figlio dolorante. Edoardo si stava tamponando il naso con un fazzoletto, ma il furore non sembrava averlo abbandonato. Il modo in cui fissava il Babbo Natale ostentava un forte desiderio di comprensione, e di vendetta. «È un momento di gioia!» Sorrise di nuovo lo sconosciuto, battendo le mani. Si spostò dal muro e si posizionò di fronte al divano. «Il momento della riunione di famiglia. Il momento più bello dell’anno». Passò lo sguardo sulle sue vittime con una lentezza esasperante e, per la prima volta da quando era comparso, la luce festosa nei suoi occhi si spense. «Il momento della verità» concluse. «Che cosa vuole da noi?» Sputò finalmente Ezio. Teresa strinse più forte il suo braccio, tremando e piangendo in silenzio. «Non abbiamo soldi in casa. Non abbiamo niente. Non stiamo troppo bene». Babbo Natale sollevò le sopracciglia, stupito. «Ma come?» Cantilenò. «Siete ricchissimi. Avete l’Amore. Avete la Famiglia. Avete Dio.» Indicò le icone dei Santi appese

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all’albero, il Presepe e il grande crocifisso sopra la porta che andava in cucina. «Qualunque cosa debba fare» ringhiò Edoardo con voce nasale «la faccia alla svelta e se ne vada. Poi si auguri che non la raggiunga.» L’uomo fece di no con la mano destra. «No no. Non è questo lo spirito, suvvia. Forse se cominciassimo coi regali ti ammorbidiresti». «Vaffanculo!» Sbraitò il ragazzo. La voce rimbalzò contro le pareti come se lui e i suoi genitori si trovassero prigionieri in una gabbia di metallo. Edoardo si guardò intorno stranito. «Basta, Edo» mormorò sua madre tra i gemiti. «Lascialo fare, lascialo fare». «Dunque, signori miei» riprese il Babbo Natale. Cominciò a passeggiare su e giù per il salotto come se stesse recitando. «Il primo fortunato è... uh, proprio Edoardo. E questo» estrasse da dietro la schiena un pacchetto di cui nessuno si era accorto prima «è da parte di entrambi i tuoi genitori». Il regalo era avvolto in carta blu chiusa da un nastro rosso legato a fiocco. L’uomo tolse la mano e il pacchetto rimase a galleggiare nell’aria. Il fiocco si allentò da solo e il nastro ondeggiò verso il pavimento, poi la carta si aprì e mise in

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mostra il contenuto: una siringa. Rimase incredibilmente sospesa, sorretta da qualche trucco invisibile. «Che cazzo…?» Sbottò Edoardo. Ma alla vista dell’oggetto era sbiancato e la sua voce aveva vacillato. Qualcun altro parlò. Erano Ezio e Teresa, che però sedevano a bocca chiusa accanto a Edoardo, meravigliati quanto lui dal fenomeno. Le parole giungevano dall’aria, tutto intorno a loro, come infiltrazioni dal passato nel tessuto della realtà di quel momento.

Dimentichi che se ne è andato soprattutto per colpa tua. Ah, è così, adesso? Pensavo fosse colpa della mammina tutta amore e coccole e ‘Edo’. No, faccia di merda, no! È inutile che provi ad attaccarmi. L’hai cresciuto con la paura, cazzo! L’educazione va data con l’insegnamento, non con le minacce. Io l’avrei minacciato? Io l’avrei minacciato? Sì! Sì! Sì! Perché se non faceva questo allora le avrebbe prese, se non faceva quello lo avrebbero preso in giro, se non faceva l’altro ancora sarebbe andato in punizione. Regole, regole, regole. Mai un complimento, un apprezzamento. Mai un’apertura, un segno di affetto.

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Come facevi tu, vero? Nascondendolo sotto la tua ala da chioccia come un bambino anche quando aveva vent’anni! Perché mi rendevo conto che l’avremmo perso! Come infatti è stato. Appena ha potuto via, fuori casa, per provare finalmente a vivere. A fare tutto quello che gli hai sempre proibito e anche peggio, semplicemente per vendicarsi di te. Quindi è colpa mia se Edoardo è un cazzo di eroinomane. Se si sta bruciando il cervello coi suoi amici su a Milano? Non dico questo! Ma se invece di dirgli ‘non si fa’ e basta gli avessi spiegato il perché, già quando era piccolo, forse… Forse un cazzo. Forse un cazzo perché quando frequenti certa gente non c’è educazione che tenga. Da ragazzino ho scoperto che fumava le canne. Non te l’ho mai detto perché sei una stronza! L’avrei ammazzato e si sarebbe dimenticato persino da chi aveva comprato l’erba vedi? Io invece l’ho ascoltato, gli ho parlato, ho cercato di capire perché lo aveva fatto. E immagino ti abbia detto che era colpa mia. In un certo modo sì. Ha detto che si era sempre sentito legato e voleva provare ad andare oltre. A fare qualcosa che lo facesse sentire libero.

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Sai che cosa ti dico? Vai a Milano anche tu. Vai a bucarti insieme a quel tossico del cazzo. Vai a farti inculare nei vialetti dei drogati.

Le voci si spensero. Babbo Natale applaudì con convinzione e ridacchiò. «Commovente» disse. «L’amore di un padre e una madre per un figlio lontano. Questo è lo spirito del Natale. Questo. Amen.» Sul divano era calato il gelo. I gemiti di Teresa si erano accentuati. Aveva lasciato il braccio del marito e si era portata la testa tra le mani, dando libero sfogo alla sua frustrazione. Ezio, a bocca aperta, fissava il tappeto ai suoi piedi, tormentandosi le mani. Edoardo si era abbandonato contro lo schienale, lo sguardo perso nel vuoto e il fazzoletto ormai zuppo premuto contro il naso. «I litigi sono così» provò a giustificarsi Ezio. «Non era rivolto a te, era... la rabbia del momento tra me e tua madre e...» «Se lo sapete, perché avete sempre finto il contrario?» Chiese Edoardo. Si passò una mano sui capelli rasati, quindi si grattò nervosamente l’interno della coscia. «Non volevamo perderti ancora» rispose Teresa, risollevando la testa. «Abbiamo sempre condizionato le tue scelte. Non

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avevamo alcun diritto di intervenire ancora, non dopo il modo in cui te n’eri andato. E avevamo fiducia che ti saresti reso conto da solo dei tuoi sbagli, prima o poi». «Sempre che...» ribatté Edoardo. «Oh, suvvia, suvvia» lo interruppe Babbo Natale. «È il momento dei regali, si accettano solo lacrime di commozione e ringraziamenti di circostanza. Avrete tempo per parlare più tardi. Ora» fece comparire un altro pacco all’altezza del suo petto «tocca a Teresa». Il regalo, avvolto in carta rossa, si scartò come aveva fatto il precedente. Davanti agli occhi dei presenti comparvero due anelli d’oro. Due fedi matrimoniali. Poi partirono nuove voci: una era quella di Edoardo, l’altra, femminile, era sconosciuta ai suoi genitori.

Non mi vergogno del marcio, perché il marcio è ovunque, capisci? Qui a Milano senza dubbio. Milano, Roma, Napoli, qualunque paesino di merda sperduto nel mondo, persino a casa di un prete di campagna. L’uomo è marcio, in generale. Chi più, chi meno, chi se ne scandalizza e

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chi lo ritiene normale, ma ognuno, a modo suo, fa schifo. E non parlo di droga e basta. Di cosa allora? Soldi. Inganno. Sesso. Ipocrisia. Siamo facce sorridenti che nascondono segreti inconfessabili. Mascheriamo la sporcizia della nostra anima dietro a vite normali, tanto sappiamo che tutti quelli che ci circondano fanno lo stesso. Mi fai stare male così. È brutto. È brutto, ma è meglio pensarlo. È meglio saperlo. Se l’avessi saputo, sarei stato pronto quando ero ragazzino. Pronto per cosa? Mio papà era fondamentalmente un bastardo, te l’ho detto, ma era un gran lavoratore, questo lo devo ammettere. A volte tornava la sera tardi, a volte lo chiamavano in posti fuori mano e lui, pur di non perdere la commessa, stava via a dormire. Io restavo con mia madre. Sento che ho bisogno di una dose. Tra poco, fammi finire. Una di quelle notti, avevo dodici anni se ricordo bene, mi sveglio nel cuore della notte perché avevo un raffreddore della madonna. Mi sembra di sentire un rumore dalla stanza di mia madre e mi scappa anche la pipì, così unisco la necessità alla curiosità. In corridoio vedo che la

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porta della stanza è semiaperta e dentro c’è una luce azzurra, la lucina da notte dei miei. Non ho spiato, ho solo guardato, non avrei mai immaginato. Sento che sale, Edo. Ho bisogno. Fammi finire, cazzo! Anche io ho bisogno, ma fammi finire. Che cosa hai visto? Mia madre e un uomo che non conoscevo. Lui sotto, lei sopra, si dimenava e gemeva trattenendosi a malapena. Ricordo... ricordo le mani di lui, grandi, molto più grandi di quelle di mio padre, strette sui fianchi della mamma. Fianchi larghi, pelle già un po’ cadente, ero abituato a vederla nei vestiti larghi con cui faceva le pulizie in casa, non certo come... come una cazzo di attrice porno indemoniata e… Porca vacca, questa è grossa! Mi sono allontanato sentendomi in colpa. Io, capisci, come se avessi qualche responsabilità. Sono tornato a letto senza andare in bagno e non ho più chiuso occhio. Mi sono pisciato addosso. Gliel’hai mai detto? Mai, no. Ho cercato di rimuoverlo, ma ci sono riuscito solo in parte. È come quando ti dicono che Santa Lucia, Babbo Natale e la befana non esistono, che è una storia. Lì per lì non ti

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sembra vero, poi i pezzi si ricompongono e tutto appare chiaro. Certi atteggiamenti di mia madre, certi discorsi, certi litigi pensi che fosse una storia che andava avanti da tempo? Certo. Se non altro perché mio padre era via solo quella notte, non certo da giorni o settimane. Evidentemente sfruttavano qualunque occasione buona. Che schifo! No. Allora me lo dissi anch’io, ma oggi no. È la normalità: tutti facciamo schifo, tutti siamo sporchi. Quindi nessuno lo è.

Teresa scattò in piedi e prese a correre in direzione della porta d’uscita. Babbo Natale alzò una mano e la donna fu scaraventata di nuovo sul divano. Il colpo alla schiena fu talmente duro da toglierle il respiro, ma né Ezio né Edoardo si preoccuparono per lei. Il marito continuava a fissare il tappeto, impassibile, mentre Edoardo inspirava ed espirava con lentezza, diviso tra rabbia e rassegnazione. «Non abbiamo ancora finito» spiegò l’intruso. «Non vorremo lasciare il buon Ezio senza il suo presente...» Diede forma dal nulla al terzo pacco. La carta gialla scivolò a terra assieme a quella blu e a quella rossa. L’imballo era delle stesse dimensioni dei precedenti, ma il contenuto era molto più

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voluminoso: un cuscino da letto, bianco. A tornare dal passato furono le voci di Teresa e della defunta madre di Ezio.

Va tutto bene, Luigina? Mi sembra strana. Te la posso dire una cosa? Certo. Sì. Io non te la vorrei dire, ma ho paura. Perché va bene volere bene a uno, ma voglio bene anche a te e all’Edoardo. Luigina, cosa dice? Il mio Ezio è un brav’uomo. Sì È bravo con l’Edoardo. Lo so che è severo, ma a confronto di suo papà non è niente. Io spero che è bravo anche come marito. Sì. Però. Perché piange? Non pianga, che poi sta male. Che cosa mi deve dire? Preferisce riposare? No no, te lo devo dire. Ezio era anche un bravo ragazzo, ma con suo papà avevano sempre da dire. Era una cosa che non ti immagini. A volte me lo racconta.

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Ma non ti racconta tutto. A volte si dicevano ‘t’ammazzo’ persino e non sembrava per dire. Ma no, Luigina, sono cose che… Sono cose che ho visto. Ascoltami, io... Per favore, non pianga, altrimenti me ne vado. Per favore Scusa. Io ho una paura e prima di morire io la devo dire a qualcuno. Io la devo dire a te, perché l’Edoardo ci sta male poi. La devo dire perché non tirerò più tanto a lungo. Non dica così. Sì, lo dico. Di cosa ha paura? Ho paura che Ezio ha ucciso suo papà. Luigina… Non glielo dire. Non l’ho visto, non sono sicura. Non glielo dire che non voglio che si arrabbia e non voglio rovinare la vostra famiglia. Luigina, davvero… Antonio stava bene. Era diventato anziano perché aveva quasi quindici anni più di me, ma non era malato. Si era preso quel virus, quell’inverno che è morto, e stava a letto tutto il giorno, ma era solo influenza. Anche il dottore ha detto che era strano,

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quando poi è morto, e che forse era stata una crisi respiratoria o un infarto. È stato così, Luigina. È stato così. Quando sono andata in camera l’ultima volta stava bene. Aveva un cuscino sotto la testa e l’altro era dalla mia parte. Sono scesa in cucina. Ezio era nella sua camera. Un’ora dopo sono tornata su e Antonio non respirava. Mi sono messa a urlare e Ezio è arrivato e ha capito e mi ha abbracciato. Mi ha portata giù per chiamare l’ambulanza, ma prima di uscire dalla camera io l’ho visto, ho visto che il mio cuscino era in mezzo al letto, di fianco ad Antonio, tutto spiegazzato. Luigina… L’aveva usato lui. L’aveva usato lui per fare tu sai cosa. Che il signore vi benedica.

Il silenzio calò nuovamente nel salotto. Babbo Natale osservava con soddisfazione la famiglia seduta davanti a lui. «Ho-Ho-Ho» esclamò, con giubilo. «Sembra che siamo arrivati alla fine. Soddisfatti? In ogni caso, non si cambia. Il prossimo anno scrivete letterine più ponderate, se siete rimasti delusi». Ezio si stava torturando le cosce, stringendole con forza a ridosso delle ginocchia. «Io non ho idea di chi sia lei, di cosa

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voglia da noi e di come faccia i suoi trucchetti» sibilò, rosso d’ira. «Ma faccia quel che deve fare o se ne vada, se ha finito». «Come pensavo» si rattristì Babbo Natale. «Non siete contenti. La gente al giorno d’oggi ha tutto e non sa più che cosa vuole, dico io». Poi squadrò le tre vittime trasformando il suo volto in una maschera malefica, con un ghigno che espose denti marci e che accese nelle pupille un riflesso rosso come una brace. Infine sparì, dissolvendosi nel nulla e portando con sé i regali che aveva consegnato. Ezio, Teresa ed Edoardo non reagirono, ognuno fermo nella propria posizione, mentre dall’appartamento

dei

giungeva il rumore di una bottiglia che veniva stappata.

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vicini


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Biografia Autrice Erika Rizzo

sono nata il 10 agosto del 1999, studio

alberghiero. Mi piacerebbe fare cucina (amo cucinare ogni tipo di cosa). Adoro i film horror; uno dei miei preferiti è Hunger Games (ank se non è horror). Ho un cagnolino piccolissimo che adoro

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Killer Snow White Di Erika Rizzo

C

’era una volta, una ragazza, con i capelli neri, e la pelle color neve. Biancaneve, così si chiamava. Viveva in un palazzo con la sua matrigna, che era

buona e dolce e voleva bene a quella ragazza, sebbene non fosse sua figlia naturale; però col passare degli anni divenne invidiosa di quella ragazzina che si vantava sempre della sua bellezza. Un giorno la matrigna chiamò a se il cacciatore «Mi dica altezza» disse il cacciatore «Se vuoi che la tua famiglia sia ancora viva e non sia squartata da i miei fadeli cavalieri, allora devi fare una cosina per me!» Iniziò la regina Clarisse con tono falsamente dolce. «Sì

mia signora, farò tutto quello che mi direte, però vi supplico

non uccidete la mia famiglia» la supplicò il cacciatore.

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«Prima di tutto, domani all’alba, prima che si svegli sua altezza Re Cardo, devi portare la principessa nel bosco e dovrai fare in modo che non torni mai più al castello.» «Certo vostra grazia.» La mattina dopo il cacciatore portò Biancaneve nel bosco, con la scusa di andare a caccia, però dopo un po’ cambiò sentiero conducendola in un luogo sconosciuto. «Perché siamo venuti in questo bosco pieno di fiori e creature dolci, con questo sole fastifioso e abbagliante? Non è qui che riusciremo ad uccidere qualche bel cervo!» Chiese turbata e schifata Biancaneve. «La sua matrigna mi ha detto che qui nel bosco ci sono creature misteriose come fantasmi,

e dei nani malefici» disse

spaventato il cacciatore. «Si certo fantasmi, e nani malefici hahahaha» lo sbeffeggiò la principessa; poi il cacciatore se ne andò lasciandola sola nel bosco. La principessa, non vedendolo, corse a cercarlo, ma non lo trovò. Per fortuna si era portata via un fucile, una corda, un coltello e un arco con frecce. Biancaneve aveva fame perciò prese l’arco e le frecce, si nascose dietro un’albero e vide due

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piccoli mostriciattoli “nani” che litigavano. Puntò la freccia verso quello più arrogante e lo uccise. «Grazie! Visto che hai ucciso Brontolo, vieni a vivere con i miei

fratelli, sicuramente starai morendo di fame!» Disse

Cucciolo, un nano piccolo e abbastanza carino. «Si certamente» rispose Biancaneve. Cucciolo portò la ragazza in una casetta nascosta dal sole, dove non c’erano animali ma bare, nebbia e ossa; il posto ideale per lei. «Eccoci, casa dolce casa. Prima di tutto, se vorrai vivere con noi non dovrai né lavare i vestiti né pulire casa, ognuno si arrangia» disse Cucciolo velocemente. «Certamente» rispose Biancaneve mentre tirò fuori dallo stivale il suo coltello e dalla borsetta la corda, ne legò un’estremità sull’albero e l’altra sulle gambe di Cucciolo quel nanetto stronzo e impertinente; poi tirò su la corda, fece sì che Cucciolo fosse a testa in giù, poi prese il coltello e gli fece una leggera incisione sul collo, in modo che morisse dissanguato in modo molto lento. Quando però si ricordò che probabilmente avrebbe urlato prese un calzetto del nano e glielo mise in bocca poi, per divertirsi, strappò la maglia del nano e col coltello scrisse “La Morte Bianca Arriva”.

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Qualche ora dopo il povero nano morì, così Biancaneve potè nascondere il cadavere prima che tornassero gli altri 5 nani. Un’ora dopo arrivarono con fare baldanzoso cantando una canzoncina irritante. «Ciao!» Ddissero in coro «ciao» rispose Biancaneve. «Ci presentiamo: io sono Eolo loro sono Pisolo, Dotto, Gongolo e Mammolo» disse «Piacere Biancaneve» si presentò la ragazza. La mattina dopo all’alba, si svegliò e, cantando delle canzoni funebri ai morti, svegliò un nano. «Ehi, che cosa stai facendo? Lo sai che porta male cantare canzoni ai morti?» domandò quell’idiota di Dotto. «Sì e allora?» sbottò la ragazza mentre estrasse il coltello. Dopo prese Dotto e lo portò vicino a una buca, dove gli infilzò lo stomaco e gli fece uscire le interiora, poi lo girò e scrivette la stessa identica cosa col coltello sulla schiena “La Morte Bianca Arriva” e lo gettò dentro la buca. Biancaneve andò nel bosco a cercare qualche erba per preparare da mangiare per i quattro nani, ma soprattutto per Pisolo. Trovò una pianta molto bella chiamata anche “noce del diavolo” una pianta molto velenosa. Tornata a casa, preparò una zuppa, e su un piatto mise la noce del diavolo tritata al

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posto di Pisolo. Tornati, i quattro nani si sedettero a mangiare. Appena Pisolo assaggiò la zuppà cadde a terra; tutti credettero che stesse dormendo, invece non era così: la noce del diavolo, una volta all’interno del corpo corrode come fosse acido. Un’ora dopo i nani cercarono di svegliare Pisolo, ma lui non dava segni di vita, perciò tutti si misero a piangere, Mammolo si mise vicino a Biancaneve, perché secondo lui lei assomigliava a sua mamma. Biancaneve decise di fare un regalo a Mammolo per il suo compleanno: prese una scatola a molla e tolse il pupazzo e ci mise il suo adorato coltello, poi lo incartò. Prese Mammolo e lo portò nel giadino e gli diede il regalo. «Però per vedere la sorpresa devi avvicinarti di più Mammolo» disse Biancaneve, lui girò la manovella e si avvicinò il più possibile per vedere la sorpresa; appena la scatolina scattò, gli si inficcò il coltello nell’occhio. Biancaneve lo prese, gli strappò la maglia e gli scrisse col suo coltello “La Morte Bianca Arriva” poi lo nascose. La mattina succesiva Gongolo voleva portare Biancaneve al lago con la sua barca, per pescare qualche pesce. Una volta arrivati, Gongolo diede a Biancaneve un paletto di metallo, da piantare nel terreno.

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Finchè lui preparava le canne da pesca, Biancaneve prese il paletto e glielo inficcò attraverso la gola e, sempre col suo coltello, scrisse sulla schiena “La Morte Bianca Arriva” poi lo gettò in acqua. Il giorno dopo Eolo andò al lago e vide Gongolo trafitto con un palo, si mise a pensare ad alta voce chi fosse stato. «È stata Biancaneve, la sparizione dei miei fratelli è opera sua» esclamò arrabiato. Eolo andò dietro la casa, vide Biancaneve e disse «Eccoti Morte Bianca!» «Come conosci il mio nome Eolo?» chiese Biancaneve, «Ovvio, da quello che scrivevi sui cadaveri. Ho cominciato a cercare i miei fratelli in lungo e in largo e alla fine li ho trovati… tutti!» esclamò con disperazione nano. Allora Biancaneve tirò fuori il fucile e sparò a Eolo. Stava per firmare anche la sua schiena, ma ad un tratto arrivò una signora anziana, che la interruppe. Morte Bianca aveva capito che era la sua matrigna travestita da vecchia, così prese il fucile e sparò anche a lei, poi tornò alla schiena del nano, e finito di incidere la sua schiena, se neandò senza lasciare nassuna traccia di se.

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Biografia Autrice Flavia Cantini classe 1987, ligure, ama profondamente la scrittura e il video. Si diploma al Liceo Classico, si laurea in Dams Cinema e si specializza in Regia. Prosegue il suo percorso come videomaker e non perde occasione per scrivere racconti e romanzi. Finora ha pubblicato i due romanzi fantasy "Notti senza luna" Arduino Sacco Editore 2011 e "Notti senza luna (vol.II) - Il Male e l'angelo" Ed. Arduino Sacco 2012 e il romanzo drammatico “Storia di un collegio” 2013. Il suo primo breve film indipendente è "Masche" del 2013

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Christmas’ Vampire Di Flavia Cantini

I

l cellulare sulla scrivania vibrò con prepotenza per una decina di volte fino a cadere a terra, esanime. Erano forse due ore che qualcuno cercava di mettersi in

contatto con Christian ma lui rimaneva a letto con lo sguardo perso tra il soffitto e il lampadario, cercando di ignorare la musica natalizia che si diffondeva ovunque dai negozi sotto casa, le risate dei passanti e il debole nevischio tipico della Vigilia di Natale. Già, il Natale: la sua festa preferita fino a tre mesi prima, quando… Christian si fiondò giù dal letto pervaso da un moto di rabbia, incapace di sopportare ancora quel pensiero e quella realtà; raccolse il cellulare e notò, con dispiacere, che le chiamate perse erano ben venti.

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Sospirò: sapeva che avrebbe dovuto richiamarla ma non ne aveva il coraggio, perché troppe cose erano cambiate senza che lei lo sapesse e, questo Natale, tutto sarebbe cambiato, Christian aveva preso l’estrema decisione. Si avvicinò alla finestra e, finalmente, ora che il buio era calato, poté aprire le imposte e osservare la gioia degli altri, le strade quasi bianche, le luminarie e respirare quel clima natalizio che, ormai, non era più per lui nonostante sua madre (una coltellata al cuore pensare a quella donna) si ostinasse a decorare il salotto con l’abete e nastri colorati. Christian lottò per non cedere alle lacrime e il sentire sua madre canticchiare con noncuranza un motivetto di Natale lo mandò su tutte le furie. La raggiunse in cucina e si sforzò di guardarla, nonostante provasse grande ribrezzo, e la apostrofò: «Ti sembra normale fare finta di nulla? Così, anche adesso, anche in queste… condizioni, noi dovremmo festeggiare il Natale? Noi dovremmo… vivere, se vivere si può chiamare ciò che stiamo facendo!» La madre lo guardò con quello sguardo freddo che aveva dal giorno (o meglio, notte) della sua trasformazione e fece

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spallucce: «In fondo, non è cambiato poi molto. E tu stai senz’altro meglio ora.» «Tu… Tu sei un’infame come tutti quelli della tua, come chiamarla? Setta! Maledetto il giorno in cui sei entrata in contatto con loro e ti hanno convinto a diventare un va… non riesco neppure a dirlo, dannazione!» Gridò Christian scaraventando a terra il piccolo alberello sulla televisione. «Non mi hanno convinto, l’ho deciso io perché così avrò per sempre la mia bellezza e giovinezza» replicò ancora lei mentre sistemava, con un sorriso, nastri alla finestra. Christian l’avrebbe colpita, se fosse servito a qualcosa, invece si limitò a sussurrare «Almeno a me potevi lasciare la mia vita» e stava per uscire dalla stanza quando la madre pronunciò la frase che lo faceva tremare «Se tu non avessi preso quella strada tempo fa, io non Sarei dovuta arrivare a questo per salvarti.» Il ragazzo fuggì in camera e chiuse le imposte, non per evitare il sole questa volta, ma per scacciare lo spensierato clima natalizio. Poi si fece coraggio e compose il numero della sua ragazza. «Ehi, ti avrò cercato almeno venti volte oggi! Che stavi facendo?» rispose lei al primo squillo.

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«Dormivo» cercò di giustificarsi Christian, usando la scusa meno plausibile per uno nella sua situazione, ma tanto lei non l’avrebbe mai saputo. «Ah, vabbè. Senti, allora, vieni stasera per il cenone della Vigilia? Anche se non mi sembri molto interessato all’evento…» chiese lei, quasi con noncuranza. Ecco ciò che Christian non avrebbe mai voluto sentirsi proporre, lui che, nella sua nuova situazione, neppure poteva più mangiare. «Eh, Arianna, lo sai che da quando sono stato male non posso mangiare quasi nulla…» provò a farfugliare in evidente imbarazzo. «Sì che lo so, ormai questa faccenda va avanti da più di due mesi, ma speravo che almeno a Natale ti potessi concedere un po’ di normalità come gli altri…» «Io… senti, vediamoci lo stesso, ma io e te da soli e… subito!» Suggerì Christian spinto dall’urgenza di confessarle tutto, davvero tutto, prima del regalo che si sarebbe concesso la mattina successiva, quella del 25 Dicembre. «Va bene, tra dieci minuti sotto casa mia» rispose Arianna.

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La neve scendeva ora copiosa e la Vigilia di Natale non era mai stata così allegra e festosa. Christian e Arianna sedevano sugli scalini del palazzo e nessuno dei due sembrava voler iniziare una conversazione. I negozi stavano chiudendo e con essi svaniva la musica che aleggiava nell’aria dal mattino, tutti si preparavano a festeggiare il giorno più magico dell’anno, ma non i due ragazzi sul cui cuore, chi per un motivo, chi per un altro, pesava una grande ombra. Arianna guardava a terra e si torceva le mani ma poi, per porre fine a quell’attesa snervante, chiese tutto d’un fiato: «Lo stai facendo ancora? Cioè, avevi promesso di smettere all’inizio di quest’anno, non l’hai fatto? Prendi ancora quella roba?» Christian si sentiva colpevole per il suo passato e per l’orrenda scelta di fare uso di sostanze, ma ormai tutto quello era finito e la sua vita stessa era finita per cui, in quella Vigilia, osservando i candidi fiocchi ricoprire l’asfalto, decise che le avrebbe confessato tutto e poi, finalmente, avrebbe potuto concedersi il suo regalo di Natale. «Arianna, ti dirò tutto, non è come pensi, io con quella roba stavo smettendo proprio quando te l’avevo promesso, ad Aprile. Ma poi, ti prego di credermi, mia madre ha conosciuto

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una setta e ha iniziato a passare sempre più tempo con loro fino a diventare come loro e cioè un… va… vampiro…» «Cosa?!?» gridò Arianna balzando in piedi e guardando Christian con incredulità mista a terrore mentre nella sua mente rivedeva le stranezze del suo ragazzo da settembre a questa parte: non mangiava, non usciva col sole, era sfuggente, gli occhi di ghiaccio… Fu percorsa da un brivido… «Tu…» farfugliò e indietreggiò di qualche passo. «L’ha scelto lei per me, senza che io ne sapessi nulla. Dice che l’ha fatto per salvarmi da quella roba, almeno ora la mia dipendenza è davvero finita… Eh sì, ma non mi ha lasciato scelta e io non voglio questa… vita, non posso continuare in questa veste, non voglio essere un… ci siamo capiti» rispose Christian alzandosi per abbracciarla. Arianna scoppiò in lacrime, non sapeva cosa dire, era tutto così surreale che poteva benissimo essere vero. Christian la abbracciò con trasporto: «Ora vai e festeggia il tuo Natale. Io avrò il mio regalo domani. Ti ho sempre adorato.» «Ma io…» cercò di replicare Arianna, ma Christian la invitò a tacere con un sorriso. «Torna a casa e sii felice» le disse e poi sparì nella notte.

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Ăˆ il mattino di Natale, un sole pallido ma vivo si è levato per salutare il giorno di festa e la neve brilla come argento. Christian, in perfetto silenzio, apre il portone e si prepara a ricevere il suo regalo: i tenui raggi del sole lo libererano da quella condizione. E cosĂŹ avviene nella mattina di Natale.

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Biografia Autrice Susan Mikhaiel nasce nel 1990 in un paesino della provincia di Bergamo. Dal 2003 comincia a coltivare la passione per la scrittura e la musica, che decide poi di convogliare assieme nel suo progetto letterario. Nel 2009 consegue il diploma di Liceo Linguistico e, terminati gli studi, decide di dedicarsi completamente alla sua 'carriera artistica'. Nell'ottobre del 2012 pubblica il primo romanzo della sua esalogia, Powers, e a dicembre del 2013 esce il seguito Relationships. Attualmente è in lavorazione il terzo volume della saga, ed è contemporaneamente in fase d'opera una colonna sonora ispirata alla stessa. L'autrice è inoltre al lavoro anche su altri progetti letterari, che però vedranno la luce solo quando sarà completata l'attuale saga. Il blog ufficiale dell'autrice: http://worldofseals.altervista.org/ Il

gruppo

ufficiale

della

saga

su

Facebook:

https://www.facebook.com/groups/371818556237840/"

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The Nightmare Of Chistmas Di Susan Mikhaiel

L

a giovane coppia passeggiava spensierata tra i viali, adornati da sakura invernali e ricoperti da un sottile manto nevoso.

Helen era avvinghiata al braccio di suo marito Max, e osservava i soffici cristalli d’acqua che cadevano lentamente dal cielo. Strofinò la guancia contro il muscolo dell’uomo e girò lo sguardo verso il suo volto. «Domani sarà il nostro primo Natale a Tokyo, e spero sia solo uno dei tanti che verranno» commentò emozionata la donna. «Il primo di una lunga serie, te lo prometto» rispose lui, altrettanto emozionato. Le accarezzò la guancia con le dita, poi la strinse forte a sé in segno di protezione.

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I due ripresero a camminare, mano nella mano, mentre i fiocchi di neve si facevano più abbondanti e si mischiavano ai petali di sakura circostanti. Nell’aria danzavano turbini bianchi e rosa.

Tornati nella loro dimora orientale, i giovani sposi si stravaccarono sul divano di fronte al caminetto accesso. «Era ora che tornaste, abbiamo fame!» Sbuffò impaziente Nicole, la figlia maggiore. «Sarei dovuta andare in Italia con Sue, lo sapevo! Mi sarei sentita meno sola, almeno» concluse la ragazza. «Nessuno ti ha obbligata a restare» l’ammonì il padre. «Se solo avessi saputo subito che Daniel mi avrebbe dato buca…» continuò a lamentarsi Niki, quasi sul punto di scoppiare a piangere. «Che è successo, cara?» cercò di consolarla Helen, avvicinandosi a lei e abbracciandola per darle conforto. «Av-rei do-vuto passare il, sigh, Na-tale c-con Daniel…» cominciò a spiegare tra un singhiozzo e l’altro. «Mi ha ap-pena, sigh, avvisata c-che n-non… può» concluse in una fontana di lacrime.

