Giulia Blasi - Il mondo prima che arrivassi tu

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Copertina: Foto © Andra Petre © 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

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Vivono gli alberi, le case, i sassi, i nostri sogni I mulini a vento sono comparsi solo quattro o cinque anni fa. C’è stato anche un discreto casino per scegliere il terreno su cui impiantarli, se non ricordo male, ma non saprei dire perché. Questioni di chilometraggio non tutte chiarissime, un posto già sgombro e perfetto ma troppo vicino e uno più lontano ma che per averlo pronto bisognava buttare giù un po’ di alberi, e allora lotta senza quartiere fra quelli che i mulini a vento troppo vicini sono brutti e fanno rumore, e quelli che gli alberi, no, non potete abbattere gli alberi. Gente abbracciata agli olmi, cazzotti, titoloni sui giornali regionali, poi non si sa come si sono messi d’accordo, gli alberi sono venuti giù e i mulini sono venuti su. Credo abbiano risolto piantando degli alberi sul terreno ancora sgombro, che non era la stessa cosa, ma simbolicamente sì, e qui da noi il simbolo è importante. A me non dispiace, dove hanno messo i mulini a vento. Intanto c’è un botto di vento, ovviamente, e quando comincia a fare caldo è forse l’unico posto dove andare ad asciugarsi la maglietta. Poi c’è il bosco intorno, che solo chi non ha mai visto un bosco può trovarlo poco interessante. E non è vero che i mulini fanno rumore. Cioè, sì, ne fanno un po’. Infatti all’inizio non capitava mai di vedere una bestia, neanche i daini che altrimenti prima o poi fanno capolino fra le frasche e ti guardano un po’ scocciati con le orecchie tirate su. Poi, piano piano, anche le bestie sono tornate. Ci si abitua a tutto. Anche al rumore delle turbine. Anche se sei un daino.

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Certo, non sono belli, i mulini. Non come un castagno di duecento anni, no. Ma a me piacciono. Sono lì, ben piantati, serissimi, fanno il loro lavoro, non danno fastidio. Non sporcano, non fanno fumi, non richiedono la deviazione di fiumi per lavorare. Chi non vive qua magari non capisce, ma per noi è importante, questa cosa dei fumi e dello sporco. Chi vive qua ha in casa minimo quattro cassonetti: spazzatura semplice, umido, vetro, plastica e carta. In tutti i giardini c’è anche una compostiera, che serve per fare il compost, il concime naturale che poi viene utilizzato nelle coltivazioni. Praticamente ci mangiamo roba fertilizzata con roba che abbiamo mangiato prima, a sua volta fertilizzata con roba che abbiamo mangiato prima, quindi si può dire che sono dieci anni che ci rimangiamo la stessa zucchina rimasticata. Anche il latte ha un sapore diverso, sa di erba e di panna, anche se non lo produciamo tutto qui perché non ci sono abbastanza stalle: arriva quello del latte crudo e riempie i distributori. Ogni casa ha un impianto a pannelli solari, più uno comunale costruito in una zona sassosa dove era impensabile mettere altro, e infatti era rimasta non edificabile per decenni. Il fabbisogno energetico del Comune è praticamente coperto, i fertilizzanti artificiali sono banditi, le zucchine sono buone, le mucche sono felici, e in questo posto ci si rompono veramente le palle.

