L'idea molisana numero 0

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L'IDEA MOLISANA Anno 1 Numero 0 Aprile 2015

umanitĂ /macchina/artificio

LA NEVICATA DEL 2015


Alba sul lago Foto: Nicola Paolantonio


EDITORIALE

Perché sì ●

Adelchi Battista —

In principio ci hanno preso in giro urlando ai quattro venti che il Molise non esiste: che è una specie di appendice fastidiosa dell'Abruzzo, un buco di terra sconosciuta che balza alle cronache quando la natura impazzisce e rovescia tonnellate di neve, o si scrolla i paesi di dosso con qualche colpo sismico di tosse. Poi ci si sono messi gli amministratori locali. Perché dimostrare al mondo intero che pur così piccoli eravamo anche capaci di amministrarci? Si fece di tutto per indebitare la collettività, per devastare l'ambiente, per compiacere gli amici, per scambiare il lavoro con i voti, col risultato che per tutta la sua cinquantennale esistenza la nostra amata regione ha perso, un pezzo dopo l'altro, credibilità, capacità produttiva, talenti, intelligenze, conoscenza del proprio territorio e delle proprie tradizioni, comprensione dei fenomeni, discernimento. In una parola la sua stessa esistenza. Una corposa maggioranza di molisani oggi ritiene quindi che sia più saggio farsi inglobare in qualche macroregione, a nord o a sud poco importa, piuttosto che continuare a sopravvivere in questo procedimento fallimentare, in questa agonia mostruosa nella quale oggi anneghiamo lentamente. Ebbene, gli uomini e le donne che hanno preso parte a questa avventura non appartengono - in generale - alle maggioranze. Rappresentano (secondo il mio umile modo di vedere) capacità non comuni e libertà di idee e di pensiero, e dimostrano ancora una volta che essere molisani non è una questione di linee di confine, e meno che mai di governo regionale. Questa rivista si chiama l'Idea Molisana proprio per questo: ricalcando quei due gloriosi anni di pubblicazione (1914-1916) siamo qui per dire che nessuno ci potrà mai fare da balia, perché non siamo la pecora nera, non siamo Franti, sebbene rivalutare Franti faccia parte di un nostro antico sogno di gioventù. Incominciare questa avventura insieme a queste persone è per me un onore e una responsabilità, e non posso quindi che augurarmi e augurare a tutti: buon viaggio. © 2015 Adelchi Battista


Foto: Paolo Cardone



Foto: Massimo Di Nonno


L'IDEA MOLISANA

I CONTI SENZA L'OSTE

MACROREGIONI, UNA FOLLIA!

L'Idea Molisana nasce in un momento nel quale di idee in giro se ne vedono davvero poche. Poche e di pessima qualità. Nasce, in particolare, proprio quando vede la luce la delirante proposta di riorganizzazione delle Regioni sfornata Lucio Di Gaetano dal duo PD Ranucci - Morassut che prevede la cancellazione della nostra Regione dalle cartine geografiche. L'iniziativa è motivata con isoliti profondissimi argomenti: 1) i consiglieri regionali sono ladri e dunque accorpando le Regioni ridurremo ilnumero dei ladri; 2) le Regioni non funzionano e costano troppo; 3) l'idea originale di Macro-Regione è della Fondazione Agnelli. Ergo, anche se non si capisce bene perché, deve essere un'idea intelligente. Ora in un Paese normale cominciando così non si arriverebbe nemmeno a modificare un regolamento condominiale, figuriamoci la Costituzione della Repubblica; eppure il Governo in carica (del quale non nominerò il Primo Ministro) ha già dimostrato si saper spacciare egregiamente per "riforma" il tentativo di conformare le regole del gioco al proprio tornaconto politico, cavalcando con particolare talento gli scandali e le necessità di risparmio. Nel caso della Riforma del Senato, ad esempio, abbiamo assistito a un'insensata opera di castrazione della camera alta, trasformata da ramo nobile del Parlamento (con pari prerogative e pari funzioni) in assurdo moncherino per la messa a riposo dei politici della periferia. Il tutto conseguendo risparmi (futuribili) di appena 50 milioni di Euro l'anno, giacché la totalità dei dipendenti e delle strutture amministrative del Senato, nonostante la Foto: Massimo Di Nonno. riforma, rimarranno quel che erano prima. Oggi lo spettacolo si ripete: secondo la insensata bozza, le Regioni passerebbero da 20 a 12, cancellando dalla cartina realtà plurisecolari che manco le invasioni spagnole, francesi e saracene avevano potuto scalfire. Particolare odioso della riforma, a sparire sarebbero soprattutto le realtà più piccole (Molise, Valle D'Aosta, Basilicata, Umbria) assorbite o spezzettate per consentire l'allargamento delle Regioni confinanti. E anche questa volta la manovra non frutterebbe risparmi rilevanti: le macchine amministrative di ciascuna Regione verrebbero infatti accorpate l'un l'altra senza interventi strutturali.Per fare un esempio, se Veneto, Friuli e Trentino avessero ciascuna 1000 dipendenti (nella realtà, ovviamente, sono molti di più), venendo riunite ne scaturirebbe una "Regione Triveneto" dotata di 3000 dipendenti: per le esauste tasche dei contribuenti, insomma, nessun beneficio. A pensarci bene, poi, nemmeno il numero dei "potenziali ladri" sarebbe destinato a ridursi così sensibilmente: non è ancora chiaro, infatti, in che misura verrebbe ridotto il numero complessivo di consiglieri regionali ed è ragionevole immaginare che non si perderebbe per strada un numero di poltrone proporzionale al numero di Regioni eliminate, poiché la cancellazione dei confini non necessariamente comporta una proporzionale cancellazione delle circoscrizioni elettorali (anzi qualcosa mi dice che in questo caso il legislatore avrebbe mano assai più leggera, sensibile com'è ai potentati politici locali...). Niente risparmi, dunque, e ancora tanti potenziali maniaci del rimborso in circolazione. Gli argomenti 1) e 2) vengono meno. Che dire allora dell'argomento n.3)? Se lo dice la Fondazione Agnellisarà vero? Non lo so: però so che la FIAT ora si chiama FCA e, soprattutto, non sta più a Torino avendo ormai sede legale in Olanda e residenza fiscale a Londra. Sarebbe così male, dunque, se la Fondazione si occupasse d'ora in poi dei territori del Commonwealth o delle splendide Antille? ©Luca Forcini


L'IDEA MOLISANA

SUMMUM IUS SUMMA INIURIA

LO SPETTRO DELLA PRESCRIZIONE Antonello Lombardi Uno spettro si aggira per le aule giudiziarie: la prescrizione del reato. È ammantata di un elegante tabarro di seta, sotto il quale nasconde l'arma bianca con la quale, ogni anno, miete molte vittime.

Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando (PD) ©Angela Quattrone

Non vittime semplici, ma due volte vittime. Vittime, una prima volta, del reato commesso a loro danno, una truffa, una violenza sessuale, una concussione. Vittime, una seconda volta, della prescrizione del reato, nel processo nel quale assumono le vesti di persone offese. Impunito il colpevole, non resta loro che agire in sede civile per ottenere un risarcimento del danno. Si stima che negli ultimi dieci anni i processi terminati con la dichiarazione di prescrizione del reato ammontino ad un milione e mezzo, una cifra impressionante se si pensa alle centinaia di migliaia di persone offese vittime di denegata giustizia ed agli effetti secondari criminogeni che il fenomeno produce. La diffusa percezione di poterla fare franca diminuisce, infatti, considerevolmente la portata deterrente (o "generalpreventiva") della sanzione penale. Le origini della prescrizione sono antichissime e si perdono nella notte dei tempi. Le prime tracce si rinvengono nell'Atene classica, dove vigeva un termine di prescrizione di cinque anni, al di là del quale il reato andava estinto. Questo termine aveva, secondo Demostene, la funzione di controllare l'attività dei sicofanti, progenitori dei pubblici ministeri. Secondo i padri della dottrina penalistica italiana la prescrizione risponde ad un basilare principio di civiltà: nessun cittadino può sottostare sine die alla spada di Damocle di un'indagine o di un processo penale, a meno che l'interesse statuale all'accertamento e repressione dei reati non prevalga rispetto all'esigenza di ragionevolezza e congruità della durata di tale accertamento. È questo il motivo per cui i reati bagatellari o di minor

