Muchachas 1 - Katherine Pancol

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NARRATORI STRANIERI


Della stessa autrice presso Bompiani

Gli occhi gialli dei coccodrilli


KATHERINE PANCOL MUCHACHAS 1 Traduzione di Fabrizio Ascari

ROMANZO BOMPIANI


Pancol, Katherine, Muchachas Copyright © Éditions Albin Michel, 2014 First published in 2014 by Éditions Albin Michel, Paris, France © 2014 Bompiani / RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano ISBN 978-88-452-7699-6 Prima edizione Bompiani settembre 2014


Per Sylvie Genevoix


“Cercare la felicità in questa vita, ecco il vero spirito di rivolta.” Henrik Ibsen


“Quanto è brutta la gente!” sospira Hortense sistemandosi gli occhiali sulla punta del naso. “Non c’è da stupirsi che io abbia tanto successo…” Seduta nel bovindo del salotto, in jeans rossi a sigaretta e cardigan verde anice, ai piedi delle ballerine arlecchino, osserva il viavai dei passanti in strada. “Sono grossi, grassi, grigi, tremano, fanno smorfe, battono i denti, dei veri sgorbi…” Gary, sdraiato sul letto, con le cuffe sulle orecchie, batte il tempo con i grandi piedi. Un calzino nero, uno rosso. Uno, due, tre, quattro, pausa di semiminima, cinque, sei, sette, otto, pausa, terzina, pausa di croma, nove, dieci. “Oppure,” prosegue Hortense, “sono molluschi, dondolano a destra, dondolano a sinistra, lunghi flamenti malinconici che vagano senza meta.” Gary si stira, sbadiglia, si arruffa i capelli. La camicia Brooks Brothers giallo limone gli esce dai pantaloni di velluto liso. Si toglie le cuffe e lo sguardo gli cade su un’Hortense strega deliziosa dal nasino curioso e dai lunghi capelli castano mogano che profumano di shampoo alle erbe della Kiehl’s che usa due 9


volte alla settimana e che gli vieta di adoperare, “visto quello che costa!”, nascondendolo sotto un guanto nella doccia o dietro il water. Gary riesce sempre a trovarlo. Do o do diesis? si chiede aggrottando le sopracciglia. Riapre lo spartito per controllare. “Tutti vestiti di marrone, di grigio, di nero. Niente bottoni rossi né sciarpe verdi! Sedie, ti dico, sedie. Un esercito di sedie che aspettano tremando il posteriore del capo. Sai cosa ti dico, Gary? Quelle persone portano il lutto, non nutrono più alcuna speranza. Camminano per strada perché hanno ricevuto l’ordine di alzarsi presto, di prendere il treno o il metrò, di recarsi in uffcio, di annuire davanti al bellimbusto impomatato che servono come un padrone. Io mi rifuto di essere una sedia!” “Non hai fame?” chiede Gary, richiudendo lo spartito e mormorando do diesis, sì, è un do diesis, mi, re, fa, si bemolle, do. “Io mi rifuto di essere una sedia, voglio essere la Torre Eiffel. Voglio inventare un vestito che slanci, che assottigli, che innalzi verso il cielo. ‘La semplicità è la sofsticatezza estrema.’ Sarà il mio slogan.” “Leonardo da Vinci lo ha detto molto prima di te.” “Sei sicuro?” chiede lei stupita, colpendo con la ballerina la parte bassa della seduta rivestita di legno su cui è appollaiata. “Sono stato io a sussurrartelo all’orecchio ieri sera. Te ne sei scordata?” “Tanto peggio per lui! Glielo frego. È il mio momento, Gary. Non voglio essere né giornalista, né addetto stampa, né umile stilista alla catena di montaggio, voglio inventare, creare… Imporre il mio marchio.” Fa una pausa. Si china in avanti come se avesse scorto un esemplare elegante in strada, ma si raddrizza delusa. “Per riuscire in questo mestiere, bisogna essere fuori di testa. Andare in giro con una bottiglia gigante di Coca Cola, cal10