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La madre continuò ad abbracciare la figlia, la consolò per qualche minuto e infine riuscì a tranquillizzarla. Dopodiché, si mise ai fornelli e preparò la cena per la sua famiglia. La vigilia di Natale stava giungendo al termine. Nicole era riuscita a trovare un volo last-minute a un prezzo abbordabile quella notte stessa, aveva preparato in fretta e furia la valigia e, dopo minuti di contrattazione con i genitori, era riuscita a convincerli a portarsi dietro la sorella minore, Desirée. La coppia restava così completamente sola nel giorno di Natale. Si erano coricati subito dopo la partenza delle figlie, nel cuore della notte, e avevano speso le prime ore di solitudine in giochi erotici e di piacere carnale. Erano felici, eccitati e anche un po’ malinconici. Cominciarono a ripensare a quando si erano sposati, poi a quando ancora si frequentavano e a quando si erano conosciuti. Ben presto si trovarono a ricordare la loro infanzia, i Natali passati, il risveglio seguito dall’apertura dei regali. «Sembra ieri il primo ricordo che ho del Natale. Avevo passato la notte sveglia, a chiacchierare con mia sorella Mary. Speravamo di cogliere Santa Claus sul fatto! Ovviamente fallimmo» ridacchiò Helen.

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«E tu? Qual è la prima cosa che ricordi?» chiese, mentre accarezzava il petto del marito. «Uhm… Bella domanda! Probabilmente il regalo che ricevetti a sei anni, un trenino elettronico, di quelli con pista enorme che ogni bambino vorrebbe. Penso di averlo ancora da qualche parte, a casa dei miei» ricordò malinconico l’uomo. «Sarebbe bello risvegliarsi e scoprire di essere tornati bambini, insieme, scartando i regali che più abbiamo desiderato in tutta la nostra vita. Che ne pensi?» «Sarebbe fantastico. Tu e io, per tutta la vita» rispose Max, abbracciando sempre più forte a sé la donna che amava. E si addormentarono così, insieme, abbracciati e innamorati.

La mattina di Natale giunse più in fretta del previsto. I due coniugi si svegliarono alle prime luci di un’alba innevata, con i corpi intrecciati e… incredibilmente rimpiccioliti! Si alzarono velocemente dal letto e constatarono l’assurda scoperta. «Ma che cazz…» sussurrò Helen, osservandosi allo specchio. «Siamo… siamo tornati bambini per davvero?» si stupì l’uomo, guardandosi tutto intorno.

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«Oddio, ma è incredibile!» Esclamò lei, in un misto di gioia e terrore. Un rumore improvviso, proveniente dalla sala, attirò la loro attenzione. La coppia ringiovanita vi corse rapidamente, e scoprì un intruso nella loro casa. L’ospite era un uomo in là con l’età, esageratamente grosso e dal buffo vestito rosso e bianco. Una lunghissima barba argentea decorava il suo volto e cadeva armoniosamente fino al pavimento. Sulla spalla teneva un sacco ricolmo di pacchetti, alcuni dei quali erano stati sistemati sotto l’abete addobbato nell’angolo della stanza. «Oh oh oh, mi avete scoperto» ridacchiò il vecchio ciccione. «Lei… è… davvero Babbo Natale?» domandarono increduli i due bambini. «Avete espresso un desiderio questa notte, e io ho voluto esaudirlo» rispose l’uomo. «Questi sono per voi, apriteli» li invitò lui, indicando i regali sotto l’albero. I due fanciulli corsero verso il caleidoscopio di carta colorata, inizialmente un po’ titubanti, poi sempre più sicuri. Cominciarono a spacchettare i doni con estrema impazienza, litigando con la complessa chiusura che li separava dal conoscerne il contenuto.

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Nelle loro menti passarono le più svariate idee, ma i loro principali pensieri andarono ai regali che avevano apprezzato maggiormente nella loro vita. Una volta aperti, però, fecero una macabra scoperta. Una sostanza rossastra imbrattò i palmi di Helen, e un odore di marcio e putrido le pervase totalmente le narici. Un senso di nausea insopportabile la colpì all’improvviso, e finì per vomitare copiosamente sul pavimento. Max le si avvicinò incredulo, disperato. Rabbrividendo per lo spettacolo disgustoso, pochi istanti dopo la seguì nel rigetto. Gli involucri semiaperti traboccavano di sangue, nel quale era possibile scorgere tre teste nascoste, che ben presto i due giovani riconobbero con orrore. I volti delle loro tre figlie erano letteralmente immersi nel liquido ematico, negli zigomi erano impresse le espressioni di paura e terrore che avevano colpito le loro eredi negli ultimi istanti di vita. «Perché? Perché?» scoppiò a piangere Helen, mentre si copriva gli occhi con le mani lorde di sangue. «Avete desiderato di tornare bambini, di vivere la vostra vita insieme fin dall’infanzia, e non sarebbe stato possibile con dei figli già esistenti. Ho solo esaudito una vostra richiesta, è

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quello che faccio da sempre» spiegò incredulo il vecchio, mentre si accingeva a lasciare la dimora. In un impeto di adrenalina, Max trovò le forze per corrergli addosso, nel vano tentativo di atterrarlo e di ucciderlo a suon di calci e pugni. Babbo Natale si parò con estrema facilità e lo colpì violentemente sul collo, facendolo crollare a terra privo di sensi. Poi, prima di dileguarsi nel nulla, eseguì la stessa mossa sul corpo sconvolto di Helen.

Helen e Max si svegliarono sul pavimento della loro sala, ai piedi dell’albero di Natale. Non una sola goccia di sangue era presente nell’ambiente circostante. Si guardarono. I loro corpi erano nuovamente grandi, maturi, cresciuti. Accanto, i loro cellulari s’illuminavano e squillavano insistentemente. Diverse erano le chiamate perse, tutte quante provenienti dal telefono della loro casa in Italia. Risposero all’ennesima chiamata e piansero lacrime di gioia quando scoprirono che le loro figlie erano vive e stavano bene. Nicole e Desirée erano arrivate sane e salve a destinazione, e Sue aveva deciso di avvisare i genitori, per non farli preoccupare. I due coniugi si abbracciarono.

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Non desiderarono mai pi첫 di tornare bambini.

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Biografia Autrice Serena Vianello è nata a Dolo (Ve) nel 1979 e vive a Mira dall'età di due anni. Lavora come operatore sociosanitario presso una Comunità Alloggio e dal 2002 è volontaria AVO. La sua grande passione sono gli angeli, i vampiri, i tatuaggi, la musica e lo stile gotico. Scrive in vari forum e blog e lei stessa ne ha fondato uno. E' un'accanita lettrice e appassionata di serie tv. Sorgente di Luce è il suo primo romanzo.

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I quattro Cavalieri di Natale Di Serena Vianello

E

ra la notte di Natale e a Poison Valley la neve scendeva copiosa coprendo ogni cosa, con il suo soffice manto bianco.

Dalle finestre delle case, si potevano intravedere famiglie felici e spensierate davanti al camino acceso. L’atmosfera di festa rendeva tutto magicamente fatato, o almeno cosÏ sarebbe dovuto essere. Alcuni bambini impazienti di vedere Babbo Natale, attendevano svegli nelle loro camerette, altri troppo piccoli per riuscire a combattere il sonno, dormivano serenamente nei loro caldi lettini. Hella e Jake se ne stavano abbracciati sul divano...

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«Tesoro tra meno di quindici minuti sarà mezzanotte. Non vedo l’ora di darti il mio regalo» esclamò ansioso Jake, stringendola ancora di più a sé. «Anch’io sono impaziente di darti il mio» rispose lei, abbozzando un sorriso. Jake si alzò e frettolosamente andò verso il grande albero di Natale, che due settimane prima avevano addobbato insieme. Prese un pacco dorato e andò impaziente verso Hella. «Questo è il mio regalo. Buon Natale tesoro». Veloce lei lo scartò e, davanti a quella piccola scatola di velluto scarlatto, non riuscì a pronunciare nemmeno una sillaba. «Non ti piace? Se vuoi lo posso cambiare». «No… è… davvero bellissimo, ma forse è troppo per me». «Troppo? Io ti amo e sei tutto ciò che ho sempre cercato, quindi nulla sarà mai troppo.» Prese fra le dita quel piccolo ma prezioso anello e glielo infilò all’anulare della mano destra. Hella lo baciò e lo strinse a sé. Quel bacio era diverso dal solito. Jake sentì una strana sensazione, un brivido gelido gli attraversò la schiena e capì che quello sarebbe stato il loro ultimo bacio.

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Improvvisamente a mezzanotte in punto si udì il suono di una prima tromba… un minuto dopo il suono di una seconda… poi una terza e una quarta e via così, fino al suono della settima e ultima tromba. I fiocchi di neve divennero rosso sangue e il cielo divenne nero come la pece. Inaspettatamente scese dal cielo, ormai completamente rosso sangue, un cavallo Bianco. Colui che lo cavalcava aveva un grande arco fra le mani e al posto degli occhi aveva due profondi buchi neri. Il suo nome era Pestilenza. Dietro di lui comparve un grosso cavallo Rosso, colui che lo dominava possedeva una lunga spada di fuoco. Era sceso dall’Inferno per portare odio e guerra sulla terra. Il suo nome era Guerra. Al suo fianco comparvero insieme altri due cavalieri. Il terzo era in sella a un cavallo Nero. Al contrario dei primi due, non possedeva nessuna arma ma una semplice bilancia. Il suo nome era Carestia. Il quarto cavaliere, forse il più spaventoso e temuto, cavalcava un cavallo Verde. Il suo nome era Morte.

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Senza attendere oltre, i quattro cavalieri scesero dai loro rispettivi cavalli e silenziosamente entrarono in ogni casa. Niente e nessuno poteva fermarli. Né catenacci alle porte, né colpi di fucile al petto. Jake chiuse a chiave la porta e cercò qualche arma improvvisata per poter difendere sé stesso e la sua amata. «Hella, sali di sopra e chiuditi in camera» le gridò afferrando un attizzatoio rovente. Lei rimase tranquillamente seduta sul divano a contemplare la sua mano illuminata da quel piccolo brillante. «Hella, mi hai sentito?» «Sì che ti ho sentito. Ma non devi preoccuparti. Loro non ci faranno del male». «Cosa stai dicendo? Ma hai visto cosa stanno facendo là fuori?» «Stanno facendo quello che avrebbero dovuto fare molti secoli fa…». «Ma ti senti bene? Non ti riconosco». Disse Jake prendendole il caldo viso fra le mani. Lei lo guardò felice e lo baciò sulla fronte. «Non devi temere. Loro sono miei amici».

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«Amici? Ma se sono… non so nemmeno cosa sono. Sono scesi dal cielo come fossero alieni. Sì forse sono alieni». «Non sono alieni. Sono i quattro cavalieri». Rispose lei, come se Jake avesse dovuto saperlo. Carestia, il terzo cavaliere, aprì la porta con un calcio e di fronte a Hella si inchinò. «Hel… eccomi al vostro servizio». «Puoi alzarti Carestia. Oltre a voi, c’è anche mio padre?» «Loki e sua madre la gigantessa, sono rimasti all’Inferno ma si aspettano di rivederla entro l’alba». «Hella… Hel o come cazzo ti chiami, cosa sta succedendo? Chi sei veramente? E chi sono questi pazzi assassini?» chiese Jake allontanandosi da lei. «Io sono Hella la Dea degli Inferi». Rispose avvicinandosi a lui. «Stammi lontana. Non fare un altro passo o…». «O? Sono sempre io. E ti amo. Tu sarai il mio sposo e verrai con me… e insieme potremmo governare l’Inferno com’è giusto che sia». «Sposo? Inferno? Ma cosa stai dicendo? Non esistono queste cose… e tutto questo non può essere reale». «Sì che lo è. E noi siamo destinati a stare insieme».

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«Destinati a stare insieme? Tu sei pazza!» Morte e Pestilenza si unirono a Carestia. Morte davanti a quelle parole rimase infastidito. «Come ti permetti di rispondere a Hel in questo modo? Davanti a lei dovresti soltanto inginocchiarti e chiedere perdono, dopo quello che le ha fatto tuo padre». «Non ho mai conosciuto mio padre. Lui è morto quand’ero piccolo…». «Questo è quello che ti abbiamo fatto credere figliolo». Disse Guerra avvicinandosi a lui. «Tu saresti… mio padre? » Hella prese per mano Jake e guardandolo negli occhi disse: «Ora puoi ricordare». All’improvviso Jake ricordò ogni cosa. Il suo passato. La sua vita all’Inferno accanto a Hella. Tutto gli fu chiaro. «Cos’è successo? Perché siamo qui?» «Qual è il tuo ultimo ricordo?» chiese Guerra, appoggiandoli una mano sulla spalla. «Ricordo che stavo combattendo contro una legione di Angeli e che Gabriel mi ha trafitto il petto con la sua spada. Dopo non ricordo più nulla».

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«Da quel giorno sono passati più di mille anni. Gabriel ti ha fatto cadere nella terra e Hel ti ha cercato ovunque per anni, per secoli senza mollare un attimo e finalmente ti ha ritrovato». «Il nostro compito qui sulla terra è terminato. Ora dobbiamo andare». Esclamò Morte. Jake sorrise e strinse a sé la sua Hella… «Torniamo a casa.» Come un tornado silenzioso, i quattro cavalieri seguiti da Jake e Hel, visitarono ogni abitazione lasciando dietro di loro non sangue, ma pestilenza, carestia, odio, terrore, sofferenza, e pian piano tutto questo, avrebbe condotto alla morte eterna l’intera cittadina fino a farla completamente sparire. Quello fu l’ultimo Natale che videro gli abitanti di Poison Valley.

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Biografia Autrice Jessica Maccario è nata a Cuneo il 9 agosto 1990. Appassionata alla lettura fin dalle scuole elementari e alla scrittura fin dalle scuole medie, ha scritto diversi romanzi che sono rimasti nel fatidico cassetto dei sogni finché ha deciso di pubblicare il fantasy “Insieme verso la libertà”, che apre le porte alla nuova serie de Gli Elementali. Laureata in Beni Culturali Archivistici e Librari a Torino, è da un anno ormai che valuta i manoscritti per le case editrici. Da qualche mese ha cominciato a partecipare a vari concorsi per racconti ed un suo racconto di Halloween si trova nell’antologia Halloween’s Novels, due brevi fiabe buffe sono nell’antologia del gruppo Libri Stellari e un racconto di Natale è sul blog La Biblioteca Romantica. Al momento continua a scrivere racconti e prosegue la scrittura della serie fantasy: altri tre libri sono in progetto per concludere la serie de Gli Elementali. La si può trovare anche su Facebook e su Anobii, tra una miriade di gruppi e blog di lettori, ma per parlare delle sue opere, fare domande o semplicemente chiacchierare, si può anche scrivere alla sua e-mail jessicamaccario@bibliotheka.it.

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Uno strano Destino (Cenerentola e il principe della notte) Di Jessica Maccario

C

enerentola stava correndo giù per le scale per raggiungere le sorellastre quando inciampò e ruzzolò a terra. Sentì la carrozza partire e l’agitazione la assalì:

non potevano andarsene! Non adesso che aveva finalmente trovato un abito adatto per il ballo. Quando si rialzò da terra, però, si accorse che il vestito era rimasto sgualcito e si era sporcato. Lo rassettò lisciando la lunga gonna rosa, ma vide che il retro era rimasto agganciato ad un chiodino fissato malamente ad un’asse.

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Tirò leggermente per liberarlo, ma si formò un buco e si sfilacciò tutto. «Povera me! Adesso non potrò più andare al ballo!» Corse in camera sua a cambiarsi e lo gettò sul letto con furia. Indossò di nuovo il suo vestito da lavoro strappato in più punti e si lasciò cadere sul letto. Stava piangendo disperata quando all’improvviso sentì un leggero colpo di tosse e girandosi vide tra le lacrime una piccola fatina. Se non avesse avuto le ali e la bacchetta magica in mano, però, non l’avrebbe mai riconosciuta. Non riuscì a trattenere le risate nel vedere l’abito che indossava la fatina: non un bel mantello blu né un leggero vestito bianco, ma una tunica nera da cui uscivano le ali, con ricamata al centro una bella Z bianca. «Beh, cos’hai da ridere?» la riprese la fatina, mettendo il broncio. Le sue ali sbattevano leggiadre, ma la mascherina nera che aveva agli occhi dava un tocco di comicità a quella figura così minuta. Cenerentola cercò di restare seria, ma non riusciva a trattenere le risate per più di qualche secondo. «Scusa... scusami, non volevo offenderti!» disse infine, guardandola con i suoi grandi occhi celesti incuriositi. «Ma non

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capisco perché una fatina dovrebbe essere vestita da... da supereroe?» «Sono vestita da Zorro!» ribatté la fatina stizzita. «E se continui a prendermi in giro puoi dire addio alla tua serata!» Fece per andarsene, ma Cenerentola la trattenne per un braccio. «Mi dispiace, non dirò più nulla! Ti prego, non lasciarmi sola... puoi davvero aiutarmi ad andare al ballo?» La fatina incrociò le braccia al petto come per valutare la sua sincerità, poi sospirò. «Certo che posso aiutarti. Ma lo sai che notte è questa?» Gli occhi di Cenerentola si illuminarono. «Certo, è la Vigilia di Natale!» «E perché vorresti andare al ballo con le tue sorellastre?» Cenerentola arrossì e abbassò gli occhi a terra. «Ecco, fatina, io... ho visto molte volte il principe Azzurro passare vicino a questa casetta. Non puoi neanche immaginare quanto sia bello! Mi piacerebbe proprio tanto ballare con lui!» «E se ti dicessi che esiste un principe ancora più bello?» Cenerentola spalancò gli occhi, incredula. «Un principe più bello di lui? Oh no, è impossibile!» La fatina fece un sorrisetto. «Bene, allora facciamo una scommessa: se io riesco a farti innamorare di un altro principe,

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tu mi renderai la madrina del vostro futuro bambino. Se sarai tu a vincere... potrai chiedermi tutto quello che vorrai» Cenerentola annuì titubante. «Come vuoi, fatina... ma io non ho bisogno di molte cose. Voglio solo poter essere felice» La fatina alzò la bacchetta facendo un piccolo cerchio in aria, poi la fissò attentamente. «Vediamo che vestito posso farti comparire... ecco, questo è perfetto!» Un vestito in velluto nero ricoprì completamente il corpo di Cenerentola, lasciandole scoperte soltanto le braccia; aveva un fiocco rosso legato in vita e lasciava intravedere parte della schiena. Con un altro tocco di bacchetta, un paio di guanti bianchi arrivarono quasi fino a metà braccio, mentre un alto cappello a punta finiva sulla sua testa. Cenerentola se lo tolse e lo osservò sorpresa. «Fatina, ma che razza di vestito è questo? Pensavo che volessi farmi diventare bella come una principessa!» «Sei stupenda, bambina, ma per stasera sarai un’affascinante streghetta» dichiarò la fatina lanciandole un’occhiata soddisfatta. «E ti sposterai con questa!» Le porse una scopa e le fece segno di andare. Cenerentola guardò con sorpresa la scopa che si librava in aria e si fermava accanto a lei, come ad incitarla a salire. Una scopa che volava?!

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Salì a disagio, ma presto si abituò a quella posizione scomoda. Lasciò che la scopa la guidasse verso una meta che era ben diversa da quella che si era immaginata. Giorni prima la matrigna e le sorellastre le avevano mostrato con orgoglio l’invito al ballo che avevano ricevuto dal principe e da quel momento lei aveva continuamente immaginato un palazzo bianco con un enorme albero di Natale al centro, pieno di lucine colorate, e lei e il principe che volteggiavano attorno con eleganza. In quel momento, però, un brivido le percorse la schiena. Il vento cercava di infiltrarsi sotto i vestiti e dei piccoli fiocchi di neve stavano cominciando a cadere dal cielo. Rabbrividì, anche se il vestito era piuttosto pesante. Era quasi fine dicembre, si sarebbe beccata un malanno! «Siamo quasi arrivate a destinazione!» proclamò una vocina dolce e Cenerentola quasi non si stupì più quando capì che era stata la scopa a parlare. Andava oltre la sua logica, ma era inutile continuare a chiedersi come fosse possibile se tanto non c’era nessuno che potesse risponderle. Forse, quella notte era magica... Osservò dall’alto la città e pensò che non l’aveva mai vista così bella: era piena di luci e di decorazioni natalizie, ma anche di

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abeti addobbati, finti bambocci che fingevano di arrampicarsi sul tetto imitando Babbo Natale, carrozze che percorrevano le strade in mezzo al centimetro di neve che si era già depositato in giornata. Alzò il viso al cielo e sentì i fiocchetti caderle sul naso e sulle guance; ciononostante non se ne preoccupò: adorava le emozioni che le procurava il Natale e desiderò con tutto il cuore che la fatina avesse ragione. Non aveva bisogno di un vero principe, lei, voleva soltanto un uomo che la amasse per quello che era e che la trattasse meglio di come facevano sempre le sorellastre. Finalmente la scopa atterrò in un grande spiazzo erboso appena fuori dalla città e lei si strinse al petto lo scialle rosso che la fatina le aveva consegnato prima di raccomandarle di tornare a casa entro mezzanotte. Perché mai, poi? A quell’ora le sorellastre e la matrigna sarebbero ancora state al ballo. Mosse qualche passo in direzione dell’unico sentiero che le permetteva di andare avanti e al fondo vide una collina maestosa, che le dava una certa inquietudine. Si girò verso la scopa, ma questa non era più sospesa per aria, bensì depositata a terra immobile, come se all’improvviso fosse tornata una normalissima scopa. Poi prese coraggio e si avviò verso la collina. Vide quasi subito la sua destinazione: si trattava di un

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castello, costruito ai piedi della collina, con alte torri merlate che lo abbellivano ai lati. Era molto largo, ma non c’erano grossi finestroni che mostravano cosa stesse accadendo all’interno, soltanto una decina di oblò al secondo piano. Avvicinandosi, si accorse che in realtà anche il primo piano disponeva di finestre, ma erano oscurate da quelle che probabilmente erano spesse tende nere, che non lasciavano filtrare l’illuminazione. «Che ci faccio qui quando dovrei essere al ballo più bello della città con il mio principe Azzurro?» mormorò, una stretta allo stomaco che le impediva di proseguire. Era una situazione assurda, non poteva veramente entrare in quel castello senza un invito. Senza contare che non aveva nessun accompagnatore. In quel momento udì un rumore di zoccoli che in quel posto così isolato parve ancora più rumoroso. Si nascose dietro un albero e attese che la carrozza si fermasse, ma in realtà non si trattava di una carrozza: c’era soltanto un uomo su un cavallo bianco, che fermò l’animale con le redini e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Dal suo nascondiglio, Cenerentola capì che era vestito da vampiro, non tanto per il lungo mantello nero con il quale si proteggeva quanto per i denti affilati che sporgevano dalle labbra. Possibile che fosse davvero un

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vampiro? Sentì un brivido di paura e quasi inconsapevolmente arretrò, calpestando un mucchio di foglie mischiato alla neve caduta il pomeriggio. In quel silenzio così irreale, il suo movimento attirò subito l’attenzione dell’uomo. «Chi va là?» domandò il ragazzo con una voce forte e decisa. Cenerentola non si prese il disturbo di rispondere. Cominciò a correre, in preda all’agitazione, e strillò quando qualcuno la afferrò per un braccio costringendola a voltarsi di scatto. Finì contro il possente petto dell’uomo e spalancò gli occhi quando riconobbe un paio di occhi conosciuti. Verdi come le foglie degli alberi in primavera, puri come il suo sangue reale, luminosi come la luna nel massimo del suo splendore. «P-principe?» balbettò incredula. Aveva visto più volte quegli occhi meravigliosi, quando durante le passeggiate mattutine lo vedeva passare dinanzi alla sua casetta. Lui corrugò la fronte e da quel gesto Cenerentola capì che non l’aveva mai notata prima. Perché avrebbe dovuto, se lei passava le sue giornate con vestiti sporchi e strappati, mentre lui veniva ogni giorno circondato da belle donne? Il principe le diede le spalle con rabbia e quando si voltò indossava una bellissima maschera dorata. Le lanciò un’occhiata significativa, come a volerle dire di non rivelare a

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nessuno la sua identità, e si avviò a passo deciso verso il castello. Cenerentola si sentiva tremare, ma sapeva che adesso non poteva più tornare indietro. Aveva desiderato così tanto ballare con il suo principe! E lui era lì, anche se sarebbe dovuto essere altrove. Perché non era al suo palazzo? Si strinse lo scialle più per darsi coraggio che per il freddo e seguì le impronte lasciate dagli scarponi del principe. Conducevano fino ad un enorme portone, che era rimasto socchiuso. Qui non c’era il personale pronto ad accogliere la gente dentro il palazzo, con profondi inchini. Nessuno aspettava i visitatori all’ingresso, forse perché non era importante chi era l’invitato. Sennò perché il principe aveva preferito indossare la maschera anziché entrare orgoglioso della sua nobiltà? Forse anche lei doveva indossare una maschera. Ma perché avrebbe dovuto, visto che in paese non era nessuno? Immaginava che le sorellastre e la matrigna non sarebbero mai entrate in un posto simile. Stava attraversando un lungo e stretto corridoio illuminato soltanto da lanterne, quando sentì un cigolio: il portone si era aperto e qualcun altro stava per partecipare a quella festa. Vide un abito rosso, ma non si fermò a chiedersi chi volesse

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rappresentare quella donna con lunghi e vaporosi capelli biondi. Invece, giunse ad un’altra porta e la aprì decisa, restando a bocca aperta quando all’improvviso la musica la investì in tutta la sua potenza. Il coraggio le venne meno e stava quasi per rinunciare quando la donna la raggiunse e la spinse avanti con fermezza. Le rivolse persino un sorriso condiscendente, come se sapesse che lei non era una abituata a quel genere di eventi. Cenerentola si mosse tra la gente travestita come una che ha perso qualcosa di importante e fa di tutto per cercarlo. La intimoriva tutta quella gente che ballava senza pudore scatenandosi in un ballo che non aveva nulla a che fare con il valzer che il padre aveva cercato di insegnarle quando era bambina. Perché si agitavano in quel modo? E perché indossavano tutti delle maschere? Che strano modo per festeggiare la Vigilia! Dov’era il grosso abete con i doni sotto i rami? E le canzoni del Natale? I suoi ricordi erano fissi a quegli anni dell’infanzia in cui festeggiava il Natale con suo padre. Seduta sulla sue ginocchia, cantava canzoni dolci e allegre, beveva della cioccolata calda e attendeva con ansia il momento in cui suo padre le avrebbe permesso di aprire i doni. Da quando non era più tornato a casa, il Natale era diventato un

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giorno triste per lei: la matrigna e le sorellastre lo trascorrevano come un giorno qualsiasi e nessun dono era più caduto nelle sue mani. Soltanto quell’anno avevano ricevuto l’invito al ballo, ma la fatina aveva scombinato i suoi piani portandola a quella strana festa. Ripensò alla maschera dorata del principe e sorrise tra sé: forse la fatina non era stata così stupida a volerla condurre lì. «Vuoi ballare, dolcezza?» Un uomo travestito da pinguino la afferrò prima che potesse rifiutare e la fece girare su se stessa con due piroette un po’ troppo veloci. Cenerentola protestò, ma la musica era troppo alta e l’uomo continuò a sorriderle incoraggiante senza averla udita. Stava ancora ballando con quello strano individuo quando il suo cuore perse un battito. C’era una figura che la osservava in un angolo della pista. Possibile che fosse il principe? Aveva i canini che sporgevano e indossava un mantello nero che gli avvolgeva le spalle, ma aveva qualcosa di diverso rispetto a quando l’aveva visto fuori dal castello. Forse i capelli, che anziché essere castani viravano verso il nero? Probabilmente era solo un gioco di luci. Un’altra cosa differiva: la maschera. Aveva visto benissimo quando Azzurro aveva indossato la

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maschera dorata. Allora perché quel ragazzo ne indossava una scura con i bordi rossi? Forse se l’era cambiata. «Ancora un giro, bambola?» «No grazie!» Riuscì a liberarsi dal pinguino quando per un attimo la musica cessò e cercò con lo sguardo il suo principe. Eccolo là, appoggiato al bancone delle torte, con le braccia incrociate al petto. La fissava apertamente, senza imbarazzo, ma il suo corpo era rigido e non sembrava così contento di trovarsi lì. Cenerentola si mosse nella sua direzione, attratta da lui, con il cuore che le batteva frenetico nel petto. Doveva chiedergli di ballare? O era sconveniente che a domandarlo fosse la dama? A metà del tragitto qualcuno sbatté contro di lei e rischiò di rovesciarle addosso il calice che aveva in mano. Per fortuna, l’uomo riuscì a tenerlo in equilibrio e le indirizzò un goffo tentativo di scuse. Cenerentola gli sorrise, rassicurandolo che non era niente, ma quando si voltò il ragazzo era sparito. La sua attenzione fu attirata da un paio di risate e vide con sgomento che dall’altro lato della lunga tavolata c’erano delle donne insieme al principe. Quello sì che era Azzurro, indossava la stessa identica maschera dorata che aveva visto fuori! Ma allora chi era il ragazzo di prima? Per quanto

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cercasse di ritrovarlo, sembrava che fosse scomparso nel nulla. Scosse le spalle, pensando che dopotutto era Azzurro che le interessava, e si avviò in quella direzione. Il principe stava raccontando una storiella che evidentemente faceva molto ridere perché le tre donne che gli stavano accanto non smettevano un istante di emettere gridolini acuti. Tra quelle c’erano anche la donna con l’abito rosso, ma ancora non capiva da cosa fosse travestita. Forse da Cleopatra? L’abito era stretto e lungo, ma c’era una specie di strascico che lei aveva appeso al braccio. Indossava anche lei una maschera, con dei disegni argentati su uno sfondo giallo, molto elegante. La parte più bella, però, erano i capelli, perfettamente acconciati. Perché la fatina non le aveva fatto dei bei boccoli o almeno dato delle pinzette per raccoglierli? I suoi bei capelli biondi erano sciolti sulle spalle, ma il vento li aveva scompigliati e alcune ciocche non volevano proprio saperne di stare al loro posto. Cercò di richiamare la sua attenzione, ma Azzurro non si accorse di lei. Pazientò sperando che le donne lo lasciassero solo, ma quando finalmente la musica diabolica venne sostituita da una più leggiadra, il principe fece un inchino e prese la donna con l’abito rosso per mano. Le fece persino il baciamano, sotto il suo sguardo raggiante.