allarme sociale hanno termini di prescrizione brevi, i reati più gravi hanno termini più lunghi, sino ad arrivare ai reati imprescrittibili, come l'omicidio, il cui accertamento non è soggetto ad alcuna scadenza. Quando, nel corso delle indagini penali, o in uno dei gradi del processo, si supera il termine di prescrizione, l'imputato deve essere immediatamente prosciolto. Il che, però, non significa vanificare le attività di indagine o processuali compiute sino a quel punto, dovendo il giudice scandagliare i profili di innocenza e dichiararli nel caso in cui riscontri gli estremi per la pronuncia di un'assoluzione nel merito. È questo il motivo per cui, nell'immaginario popolare, la prescrizione viene associata ad una forma di colpevolezza, sia pure attenuata. Emblematico è il participio sostantivato con cui i tifosi juventini replicano agli strali degli interisti a proposito delle note vicende di Calciopoli: noi saremo pure condannati, ma voi siete "prescritti". Il concetto che gli innocenti ed i prescritti non occupino il medesimo girone dantesco tende, a volte, a sfumare nella distorta divulgazione mediatica. Come nel caso di quel leader politico italiano che, a dimostrazione della pervicace persecuzione politico-giudiziaria da parte dei pubblici ministeri, della quale si ergeva a vittima, era solito citare le numerose assoluzioni intervenute negli anni dimenticando, naturalmente per mera distrazione, di distinguere, all'interno di queste ultime, i sette proscioglimenti per intervenuta prescrizione, alcuni dei quali in forza di leggi abbreviative dei termini prescrizionali intervenute in corso d'opera ed applicate a quei processi.


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LO SPETTRO DELLA PRESCRIZIONE

SUMMUM IUS SUMMA INIURIA

La prescrizione, tuttavia, svolge un'effettiva funzione di civiltà e garanzia nei soli ordinamenti in cui la durata delle indagini e dei processi sia fisiologica. In situazioni patologiche e di elefantiasi della macchina giudiziaria gli effetti della prescrizione sono devastanti. Il fenomeno della falcidia di processi, per effetto della lentezza degli stessi ha, difatti, un perverso meccanismo di autoalimentazione. Più alto è il numero di processi, più lenta è la macchina della giustizia, più è probabile che i processi vadano in prescrizione. Per far andare il reato in prescrizione, però, si propongono tantissimi appelli o ricorsi per cassazione, spesso infondati, ma funzionali ad evitare che la condanna diventi definitiva e garantire lo scorrimento della clessidra della prescrizione. E così aumentano i processi, si dilatano ulteriormente i tempi ed un sempre maggior numero di reati si estingue. Gli effetti distorsivi si riflettono anche sulla pratica giudiziaria. I fascicoli "agonizzanti", quelli che, per la brevità del termine prescrizionale, non hanno nessuna chance di essere definiti prima della prescrizione, vengono lasciati morire di inedia nei polverosi scaffali delle procure.

discrezionalità interpretativa delle norme, ha progressivamente sviluppato la tendenza a procrastinare il momento di consumazione del reato, dal quale far decorrere il termine di prescrizione. Emblematico è, ancora una volta, il caso del leader politico italiano accusato di aver prezzolato un testimone inglese per rendere falsa testimonianza. La Procura, per evitare la prescrizione, sosteneva che la consumazione del reato di corruzione in atti giudiziari si appuntava alla data della materiale disponibilità sul conto corrente della somma pagata quale prezzo della corruzione, la Cassazione sconfessava la tesi, dichiarando l'estinzione del reato per prescrizione ed anticipando la consumazione del reato di alcuni mesi, al primo dei passaggi del denaro destinato al presunto corrotto. Il testo di legge approvato alla Camera in questi giorni, salutato con favore dall'Associazione Nazionale Magistrati, sembra prendere atto degli effetti profondamente distorsivi della prescrizione sul sistema italiano, intervenendo sotto il duplice profilo dell'aumento generalizzato dei tempi di prescrizione e della sospensione del decorso del termine nel caso di sentenza di condanna in primo grado, in modo da arrestare l'emorragia di impugnazioni strumentali. Ti aspetti che il valore universale e condiviso dell'efficienza e dignità del sistema processuale penale porti le forze politiche ad una convergenza plebiscitaria e invece le cronache parlamentari parlano di astensioni, emendamenti per tenere considerevolmente basso il termine di prescrizione della corruzione, e voti contrari. E rimane il sospetto che il mandante, complice o palo dello spettro, ammantato di un elegante tabarro di seta, sotto il quale nasconde l'arma bianca, che si aggira per le aule giudiziarie per fare strame di processi, nelle more delle lunghe lungaggini processuali si nasconda al centro di Roma, precisamente tra Palazzo Madama e Palazzo Montecitorio.

Antonello Lombardi Nel caso dei fascicoli "traballanti", invece, all'avvicinarsi della scadenza del termine i ritmi del processo penale di primo grado diventano tambureggianti, a volte forsennati, con udienze celebrate sino a tarda sera, rinvii brevissimi con pregiudizio per le difese, ed un alto rischio di decidere in fretta, e cioè decidere male. Sotto altra prospettiva, si assiste a tendenze antagonistiche tra il potere politico e quello giudiziario. Il potere politico, in nome di istanze apparentemente garantistiche e liberali, ha nel tempo provveduto alla progressiva riduzione dei termini di prescrizione dei reati, in particolare di quelli commessi dai "colletti bianchi" e dei reati contro la pubblica amministrazione, come la corruzione e la concussione. Paradigmatica è la legge ex Cirielli, approvata nel 2005, poi sconfessata dallo stesso relatore Edmondo Cirielli, colonnello dell'Arma dei Carabinieri in aspettativa e parlamentare di destra, dopo alcuni emendamenti che ne avevano stravolto l'impianto originario e, si presume, un tardivo accesso di lucidità e buon senso. Il potere giudiziario, dal canto suo, facendo leva sulla

© Valigia Blu


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La Nevicata del 2015

Narrazione Adelchi Battista Immagini Paolo Cardone Immagini Massimiliano Ferrante Immagini Paolo Ricciuti Immagini Lello Muzio Immagini Giovanni Rosa

Foto: Paolo Cardone


Cronaca di un disastro annunciato Avevano detto che sarebbe stata dura. Che la neve sarebbe stata tanta, e pesante. Eravamo pronti, quindi, o quasi pronti. Il cielo si è aggravato, si è riempito di fumo come in quel grande affresco sul soffitto del Savoia, e poi è venuta giù, di colpo, come pioggia, come grandine, una nevicata violenta, una neve di gomma, un gigantesco copertone bianco, come la balena, come Moby Dick. Le cose, sotto, non hanno resistito, in particolare gli alberi. In montagna succede spesso: gli alberi si piegano, si spezzano, ma non te ne accorgi perché sono tanti, perché ne crescono altri, e la natura si rigenera rapidamente. In città invece un albero che cade è caduto per sempre, e se qualcuno lo pianta di nuovo è patrimonio dei figli, forse dei nipoti, ma non più nostro.

Foto: Paolo Ricciuti


Foto: Lello Muzio


Foto: Lello Muzio


Caterpillar C Il vecchio sindaco, che pareva uscito dal teatro dei burattini dei Fratelli Ferrajolo, li chiamava Bobcard, una figura mitologica creata dalla penna di Max Bunker, ovvero una disciplina paraolimpica di Poker glaciale. Adesso ci sono i Caterpillar, trattori potenti, macchine da sgombro che formano muri di neve che resisteranno fino a maggio. Come sembrano forti, sicuri, spediti in mezzo alla tormenta, ti fanno sentire meglio, più protetto, più caldo. Ma è una sensazione effimera e senza gioia, perché sono pochi, a volte inefficaci, o troppo al centro e poco in periferia, o, o, o...

Foto: Paolo Cardone



Foto: Giovanni Rosa


La metafora V

Foto: Massimiliano Ferrante

Quando la neve si scioglie rimane il fango e il freddo, le spaccature e le buche dell'asfalto. Una bella metafora del Partito Governativo Regionale, in preda ad ogni sorta di schizofrenia. In mezzo ai guai sanitari di chi vive in montagna, tra le strade rovinate dal ghiaccio e dalle intemperie, assistiamo alla commedia di ogni governante, di ogni nuovo promettente amministratore, assordati dal rumore carsico degli scarponi, con la faccia tagliata dal vento, immemori, millenari, ricoperti da una buccia dura di arenaria. E negli occhi acqua e nuvole.