zoni a sbuffo, manicotto di zebra, scaldamuscoli fuorescenti… Io non sono fuori di testa.” “Non hai fame?” chiede di nuovo Gary, assumendo la posa pensierosa dell’uomo appoggiato su un gomito. L’immagine della sala da tè della Neue Galerie sulla Quinta Avenue gli ha appena attraversato la mente. Café Sabarsky. Apprezza quel luogo ovattato, le boiserie, i tavolini rotondi di marmo e il vecchio piano Yamaha nero che si annoia in un angolo. La lettura dello spartito gli ha fatto venire un certo languore. Ha fame. “Fame?” risponde distrattamente Hortense, come se le chiedessero se non desideri adottare un cacatua dalla cresta gialla dell’Oceania. “Muoio di fame, voglio della panna montata su una torta di mele caramellate. Voglio andare al Café Sabarsky. È un locale confortevole, ovattato, zuccheroso, pieno di dolci appetitosi, di persone anziane dai capelli bianchi, di ninnoli arzigogolati, di piatti dal bordo argentato e di bravi bambini che stanno composti senza urlare.” Hortense alza le spalle. “Ho talento, sono brillante, mi sono diplomata al Saint Martins, mi sono distinta da Gap e altrove. Mi mancano il denaro e la spinta giusta… un marito ricco. Non ho un marito ricco. Voglio un marito ricco.” Guarda dappertutto come se fosse nascosto sotto il letto o un cassettone. “Non so se prenderò la torta di mele o la schwarzwälder kirschtorte. Sono incerto.” “E se tu vendessi i gioielli della Corona…” “E una cioccolata calda viennese. Con tanta crema.” “Andrò a trovare tua nonna.” 11


“Nonna è molto parsimoniosa.” “Le punterò una pistola alla tempia argentea.” “Una cioccolata calda molto densa con panna montata e una schwarzwälder kirschtorte. Un grosso dolce al cioccolato con crema e ciliegie. Prendi il cappotto.” Hortense obbedisce. Quando Gary ha fame, non sente ragioni. Lancia un’ultima occhiata al manichino a rotelle su cui è appuntato un modello di abito. Tre settimane di lavoro. Un sapiente plissé che parte a ventaglio dalla vita per fnire sul ginocchio. Busto aderente, stretto, fanchi non segnati, morbidi, misteriosi. La semplicità è la sofsticatezza estrema. Divino! “Che ne pensi del mio ultimo modello?” “Sono ancora incerto.” Aspetta con il batticuore che Gary pronunci il verdetto. È il suo primo pubblico. Quello cui vuole piacere. Sul quale affla le sue armi. Imparano insieme, crescono insieme, lei lo stupisce, lui la stupisce, non si scoraggiano mai. Quando gli posa una mano addosso con aria di possesso, Gary si sottrae con un leggero colpo di spalla e l’avverte con lo sguardo questo no, Hortense! Questo no! Lasciami respirare. E quando lui le si avvicina troppo mentre sta tentando di disegnare qualcosa, Hortense lo respinge brontolando. Lui dice ok, ho capito, ripasserò più tardi. Non c’è problema, si ritroveranno la sera nel grande letto in cui la loro pelle si infamma sotto carezze sconvolgenti che sanno prolungare così bene fnché uno dei due chiede pietà. Gary vince sempre, Hortense è impaziente e vorace. Non potrei vivere così con nessun altro. Il suo pianoforte rende fuidi i miei modelli, le note di Schubert, Bach, Mozart danno un ritmo, un’ampiezza ai miei disegni. Lei aspetta che pronunci le parole precise. Gary sceglie sempre con cura le parole, possiede una straordinaria proprietà di 12


linguaggio. Dice “peripezia”, “contrattempo”, “vicissitudine”, “imprevisto”, valutando l’importanza della situazione. Le insegna ad approfondire i propri pensieri. Ma la ferma anche, sì, quando va troppo in fretta e raffazzona un discorso. L’altro giorno, dopo aver lavorato, rifettendo a lungo, Hortense aveva trovato una defnizione dell’amore che calzava loro come il guanto di un grande sarto. L’amore, aveva dichiarato mentre Gary si faceva un caffè, è quando due persone si amano, sono capaci di vivere ciascuna per sé ma decidono di vivere insieme. È la nostra storia. E aveva fatto un sospiro di piacere; lui l’aveva afferrata ed erano rotolati sul grande divano sfondato che fa da frontiera tra i loro due regni: la musica e la moda. L’alta moda, corregge Hortense storcendo il naso. “E se…” dice Gary. “Se tirassi un po’ su il pannello della gonna?” “E se… mi lasciassi tentare dalla zitronenschnitte? È grossa, irresistibile e il limone non lega i denti. Sono incerto… Tu che cosa prenderesti?” “Niente,” sibila lei, ferita. “Ti guarderò mangiare pensando al mio plissé. Forse dovrei spostare leggermente il punto vita… oppure no.” “Dici così e poi ogni volta ordini montagne di dolci che mandi giù fno all’ultima briciola. Raschi il piatto, parli con la bocca piena, sei proprio disgustosa, Hortense Cortès.” “È perché ho deciso nella mia testa di non ingrassare. È una questione di strategia. Sono più forte delle calorie che terrorizzano tutte le ragazze della terra; io invece le disprezzo. Perciò, risentite, mi evitano.” “Inflati il cappotto, c’è vento. Andremo a piedi, sarà una sferzata stimolante.” 13


“Maxime Simoens ha avuto la propria maison a ventitré anni…” “Prendi guanti, sciarpa e berretto. Lascia stare l’abito e gli spilli. La mia pancia parla, devi sottometterti, donna!”