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Li guardò avviarsi verso la pista da ballo con invidia. Quanto avrebbe voluto essere lei la dama! Ma al principe non interessava una ragazzina come lei, preferiva le donne mature. Prima che un altro uomo travestito da animale le chiedesse di ballare, decise di allontanarsi dalla pista. Si spostò lungo il muro finché si accorse che c’era una piccola veranda distaccata dalla stanza, chiusa soltanto da leggeri pannelli che non impedivano del tutto al freddo di filtrare. Spinse piano la portafinestra ed entrò. E lì, appoggiato ad una balaustra con lo sguardo fisso verso l’orizzonte, c’era il ragazzo di prima. Cenerentola si sentì tremare, anche se non sapeva spiegarsi il motivo. Quel ragazzo la inquietava, ma le ricordava anche Azzurro... ne era terribilmente attratta, ma questo la spaventava. Come percependo la sua presenza, il ragazzo si voltò di colpo e il suo sguardo le penetrò l’anima. I suoi occhi erano scuri e minacciosi, non avevano niente a che vedere con gli occhi azzurri e ridenti di Azzurro; ora che aveva tolto la maschera vedeva la differenza anche nei tratti del viso, eppure erano ancora molto somiglianti. Aveva tolto i finti canini e ora le sue labbra avevano acquistato un aspetto provocante che prima non aveva. Il ragazzo la trafisse con un’occhiata che avrebbe

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dovuto farle paura e spingerla a scappare da dov’era arrivata il più presto possibile, invece la incuriosì: cosa ci faceva lì fuori tutto da solo? Perché si teneva in disparte? «Sapevo che saresti venuta» Sentirlo parlare la mandò in agitazione. Non si aspettava che il ragazzo le parlasse, tantomeno che avesse una voce così vellutata, così suadente, ma così diversa dal tono profondo e maturo di Azzurro. Soltanto dopo qualche secondo realizzò quello che il ragazzo le aveva detto. «Lei... lei sapeva che sarei stata qui? Mi perdoni, ma non capisco» balbettò indietreggiando. Forse il ragazzo voleva approfittarsi di lei? Ma lui scrollò le spalle e riprese a guardare dalla piccola finestrella che si apriva su uno dei pannelli. Per un attimo Cenerentola pensò che volesse ignorarla di proposito, invece parlò ancora, questa volta con una punta di delusione. «Pensavo che fossi tu quella giusta. Ti ho osservata mentre lavavi i pavimenti, china a terra con uno straccio bagnato. Ho visto la disperazione sul tuo volto, il tuo desiderio di fuggire. Credevo che stanotte ne avresti approfittato» Cenerentola lo guardò sconcertata e senza nemmeno accorgersene passò al tu, lasciando da parte ogni convenzione sociale. «Mi hai osservata da lontano? Perché? Io... dove mai

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potrei scappare? Non ho altro luogo da chiamare casa se non quella casetta dove mio padre mi ha cresciuto» «O forse non hai il coraggio di fuggire. Tutti desiderano una vita migliore ed io pensavo di poterti dare quest’opportunità» Il ragazzo continuò a tenere gli occhi fissi verso le prime luci del paese, pensieroso. «Perché parli al passato?» osò domandargli, avvicinandosi di un passo. Lui scrollò le spalle. «Ho visto come guardi mio fratello... sei come tutte le altre» «Tuo fratello?». Possibile che...? Cenerentola non aveva pensato a quella possibilità, ma ora tutto era chiaro: ecco perché si assomigliavano così tanto. Il ragazzo incrociò le braccia al petto e la fissò con occhi cupi. «Tutte le ragazze in paese farebbero follie per stare con lui. Come si può non desiderare di vivere tra lussi e ricchezze con un principe come lui?» «Azzurro non è soltanto ricco. Lui è anche...» Il ragazzo la afferrò per un braccio e con una mossa decisa la tirò a sé. Poi, le sue labbra si avvicinarono pericolosamente al suo orecchio. «Tu vivi nella modestia, vieni trattata come una servetta e non chiedi nulla a chi ti sta attorno. Ma dentro di te

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senti il bisogno di fuggire via, di viaggiare come fece tuo padre, magari anche di andarlo a cercare per assicurarti che lui sia davvero morto...» Il suo respiro le solleticò l’orecchio, ma Cenerentola non ci fece caso. Aveva le lacrime agli occhi e a stento riusciva a trattenersi dall’urlare. Com’era possibile che uno sconosciuto riuscisse a leggerle così bene dentro? Non aveva mai detto a nessuno che una parte di lei era convinta che il padre fosse ancora vivo, magari rinchiuso in qualche prigione lontana per un crimine mai commesso... o forse perché era stata la stessa matrigna a impedirgli di tornare. Il ragazzo fece un sorriso soddisfatto ed i suoi occhi presero una luce pericolosa. «Non saresti davvero felice se vivessi a palazzo con mio fratello. Tu hai bisogno di qualcuno che ti aiuti a fuggire, di qualcuno che ti capisca... come me» Cenerentola voltò il viso e le loro labbra si ritrovarono a pochi centimetri di distanza. Aveva il cuore che le batteva veloce e il respiro affannato perché era la prima volta che si trovava così vicina ad un ragazzo, ma non un ragazzo qualunque... aveva qualcosa di speciale, anche se non capiva ancora cosa. «Qual è il tuo nome?» Lui la scrutò attento. «Ha importanza solo se scegli me»

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Lei lo guardò confusa. «Perché dovrei scegliere te? Non ti conosco neanche...» Fu in quel momento che lui abbassò la testa e unì le loro labbra, provocando in lei una scossa che attraversò il suo corpo fino a raggiungere la punta dei piedi. Fu come se all’improvviso ogni tassello venisse collocato al posto giusto. La consapevolezza la colpì, facendole tremare la gambe. «Tu sai dove si trova mio padre» Si staccò appena, perché dentro di lei una fiamma divampava a contatto con quel corpo caldo. Non le sfuggì il sorrisetto che gli fiorì sul viso. Appena illuminato dalla luce della luna, il suo viso aveva una bellezza fuori dal comune: i lineamenti decisi, la fronte alta, una piccola cicatrice vicino all’orecchio. E quegli occhi, che sembravano leggerle dentro. «Per scoprirlo dovresti fuggire con me...» le rispose e con le dita le fece una leggera carezza sulla guancia. Poi si staccò e rientrò dentro la sala come se nulla fosse successo. Cenerentola sentì un vuoto freddo quando lui si allontanò. Come poteva pesarle la sua assenza se prima di quella sera non l’aveva mai visto? Era ancora scossa dai brividi per quel bacio sensuale e quella carezza così delicata, che contrastava con il

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suo atteggiamento pericoloso. Voleva fidarsi di lui... ma aveva troppa paura. In quel momento sentì un rumore e vide un vestito rosso svolazzante attraverso la porta d’entrata. «Vieni, qui non ci vedrà nessuno!» Una voce familiare la scosse dai pensieri e la costrinse a rifugiarsi in un angolo della terrazza. Ma i due non si erano accorti di lei, erano troppo impegnarti a baciarsi per guardarsi attorno. Guardò con orrore Azzurro che infilava la mano dentro la scollatura del vestito della donna, massaggiandole con forza i seni. Cenerentola arrossì, mordendosi il labbro per non rivelare la sua presenza. Non era lei che stava facendo qualcosa di sconveniente, ma lui era il principe... come poteva una ragazza povera come lei rimproverare un principe? La donna rise e tirò la testa di Azzurro verso il basso, inarcando la schiena per facilitargli l’azione. La porta che dava sulla terrazza era chiusa e i suoni giungevano attutiti alle orecchie di Cenerentola. Non voleva assistere a quella scena così intima. L’immagine di Azzurro che appoggiava con avidità le labbra sul seno della donna l’avrebbe tormentata per giorni. Si coprì gli occhi per non guardare, ma non riusciva a impedirsi di sentire i mugolii che la donna emanava. Ricordò la

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spinta decisa che le aveva dato quando era arrivata, per costringerla ad entrare: era già sicura che sarebbe riuscita ad ottenere qualcosa dal principe? Sapeva chi si nascondeva sotto quella maschera dorata? Si arrischiò a guardare per vedere se Azzurro l’aveva tolta, ma la indossava ancora. Doveva andarsene da lì, subito. Ma come poteva fare senza tradire la sua presenza? Si guardò attorno e vide che c’era un’altra porticina sulla veranda. Era piccola, si sarebbe dovuta abbassare per entrare, e dava verso l’esterno. Non esitò neanche un secondo: la aprì sperando che non cigolasse e si lanciò giù dalle scale, realizzando, quando era ormai giunta al fondo, che la porta era già socchiusa. Qualcuno l’aveva aperta prima che lei entrasse in veranda? «Che succede?» domandò Azzurro confuso, con voce forte e chiara. «C’era qualcuno! Principe, aspettate!» il tono della donna si fece agitato e Cenerentola dal basso sentì il suo movimento frenetico mentre cercava di sistemarsi il vestito. Ci fu un attimo di sconcertato silenzio. «Come mi hai chiamato?» «Io... volevo dire: Sebastian, andiamo!»

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«Aspetta un momento. Come sai che sono il principe?» «Non... non lo sapevo, ma...» «Dopo ne riparleremo» La porticina venne aperta e il principe scrutò con attenzione le scale. Cenerentola si prese il vestito con le mani e cominciò a correre nella direzione opposta, pregando che non la seguisse. Si nascose dietro una delle torri del castello che si ergevano fiere nella notte e da lì poté osservare Azzurro mentre raccoglieva qualcosa da terra. Guardò con orrore il suo cappello a punta nelle mani del principe: sapeva benissimo che apparteneva a lei.

Stava viaggiando sulla scopa ormai da qualche minuto, ma il cuore le batteva ancora frenetico per la paura di essere stata scoperta. E ora? Era evidente che il principe non volesse essere riconosciuto. Probabilmente temeva che lei sarebbe andata a dire in giro quello che aveva visto e che l’avrebbe cercata a casa, mettendo in agitazione la matrigna e le sorellastre. Stava sorvolando il fiume quando all’improvviso la scopa si fermò. Scomparve, come se qualcuno l’avesse incenerita in un colpo solo e lei precipitò, cadendo dritta nel fiume. Per fortuna l’acqua era profonda, ma il gelo la assalì come se tante puntine

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si fossero conficcate nella sua pelle. Lottò per rimanere a galla, ma l’acqua si insinuava dentro i vestiti e gli spruzzi che arrivavano in faccia le impedivano di vedere dove volesse trascinarla la corrente. Cercò di gridare aiuto, ma le mancava il fiato. Si stava ancora dibattendo quando si sentì afferrare da qualcuno. Vide il volto preoccupato del fratello di Azzurro che gridava qualcosa tipo «Sei pazza? Saresti potuta annegare!» e appoggiò il viso sulla sua spalla con riconoscenza. Chiuse gli occhi, tremando, poi li spalancò di colpo. Stava volando! Il ragazzo la posò con dolcezza su uno spiazzo erboso e la avvolse in una grossa coperta di lana. Poi, l’aiutò a sputare l’acqua e le accarezzò i capelli per calmarla, sistemandole una ciocca dietro le orecchie e guardandola con intensità. «Come... come?» gracchiò, ma la gola le bruciava e il gelo non smetteva di darle tregua. Una figura si materializzò di fianco a loro e Cenerentola riconobbe la fatina, questa volta vestita con un pomposo abito bianco, pieno di ciuffetti pelosi che ornavano le sue braccia esili. Il volto era accigliato e ancora una volta non sembrava molto contenta di lei.

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«Fortuna che lui ti ha seguita e che io ero pronta ad aiutarlo dandogli l’abilità del volo per poterti salvare! Cos’avresti fatto senza il mio aiuto? E senza una coperta in cui scaldarti? Cosa ti avevo detto? A mezzanotte scade il tempo in cui puoi restare una streghetta e scopa e abito scompaiono facendoti tornare la semplice ragazzina che eri prima. Sapevo che non mi avresti ascoltata, eri troppo presa dall’idea del ballo! Avrei dovuto dare anche a te una maschera, ma non pensavo che saresti riuscita a combinare un pasticcio simile! Almeno l’hai visto il tuo principe, ora sei contenta?» la fatina concluse stizzita il suo discorso, mostrando di non aver troppa pena delle sue condizioni. Poi, come se si fosse ricordata all’improvviso di avere un impegno urgente, sparì senza una parola di saluto. «Proprio di una predica si ha bisogno quando si sta per morire congelati...» borbottò il ragazzo, cupo in volto, sottolineando l’insensibilità della fatina con un gesto seccato. Cenerentola gli rivolse un sorriso stanco, ma riconoscente. Poi, quando finalmente il caldo cominciò a penetrarle sotto i vestiti bagnati, si assopì tra le sue braccia. Si risvegliò alle prime luci dell’alba, con una brutta sensazione di disagio. Dove si trovava? Non si era mai spinta così in là da sola e non aveva idea di come tornare a casa da quel luogo

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sconosciuto. L’assenza del ragazzo pesava ancora di più, adesso che era sola. Si mise in piedi a fatica e vide che anche la coperta era umida. Sentiva di nuovo freddo, anche se presto i raggi del sole avrebbero cominciato a riscaldarla. Si guardò attorno accorgendosi di avere fame e vide che, seduto contro un albero con il viso abbassato sul petto, c’era il ragazzo. Come accorgendosi del suo sguardo, lui aprì gli occhi. Per qualche secondo rimasero immobili a fissarsi, senza parlare. Eppure passarono mille parole in quell’attimo, domande che Cenerentola avrebbe voluto rivolgergli e risposte che lui non aveva voglia di dare. Prese coraggio e si avvicinò lui, lasciando cadere a terra la coperta per essere più libera. Quando lo fece, però, si accorse che aveva indosso il vestito strappato che aveva a casa prima di cambiarsi e se ne vergognò. «Non hai bisogno di nasconderti da me» sospirò lui, invitandola con un gesto a non rimettere la coperta. «Ti ho vista molte volte con questi vestiti. Per me, questa è la vera Cenerentola, non quella di ieri sera, anche se devo ammettere che eri molto affascinante» Lei arrossì, turbata da quelle parole. «Da quanto tempo mi osservi?». Non voleva uscire come un’accusa, ma di fatto lo era. Non le piaceva l’idea che qualcuno potesse osservarla a

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lungo da lontano mentre svolgeva lavori pesanti comandata a bacchetta dalla matrigna. Lui sbadigliò assonnato e le fece cenno di sedersi vicina. «Non ha importanza da quanto ti osservo» «Certo che ne ha!» scattò Cenerentola, lanciandogli un’occhiata di sfida. «Io non so niente di te, tu sai tutto di me! Non so nemmeno il tuo nome!» «Claudio Terenzio, principe e fratello di Azzurro. Ma puoi chiamarmi Terence» Lei lo guardò incredula. «Un principe?» «Perché, pensi che soltanto mio fratello abbia il diritto di esserlo?» commentò Terence con tono annoiato. Cenerentola si trattenne a stento del prenderlo a schiaffi. «Sei stato tu. Tu hai lasciato aperta la porticina per permettermi di fuggire. Non è stato un caso, giusto? Tu sapevi che tuo fratello sarebbe andato su quella terrazza!» «Lo fa sempre» «E non mi hai avvisata! Hai lasciato che lui e quella... quella donna si baciassero davanti a me, costringendomi a fuggire!» «Sarebbe stato crudele non lasciarti una via di fuga»

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Cenerentola lo incenerì con lo sguardo. «Cosa volevi dimostrare con quella scenetta? Di essere un ragazzo privo di cuore? O era solo uno stupido scherzo?» Lui aggrottò le sopracciglia e si alzò, sovrastandola con i suoi dieci centimetri in più di altezza. «Forse non ti è ancora chiaro com’è mio fratello. Forse sei ancora troppo accecata dall’immagine perfetta che ti sei fatta di lui per comprendere la situazione» Lei sbuffò. «Non intendo farmi criticare da te un secondo di più» Lui le prese con forza il braccio e la trattenne. «Sebastian Azzurro, il principe che è destinato a prendere il posto di nostro padre tra meno di un anno, è un fannullone. Non sopporta la vita di corte, ama correre rischi inutili e giocare d’azzardo ogni qualvolta gli si presenti l’occasione. Odia passare la Vigilia del Natale a palazzo, insieme a nobili che lui considera troppo noiosi e poco degni della sua attenzione. Condivido su quest’ultima scelta, non trascorrerei mai il Natale con nobili che passano il tempo a vantarsi delle loro ricchezze» «Allora non siete poi così diversi» lo sfidò lei, strattonando inutilmente il braccio.

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Lui la tirò più vicino a sé, con gli occhi infiammati dall’ira. «Sebastian, conosciuto in paese come il principe Azzurro, ha un difetto che io non ho: ama approfittarsi delle donne, dar loro piacere per poi rifiutarle senza rimorsi. E loro cosa fanno? Ne gioiscono, perché lui è un principe! È un onore per loro sapere che il principe e futuro re ha voluto dedicare anche solo un minuto a baciarle. Ma lui non si accontenta di un bacio, lui vuole prendere possesso del loro corpo, soddisfare il suo desiderio personale. Tu, Cenerentola, avevi bisogno di guardarlo con i tuoi occhi per rendertene conto» «Lasciami! La tua è stata una mossa subdola e cattiva. Non hai idea di quello che ho provato quando l’ho visto con quella donna» Finalmente le lasciò il braccio e Cenerentola gli diede la schiena, con le lacrime agli occhi al pensiero di quello che Terence le aveva rivelato su Azzurro. S’incamminò, senza degnarlo di un’altra occhiata. «Perché pensi che ieri sera mio fratello non sia andato a palazzo? Soltanto perché odia il ricevimento che fanno ogni anno? No! Perché mio padre ha deciso che ha bisogno di mettere la testa a posto e che entro un anno al massimo dovrà sposarsi!» le urlò dietro Terence.

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Cenerentola si irrigidì e si bloccò sul posto. Qualche secondo dopo, sentì le mani calde del ragazzo che le accarezzavano dolcemente le braccia per calmarla. Anche il suo tono era tornato calmo. «Mi dispiace averti fatto assistere a quella scena. Non sapevo in quale altro modo farti capire che lui non è il tipo giusto per te» Lei tremò, ma era stanca di urlare. Si girò verso di lui, guardandolo fisso negli occhi. «E perché tu sì? Chi ti dice che tu sei il tipo giusto per me?» Lui sorrise, seguendo il contorno delle sue labbra con un dito, prima di baciarla dolcemente. «Perché io sono innamorato di te da più di quattro anni: quattro anni e dieci mesi per l’esattezza. Da quando tuo padre mi chiese di portargli tue notizie ed io cominciai a osservarti durante il giorno. Da quando ti vidi in piedi sulla scala mentre cercavi di raccogliere le mele, così concentrata e attenta a non cadere, con indosso un vestito azzurro a cui sei molto affezionata. Non ho mai smesso di amarti, neanche un secondo né di desiderare di poterti finalmente avere tra le mie braccia, come adesso. È da parecchio tempo che non tocco più un’altra ragazza perché continuo a pensare a te»

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Lei trattenne il respiro, stupefatta. «Terence...» I suoi occhi erano seri e terribilmente affascinanti, le sue mani continuavano ad accarezzarla provocandole dei brividi di piacere. «Ho temuto che potessi essere come tutte le altre ragazze, pronte a gettarsi tra le braccia di mio fratello pur di diventare una nobildonna. Ho pensato che non ti avrei mai avuta... e adesso sei mia» Questa volta Cenerentola non se la sentì di contraddirlo. Era ancora confusa e la rivelazione le aveva lasciato un tormento dentro il cuore. Com’era possibile che lui fosse innamorato di lei da così tanto tempo? E suo padre! Perché non era mai tornato? Avrebbe voluto rivolgergli ancora mille domande, ma all’improvviso sentì il campanile della chiesa suonare le otto del mattino e si accorse che era tardissimo. Come poteva giustificare la sua assenza alla matrigna? «Io... devo tornare a casa, non posso...» balbettò arretrando. Terence fece ricadere il braccio lungo il fianco ed il suo sguardo divenne malinconico. Cenerentola stava già correndo in direzione del paese quando sentì il suo nome. «Sì?» gli risponde urlando. Lui le indirizzò un sorriso mesto. «Buon Natale...»

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Quando arrivò nei pressi di casa sua, trovò sua matrigna sul retro della casa, in compagnia di un valletto reale e di Azzurro. Frenò la sua corsa nascondendosi dietro un albero e li scrutò pietrificata. Azzurro aveva in mano il cappello da strega e la matrigna continuava a scuotere la testa con imbarazzo, negando di riconoscerlo. Apparvero anche le due sorellastre, vestite con un abito da festa che a casa non mettevano mai, e con espressione soddisfatta indicarono al principe di sedersi. Dal suo nascondiglio, Cenerentola vide le loro espressioni e sentì la vergogna assalirla al pensiero che anche lei molte volte l’aveva guardato con quell’ammirazione. Ma era davvero da ammirare? Doveva credere alle parole di Terence o erano dettate dalla gelosia verso il fratello? Eppure, lei stessa l’aveva visto in azione. Non c’era dolcezza nei suoi gesti mentre spogliava la donna. Non c’era amore nel suo sguardo, ma solo passione e desiderio di ottenere sempre di più. No, non poteva desiderare un uomo simile nella sua vita. Indietreggiò di scatto, ma così facendo rivelò la sua posizione. Il principe si girò subito ma, a differenza della sera prima, il

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suo sguardo non era scocciato bensì impaurito. Il principe Azzurro che aveva paura di lei? «Cenerentola, proprio te cercavo!» la matrigna le rivolse un sorriso falso e le fece cenno di avvicinarsi. Poteva ancora tentare la fuga? Vide l’occhiata sospettosa delle sorellastre e si disse che non poteva scappare così. Si avvicinò riluttante al retro della casa, ma rimase a qualche passo di distanza da loro. La matrigna gettò un’occhiata di disgusto al suo vestito strappato, ma si costrinse a prendere un’espressione affettuosa. «Cara, stavo giusto dicendo al principe che non è proprio possibile che tu ieri sera fossi al ballo, tantomeno con questo cappello assurdo. Dico bene?» La strinse a sé come per mostrare al principe quanto fossero unite e Cenerentola sentì la rabbia assalirla. Sorrise freddamente, guardando il principe con sfida. «Certo che no, sono stata tutta la sera in casa a pulire i pavimenti» Il sorriso della matrigna vacillò appena. «Che brava figlia che ho, vedete? Aiuta così tanto in casa!» Il principe le rivolse una lunga occhiata diffidente, ma sapeva di essere in una situazione poco piacevole. «Mi scuso ancora moltissimo per non esser stato presente ieri sera a palazzo.

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Purtroppo sono stato trattenuto in una riunione importante e sono arrivato in città soltanto stamattina» «Oh, non deve certo giustificarsi con noi!». La matrigna sorrise ancora di più, facendo cenno alle sorellastre di offrirgli qualcosa. «È dispiaciuto tanto anche a noi, ma suo padre ci ha spiegato le ragioni della sua assenza. Una riunione la vigilia di Natale, che cosa inaudita!» «Ma davvero? Un gran peccato che si sia perso il ballo» commentò Cenerentola, ricevendo un’occhiata sbalordita da parte delle sorellastre e una omicida da parte della matrigna. «Bambina mia, che insolenza! Certamente il nostro principe ha avuto impegni ben più importanti. È stato molto generoso a passare da noi il giorno di Natale...» Il principe sorrise chinando il capo in un piccolo inchino, poi il suo tono divenne improvvisamente tagliente. «Capite anche voi che non potevo lasciarmi sfuggire questa ragazza... è entrata nelle cucine del palazzo e ha rubato gli averi che erano sul tavolo, è sicuramente una poverella... e questo cappello è l’unico indizio che ha lasciato» lanciò un’occhiata eloquente al suo vestito strappato e la matrigna arrossì come se avesse appena detto a lei che era una ladra.

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Cenerentola si trattenne a stento dal prenderlo a schiaffi. Che bugiardo! Ma sarebbe servito a qualcosa dire la verità? La matrigna avrebbe preso la sua spiegazione come una scusa per giustificare la sua assenza a casa e non avrebbe mai accettato l’idea che il principe stesse mentendo in un modo così spudorato. «Non mi sono mai mossa da qui» ribadì e il principe non poté far altro che andarsene tra mille elogi. La matrigna attese che si fosse allontanato prima di serrare le labbra e decidere come castigarla. «Piccola insolente, come ti permetti di rispondere in quel modo a un principe? E mentire in una maniera così evidente! Non eri in casa quando siamo tornati, dove potevi essere se non nelle cucine del palazzo? Che vergogna! Ringrazia che non ho voluto mettere in giro voci maligne sulla nostra famiglia e ti ho protetta! Ora per punizione salterai il pranzo e la cena di Natale e passerai tutto il giorno nella stalla a ripulire i cavalli!» «Voi non siete la mia famiglia e non lo sarete mai!» rispose, con le lacrime agli occhi, e scappò via prima che la matrigna potesse afferrarla e costringerla a mettersi al lavoro. Le sorellastre cercarono di sbarrarle la strada, ma questa volta Cenerentola ebbe la meglio e riuscì a fuggire. Corse come mai

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aveva corso in vita sua, con i polmoni che le bruciavano nel petto per l’aria fredda che penetrava attraverso il vestito. Le odiava, come mai aveva creduto di poter odiare qualcuno. Aveva sopportato a lungo – troppo a lungo! – ma non poteva permettere che la matrigna e il principe le rovinassero anche il giorno di Natale. Si era aspettata che qualcuno la inseguisse, ma quando finalmente si fermò cercando di recuperare un respiro normale non c’era nessuno dietro di lei. I capelli le si erano appiccicati alla guancia bagnata e lei li tirò indietro con forza, quasi volesse punirsi per come aveva gestito la situazione. Come poteva competere con un principe? Eppure, non si era certo aspettata che lui inventasse una spiegazione simile... lei una ladra! Aveva sfruttato la sua paura a proprio vantaggio per uscirne più pulito di prima. «Vieni qui» Alzò la testa quando udì un mormorio sommesso e si morse il labbro per resistere alla tentazione quando Terence aprì le braccia e le fece un sorriso dolce. «Avanti, lo sai che io non voglio farti del male e sai anche cosa penso di mio fratello» la esortò e lei non riuscì più a resistere: si fiondò tra quelle braccia forti e confortevoli, appoggiando il viso accanto a quello del ragazzo. Quell’abbraccio così pieno

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di emozioni le tolse il fiato, ma riuscì anche a calmarla. Come potevano due fratelli essere così diversi? «Non permetterò più a nessuno di trattarti come ha fatto mio fratello oggi. Lui... non riesco neanche a spiegare quanta rabbia mi fa sentire le sue menzogne. E mio padre, che non fa altro che proteggerlo! Si è arrabbiato quando ha saputo che non andava alla festa a palazzo, ma ha mentito davanti a tutti e non ha nemmeno avuto il coraggio di metterlo in punizione!» La stretta di Terence si fece più rigida, segno che stava cercando di trattenersi. «Nostro padre è malato, non resisterà più di un anno... ma vuole che Sebastian prenda moglie al più presto e non si fermerà finché non ci sarà riuscito. Ma pensa davvero che basterà un matrimonio per impedire a quell’arrogante di andare per donne?» Cenerentola si perse in quegli occhi così cupi e gli accarezzò dolcemente una guancia, dandogli un leggero bacio sulle labbra. «Sei così diverso tu... perché tuo padre non lascia a te il trono? È una questione di età?» Terence scosse la testa, sospirando piano. «So che hai tutti i diritti di conoscere la verità, ma...» «Non scapperò» lo interruppe Cenerentola con trasporto. «Invece lo farai»

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«No! Fidati di me, Terence. Per nulla al mondo tornerei in quella casa che non sento più mia da quando mio padre se n’è andato. Io... voglio stare con te». Si sorprese anche lei per quelle parole, ma capì che venivano davvero dal cuore. Non voleva più vedere la faccia della matrigna e le piaceva così tanto stare con lui... Lui s’inumidì le labbra, poi la prese per le spalle. «Io non sono come mio fratello. Lui è destinato a regnare in questo paese perché lui è il principe del giorno, mentre io... sono destinato a regnare altrove» Cenerentola corrugò la fronte, confusa. «Chi sei?» «Sono il principe della notte e vivo in un altro mondo, un mondo dove l’oscurità avvolge le case, dove le persone si muovono quando la luna è alta nel cielo, dove il giorno è temuto più di ogni altra cosa... non so spiegarti perché la luce non ci piaccia. Forse perché preferiamo nasconderci agli occhi degli altri, vogliamo tutelare la nostra identità personale. Il castello è la mia abitazione, ma... ecco, soltanto chi è invitato può vederlo» Cenerentola si ritrasse appena. «Cosa... cosa stai dicendo? Io l’ho visto! Sono venuta al castello ieri sera senza l’invito di nessuno!»

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«Ti sbagli. La fatina ti ha invitato, sotto mio espresso ordine. Lei è uno dei tanti abitanti del mio regno, ma il mio regno è nascosto agli occhi della gente del paese, per questo dico che è come se fosse in un altro mondo. Le ho chiesto di portarti al castello, alla mia festa, ma non pensavo che anche quest’anno mio fratello sarebbe riuscito a fuggire dal palazzo senza che i servitori di nostro padre lo vedessero. Deve odiare veramente molto l’idea del matrimonio» concluse con velato sarcasmo. Cenerentola ripensò alla sera precedente, alle strane maschere che indossava la gente... «Quelle erano persone del tuo regno? E Azzurro... era per quello che indossava la maschera?» «Non l’ho invitato certamente io, sarà stata nostra cugina Sandra che, guarda caso, è la migliore amica di Veronica, la donna con cui è uscito in terrazza. Gli piace l’idea di indossare una maschera per una sera, anche se sceglie sempre colori troppo luminosi e vistosi...» «Aspetta un momento! Perché in terrazza tu non ce l’avevi? E quei canini...» Terence scoppiò a ridere, attirandola contro il suo petto. «I canini sono uno stupido accessorio che mio fratello ed io indossavamo da piccoli per farci paura. Ieri sera li ha portati alla festa e mi ha sfidato ad indossarli... a volte si comporta

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come un bambino. E sul fatto della maschera... non l’hai ancora capito?» La prese per mano e la esortò a camminare. Lei si guardò un’ultima volta indietro, ma non c’era nostalgia nel suo sguardo: quella non era più casa sua, la matrigna aveva distrutto ogni bel ricordo che possedeva di quel luogo... l’unico ricordo che le restava nel cuore era la faccia di suo padre prima che se ne andasse. Camminarono per un po’ in silenzio. Cenerentola rifletté sulle parole del ragazzo, cercando di trovare un senso a quello che aveva udito. Un principe della notte... un regno nascosto... delle maschere per nascondere la propria identità e sentirsi al sicuro... ripensandoci, lei era l’unica che non l’aveva indossata. Azzurro avrebbe potuto benissimo riconoscerla in paese senza quello stupido cappello, ma era evidente che gli servisse come prova per dimostrare che lei fosse uscita di casa. Non che la matrigna avesse mai avuto bisogno di prove per punirla di qualcosa. «Sei pensierosa» osservò Terence, stringendole la mano per distoglierla dai pensieri.

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Cenerentola abbassò la testa. «Non capisco cosa volessi dire prima e c’è ancora una cosa che mi tormenta. Ho bisogno di sapere la verità: mio padre è davvero ancora vivo?» «Sì» Sentì una stretta allo stomaco che le impedì di proseguire ancora. Si voltò verso di lui, con gli occhi spalancati e una speranza che lentamente si faceva strada nel suo cuore. «Mio padre... vivo?» «Lo vedrai presto, te lo prometto» Le sorrise condividendo la sua gioia e Cenerentola cominciò a saltellare incitandolo a proseguire più velocemente. Si accorse più volte che effettivamente Terence non amava il sole e cercava ogni possibile ombra, ma era troppo concentrata sull’idea che presto avrebbe potuto rivedere suo padre per indagare ancora. Quando finalmente giunsero al castello c’erano uno strano e sinistro silenzio. Si accorse con sgomento che sopra al castello c’erano delle fitte nuvole, che impedivano ai raggi del sole di penetrare e si chiese se fosse opera della fatina. Aveva la gola secca e le gambe erano stanche di camminare. Tuttavia, seguì in silenzio Terence dentro il castello, sollevata che la musica assordante non ci fosse più. Il salone era completamente

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ripulito, ma privo di persone, come se la festa non fosse mai avvenuta. Era avvolto nell’oscurità più totale, fatta eccezione per delle fiaccole che illuminavano dolcemente il percorso. C’era una sensazione di pace, lì dentro, che la tranquillizzò subito. Salirono delle ampie scale che conducevano al piano superiore e, arrivati in cima, vide che c’erano delle porte chiuse. «Abitano tutti qui? Tutti hanno una stanza nel castello?» sussurrò, come per paura di svegliare qualcuno. Lui scosse la testa, indicandole una stanza in fondo al corridoio. «Quella laggiù è la mia, mentre queste sono le stanze dei servitori. La gente vive sparsa per i confini del paese, ma nessuno si accorge che le loro case sono avvolte da dense nuvole: le fatine sono state bravissime a impedire alla luce di filtrare durante il giorno» «Le fatine?» «Sì, ce ne sono sei nel mio regno. Avanti, dobbiamo raggiungere il secondo piano» Le indicò di salire ancora e lei acconsentì, senza timore, ma con il cuore che le batteva frenetico. Suo padre era lassù? Giunsero fin dentro alla torre e da una finestra poté vedere

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quanto fossero in alto. C’era soltanto una porta in quello stretto piano e lui bussò con vigore dicendo ad alta voce il suo nome. «No, un momento!» Cenerentola bloccò la sua mano, spaventata. «Sei sicuro che sia mio padre? E cosa ci fa qui? Non sarà mica un servitore anche lui?» Terence le sorrise con calore. «Diciamo che è un viaggiatore, con un piccolo problemino. Forza, entra» La spinse dentro e lei guardò preoccupata verso il letto. C’era un uomo sdraiato, con i capelli brizzolati e gli occhi azzurri socchiusi. Si teneva sollevato con una mano per riuscire ad alzarsi, mentre una gamba era avvolta dalle coperta. Ma l’altra... Cenerentola sentì gli occhi inumidirsi. «Papà!» Sentiva che era lui, allora perché non riusciva a muoversi verso il letto? «Cenerentola...» mormorò a fatica l’uomo. «Sei davvero tu?» Si osservarono per qualche secondo incerti, poi lei prese coraggio e si fiondò verso di lui, abbracciandolo con forza. Ritrovò in quell’abbraccio tutta la sicurezza che suo padre sapeva darle quando era piccola e le lacrime cominciarono a scorrere inzuppandole le guance e scendendo verso la maglia

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dell’uomo. Lui la strinse a sé sconcertato, accarezzandole la schiena come se avesse paura di farle male. «Papà, ma cosa ti è successo?» singhiozzò lei, indicando la gamba che non c’era più. Era strano vederlo in quelle condizioni, con una sola gamba funzionante, così stanco e indifeso, ma il sollievo per averlo visto vivo scacciò ogni tipo di timore. «Oh, tesoro, non sarei mai dovuto partire... la mia avventura è stata lunga e la perdita della gamba fu dovuta a dei briganti che assalirono la mia carrozza sbattendomi a terra e partendo senza aver alcuna cura di me. Ti spiegherò tutto con più calma. Ma tu, bambina mia, stai bene? Sono anni che mi affido al principe per sapere come stai. Dimmi che stai bene, piccola mia» sussurrò il padre, prendendole il viso con le mani per osservarla meglio. Lei rise tra le lacrime. «Non sono mai stata meglio in vita mia! La matrigna mi ha fatto credere che tu fossi morto e lei... non voglio parlarti di cose brutte, adesso» «So come ti trattava, il principe qui presente è stato piuttosto diretto. Non sai quante volte avrei voluto correre da te per proteggerti!» sbottò il padre ed i suoi occhi azzurri divennero minacciosi.