Foto: Massimo Di Nonno


Foto: Massimo Di Nonno


L'IDEA MOLISANA

L'IDEA SANNITA

IL CORAGGIO DELL'UMANESIMO di NICOLA MASTRONARDI

"E' da stolti rinunciare al vantaggio che ci dà il conoscere le cose passate e il pensiero dei Grandi" (Anonimo, XVIII sec.) Sì, ci vuole un po' di coraggio. Non è di moda di questi tempi parlare, soprattutto ai giovani, di Umanesimo e di formazione umanistica. Ci vuole una certa sfacciataggine, poi, se si intende proporre un ritorno allo studio di certe discipline "antiche" nell'ambito scolastico. Certamente è controcorrente, ma mi va di parlarne. Mi capita di farlo sempre più spesso, ultimamente, soprattutto con studenti delle scuole superiori ed eccomi quì a buttar giù poche righe sulla indispensabilità di un passo indietro – anzi, in avanti nel campo della formazione culturale delle nuove generazioni, in Molise, Abruzzo come in Italia. Solo un cenno, per approfondire il tema magari nel prossimo futuro; con l'ambizione, neanche un po' celata, di provocare una riflessione seria su un aspetto tutt'altro che secondario della costruzione di sorti migliori per lo stivale italico e per le mie due regioni (che poi sono una sola) di riferimento. Le scienza umanistiche, semplicemente, formano la persona, la rendono migliore. Ecco servita una banalità, diranno in molti. E' vero, ma il guaio è che questa banalità ha tanto il sapore di una convinzione di cui tutti conoscono la giustezza ma che nessuno adotta come comportamento. Di fatto la triste realtà ci dice che nel campo della formazione culturale delle giovani generazioni, da molti, troppi, anni l'Italia sta abdicando. Sta rinunciando, cioè, al ruolo di regina della scienze umanistiche (e dell'Arte) che l'ha fatta grande e l'ha resa, per l'appunto, Italia con la I maiuscola. Storia, filosofia, latino, greco, letteratura, musica, storia dell'arte. Per molti, anche per i riformatori scolastici degli ultimi non allegri decenni, sembrano esser roba che sa di muffa, da sopportare ancora qualche anno, giusto il tempo per far loro compiere una morte certa, dopo lenta agonia. Un errore di portata storica, già in parte compiuto. Perchè a morire sarà solo la qualità degli uomini del futuro. E la competitività dell' Italia che smette di fare l'Italia. Ma andiamo per gradi.

Ci siamo messi al seguito di un modello globalizzante di formazione culturale che impera in ambito europeo e internazionale il quale è concentrato soprattutto a formare persone e professionalità propedeutiche allo sviluppo tecnologico, economico e finanziario. Rinunciando ad una delle nostre ricchezze di sempre: l'umanesimo, appunto. E' come se nel campo agroalimentare ci mettessimo a scimmiottare, che so, la cucina anglosassone (Dio ce ne scampi e liberi.. l'ho detta grossa!) o quella cinese, rinunciando a tutto il patrimonio culturale (ecco, ci siamo) ricevuto dal passato. Oppure è come se nel campo della moda rinunciassimo al nostro saper fare artigianale che è frutto di cultura millenaria di una commistione della cultura del bello con l'abilità manuale. Ne vale davvero la pena? Voglio, dire: ma è proprio necessario rinunciare a un così grande, secolare, riconosciuto vantaggio? Non è forse CONVENIENTE effettuare un deciso ripensamento, un passo indietro, anzi in avanti, ripensando la maniera più "moderna" lo studiar classici, storia, filosofia, arte e latino? Sì, latino. A tal proposito dirò qualcosa più innanzi. Io dico che non dobbiamo e non possiamo permetterci di abbandonare la stratificazione culturale che in Italia è frutto di un secolare concentrato di apporti etrusco-italici-latinogreco-arabi, e non ho detto tutto. Semplicemente ne perderemmo (e, difatti, perdiamo) in termini di competitività globale. Economica, soprattutto. Ed è proprio qui che casca l'asino... inteso, in questo caso, come chi non vuol capire, o almeno tentare di sforzarsi, che studiar Dante, il suo senso dell'estetica e il suo gigantesco apparato teologico non è secondario nella vita, anzi! Infatti c'è dell'altro, eccome! Non a caso ho parlato di CONVENIENZA. Per farla sintetica, dirò solo che rinunciare alla cultura umanistica di base - che è educazione al bello, all'etico e al senso artistico ma anche affinamento della sensibilità personale, allenamento alla logica, abitudine all'approfondimento dei concetti e all'interrelazione tra gli


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L'IDEA SANNITA

foto: Paolo Cardone

stessi - per noi italiani vuol dire ottenere nel giro di due tre generazioni l'impoverimento di tutti quanti i comparti economici che hanno a che fare con la creatività, il bello o la sensibilità individuale. Proprio ciò che rappresenta, quasi inutile ricordarlo, la stragrande maggioranza delle produzioni nazionali di pregio, l'essenza della nostra capacità di esportazione e di penetrazione dei mercati. In poche parole la base stessa, la FORZA della immagine "Italia" nel mondo. La nostra storia economica, il nostro "genio nazionale" e gran parte della nostra fortuna economica è talento sviluppato dall'umanesimo. Se qualcuno osa affermare ancora che con la cultura non si mangia, giuro, me lo divoro io un solo boccone. Come si pensa sia nata la stagione del Rinascimento italiano? Voi pensate che uomini d'affari, politici, ingegneri e architetti del Tre-Quattro e Cinquecento non conoscessero Socrate, Platone e Pitagora (non solo quello dl teorema, per carità)? Per non parlare dei pittori o degli scultori e degli studiosi che furono gli artefici primi di quella vera e prorpia rivoluzione culturale alla base del nuovo primato economico fiorentino-italiano nel mondo di allora? O non è forse proprio per la scoperta dei classici che essi furono ciò che sono stati? Si sedettero sulle spalle di giganti del pensiero. E noi vogliamo rinunciarci! Poveretti che siamo. Perché fu grande Lorenzo il Magnifico se non per aver riconosciuto e allevato generazioni di geni - umanisti? Come si crede sia nato il "Bello" che ancora permette a Firenze e all'Italia di godere economicamente di quella fortunata e non irripetibile stagione? Ho detto e ripeto, non irripetibile. Dunque: cultura umanistica alla base della formazione di TUTTI (futuri manager per primi) per il miglior "allevamento" dei talenti che non mancano e non mancheranno mai in questa terra benedetta da Dio e non più riconosciuta dagli stessi uomini che l'abitano. Ecco i principi alla base di una vera riforma scolastica all'italiana. Nel senso più alto del termine. Troviamo un nuovo modo Italiano (sic!) di entrare con armi concrete e peculiari nella sfida del mondo tecnologico i cui contenuti saremo in grado di dettare noi, solo noi, come nessuna altra cultura al mondo può saper fare.

Ma davvero siamo così stolti da voler perdere il vantaggio che ci dà il conosce la Storia e il pensiero dei grandi uomini? E allora? Allora si abbia il coraggio di ricominciare da capo. Sì, lo voglio dire e voglio essere lapidato per questo: si deve tornare a studiare la Storia in maniera approfondita dalle elementari. E, solo per dirne una seconda, affermo che lo studio del latino – che meglio e più della matematica abitua alla logica, ristabilendo un legame, oltretutto, alla nostra storia classica – va reintrodotto dalle scuole medie (primarie di secondo grado, per i tecnici) esattamente come era prima degli anni ottanta. E così via nella rivalutazione vera e convinta di tutte tutte le altre materie umanistiche. Dobbiamo avere il coraggio di dire alle generazioni allevate dalle ultime riforme e riformine scolastiche, che abbiamo sbagliato tutto e che dobbiamo tornare indietro, anzi no, guardare avanti: ripensare l'educazione classica con una consapevolezza e finalità rinnovate. Va detto loro (le generazioni ultime) che la stora dell'arte - lungi da come l'abbiamo studiata noi quando francamente valeva meno dell'ora di religione - deve essere il punto d'arrivo di un'educazione al bello che va coltivata dalla scuola dell'Infanzia e che dunque deve partire da lontano. In sintesi potrebbero essere consolati, i nostri amici "di mezzo", perché ciò che essi hanno perso in conoscenza di Socrate, Aristotele e Pitagora (non quello del teorema) lo guadagneranno i loro figli. La forza dell'Italia è genio e umanesimo applicato? Allora: se alle parole e alle buone intenzioni (anche renziane) devono seguire i fatti, giù, da subito, con fondi, immensi, alla Ricerca, alla Formazione umanistica nelle scuole e alla coltivazione dei Talenti. L'Agricoltura delle menti e delle senibilità creative è la nostra industria del futuro. A beneficiarne saranno tutti i campi economici anche quelli che appaiono i più aridi. E' così che potremo tornare a dire qualcosa di nuovo al mondo.