In Central Park, mentre avanzano lottando contro il vento, Hortense si aggrappa al braccio di Gary. Lui cammina a grandi passi, lei gli trotterella al fanco. Lui aggrotta le sopracciglia alla ricerca di un accordo che gli sfugge. Lei sposta uno spillo sul manichino. Lui cerca l’accordo di semicroma, lei non è più sicura del suo drappeggio. Vagano ognuno nei propri pensieri, ignorando quelli che fanno jogging, gli scoiattoli, i prati e le colline, i lanciatori di frisbee, gli ambulanti che vendono bretzel e salsicce, gli scivoli e i palloni. È inverno e il Central Park è marrone, spoglio. Non somiglia più alle cartoline che comprano i turisti. Gli alberi si agitano, i rami fremono, il vento sibila arrossando loro il naso, non vedono nulla. Solo Hortense parla ad alta voce. Come per esorcizzare lo strano crampo al ventre che la paralizza e la angoscia. Si sveglia ogni mattina con questo crampo al ventre. Non sa come chiamarlo, come defnirlo. Un nodo che la taglia in due e la precipita in una profonda paura. E se la vita le sfuggisse? Fino a oggi ha vissuto a tutta velocità in un flm a colori, ma da qualche tempo si dibatte in un grigiore che le mette tristezza. E se non riuscisse a cogliere l’occasione? È quasi vecchia. Ventitré anni è l’inizio della fne, la morte delle cellule, la decrepitezza dei neuroni, è scritto in tutti i libri scientifci. Il tempo non le è più amico, lo ha capito bene. Non sa più in che direzione andare. E presto avrà dato fondo a tuttii i suoi risparmi. Si attorciglia una ciocca di capelli, si china senza lasciare il braccio di Gary, afferra un rametto da terra, 14


raccoglie la chioma con una mano, vi infla il rametto, crea uno chignon sofsticato, riprende il corso dei suoi pensieri, con la fronte sgombra, il collo lungo ed esile di una madonna gotica. Fingere. Non mostrare esitazioni. Ignorare il nodo. Agire. L’azione sbaraglia la paura. Si è sempre buttata. “Oppure… cambio tutto. Faccio il plissé in alto e tolgo le piegoline in basso. Una gonna dritta e una parte alta con due coppe che avvolgono il seno, tre piccoli bottoni a perla su un drappeggio che sottolinea la vita. Che ne dici?” Lui sente solo le ultime parole e le trova sgradevoli. Anatre zoppe che attraversano il suo sogno dondolandosi. Macchie sul sogno. Note dissonanti. Detesta la dissonanza. “Potresti rispondermi!” “Hortense, per favore, inseguo una nota… una piccola nota cerniera che porterà tutte le altre. È lì, non lontano, l’ho quasi scovata. Lascia che l’afferri e poi ti ascolto, te lo prometto.” “Capisci, la crisi sta sconvolgendo tutto. Le vendite precipitano, i prodotti tessili vengono sempre più tassati, i marchi lo sanno e si concentrano sui loro valori sicuri, tradizione e immagine. Devo intrufolarmi e piazzarmi prima che sia troppo tardi. Altrimenti non esisto più e mi ridurrò a fare solo orli.” Stringe più saldamente il braccio di Gary per riportarlo a sé, al suo problema, al nodo nel ventre che diventa un nodo in gola. “Ma non c’è solo la tua musica nella vita!” sbotta. “Parlami, Gary, parlami.” Si accoccola a lui, sente il suo profumo mescolato all’odore della lana del suo caban blu scuro. Da quanto tempo lo porta, quel vecchio caban? Rifuta di liberarsene. Glielo ha sempre visto addosso. C’è l’impronta del suo braccio sulla manica destra. Un punto in cui la lana è un po’ infeltrita. È stato il mio 15