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«No, papà, lei avrebbe fatto di tutto per impedirti di tornare» «Raccontale di cos’ha fatto oggi» la esortò Terence, ma Cenerentola scosse forte la testa, senza alcuna intenzione di dare altro dolore al padre. «Cosa mi vuole nascondere, giovanotto?» il padre interpellò Terence con affetto e Cenerentola cercò di fermarlo, ma lui aveva già cominciato a parlare. «Stamattina mio fratello è andato a casa vostra, con l’intenzione di zittire Cenerentola su quella questione di ieri sera di cui ti ho parlato. E la vostra cara signora ha deciso di mettere in punizione vostra figlia togliendole pranzo e cena e obbligandola a stare tutto il giorno nella stalla, da sola, il giorno di Natale» L’uomo alzò gli occhi verso Cenerentola e la fissò con rammarico. «Non avrei mai dovuto lasciarti sola, bambina mia. Come ho potuto sposare quella donna? Non me lo perdonerò mai!» Lei gli strinse forte un braccio, come se avesse paura di perderlo ancora. «Non ha più importanza, adesso, papà. Finalmente posso passare il Natale con te» I due si sorrisero e Cenerentola pensò che sarebbe stato il Natale più bello della sua vita. Anche se suo padre era diverso,

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e anche se avevano dovuto passare tanto tempo distanti, ora finalmente erano insieme.

Terence aiutò il padre ad alzarsi e lo condusse fino al salone con l’aiuto di un paio di servitori, poi organizzò il pranzo di Natale assecondando ogni richiesta di Cenerentola: un albero fu presto addobbato al centro del salone, mentre attorno fu sistemata una lunga tavolata che avrebbe accolto le persone del regno non appena si fossero alzate. Era strano stare in quel salone così cupo senza poter illuminare la stanza: Terence aveva stabilito che bastavano i pochi lumini che avevano appeso all’albero, ma man mano che calava la sera la stanza diventava sempre più buia e tenebrosa. Terence le si affiancò mentre dava l’ordine ai servitori di preparare la tavola. «Devi indossare questa stasera». Le porse una stupenda maschera azzurro celeste, con ricamate sopra alcune stelline bianche. Era molto bella, ma non capiva la necessità di indossarla. «Devo proprio?» «Questa è la nostra unica regola, Cenerentola. Noi tutti indossiamo la maschera per tutelarci, anche tuo padre quando scende ne ha una...»

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«Ma è facilmente riconoscibile, senza la gamba. E ieri sera mi hanno vista in viso più volte» obiettò Cenerentola poco convinta. Lui appoggiò le mani sulle sue spalle e la strinse a sé. «È un nostro modo di essere, capisci? In pubblico preferiamo non mettere a nudo la nostra identità, mentre in privato, con le persone speciali, non abbiamo problemi a rivelare noi stessi. I servitori e tuo padre sono come una famiglia per me, ormai, abitano da anni al castello, ma gli altri hanno una loro famiglia e vengono da fuori» «Ma ieri sera...» Lui la scosse, avvicinando le labbra al suo collo. «Perché mi sono tolto la maschera sulla terrazza? Perché proprio davanti a te?» La baciò delicatamente ed ogni bacio era una tortura per lei. «Forse perché sei l’unica che ha il pieno diritto di vedermi in faccia a ogni ora del giorno e della notte?» «Io...» «Forse perché ti osservo da anni e non sono mai stato più convinto in vita mia di amare una persona come amo te?» «Non...»

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«Mettila, Cenerentola. In fondo mi conosci appena. Indossa quella maschera e proibiscimi di avvicinarmi ancora te» «Perché dovrei?» mormorò lei staccandosi appena. Il sorrise di Terence si fece ironico. «Perché io ho avuto anni per innamorarmi di te, mentre tu mi conosci soltanto da un giorno. Ed io sono un tipo impaziente: non ti farò a lungo la corte, non cercherò di convincerti che io sono il migliore per te. So per certo che potresti trovare qualcuno di più raccomandabile» «Anche di più affascinante di te?» sussurrò lei, prendendolo in giro. Terence inarcò il sopracciglio, afferrandola con forza per la vita. «Qualcuno che possa garantirti una vita più rispettabile, alla luce del sole. Qualcuno che non sia così complicato» Lei percorse il suo profilo con un dito e, per la prima volta, trovò il coraggio di baciarlo per prima. «Io non ho bisogno di troppe cose, lo sai. Ho vissuto per anni come una schiava... mi basta un po’ di amore per essere felice» Lui la sollevò di scatto e la portò in braccio lungo la rampa di scale. «Oh in quanto a questo ne avrai in abbondanza, stanne certa»

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Lei spalancò gli occhi. «Mettimi giù! Non vorrai mica portarmi in camera tua prima del matrimonio?» Il sorriso di Terence si allargò ancora di più. «Quindi hai deciso di sposarmi?» «Certo che ti sposo! La fatina sarà proprio contenta quando le dirò che ha vinto la scommessa» «Quale scommessa?» «Oh, ti spiego dopo... Aspetta un momento! Sai benissimo che non si può... insomma, non è giusto entrare nella stanza prima del matrimonio e nemmeno... fare quello che vorresti fare» Terence scoppiò a ridere per il rossore che si era formato sulle sue guance. «Te l’ho detto, splendida fanciulla, io sono un tipo poco raccomandabile e dovrai prendermi così come sono» Terence soffocò le sue proteste con i baci e l’adagiò piano sul letto, guardandola come mai nessuno l’aveva guardata prima.

Fine

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Biografia Autrice Francesca Ghiribelli

è nata a Piombino e si è

diplomata ragioniera programmatrice. Fin da sei anni ha coltivato la passione per la poesia e la scrittura. Ha ricevuto il primo premio nel concorso nazionale “Maribruna Toni 2009” per il racconto inedito ‘’Il Ferroviere e la Bambina’’ e la menzione per la silloge e la menzione d’onore per il presente libro di poesia ora pubblicato, ‘’Un’altalena di emozioni’’(LA BANCARELLA EDITRICE). Ogni sabato vengono lette alcune prose o poesie dell'autrice su RADIO

NAPOLI

EMME

nel

programma

radiofonico

''MUSICA E PAROLE'' condotto dalla bellissima voce di TONY ESPOSITO. 5° EDIZIONE 2010 ''PREMIO VINCENZO ROSANO'' DELL'ANFI DI PIOMBINO,CONCORSO NAZIONALE LETTERARIO. L'AUTRICE SI E' CLASSIFICATA AL 5° POSTO NELLA SEZIONE C -NARRATIVA PER ADULTI: IL RACCONTO CON CUI SI E' CLASSIFICATA SI INTITOLA ''LA VOCE DEL CUORE''.

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L'autrice ha partecipato al "I°PREMIO NAZIONALE DI POESIA IN OMAGGIO A MARIBRUNA TONI 2010" indetto dall'ASSOCIAZIONE CULTURALE DI ATHENA SPAZIO ARTE classificandosi come finalista nella sezione della

silloge;

poi successivamente al ‘’II° PREMIO NAZIONALE DI POESIA IN OMAGGIO A MARIBRUNA TONI 2011’’ si è aggiudicata : 2° CLASSIFICATA SEZIONE SILLOGE DI POESIA CON ‘’IL BACIO DELLA FARFALLA’’ FINALISTA NELLA SEZIONE NARRATIVA CON ‘’GLI OCCHI DELLA VITA’’ E 3° CLASSIFICATA SEZIONE HAIKU CON ‘’AMORE. III°EDIZIONE DEL PREMIO NAZIONALE DI POESIA 'MARIBRUNA TONI' INDETTO DALL'ASSOCIAZIONE CULTURALE ATHENA SPAZIO ARTE DI MAURO PANTANI. L'AUTRICE HA VINTO LA MENZIONE D'ONORE NELLA SEZIONE 'POESIA INEDITA', LA MENZIONE D'ONORE NELLA SEZIONE 'SILLOGE', LA MENZIONE D'ONORE NELLA SEZIONE 'NARRATIVA'.

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L’autrice è arrivata fra i dieci finalisti della gara poetica “Brezze

Moderne”

promossa

dalla

web-magazine

“OublietteMagazine” con la poesia ‘L’amore in una stanza’. L’autrice ha partecipato a molto giveaways su blog di lettura vincendo molti libri grazie a suoi racconti e poesie e a sue recensioni ed incipit. L’autrice è arrivata tra i finalisti del concorso ‘I-Fantasy 2012’ con il romanzo ‘Kelp-Il mare nasconde un segreto’. L’autrice è ambassador della casa editrice Giunti Y di Firenze. L’autrice si è classificata quinta con il suo racconto ‘L’inverno sarà il nostro segreto’ alla prima edizione del Concorso Poetico “Scansia – Vinci 25 libri con Oubliette”. L’autrice collabora con paperblog.com L’autrice cura la rubrica ‘le recensioni del cuore’ su Almax Magazine, rivista mensile dedita alla musica, all’arte e alla letteratura. L’autrice cura due rubriche sul sito di Liberaillibro.com su recensioni libresche e prose poetiche.

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L’autrice è arrivata finalista con la poesia ‘Chiamalo amore’ alla gara poetica “Senza rete” promossa dalla web-magazine OublietteMagazine e dall’autrice Fiorella Carcereri. L’autrice è arrivata finalista con la poesia ‘Viandante’ alla gara poetica “C’era una volta e…altri racconti” promossa dalla webmagazine OublietteMagazine. LA POESIA DELL’AUTRICE 'LA DANZA DELL'ADDIO' E' STATA SELEZIONATA DAL PREMIO NAZIONALE LA LUNA E IL DRAGO - V EDIZIONE 2013 PER FAR PARTE DELL’ ANTOLOGIA DAL TITOLO 'IL VIAGGIO' CHE POTETE

TROVARE

SU

ILMIOLIBRO.IT

L’autrice ha partecipato al ‘’4° PREMIO NAZIONALE DI POESIA IN OMAGGIO A MARIBRUNA TONI 2013’’ INDETTO

DALL’ASSOCIAZIONE

CULTURALE

DI

ATHENA SPAZIOARTE AGGIUNDICANDOSI: MENZIONE DI MERITO PER LA POESIA INEDITA DAL TITOLO ‘POETA’ TERZO POSTO PER IL RACCONTO ‘TRE BOTTONI D’ORO’’

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L’autrice fa parte dell’antologia ‘Un cielo di poesia 2013’ con la poesia ‘Viandante’. Il romanzo fantasy dell’autrice dal titolo ’Kelp-il mare nasconde un segreto’ è arrivato fra i primi 5 finalisti del ‘Concorso Giunti Shift 2013’.

I siti web dell’autrice che potete visitare: http://francescaghiribelli.jimdo.com/ http://francescaghiribelli.blogspot.com/

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RapeBefanRonzolo Di Francesca Ghiribelli

L

e luci addobbavano il bosco circostante con dovizia di suggestive ghirlande dai tipici colori natalizi. I merli delle torri del castello erano intarsiate da coroncine

di abete intrecciato a nastri bianchi come neve e da piccole bacche di pungitopo rosse rassomiglianti alle guance intimidite di un fanciullo. Ma lo sguardo del principe Ribaldo andava ben oltre la delizia di quell’atmosfera di festa. Da sempre aveva adorato il Natale, ma quell’anno odiava con tutto il suo cuore quel periodo di atmosfera festiva. Mancavano pochi giorni al Santo giorno e quella stessa sera, a distanza di poche ore, si sarebbe dovuta celebrare la tanto agognata incoronazione del suo patrigno.

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Il principe aveva amato con tutto il suo cuore quel piccolo regno, ma adesso Prima Luce sarebbe finita nelle mani dell’uomo, che lui stesso considerava un ignobile arrivista. Una persona che fin da piccolo gli aveva fatto da padre, quel padre che aveva sostituito quello vero, purtroppo scomparso troppo presto. Sua madre lo amava, ma dopo pochi anni di solitudine, aveva deciso di non restare vedova e risposarsi al più presto con quell’individuo, a cui dava totale fiducia. Sì, certamente non aveva mai fatto niente di inappropriato o compiuto un gesto cattivo nei riguardi della nuova famiglia, ma Ribaldo non si fidava ugualmente. Forse, proprio perché aveva voluto un infinito bene al suo caro padre e non accettava il fatto che un perfetto sconosciuto entrasse a far parte dei suoi affetti e si appropriasse di tutto il suo regno, ancor prima di lui, il vero erede. Senza pensare che sua madre di lì a pochi giorni avrebbe dato alla luce il figlio legittimo del suo nuovo padre. Egli provò dentro al cuore un forte e profondo vuoto, comprese che non ce l’avrebbe fatta a partecipare in silenzio alla cerimonia di incoronazione del futuro re patrigno e ad accettare

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la nascita di un possibile fratellastro, così prese il suo fedele destriero e lo inveì al galoppo. Fu una cavalcata selvaggia, spietata e fulminea. Il principe conosceva perfettamente i confini del suo amato regno, ma forse la rabbia e la delusione furono talmente accecanti, che lo trasportarono in una sorta di sfuggente oblio. Quell’oblio gli fece attraversare in veloci falcate diversi chilometri di bosco, lasciandosi dietro le spalle le svettanti torri di Prima Luce, il suo immenso cortile circostante e tutto ciò che da sempre conosceva, giungendo in una parte oscura e sconosciuta della vegetazione. Quasi accaldato e senza respiro, nonostante il pungente freddo di quella notte di dicembre, si ritrovò solo in una radura priva di sentieri o sfondi che potessero aiutarlo a capire dove fosse finito. Fin da piccolo spesso si ritrovava a fare delle stupende cavalcate, dando sfogo alla sua anima libertina e ribelle, ma mai gli era successo di avventurarsi così lontano. Era certamente abbastanza grande da poter difendersi da solo, ma all’improvviso un sinistro brivido fece vibrare il suo corpo senza motivo.

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Alla sua sinistra si trovava una serie di alberi alti che assomigliavano a betulle, alla sua destra bassi cespugli di more più in là diradavano lasciando il posto a spioventi conifere, mentre di fronte a sé qualche isolato giunco faceva strada ad una fitta e distante macchia di rovi. Soltanto indugiando lo sguardo, oltre le punte delle conifere, riuscì a intravedere la punta di una costruzione. Forse una torre? Magari avrebbe sicuramente potuto chiedere ristoro o aiuto nel caso ci abitasse qualcuno. Armatosi di coraggio lasciò il cavallo lì dov’era e si insinuò nella fitta vegetazione in direzione dell’edificio. Con suo stupore, non era così lontano come pensava, e dopo poco tempo gli si stagliò di fronte un’alta e lunga torre di ferro in mezzo ad un’altra spaziosa radura. Era davvero singolare trovare una simile costruzione in mezzo al nulla, e così Ribaldo sicuramente pensò che fosse disabitata. Fu quasi come un fulmine a ciel sereno ritrovarsi lì quella caratteristica scena circondata da un piccolo e grazioso giardino, che si distingueva dall’altra metà della nuda radura, ospitando piccoli fiorellini simili a margherite e più in là particolari erbe, le cui foglie terminavano in piccole e curiose praline rosso vermiglio.

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Non ne aveva mai viste e improvvisamente sentì un leggero languore in fondo allo stomaco. Ormai erano passate diverse ore da quando aveva lasciato il castello, ma nonostante la fame, indugiava per il timore che quei frutti potessero essere velenosi. Ribaldo annusò l’aria pregna di fredda umidità e si avvolse con più cura nel mantello della sua pregiata veste, si riscaldò le mani con brevi e costanti aliti di fiato caldo e cullato improvvisamente dal desiderio di addentare qualcosa, si decise ad assaggiare quei curiosi frutti. Il suo languorino fu più forte di lui e avvicinando le dita alla pianta sradicò tutto il verde fusto, prendendo la piccola pralina incorniciata da affusolate foglie verde prato. Il principe detto un morso a quello sconosciuto cibo, ne pregustò un piccolo pezzo in anteprima sul palato e nonostante all’inizio fosse quasi insapore, alla fine rimase deliziato dalla sua bianca dolcezza interna. Egli restò incantato da quel gusto e iniziò a mangiare tutti i frutti che si trovavano lì intorno: sembrava non saziarsene mai. All’improvviso un canto melodioso e veramente dolce destò il principe da quel gustoso spuntino, e Ribaldo voltandosi verso la torre restò allibito nel vedere una stupenda fanciulla dai

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bellissimi e fluenti capelli biondi. Un viso soave incorniciato da due belle guance rosee lo fissava con occhi lucidi e pieni di dolcezza, ma che sembravano celare una punta nascosta di inspiegabile tristezza. Cosa ci faceva una splendida ragazza tutta sola rinchiusa in quella torre? Sicuramente un sortilegio era causa di quella ignobile ingiustizia. ‘Che bel canto che avete, o dolce fanciulla! Cosa ci fate lassù prigioniera del vostro destino?’, le chiese Ribaldo impietosito. La ragazza lo guardò con occhi da cerbiatta lisciandosi la bella chioma color oro e rispose: ‘O benvenuto, mio bel giovane! Finalmente qualcuno si è perso in questa radura desolata…Da anni vivo tutta sola qui, una vecchia fattucchiera ha fatto un maleficio e mi ha rinchiuso in questa torre fino alla fine dei miei giorni.’ Ribaldo concluse il suo piccolo pasto, leccandosi le dita per occuparsi soltanto di tutta quella beltà che aveva di fronte. ‘Come posso aiutarvi? Vorrei tanto liberarvi, ma la torre è talmente alta da raggiungere e non ho con me nessuna corda o altro strumento per porre rimedio a tale distanza! Oh,

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perdonate, mi presento. Sono il principe di Prima Luce, il mio nome è Ribaldo.’ Gli occhi della fanciulla si spalancarono soddisfatti e con seducente cipiglio si mise una mano sul cuore. ‘Che onore! Un principe viene in mio soccorso dopo così tanto tempo, sono davvero fortunata. Il mio nome è Raperonzolo.’ Ribaldo restò incuriosito da quel nome e improvvisò un gentile inchino alla presenza di una così bella ragazza. ‘Oh, il piacere è tutto mio. Ditemi, come posso porre fine alla vostra infelice prigionia?’ Raperonzolo sorrise beffarda e afferrando i suoi capelli, lì sollevò mostrando una lunga e interminabile treccia bionda. La deliziosa bellezza di quella chioma discese giù per tutta la lunghezza della torre e si fermò ai piedi di Ribaldo. Il principe restò ammutolito e piacevolmente estasiato davanti a quella singolare capigliatura. ‘Oh, un altro punto a favore della vostra invidiabile beltà.’ La ragazza arrossì benevola, ma con un pizzico di malizia negli occhi. ‘Siete troppo gentile, principe. Suvvia, fate presa sulla mia solida chioma e salite a salvarmi. Ve ne sarò grata per sempre.’

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Ribaldo senza pensarci due volte si aggrappò alla fortissima treccia bionda, ma non appena arrivò quasi a metà del percorso sentì un’appiccicosa sensazione alle mani e al corpo. Sembrava che fosse rimasto incollato a quella improvvisata fune di capelli. Egli alzando lo sguardo si ritrovò a fissare una spessa e raccapricciante ragnatela che improvvisamente lo risucchiò fino in cima alla torre. In un baleno venne catapultato all’interno di essa, ritrovandosi davanti ad un grosso ragno nero davvero ripugnante. Ribaldo provò un certo ribrezzo sentendo che quella creatura aveva una voce orribile e gracchiante. Il principe comprese di esser stato ingannato dalla finta bellezza di Raperonzolo. ‘Oh, povero principe da quattro soldi! Mi dispiace che proprio tu sia passato da queste parti, ma sono anni che sono rinchiusa qua dentro. Non ce l’ho con te, ma rappresenti l’unica possibilità per la mia salvezza.’ Ribaldo si arrabbiò con se stesso per non esser stato previdente e aver portato con sé almeno una spada, ma ormai era inutile piangere sul latte versato.

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‘Mi avete tratto in inganno, non siete quella splendida creatura che poco fa ho conosciuto! Perché proprio io devo pagare per la vostra vendetta?’ Il ragno con una sordida risata si trasformò in una brutta e vecchia megera vestita di stracci e con il volto incorniciato da un vistoso scialle. A Ribaldo, nonostante non fosse il momento adatto per pensare a stupidaggini, ricordò la vecchina che tutti i bambini aspettano ogni anno per ricevere dolciumi, caramelle o qualche dono. Sembrava proprio lei in carne ed ossa. Ci aveva creduto più volte anche lui da bambino, ma adesso non poteva certamente credere che la Befana si potesse trasformare in un ragno o avere i poteri di una crudele megera! ‘Oh, finalmente eccomi qua, adesso sono io. Eh già, mio caro, non sono la bella Raperonzolo, ma l’unico modo per mantenermi giovane e trasformarmi in quella bella fanciulla per sempre, adesso me lo dovrai concedere tu!’ Ribaldo rimase sorpreso e basito. ‘Io? Perché mai?’ ‘Soltanto tu, l’unico ad essere passato di fronte a questa torre e il solo ad avermi sottratto l’unica possibilità per riscattarmi dalla mia noiosa vita da vecchia incartapecorita e dal vile

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sortilegio di quel lurido infame! Ogni anno lui pecca di protagonismo, sempre lui deve arrivare prima di me in tutto e io a patire qui maledettamente sola e abbandonata ad attendere di chiudere le feste il sei gennaio!’ Il principe non potette credere alle proprie orecchie, allora la Befana esisteva davvero? E ora era di fronte a lui! Ma non sapeva che esistesse una specie di sortilegio su di lei e che potesse esservi un così brutto rapporto tra quest’ultima e Babbo Natale. ‘ Tu sei la Befana? Non pensavo che la Befana fosse una strega!’ Lei ridacchiò di gusto. ‘Eh già, molte cose non sono quelle che sembrano. L’umanità dovrebbe imparare che le favole non esistono e c’è sempre qualcosa di oscuro dentro l’anima di ogni uomo. Devo vendicarmi di Babbo Natale che mi ha rinchiuso qui a vita, lasciandomi un solo giorno l’anno per uscire a portare stupidi regali a quei mocciosi!’ Ribaldo per guadagnare tempo diede sfogo alla curiosità che serbava fin da bambino. ‘Ma la Befana allora è davvero una strega! E una strega porta i regali a dei bambini?’

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La vecchietta pensò di svelare la verità sulla sua vera natura, tanto era certa che il principe in seguito non avrebbe avuto scampo di uscire da lì. ‘No, non sono nata come una strega, ma ero una vecchietta ingenua, buona e paziente, che si accontentava di far felici i più piccoli e tutti gli altri. Poi scrivendo una letterina al caro Babbo Natale, mio superiore, uomo tirchio ed egoista, sono riuscita a far avverare il mio più grande desiderio: tornare giovane e bella per sempre e l’unico modo era diventare una strega. Così il nostro caro Santa Claus per pietà, sapendo che ero rinchiusa qui a vita, ha acconsentito a farmi diventare una strega. Eh già, peccato che non sapeva che i poteri di una megera sono molteplici e a volte molto potenti e perspicaci.’ Ribaldo con aria affranta e stanco di star a sentire quella sciocca storia si ribellò. ‘Ma cosa c’entro io con il vostro stupido patto? Non ho fatto niente per nuocervi!’ La donna con aria maliziosa gli fece l’occhiolino. ‘Ed è qui che ti sbagli….perché sei tu ad avermi sottratto il modo per essere eternamente giovane e piacente.’ ‘Io?’

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‘Sì, tu! Con i miei poteri mi trasformo in corvo e volo dalla torre fino al mio piccolo giardino per mangiare i miei cari raperonzoli, mi prendo cura di loro come figli, perché con un piccolo ma saggio incantesimo,ho dato loro il dono dell’eterna giovinezza! Ma devo coltivarli e mangiarli ogni giorno per far in modo che il mio desiderio si avveri per sempre. E tu, caro principe, poco fa ti sei cibato del mio tesoro senza tante cerimonie estirpando tutti i raperonzoli insieme alle loro radici! Hai rovinato tutto!’ Ribaldo improvvisamente si ricordò il sapore di quei frutti, dei quali poco fa non conosceva il nome. E ora capì il motivo per cui erano così buoni e rinvigorenti. ‘Scusami, io non sapevo che avessero quel tipo di potere. Non potevo immaginarmi che avessero un simile effetto!’ L’altra rise sguaiatamente e con fare crudele puntò il dito contro il principe. ‘Ma in fondo la colpa è solo tua e per me adesso l’unico modo per raggiungere il mio scopo è assorbire il potere dei Raperonzoli dal tuo corpo e per mia fortuna sei un ragazzo giovane e aitante, così mi basterà prosciugare la tua bellezza per essere una fanciulla felice per sempre!’

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Ribaldo spalancò gli occhi terrorizzato nel sentire la parola ‘prosciugare’. La Befana- strega senza neanche esitare con uno strano e intenso potere ipnotizzò Ribaldo e mentre una strana luce giallognola lo incantava, velocemente gli prosciugò tutta la gioventù e la bellezza che possedeva. Così appena la risata gracchiante della vecchia si tramutò nella cristallina risata di una fanciulla, il principe si ritrovò a terra quasi esanime, perché privato di tutta l’energia che la sua giovane età aveva posseduto. Ora era un vecchio dal viso e dalla mani grinzose, il suo corpo era scarno e ceduto sotto il peso dell’età. Egli si sentiva molto debole e le gambe sembravano neanche reggersi in piedi. Soltanto il colore dei suoi occhi, un tempo azzurro cielo, adesso sembrava riflettere un flebile riflesso di ciò che era stato. La Befana finalmente diventata Raperonzolo aveva ottenuto ciò che voleva. Ora sarebbe rimasta per sempre una giovane fanciulla agli occhi di tutti, privando egli della sua stessa vita piena di giovinezza.

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Così la strega travestita da ‘principessa’ lo lasciò lì da solo a far marcire la sua vita, mentre issandosi da sola sulla sua lunga treccia scese dalla torre e scomparve dagli occhi di Ribaldo per sempre. Il povero principe restò con due stracci indosso e trascinandosi a fatica nell’unica stanza della torre, riuscì a raggiungere una sgangherata sedia per riuscire a cavarci da una gamba almeno un solido bastone per alzarsi e sorreggersi durante la sua eterna condanna. Gli anni trascorsero, nessuno riuscì ovviamente a ritrovare il caro principe di Prima Luce. La sua famiglia l’aveva cercato per tanto tempo, ma nessuno era mai riuscito a giungere fino alla torre, anche se sarebbe stato inutile, perché nessuno l’avrebbe riconosciuto in quelle condizioni. Il tempo trascorse imperterrito senza sosta, mentre Ribaldo rinchiuso nella sua solitudine non faceva altro che pensare al Natale di quel maledetto anno, in cui la Befana nelle sembianze di strega gli aveva portato via tutto. La sua vita, la sua giovinezza, la sua bellezza e la sua gioia.

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L’unica cosa che era riuscito a fare era quello di aver contato i giorni da quel tragico evento, in cui l’improvvisa prigionia lo aveva condannato per sempre. Erano passati dieci lunghi anni e si stava avvicinando a breve nuovamente il Natale. Ormai mancavano pochi giorni alla Vigilia e qualcosa di nuovo accadde. Una dolce e sonora vocina stava canticchiando un motivetto infantile e allegro. Ribaldo, nonostante l’udito non fosse più quello di una volta, tese bene le orecchie per ascoltare meglio da dove provenisse. La voce arrivava dalla direzione delle conifere. E sembrava appartenere ad una baldanzosa anima femminile. Ribaldo cercò di non fare rumore e si affacciò cautamente alla piccola finestra della torre, ma sgranando la vista vide la presenza di una bellissima bambina dall’aria percettibilmente sperduta iniziare a saltellare giocosamente in mezzo alla radura. Poi guardandosi meglio intorno, si precipitò incuriosita a raccogliere dei piccoli fiorellini lì vicino.

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Con fare deciso e per niente impaurito diede un’occhiata furtiva alla lunga torre, ma poi continuò a raccogliere margheritine dal prato. Era ormai da infinito tempo che Ribaldo non vedeva nessuno e riavere davanti ai suoi occhi ormai vecchi e stanchi un essere umano, gli fece accendere una rabbia da tempo sopita, eppure ancora vivida ed esistente. Ma fu il momento in cui vide la fanciullina cogliere qualcosa di familiare e prezioso a far ribollire nelle sue vene l’intrepido coraggio di quando anche lui un tempo era un giovane bello e forte. Egli si strofinò bene gli occhi e fra le dita della bambina vide un minuscolo raperonzolo. All’insaputa della vecchia Befana un piccolo frutto era ricresciuto ed era rimasto a distanza di anni l’unico superstite di quel piccolo grande tesoro di giovinezza. A Ribaldo venne un dubbio, perché sapeva che la Befanastrega aveva i suoi poteri, mentre lui non li possedeva. E se la megera si fosse dimenticata di annullare l’incantesimo che donava a quei raperonzoli di arrivare all’eterna gioventù? Valeva la pena provare, ma all’improvviso la delusione lo colse, quando con aria affranta vide la bambina mangiare il

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piccolo raperonzolo in un solo boccone e rimanere estasiata dal suo sapore. Ma se ancora tutto non era perduto? Se come pensava il piccolo frutto della terra fosse stato sempre animato dal sortilegio, magari poteva ancora rimediare! Riconosceva che vendicarsi di una bambina innocente e così carina sarebbe stato davvero diabolico, ma la vendetta celata tutti quegli anni era talmente intensa da cancellare ogni tipo di pudore o sensibilità umana. Così decise di tentare l’impossibile. ‘Ciao bella bambina! Che fai tutta sola nel bosco?’ La piccola si voltò intimidita verso la torre e alzando uno sguardo impaurito verso la cima, vide un piccolo e magro vecchietto affacciato alla finestra del singolare edificio. ‘Mi sono persa, mentre stavo giocando a nascondino e forse mi sono allontanata troppo. Non avevo mai visto questo posto. Tu cosa ci fai lassù?’ Ribaldo rispose con aria triste. ‘Mi ha rinchiuso qui una brutta strega. Non so perché lo abbia fatto, ma purtroppo è tantissimo tempo che non esco da qui e ho trascorso tutti questi anni prigioniero della mia solitudine.’

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La fanciullina restò colpita dall’aria affranta di quel povero vecchio. ‘Mi dispiace, vorrei tanto aiutarti, ma non so come fare.’ Ribaldo con meschinità si approfittò della bontà e dell’ingenuità della bambina. ‘Cosa hai mangiato piccola di così buono? Sai è tanto di quel tempo che non ho il piacere di assaggiare e mangiare niente!’ La bambina con aria incuriosita sgranò gli occhi. ‘Come hai fatto allora a vivere tutto questo tempo? Da solo e senza mangiare?’ Ribaldo si accorse della furbizia della bambina. A occhio e croce doveva avere più o meno dieci anni. Comunque non poteva spiegarle che era vittima di un sortilegio, il quale nonostante tutto gli donava una vita eterna, seppur da eterno vecchio. ‘Cara, hai ragione, ma ho un piccolo tubo di scolo all’interno di questa angusta stanza, che mi dona per mia fortuna un scarso ristoro d’acqua. E sono ancora più fortunato quando piove.’ La bambina assentì non del tutto convinta. ‘Capisco, io prima non so cosa stavo mangiando, ma era una piccola pralina rossa con un dolce sapore bianco dentro! Vorrei tanto dartene una, ma non ce ne sono più, purtroppo.’