NICOLA MASTRONARDI


L'IDEA MOLISANA

PAOLO CARDONE

CASTELLO


ALBUM

MONFORTE


L'IDEA MOLISANA

IL CARDELLINO Donna Tartt, Rizzoli 2014

FAMO A FIDASSE

I

suggerimenti di Pier Paolo Giannubilo

premi Pulitzer americani non sbagliano (quasi) mai. Donna Tartt conquista il più ambito riconoscimento letterario (escludendo i pateracchi di Stoccolma) con un romanzo fluviale che compie il miracolo dei miracoli, in fatto di libri: alimentarti stupore e batticuore per tutte e 892 le pagine. Un mattone di magnificenza, che vale l'oro che pesa. La letteratura di Tartt è arte sopraffina. E

La copertina del romanzo di Donna Tartt

questo è quanto. Un tempo si diceva: il piacere della lettura. Ecco, precisamente. Lingua sempre esatta al millesimo e che alla bisogna diventa pirotecnica, certosina tornitura delle frasi, padronanza assoluta di decine di lessici specifici (quello dei restauratori, quello degli antiquari, della critica d'arte, della musica, delle droghe contemporanee), trama da thriller con colpi di scena calibrati con quel tipo di maestria che, a fine lettura, ti prostra l'autostima e ti fa venire voglia di smettere di scrivere romanzi. Non c'è un cedimento neanche a pagarlo, né stilistico né nel plot. Se Proust descrive la venatura di un mobile antico in 30 pagine è Proust, d'accordo, ma può capitare che al lettore odierno prenda un colpo di sonno. Se lo fa Tartt, quella venatura diventa, non so per quale misteriosa ragione, adrenalinica. Un bambino di nome Theo Decker perde la madre amata in un attacco terroristico in un museo di New York e fra le macerie si ritrova in mano Il cardellino, capolavoro dello sfortunato pittore secentesco olandese Fabritius. Lo porta via, di fatto lo ruba. Il dipinto lo accompagnerà per anni e anni, lungo le sorprendenti gimkane (affidamento a un padre fuori di testa in quel di Las Vegas, famiglie sostitutive con la tragedia inscritta nel dna, contrabbandieri d'arte tossici, un amore impossibile, amicizie malavitose, alcol, traumi, sparatorie, truffe) della sua vita – diventa la sua coperta di Linus, il suo totem, il suo feticcio: "Ma anche se potevo guardarlo solo di rado mi piaceva pensare che fosse lì, per via della profondità e concretezza che infondeva alle cose. Era come se rinforzasse le fondamenta della mia vita, e mi rassicurava, come mi rassicurava sapere che, lontano da lì, le balene nuotavano indisturbate nelle acqua del Mar baltico e che, in remoti angoli dellaTerra, schiere di monaci cantavano senza sosta per la salvezza del mondo." Io dico che è imperdibile. Pier Paolo Giannubilo


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TUBO CATARTICO

PROVINCIA MECCANICA O del perché uno che nasce dalle nostre parti rischia di rimanerci. Secco. Città/Provincia, Centro/Periferia, Network/Isolamento. Per secoli queste tre opposizioni hanno definito il nostro modo di stare al mondo: andando di grana grossa, si può dire che nascere a destra o a sinistra dello Slash (/) ha definito l'intera esistenza di qualche centinaio di milioni di persone nella storia dell'umanità. Senza stare a menarla con cose che conosco appena di sfuggita, tipo il processo di industrializzazione, la nascita del concetto di mobilità sociale etc., direi che queste tre opposizioni sono rimaste pressoché inalterate fino alla metà degli anni '60, anche perché è difficile pensare che un gruppo di immigrati di Larino che vivevano a pizza e minestra nel New Jersey di inizio '900 fossero tanto diversi dai loro cugini rimasti nelle campagne frentane. Era una Provincia diversa, una Periferia diversa e uno stesso, identico, Isolamento. Gentrification. Questo è il termine che cambia le cose: interi quartieri popolari delle grandi città vengono presi d'assalto da una nuova gens (gentry, in Inglese) capace di adattarsi meglio alla ristrutturazione, che non è solo di natura edile, ma anche, e soprattutto, relativa alle relazioni sociospaziali, culturali ed economiche. Dice: quando è successo? Non mi sono accorto di nulla. Ero in campagna a zappare?No, è successo quando tuo figlio è andato a studiare in città e, siccome non aveva soldi, si è messo a dormire con altri 4 o 5 perdigiorno in uno stanzone di una fabbrica abbandonata vicino alla stazione; che poi, dopo tre anni, quello stanzone hanno iniziato a chiamarlo "loft" e tutti quei quadri da disadattati degli amici di tuo figlio hanno iniziato ad essere scambiati con mazzi di banconote che tu, con quella zappa in mano, non riuscivi a vederli manco dopo tre anni di raccolti abbondanti. Eppure, nonostante questo passo avanti, chi nasceva a destra dello Slash (/) faceva sempre una fatica bestia per passare dall'altra parte. Con l'aggravante che la neonata tv gli faceva vedere cosa significasse vivere a sinistra dello Slash (/). Quindi, oltre al danno della mano nella terra, anche la beffa degli occhi sul mondo. Anche perché poi sta gentrification, tutto sommato, si sarebbe rivelata una moda effimera perché, marxisti o meno, il rapporto capitale/lavoro (ecco un'altra opposizione che non passa mai di moda) se ne fotte del tuo stanzone che diventa loft e

di GIUSEPPE COLELLA

ti rispedisce immediatamente in un altro stanzone ché nel loft non c'è spazio per uno come te. A sto punto della lettura io mi chiederei: ok ma che cosa c'entra tutta sta manfrina con il tubo cartartico che dà il titolo alla rubrica? C'entra. Perché se c'è una cosa capace di far saltare chiunque da una parte all'altra dello Slash (/), questa è la comunicazione. In tutte le sue forme: pittura, musica, scrittura, cinema e persino politica. Gli anni '70 e i primi '80 sono il trionfo della provincia che si libera dal giogo dello Slash (/): Vasco, i Litfiba, Battiato, Dalla e Guccini nella musica, Burri, Pomodoro, Pistoletto, Guttuso, Manzù il nostro Marotta nelle arti figurative, e poi Toscani, Eco, Fellini, Monicelli, Risi, Parise, Bufalino fino a Moro, Rumor, Spadolini, Fanfani e Colombo in politica. E tutto ciò accade anche grazie alla destrutturazione e al superamento dei tradizionali centri culturali che avevano sede a Roma e Milano: la Rai, i salotti, Cinecittà, la radio, la Moda, le agenzie pubblicitarie si diffondono ovunque nel Paese e permettono la liberazione di energie rimaste fino ad allora compresse o, peggio, inespresse. Una parentesi destinata a chiudersi presto perché le esperienze nate in Provincia vengono metabolizzate e fatte proprie dal Centro che, nel decennio successivo, riporta tutto, compreso lo slash (/), al suo posto.