braccio a farla, è il mio marchio. Si aggrappa, lo scuote, lui si libera, lei si aggrappa di nuovo. “Devo innovare, devo inventare. È l’unico antidoto alla crisi. Solo la creatività rilancerà il mercato. E devo riuscirci da sola. Mi sento sola, così sola…” Gary non si gira, continuando ad avanzare in cerca dell’ultima nota. Mi, sol, la, si, do, do diesis… il sogno è svanito. La nota è fuggita. Stringe i pugni, serra le mascelle. Respinge con uno scatto della testa il bordo della sciarpa che gli copre il naso. Tira la manica del suo vecchio caban. Tira ancora. Cerca con tutte le sue forze. La collera soffa in lui come il vento sugli alberi. È furioso. Stava per trovarla. Non devo agitarmi, si ripete, non devo, ho ancora in mente le prime note. L’accordo tornerà nel caldo rassicurante della sala da tè. È il suo rifugio. È là che ha composto il primo movimento del suo primo concerto per pianoforte. Soffando sulla panna montata della sua cioccolata viennese. Scarabocchiando con la punta della matita le note che gli turbinavano in testa. Ha sempre il suo quaderno in tasca. E una piccola matita dalla mina tenera che corre sulla carta. “Allora te ne freghi,” insiste Hortense, “non mi senti, non mi ascolti, che cosa sono per te? Un mobile? Un gingillo? Una lampadina avvitata male?” Lascia il braccio di Gary. Si scosta di un metro. A testa alta contro il vento. Sente di nuovo il crampo al ventre. Non cederà. Né al crampo né all’indifferenza di Gary. Continuerà da sola. Del resto si è sempre soli nella vita. Devo mettermelo in testa e non scordarlo più. Sola, sola, sola. Sì, ma da sola che faccio? Sferra un calcio a un pallone rincorso da un bambino ansimante, mandandolo nella direzione opposta, il bambino urla e si mette a piangere. Ti sta bene, sibila lei. Non hai che da 16


inseguirlo e riprenderlo, non è mica fnito in capo al mondo! Hai due piedi e due gambe! Il bambino smette di piangere e la osserva, stupito. “Perché piangi?” chiede il piccolo abbassando il paraorecchi del suo berretto da cacciatore canadese. “Non piango. Fila via.” “Sei cattiva! Sei cattiva e pure racchia! Hai un ramoscello fra i capelli. È proprio brutto.” Hortense alza le spalle e si asciuga gli occhi con il risvolto della manica. Si volta verso Gary per attaccarlo. Lui ha chiamato un taxi e s’infla dentro senza aspettarla. “Gary!” urla lei trattenendo a stento le lacrime e urla ancora “Gary!” Corre verso l’auto. Lui chiude la portiera. Abbassa il fnestrino e le grida, mentre il taxi riparte: “Spiacente, mia cara, ho bisogno di calma e di serenità. Ti lascio ai tuoi plissé. Una bella camminata è la migliore alleata dei pensatori smarriti.” Hortense segue con lo sguardo i fari rossi del taxi giallo che si allontana. Gary la pianta in asso in Central Park. Osa piantarla in asso lì. Chi si crede di essere? Perché è bello e affascinante pensa di poter fare strage di cuori? Ha i pantaloni troppo corti e le scarpe troppo grandi. Anche i piedi sono troppo grandi. I capelli troppo neri. E i denti troppo bianchi. Resta un attimo con le braccia ciondoloni e il naso che cola. Respira a fondo. Si tira su il bavero per proteggersi dal vento. Scorge il bambino che continua a osservarla. E gli fa una smorfa. Lui prima di andare a recuperare il suo pallone le grida: “Lo vedi che sei una racchia! Ti ha mollato qui come una banana marcia.” E si allontana di corsa. 17


Il Café Sabarsky è deserto a quell’ora del pomeriggio. Le belle signore oziose e ricche prolungano l’uscita per il pranzo facendo shopping, i vecchi signori fanno la siesta, i bambini si impegnano a scuola, la tramontana gelida ha scoraggiato tutti gli altri. Gary si siede a un tavolino rotondo di marmo bianco, posa il suo quaderno e la piccola matita dalla mina tenera. Il cameriere in gilet nero su un lungo grembiule bianco gli porta la carta e accenna ad allontanarsi per lasciargli il tempo di scegliere. “Inutile,” dice Gary, impaziente. “So quello che voglio. Una cioccolata calda molto densa con panna montata e una schwarzwälder kirschtorte.” E la pace! La pace e il silenzio per riempirlo di note. Dio santo, quanto può essere irritante Hortense! Le tira forse i capelli quando è intenta a fare uno schizzo? La bacia sul collo anche se muore dalla voglia? Quando la sua nuca inclinata invita al bacio, addirittura al morso? No. Indietreggia e la contempla. Aspetta che si volti, lo guardi, si ricordi che esiste. Sai ancora come mi chiamo? le chiede sorridendo, seduto sul divano. Sono il tuo amante preferito. Hortense si raddrizza. Le sue labbra carnose abbozzano un sorriso trasognato. Lo sguardo le si fa dolce. Gary, Gary Ward, mi dice qualcosa… Lui ha voglia di morderle la bocca, ma si trattiene, lei è ancora immersa nel suo disegno. Aspetterà che torni sulla terra e si arrenda. Starle alla larga. È una divoratrice. Premurosa e sottomessa di notte, ribelle di giorno. A che punto ero quando sono saltato nel taxi? Avevo perso le mie note ed ero furioso. Ritorneranno. Domate dal bianco delle tovaglie, dalle boiserie, dal pavimento che scricchiola sotto le scarpe. Il fantasma del vecchio dottor Freud si aggira fra le charlotte, le montagne di panna montata, le torte, i biscotti, le meringhe, i dolci ricoperti di glassa bianca, 18