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Non saremo mai come voi, siamo diversi La mattinata si preannuncia molesta. Le galline arrivano alla fermata tutte in truppa, ascoltando l’ultimo di Gigi D’Alessio a cannone sul cellulare. Come se non bastasse il fatto che piove, abbiamo matematica alla prima ora ed è martedì, di tutti i giorni il più stronzo. Martedì, quando ne hai già le palle piene dal lunedì e ti mancano ancora cinque giorni per tirare il fiato. Anche i bulli della corriera sono caricati a molla. Oggi ce l’hanno con Francesco, che stava lì tranquillo ad ascoltarsi il suo iPod. Distratto, perso nella musica, canticchiava e muoveva forse un po’ la testa. Ci vuole poco, per aizzare Eugenio e la sua plebaglia. Gli si fanno intorno e cominciano a scimmiottarlo. Francesco finge di non vederli, ma Eugenio non molla, lo stuzzica, lo chiama “frocetta”, “Oh, frocetta, cosa ascolti? Fai sentire anche a me?” e gli strappa le cuffie. L’iPod di Francesco cade a terra con uno schiocco bagnato. Francesco lo raccoglie in fretta. — Me l’hai rotto, coglione! — Grida. Tutti, nessuno escluso, smettiamo di fare gli indifferenti e ci giriamo verso la catastrofe in arrivo. Francesco, con tutta la potenza del suo metro e sessantacinque per quarantacinque chili, si butta in avanti contro Eugenio. Non sa bene neanche lui come, non ha mai fatto a botte. Eugenio alza due braccia che sembrano tronchi, pare che lo tocchi appena, e Francesco è a terra. — A chi hai detto coglione, frocetta? Eh? Vuoi che ti spacchi anche la faccia, oltre che quell’iPod di merda?

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Ha già il piede alzato per tirargli una pedata, ma interviene uno dei calciatori. Lo conosco, si chiama Davide, ha la mia età e fa l’ITIS. Uno che gira poco in paese, sta praticamente sempre solo con Danilo e i suoi compagni di squadra. Alto, capelli lunghetti scuri e disordinati come avesse semplicemente smesso di tagliarli, maglietta extralarge di gruppo punk americano il cui nome mi suona. Ha un fratello più grande che lavora per un service, monta e smonta palchi, quest’anno si è fatto Vasco, Ligabue e i Negramaro. — Eugenio, falla finita — sbotta, tirandolo per un braccio. — Fatti i cazzi tuoi, tu — reagisce Eugenio, scrollandosi. Davide non molla. — Lascialo stare, dai. — Cosa c’è, vuoi prenderle tu al posto suo? — Tu provaci. — Ma vaffanculo, tu e la frocetta. Davide non raccoglie. Allunga una mano a Francesco e lo aiuta a rimettersi in piedi, gli assesta un paio di pacchette sulla schiena e si ricongiunge al resto della squadra. Francesco trema di rabbia, stringe in mano il suo iPod rotto, tace e va a prendere posto insieme agli altri. — Tu devi imparare a farti i cazzi tuoi — ringhia Eugenio in direzione di Davide, mentre si siedono e sistemano gli zaini. Davide si gira con lentezza. Non dice niente. Lo guarda soltanto, per un attimo, poi alza gli occhi al cielo, sbuffa e si siede come se niente fosse. Eroe. Mito.

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Genio. Eugenio si siede con i suoi compagni, confabula un po’ con Carlo e Domenico, poi forse decide di tenere un profilo basso, o forse si rende conto di avere perso la battaglia. Mira mi rivolge uno sguardo indecifrabile. — Cosa? — Niente. Mi allunga le cuffie, attiva lo shuffle e tira fuori una penna e un grosso blocco a righe, di quelli ad anelli con la copertina cartonata, e si mette a scriverci sopra. Sono i momenti in cui so che non devo disturbarla, anche se la tentazione di sbirciare è grande. Potrei ripassare inglese per oggi, ma preferisco leggere. Potrei leggere, ma sono distratta dall’immagine dell’occhiata con cui Davide ha messo Eugenio al suo posto. A me, anche applicandomi moltissimo, non riuscirebbe mai. Forse nemmeno a Mira, che ha sicuramente gli zigomi e le labbra adatti. La Contessina, una volta, l’ho vista fare uno sguardo così a Piermojito, che le sta sotto da almeno due anni, ma era Piermojito, uno con un fisico da scaccolatore cronico, collocato così in basso nella scala gerarchica del maschio locale da essere stato usato come sherpa da tutti i suoi coetanei e anche da qualcuno più piccolo. Lo sherpa, se non siete dei nostri, è quello che va da una ragazza e le dice: “Ciao, c’è il mio amico che ti vorrebbe conoscere” o simili. Praticamente è quello che fa la figura di merda per conto terzi, e deve essere per forza uno brutto, perché uno bello può essere che gli rovini la piazza. Non sto dicendo che sia vero, che gli rovina la piazza: sto dicendo che così ragionano quelli idioti abbastanza da