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TUBO CATARTICO Con un'aggravante unica nel mondo occidentale: l'intero mondo della comunicazione italiana viene occupato dalla politica. La storica spartizione partitica dei vertici Rai viene codificata e diventa formula matematica (c'era una storiella che diceva: se al TG2 assumono tre giornalisti, uno è democristiano, uno è socialista e uno è bravo), la discesa in campo del capo delle principali tv private crea un precedente unico che non è mai stato risolto davvero, le redazioni giornalistiche vengono militarizzare e, come se non bastasse, ogni ente culturale o artistico del Paese diventa luogo di lottizzazione e terra di conquista per trombati e riciclati di ogni sorta e provenienza. Politica. E questo stesso schema, in scala 1:10, viene riportato anche a livello regionale, provinciale, comunale e persino condominiale. Non c'è scampo. In mezzo a questo freezer delle idee cresce una generazione, che oggi ha tra 35 e 50 anni, con due sole possibilità: piegarsi o ripiegarsi; accettare di mettersi in fila alla porta del politico di turno o coltivare i propri interessi con la consapevolezza che sarà un onanismo perfetto. La forza dello Slash (/) è intatta, in barba a quello che accade ovunque nel mondo occidentale, Foto posti lontani, esotici quasi, in cui quella stessa MASSIMILIANO FERRANTE generazione crea Napster, Blog, e poi Web 2.0, Social Media e strumenti di condivisione sempre più interattivi. Ora, se fossi un vecchio cinico, disilluso e pessimista (come la maggior parte dei miei soci di questa iniziativa editoriale), potrei fermarmi qui e iniziare a maledire il sistema, l'italianità, i politici e la religione cattolica. Ma, essendo inspiegabilmente ottimista e sufficientemente "integrato", voglio dedicare l'ultimo paragrafo alle dinamiche che si profilano all'orizzonte e che mi fanno pensare che la prossima generazione, che oggi ha tra i 15 e i 25 anni) possa abbattere sto Slash (/) e ambire alla vita eterna. Se non altro in termini di produzione e circolazione delle idee. Youtube, i Social Network, le piattaforme immersive, il crowdfounding e, in sostanza, tutto ciò che è progettato per essere orizzontale, aggirano l'ostacolo politico e spaziale. Anzi, per essere precisi nell'immagine, ci passano sotto. Le idee circolano, le idee migliori si affermano, la possibilità di riscatto non è più legata al tempo, all'età e al luogo di provenienza di chi le produce. Almeno fino a quando non si voglia veicolarle secondo logiche e strumenti mainstream. Ma a chi importa più del mainstream? Tutto ciò che serve è la competenza tecnica: imparare ad usare questi strumenti è l'unica strada per poterli rendere efficaci, cioè capaci di esaltare la creatività e trasferirla oltre la nostra cameretta. Farei a cambio con un 15enne di oggi solo per questo. Perché sto Slash (/), a sto giro, rischia di saltare davvero. GIUSEPPE COLELLA


Foto: Nicola Paolantonio


L'IDEA MOLISANA

STORIE

NON TORNERAI Molise Identity

parole e immagini Massimiliano Ferrante

Uòcchie ca nun tramutene e' cculure luce ch'intride d'acqua terramore sale su da le crètte de l'anima reclama il sole da innevati cieli grani e di mani lìmina i fantasmi E' n'anno e l'aria ('a siénte? 'a respire?) perfidia verso ombre d'angoli acuta Apparente riflesso fu la fuga un sogno affucato ma caldo ancora a la pelle d'increspate tracce più intime nulla striando questo itinerante agguato quest'albagia del tuo patire incontro - Agguato, A. Ferrante -


L'IDEA MOLISANA

STORIE

Spesso partendo non tornerai mi dico, la testa incastonata tra i due faraglioni che sporgono dallo schienale, intorpidito dall'acre puzzo di treno. Fumo di sigaretta e piscio e fritto di Mc Donald. Non tornerai mi dico, lasciando scivolare lo sguardo tra i rovi le pietre i rigagnoli a tratti inanellando, la fronte premuta sul vetro appannato, Baranello e Vinchiaturo e Bosco Redole e Bojano e Macchiagodena e Carpinone e Isernia e, infine, Venafro, nomi lontani e desueti impressi su anonime tabelle dalla grafica incompiuta. Un cielo plumbeo e pesante, ricco di ineluttabili prospettive. E non tornerai mi dico assonnato eclissandomi, a tratti, nei cunicoli bui che rubano man mano luci e paesaggi familiari e distanti. I pensieri indolenziti dalle ore troppo giovani del mattino o da quelle troppo poco al di là del primo pomeriggio. Ché, per viaggiare, mi piace il treno, l'idea ch'esso mi dà di attraversare zone impervie altrimenti impercorribili e solcate da rotaie e nient'altro. M'abbacina e stanca il luccichio delle lamiere policrome filanti sulle autostrade e il rumore del traffico e gli scazzi tra gli automobilisti. Il treno, quello molisano, è un serpente monco e solitario tra gli spigoli appuntiti delle montagne e i boschi soffocanti di verde acceso e le poche vie brecciate e i passaggi a livello dimenticati anche dalla ruggine. Un verme dal ventre di balena, brulicante di studenti fuorisede intenti nello scarabocchiare appunti di Diritto Privato o Storia Medioevale o Analisi I e nonnine in viaggio per andare ad accudire nipotini metropolitani di troppo impegno per genitori in carriera e altri insignificanti figuri, insospettabili protagonisti di storie romanzesche che solo su un treno puoi trovare, in una sinfonia di fonemi duri e scomposti. Mi piace il treno, per viaggiare. E sì che decidere di fare un viaggio in treno Campobasso – resto del mondo non è certo una cosa da prendere a cuor leggero, ché una certa ansia inizia a percuotere i tuoi nervi da almeno un paio di giorni prima. Almeno. La freccia del Molise vero reperto degno di più approfonditi studi, stoltamente ascoso dai ferrovieri dello stato al binario venticinque della stazione Termini per non corrompere, agli occhi dell'utenza, la visione di scintillanti eurostar e intercity full optional, lindi e pinti da copertina di rivista di design. Non tornerai mi dico, gli occhi fissi, già stracco, sulla decorazione optical stampata alle pareti del vagone, stravolto e perso nei rombi grigioverdi che, a tratti, m'ingoiano. Poi, incredibilmente, riemergo dal coma vigile (?) e vedo il verme dal ventre di balena incunearsi a velocità ridotta tra i resti delle antiche mura, sgusciare tra i palazzi zeppi d'insegne al neon e le concessionarie extralusso, sfilare sotto un cielo azzurro come nei cartoni animati. E, finalmente, scendo, trasportato dal flusso degli studenti fuorisede e delle nonnine e degli altri insignificanti figuri all'affannosa ricerca di un carrello portabagagli, in un'atmosfera del tutto inappropriata all'armamentario di giacconi in finta piuma d'oca e cappucci copriorecchie e sciarponi della nonna e guanti felpati con cui sono partito solo un paio d'ore fa o poco più. Sono in Italia, ora. In Italia, cavolo. Sono libero di trovare la mia via. E allora continuo a girovagare, stavolta, su serpentoni di classe, con morbidi sedili deodorati

all'arbremagique, hostess pronte a soddisfare ogni mio desiderio, compagni di ventura dotati di portatile e videotelefono, aria condizionata, musica in filodiffusione. Addirittura un tavolino su cui poggiare le riviste. Accenti conditi di r mosce e sc sibilanti e ch appena accennate. Sono in Italia, ormai. Evaso, alla fine. Non tornerai mi dico mentre gli occhi, rinvigoriti dalla coperta azzurra del cielo, si posano docilmente su spianate, a tratti, rotte da lievi colline, invase di strade a quattro corsie dal tappeto incontaminato e industrie di detersivi dalle allettanti insegne e costruzioni dal sicuro impatto ambientale e cinte murarie di vetro e aeroporti. Sono In Italia, l'Italia che si dà da fare. E arrivo, poi, in stazioni vere di quelle con ipermercato e fastfood, in fiumane di formichine operaie di quelle che smuovono l'economia e fan crescere il Pil, e in città vere piene di strade luminose e colorate e negozi giuggiolosi e profumati, perso in locali da beoni a tracannar birra in dolci compagnie dalla parlata esotica. E, sprofondo, infine, immerso nella trapunta a tinte forti ammassata sul mio lettoda eterno e immaginario studente fuorisede e non tornerai mi dico sei in Italia ora mi dico libero e beato come un evaso. E chiudo li occhi aspettando che il torpore mi rubi alla vita, su uno sfondo sonnambulo di montagne dagli spigoli appuntiti e boschi soffocanti di verde acceso e le poche vie brecciate e i passaggi a livello dimenticati anche dalla ruggine e sinfonie di fonemi duri e scomposti e.