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Ribaldo sghignazzò fra sé e sé, poi si ricompose deciso a far arrivare fin lassù la bambina. Era l’unico modo per avere la piccola speranza di risorgere da quegli stracci che aveva addosso. Magari avere parte dell’energia di quella creatura poteva funzionare, come la Befana- strega aveva fatto con lui anni fa! ‘Oh, piccola mia, non fa niente. Mi basterebbe che tu venissi quassù a farmi un po’ di compagnia.’ La bambina per niente insospettita o impaurita, fu spinta dalla pietà che provava per l’uomo. ‘Sì, verrei volentieri. Ma come? La torre è alta e io sono piccola.’ A Ribaldo pensandoci su, venne in mente che nelle tasche del suo elegante vestito ormai vecchio, largo e ridotto ad uno straccio, c’erano due calamite. Era un piccolo regalo del suo vero padre quando era ancora un bambino. Sapeva benissimo che la torre era di ferro, così avrebbero funzionato nella rampicata della bambina. Erano un ricordo davvero importante per lui, ma sapeva che non appena la fanciullina fosse arrivata a destinazione, le avrebbe riprese con sé.

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‘Tieni queste due calamite. So che sei una bambina sicuramente coraggiosa, io te le do in prestito e tu usale sulla parete della torre.’ Ribaldo gettò i due oggetti fra l’erba della radura e la bambina le raccolse prontamente. ‘E ora come faccio?’ ‘Devi tenerle una nella mano sinistra e l’altra nella destra, basta che tu ti sorregga su esse, facendole strisciare saldamente sulla parete della torre fino in cima .’ La bambina un po’ stranita iniziò la sua rampicata, ma fu davvero brava, perché non soffrendo di vertigini per l’altezza della torre, arrivò piano piano fino alla finestra. Ribaldo le tese le mani gentilmente, poi rimise le due calamite nelle tasche della veste. ‘Oh, sei davvero molto bella! Grazie per aver mostrato coraggio ed esser arrivata fin quassù per tenermi compagnia.’ La bambina gli sorrise con affetto e dolcezza, ma non appena il cuore di Ribaldo si accorse di quella invidiabile fanciullezza, ripensò a tutto ciò, a cui lui aveva dovuto rinunciare. Dieci anni fa era stato il peggior periodo natalizio della sua vita e stavolta avrebbe fatto di tutto per riavere la vita di un tempo.

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Non ci pensò due volte e anche se era quasi sicuro che l’idea che aveva in mente non avrebbe funzionato, tentò con tutte le sue forze di immortalare lo sguardo della bambina. La piccola all’inizio restò immobile, poi una strana luce gialla si sovrappose alle chiare e trasparenti iridi del suo sguardo. Il vecchio sapeva che aveva mangiato un solo raperonzolo, ma la fermezza con cui voleva possedere la stessa eterna giovinezza conquistata dalla Befana non lo fermò in tempo. Il veloce e violento flusso del sortilegio inaridì completamente il corpo della bambina, che alla fine stramazzò a terra senza vita. Il vecchio ritornato finalmente principe si guardò con aria sorpresa e soddisfatta. La sua idea aveva funzionato, era al settimo cielo, ma vedendo il corpo esanime della fanciullina provò uno strano rimorso. Egli aveva creduto di succhiarle parte dell’energia diventando per sempre giovane e che alla fine lei potesse diventare vecchia per sempre, ma rimanendo viva. Egli si accasciò ai piedi della bambina, cercando di rianimarla. Il battito non dava più segno di vita, non c’era più niente da fare. Forse aveva esagerato ed era riuscito a privare di tutta la sua energia un essere così piccolo.

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Per la sua sete di vendetta e per uno stupido capriccio aveva ucciso qualcuno. Una persona innocente che si era fidata di uno sconosciuto senza riserve. Quando la Befana- strega l’aveva privato di parte della sua giovinezza, lui era ancora un adulto, mentre lui si era vendicato su una dolce e ingenua bambina strappandola alla vita. Sì, aveva ottenuto quello che voleva da tempo, ma ne valeva la pena se aveva privato della vita una così cara creatura? No, il suo cuore un tempo pulito da ogni sete di potere gli diceva che era stato crudele. Ma che altro poteva fare adesso? D’un tratto si accorse che al collo della bambina vi era un bellissimo medaglione d’oro. Era una di quelle catene preziose che si aprivano in due parti speculari e rotonde. Con mani tremanti lo aprì e all’interno vide sulla parte sinistra il nome della bambina. ‘Giselda’. Sotto riportava la data di nascita, perché rivelava l’età che lui stesso aveva creduto avesse. Aveva ucciso una bambina di dieci anni.

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E scoprendo anche la parte destra interna al medaglione scoprì un’altra irrimediabile verità, che avrebbe logorato il suo cuore per sempre. C’era raffigurato un prezioso stemma reale, lo stesso stemma della sua famiglia e del regno di Prima Luce. Fu allora che il principe comprese di aver commesso un ignobile delitto. Quella bambina altro non era che la dolce creatura che dieci anni prima sua madre aveva avuto dal suo patrigno. Dieci anni prima quando lui era fuggito da tutto e da tutti, dall’amaro destino di non poter diventare subito erede del titolo del suo vero e defunto padre. Ora tutta quella rabbia e quel risentimento era stato pagato da una creatura innocente, che sarebbe dovuta essere la sua piccola sorellastra. Ecco, perché aveva subito notato una strana e curiosa familiarità in quella bambina. La sua anima fu rotta dall’angoscia e il suo cuore fu straziato dal dolore, mentre copiose lacrime bagnarono i candidi boccoli della cara Giselda, ormai priva di vita.

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Anche quel Natale fu come una maledizione per Ribaldo, perché dentro di lui non aveva portato altro che tristezza e sofferenza . Forse la Befana su una sola cosa aveva ragione. L’umanità dovrebbe imparare che le favole non esistono e c’è sempre qualcosa di oscuro dentro l’anima di ogni uomo. Il destino l’aveva punito ancora una volta per sempre. Il Raperonzolo nelle fiabe è solo un raperonzolo, ma quando diventa realtà rappresenta le più forti tentazioni a cui ognuno di noi non sa rinunciare. E per chi ancora ci crede, le maledizioni non esistono, ma vi è soltanto il destino che prima o poi è pronto a ripagarci con la stessa natura delle azioni che compiamo.

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Biografia Autrice Daniela Iannuzzi Mi chiamo Daniela, ho 35 anni e sono nata a Messina. Da circa 15 anni vivo nella piccola ma splendida isola di Lipari. La passione per i libri e la scrittura è nata quasi insieme a me, mi è sempre piaciuto dar sfogo alla mia fantasia scrivendo o vivendo in prima persona, tramite giochi con le bambole, tutte le storie che creavo. Adoro la natura e gli animali, vivo in campagna circondata dal verde, e proprio guardando questi splendidi paesaggi trovo la mia ispirazione. Lavoro in un negozio come commessa ma confesso che appena posso sono subito lÏ a scrivere, per questo tengo sempre un quaderno in borsa. Leggo di tutto, non ho un genere preferito. Di solito preferisco scegliere in base all'umore, diciamo che sono una lettrice onnivora. Il mio passatempo preferito? Stare comodamente sdraiata sul divano in compagnia del mio cane, gustandomi un buon libro naturalmente. Il mio primo lavoro da esordiente si chiama Il Cuore e la Maschera. Si tratta di un romance storico, una sorta di spin-off del Fantasma dell'Opera. Lo potete trovare su Amazon in versione ebook o su Ibs in versione cartacea. Per

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quanti fossero curiosi e volessero scoprire qualcosa in pi첫...non avete che da far un salto sulla mia pagina Fb: https://www.facebook.com/ilmondooltrelospecchio

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Un “tenero” Natale. Di Daniela Iannuzzi

S

e qualcuno fosse così temerario da avventurarsi fino al centro del Polo Nord, non noterebbe altro che un’interminabile distesa di ghiaccio.

Eppure, non tutto è sempre come sembra… Se quel qualcuno s’inginocchiasse esattamente nel centro e tastasse il ghiaccio con le mani, scoprirebbe in una botola nascosta l’entrata di uno dei luoghi più amati dai bambini di tutto il mondo: La Fabbrica di giocattoli di Babbo Natale. Mancavano ormai pochi giorni alla sera della Vigilia e, come tutti gli anni, la fabbrica di giocattoli era in gran fermento. Ovunque piccoli elfi indaffarati correvano da una parte all’altra, alcuni assemblavano e dipingevano giocattoli, mentre altri sfornavano senza sosta dolci di pan di zenzero e caramelle colorate.

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L’aria era satura di un forte odore di vernice e legno, misto a cannella. «Aaa…mi ci voleva proprio!» Babbo Natale, appena svegliatosi dal suo riposino, si stiracchiò guardando soddisfatto i suoi piccoli aiutanti. «Che buon odore…adoro il profumo del Natale» disse, dirigendosi verso la comoda poltrona posta davanti al fuoco. Poco dopo si sporse verso il tavolinetto adiacente e afferrò un piccolo campanellino che agitò con fare impaziente. Subito, un piccolo elfo dal cappello a punta, sbucò da un angolo trascinando un pesante sgabello poggiapiedi. Babbo Natale si sfilò le calde pantofole e vi poggiò sopra le caviglie, godendosi tutto il tepore del fuoco. «Non c’è niente di meglio del fuoco per scaldarsi i piedi, non trovi?» Non ricevendo risposta l’uomo continuò «sai cosa mi farebbe davvero felice? Avrei proprio voglia di una buona tazza di cioccolata calda»esclamò facendo l’occhiolino al piccolo elfo dal cappello a punta. “Non si è neanche alzato e già comanda” pensò questi sbuffando mentre si dirigeva stancamente verso la cucina. Lì l’odore dei dolci e delle caramelle era ancora più forte. Un elfo femmina, grassottella e sudata, era intenta a tirar fuori

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dal forno con una grossa pala di legno piccoli omini di pan di zenzero. «Che muso lungo. Cosa succede?» chiese non appena vide comparire sulla soglia il piccolo elfo dal cappello a punta. «Il vecchio vuole la sua cioccolata» rispose l’elfo con voce stridula. Per tutta risposta, l’elfo femmina scosse il capo e tornò alla sua occupazione. Il piccolo elfo si mise subito all’opera per preparare la cioccolata nel minor tempo possibile. Non appena l’enorme tazza ne fu ricolma, si tolse il cappello con fatale rassegnazione e, sistematosi a fatica il pesante vassoio sulla testa, salì per le scale. «Oh…oh…oh…finalmente. Mi stavo chiedendo che fine avessi fatto.» Babbo Natale prese tra le mani la tazza fumante e l’avvicinò al naso inalandone il profumo. Con una smorfia di disappunto poggiò nuovamente la tazza sul vassoio. «Che pasticcione sei, hai scordato la cannella. Lo sai che la cioccolata mi piace con un’abbondante spolverata di cannella» lo rimproverò bonariamente Babbo Natale. L’elfo non poté fare altro che tornare in cucina, mortificato e avvilito.

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Dopo essersi abbondantemente rifocillato, Babbo Natale decise di fare un giro di controllo alla catena di montaggio dei giocattoli. Non appena aprì la pesante porta dello stabile, l’aria calda e satura di odori lo investì. L’enorme laboratorio – officina, lanciato al massimo ritmo di produzione, sembrava una creatura dotata di vita propria. Al centro di quella massa pulsante vi era un nastro trasportatore lungo il quale i giocattoli prendevano forma. Iniziando dalle parti più piccole venivano pian piano assemblati, rifiniti e infine impacchettati. Il grande nastro, simile a un lungo serpente nero, si muoveva su massicci rulli sferraglianti e terminava con una brusca pendenza il suo lungo, lento ma inesorabile percorso verso un qualcosa che troneggiava quasi in fondo al laboratorio. Si trattava del trita – giocattoli, una nera mostruosità la cui bocca, composta da affilate lame d’acciaio sempre in movimento, segnava la fine dei giocattoli difettosi. Ciò che restava di essi, veniva sputato fuori e usato come combustibile per le stufe sparse per la fabbrica.

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Babbo Natale rimase per qualche momento a osservare compiaciuto tutto il movimento della produzione. «Forza ragazzi. Natale è alle porte e ci sono ancora tanti giocattoli da ultimare e incartare» gridò per farsi sentire in mezzo a tutto quel baccano. In quel mentre un elfo anziano gli si avvicinò timidamente. «Signore…» esordì togliendosi il cappello e tenendolo con entrambe le mani davanti al petto. «Signore…noi lavoriamo continuamente e senza sosta alcuna da tanto tempo…siamo molto stanchi, chiediamo solo qualche ora…per riprendere fiato». «Oh…oh…oh…suvvia, coraggio» lo interruppe Babbo Natale, «non è proprio il momento di fermarsi» disse, incurante delle lamentele del piccolo aiutante. Proprio in quel momento si udirono delle urla, entrambi volsero lo sguardo verso cercando di capire cosa stesse accadendo. «Oh Gesù!» esclamò l’elfo anziano. Due piccoli elfi operai, molto stanchi e distratti dal troppo lavoro, si erano attardati a eseguire l’assemblaggio di alcuni giocattoli e solo il tempestivo intervento dei loro compagni

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aveva evitato, all’ultimo istante, che venissero risucchiati nelle fauci del trita – giocattoli. Per un attimo non si udì altro che lo sferragliare del nastro e il macinare delle lame di quell’aggeggio infernale. «Non battete la fiacca! Tornate al lavoro miei piccoli amici» esclamò Babbo Natale, incurante della spaventosa scena di poco prima. «Dateci dentro. Migliaia di bambini aspettano i doni con impazienza e non vogliamo certo deluderli. Lavorate con gioia e, mi raccomando, fate attenzione a non finire nel trita – giocattoli» disse Babbo Natale ridendo di gusto con le mani poggiate sul ventre prominente. A quella battuta di cattivo gusto, decine di piccoli occhietti maligni si fissarono su di lui. Babbo Natale sentì un leggero brivido d’inquietudine percorrergli la schiena. «Orsù, non fermatevi. Lavorate e, soprattutto, sorridete.» Con un falso sorriso stampato sul volto, Babbo Natale girò le spalle e lasciò la stanza. «Aspetti…Signore, dobbiamo ancora decidere il menù per il pranzo di Natale» ansimò l’elfo anziano rincorrendolo.

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«Oh…oh…oh…ma certo, il pranzo di Natale. Pensateci voi, io sono così stanco e penso che andrò a dormire». Dopodichè scomparve, lasciando il suo interlocutore a bocca aperta. «Stanco? Lui è stanco?» sbraitò l’elfo anziano paonazzo in volto. «Noi ci spacchiamo la schiena tutti i giorni e questo è il ringraziamento? Non fa altro che lamentarsi tutto il giorno senza muovere un dito. Se ne sta seduto in poltrona, servito e riverito, mentre noi sgobbiamo e corriamo a destra e a sinistra senza sosta» disse un elfo dal grosso naso prendendo la parola. «Già, è vero!» esclamarono in coro tutti gli elfi. «Dovremmo andarcene e lasciare solo quel vecchio rimbambito. Senza di noi sarebbe costretto a chiudere la sua bella fabbrica» proseguì l’elfo dal grosso naso prendendo posto in cima a uno scatolone di legno. «Dobbiamo fargliela pagare» esclamò con sguardo maligno un elfo con una folta barba. «Propongo di abbandonare subito la fabbrica di giocattoli» disse un elfo alto e magro. «Potremmo provare a chiedere un aumento» propose un giovane elfo con gli occhiali.

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«Secondo me si merita una bella lezione». Dal fondo della stanza emerse il piccolo elfo dal cappello a punta, ancora rancoroso per l’andirivieni fattogli fare da Babbo Natale quel pomeriggio. «Ma cosa possiamo fare noi? Siamo piccoli e lui è grande e grosso» disse un elfo femmina dai grandi occhi blu. «Vero, ma noi siamo in tanti mentre lui è solo» esclamò l’elfo dal grosso naso, dall’alto della scatola. «Già, lui è solo…» gli fece eco il piccolo elfo dal cappello a punta, sfregandosi le mani con sguardo maligno. In breve ne nacque una discussione che divenne sempre più animata, fino a trasformarsi in un vero e proprio caos. Vennero vagliate varie tipologie di vendetta: sale al posto dello zucchero nel caffè, polvere pruriginosa tra le lenzuola, peperoncino in polvere sulla cioccolata. Nessuna idea, per quanto buona, sembrava fare al caso loro. «Potremmo mettergli paura.» Tutte le teste si voltarono verso l’angolo destro della sala dove, addossato alla parete con le mani nelle tasche, un piccolo elfo dal mento a punta se ne stava rincantucciato. «Vieni avanti ragazzo, non essere timido» l’invitò l’elfo anziano ma, vedendo che non accennava a fare un passo, si

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fece largo nel gruppo e lo spinse bonariamente fuori. L’elfo dal grosso naso scese dallo scatolone per fare posto al nuovo arrivato e aiutò il piccolo elfo dal mento a punta a salire sul palco improvvisato. «Ho pensato…- iniziò timidamente – vedete…ho un cugino che lavora nella fabbrica di Halloween, è un gran burlone e ama i travestimenti. Quando ci vediamo mi racconta sempre i suoi scherzi, nei minimi dettagli. Potremmo trarne spunto e spaventare un po’ il vecchio» concluse tutto d’un fiato. Ci fu un minuto di assoluto silenzio, durante il quale i piccoli elfi si guardarono l’un l’altro. Poi, arrivò il suono scrosciante di un grosso applauso corale. «Allora è deciso, prepareremo un bello scherzo per la sera della Vigilia. Ma fino a quel momento dovremo stare molto attenti, il vecchio non deve sospettare nulla mi raccomando. E adesso, che tutti tornino alle loro occupazioni» terminò l’elfo anziano, sciogliendo la stramba assemblea. Il resto della settimana trascorse in un baleno. Gli elfi si diedero un gran daffare, Babbo Natale giurò che non li aveva mai visti lavorare così alacremente e con tanta gioia dipinta nei loro piccoli visi. Persino la fabbrica sembrava diversa, piena di

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vita, colori e suoni. Lavorando a quel ritmo avrebbero, di certo, ultimato tutti i preparativi con largo anticipo. Non dovendo sorvegliare il lavoro, Babbo Natale potè dedicarsi al suo passatempo preferito: riposarsi, sprofondato nella comoda poltrona, davanti al camino. La sera precedente alla Vigilia, Babbo Natale era chiuso nella sua stanza che si trovava all’ultimo piano della sua bizzarra dimora. Era notte fonda e la fabbrica dei giocattoli era buia e silenziosa. Seduto alla sua scrivania, Babbo Natale era intanto a completare l’ultima fase del lavoro. Tirò fuori da un cassetto un grosso libro, la copertina era di pelle color borgogna, usurata e stinta in vari punti. Lo aprì rivelando al suo interno pagine e pagine, ingiallite dal tempo, coperte da una fitta scrittura. Quel libro conteneva l’elenco di tutti i bambini del mondo, ed era in continuo aggiornamento. Sfogliò le pagine fino a trovare l’elenco relativo all’anno in corso, poi preparò la boccetta dell’inchiostro. Da una piccola scatola in velluto a forma di stella di Natale, fece capolino un anello d’oro massiccio. Babbo Natale lo strinse tra le grosse dita paffute e cercò d’infilarselo. Dopo vari tentativi, perché l’anello non voleva proprio saperne di entrare, riuscì nell’impresa. Ne contemplò la lavorazione con un sorriso

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soddisfatto, non vi erano pietre preziose su quell’anello, ma un sigillo recante l’effige di Babbo Natale. “Dovrei mettermi a dieta o il prossimo anno non entrerò neanche nel costume” pensò. Tornò a concentrarsi sul libro, con attenzione intinse l’anello nell’inchiostro verde abete e appose il suo sigillo sui nomi di tutti i bambini meritevoli di ricevere un regalo. Con soddisfazione constatò che la lista andava accorciandosi di anno in anno. Meno regali significava meno comignoli fumosi in cui spingersi a fatica e più tempo per poltrire davanti al fuoco. Terminato il lavoro chiuse il libro e lo depose nel cassetto, conservò la boccetta dell’inchiostro e procedette a sfilarsi l’anello. Purtroppo per lui, il monile non voleva proprio saperne. Provò di tutto, anche col sapone, alla fine sudato e paonazzo per lo sforzo dovette desistere e lasciarselo al dito che, nel frattempo, era diventato violaceo e gonfio. Irritato e dolorante andò a dormire.

Finalmente la tanto attesa sera della Vigilia arrivò. Babbo Natale, nervoso come ogni anno, ultimava i preparativi nella sua stanza.

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Il famoso completo rosso e bianco era poggiato sul letto, lavato e stirato. Lo contemplò per un attimo, prima di tirar fuori da una scatola, nascosta sul fondo dell’armadio, una grossa pancera. Rassegnato, Babbo Natale infilò le grasse gambe in quell’attrezzo di tortura e iniziò a tirarla su. Arrivata a metà coscia, la pancera si bloccò. Con sforzi indicibili, l’anziano uomo riuscì a farla salire fin sotto il ventre prominente. “Manca poco, maledetta pancera” pensò, mentre si sdraiava sul letto per consentire all’indumento una più facile risalita. Una volta indossatala, Babbo Natale si alzò rigido dal letto e guardò allo specchio il risultato. La pancera lo strizzava fino all’inverosimile, faticava persino a respirare. Le cuciture della guaina, benchè elastiche, erano tese allo spasimo. Doveva stare attento a come muoversi o sarebbe scoppiato tutto. S’infilò il costume rosso e bianco e allacciò la cintura nera. «Niente male…davvero niente male» disse al suo riflesso nello specchio. Mancava solo un piccolo particolare: la parrucca. Eh già! Babbo Natale aveva da tempo perso i suoi candidi capelli.

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Una volta indossatala si diede un’ultima controllata. Com’era diversa la sua immagine reale da quella che gli abitanti della terra si erano fatti. Se avessero saputo che i fluenti capelli e le gote rosse, con cui veniva di solito raffigurato, non erano altro che una parrucca e l’effetto della pancera che lo stringeva fino a soffocarlo, chissà come avrebbero reagito. Con una scrollata di spalle liquidò il deprimente pensiero, c’era del lavoro da sbrigare. Aprì la porta della sua stanza e uscì sul pianerottolo. Subito notò che c’era qualcosa di strano: non un suono si udiva in tutto l’edificio. La fabbrica era stranamente silenziosa. “Che strano” pensò, mentre scendeva le scale. Di solito i momenti che precedevano la sua partenza erano sempre cagione di grande confusione. I piccoli elfi erano intenti ad ammucchiare tutti i pacchi in grossi sacchi di tela e a disporli nel retro della slitta. Inoltre, c’era sempre qualche ritardatario che non aveva terminato in tempo i compiti assegnatigli e si beccava una bella ramanzina. Ma quella sera l’intero edificio sembrava disabitato.

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Convinto che i suoi aiutanti avessero ultimato per tempo tutto il lavoro, si diresse alle stalle convinto che li avrebbe trovati là. Per questo rimase di stucco non appena, varcata la soglia, trovò la stalla deserta. La slitta, parcheggiata al solito posto, era vuota. Dei regali non c’era traccia. Le renne ruminavano placidamente ancora nei loro recinti. Lo stupore si tramutò in rabbia, quei buoni a nulla dei suoi aiutanti avevano di sicuro combinato qualche guaio. “Oh, ma mi sentiranno quei fannulloni. Questa è la volta buona che li licenzio tutti” pensò, dirigendosi verso il magazzino – deposito a passo di carica. Le porte erano chiuse, Babbo Natale le spalancò e constatò con disappunto che anche quella stanza era disabitata. I pacchi giacevano alla rinfusa sul pavimento, alcuni giocattoli erano rimasti sul nastro trasportatore, ancora in attesa della confezione. Quel silenzio surreale venne interrotto da un rumore, un ronzio prolungato. Lo strano suono sembrava provenire laboratorio. D’un tratto ebbe un’illuminazione: ecco dov’erano tutti! Evidentemente le cose stavano peggio di quel che credeva. Di certo gli elfi erano in ritardo sul lavoro.

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Sempre più alterato spalancò con violenza le porte dell’enorme stanzone, posto proprio al centro della fabbrica, e aprì la bocca pronto a sbraitare ma si bloccò. Anche con tutte le luci spente si capiva che la stanza era deserta, eccezion fatta per quel fastidioso rumore di sottofondo. “Quegli scansafatiche, devono aver dimenticato le macchine accese. Lascia che li trovi e saranno dolori” inveì mentalmente. Annaspando nel buio cercò gli interruttori della corrente. Con un ronzio, seguito da pallidi lampi tremolanti, le luci si accesero e lo spettacolo che si trovò di fronte lo sconvolse. Mai in tutti i suoi anni, ed erano tanti, aveva visto un orrore simile: le pareti della stanza erano ricoperte da schizzi di sangue, c’era sangue anche sul pavimento e sulla porta. Persino la sua mano ne era imbrattata e Babbo Natale, disgustato, cercò inutilmente di pulirla sui pantaloni, ma senza successo. L’odore era insopportabile. Barcollando, Babbo Natale si avvicinò alla fonte del rumore. Il nastro trasportatore e il trita – giocattoli erano accesi e quando giunse nei pressi di quest’ultimo dovette tapparsi il naso, poiché l’odore era ancora più forte. Le fauci della macchina erano chiazzate di sangue rappreso e continuavano a macinare una strana poltiglia rossastra e grumosa. Il rumore

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proveniente dalla bocca della macchina gli provocò un conato, ma fu nulla al confronto di ciò che vide nella vasca di espulsione: un enorme ammasso di carne macinata e sanguinolenta. Bianco come la cera, Babbo Natale prese a tremare violentemente mentre scorgeva, qua e là in quella poltiglia disgustosa, brandelli di stoffa variopinta. Quello era quanto restava dei suoi aiutanti. Questa scoperta lo sconvolse completamente. I piccoli elfi, sicuramente provati dal lavoro e dalla stanchezza, erano finiti tra le fauci di quell’aggeggio infernale. Altri, probabilmente, nel tentativo di soccorrerli erano stati a loro volta risucchiati…era accaduto davvero! Arretrando terrorizzato, Babbo Natale si addossò alla parete. In breve il rimorso e la paura per quanto accaduto gli piombarono addosso come un macigno. Doveva cercare aiuto, ma chi avrebbe risposto alla sua invocazione in quella landa deserta e, per di più, la sera della Vigilia? Una fitta al petto lo colse di sorpresa, istintivamente si portò una mano alla zona dolente e s’inginocchiò. Aveva la gola secca, doveva bere qualcosa, ma non appena formulò quel pensiero si accasciò a terra morto.

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Dopo pochi momenti, una piccola testa fece capolino da dietro una pila di scatoloni, imitata subito dopo da altre teste, che sbucarono dai posti più impensati. Gli elfi si radunarono lentamente attorno al corpo esanime di Babbo Natale. C’era sgomento nei loro volti mentre constatavano l’effetto devastante del loro scherzo. «Oh Santo Cielo! Abbiamo ucciso Babbo Natale!» esclamò l’elfo dal grosso naso. «Forse è solo svenuto» sussurrò speranzosa un piccolo elfo femmina, sfiorando il corpo con la punta del piedino. «No, è proprio morto!» decretò un elfo dal mento a punta. «E ora? Cosa faremo?» chiese l’elfo femmina dalla grossa treccia bionda. La poveretta se ne stava in un angolino e sembrava disperata. «So come ti senti. Mancherà a tutti noi, ma è stato solo un tragico incidente» le sussurrò l’elfo anziano, cercando di rincuorarla. «Ti sbagli, non sono in pena per lui, almeno non così tanto. Era un gran prepotente e ci faceva lavorare come schiavi. Mi dispiace solo per tutta questa buona carne, cosa preparerò

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domani? Dopotutto, con o senza di lui, sarà comunque Natale, e non ho nulla di pronto da mettere in tavola». «Su non angustiarti, qualcosa rimedierai. Sei o non sei la cuoca migliore di tutto il Polo Nord^» L’elfo femmina diventò tutta rossa, mentre l’elfo anziano spostava la sua attenzione all’intero gruppo. «Adesso amici dobbiamo pensare ai bambini. Immaginate i loro visetti tristi quando, domani, non troveranno regali sotto l’albero». «E’ vero! Ha ragione!» esclamarono in coro gli altri elfi. «Poveri bambini, come possiamo aiutarli?» domandò l’elfo con gli occhiali. Tutti si guardarono smarriti ma nessuno si fece avanti. «Ascoltatemi!» l’elfo anziano attirò la loro attenzione, «Abbiamo servito Babbo Natale per anni e anni, facendo anche gran parte del suo lavoro. Sono sicuro che, se ci mettiamo d’impegno, potremo benissimo consegnare noi tutti i regali.» A quell’esclamazione un mormorio si diffuse in tutta la sala. «Abbiate fiducia in voi, non possiamo tradire la fiducia dei bambini di tutto il mondo. Domani sarà Natale e avranno i loro regali».

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Un applauso e un coro di grida festanti siglò la conclusione del discorso. Finalmente il momento che avevano atteso da tanti anni era giunto: anche loro avrebbero avuto una parte importante nel Natale.

25/12/….

«È pronto in tavola» chiamò con voce squillante l’elfo femmina dalla grossa treccia bionda. Un esercito di piccoli elfi prese posto alla lunga tavola nel salone delle feste. La notte della Vigilia era stata un vero successo. Organizzati a squadre, si erano occupati di tracciare il lungo itinerario, di preparare la slitta e le renne, e di caricare i grossi sacchi di tela stracolmi di regali. Era rimasto solo un problema da risolvere: chi avrebbe guidato la slitta? Si era deciso di tirare a sorte per scegliere i due candidati che avrebbero fatto le veci di Babbo Natale. La fortuna aveva scelto il giovane elfo con gli occhiali e l’elfo dal grosso naso.

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Un elfo femmina dalle guance rosse, si era presa carico di confezionare, dal vestito del defunto Babbo Natale, due completini identici all’originale ma in scala ridotta. I due erano partiti, tra applausi e incoraggiamenti dei loro amici, con un’unica missione: consegnare tutti i regali ai bambini presenti sulla lista. La spedizione aveva avuto esito positivo e, quando le luci dell’alba avevano reso iridescente il ghiaccio del Polo Nord, i due elfi erano rientrati alla base, atterrando dopo una larga virata a mo’ di parata e mostrando con orgoglio la slitta completamente vuota. Ora, seduti ordinatamente a tavola, guardavano con impazienza i piatti vuoti pregustando il delizioso pranzetto. Non appena l’elfo femmina dalla grossa treccia bionda fece la sua comparsa, tutti gli occhi si puntarono sul grande pentolone da cui fuoriusciva un profumo molto invitante. «Anche per quest’anno festeggeremo il Natale col mio famoso stufato» esclamò soddisfatta deponendo, con qualche difficoltà, l’ingombrante pentolone sul tavolo. Intinse il mestolo nel pentolone e cominciò a colmare i piatti dei commensali.

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«Urrà…urrà» gridarono in coro i piccoli elfi affamati, innalzando i cucchiai e leccandosi le labbra. L’elfo anziano prese posto a capotavola, guardò lo stufato e se ne portò una generosa porzione in bocca. Chiuse gli occhi per assaporarlo meglio e, alla fine, emise un sospiro soddisfatto. «Quest’anno hai superato te stessa» esclamò con un grosso sorriso stampato sul volto grinzoso. L’elfo femmina dalla grossa treccia arrossì, sbattendo civettuole le lunghe ciglia bionde. Gli elfi senza attendere oltre si gettarono sui piatti con voracità, alcuni furono talmente veloci da chiedere il bis più volte. Per un po’ non si sentì altro che il cozzare dei cucchiai sul fondo dei piatti, tutti erano concentrati sullo stufato e nessuno parlava. «Ehm…avrei qualcosa da dire» esclamò nel silenzio l’elfo dal grosso naso, alzandosi in piedi. Parecchi cucchiai rimasero fermi a mezz’aria mentre i suoi simili lo fissavano curiosi. «Vorrei fare un brindisi» propose, riempiendo il calice di vino rosso e dolce e alzandolo in aria.

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Tutti lo imitarono. «Brindo a tutti voi. Senza il vostro aiuto non saremmo riusciti a completare tutti i preparativi e a consegnare per tempo i regali. Brindo alla cuoca che ha preparato questo pranzo degno di un Re. Brindo agli abitanti della Terra, in special modo ai bambini augurandogli un sereno Natale. Un piccolo pensiero va anche a Babbo Natale, che da quest’anno non sarà più con noi. Molti di voi penseranno che non si meriti di aver parte al brindisi, e come darvene torto. Non si può certo dire che fosse una brava persona, ci ha sempre sfruttati e maltrattati. Ma una cosa la devo dire lo stesso, e forse sarete d’accordo con me nel riconoscere che, nonostante tutti i suoi brutti difetti, a suo modo era tenero. Ma ho parlato troppo, lascio la parola al mio compagno di viaggio per gli auguri finali» concluse tornando a sedere tra i complimenti per il bel discorso. Il giovane elfo con gli occhiali non era preparato a intervenire, incalzato dai suoi compagni cercò di mandar giù senza masticare la cucchiaiata di stufato che aveva in bocca. Fece per alzarsi per chiudere il brindisi, quando cominciò a tossire, imporporarsi e infine soffocare.