alla ricerca di un paziente da distendere sul suo divano. Non sono un paziente, dottor Freud, vivo in buona armonia con me stesso. Mi vado a genio, non mi esalto né mi reprimo, non mi paragono a nessun altro. La mia felicità è semplice: essere me stesso. Ho sepolto un padre che mi aveva dimenticato alla nascita ma che mi ha lasciato un castello in Scozia per dimostrare il suo pentimento. Non so ancora che cosa ne farò. Mia nonna ha assoldato una squadra di artigiani per consolidarne mura e tetti. Detesta lasciar crollare i castelli centenari. Mio padre era un uomo negligente, solitario. E molto alcolizzato. Sì, è vero che ha affrettato l’ora della sua morte. Devo sentirmene colpevole, Sigmund? Non credo. Ci siamo incrociati un solo pomeriggio.1 Poco per intrecciare dei legami. Da quale segno un fglio riconosce il padre? Un padre che non ha mai conosciuto? Quanto a mia madre… Sono cresciuto con lei. Era la mia unica compagnia. La mia stella polare, la mia bussola. Mi ha allevato ripetendomi che ero una meraviglia, che non era grave se ignoravo quanto facesse uno più uno o dove si trovassero le Nuove Ebridi. Ma se per caso le mancavo di rispetto, un calcio nel sedere e via in camera mia. Mi ha insegnato a proteggere le donne e a montare una maionese con la forchetta. Un giorno ci siamo dovuti separare. È stato doloroso. È anche per questa ragione che sono fuggito a New York, l’avevo sorpresa a letto con il mio professore di pianoforte. Oggi ci amiamo con tenerezza. Non mi fa mai sentire il suo peso e mi vuole bene a distanza visto che abita a Londra. Sogghigna? Non ci crede? È così. Prosegua per la sua strada! In fondo, proprio in fondo alla sala c’è un bancone di legno 1

Vedi: Gli scoiattoli di Central Park sono tristi il lunedì (di prossima pubblicazione Bompiani).

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nero con le macchine per il caffè espresso, il latte fumante, le cioccolatiere e le teiere allineate sul ripiano di zinco. Gary riconosce una ragazza della sua scuola dietro il bancone. Frequenta il suo stesso anno. Deve fare la cameriera per pagarsi gli studi. Come si chiama? Un nome impossibile. Un nome da ninfa greca per una spilungona col muso da toporagno. Magra, pallida, incerta, capelli neri radi tirati indietro, una treccia striminzita, grandi orecchie a sventola, un naso che sovrasta una bocca sporgente dalla dentatura da latte. Un nome da peplo. Atena, Afrodite, Persefone? No, non è questo. Ciò che sconcerta in quel viso sono gli occhi, grandi occhi neri che sporgono dalle orbite e fanno pensare a un animale in agguato. Si direbbe una zitella uscita da un romanzo di Jane Austen. Quella che non si sposa mai e prende il tè nella sua camera mentre i nipoti e le nipoti cicalano in salotto. È troppo giovane per essere una zitella. Guardandola con più attenzione, si vede aleggiare su quel volto sgradevole un’amabile indifferenza. Sembra dire non ci sono, non guardatemi, e sembra non soffrirne. Oppure sono occupata altrove, non insistete. Sì, è esattamente così, pensa Gary, quella ragazza è sgraziata eppure vi congeda con delicatezza. Se la vede con un lungo cappotto marrone abbottonato fno al collo e degli stivali di gomma. Mi ricordo di lei adesso… Una volta alla settimana, gli studenti della Juilliard School si esibiscono davanti ai compagni. Agenti e professionisti si insinuano tra il pubblico a caccia di futuri talenti. Si riconoscono perché parlano forte e fanno rumore. Quella sera lei interpretava il primo movimento del Concerto per violino e pianoforte di Čajkovskij. Teneva la sala in sospeso. Non un rumore di sedie, nessun colpo di tosse, tutti trattenevano il fato e seguivano il canto dell’archetto, tendendo il collo verso la ninfa greca col 20