Molise Identity. Non mi è difficile, a dire il vero, definire con buona approssimazione il Molisano nei suoi aspetti più evidenti. Non ci vogliono certo particolari nozioni di antropologia e sociologia per farlo. Non mi è difficile anche in virtù del fatto che io, da Molisano, ho avuto la possibilità e il privilegio di studiare i Molisani dal di fuori, come affacciato sulla parete vetrata di un grande acquario o, chessò, incastrato con le tempie tra le sbarre di una gabbia di quelle allo zoo. Ho potuto, stando a contatto con altre popolazioni italiche, indagare nell'ombra la percezione che esse hanno dei Molisani. Ho potuto, ancora, interessarmi alle differenze tra Molise e resto del mondo, tra identità molisana e, chessò, identità umbra o abruzzese o laziale o. Una cosa mi è parsa sin da subito evidente e la dirò come simpatica premessa: nel caso di noi Molisani, la percezione che gli altri hanno di come saremmo fatti coincide esattamente con la realtà. In altre parole, si ha una visione di noi Molisani che è lo specchio esatto di come siamo davvero. Nel definire le identità regionali, sempre, immancabile come un rito pagano, salta fuori un'infinita serie di categorie ormai fossilizzate da tempo, i Genovesi tirchi o i Napoletani furbi o i Romani caciaroni o i Romagnoli cordiali o i Toscani altezzosi o i Marchigiani cui persino si preferisce avere un morto in casa piuttosto che, categorie oggettivamente divertenti quanto fasulle e per nulla rispettose del reale stato delle cose per chiunque conosca un Genovese o un Napoletano o un Romano o un Romagnolo o un Toscano o un Marchigiano. Quando si parla del Molisano, tutto ciò non accade. Quando si parla del Molisano, nell'altrui sistema audiovideo si materializza un'immagine precisa e del tutto rispondente al


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STORIE vero. Il Molisano, come prima di me è stato detto dal sagace Giuseppe Jovine, porta i suoi tesori dentro di sé, sigillati come un buon vino interrato per le grandi occasioni, anche a costo di vederlo adulterato. Un leopardiano gallo silvestre con i piedi piantati in terra e la testa tra le stelle o chissà dove. Per nessuno come per il Molisano la vita è una fuga verso il proprio paese d'origine. Ogni Molisano porta la propria casa sul dorso come una testuggine. Il Molisano è cordiale ma non sfacciato. Per nulla ipocrita e, in quanto, tale, facilmente calpestabile. Il Molisano non ha mai avuto nulla dalla vita e, per questo stesso motivo, non si aspetta nulla. Il Molisano è generoso. Sbrigàti tutti i miei bravi affarini un po' in giro per il mondo sento l'ansia crescere dentro me che attraverso vie piazze parchi tra palazzi nuovi e giardini ignoti guizzando lo sguardo su vetrine dai nomi improbabili e monumenti e antichi palazzi e chiese l'ansia crescendo come un ombrello che nello stomaco ti s'apre esplodendo da dentro il sudore sciogliendo i pensieri la folla di facce sconosciute di accenti conditi di r mosce e sc sibilanti e ch appena accennate che diavolo ci faccio qui obiettando alla mia immagine riflessa nel vetro dell'autobus appannato di condensa i respiri esaurire un'aria non mia. E vado a dormire presto immerso nella trapunta a tinte forti ammassata sul mio letto da eterno studente fuorisede ché domani – finalmente, chi l'avrebbe mai detto? – si torna giù in Molisania già immaginando nuove scorribande correre a perdifiato per le scale scoscese discese dal borgo vecchio in giù superando affannato San Leonardo e gli aperitivi festivi da Polpetta o al Blow Up e i pomeriggi a suonare con gli altri e poi tornare al mio paese e lasciarmi sopraffare dalla mia aria pulsando come un ex moribondo tornato in vita dopo provvidenziali elettroshock e nascondermi tra i vicoli spersi dalla piazza in giù e in montagna poi salire e fissarmi negli occhi le valli distese le pietre ammonticchiate i fiori non ancora rubati. Ed è già mattina già l'ora di partire i bagagli mai così leggeri nel tragitto breve fino al serpentone di classe con morbidi sedili deodorati all'arbremagique le hostess pronte a soddisfare ogni mio desiderio i compagni di ventura dotati di portatile e videotelefono aria condizionata musica in filodiffusione. Addirittura un tavolino su cui poggiare le riviste. Accenti conditi di r mosce e sc sibilanti e ch appena accennate. E sono già a Roma già nella città eterna quella cui tutte le strade arrivano e da cui tutte le strade partono e trangugio un penoso caffé dall'aroma aspro persino e mi aggiro vagando tra i serpentoni l'occhio buttando distratto alle tabelle delle partenze scusi saprebbe mica indicarmi il binario venticinque che qui in stazione s'arriva a 22 e non capisco...? chiedendo infine a gentili nocchieri Binario 25? Ah va a Campobasso dunque... La freccia del Molise... Ecco vede lì in fondo... nemmeno aspettare che il gentile nocchiero finisca la frase in smorfia bonaria inoltrato nel lungo corridoio trainando bagagli mai così leggeri nel lungo tragitto fino al treno molisano solitario e monco serpente incontrando sulla via anime in pena come la mia ansiose di occuparne il ventre trascinandosi a fatica eppur convinte di tornare a casa in una sinfonia già accennata di fonemi duri e scomposti. E vederlo in lontananza il verme solitario la freccia del Molise vero tratto distintivo dell'identità quella molisana che in tutta Termini non ce n'è di altri uguali e basta chiedere informazioni sul binario venticinque perché tutti da tutto il mondo capiscano la tua storia le tue origini la tua terra e giungervi – infine – accanto salendo in amorevole lotta con altri studenti fuorisede e nonnine in viaggio per tornare a casa dopo aver accudito nipotini metropolitani di troppo impegno per genitori in carriera e altri insignificanti figuri insospettabili protagonisti di storie romanzesche che solo su un treno puoi trovare eppoi sedermi stremato e felice la testa incastonando tra i due faraglioni che sporgono dallo schienale, intorpidito dall'acre puzzo di treno. Fumo di sigaretta e piscio e fritto di McDonald's.

Eppoi assopirmi fino a Cassino aspettando che gli ultimi residui altri abbandonino il ventre del verme solitario e – finalmente – sentirmi miracolosamente già a casa in una sinfonia di fonemi duri e scomposti ormai in libera deflagrazione e senza più controllo e dalle sacche di tela delle nonnine e degli altri insignificanti figuri spuntar fuori senza preavviso alcuno tranci di frittata e peperoni verdi fritti e fiaschi di vino o ancora salame e provolone stagionato in una strasagra ferroviaria che solo chi è Molisano può. E scomposto negli odori e nei sapori e nei suoni sto tornando finalmente mi dico lasciando scivolare lo sguardo tra i rovi le pietre i rigagnoli a tratti inanellando, la fronte premuta sul vetro appannato, Venafro e Isernia e Carpinone e Macchiagodena e Bojano e Bosco Redole e Vinchiaturo e, infine, Baranello, nomi lontani e desueti impressi su anonime tabelle dalla grafica incompiuta, eppoi finalmente sbucato fuori dai bui cunicoli a tratti scorgere i bivi le rampe il carcere i nuovi alberghi. Le sagome del Castello da una parte di Ferrazzano dall'altra salutarmi malvolentieri indifferenti – quasi - al mio ritorno. Un cielo plumbeo e pesante, ricco di ineluttabili prospettive. Riappropriandomi di me stesso. Di tutto quello che credevo di aver perso e che invece è ancora qui ad aspettarmi: gli spigoli appuntiti delle montagne e i boschi soffocanti di verde acceso e le poche vie brecciate e i passaggi a livello dimenticati anche dalla ruggine. E fisso gli sguardi incantati dei miei compagni di ventura sporchi e unti ancora di frittata e peperoni verdi fritti e vino e cacio stagionato e. Tutti pensano quel che io penso. Ne sono sicuro. Proprio tutti. E la paurosa vertigine m'abbandona. Torno a respirare.