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usare lo sherpa, vale a dire l’ottanta per cento dei maschi nella fascia d’età fra i dieci e i tredici. Dopo no, dopo se usi lo sherpa devi morire. Dopo i tredici, capita che sia lei a venire da te. Ecco, uno sguardo come quello di Davide – scocciato, in una parola: lo sguardo di chi pensa “Ancora qui, sei?” – è una cosa che richiede una coscienza superiore. E la cosa più stupefacente di tutte è che questa coscienza superiore sembra risiedere nel cervello da piccione di uno dei calciatori. Uno che in teoria dovrebbe essere preoccupato più dello stato dei suoi addominali che della giustizia sociale. Do una gomitata a Mira. Lei alza la testa e mi guarda. Fa un cenno, che c’è? Io accenno con lo sguardo a Davide, un gesto con la mano e una scrollatina del capo, ma tu lo conosci? Non bene, mi telegrafa stringendo le labbra. Ah, io, senza un suono. Vabbè. Davide, nel suo sedile dieci file avanti, chiacchiera con un compagno di squadra seduto dall’altra parte del corridoio. Mi levo le cuffie per cercare di carpire un po’ di conversazione, ma sono troppo avanti, e da come parlano sembra stiano discutendo di fuorigioco, rigori e marcature a uomo. O forse parlano di donne, vai a sapere. Arrivati a destinazione c’è il solito rifrullo di gente che scende, si stiracchia, spippola col telefonino, si rimette lo zaino. Mi accorgo che Davide è rimasto indietro rispetto al gruppo con cui normalmente fa il tragitto verso scuola, per legarsi i capelli sulla nuca con un elastico. Passandogli vicino rallento di proposito. Mira va avanti qualche metro prima di accorgersi che non la seguo: con la coda dell’occhio vedo che mi fa delle facce sgomente, tipo “Ma che fai? Che fai?”

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— Sei stato bravo, con Eugenio. Finisce di farsi la coda e mi aggredisce con gli occhi. — Sì, be’, grazie. Ma potevate dire qualcosa anche voi. Tutti a far finta di niente. — Come non detto, ciao — taglio corto, e in tre passi sono di nuovo da Mira. — Ma sei matta? — sibila lei. — È uno stronzo. — Sì, non è questo, Irene. Non so cosa ti dice la testa. — Volevo dirgli che mi era piaciuto. — Sì, ecco, non si fa. — Se uno non è stronzo, gli fa anche piacere. — Ti devo spiegare veramente tutto. — Ma mica me lo voglio fare. — No? — No. Cosa ti viene in mente. Era veramente solo per Francesco. Ma adesso mi dispiace, eh. Vorrei non averlo fatto. — Troppo tardi, sarà per la prossima figura di merda. Davide ci supera a passo spedito, aggancia il gruppo degli amici e cammina con loro. Proseguiamo lungo il viale che dalla piazza dove si fermano le corriere porta verso la nostra scuola. L’umiliazione mi pesa sullo stomaco: ho rotto le righe, infranto l’etichetta, e questa è la mia ricompensa. Che stupida. Che stupida. Che stupida. Poi lui si gira a guardarmi. E mi sorride. Dura così poco che Mira neanche se ne accorge, impegnata com’è ad accendersi la sigaretta mentre