viso da topolino. E a un tratto, mentre l’archetto sospendeva il suo volo e manteneva la sala, ansimante, al culmine della frase musicale, stretta nell’attesa della successiva ondata che l’avrebbe travolta, lo sguardo di Gary si era posato su di lei. E l’aveva trovata bella, straordinaria, commovente. Soffusa di rosa, oro, blu cobalto e giallo ambrato che si calamitavano intorno al suo volto come limatura brillante. Una mutevole aureola di luce. Un’espressione di piacere intenso le illuminava il volto. Con il mento appoggiato sul violino, aveva barattato la sua bruttezza con la posa aggraziata di un’icona, le guance arrossate, le narici palpitanti, un sopracciglio nero disteso, quasi doloroso, e gli angoli delle labbra animati da piccoli sussulti come sotto l’infuenza di un piacere selvaggio. Suonava lasciando tutti ammutoliti. Li trasformava in nani impotenti, rattrappiti sulle loro sedie. Era rimasto turbato. Aveva represso la voglia di alzarsi e di andare a baciarla sulla bocca, di mangiare un po’ del suo colore, di amarla teneramente e di proteggerla. Poiché sapeva che una volta svanita la frase del violino, una volta sceso il silenzio, lei sarebbe ricaduta nella sua bruttezza quotidiana. Statua decapitata. Voleva mantenerla per aria, sospesa alla grazia della sua bellezza effmera. Essere un mago e prolungare il canto sublime del violino. La ninfa greca aveva riscosso un successone quella sera. Si erano alzati in piedi per applaudirla. È meglio ascoltarla a occhi chiusi, aveva detto sarcastico uno studente dietro Gary quando il canto del violino si era spento e lei si era inchinata tremante, un po’ curva, con delle macchie rosse sul collo e sulla scollatura. Gary si era voltato fulminandolo con lo sguardo. Che stronzo! Peccato che il duello non esista più, lo avrei sfdato immediatamente! Un poppante biondo con gli occhioni 21


azzurri che parlava picchiettandosi le tasche. Una pubblicità da latte per bambini. Che ci faceva lì quel cafone? Non la meritava. Calypso! Si chiamava Calypso. L’innamorata di Ulisse. “Poiché la bella ninfa Calypso lo teneva prigioniero in fondo alla sua grotta, desiderosa di farlo suo sposo.” La fglia di Atlante che trattenne Ulisse sulla sua isola per sette anni e poi lo lasciò partire a malincuore dopo averlo aiutato a costruire una zattera. Che dono! Do-no. Do, do. Mi, sol, la, si, do, do diesis… Re, fa, la, sol diesis. Sì, così! Gary afferra la matita e traccia le note sul pentagramma. La matita corre, lui sente le note, le acchiappa, le ordina, minime, semiminime, semibrevi, crome, semicrome. Felice, abbagliato, liberato. Non abita più sulla terra. Spicca il volo, con in braccio un sacco di note che semina sul pentagramma. La mano non va abbastanza in fretta. Le pagine del quaderno girano troppo lente. Afferra fnalmente la melodia che lo ossessionava. E che spicca un balzo, fla via, si arrabbia mentre lui la insegue. La riacciuffa, se ne impadronisce, la placca. La melodia si dibatte, accenna a fuggire, lui l’atterra, la immobilizza. Gary è senza fato e lascia andare la matita, sfnito. Ha voglia di alzarsi, di abbracciare il cameriere dal gilet nero che gli porta la cioccolata calda e il dolce al cioccolato affogato nella crema e decorato con una ciliegia. Si getta sul dolce, si getta sulla panna montata della cioccolata calda, divora l’uno, ingurgita l’altra. Con tre forchettate ha pulito il piatto, in tre sorsi ha vuotato la tazza e un paio di baff bianchi gli incornicia il sorriso. Com’è bella e piena la vita! Tanta felicità in una valanga di note che scaturiscono dal cielo, o piuttosto dal dono di Calypso. Che allegria! Ho bisogno di una bocca da baciare, di un orecchio per raccontare, di occhi per seguire i rimbalzi. Hortense! Dov’è Hortense? Che cosa sta facendo? Perché non è lì? 22