Massimiliano Ferrante



Foto: Paolo Cardone


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TECNO/LOGOS

MOLISE 2.0

di Marco Oriunno

L'età della pietra non è finita perché vennero a mancare le pietre... Parole come Scienza, Tecnologia e Progresso sono pervasive nell'uso e apparentemente intercambiabili nel significato, sinonimi di un processo continuo di accumulazione lineare del sapere. Un'idea nata con le prime Rivoluzioni Scientifiche del XVI secolo (Copernico e Newton) e che apriorono le porte alla modernità. Lo storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn, nel suo famoso libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche, conia a questo proposito l'espressione Scienza Normale, riferendosi al lavoro di routine degli scienziati che seguono un determinato paradigma o modello, accumulando dati a sostegno della teoria dominante, invece di mettere alla prova le assunzioni di base del quadro teorico di riferimento. In realtà, secondo Kuhn, l'evoluzione del pensiero scientifico avviene piuttosto attraverso rotture o Cambi di Paradigma (Paaradigm Shifts), resi necessari dalle anomalie inspiegabili dalla Scienza Normale. Esempi ne sono il passaggio dal creazionismo all'evoluzione o la teoria macroeconomica di Keynes. Per Tecnologia invece intendiamo abitualmente concetti come la scoperta del fuoco, la ruota, la stampa, il telefono, internet, invenzioni che migliorano il nostro benessere e ci permettonodi interagire liberamente su scala globale. Ma se la tecnologia è spesso associata al termine "scienza", evidentemente i due concetti non sono intercambiabili, basti pensare che molte tecnologie come la produzione del vetro o dell'acciaio sono nate su principi empirici. Comunque il vantaggio della Tecnologia è quello di ampliare gli orizzonti delle cose fattibili, il suo limite è quello di includere tra le cose fattibili anche eventi catastrofici e distruttivi. Un aspetto fodamentale della Tecnologia è che da potere alle periferie e alle minoranze, purché se ne garantisca il libero accesso e la fruizione. L'idea di Progresso, anche se apparentemente più' distinta nel significato da Scienza e Tecnologia, ha conosciuto nel corso della storia definizioni differenti a seconda del predicato: Progresso scientifico, tecnologico, sociale, economico, culturale. Minimi comuni multipli restano l'eterno dibattito tra vecchio e nuovo (Querelle des Anciens et des Modernes), nata con la prima consapevolezza di modernità, e l'idea di progresso, nata con la concezione cristiana della storia intesa come un susseguirsi rettilineo di avvenimenti che accumulandosi procedono come i punti di una retta verso l'infinito: «Siamo come nani sulle spalle di giganti,così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane.» Bernardo di Chartres. XII secolo Idea questa laicizzata dall'illuminismo ma che fu ribaltata dallo scetticismo influenzato profondamente dai massacri della prima e seconda guerra mondiale causati in gran parte proprio da quest'idea dell'Inevitibilità della Storia Lineare e sempre in movimento. Probabilmente la globalizzazione e l'avvento di Internet ha rimosso molto di questo scetticismo, introducendo un rinnovato ottimismo fondato su uno dei più lunghi periodi di pace della storia, ma ha introdotto problemi nuovi e complessi come l'eccessiva pervasività della tecnologia nella vita umana oppure concetti come la Privacy, il Digital Labor e

Una veduta aerea dell'acceleratore SLAC in California

la Shared Economy, tutte anomalie non incluse dai pre-esistenti Paradigmi Etico Religiosi, Marxisti o Liberisti che quindi devono essere ripensati. E' comunque più facile fare dotte descrizioni del passato piuttosto che interrogarsi sul futuro che in realtà nessuno può prevedere esattamente, ma sappiamo di sicuro che sarà radicato nel mondo di oggi. Nel suo significato essenziale, il futuro è semplicemente l'insieme di tutti i momenti che devono ancora accadere e ciò che lo rende importante è il fatto che possa essere un momento in cui il mondo appaia diverso da oggi. La sfida reale quindi è fare quei cambiamenti radicali che lo rendano a portata di mano. Senza questi cambiamenti il futuro restera' sempre lontano, alla stessa distanza uguale al tempo per cui lo avremo procastinato. Come si possono quindi coniugare al futuro per il Molise del XXI secolo parole come Scienza Tecnologia Progresso? Tale impresa, apparentemente facile se paragonata alla dimensione della regione, è resa ardua dalla sua molteplice identità', perché estesa sia nel tempo che nello spazio. Il Tempo di una terra antica che deve guardarsi nello specchio della storia e delle tradizioni, che spesso costituiscono più una zavorra che una risorsa. Lo Spazio contemporaneo in cui deve ascoltare le voci che arrivano dalla diaspora lontana ma che ne rivendica un'identità allo stesso modo di chi è rimasto. Probabilmente le soluzioni a taglia unica, fatte di compromessi tra ieri - oggi, lontano - vicino, sono quella meno interessanti e non fanno altro che perpetrarne il quadro statico. Lo stesso dicasi per le soluzioni normali che accumulano linearmente le esperienze, stratificandole geologicamente, con il rischio reale di procedere verso l'estinzione qualora ci si ostini mantenere in vita modelli culturali già morti. Io credo invece che la soluzione sia in un cambio di paradigma che determini un Progresso intensivo, verticale in cui il futuro sia imminente e il passato meno incombente. Un nuovo paradigma che usi al meglio la Tecnologia per dare più potere alle periferie, premiando chi e' capace di reinventarsi in modo sostenibile. Un Molise 2.0, come un approccio ai problemi che ne connoti la dimensione sociale della condivisione di benessere,


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TECNO/LOGOS dell'autorialità rispetto alla mera fruizione: che possano aprire nuovi scenari fondati sulla compresenza nell'utente della possibilità di fruire e di creare/modificare i contenuti. LaTecnologia che possa modernizzare la gestione del territorio e dell'ambiente creando efficienza nell'amministrazione con piu' servizi ai cittadini, in particolar modo per coloro alla periferia della periferia. La Tecnologia che migliori l'assistenza sanitaria nei metodi e nella qualità delle prestazioni e che possa interconnettere la domanda locale con l'offerta dei grandi centri europei, aggirando così gli strati intermedi che non aggiungono valore al processo. La tecnologia che modernizzi qualitativamente il consumo energetico e l'ambiente con energie rinnovabili compatibili con il territorio e l'elettrificazione dei trasporti stradali a corto raggio. Non la Tecnologia intesa come mera riproduzione di modelli importati nella provincia ma una terra che abbia la forza di ripensare se stessa in insieme di applicazioni afferenti al paradigma di un Molise dinamico, in contrapposizione ad un Molise statico, il Molise 1.0, quello della falsa modernità', dei CD-ROM e dei siti web di biblioteche e musei improbabili o quello che confonde Startup e creazione d'impresa, dando l'illusione di un ammodernamento semantico ma che resta antico nei contenuti: (caseificio=azienda, caseifico+App= Startup). Una trappola semantica implicitamente trasversale a tutta la rivoluzione 2.0, che sostituisce termini come "cool", " con espressioni assurde come Empowering, Radically Democratize, Smash Elitism. Un'ideologia che troppo spesso venera il creativo della domenica che nel tempo libero fa filmati e canta canzoni. Il nuovo paradigma del Molise 2.0 richiede invece impegno militante che premia i singoli a valle dei risultati ottenuti e non a monte delle semplici espressioni programmatiche dei gruppi di interesse ristretti. La limitata estensione geografica e abitativa del Molise è allo stesso tempo una sfida e un opportunità che puo' essere trasformata da svantaggio a risorsa. Tale sarebbe l'idea di una regione come un laboratorio unico per lo sviluppo di tecnologie e modelli di business d'avanguardia. Un ecosistema economico dove con investimenti limitati si testino nuovi pardigmi adattati allo spettro della popolazione esistente prima di poterli scalare a realtà più complesse: sanità, trasporti, energia, teleavoro. Ma è doveroso ricordare che trasformare Scienza e Tecnologia in Progresso rimane una facoltà inerente agli esseri umani, unica vera risorsa di tale processo. Una regione quindi che si chiuda con deliberata fierezza in un idea di invariante spazio-temporale rischia di rendersia diabatica al flusso di idee e di persone, esattamente nell'istante in cui misura l'evoluzione della sua popolazione su scala deflazionistica. Bisognerà necessariamente fare i conti con la capacità di intercettare migrazioni di nuove sensibilità e culture, anche quelle che vengono da lontano, capaci di rinvigorire le radici dell'albero di cui tutti beatamente ne contemplano la morte mentre lanciano anatemi alla modernità con la nostalgia di un Molise dell'Arcadia che non è mai esistito. Tale è lo spirito con cui ho deciso di aderire a questa bellissima iniziativa de L'Idea Molisana.