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L’elfo alto e magro, sedutogli accanto, capì subito che qualcosa gli era andata di traverso. Nell’intento di aiutarlo, prese a dargli delle energiche pacche sulla schiena. Alla fine, con un violento colpo di tosse, il giovane elfo con gli occhiali si liberò del boccone sputandolo proprio in mezzo alla tavolata. Con sgomento tutti guardarono un sorridente Babbo Natale scrutarli dall’effige incastonata su un anello d’oro, ancora infilato nella falange di un dito. Un pesante silenzio scese sulla tavolata ma durò appena un battito di ciglia; con un largo sorriso il giovane elfo con gli occhiali alzò il suo calice: «Buon Natale a tutti». «Buon Natale» risposero gli altri in coro e, ridendo, ripresero a festeggiare.

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Biografia Autrice Noemi Gastaldi è nata e cresciuta in provincia di Torino, città in cui attualmente risiede. Ama scrivere fin da quando era piccola, ma la sua prima pubblicazione risale al 2009, quando collabora al romanzo erotico-sentimentale “22 fiori gialli”, attualmente edito da Eroscultura. Nel 2011, affascinata dal mondo sommerso dell’arte indipendente, riprende in mano una vecchia bozza ideata anni prima e mette le basi per la saga “Oltre i confini”. Il primo volume della stessa, “Il tocco degli Spiriti Antichi“, viene autopubblicato nel novembre 2012. Il secondo volume, "Il battito della Bestia", viene autopubblicato nel gennaio 2014. L'uscita del volume conclusivo, è prevista nel 2015."

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La magia del Natale Di Noemi Gastaldi

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er me e mio fratello non fu difficile capirlo: la totale inadeguatezza del nostro “Babbo Natale”, era del tutto imputabile a quel tarlo schifoso che si nutriva della mente

di nostro padre. Io e Stefano avevamo quindici anni, entrambi. Coincidenza più che auspicabile, per due gemelli. La nostra sorellina più piccola invece, di anni ne aveva soltanto cinque: per lei, il fatto che il vecchietto vestito di rosso comparisse sempre e solo dopo una provvidenziale scomparsa del suo papà, non era più che una coincidenza. Ricordo bene il suo sconcerto nel vedersi recapitare, direttamente da quel mito natalizio, un bel trapano multifunzione:

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«Nadia, non fare quella faccia, Babbo Natale sta certamente scherzando, non è vero?» Aveva provato a dirle nostra madre, sperando che nel sacco fosse rimasto qualcosa di adatto a lei. Ma non c'era più nulla: i regali si erano esauriti in quattro attrezzi da bricolage, che mio padre doveva aver scelto e impacchettato in modo del tutto casuale. Così mia madre era corsa in camera sua, per poi tornare nel grande salone addobbato con un grosso pacco rivestito di carta dorata; lo aveva dato subito alla bambina, prima ancora che avesse il tempo di mettersi a piangere. La mamma se lo aspettava, evidentemente: aveva lasciato che mio padre si occupasse ancora una volta di quella messa in scena, ma aveva immaginato fin da subito che la sua malattia non gli avrebbe concesso di portarla a termine nel migliore dei modi. E mentre la piccola scartava il pacco giusto, Babbo Natale si guardava attorno frastornato: un brivido mi percorse, quando lessi nei suoi occhi la consapevolezza, la certezza di non esser più capace di fare quel che aveva sempre fatto. Solo Nadia non riuscì a capire che quel Babbo Natale non lo avremmo rivisto mai più. Non ci vollero che pochi mesi infatti, perché il tumore al cervello lo uccidesse.

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Ora è passato un anno, un anno esatto. Vigilia di Natale, di nuovo. Nadia ancora chiede quand'è che tornerà papà... possibile che per una bimba della sua età, la morte sia qualcosa di tanto incomprensibile? «Non tornerà amore mio» le risponde sempre nostra madre «è andato in cielo...» aggiunge laconica. Non la correggo, dir “sotto terra” suonerebbe peggio. Si capisce che le festività saranno di una tristezza infinita quest'anno, ma la mamma insiste a dire l'opposto: per lei, sarà proprio la “magia del Natale” a farci tornare la voglia di andare avanti. Trovo fuori luogo il suo ottimismo, ma suppongo sia giusto assecondarla: così, oggi io e Stefano ci troviamo in un centro commerciale, nel reparto dedicato alle decorazioni. Vogliamo ricomprare ogni cosa, dev'essere tutto nuovo. Senza bisogno di parlarne, ci dirigiamo subito alla zona dove le decorazioni assumono sfumature che vanno dal blu cobalto all'argento: vogliamo creare un'atmosfera assolutamente diversa da quella degli anni passati, popolati da rosso e bianco, da fantocci che sorridono e caramelle di dimensioni improbabili.

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Stefano inizia a prendere una grande quantità di festoni argentati, io cerco delle palline coordinate: siamo sulla stessa lunghezza d'onda io e lui, è sempre stato così. A volte ho addirittura l'impressione che riesca a leggermi nel pensiero, tanto che inizio a credere che le varie leggende sui gemelli abbiano più che un fondo di verità.

Quando arriviamo davanti a casa e vediamo i primi leggerissimi fiocchi bianchi sorridiamo, insieme. Rientriamo ottimisti, quasi del tutto persuasi che addobbare il salotto sarà, se non divertente, almeno non troppo spiacevole: «Avete visto Nadia?» Incalza mia madre. «Non vedi che siamo appena entrati in casa?» faccio notare; abbiamo i giubbotti addosso e la neve tra i capelli, per non parlare delle grosse buste piene di decorazioni che ancora gravano sulle nostre braccia: come potremmo sapere dov'è andata a nascondersi la nostra sorellina monella? «Hai guardato sotto il letto?» chiede Stefano. «Ma certo…» risponde mia madre. «Lui intende dire, hai guardato bene?» Mi intrometto io; l'ultima volta, Nadia si era effettivamente nascosta sotto il letto, ma adottando la strategia di appendersi alla rete per non farsi

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notare. Bambina troppo furba, per la nostra ingenua madre, su questo non c'è dubbio. «Vado a vedere meglio...» conclude lei, correndo verso la scalinata che porta al piano superiore, cioè alle nostre stanze da letto. Io e Stefano superiamo l'ingresso e arriviamo finalmente nel salone, poi buttiamo i cappotti sul divano e iniziamo a darci da fare; la mamma ha già tirato fuori l'abete, ottimo. Così iniziamo a girare attorno all'albero con luci, festoni e palline. Sostituiamo i soprammobili con altri a tema natalizio, i pupazzi di neve dominano la scena, e inutile dirlo, non c'è nemmeno un Babbo Natale. Abbiamo quasi finito, è il momento del pezzo forte, scelto da me appositamente per Nadia: un enorme carillon, di quelli con bimbetti e bimbette che a suon di musica si rincorrono sui pattini, o lanciano palle di neve, o esultano per i fattacci loro. Lo sistemo tutta contenta accanto all'abete, poi gli do la carica e resto a guardarlo incantata: in fondo è bello starsene a sentire questa musichetta allegra mentre fuori nevica, tanto che inizio a pensare che mia madre abbia ragione, nel sostenere che la magia del Natale sia proprio quello che ci vuole per la nostra famiglia sconvolta.

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Ma qualcosa non quadra: sento che Stefano non condivide con me questo stato d'animo positivo. Anzi, Stefano non lo sento proprio, che accidenti sarà andato a fare? Lo cerco nel salone con lo sguardo, poi mi dirigo nell'ingresso e lo trovo davanti alla porta di vetro: la fissa, con gli occhi sbarrati. «Stefano?» Provo a distoglierlo. Ecco, ci siamo: questa è una novità che decisamente non sopporto. Ho sempre capito tutto di mio fratello, perché ultimamente ci sono momenti in cui sembra fuori dal mondo? Fuori dal mio mondo, per lo meno. Cosa che per me è anche peggio. «Stefano?» Lo chiamo ancora. «Avete visto Nadia??» Ripiomba mia madre. «No!» Rispondo seccata. «Scusami, ce lo avevi già chiesto...» aggiungo, ma Stefano si intromette: «Io l'ho vista, seguitemi» ci dice, precipitandosi fuori dalla porta. Lo seguo. É molto preoccupato, questo lo percepisco chiaramente. «I cappotti!» Ci grida dietro mia madre; ma non l'aspettiamo, corriamo veloci tra i primi strati di neve morbida, il rischio di

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spaccarci le ossa con uno scivolone non ci tocca: mio fratello è certo di sapere dove sia Nadia. Usciamo dal centro abitato. Continuiamo a correre, anche se ormai siamo quasi senza fiato. «È là!» Grida Stefano, indicando il bosco. Nel bosco! Quando la prendiamo gliele canto, se voleva fare uno scherzo a mamma ha decisamente esagerato. Quando la troviamo però, mi passa la voglia di sgridarla: è mezza congelata, tra la neve. Ha indosso solo una tuta per stare in casa, leggera, e il suo piede destro è incastrato tra le radici: deve aver cercato di divincolarsi a lungo, perché la sua caviglia è tutta graffiata, la pantofola si è sfilata ed è finita a una decina di centimetri di distanza. Ha le guance gelate e dev'essere esausta. Subito mi preoccupo di liberarle il piede cercando di non farle male, ma Stefano ha un'altra reazione che mi giunge totalmente inaspettata: «Scusami, mi dispiace, scusami... » le sussurra, senza riuscire a trattenere le lacrime. Sono scossa, preoccupata... ma ancora una volta non riesco a non evidenziare la discrepanza: non lo capisco, non capisco mio fratello, e questo non va. Io non sento di dovermi scusare con Nadia, non mi sento in colpa.... O forse sì? Forse avremmo

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dovuto cercarla subito, quando nostra madre si era preoccupata? Ma come potevamo immaginare che fosse andata a ficcarsi nel bosco? Nel frattempo la mamma ci raggiunge con tre cappotti pesanti. Torniamo tutti a casa con l'umore sotto i tacchi.

Mamma si preoccupa di cambiare i vestiti bagnati di Nadia e di raggomitolarla a letto sotto una coperta pesante, mentre io e Stefano ricominciamo, chiaramente senza alcun entusiasmo, a sistemare il salone. È tutto pronto, ma quando la mamma scende è bianca come un cadavere: «Credo che Nadia....» inizia a dire, per poi fare una lunga pausa. Si siede sul divano, io e Stefano ci mettiamo accanto a lei: «Credo che Nadia stia passando un momento difficile...Lo stiamo passando tutti, mi dico, ma se c'è anche solo una mezza possibilità che Nadia abbia realizzato solo ora che nostro padre non è in cielo in quanto pilota di aerei, sono più che disponibile a rimandare il Natale a data da definirsi: «Forse vedendo le decorazioni ha capito che quest'anno sarà diverso, se vuoi levo subito tutto.» Mi offro.

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«Nadia è scappata prima che addobbassimo il salone.» Mi contraddice Stefano. «Io credo...» inizia di nuovo mia madre «non so come dirvelo, ma credo che lei abbia una sorta di amica immaginaria.» Ci informa. Non me ne aveva mai parlato, ma Stefano non sembra sorpreso: «Che ti ha detto, di preciso?» Chiede alla mamma. «Ha detto che una bambina ha insistito per giocare con lei, quando ha iniziato a nevicare. Ha detto di averla seguita fin nel bosco, e di esser stata con lei fino a quando si è incastrata nella radice...» «Cioè, ha un'amica immaginaria cattiva, che la spinge a fare stupidaggini?» Chiedo sospettosa. «Ti assicuro che sembrava sincera...» aggiunge mia madre. Stefano resta in silenzio, e una cosa è certa: se io sono un po' turbata da questa novità, lui è a dir poco sconvolto. Lo vedo alzarsi dal divano e dirigersi alla scalinata, voglio seguirlo, ma mia madre mi esorta ad aiutarla a preparare la cena:

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«È Natale, ho preso i regali, avete fatto tutto questo bel lavoro con le decorazioni... Cerchiamo di essere felici, ti prego.» Mi dice. “Cerchiamo di essere felici” suona inquietante, ma le do corda: se io e Stefano per un attimo ci siamo sentiti meglio guardando la neve, nulla vieta che una bambina possa provare lo stesso davanti a cenone e regali. Così la seguo in cucina, ma non vedo l'ora di trovare una scusa per allontanarmi e capire cosa stia passando per la testa a Stefano: lo so, sono morbosa, ma lo ritengo un mio diritto di sorella gemella. Quando la cena è quasi pronta dico di volermi dare una rinfrescata in bagno prima di cenare e mi dirigo invece verso la camera di Nadia: Stefano è lì, lo so. Stanno parlando; origlio, non posso farne a meno. «... non vedo perché dovremmo dare tutta la colpa all'altra bambina! Steffo, perché non dovrei giocarci mai più? Perché?» Nadia insiste, ma “Steffo” non le risponde; lui sa che ora li sto ascoltando, ed evidentemente non vuole. « Perché hai detto che è cattiva?» Chiede ancora la piccola. Ma Stefano persevera nel suo stato di silenzio, così mi decido a farmi vedere:

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«È cattiva perché ti ha messa nei guai, fine della storia.» Esordisco, stupendo mia sorella con l'improvvisa entrata in scena. «Stai bene?» Le chiedo poi. «Benissimo!» Mi risponde. «Scendi ad aiutare la mamma a mettere in tavola?» Per mia fortuna, Nadia esegue immediatamente: la vedo scendere dal letto con un balzo e precipitarsi al piano di sotto; Stefano sta per seguirla, ma lo blocco: «Le hai detto che la sua amica immaginaria è cattiva? Ho capito bene?» Provo a chiedergli. «Volevo solo spaventarla.» Taglia corto lui, per poi girarmi le spalle e scendere in salone. Mi ha mentito. C'è qualcosa che non vuole dirmi.

Raggiungo il salone per ultima. Mi siedo a tavola, colgo un brandello di conversazione tra Nadia e mia madre: «...e poi se Steffo dice che non devo dare confidenza alla bambina fredda, allora io prometto che non la seguirò mai mai più.» La bambina fredda?

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«Sai che conosco una bella storia, su queste bambine fredde?» dice mia madre. Ma che vuol dire? «Era Natale, tanti tanti anni fa, in un posto molto lontano.» Inizia a raccontare servendo la cena «e una principessina di sei anni, viveva in un bel castello. Ci viveva da sola, ed era molto triste.» Bene. Mia madre si sta ufficialmente improvvisando psicologa. «Come si chiamava la principessina?» Chiede ovviamente Nadia. «Si chiamava Nadine, ed era una principessina bellissima.» Che fantasia. «Quel Natale, la principessina triste ricevette la visita di una bambina molto, molto speciale... Le sue mani erano sempre ghiacciate, perché lei non aveva una casa, così la principessina decise di farla entrare, e la soprannominò “bambina fredda”. Ma quella bambina era in realtà una fata, e decise di fare un dono alla principessina: si avvicinò quindi alla porta che dava sull'esterno, e con la sua magia, fece entrare in casa un abete; poi toccò tutti i rami con le sue manine fredde, e creò un fuoco freddo, che non bruciava, ma faceva una luce bellissima blu e argentata! L'albero di Natale divenne il più bello di tutto il

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regno! Poi la bambina iniziò a toccare tutto quanto il castello, rendendolo un castello incantato...» Nadia sorride estasiata e si guarda attorno in cerca di qualche segno del potere magico della bambina. Sorrido a mia volta, cercando lo sguardo di Stefano; lui però fissa con insistenza un punto dietro il nostro abete addobbato. Anche Nadia guarda in quella direzione: «È la bambina!» Grida entusiasta. E poco dopo, le luci dell'albero si accendono. «Come hai fatto??» Chiedo piano alla mamma, ma lei non risponde. «Devi andartene via...» sussurra Stefano, rabbioso. Ma di che sta parlando? «Non diventerò come te, non è vero!» insiste. Forse sta ancora cercando di spaventare Nadia? Ma perché farlo in un momento del genere, mentre sembra così felice.... Ad ogni modo, la piccola lo ignora: è ancora imbambolata davanti alle luci intermittenti accese grazie al potere della “bambina”. E se la fiaba di mamma era quello che era, devo dire che si è davvero superata con gli effetti speciali, perché ora anche il carillon ha iniziato a suonare da solo!

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«Domani voglio sapere come hai fatto!» Le sussurro ancora; lei però si alza da tavola, si avvicina all'abete senza dir nulla, forse per controllare qualche cosa. A questo punto le luci si spengono, solo l'albero e il carillon restano ben visibili nella stanza; carino, ma forse un po' eccessivo: «Ok, mamma, è bellissimo, ma ora riaccendi le luci e mangiamo...» propongo. Sono turbata, e non so perché. Probabilmente è Stefano ad esserlo, io sento quello che sente lui anche quando non lo condivido... No. Mi correggo: ora sono turbata e so anche perché. Stefano continua a roteare gli occhi seguendo con lo sguardo qualcosa che io non vedo; mia madre fissa l'abete come in adorazione. E nevica in casa. Sì, ho detto proprio questo: qualcosa sta generando soffici fiocchi di neve da sopra l'albero di Natale... «Smettila!» Sibila Stefano alle mie spalle, facendomi trasalire. «Smettila, vattene da qui! Non so che fare per te! E non diventerò come te, non accadrà mai!» Si sfoga, con la voce improvvisamente rotta dal pianto.

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«Stefano, cosa sta succedendo?» Provo a chiedergli, sul punto di unirmi ai suoi singhiozzi: la mIa famiglia sta impazzendo, stanno impazzendo tutti! Non so che fare. Anzi, lo so: devo calmarmi, perché probabilmente mi stanno facendo uno scherzo. Mi calmo. Poi salto sul posto, perché il carillon inizia a muoversi, e arriva al centro della sala, e si ferma a mezz'aria: Nadia gli corre incontro, e io sono pietrificata. «Non la toccare!!» Il grido di Stefano mi fa venire un colpo: «Stefano, basta, che succede?» Imploro. Ma proprio in quel momento mamma si distoglie dal suo torpore, prende Nadia in braccio, il carillon cade a terra ed inizia a suonare una melodia distorta. «Portala in camera, vedo che succede» le dice Stefano, ostentando una calma improbabile. Solo in quel momento Nadia inizia a piangere: «Perché mi porti via, c'è la bambina fredda, c'è la fatina...» farfuglia. «Sali anche tu.» Mi dice Stefano.

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Io sono terrorizzata, ma se non condivide con me i suoi pensieri impazzisco, giuro che è così. «Stefano, ora devi dirmi...» Crack! Una pallina si rompe, e il mio cuore perde un altro battito. Un crepitio, tante schegge che volano: tutte le palline si spezzano, veloci, una per una. La mia mente lo rifiuta, ma inizio a capire: «Stefano, c'è davvero una bambina fredda, qui?» Lui fa segno di sì, io sento il sangue che si ferma. «E tu e Nadia riuscite a vederla?» Lui fa ancora segno di sì, e io mi sento completamente paralizzata. «Te ne devi andare, non posso aiutarti! Non ne sono capace!» scandisce Stefano. L'albero di Natale prende fuoco, e a quel punto me la do a gambe: non è un fuoco freddo, è un fuoco vero, e devo chiamare mamma, e devo chiamare i pompieri, e non voglio sapere più nulla, solo uscire da qui.

Accade tutto molto in fretta, in pochi minuti siamo tutti fuori da casa. Il rogo si spegne da sé, grazie alla neve che continua a

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cadere dal soffitto, lasciandosi dietro solo un cumulo di cenere nel salone. Non voglio pensare, non voglio sapere nulla. Restiamo in silenzio a guardare il salone da fuori, quando Stefano mi fa una confidenza: «Voleva che io la dissolvessi nel nulla. Non so cosa sia, ma so che voleva questo. Mi sta intorno da qualche giorno, e ha preso Nadia per colpa mia, perché io rifiutavo di darle attenzione. Ha detto che se davvero non ero in grado di dissolverla nel nulla, allora sarei diventato uno spirito freddo e pieno di rabbia, come lei.» Lo ascolto, ma fingo di non aver sentito. «E se ne è andata, comunque.» E Nadia piange. E torniamo tutti dentro, decisi ad andarcene direttamente a dormire. Ci sistemiamo tutti assieme nel letto di mamma, senza più dire una parola. Quando ci risvegliamo, Stefano non è più con noi. La mamma va a cercarlo, ma io so che non lo troverà: sento chiaramente che una parte di me, è divenuta fredda e piena di rabbia.

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Biografia Autore Alessandro H. Den

Nato e cresciuto a Firenze

inizia a scrivere alle elementari anche se alcuni tentativi di scarabocchi sono documentati fin dall’asilo. Famoso per aver lasciato segni pittorici del suo passaggio ovunque (fogli, banchi, persone), crescendo si appassiona a troppe cose per sceglierne solo una quindi si iscrive e si laurea presso la Facoltà di Design dove può esprimere e sperimentare il suo essere poliedrico. Inizia a scrivere il primo libro della Saga a sedici anni ma inizia a crederci solo dopo averlo cestinato e ricominciato dall’inizio per la quinta volta. Attualmente frequenta il secondo anno della laurea magistrale in Architettura, sta lavorando al quarto romanzo della Saga Le Pietre di Talarana e al secondo romanzo breve per la Saga Memorie di Talarana.

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Orco rosso Di Alessandro H. Den

D

al registro del Borgomastro di… (il nome del paese risulta illeggibile e cancellato con particolare violenza)

21 settembre 18…

Quest’oggi si è tenuta, la festa di Finestate. Come ogni anno la piazza si è riempita di paesani e contadini, di visi rossi per il molto bere e di giovani procaci con nastri tra i capelli. Due buoi sono stati portati per essere oggetto di giochi di abilità e caroselli, terminati poi con l’onorato sacrificio della bestia migliore, arrostita poi sopra di un grande braciere che ha animato e sfamato poi tutti i partecipanti. La guardia cittadina è stata modestamente impegnata, si sono anzi, con una certa licenziosità che non manco di far presente

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in questa sede e in quelle più opportune, uniti ai tavoli per partecipare alla cena. Annoto due avvenimenti che hanno destato la mia attenzione. Bertha K**** è comparsa con i capelli arruffati e la faccia sconvolta nel bel mezzo dei festeggiamenti. La donna lamentava della sparizione del marito, Celsius K****, il fabbro. Le guardie si sono limitate a rivolgerle frasi maliziose, sostenendo che non fosse un mistero che il corpulento uomo prendesse piacere con giovani donne nei paesi vicini. Hanno quindi invitato la donna a sedere in mezzo a loro, allungando le mani e tirandola per la veste. La signora K****. se ne è stata portata via furiosa dai figli che, a stento, riuscivano a trattenerne l’impeto. Era a conoscenza dei vizi del marito, diceva qualcuno a mezza bocca, eppure nessuno l’aveva mai vista così preoccupata prima di ieri sera. Non è sicuramente consueto che una tra le donne più morigerate del contado, capace di tollerare, con tacito rammarico, le abitudini del compagno, compaia di punto in bianco con il volto stralunato per poi mettere in pubblica piazza tutta la sua preoccupazione.

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L’altro accadimento bizzarro risale a non più di un’ora fa, mentre osservavo le braci spegnersi nella piazza e gli ultimi paesani congedarsi barcollando malfermi sulla strada di casa. Ho quindi lasciato che i miei occhi corressero lungo i tetti muschiosi e aguzzi, sopra gli impervi comignoli che disegnano i contorni del paese contro il cielo. Più avanti le familiari macchie scure di bosco, argentee sfumature sotto la luna generosa e languida, il camposanto dalle croci bianche e dai muri coperti di rigogliosi rampicanti, custodi silenziosi di ossa e ricordi. Sopra, come silenzioso guardiano, l’antico maniero della famiglia F**********, vetusto ricordo di fasti antichi e dolorose memorie, di quando i signori della città dimoravano tra vetrate di cristallo e pietre preziose. Dall’incendio che ne distrusse larga parte la vigilia di Natale del 18…, portando con sé molte di quelle facoltose persone, resta ancora un debole riflesso nei miei occhi di bambino, quando lo vidi avvampare dalla finestrella al secondo piano della casupola nella quale sono cresciuto. Senza badare troppo allo scorrere del tempo, devo essere rimasto a lungo a riflettere sopra quei ruderi anneriti dal tempo e la mia immaginazione, unita ai raggi complici della luna, deve aver fatto sì che io scorgessi un fievole bagliore tra le rovine. Alla mia età dovrei

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smettere, in egual misura, di lasciarmi andare al bere e all’immaginazione.

22 settembre

I timori di Bertha K**** si sono dimostrati fondati: quest’oggi il fiume ha lasciato su una sponda il cadavere gonfio del fabbro. La scoperta è stata fatta da alcuni bambini che, incuranti della gravità del fatto, avevano iniziato a punzecchiare il cadavere con ramoscelli appuntiti. Quando hanno rivelato la scoperta, a pomeriggio inoltrato, l’aria attorno al corpo era già pervasa da uno sgradevole olezzo. Il medico è venuto qualche ora fa a ispezionare il cadavere, portato a spalla da quattro uomini fino alla casa del macellaio, l’unico che possedesse un tavolo abbastanza grande per ripore il morto. La sua diagnosi è stata piuttosto chiara, l’uomo pare sia morto per affogamento anche se, alla luce delle candele, sono emersi segni di contusione sul suo corpo. Il medico ha sostenuto che si trattasse di urti contro le rocce e i detriti del fiume ma a mio avviso risultano essere troppo regolari e tondeggianti per essere dovute al caso. Il medico, non appena ho sollevato il dubbio, mi ha guardato con un frammisto di

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incredulità e deferenza. Mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha consigliato di dimenticare l’accaduto. La vedova K****, attorniata dai figli, aspettava fuori con lo sguardo perso. Quando le è stato concesso di entrare per vedere il corpo ha iniziato a urlare in preda al dolore. «Me l’hanno ucciso! Me l’hanno ucciso!». Povera donna.

23 settembre, notte.

È successo di nuovo. Ancora una volta ho visto una luce tra le rovine del maniero. Sembra che questo fenomeno capiti sempre quando cerco conforto nella vetrinetta in disparte e ai suoi turpi contenuti. Ho visto un bagliore camminare tra le stanze, come in cerca di qualcosa. Poi esso si è estinto. Ho atteso che il bagliore tornasse per quasi un’ora ma non si è verificato nessun fenomeno degno di nota. Il bicchiere è ancora lì, mezzo vuoto e mi chiama con bagliori invitanti.

La vita di un borgomastro a volte riserva più sorprese di quante ne riserverebbero dieci da soldato. Questa mattina, di buon’ora,

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una carrozza si è fermata nella piazza. Un modello nuovo, ben rifinito, con ammennicoli e fronzoli dei quali ignoro il reale valore ma dai quali ho potuto facilmente intuire l’elevato rango del proprietario. Un servo in livrea ha aperto la portiera e ne è disceso un uomo distinto che si è prima guardato intorno, come se fosse in cerca di qualcosa, poi si è diretto verso la mia dimora, preceduto dal servo che si è prodigato nel battere le nocche contro l’uscio. Netitia è andata ad aprire e sono convinto che sia ancora affascinata dall’uomo distinto che si è trovata davanti. L’ha fatto accomodare nel salottino e poi è venuta a chiamarmi. Non è mia abitudine far attendere gli ospiti, anche nel caso in cui si tratti di contadini e ne sono disceso pochi istanti dopo, vestito della giacca di velluto migliore. L’uomo, il distinto visitatore, ha abbandonato il divano non appena mi ha visto scendere le scale e mi è venuto incontro con molta spigliatezza. Un uomo altro, con i capelli leggermente brizzolati sopra un castano vivo e gli occhi grigi magnetici cerchiati dall’oro di una finissima montatura d’occhiali. Mi ha teso la mano e mi sono presentato ufficialmente come il borgomastro mentre lui, senza batter ciglio, si è detto subito onorato di conoscere il più illustre dei suoi nuovi concittadini.

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La mia espressione deve averlo divertito non poco e ancora più deve aver trovato divertente rivelarmi quindi il suo nome. Gli ho chiesto di ripeterlo una volta ancora e lui non è sembrato affatto infastidito dalla mia richiesta, anzi, continuava ad apparirmi molto sereno e gioviale. «La credevamo morta. La credevano tutti defunto, insieme alla sua famiglia. Ero un ragazzino all’epoca dei fatti e ricordo l’incendio come se fosse ieri». Il Dottor F********** (così ha preferito che mi riferissi a lui) ha chinato la testa, rammaricato. «So cosa si è detto a quel tempo ma vede, mio buon amico, quando fui salvato da quell’inferno, del quale non porto memoria, venni affidato alle cure di una sorella di mio padre e tutto fu fatto in gran segreto poiché, nell’ammettere questo so di ricordare grossi dispiaceri, pare che sui miei defunti genitori si fossero sparse brutte voci e dicerie. Mia zia, vede, era una donna molto superstiziosa e non voleva che l’unico erede maschio della famiglia dovesse crescere circondato da colpe e miseria. Sono stato cresciuto ed educato da lei e giungo qui adesso, dopo molti anni, per riprendere parte di ciò che i miei mi hanno lasciato. I tempi sono molto cambiati, da allora, la

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gente non teme più la superstizione come quarant’anni fa, dico bene?» Mio malgrado, sebbene avessi voluto far presente al mio gentile ospite che queste considerazioni valgono solo laddove le città sono grandi e illuminate, mi sono trovato costretto ad annuire con serietà e a dargli il benvenuto nella comunità. Ho trattenuto la domanda che cercavo di reprimere fino a quando non siamo usciti di nuovo all’aria aperta e per trovare la carrozza circondata da curiosi. «Perdoni la mia indiscrezione, Dottore, ha un istante per una domanda?» Il mio ospite in quel momento mi ha guardato col timore che certo non mi aspettavo manifestasse. Quasi ha balbettato quando, con una certa riluttanza, ha espresso un cortese “sì”. «Da quanto è qui? Non è mia intenzione rivolgerle una domanda così personale, è più che altro una semplice curiosità. Sa, nelle ultime notti mi è parso di vedere un bagliore animare la magione della sua famiglia e a lungo mi sono interrogato sulla mia…capacità immaginativa, ecco. Le sarei grato se volesse fugare il mio dubbio da semplice curioso». Il dottore si è battuto una mano sulla gamba, visibilmente sollevato dal tono e dal tipo di domanda.

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«Le chiedo scusa, non volevo certo farle dubitare delle sue facoltà di osservatore. Ufficialmente arrivo solo oggi ma nelle ultime notti ho provato come un senso di nostalgia verso la mia avita dimora e ho obbligato il povero Edmund a condurmi qui a notte fonda. Dimoro nell’alberghetto di S*******, la distanza non è certo grande ma è comunque una gran fatica per il mio fedele servo assecondare i miei capricci». Al nome della cittadina ho avuto come un sobbalzo e i miei occhi, chissà come, si sono diretti verso le ruote larghe della carrozza. Una, la frontale destra, mi è sembrata vagamente fuori asse, come se avesse subito un urto recente. «Mi consente un’altra domanda?» Il Dottore corrugò la fronte ma nel rispondere mantenne il tono cordiale. «Prego, mio buon amico». Soppesare le parole non mi è mai stato semplice e quest’oggi ho dovuto trattenere molto la velocità con cui si muovevano i miei pensieri. «Durante una delle vostre incursioni notturne avete per caso incontrato sulla strada grossi animali?»

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«No, che io sappia. Queste domande dovreste rivolgerle al mio servo, mi spiace ammettere che non mi intendo molto di animali o di caccia, sapete?» Detto questo, mi ha stretto la mano e con una certa fretta, sicuramente dovuta agli imminenti lavori per la ricostruzione della magione, è salito sulla carrozza. Ho passato il resto della giornata a pensare all’incontro bizzarro e mi sono scosso dal torpore in cui le suggestioni mi avevano sprofondato solo verso sera, quando Netitia mi ha chiamato per la cena e mi ha comunicato che l’indomani si sarebbero svolte le onoranze funebri per il fabbro. Ho annuito, pensieroso ma la brava donna deve aver scambiato la mia assenza per apprensione nei confronti della vedova K****, verso la quale molti si erano detti in pena. Stasera ho deciso che non guarderò fuori dalla finestra e che mi concederò una lettura. Il richiamo della vetrata è forte ma la realtà, per quanto sinistra, non contempla né spettri né misteri.