Dovrebbe essere arrivata da un pezzo, aver già spinto la porta del caffè, essere seduta sulla sedia nera. Furiosa ma presente. Erano quasi arrivati quando l’ha abbandonata nel parco. Imbronciata starà inferendo sui mucchi di foglie morte. Ah, sarei furioso anch’io! Si abbandona sulla sedia e ride a quel pensiero. Cerca il telefonino in tasca, non lo trova, devo averlo lasciato a casa. Lo dimentica sempre. Non gli piace quel legame che lo collega al mondo senza che lui lo desideri. What a drag! Vive meglio senza quella palla al piede. La ragazza dal nome di ninfa lo ha sentito ridere. Dietro il bancone, lo fssa, stupita. Lui s’inchina e mima, seduto, la riverenza di un uomo felice. Lei gli sorride e una grazia infnita si sprigiona dal suo sorriso. Una dolce complicità le vela le labbra. Asciuga una tazza con movimento meccanico. Lo ha forse spiato nascosta dietro le macchine per l’espresso. Ha sposato i suoi pensieri vagabondi e pregato segretamente che trovasse le sue note. E le semibrevi, le minime, le semiminime e le crome si sono riversate sul piccolo quaderno nero. Ca-ly-pso, scandisce lentamente in un sussurro. La divina. Lei arrossisce chinando il capo. Riceve il complimento come una corona di alloro. Tutto è enigmatico in quella ragazza, pensa Gary, non ha corpo, non ha piedi, sfora la terra. È una donna senza ossa con due ali sulla schiena. Lei si raddrizza e lo fssa di nuovo. Asciuga pensierosa la stessa tazza con un gesto lento e dolce. Lo guarda negli occhi. Do, mi, sol, la, si, do, do diesis, canticchia lui scandendo ogni nota. Batte il tempo con l’indice destro e lei solleva lo strofnaccio per seguirlo. Dondola dietro il bancone. Re, fa, la, sol diesis, ripete, muta. Le labbra si muovono ma non ne esce alcun suono. Canta la melodia nella sua testa. Lui 23


la ascolta, sente le proprie parole. Gli sembra nel contempo strano e perfettamente naturale che si parlino così attraverso la sala del caffè. Vorrebbe condividere quella felicità con lei, offrirle quel piacere insensato di cui trabocca e di cui non sa più che fare. Così ricco all’improvviso di un’emozione che nessun dollaro può comprare, che nessuna donna può eguagliare. È il re dell’Olimpo e Zeus deve ormai stare in guardia. Si alza di scatto dirigendosi verso il bar. Appoggia il gomito sullo zinco, la guarda e dichiara sono così felice, ho appena trovato le mie note, le cercavo da stamattina, che dico? da una settimana almeno. Brancolavo, se sapessi… Lei non dice nulla, non lo interroga, lo ascolta. Con gli occhi sgranati assorbe le sue parole. Ha occhi bellissimi, di un colore indescrivibile, neri con rifessi d’argento, di mercurio e di piombo, quasi liquidi, si ingrandiscono, lo avvolgono. Gary cade nel suo sguardo. Lei lo ascolta come se ogni sua parola diffondesse belle note. Come se reinventasse il soffo del fuoco nell’aria, il rumore dei torrenti che s’infrangono contro le pietre, il mormorio sommesso delle alghe degli stagni. Ascolta con una tale attenzione che a Gary piacerebbe protendersi verso di lei e posare la fronte contro la sua. E poi smette di parlare. Lei chiude gli occhi. Rimangono in silenzio.

Il cameriere posa il conto sul bancone. Deve aver creduto che stesse per andarsene senza pagare. Gary lo prende, ritorna al suo tavolino, infla in tasca la piccola matita, il quaderno, lascia due banconote da dieci dollari, fa un breve cenno del capo alla ninfa Calypso ed esce dal Café Sabarsky convinto di 24


avere appena vissuto un momento perfetto, così perfetto che ne è quasi spaventato. Calypso depone la tazza. Ne prende un’altra. E ricomincia ad asciugare meccanicamente.