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cammina e a dissociarsi dalla mia scemenza. Neanche i compagni di squadra di lui se ne accorgono. Dura veramente pochi istanti, ma sono sicura: era per me. Si è girato, mi ha guardata e mi ha sorriso. Poi ha ripreso il cammino, si è immesso nella conversazione con gli altri, fluido come si era voltato, e nessuno dà segno di notare nulla. — Cos’hai? — Niente. — Stai fuori, stai. — No… è… oh, niente. Forse me lo sono immaginato. Lo sherpa, da me, c’è venuto tre volte. La prima volta avevo dieci anni ed ero a una festa di compleanno, se non ricordo male quella di una mia compagna delle elementari che poi si è trasferita con la famiglia altrove. Bisogna sapere questo, di me: che a dieci anni ero alta un metro e sessanta. E non ero per nulla vicina allo sviluppo, solo alta. Non guardavo i ragazzi perché giocavo con le Barbie, anche se solo con Mira e solo di nascosto, perché tutte le altre erano ormai più interessate ai vestiti e a uscire con le amichette. Anche Mira, a dire la verità, con le Barbie cominciava ad avere un rapporto difficile. Tipo che voleva sempre farle rimanere sole con l’unico Ken che avevamo in comune, comprato mettendo insieme le paghette, e che già allora – con quel sorriso fisso e quell’onda di capelli laccati – mi sembrava del tutto inadatto al compito di venire incontro alle esigenze di quindici femmine tutte bionde e tettone. (Una volta entrò mia sorella, ci vide e sbottò: «Ma neanche Hugh Hefner, tutte insieme.» E se ne andò: allora non capii.) Vabbè, comunque, era

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per dire che io giocavo con le Barbie e non avevo mai pensato all’idea di avere un fidanzato, anche perché erano tutti più bassi di me di mezza testa. Quindi, quando arriva Matteo a dirmi che il suo amico Marco vorrebbe conoscermi perché gli piaccio, non so cosa dire: sto lì un po’, dondolo da un piede all’altro, poi alla fine borbotto un no e me ne vado. Cioè, mi sposto dall’altra parte della stanza, senza sapere bene neanche io a che scopo. Matteo torna dall’amico Marco, e li sento benissimo: — Ha detto “no”. — Ah. Una medaglia a Marco per non avermi riso dietro. Invece si è fatto spezzare il cuore così, gratis, da una che non aveva mai visto prima dato che lui veniva da un altro paese. Lezione numero uno: se uno ti vuole conoscere, è meno imbarazzante fartelo presentare che andare in confusione e tentare la fuga. Anche perché non sai mai quando lo dovrai incontrare di nuovo, lui sarà un fico e ti tratterà malissimo: cosa che è puntualmente successa proprio con Marco, a un’altra festa tre anni dopo. La seconda volta, lo sherpa è mio cugino Alberto e siamo al mare. Alberto è un paio d’anni più grande di me, all’epoca ne aveva quattordici e io dodici. Io stavo sul materassino da sola e leggevo, come faccio praticamente sempre all’incirca da quando avevo quattro anni. Arriva Alberto e dice «Guarda che ci sarebbe Turi che ti vuole conoscere» e in fondo alla spiaggia c’è questo siciliano bellissimo, tostato dal sole e con un sorriso abbagliante da far venire il mal di testa. Questa volta metto giù il libro e la affronto con un po’ più di grazia. Mi alzo dal materassino e vado

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incontro a Turi in tutto il mio splendore color aragosta su costume intero azzurro cielo. Il mio primo bacio, purtroppo, me l’ero bruciato al Centro Ricreativo con uno di terza media, qualche mese prima. Uno che non solo non sapeva baciare (lingua molle, troppa saliva), ma aveva anche la ragazza e voleva solo farla ingelosire. Ma non importa. I baci clandestini con Turi sulla spiaggia di Lampedusa rimangono come i migliori della mia vita fino qua: e hai voglia a dirmi che ho solo diciassette anni, sai quanti ne verranno. Quelli lì, secondo me, non si superano. Peccato che poi l’estate finisca e gli isolani tornino alle loro occupazioni, nonché alle ragazze autoctone. Dio, quante lacrime. Non potete capire. Non credevo neanche di poterne produrre così tante. Mi si seccavano le labbra, da quanto piangevo. Lezione numero due: se in vacanza baci uno che vive lì dove tu sei in vacanza, tieni presente che il rapporto non continuerà oltre le due-tre settimane di permanenza in loco. Messenger avrà dei problemi, la posta non gli si scaricherà, gli si romperà il pc e anche il suo cellulare non riceverà più i messaggi che gli mandi. Terzo sherpa della mia vita, come per tutte, Piermojito. Non scherzo, quando dico che è una tappa obbligata. Epoca: due mesi dopo l’estate siciliana di cui sopra. Io, ancora inconsolabile, mi trascino qua e là al Centro Ricreativo con la Contessina e Mira, reduci a loro volta da storie estive e malandate quanto me. Siamo lì a sospirare davanti a un dvd – una roba nobile e drammatica tipo Schindler’s List, visto che le commedie rosa in catalogo al Centro le abbiamo già viste tutte – quando entra Piermojito. Che era ancora a qualche anno di distan-