24 settembre

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Questa mattina, fuori dal cimitero, ho visto per la seconda volta la lussuosa carrozza. Mentre seguivo la processione, rimanendo in coda, ho provato a sbirciare al suo interno ma dai finestrini oscurati mi è stato impossibile vedere se qualcuno fosse a bordo. Quando sono entrato, insieme agli altri paesani accorsi per la tumulazione, non ho potuto fare a meno di scorgere la figura solitaria del Dottore, seguita, a rispettosa distanza, dall’inseparabile servitore. Durante la funzione ne ho seguito gli spostamenti per un po’ e lentamente ho iniziato a credere che aspettasse, con rispettosa lontananza, che assolvessi la mia funzione pubblica per scambiare due parole con me. Il corpo è stato tumulato in uno spesso strato di terra grassa e umida, la vedova K****, interamente coperta di nero, è stata sorretta dai figli mentre le mani dei volontari si alternavano nel nascondere la bara con il terriccio. Una solida croce di ferro è stata piantata nella terra e i paesani, uno dopo l’altro, si sono allontanati in gruppi sparuti. È stato allora che il Dottore mi si è avvicinato con circospezione per chiedere, con sincero interesse, cosa fosse successo al defunto.

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«Non ne siamo ancora certi, purtroppo. È stato ritrovato sul greto del fiume due giorni fa. con tutta probabilità è morto per annegamento». «Ho notato che la bara era piuttosto imponente. Doveva trattarsi di un uomo massiccio». Ho annuito, con una certa vivacità. «La sua intuizione è corretta. Era il fabbro del paese e superava in altezza e in stazza tutti noi. Qualcuno lo chiamava “gigante” e credo non avessero tutti i torti, anche se il defunto pareva non gradire». Mi è sembrato di cogliere una sfumatura di entusiasmo negli occhi del dottore, anche se, subito dopo, i suoi occhi grigi sono divenuti profondamente tristi e rammaricati. «Suppongo quindi che quella donna sia la vedova. Mi chiedo se sia possibile fare qualcosa per lei, come risarcimento per la perdita». «Risarcimento?» la mia lingua è stata più veloce del mio buonsenso. Di nuovo si sono insinuati in me i sospetti che ieri ho cercato di reprimere. «Mi scuso, devo essermi espresso male. Quello che intendevo dire è che vorrei poter aiutare la donna, economicamente intendo. Sicuramente non sarà facile per lei riprendersi da questa perdita e se potessi fare qualcosa ecco…ne sarei felice».

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Ho dovuto fare appello a tutte le mie facoltà per non apparire stupito quando mi rivelò la cifra che intendeva donarle in un orecchio. «Caro amico, ciò che la donna ha perduto non avrà mai lo stesso valore dei soldi. Sono sicuro che quell’uomo fosse un inestimabile sostegno e che fosse essenziale a lei tanto quanto lo sarebbe per me». «Cosa intende dire?» Ho visto roteare di nuovo i suoi occhi ma la gentilezza nei miei confronti non è venuta meno, nonostante stavolta fosse piuttosto infastidito dal mio continuo puntualizzare. «Avrei avuto sicuramente bisogno di lui da vivo. Purtroppo, da morto, credo che per lui non restino molte alternative. Rallegriamoci invece, pensando che il suo corpo servirà da nutrimento per le creature che strisciano sottoterra. Meglio pensare alla vita e alla sua conservazione, amico mio. Non c’è niente di buono nella morte». Detto questo il Dottore si è allontanato e con eleganza si è diretto verso la vedova K**** e i figli che ne sorreggevano le braccia magre. Con un gesto, al quale la donna non era sicuramente avvezza, le ha fatto un breve inchino e le ha poi rivolto parole sicuramente confortanti dal momento che mi è

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parso che il suo pianto si interrompesse. Lui l’ha presa quindi sottobraccio e insieme hanno fatto alcuni passi. Incuriosito, mi sono spostato per seguirne la direzione ma poco dopo mi sono dovuto fermare perché la donna era crollata in ginocchio e aveva preso ad abbracciare le gambe dell’uomo con fervore. I figli erano dovuti accorrere per tirarla su ma il gentiluomo aveva loro sorriso, si era chinato e aveva sollevato la donnetta con facilità. Poi aveva chiamato il fido Edmund e il servo, tenuta per il braccio la donna, era uscito dal camposanto seguito dai due orfani. «Senz’altro un nobile gesto quello che avete compiuto quest’oggi». «Non sono mai abbastanza, sapete? Tanta è la gioia che mi da il fare del bene che vorrei che cose come queste accadessero ogni giorno. Ridare un sorriso alle persone non è forse il più grande potere che Dio ha dato agli uomini?» A quell’affermazione ho preferito non rispondere, il mio ospite sembrava piuttosto disponibile a parlare, a differenza mia che mi sentivo sempre più confuso, proprio come adesso. Continuammo a camminare e a discorrere allo stesso tempo: il dottore mi ha chiesto di me e dei miei interessi e ho rivelato, non senza una punta di orgoglio, che parecchi anni prima

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avevo appreso da autodidatta e grazie al lascito di un vecchio zio, le basi della medicina. Ho citato alcuni dei volumi presenti nella mia libreria, piuttosto povera a dire il vero, che comprende appena qualche testo di Avicenna e un compendio di Paracelso, tutte cose per le quali il medico della contea aveva spesso espresso una certa diffidenza. Lui non ne ha affatto riso e anzi, si è detto ben disponibile, nel caso in cui avessi voluto, a mettere a mia disposizione parte della propria fornitissima libreria che, a suo dire, comprende anche testi tradotti dall’arabo ed edizioni rarissime di Agrippa e Tritemio. Ci siamo interrotti solo quando davanti a noi si è parato uno dei mausolei più antichi del cimitero, posto in una zona nascosta da alberi secolari: granito nero, dalle superfici bizzarramente squadrate e coperto, per una buona parte, da rampicanti le cui foglie viravano dal verde al giallo pallido con venature sanguigne. Il cancello arrugginito pendeva sbilenco e la porta d’ingresso, sebbene avviluppata di catenacci, pareva solo socchiusa. Un rumore ha destato poi la nostra attenzione e ammetto di aver avuto un sobbalzo quando da dietro la parete è comparso un vecchio scarno e canuto, dal colorito incerto e malsano. L’anziano, che di venerabile aveva ben poco, ha mostrato un’espressione trionfale e, come poco prima aveva

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fatto la vedova K****, è corso incontro al dottor F********** e gli si è buttato ai piedi, in lacrime. «Padroncino V*****, è tornato! Solo il cielo sa quanto a lungo ho atteso il ritorno dell’erede dei F**********». Il dottore ha sorriso bonario e ha poi abbracciato il vecchio ossuto. «Sì, mi ricordo di te. Jervis, il fidato Jervis.». A sentire quel nome ho provato un nuovo moto di sorpresa, l’ennesimo di oggi a dire il vero. Il vecchio Jervis era tra i pochi scampati all’incendio che aveva distrutto la magione e da anni era scomparso. Molti sostenevano fosse morto, altri che fosse sparito tra le montagne. La risposta a quei dubbi mi è arrivata dalla stessa bocca del servo pochi istanti dopo. «Sono rimasto qui, mio signore, a fare la guardia alla tomba di famiglia. Temevo che tornasse, capisce? Avevo paura che…» Il dottore gli ha messo poi un dito sulla bocca, come a un bambino. «Non c’è niente di cui aver paura, amico mio. Ci sono io adesso e niente di brutto avverrà» si era voltato verso di me e con una certa rapidità si era affrettato ad aggiungere «Mai più».

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Il vecchio mi ha rivolto un’occhiata aspra, i suoi occhi, di un verde pallido, erano incrostati da quelle che sembravano anni di lacrime mai asciugate. Poi mi ha sorriso, scoprendo la bocca sdentata, costellata qua e là da denti gialli e consumati. «Vogliamo andare, padroncino? Ci aspettano, lo sa?» Ho guardato il dottore con apprensione ma lui, avvicinatosi all’orecchio, mi ha subito rassicurato. «Credo che il povero Jervis voglia che io visiti la tomba dei miei cari. È comprensibile che sia ancora molto affezionato. È un brav’uomo, un servo molto fedele. È a lui che devo la mia vita, capisce amico mio? Venga a trovarmi, se può, questa sera. Vorrei davvero mostrarle la mia libreria, amico mio». Ho annuito e sussurrato poche parole di congedo e ricordo di aver arretrato di alcuni passi. Il vecchio nel frattempo aveva tolto un mazzo di chiavi da sotto la maglia e aveva iniziato ad armeggiare davanti ai pesanti lucchetti. Alcune serrature erano scattate e il frastuono delle catene che cadevano fece voltare il mio ospite che, senza salutarmi, è entrato nel sepolcro, guidato per mano dall’antico servo. Nel pomeriggio mi sono recato da lui in visita, Netitia ha fatto preparare per me il cavallo e ho percorso la strada che ci separa da S******* a passo lento, cercando di intravedere tra le

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fronde i resti del maniero. Quando ho attraversato il ponte sul fiume ho intravisto qualcosa baluginare e sono sceso da cavallo. Per terra c’era una sorta di vite, dello stesso colore di quelle montate sulla carrozza del Dottore. Ho cercato allora di raffigurarmi la scena e ho ripercorso per due volte il ponte. Il fabbro era un uomo grosso e forte, un peso troppo grande per essere trasportato da due sole persone. Anche se si fosse trattato di un incidente il dottore era pur sempre un uomo di più di quarant’anni e il suo servo era piuttosto esile. Mi convinsi che doveva trattarsi di un’altra bizzarra coincidenza, il fabbro poteva essere caduto in acqua in altre mille circostanze e quel pezzo metallico rinvenuto poteva essersi semplicemente staccato a causa del lastricato irregolare. Al mio arrivo stava facendo buio e la vista dell’alberghetto, con le luci calde che trasparivano dalle finestrelle, mi è apparso come il più invitante dei richiami, soprattutto adesso che la sera si fa più fresca e l’autunno è ormai arrivato a tingere di rosso i boschi. Sono entrato nell’albergo e subito ho avuto come l’impressione che fossi atteso da lungo tempo poiché Edmund è comparso sulla soglia ad accogliermi e, senza che potessi scambiare una parola col proprietario, sono stato portato al piano superiore.

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Il mio ospite mi attendeva in una saletta tenuamente illuminata, la tavola era stata apparecchiata con estrema cura e le pietanze, nonostante si trattasse di piatti semplici, apparivano come ammantate di una desueta raffinatezza. Il Dottore mi è venuto incontro non già tendendo la mano ma spalancando le braccia come si fa nei confronti di un caro amico. Abbiamo preso posto agli estremi della tavola imbandita e il Dottore ha dispiegato con cura il tovagliolo sulle gambe. Jervis ci ha servito una zuppa fumante e, alla luce delle candele, ho notato come il ritrovato padrone si fosse preso cura di lui. Meno gobbo di questa mattina e con i capelli non più ingialliti e dispersi, era come se i vestiti azzimati avessero contribuito a restituirgli la dimenticata dignità. Ma le mani, le mani! Non riuscivo a staccare i miei occhi dalle dita lunghe e scarne che terminavano in unghie perlacee, artigli sarebbe meglio chiamarli, sotto i quali erano visibili tracce di terra ancora umida. Più cercavo di distogliere l’attenzione dai suoi gesti compassati, il cerimoniale silenzioso che pareva seguire nel servire il cibo, più che la mia attenzione veniva attratta da quel particolare. Il buon dottore deve aver indovinato i miei pensieri e si è quindi rivolto a me con vivace interesse,

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riprendendo, da dove era stato interrotto, il discorso di stamattina. «Dunque, mio buon amico, stamani mi diste che la scienza dei nostri predecessori non gode di molto rispetto da queste parti. Ebbene, nonostante ciò sono felice di aver trovato in voi, al contrario, un discreto ammiratore. Sono ancora molti i mali dell’uomo che solo quella scienza è capace di intuire, comprendere e, probabilmente, guarire». «Lo chiamano “progresso” e credo che a questo male non esista rimedio, se in tal modo vogliamo interpretarlo». «Progresso, dice. È bizzarro come questo grande progresso giunga sempre a guastare i momenti più belli e le opportunità che ci vengono offerte. La polvere da sparo, ad esempio. Potrebbe aprire passaggi tra le montagne, avvicinare gli uomini, eppure li divide e li rende capace di annientarsi tra di loro. Secoli fa il grande Flamel scoprì il segreto della pietra dei filosofi ma si dice che fosse tanto disgustato dall’agire dei suoi contemporanei da preferirne la distruzione piuttosto che se ne conoscesse il mistero. Dargli torto non credo sia possibile visto la sorte che è toccata a tutti gli altri grandi che lo affiancano nel discernimento dei misteri. Il grande momento dei lumi, l’era della quale siamo figli, ha spento più di quanto abbia acceso.

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Parlo della volontà di ravalicare i propri limiti, dell’ambizione insita nell’essere umano. Per quale motivo, secondo lei, non si è mai tentato di restituire la vita e ci si è sempre accontentati di preservarla?» La sua lunga dissertazione mi ha lasciato interdetto, devo ammetterlo. Più che altro mi aveva colto alla sprovvista. Il suo volto si era come illuminato e le candele che lo circondavano avevano preso a brillare di un’intensità diversa, ridisegnando i contorni del suo volto in un bagliore che ben poco lo rendeva amichevole. Con una certa vergogna, ammetto che ho balbettato la risposta. «Poiché ciò che è morto non deve essere disturbato. Non credo che un defunto sarebbe felice di essere riportato alla sofferenza del mondo, non dopo aver gustato le prelibatezze del paradiso…» «E cosa invece se si desiderasse strappare un’anima dalle grinfie dell’inferno e delle sue pene? Non sarebbe forse intento mirabile richiamare e riunire l’anima al corpo per dare una seconda opportunità all’anima un tempo vittima di tormenti?» La mia mano ha perduto il controllo sulla forchetta ed essa è caduta a terra producendo un clangore sinistro. Quel discorso stava prendendo una piega che anche adesso, nonostante siano

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trascorse alcune ore, ha il potere di rendermi inquieto. Mi sono chinato e sotto il tavolo ho visto la sagoma rannicchiata di Jervis, intenta, con i suoi occhi stralunati e vacui, a trarre da una scodella della terra umida, per poi avvicinarsela con avidità alla bocca. Ne sono riemerso con un’espressione che a fatica nascondeva la perplessità e l’orrore. Il mio ospite aveva riacquistato un’espressione bonaria, il volto cordiale e pacifico al quale ero stato abituato. «L’anima e la sua sorte è materia che compete la chiesa e i suoi ministri, non certo i medici o i semplici dilettanti come me. Lasciamo i morti nei loro sepolcri e curiamoci invece di argomenti più congeniali». Il mio volto doveva avergli nuovamente suggerito la presenza di un qualche problema e allora si è chinato, per poi riemergere con un’espressione contrita e imbarazzata. «La prego di scusarlo, amico mio. Per anni ha vissuto come un emarginato e nonostante ciò è rimasto un ottimo servo. In virtù del reciproco attaccamento e della gratitudine per il suo gesto mi vedo, mio malgrado, costretto a sopportare questa sua attitudine». A quelle parole mi sono impietosito ma l’appetito, fino a quel momento scarso, è del tutto cessato. Il dottore deve aver

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provato per me una compassione molto simile: ha perciò riposto il tovagliolo e si è alzato, non senza aver ringraziato il servo per le ottime pietanze. Mi ha quindi invitato a seguirlo nella stanzetta attigua nella quale aveva disposto con gran cura quella che, a suo dire, era solo una minima parte del tesoro letterario in suo possesso. Volumi e volumi di inestimabile valore, alcuni così vecchi e consunti da essere custoditi in teche di vetro rettangolari. Uno, in particolare, adagiato su un leggio, ha attratto la mia attenzione. Rivestito di pelle scura, le sue pagine erano vergate in una calligrafia che mi è apparsa composta di serpenti attorcigliati. «È arabo, non è vero?» ho chiesto mentre avvicinavo il viso alla pagina per scorgerne le decorazioni ricche e le bizzarre figure che suggerivano terre lontane ed esotiche. Il dottore mi ha quindi posato una mano sulla spalla e con presa gentile ma ferma mi ha invitato a rialzarmi. «Il suo occhio una volta ancora non la inganna. Si tratta di un testo molto raro, uno di quelli che sarebbe prudente non possedere, a meno che non sia incoscenti o…» «Oppure?» ho chiesto dopo aver deglutito a fatica ed essermi scostato con rapidità. «…o semplicemente pazzi».

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Ho sgranato gli occhi e la mia domanda ha provocato il riso del mio ospite. «E lei, mio buon amico, a quale delle due categorie appartiene?» «La sua domanda è molto indiscreta ma pertinente. Ho mentito, innocentemente, ma ammetto di aver mentito. Esiste una terza categoria, forse la più pericolosa». «Sarebbe?» «I curiosi, mio buon amico. Sono un curioso, un collezionista di cose bizzare e dimenticate. Questo libro mi è costato un vero patrimonio ma le assicuro che vale ogni centesimo speso. È stato scritto da un principe arabo ritenuto pazzo dai suoi contemporanei e blasfemo dai suoi successori, tanto che il suo nome e il suo libro sono ancora annoverati tra quelli non graditi dal Santo Uffizio romano». «Cosa lo rende tanto interessante o proibito?» «Si dice che le visioni deliranti sotto l’influenza delle quali abbia scritto il suo libro l’avessero segutio nel mondo reale e avessero finito per divorarlo in una piazza in pieno giorno. Le ultime parole del povero autore, secondo la ben poco affidabile tradizione postuma greca, furono “Necronomicon, necronomicon”».

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«Necronomicon? Se non mi inganno dovrebbe significare…». «La legge dei morti. Sono convinto che alcuni dei progressisti sarebbero concordi con me nell’ammettere che il modo migliore per conoscere il mistero della vita è comprendere prima il segreto della morte e di ciò che si trova al di là di essa». Un tuono è giunto poi a interrompere il silenzio calato su di noi e il mio ospite mi ha di nuovo sorriso conciliante. «Temo l’ora si sia fatta troppo tarda perché continui a discorrere di argomenti tanto forti senza temere che il mio sonno possa non esserne condizionato, amico mio». «Il tempo là fuori minaccia tempesta e poco prudente sarebbe per me lasciarla andare». «Non voglio abusare della sua ospitalità più di quanto abbia fatto fino a questo momento. Un borgomastro è abituato a questo genere di intemperie, soprattutto in questa stagione». Il mio ospite si è detto piuttosto dispiaciuto e la sua espressione mi è apparsa risentita. Ho guardato fuori dalla finestra, le nubi turbinavano gravide di tempesta e la pioggia era divenuta battente, i profili frastagliati dei monti, disegnati dalle folgori, accendevano in me fantasie grottesche e ben poco rassicuranti. Ho dovuto ammettere a lui, prima che a me stesso, che il suo

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invito fosse ben accetto. Il dottore si è affrettato a ordinare a Jervis di preparare per me la stanza per gli ospiti, nella quale avrei potuto riposare fino al mattino seguente, quando Edmund avrebbe provveduto ad accompagnarmi a casa con la vettura. Adesso, alla luce della candela dello scrittoio, mi trovo a riflettere su quanto accaduto in quella, che a oggi, sembra essere stata la giornata più lunga della mia vita. È una vera fortuna che abbia sempre con me questo piccolo diario, divenuto ormai il confidente più caro. Netitia rimarrà sicuramente in piedi fino a tardi, passerà una notte insonne attendendo il mio ritorno e crollerà con la testa candida sul tavolo. Provo un sincero dispiacere nei suoi confronti ma sono sicuro che il suo buon carattere le farà dimenticare questo incidente al più presto.

25 settembre, notte.

Sono stato svegliato da alcuni rumori concitati, alla fine di un sogno non meno agitato. In esso mi trovavo all’inizio del ponte da me attraversato ieri pomeriggio, era notte fonda e c’era un uomo imponente che camminava con passo malfermo vicino al

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parapetto. Poi, all’improvviso è sbucata una carrozza lanciata a velocità folle che ha investito l’uomo, il suo corpo è stato sbalzato a terra con violenza mentre gli zoccoli e le ruote gli passavano sopra. La vettura si è fermata dopo qualche metro, una delle ruote era visibilmente malridotta in seguito all’urto. La vittima si contorceva e le sue urla mi arrivavano distorte dagli abissi del sogno. Da essa sono poi scese due figure ammantate di nero che l’hanno sollevato, forse per soccorrerlo. Era pesante, molto pesante, l’hanno rimesso in piedi contro il parapetto a fatica e poi, senza indugiare, l’hanno precipitato nel fiume. Poi, senza scambiarsi una parola, i due sono tornati a bordo della vettura e il conducente ha lanciato di nuovo la carrozza contro la notte. La vettura era diretta contro di me e non ha fatto niente per scansarmi: il rumore degli zoccoli contro la pietra era diventato un rombo nelle mie orecchie e il terrore che la vista di quei ronzini neri ha suscitato in me deve avermi fatto svegliare di soprassalto proprio mentre il rumore di zoccoli si perdeva nella notte. Mi sono alzato dal letto con un’agilità che non mi è certo familiare, non durante la notte almeno. Mi sono sporto dalla finestra, solo per vedere una carrozza allontanarsi a velocità sostenuta. Insospettito sono uscito dalla stanza e ho perlustrato con circospezione la casa.

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Era vuota. Non c’era traccia né del mio ospite né del servo. Appunto queste poche righe mentre prendo la decisione più avventata della mia vita. Seguirò quell’uomo e, se necessario, sono pronto ad arrestarlo come responsabile della morte del fabbro.

25 settembre, mattina.

Devo ammettere di essermi sbagliato. La suggestione della notte ha fatto sì che giungessi a conclusioni che in nessun modo possono essere consentite a un uomo che occupi la mia posizione. Ripercorrerò i fatti in modo che, chiunque si troverà (anche se dubito fortemente) a leggere queste mie, non mi giudichi troppo sciocco. Stanotte, non appena ho riposto il diario, mi sono vestito di fretta e sono andato a riprendere il cavallo. Come temevo, la carrozza del mio ospite era sparita. Senza indugiare oltre sono salito in sella e sono corso verso la direzione che temevo avesse preso. Pensai, animato da un moto di terrore, che qualcun altro avrebbe potuto incontrare la carrozza e fare la stessa fine del fabbro. Non lo avrei potuto

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tollerare, non senza punire quello che ormai mi appariva come un assassino senza remore. La mia corsa sul terreno bagnato sembrava guidata da un ardore che non ricordavo di possedere e il cavallo, nonostante non fosse abituato a tale conduzione, sembrava voler assecondare i miei propositi giustizieri. Sono giunto in prossimità del ponte, illudendomi di trovare la carrozza ferma e di nuovo due uomini ammantati di nero trascinare verso la morte un nuovo malcapitato. Il ponte invece era deserto e immobile come le acque che scorrevano al di sotto di esso. Stupito, arrabbiato con me stesso e rammaricato, ho chinato la testa e riflettuto sui dettagli che mi avevano portato a quelle conclusioni. Poi, per un attimo, il mio cuore era balzato di nuovo in gola quando ho visto una luce agitarsi tra le rovine del maniero dei F**********. Maledicendo me stesso per aver dubitato del mio ospite, mi sono allora diretto verso la luce, percorrendo il sentiero dismesso e tortuoso che dalla strada maestra proseguiva attraverso quello che era stato il rigoglioso giardino della magione. Arrivato in prossimità dell’ingresso ho visto la carrozza parcheggiata in un angolo e, fissato il cavallo a uno degli alberi che si protendevano nel piazzale, mi sono messo in cerca del mio ospite, pensando, nel frattempo, a quale

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scusa avrei potuto inventarmi per motivare la mia presenza in quel luogo. Mi sono aggirato nell’ingresso crollato, attraverso mobili marci e vetri infranti e ho di nuovo visto la luce brillare in un angolo defilato di un perduto corridoio. Alla fine di una rampa di scale alcune lanterne denunciavano la presenza del Dottore, intento a conversare animatamente. Ho proseguito a tentoni, fino a quando il rumore dei passi deve aver rivelato la mia presenza e la conversazione, che nel frattempo si era fatta più accesa, era cessata. Il dottore era emerso con un’espressione meravigliata che, senza ombra di dubbio, non si aspettava di vedermi. Ho finto un’espressione rincuorata, come per giustificare con il linguaggio del viso prim’ancora che con la voce, la mia apparizione. «Non era mia intenzione spaventarla, mio buon amico». Il Dottore ha espresso un sorriso conciliante ma sul quale gravava ancora un’ombra di stupore. «Capisco. Spero non sia stata la nostra conversazione di ieri sera a…guidarla fino a qui». Mi è sembrato sinceramente dispiaciuto, almeno questo è quello che ho creduto di scorgere sul suo volto dopo un lungo sospiro.

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«Vede, come già ebbi a dirle, mi capita sovente, da quando sono qui, di cedere ad attacchi di malinconia nei confronti di questo luogo. Ho preferito non disturbare il suo sonno, domattina Edmund sarebbe tornato a prenderla per riportarla a casa. Stanotte, forse proprio in seguito al fortuito incontro col buon Jervis, ho sentito il morso del passato acuirsi ancora di più e solo gli occhi e la memoria del mio fido servo hanno potuto guidarmi in questi meandri». «Cercavate qualcosa di particolare? Vi ho sentito parlare in tono concitato poco fa». Il Dottore si è tirato indietro, come colto da un improvviso ripensamento. Jervis lo ha superato e si è frapposto tra di noi, con propositi quasi minacciosi. «Non sono affari che riguardano un estraneo» gli occhi gialli dell’uomo non perdevano di vista i miei che, invano, cercavano di incrociare quelli del dottore alle sue spalle. Visto il silenzio del mio ospite, non ho potuto fare a meno di scrollare le spalle e congedarmi con freddezza. Prima di tornare al mio cavallo non ho comunque potuto fare a meno di soffermarmi per ispezionare la carrozza. Ho estratto dalla tasca il bullone mancante ma, nonostante combaciasse perfettamente con quelli utilizzati, non ne mancava nessuno e anzi, la vettura

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sembrava come nuova. Netitia, come avevo immaginato, mi attendeva con la testa adagiata sul tavolo e si è spaventata non poco quando mi ha visto rientrare. Fuori dalla finestra, mentre finisco di appuntare queste righe, ormai le cime delle montagne si incorniciano d’oro e la loro maestosità fa da araldo al nuovo giorno.

25 settembre, pomeriggio.

Il mio riposo è stato destato da una cupa scoperta. Il cimitero è stato profanato, il parroco è stato quasi colto da malore nell’apprendere la rivelazione. Molte croci sono state spezzate, alcune lapidi divelte ma solo una smossa e il corpo sottratto. Ho chiesto il nome e quando l’ho saputo quasi sono stato colto anche io da un malore. Il fabbro, le sue spoglie mortali almeno, sono state trafugate e non c’è traccia di segni o altro che possa rivelare gli autori (perché ritengo impossibile si possa essere trattato di un uomo solo). La notizia si è sparsa veloce e ha colpito profondamente la signora K**** che si dice sia stata vittima di un improvviso malore. Non si è mai sentito di fatti simili e prego iddio che presto la guardia cittadina possa

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portare chiarezza. Inizia a fare buio e la luce si agita di nuovo tra i resti della magione.

10 ottobre

Questa mattina, dopo altri fatti di trascurabile entità , ho ricevuto la visita da parte del Dottor F***********, giunto a comunicarmi il suo definitivo insediamento nella dimora avita. Ha riferito di essersi spostato in una delle poche parti rimaste salve dalla distruzione e dallo scorrere del tempo. Quando ho chiesto a quale parte della casa facesse riferimento, ha risposto, con la riluttanza che ormai sembrava accompagnare ogni nostra conversazione, che si trattava dei sotterranei, nei quali sosteneva di aver trovato il paradiso e la quiete che cercava. La conversazione è quindi caduta nel vuoto, il mio ospite si è congedato scusandosi per la brevità della visita con la promessa di un nuovo invito a cena.

20 ottobre

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La vita sembra aver ripreso il suo naturale corso: dopo la profanazione del cimitero e il successivo susseguirsi di voci che additavano nel ritorno dell’erede dei F*********** nella sua antica dimora, tutto si è acquietato. Il parroco ha provveduto a riconsacrare il luogo anche se qualcuno sostiene che la processione abbia volontariamente evitato il tratto più antico del cimitero, in particolare il mausoleo nero bizzarramente squadrato. La vedova K**** pare si sia ripresa, soprattutto adesso che ha ricevuto la donazione promessa da parte del Dottore. Indubbiamente la mia osservazione non è scevra di malizia, ma sembra che questo atto sia stato provvidenziale per mettere a tacere le voci. In compenso la guardia cittadina è giunta a un nulla di fatto riguardo i presunti responsabili dell’atto sacrilego. Probabilmente, mi è stato riferito con poca convinzione non più tardi di oggi pomeriggio, c’è il sospetto che si sia trattato di un atto vandalico a opera di alcuni girovaghi in cerca di beni preziosi da rivendere. Tendo a tener poco conto di certe osservazioni ma, date le circostanze, mi sono trovato costretto ad accettare questa versione come la più plausibile. Probabilmente qualcuno di essi avrà notato la processione o forse la grande bara avrà lasciato loro supporre che si trovasse ben più di un uomo al suo interno, chissà quali

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ricchezze avranno creduto di trovarvi oltre ai vermi e alle larve che si contendevano il corpo. Tutto pare tornato a scorrere secondo l’ordine naturale e per me, modesto amministratore di provincia, ritengo che la vita abbia smesso di nascondere sorprese.

23 ottobre

Questa mattina Netitia mi ha recapitato una missiva su carta pregiata. La busta era piccola ed era stata chiusa con della ceralacca nera, sulla quale era impresso il medesimo sigillo presente sopra la porta del mausoleo dei F***********. Al suo interno, un bigliettino, scritto con calligrafia elegante, nel quale mi si comunicava l’invito a cena in occasione della vigilia di Ognissanti. Quando ho comunicato a Netitia la mia decisione ella si è detta contrariata. «Non è bene» mi ha redarguito «che lei esca quella notte. Non è mai bene trovarsi da soli quando gli spiriti lasciano i loro sepolcri per camminare tra i vivi». Ho rinunciato quindi a chiederle di far recapitare la risposta al Dottore e ho

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quindi deciso di recarmi al maniero di persona, onde evitare che lei fingesse distrattamente di farlo recapitare. Al mio arrivo, sotto il sole del primo pomeriggio, la vecchia magione sembrava di risplendere di una nuova luce, quasi che il ritrovato proprietario avesse sollevato da essa il manto oscuro che l’aveva oppressa per lungo tempo. Ho creduto di sentire di nuovo delle voci concitate rincorrersi per ciò che rimaneva delle desolate stanze ma non ho visto nessuno. Guidato dalla memoria ho ritrovato la strada che conduceva al piano inferiore e lì ho trovato il Dottore, abbigliato in un’elegante veste da camera, intento a riportare alcune cifre su un volume. L’ambiente era piuttosto umido e decadente e gran parte dei libri era stata stipata in casse di legno. Solo uno, il libro dalla copertina di pelle che tanto mi aveva suggestionato, continuava a far bella mostra, in posizione privilegiata, su di un leggio istoriato. Quando mi ha visto entrare nello spazio ha tirato su la testa infastidito. «Ancora tu? Non ti è bastato ciò che ti ho dato per tener chiusa la bocca?» Poi, riconoscendomi, si è prontamente scusato e mi è venuto incontro, allargando le braccia.

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«Mi spiace per averla accolta con tanta rudezza, amico mio. Temevo si trattasse di nuovo di quella sanguisuga». «A chi si riferisce?» il Dottore ha scosso la testa e agitato le mani come se la mia domanda fosse del tutto superflua. Evidentemente doveva essere fuori di sé. «Ma a Edmund, naturalmente! Quel contadino irriconoscente! Di punto in bianco ha deciso di lasciare il lavoro e ha voluto essere ricoperto d’oro!» Mi è veramente dispiaciuto vedere il Dottore tanto turbato. Forse Edmund aveva trovato il modo per estorcergli del denaro, magari minacciando di raccontare qualcosa di spiacevole al quale aveva assistito o era stato in parte responsabile? La fantasia galoppava veloce come non accadeva ormai da giorni e le mie parole sono scivolate fuori dalla bocca, attratte nuovamente da una forza incapace da governare. «Per caso il suo servo la stava ricattando?» Il dottore è sbiancato in volto e ha iniziato a farfugliare. Poi si è buttato sulla sedia e ha preso la testa tra le mani. «Vede, da quando ho ritrovato Jervis poco dopo il mio arrivo, Edmund non è stato più lo stesso. È divenuto scontroso e schivo, non il buon amico che credevo di aver trovato».