L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, ancora oggi simbolo di modernità


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ALBUM

FOTO DI MASSIMO DI NONNO


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NECESSARIO POSSIBILE

NOTE 12 di Matteo Patavino

Pre-testi: Cage, J., Silenzio, Milano, Feltrinelli,1971. Cirese, E., I Canti popolari del Molise con saggi delle colonie albanesi e slave. Vol. I, Nobili, Rieti, 1953. Eno, B., Byrne. D., My Life in the Bush of Ghosts, LP, Sire,1981. L'Arcano Patavino, D'Amore e di Devozione, CD, RaiTrade - PromoMusic -Edel, 2010. http://www.fondazioneadrianolivetti.it

In provincia ci torni a vivere per affetto. Se poi decidi di continuare a starci, hai bisogno di un metodo "a posteriori". Il Molise lo ritrovai diverso - ero io a esser cambiato; avevo bisogno di un filo, un segno che mi rivelasse l'esistenza del possibile. E tra il rifiuto totale e l'abbraccio incondizionato, il mio punto di partenza fu la ricerca di una terza ipotesi: sentire me stesso e intendermi con questo micro-cosmo. La via possibile per realizzare qui la mia forma-sostanza assemblata altrove l'ho iniziata a decifrare osservando i contadini e il loro mondo. Nella seconda metà degli anni Novanta del '900, era un mondo da qualche tempo in via di trasformazione. Era un mondo che aveva abbandonato l'oralità pura e aveva, di fatto, intrapreso la commistione con l'economia industriale, dimostrando una buona capacità di assimilazione. A me interessava soprattutto altro, i contadini molisani alle prese con le loro creazioni culturali. Li vedevo trasformare e riadattare le forme. Alcuni di essi, al limite dell'analfabetismo, con il canto e con la musica avevano prima sublimato e successivamente trovato la spinta per un riscatto sociale. Cominciai a chiedermi se davvero vi fosse una cesura così netta tra necessario e possibile. Poi venne il terremoto. Sulle macerie, capisci che devi ripensare tutto sul piano della solidità materiale. Lì ho toccato con mano che la forma è il substrato necessario della vita. Il terremoto ha distrutto disciplina della terra e spirito di adattamento, li ha trasformati in alienazione di ruoli e di responsabilità. Con i bambini, con la maestra e con gli altri, sotto quello squasso rimase anche la cultura intesa come obbligatorietà sociale del sapere. Si era frantumato il cavo che alimentava il necessario rapporto tra le differenze e la collettività, tra il necessario e il possibile. Erano le forme con le loro proporzioni a non aver retto: la forma della scuola, la forma della comunità, la forma del dolore, la forma dell'emergenza. Fu l'impossibile a essere trasformato in necessario. Archimede, Leonardo, Adriano Olivetti, Brian Eno non hanno mai inventato nulla; hanno semplicemente ripensato le proporzioni del possibile. John Cage, le valvole, i transistor, i microchip, l'upgrade del software, la banda larga, la forma-canzone? Qual è il nesso possibile necessario con il Molise? Non cerco l'utopia che mi faccia evadere dal presente né mi consola il passato; coltivo un principio speranza. Ogni giorno faccio fare dei giri all'ingranaggio dell'artificio. Il necessario prende corpo quando si ripensa la forma della realtà, ridisegnandola, reinterpretandola. La forma deve essere avvicinata alla dimensione del futuro. Non è l'artificio che temo. Mi fa paura l'eventuale assenza della tracciabilità socioculturale, temo l'artificio quando non so da dove proviene, dove mi porta. In Molise come a New York. Al Molise donerei la capacità di modellare contingenza della necessità e progetto della possibilità con gli strumenti della contemporaneità. Guardate i riti popolari molisani da più punti di vista, troverete il senso della necessità rappresentato con abile maestria della sublimazione.

Lo studio Patavino - foto dell'Autore

Non c'è retorica in quei fenomeni. La retorica gliel'appiccicano con le narrazioni intorno. La mia idea per il Molise non cerca l'autocompiacimento, non usa l'antropologia indotta. Eppure il tentativo di Eugenio Cirese di ricreare una lingua comune poteva andare in questa direzione. Una lezione non del tutto compresa, ci si è soffermati solo sullo strato superficiale dei contenuti narrativi. Invece il senso ampio e prospettico dell'operazione strategica, muovendo dalla questione storica della frammentarietà della lingua molisana, proponeva di connotare il Molise partendo da un codice di riconoscimento unitario. Resta l'urgenza di comunicare il Molise attraverso un'identità immediatamente riconoscibile. So che abbiamo dei limiti, chi non ne ha? Ne sono consapevole. Le dinamiche sul metodo vanno ponderate verso obiettivi precisi. Quale "sé" vogliamo essere? Per quale "sé" vogliamo essere riconosciuti altrove? Quale narrazione desideriamo rappresentare nel quadro socio-culturale di questa nuova geo-economia? Mi sembrano domande pertinenti, in linea con questo mondo del tempo reale e dell'iper-comunicazione. Il Molise è una regione in transizione. Deve saper guardare avanti con gli strumenti dell'innovazione e della ricerca. Senza tentennamenti. È vitale una ri-materializzazione dell'identità molisana, accompagnando la fase di transito senza paura di tradire il passato, senza paura di uscire dal calco. Il nostro assillo non deve essere la ricerca a tutti costi dell'universalità dei contenuti, quelli sono fuori della nostra portata a causa dei nostri numeri esigui. Mi pare una fatica inutile, un affanno che neppure possiamo permetterci. Il mio Molise vorrà essere una realtà del Sud che invece di reclamare offre qualcosa.


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FUMO BLU di Catharina Sottile

A PIEDI NUDI NEL PARCO

Foto di Massimo Di Nonno

Ciò che credevo perso tra le cianfrusaglie dell'adolescenza mi ha schiaffeggiato all'improvviso. Uno schiaffo, come dato dalla mano di un adulto irritato a un bambino ribelle. I quarantenni che oggi viaggiano verso la storia sui mezzi di trasporto dei poveri osservano molto il mondo. E non lo cambiano più. Salgono e scendono dagli autobus o dalle auto, immaginando aerei e treni veloci. E mentre la testa è tra le nuvole del terzo millennio deludente, i piedi sono stretti tra sedili di velluto e pelle consumata. Ed in quella stretta l'imprevisto guizzo delle idee trova soluzioni, o, se siamo fortunati, scova nuovi dubbi su cui pianificare un motivo per vivere. Perché non avere soluzioni è la migliore ragione per esistere. Mentre i finestrini appannati fanno da schermo gigante al mio film quotidiano al prezzo basso di 5 euro e quaranta centesimi, riscopro il vento dolce di Marzo che annuncia profumo d'Aprile. Gli alberi che tagliano lo schermo, come corressero armati al lato della mia pigrizia, mi fanno finalmente ridere. Erano secoli che non mi accadeva di ridere del sole, della sua luce che insegue la pace del grano e del mare. Mi ero persa, tra secoli di lumi e lumicini quasi spenti, a sprecare il coraggio. Noi, figli dei figli borghesi dei fiori abbiamo sprecato il coraggio e ci siamo ingozzati di certezze che nessun vecchio combattente potrà più garantirci. Perché a quest'ora del millennio i vecchi dovevamo essere noi e non abbiamo ancora infilato la camicia pulita e le scarpe giuste. Il mio film mi passa di lato, senza farsi vedere. Ma fa vedere me, riflessa nel vetro, ferma, mentre tutto attorno si muove: l'autobus, internet, la musica, le nuvole, la luce, gli alberi, il torrente affaticato, la linea bianca che separa la strada da chi viene e chi no, chi va e chi torna.

Chi è fermo a bordo della strada e chiede di salire per non andare da nessuna parte, ma almeno insieme agli altri. Sono io quella che procede nella direzione sbagliata, ostinata a non essere contraria. Essere fermi è la più sbagliata delle direzioni, la più dolorosa, quella che consuma scarpe e neuroni e non consente riposo. Il ragazzo in blu davanti a me guida tranquillo. Lui sa la direzione, sa cosa fare, sa farlo bene; è un ragazzo di cinquant'anni e forse anche cinque figli. Ma non li ha fatti venire al mondo come la contadina di De Gregori, curva sul tramonto e che sembra una bambina. Lui li ha allevati per farli sentire amati e forse li ha fatti studiare e viaggiare e vestire bene. Ma non sarà premiato. Perché nel terzo millennio della mediocrità ciò che sai fare è pericoloso. Devi fare poco e male, devi danneggiare ciò che è fatto bene. Le navi devono affondare, gli aerei cadere, i ponti crollare, le strade devono franare. Ecco perché siamo fermi, come animali impauriti: non muoversi, per sopravvivere. Il millennio crudele dell'economia del dramma e dell'emergenza produce denaro dall'errore e dal dolo. L'autobus attracca su un marciapiede che ambisce ad essere città moderna. Devo andare, devo decidermi ad uscire dal mondo e camminare a piedi. Sento il peso delle scarpe e l'affanno della libertà. Ed imparo a respirare mentre il ragazzo in blu telefona a qualcuno. Forse ad uno dei suoi cinque figli che non sa di avere, perché esistono solo nel mio film: "No, papà la bicicletta te la aggiusta quando torna; ti devo montare il freno nuovo. Senza freni ti fai male". No, ragazzo in blu, si fa male da fermo, lo lasci frenare coi piedi e senza paura



Foto: Massimo Di Nonno


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