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za dal guadagnarsi il soprannome, ma per il resto era come adesso, seppure con più brufoli, più denti messi a casaccio in bocca e senza la frangetta da hipster che si è fatto crescere negli ultimi tempi. — Irene, vieni che ti devo dire una cosa? Io guardo Mira, guardo Anna, faccio “Boh?” con la bocca, mi vergogno (non sia mai che si pensi che ho un qualsivoglia genere di rapporto con Piermaria, anche se essendo coetanei e compaesani un rapporto ce lo abbiamo per forza), ma poi mi alzo ed esco. — C’è Carlo che mi ha detto di darti questo. E mi consegna un foglietto tutto spiegazzato. Tutto mi si può dire, ma non che io sia priva di istinto di conservazione. Non lo apro. — Ti ha detto di dirmi qualcosa? — No. Mi ha detto solo di dartelo. — Va bene, grazie, Pier. Pier annuisce, tutto preso dalla gravità del suo ruolo di messaggero. — Gli devo dire qualcosa, io? — No. Digli solo che me lo hai fatto avere. E sparisco in bagno col foglietto. Chi sia diventato poi Carlo lo avrete forse intuito, avendolo visto dalle parti di Eugenio; ma già a tredici anni era inquietante. Una specie di ombra malevola sempre dietro le spalle del capo bullo, taciturno e oscuro. Un biglietto da lui era roba da trattare con cautela, perché per quanto potesse essere ributtante, Carlo non era uno che potesse essere respinto con leggerezza. Spiego il foglietto con dita che tremano di purissimo terrore. Dentro c’è scritto: IRENE TU x ME 6 LA + BELLA La lezione numero quattro che avrei imparato sa-

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rebbe stata “Non metterti in bocca una caramella mou morbida prima di baciare uno con l’apparecchio”; la numero cinque “Se cammini all’indietro mentre ti stai allontanando da uno che ti piace, incontrerai sicuramente un palo della luce”; la numero tre “Non ridicolizzare uno di cui non puoi prevedere esattamente le reazioni”, invece, era dietro l’angolo. Torno nella stanza dove ho lasciato Anna e Mira. Adesso non lo rifarei, ma in quel momento lì sembrava una buona idea consegnare il biglietto ridacchiando e spiegando da chi veniva. Anna e Mira dimenticano all’istante tutte le loro disgrazie amorose, e un po’ mi commiserano per il dramma di essere LA + BELLA per uno che viene evitato da tutte, uno che già all’asilo quando ti inseguiva per giocare, invece di ridere e correre, ti rifugiavi singhiozzando dalla maestra; un po’ trovano la cosa divertentissima. Succede, per farla corta, che il giorno dopo durante l’intervallo vedo Carlo, che quando a sua volta mi vede si avvicina a Piermaria e gli bisbiglia all’orecchio. Piermaria annuisce e viene verso di me. — Carlo vuole sapere se hai letto il biglietto. — Sì. — E cosa dici. — Niente. Grazie. — Grazie? Gli devo dire questo, grazie? — Non vorrai mica che gli risponda “Sì, anche tu”? — Interviene Mira, e mentre lo dice le scappa da ridere, contagia Anna, si rinforzano a vicenda, e prima che possa fermarle (ma come, poi?) stanno sghignazzando apertamente. — Io riferisco, eh — fa Piermaria, impassibile. Io resto paralizzata a guardarlo mentre se ne