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«Dunque la stava ricattando» ho azzardato. «Sì, stava ricattando qualcuno. Non me. Si tratta di Jervis». «Jervis? Per quale motivo?» «Per lo stesso motivo che ha portato lei a ritenerlo strano e a provare pena, se non disgusto. Edmund, nonostante la giovane età, è una persona molto superstiziosa. Quando ha saputo del mio ritrovamento di Jervis nel camposanto si è subito detto molto diffidente. La sua ansia deve essere cresciuta, soprattutto in seguito alla profanazione delle tombe. Questa, unita ai bizzarri comportamenti del mio vecchio servo, devono averlo portato lentamente all’esasperazione». «Ciò mi rattrista ma è anche vero che, per sostenere una simile ipotesi, Edmund abbia senza dubbio dovuto avere qualche sospetto tale da renderlo sicuro delle sue affermazioni. Tanto da far sì che lei cedesse alle sue minacce». Il dottore si è molto scosso per la mia deduzione. Ha chinato la testa e mi è sembrato che la voce, più che dalla sua gola, provenisse da un antro alle sue spalle. «Sì, mio malgrado devo ammettere che Edmund sia tutto tranne che uno sciocco. La notte della profanazione Jervis è stato davvero al camposanto. Ma non è lui l’autore di quel sacrilegio. Non lui, lo giuro sull’onore della mia famiglia».

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«Per quale motivo si trovava lì, dunque?» «Per lo stesso motivo per cui mi trovo io qui adesso. Malinconia, suppongo. E perché avevo bisogno che recuperasse per me una cosa dal mausoleo di famiglia». Ho sentito le mani diventare fredde, quasi scivolose, mentre le dita cercavano il conforto dello schienale di una sedia. Con la gola secca ho quindi domandato di cosa fosse stato incaricato, temendo di sentire la risposta, qualunque essa fosse. «Una chiave, niente di più» ha detto, per poi trarre da sotto la camicia una catena d’argento, dalla quale pendeva una chiave vecchia e ossidata. «Dunque una chiave vale così tanto per voi?» ho chiesto ben poco convinto. «Le chiavi sono custodi, esattamente come il corpo lo è dell’anima, mio buon amico. Se conoscessimo i segreti del corpo saremmo in grado di guardare attraverso i misteri dell’anima e oltre ciò che si nasconde oltre i confini della vita e della morte. Questa chiave per me non è che un mezzo, per arrivare a un fine altissimo e misericordioso. Mai vorrei che il fido Jervis soffrisse a causa di ciò. Per questo ho pregato Edmund di restare in silenzio e, poiché le parole non sono state sufficienti, mi son visto costretto a pagarlo profumatamente. Se

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tutti fossero come lei, mio buon amico, curiosi sì ma rispettosi dell’altrui mistero, questo mondo vedrebbe giorni più felici». Ho sorriso o almeno questo è stato il mio intento al termine della sua confessione. «Non mi ha ancora risposto, però. Quale porta apre quella chiave?» Il mio ospite, forse involontariamente, ha diretto lo sguardo verso il corridoio che si perdeva nella tenue luce al suo fianco, al termine del quale, per un istante, mi è sembrato di intravedere una porta. «Le assicuro, da buon amico» ha risposto diplomaticamente il Dottore «che a qualunque luogo porti ciò che esso contiene non mi è certo più gradito della sua compagnia, di tanto in tanto». Il mio ospite ha quindi accennato a riprendere la sua trascrizione ed io, senza più apparente motivo per restare, mi sono limitato a confermare la mia presenza alla cena. sulla via del ritorno le parole del Dottore hanno continuato a fomentare la mia fantasia fino a quando, giunto in prossimità della porta, davanti allo sguardo sbigottito di Netitia, sono stato colto da un’improvvisa intuizione e mi sono diretto senza indugio all’alberghetto di S*******. Là, come avevo intuito, ho trovato Edmund e non è stato difficile per me invitarlo a

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bere. L’alcol è capace di sciogliere anche le lingue più annodate e, per chi sa ascoltare, è il più dolce tra i metodi persuasivi. L’ho convinto a raccontarmi la sua versione, fingendo che il Dottore fosse molto rattristato per la sua perdita. Sostanzialmente ha confermato ciò che il dottore mi aveva riferito poco prima, ma sulla fine del suo racconto, quando il vino era ormai all’apice del suo effetto dopo un istante di autentico stupore capace di arrossare il suo viso, si è detto deciso a non incontrare mai più né lui né quel demonio. Alle mie richieste di spiegazioni ulteriori è però sembrato piuttosto elusivo. Solo dopo altro vino e dopo aver estratto dalla tasca il bullone della ruota, la sua espressione è mutata. I suoi occhi si sono spalancati, ha iniziato a scuotere la testa e si è alzato, lasciandomi da solo insieme col conto da pagare. Evidentemente ci sono alcuni segreti che nemmeno la rabbia unita al vino sono in grado di sciogliere.

27 ottobre

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Ieri Edmund è stato trovato morto, impiccato nella stalla dell’alberghetto di S*******. Ne ho ricevuto notizia solo stamattina, quando il medico della zona è passato a farmi visita. Mi ha riferito, con un certo sdegno, che il suicida ha lasciato un biglietto nel quale ammetteva di essere stato lui il responsabile della profanazione del cimitero e che si sia reso responsabile di atti contro natura. Ha chiesto perdono per la sua anima ma è evidente come nessun parroco sia intenzionato ad accordargli la sepoltura in terra consacrata. Il medico è quindi venuto da me per richiedermi ufficialmente il permesso di poter portare il corpo nella città di V*****, dove sarebbe stato donato ai laboratori dell’università. La notizia mi ha scosso e il medico mi ha chiesto più volte spiegazioni sul mio strano atteggiamento. Ho mentito e ho preferito addurre il mio comportamento al fatto che la vicenda mi avesse molto turbato. Avevo quasi dimenticato che l’uomo che mi stava davanti, quando non era occupato tra gente semplice e modesta, teneva lezioni in vesti azzimate nella prestigiosa università. Quindi, colto da un’improvvisa curiosità, ho domandato se avesse mai sentito parlare di un libro con la copertina di pelle scura e dal nome molto strano.

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Quando mi ha chiesto se ne conoscessi il nome e gliel’ho riferito, ha come trattenuto un’esclamazione. Dopodichè si è fatto il segno della croce e mi ha pregato di dimenticarne il nome. Non ha voluto sapere né dove l’avessi visto né, tantomeno, da chi ne avessi appreso l’esistenza. Si è fatto scuro in volto, mi ha quindi prescritto un tonico e se ne è andato senza aggiungere altro. Sono rimasto a lungo seduto, con lo sguardo diretto il maniero e solo dopo molte ore, Netitia, credendomi addormentato, è salita nello studiolo per scuotermi la spalla. Ho finto di essermi assopito ma sempre più sono convinto che qualcosa di oscuro si agiti nelle viscere di questo luogo.

31 ottobre, Vigilia di Ognissanti.

La giornata di oggi è trascorsa lenta e noiosa, resa ancora più tediosa dall’attesa per la cena di stasera. Netitia, intuito il mio stato d’animo indolente, ha preferito evitarmi per tutto il giorno, curandosi solo di lasciarmi pronti i vestiti per la cena. Ignora quanto il mio nervosismo sia tutt’altro che dovuto alla nobiltà del mio ospite ma, per il suo bene, è meglio così. Non

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voglio metterla a parte dei miei timori: nonostante sia una serva fedele e una donna discreta, sono convinto che la voce dei miei sospetti potrebbe spargersi con rapidità. Dal momento che ricopro un ruolo istituzionale, il mio giudizio sarebbe senza dubbio tenuto in considerazione e allora la popolazione potrebbe agitarsi. No, per il bene di tutti la vicenda dovrà essere trattata ancora con la massima cautela.

1 novembre

Ieri sera il dottore mi ha ricevuto con i massimi onori. Con stupore ho dovuto ammettere che, nonostante continui a risiedere in quello che ha tutta l’aria di essere uno scantinato, è riuscito a conferire all’ambiente un tono nobile tale da renderlo irriconoscibile. Tessuti preziosi, libri e candelabri, tutto risplendeva sotto la luce di un grande lampadario di cristallo. Il dottore era gioviale e Jervis, rimasto in un angolo con lo sguardo fisso, pareva giovare del ritorno nell’antica dimora. Non c’è stato accun accenno a Edmund e mi è sembrato spiacevole, visto il clima conviviale, dover entrare nell’argomento.

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Ho quindi riposto il bicchiere e ho osservato per alcuni istanti la base decorata, facendone girare la base tra le mani. «Ho appreso la notizia della morte di Edmund. È stata veramente una vicenda spiacevole, per tutta la comunità». Il dottore ha lanciato un’occhiata a Jervis e lui è sparito in una stanza attigua. Dopodichè ha incrociato le mani e ha emesso un profondo sospiro. «Ha avuto ciò che meritava. Dio non avrà certo pietà della sua anima, non dopo ciò che ha fatto. Spero che non abbia colto l’occasione della cena per rivolgermi altre domande spiacevoli». Deve aver colto il mio sguardo perlustrare la sala, in cerca del dettaglio del quale, in un primo momento, non avevo notato l’assenza. Il libro blasfemo e il leggio erano spariti. Ho scosso la testa e abbiamo ricominciato a parlare animatamente, soprattutto a proposito dei problemi del villaggio. Il dottore si è detto molto interessato in cospicue donazioni e confesso che una parte di me ha pensato che avesse affrontato l’argomento con lo specifico intento di distrarre la mia curiosità. Verso la fine della cena, durante la quale Jervis non ha mai accennato a replicare altri inconsueti comportamenti, un fulmine ha illuminato il cielo, penetrando nella stanza attraverso le basse

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finestrelle che correvano tutto intorno alla stanza. Il dottore mi ha sorriso conciliante e, senza molti preamboli, mi ha consigliato di rincasare. Stupito per il repentino cambiamento del mio ospite, mi sono affrettato ad annuire. Ci siamo salutati con una certa fretta, il dottore pareva accrescere la propria fretta a ogni lampo che si disegnava nel cielo. Rimase brevemente fuori, sulla soglia delle antiche mura, a seguire con lo sguardo la mia partenza e in quel momento non avrei saputo dire se lo facesse per i suoi doveri di ospite o se fosse per assicurarsi della mia effettiva partenza. Netitia era molto sorpresa di vedermi rincasare così presto e, nel vedermi completamente bagnato, ha insistito perché bevessi un latte caldo con cognac. Ho atteso che la bevanda fosse pronta e mi sono seduto in poltrona, ad attendere che il cielo terminasse la sua furia sulla terra. Un concerto di fulmini e folgori si è tenuto sopra le valli e le montagne, un tuono o più d’uno hanno colpito la magione in rapida successione e, davanti a quello spettacolo insolito, sono balzato con apprensione sulla sedia, facendo sì che il bicchiere vacillasse nella mia mano. La folgore ha brillato per qualche istante sopra i muri della dimora, ha crepitato spargendo scintille e poi si è esaurita, lascinado nient’altro che

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uno spettro evanescente dietro di sì, una ferita orizzontale che, nel buio, era divenuta simile a un persistente sorriso.

13 novembre

Nelle ultime settimane si sono verificati strani accadimenti che, a tutt’oggi, restano privi tanto di spiegazione quanto di presunti colpevoli. A inizio del mese le acque del fiume si sono tinte di rosso. È stato un fenomeno di breve durata ma il prete ha immediatamente riunito i fedeli e ha tuonato dal pulpito invitando tutta la comunità a praticare due giorni di preghiera e digiuno. Che si sia trattato di un fenomeno mistico, naturale o di umana causa non saprei dire. Gli abitanti hanno risposto all’invito del parroco e le acque sono tornate alla consueta limpidezza. Sono un uomo razionale e ben poco incline a credere alla manifestazione dell’ira divina o alle punizioni del demonio. Ciò che, per esperienza, può non essere imputato alla natura, deve essere imputato, per forza di cose, all’azione dell’uomo.

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È stata poi la volta del ritrovamento di animali scuoiati ai margini del villaggio, contorti in strane pose innaturali. La macabra scoperta è stata fatta da alcuni bambini che hanno riconosciuto, in alcune delle vittime, i loro animali da compagnia. Il fatto mi è stato riportato con un certo fastidio da alcuni dei paesani i quali, senza tanti giri di parole, mi hanno intimato di far qualcosa per allontanare i girovaghi accampati a poca distanza dal nostro paese. Non ho potuto rifiutarmi ma ho comunque espresso i miei forti dubbi in materia. Ho quindi promesso loro che sarei andato a incontrare i capi di quella comunità e avrei chiesto loro spiegazioni. Se li avessi ritenuti colpevoli o ne avessi sospettato quantomeno la colpevolezza, ho dato la parola che mi sarei adoperato per farli spostare.

18 novembre

Sono stato svegliato in piena notte, buttato giù dal letto dall’insistente vociare in strada sotto le mie finestre. Sono sceso, in veste da camera, mentre Netitia aveva iniziato a

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correre per i corridoi in preda a un’agitazione mai vista prima. Sono sceso, davanti a me ho trovato il macellaio, sudato e sconvolto. L’ho fatto entrare e l’ho messo davanti al camino che Netitia, ripresasi dallo spavento, si era prodigata a ravvivare. Balbettava e rispondeva alle mie domande in maniera elusiva, coprendosi gli occhi con le mani. Aveva visto qualcosa di orribile aggirarsi davanti a casa sua e nelle strade del villaggio, qualcosa che faticava a spiegare e che descriveva come qualcosa di enorme e rosso. Niente di simile era mai stato visto prima di allora e l’uomo giurava sul proprio onore che non avesse toccato vino in tutto il giorno. Giurava sulla sua testa, su quella della moglie, dei figli ed era in procinto di afferrare la piccola croce che si trova sopra il mio scrittoio. L’ho fatto sedere, gli ho offerto un bicchiere di cognac per tranquillizzarlo ma lui lo ha rifiutato con un gesto secco. Era stato a denunciare l’accaduto alla piccola guarnigione ma gli uomini di guardia l’avevano deriso. «Da stanotte» ha detto con la voce tremante «niente potrà tranquillizzarmi. Non fino a che quell’essere, quell’orco rosso, vagherà libero in questo villaggio».

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Ho rimandato a casa il macellaio, offrendogli poche e scarne rassicurazioni. Indubbiamente l’uomo era sempre stato degno di fiducia e non poteva il suo intento essere quello di prendersi gioco di me. Ormai smarrito il sonno, mi sono ritrovato a vagare per il villaggio. Tutto era calmo, immobile, addormentato e di quello che il macellaio aveva definito come orco rosso non v’era traccia.

26 novembre

La comunità è stata funestata da una nuova tragedia. Stanotte, dal vicino accampamento dei girovaghi, si sono alzate urla di terrore così alte da raggiungere il villaggio. Le persone sono scese nelle loro vesti da notte in strada ma non hanno avuto il coraggio di avvicinarsi. Il fuoco ha poi iniziato a mangiare la carovana e le urla sono cessate, una dopo l’altra. Questa mattina io, alcune guardie e il parroco ci siamo recati all’accampamento per constatare l’accaduto, pensando che la luce del giorno potesse rassicurarci in qualche modo. In realtà, i raggi impietosi di un sole velato hanno rivelato quelli che erano i resti carbonizzati di una vera e propria carneficina. Solo

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un bambino, coperto di stracci e rimasto probabilmente nascosto, si è avvicinato verso di noi urlando, dicendo, con poche parole elementari, di aver visto un uomo spaventoso, enorme e rosso. Quando abbiamo chiesto se fosse stato lui il responsabile, il bambino, scoppiato in lacrime, ha detto di sì. Uno dopo l’altro, bambini e bambine di ogni età sono emersi da ciò che restava dei loro genitori e dei loro cari. Erano rimasti lì, al freddo, tutta la notte, a vegliare quei corpi senza vita. L’uomo rosso, l’orco rosso, come anche loro avevano preso a chiamarlo, li aveva risparmiati.

30 novembre

Stamani la vedova K**** è stata trovata morta, nel suo letto. I figli, dopo il ritrovamento del corpo della donna, sono corsi dal parroco a chiedere il suo intervento. Il prete ha quindi inviato il diacono che ha richiesto la mia immediata presenza. «Credo che i figli abbiano qualcosa da riferirle» mi ha detto non appena sono comparso sulla soglia della dimora. Ho incrociato lo sguardo affranto dei due ragazzi, quindi mi sono seduto vicino a loro e gli ho chiesto se avessero bisogno

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di parlare con qualcuno. Scuotevano le teste, sconsolati e non sembravano inclini a raccontare ciò a cui il parroco si riferiva. Così l’uomo, vedendomi in difficoltà, ha deciso di avvicinarsi e con parole rassicuranti ha convinto i due a parlare. Il più grande dei due, senza lasciare la presa dalla mano del fratello minore ha così iniziato a raccontare ciò che poco prima, nel segreto della confessione, aveva raccontato al parroco. «Stanotte ci siamo svegliati di soprassalto quando abbiamo sentito la porta di casa sbattere. Poco dopo abbiamo sentito la voce di nostra madre e un rumore di passi strascicati oltre la soglia. Non era la prima volta che lei…lei usciva o faceva qualcosa di strano». «Cosa intendi figliolo?» ««Da qualche giorno era agitata, credo sia da quando si è sparsa la voce di quel mostro, anche se…». «Anche se cosa?» Il ragazzino era riluttante a parlare ma la presa del fratellino si era fatta più forte e quel gesto sembrava avergli dato la forza di continuare. «Prima che potessimo fare qualunque cosa ha chiuso la porta da fuori e ci ha rivolto parole rassicuranti. Poi ha iniziato a

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parlare con un tono di voce che non udivamo da quando…da quando è morto nostro padre». «Poi l’abbiamo sentita urlare» ha detto il piccolo dopo aver alzato la testa «ma subito dopo c’è stato silenzio». «Sarà un triste Natale, per voi» ho detto quindi con una certa banalià. I due orfani hanno annuito. «Nostro padre ogni anno ci costruiva regali favolosi. Era molto bravo, sa? Sapeva costruire di tutto e con qualunque cosa».

4 dicembre

Gli avvistamenti dell’orco rosso crescono ogni mattina: dopo la morte della vedova K**** il terrore si è impadronito del paese e qualcuno si è detto pronto a trasferirsi in una dei paesi vicini. L’incredibile gravità degli eventi mi ha portato a trascurare alcune missive indirizzatemi dal Dottore e che ho trascurato di aprire. In esse, con untono di preoccupazione crescente, intuibile anche dal progressivo degenerare della grafia, mi chiedeva di recarmi a fargli visita. Quest’oggi ho deciso di andare al vecchio maniero e ho trovato il mio ospite

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incredibilmente emaciato, poco curato e con gli occhi magnetici incavati nel volto angosciato. La mia prima preoccupazione, nel vederlo in quello stato, è che avesse anche lui incontrato l’orco rosso. L’uomo mi ha guardato con occhi lucidi e acquosi, è caduto in ginocchio e si è portato le mani al viso, scoppiando in un pianto incontrollato. Jervis, nel sentire quella reazione, è emerso dal corridoio e si è gettato sul padrone. L’ha alzato di peso, con una forza che non credevo fosse capace e l’ha percosso senza rispetto per i suoi nobili natali. «Non azzardarti a dire una parola» gli ha intimato tra i denti marci. Pietrificato, ho mosso alcuni passi indietro mentre il dottore dapprima abbassava lo sguardo e poi lo dirigeva verso di me, in un silenzioso grido di aiuto. Ho quindi vinto contegno che fino a quel momento mi ha contraddistinto e mi sono avventato sul vecchio, liberando il dottore dalla presa e spingendolo contro la parete di pietra. Il vecchio mi ha guardato con occhi stralunati e ha scoperto la bocca marcia per rivolgermi bestemmie e parole blasfeme. Dopodichè ha imboccato le scale ed è scomparso,

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lasciando il dottore a terra, piegato in un pianto divenuto sommesso. «È colpa mia. È tutta colpa mia» ripeteva. «Di cosa sta parlando?» «L’orco. Quello che lei chiama Orco rosso. È opera mia». Quelle parole e il significato di quella rivelazione mi investirono come un torrente in piena. «Ogni mio sospetto, ogni mio dubbio allora…». «Sì, erano fondati». Ho afferrato il dottore per il bavero della camicia e l’ho sollevato: per la prima volta, nei miei occhi, è comparso uno sguardo minaccioso. «Lei è un mostro, al pari della bestia che si aggira là fuori. Perché?» «Lasci che mi spieghi, la prego. Sono tornato qui animato dai migliori intenti. Purtroppo, sulla mia strada quella notte maledetta ho incontrato il fabbro. È stato un incidente, l’uomo era morto e non c’era niente che potessi fare. Aiutato da Edmund siamo riusciti, con molta fatica, a liberarci del corpo, facendo sì che sembrasse una disgrazia». «Così ha deciso di rifondere la vedova, non è vero? È per questo che ha tanto insistito. Si sentiva responsabile».

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«All’inizio sì. Poi, dopo aver incontrato Jervis, ho capito che avrei potuto fare molto di più, se solo avessi voluto. Ma per fare ciò avevo bisogno di recuperare la conoscenza che i miei avi avevano accumulato e della quale il mio vecchio servo era il depositario, capisce?» «Quale conoscenza? Di cosa parla?» «Possibile che non abbia capito? Riportare in vita i morti! Jervis ha insistito perché il primo esperimento fosse fatto sul corpo del fabbro poiché il suo corpo era fresco e forte». «Il primo esperimento?» Il dottore è stato colto dal panico. «Sì…Jervis. Era lui che guidava i miei passi: io mi abbeveravo della sua conoscenza dei morti e del loro mondo, animato dalla sincera speranza di poter far del bene ai vivi». «Invece?» «La prego, mio buon amico. Venga con me, mi segua» disse liberandosi della presa e indicandomi il corridoio alle mie spalle. Estrasse quindi la chiave da sotto la camicia e la inserì nella toppa di quell’ultima porta defilata. All’interno di una stanza riempita di bizzarri macchinari c’erano due vasche piene di

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acqua rossa, sopra alle quali erano adagiati altrettanti corpi imbalsamati, forse in attesa di essere immersi. «Questi…questi sono i miei genitori. Le loro spoglie mortali. Jervis voleva che, dopo il primo esperimento mi concentrassi su di loro, capisce. Voleva che riportassi in vita i suoi padroni affinchè tutto potesse tornare come prima. Ho accettato, questo prima dell’incidente». «Quale incidente, di cosa parla?» «La notte di ognissanti, quando il cielo si è riempito di folgori, ho rianimato il corpo del fabbro: il suo cervello ha ricominciato a generare impulsi, il suo cuore a battere, i suoi polmoni a pompare aria e i suoi muscoli a fremere. Grazie ai segreti del blasfemo Necronomicon sono riuscito a compiere l’oscuro miracolo di riportarlo qua ma…qualcosa deve essere andato male nel procedimento, il bagno di porpora nel quale avevo immerso il suo corpo ha intaccato i tessuti. Molte delle sue attività cerebrali erano compromesse, capisce? Egli…ecco, dopo aver ripreso conoscenza, aver capito di esere tornato dal lugubre mondo dei morti menomato e orrendo, il mostro, l’orco rosso, è scappato».

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Ho imprecato e mi perdoni il cielo se l’ho fatto. Il dottore, con gli occhi pieni di lacrime, mi ha afferrato per un lembo della giacca e mi ha pregato di non lasciarlo solo. «Mi aiuti. Mi aiuti a fermarlo amico mio. Io l’ho creato e sarò dannato se non lo fermerò». Scrivo queste righe mentre, insieme al dottore, ci stiamo preparando per cercare l’orco. Ho accettato, andrò con lui. Dice di sapere dove si nasconde. Ho procurato le armi e, dopo anni, mi sono unito in preghiera insieme a lui. Ho lasciato una lettera per Netitia da consegnare al parrocco nel caso che io non faccia ritorno. Se falliamo devono sapere che almeno abbiamo provato. Che il cielo ci assista.

10 dicembre

Il medico mi ha proibito per giorni di alzarmi da letto. Solo oggi, dopo che il dosaggio dei tranquillanti è stato diminuito, sono in grado di ripercorrere con la poca lucidità mentale che mi è rimasta, gli avvenimenti della notte del 5 dicembre. Il dottore era convinto che il mostro avesse preso dimora al cimitero del villaggio, proprio nel mausoleo della sua famiglia.

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Abbiamo varcato i cancelli con i cuori trepidanti di terrore ma sicuri di agire nel giusto. Per un attimo, mi era parso che una mano, dall’alto, fosse scesa su di noi per guidare e proteggere i nostri passi. Il cimitero era immerso nel silenzio che solo la morte è capace di donare a coloro che la cercano. La terra, immobile, accoglieva i nostri passi, magro pasto rispetto ai nostri corpi. Siamo giunti nella parte più antica del camposanto, e abbiamo intravisto una luce attraverso gli alberi secolari. Senza che potessimo muovere un passo, Jervis ci ha sorpresi, un colpo è partito dalla rivoltella del dottore e l’eco dello sparo si è sparso tutto attorno. Jervis era stato colpito ma non per questo era meno forte e motivato. In due riuscivamo a stento ad eguagliare la stretta delle sue braccia rachitiche. Poi, sulla soglia del sepolcro, è comparso l’orco. Rosso, proprio come era stato descritto, e dai lineamenti deformi e gonfi. Avevo già visto quel volto. Il dottore non mentiva, era il fabbro. Sono caduto a terra, ho afferrato una pietra e l’ho calata con forza sulla testa del vecchio servo che, nel frattempo, aveva stretto le mani contro la gola del dottore. Jervis è crollato come un vecchio straccio e io, con mani tremanti e il respiro impazzito, ho diretto la rivoltella contro l’orco rimasto impassibile sulla soglia. Il dottore, a fianco a me, ha mosso

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alcuni passi verso la porta. L’orco era fermo, immobile, con le spalle possenti incasellate negli angoli neri bizzarramente squadrati del mausoleo. L’orco si è scansato, in un silenzioso gesto di invito e, prima che potessi dire una parola, il dottore era sparito dentro la tomba. Con passi incerti mi sono avvicinato a mia volta. Il dottore era fermo, in piedi e teneva qualcosa tra le mani. Ho coperto gli occhi con la mano, la luce che proveniva dall’interno era troppo forte e io troppo stravolto. «Sono giocattoli. Giocattoli» mormorava il dottore con voce incredula. L’ho avvicinato e ho visto ciò che teneva tra le mani. Era una palla, fatta di pelo di animale. Davanti c’erano giochi di ogni genere, macabramente assemblati dalle mani grosse e possenti dell’orco: bambole fatte di carne, animali imbalsamati, ossa, teste, denti e occhi senza palpebre, tutti uniti e concentrati in quella che aveva l’aria di apparire come una vetrina del più terribile degli empori. Quella vista era sufficiente per far perdere il lume della ragione a chiunque non avesse i nervi abbastanza saldi. O la cui mente non fosse già abbastanza compromessa. Il dottore era pietrificato e l’orco gli rivolgeva al contrario uno sguardo compassionevole.

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«Lo faccia» gli ho detto. Ho creduto di sussurrarlo, invece devo averlo urlato. È stato allora che l’orco mi ha guardato e nei suoi occhi ho riconosciuto, per un attimo, lo sguardo dell’uomo che era stato. La mano del dottore tremava mentre si alzava e prendeva la mira. Venne un rumore da fuori, il dottore abbassò repentinamente l’arma. Un boato si era levato dal camposanto e tra gli alberi secolari erano comparsi lumini e scintille. Il dottore uscì insieme a me, rimanemmo per alcuni istanti febbrili in attesa poi comparve il parroco e dietro di lui tutto il paese. Torce, forconi e rivoltelle: ognuno di loro sembrava determinato a porre fine all’esistenza del mostro quella notte. Il prete brandiva la bibbia in una mano e nell’altra quella che riconobbi come la missiva che avevo affidato a Netitia. Il prete, come se si fosse trovato sul suo pulpito, ordinò al dottore di indicare loro il nascondiglio del mostro affinchè il mondo fosse purificato da tanta empietà. L’orco rosso è comparso allora sulla soglia, molti hanno urlato, altri sono scappati. Il dottore urlò a sua volta. «Vi prego! Non fatelo! Lui…lui non voleva farvi del male…lui voleva costruire…costruire dei giocattoli!»

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Non ci fu risposta. Nessuna che orecchio umano fu in grado di capire. Dalla folla si alzò un ruggito, colpi di fucile e rivoltella esplosero nella notte. Il dottore cadde a terra esanime e l’orco, dopo essersi percosso il petto, sparì nella notte. Da muto osservatore, mi accorsi solo allora che tutto era durato non più che una manciata di secondi. Il corpo del dottore era disteso a terra ai miei piedi e aveva sul volto un’espressione distrutta. Alcuni uomini mi hanno allora oltrepassato brandendo le loro torce e in un sol gesto il fuoco ha avvolto gli interni del mausoleo nero alle mie spalle. Una risata si levò dal campo santo. Tra gli alberi illuminati dalle fiamme si levò una sagoma scarna. Jervis, Jervis era vivo. «Tornerà. Tornerà a Natale, come successo quarant’anni fa. E voi non potrete fare niente, stavolta. Tornerà e porterà con sé i suoi doni per tutti voi». Il vecchio servo rise un’ultima volta, dopodichè il corpo si piegò su se stesso e di lui non rimase che un mucchio d’ossa consunte. Quella è stata l’ultima cosa che ricordo lucidamente. Il resto dei ricordi frammentari si perde nella febbre della follia e nei resoconti successivi che mi sono stati riportati fedelmente. Sono stato momentaneamente sollevato dal compito di borgomastro, forse ci sarà un’inchiesta ufficiale e accuse potrebbero essere formulate sul mio conto in

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base alle mie azioni. Questo diario è l’unica cosa che possa, per quanto le parole ben poco siano in grado di descrivere gli assurdi eventi, scagionare me e il mio operato.

24 dicembre

Lo sento. È nell’aria, nella neve che turbina, nel fuoco che scoppietta allegro nel focolare. È quasi mezzanotte, Natale è ormai tra noi e le ombre lunghe disegnate dalla luna suggeriscono fantasie grottesche. Piena di orrore è la mia mente e presto lo saranno anche i miei occhi. Nessuna preghiera, nessun miracolo giunge a rischiarare il mio cuore. L’antica magione è stata data alle fiamme e con essa I corpi e il libro blasfemo. Il mausoleo nero con gli angoli bizzarramente squadrati è stato distrutto e rimosso pezzo per pezzo. La terra sconsacrata di nuovo benedetta. Non basterà, niente potrà ormai fermarlo. Non stanotte che ha promesso di tornare. Eccolo. L’orco rosso sta arrivando. Vedo la sua sagoma disegnata nella via maestra. Dalle sue spalle pende un sacco, pieno dei suoi macabri regali. La rivoltella brilla al mio fianco. L’orco non mi avrà. Non diventerò uno dei suoi doni. Non

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dopo che ho fatto quanto umanamente possibile per fermarlo. Giocattoli, erano solo giocattoli per lui.

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Ringraziamentii

Siamo giunti alla fine e abbiamo un bel po da ringraziare. Prima di tutto ringraziamo tutti gli autori per aver partecipato questa nostra iniziativsa con tanto ottimismo e voglia di fare, nonostante non ci fosse poi così tanto tempo. Quindi… grazie a Giordana Ungaro, LunaLibera, Lidia Ottelli, Marco Bertoli ,Tanya D'Antoni, Jury Livorati, Erika Rizzo, Flavia Cantini, Susan Mikhaiel, Serena Vianello, Jessica Maccario, Francesca Ghiribelli, Daniela Iannuzzi, Noemi Gastaldi e Alessandro H. Den. Ringraziamo poi allo stupendo comitato di lettura, che si è impegnato a leggere tutti i racconti (anonimi) e a dargli una valutazione. Un grazie a Ilaria Militello per la sua bellissima prefazione, a Miriam Rizzo per editing, a Violet Nightfall per la bellissima cover. Grazie a tutti quelli che scaricheranno l’antologia e se la leggeranno con tanta curiosità. Speriamo che questo sia solo l’inizio… Lidia Ottelli e Serena Vianello blog Il Rumore dei Libri. Miriam Rizzo blog Le

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Passioni di Brully e Consuelo Baviera e Ilaria Militello blog My Secret Diary.

http://ilrumoredeilibri.blogspot.it/ http://lepassionidibrully.blogspot.it/ http://themydiarysecret.blogspot.it/

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Questa antologia è stata pubblicato nel mese di Gennaio 2014.

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