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va. Ho la sensazione che tutto il sangue mi sia sceso dalla faccia allo stomaco. Non mi sembra più tanto divertente. Carlo, lì per lì, non fa niente. Aspetta che suoni la campanella del rientro in classe. Mi si accoda mentre salgo le scale. — Sei cattiva — sibila — ma questa me la paghi. Io penso, aiuto, ho paura. Mamma. Vorrei dirlo alla mamma. Ma poi penso anche: no, la mamma non lo deve sapere. Mi vergogno. Essere LA + BELLA per Carlo è in assoluto la cosa più terrificante che mi sia successa da quando ho memoria. Peggio di quella volta che sono caduta dal quadro svedese. E delle montagne russe di Gardaland. Questa è una paura buia, cieca, che non so dove inizi né dove finisca. Non mangio per giorni, dormo male, ho incubi tremendi. Per la prima volta in vita mia non voglio andare a scuola, mi invento disturbi inesistenti, metto il termometro sulla lampadina per simulare la febbre. Mia madre, vaccinata alle intemperanze di mia sorella, attribuisce tutto a una paturnia qualsiasi e non indaga. Poi mia sorella torna a casa dall’università per il fine settimana e viene in camera mia a salutarmi. — Come stai? E io scoppio in lacrime. Notare che, in tutto questo, Carlo non era andato oltre quell’unica minaccia. Sì, certo, mi guardava brutto. Ma niente di più. Eppure io ero in uno stato di completa disperazione. Ci sono grandi vantaggi nell’avere una sorel-

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la molto più grande. Isabella, che ha dieci anni più di me ed è andata via di casa presto, si fa raccontare tutto dall’inizio alla fine. Non le devo neanche spiegare troppe cose. — Senti, tu devi parlarci, con Carlo. — No. — Sì. Domani a scuola vai da lui e gli parli. — E cosa gli dico? — Gli dici che ti dispiace se le tue amiche hanno riso, e che ti ha fatto piacere ricevere il suo biglietto ma ti piace un altro. — Ma non è vero! — Grido io, già dimentica di Turi e della nostra magnifica estate a pomiciare fra le barche. — Non importa. Prima o poi sarà vero. — E se non è vero? — Non sono affari suoi, scema, tu devi solo fargli credere che non ti interessa perché ti piace un altro. Mica gli puoi dire che è inguardabile. Lezione numero sei: c’è sempre un momento in cui scopri che una bugia detta bene è infinitamente più benefica di una verità detta benissimo. Ma se non si sanno dire le bugie, è consigliabile farsele fabbricare da qualcun altro.

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Bianca è la figlia di un giudice antimafia. Il padre di Manuel era un boss ucciso da un clan rivale. Nello zaino di Bianca c’è un album da disegno. Dai jeans di Manuel sbuca una pistola. Quando si incontrano all’ultimo anno del Liceo Artistico, Bianca e Manuel hanno una sola cosa in comune: la passione per l’arte. Qualcosa in quel ragazzo scostante e bellissimo risveglia i sentimenti di Bianca, soffocati da tempo a causa di una tragedia familiare. Ma anche se Manuel prova lo stesso per lei, non può lasciarsi andare: i suoi doveri all’interno del clan prevedono che vendichi la morte di suo padre e segua un destino che è stato scritto per lui da tempo. Ma la passione, l’amore e la voglia di una vita diversa li uniscono sempre di più, finché Bianca metterà Manuel davanti alla scelta più difficile: tradire la sua famiglia o la ragazza che ama?

IN LIBRERIA

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IN LIBRERIA La storia di unʼadolescenza vissuta al ritmo dei pedali di una bicicletta, stretta fra il sogno ecologista dei genitori e il desiderio di libertà dei figli. Una storia di amori che nascono e amicizie che si sgretolano, nel momento in cui tutto cambia. Quando il “mondo prima” comincia a non bastare più.

È un posto bellissimo, Vallefiora. Vecchio e giovanissimo allo stesso tempo, con tutta la storia contadina alle spalle e il futuro ecologista davanti. Se ci sarà qualcuno a raccoglierlo. Se non ce ne scapperemo tutti, per quanto possibile, come hanno fatto quelli che vivevano qui prima di noi: che se ne sono andati, perché quella che avevano qui era la vita dei loro genitori, e non la loro.


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