I marciapiedi della città sono grigi e il cielo quasi bianco. Gli edifci somigliano a cubetti di ghiaccio piantati nell’asfalto. Sta per nevicare. Una bella bufera paralizzerà la città. I passanti lanceranno gridolini di spavento, i taxi non faranno rumore. La neve fresca scricchiolerà come un wafer calpestato prima di trasformarsi in poltiglia. È un gennaio come gli altri. La luce si affevolisce e la sera cala su Central Park. La città è diventata un flm in bianco e nero. Quanto mi dà sui nervi! Hortense aspetta che il semaforo diventi rosso e attraversa. Alza il naso: Settantanovesima Strada e Quinta Avenue. Ma chi si crede di essere? Chi? La frase è ormai un ritornello, si sovrappone all’immagine di Gary che salta nel taxi. Spiacente, mia cara… Le parole turbinano con uno stridore che la rincretinisce. Ma insomma, chi si crede di essere? “Il nipote della regina,” le sussurra una voce beffarda. “È normale, ha sangue blu nelle vene, sangue sdegnoso. Tu non sei che una servetta disponibile a farsi scopare quando lui ne ha voglia.” “Falso! Sono la sua innamorata, la donna della sua vita.” Si ferma per specchiarsi nella vetrina di un antiquario. Gira lentamente su se stessa. Gambe lunghe, vita sottile, il collo da cigno in quel cappotto trovato al Greenfea’s Market di Columbus Avenue, i capelli in pesanti ciocche dorate, la pelle alabastrina e la bocca disegnata così bene che ha voglia di darsi un bacio. Sei perfetta, dice al proprio rifesso, elegante, provocan25


te, straordinaria, strabiliante. Si manda un bacio e, rasserenata, si stacca dalla vetrina e riprende il cammino. Chi si crede di essere Gary? Eh? Deve essere al Café Sabarsky, intento a scarabocchiare note. Non mi ha nemmeno chiamata. Chiaro: mi ha dimenticata. E ha il colletto della camicia di traverso. Sempre. Tre anni che viviamo insieme, nel confortevole appartamento prestato da Elena Karkhova. Elena Karkhova rifuta di vivere senza il suono di un pianoforte nella sua grande casa sulla Sessantaseiesima Strada, all’angolo di Columbus. Ogni anno, chiede alla Juilliard School di mandarle degli studenti, li sottopone a un’audizione e tiene il migliore per i suoi concerti privati. In cambio, gli concede gratuitamente un piano del suo palazzetto. È così che ha incontrato Gary. Era venuto a suonarle l’andantino di una sonata di Schubert in la maggiore. Lei aveva strizzato gli occhi, si era raschiata la gola e lo aveva scelto. Nessun obbligo, tranne quello di suonare con le fnestre spalancate d’estate o con la bocchetta del camino aperta d’inverno. Lei occupa il secondo e terzo piano, Gary e Hortense il primo. Una bella dimora di pietra bianca e mattoni rossi, con una larga scala sul davanti, vicinissima agli studios della ABC. L’appartamento è spazioso, con alte fnestre ogivali, bovindi, sofftti di legno scuro, parquet a listelli larghi, caminetti, letti a baldacchino, divani, poltrone, poggiapiedi, tappeti spessi e felci in foriere d’argento. Due bagni, due spogliatoi. Una cucina piastrellata, una vecchia stufa di ghisa nera. E una domestica tutte le mattine. Elena Karkhova non scende mai a trovarli. Ascolta Gary, avvolta in uno scialle di cachemire, distesa su una vecchia chauffeuse2 che apparteneva a suo padre. Il tè è in infusione in 2

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Sedia francese molto bassa usata per stare di fronte al camino. (N.d.T.)


un grande samovar. Il suono del pianoforte sale fno a lei che chiude gli occhi. Talvolta Gary va a tenerle compagnia. Apprezza quella donna. La trova pittoresca, generosa, insolita, colta. E ancora molto seducente! La sua grande ricchezza cela segreti che lui spera molto di scoprire. Un giorno Elena Karkhova fnirà col sollevare il velo e mi racconterà le sue leggende… quel giorno sarò ricompensato. Intanto lei gli offre cioccolatini al kirsch, corna di gazzella, lokum, lo chiama tesoro stringendogli il braccio con le lunghe dita inanellate. Elena Karkhova non piace a Hortense. Si mette troppo fard, troppo rossetto, troppo ombretto blu. Quando Gary va in tournée o si reca a Londra ad abbracciare Shirley o la nonna, Elena Karkhova esige che le spedisca cartoline, che le comperi ninnoli e faccia foto dei saloni, dei corridoi e dei prati di Buckingham Palace. “Dev’essere innamorata di lui,” riprende la vocina nella testa di Hortense. “Ma se ha almeno novant’anni!” “Sì ma… la libido non si spegne con l’età.” “Figuriamoci! È rattrappita, incartapecorita. Sembra una prugna secca.” “È una bella donna, ha classe. Mi piacciono le donne anziane, hanno più fascino delle giovani. Non si impara nulla sulle pelli lisce, il dito scivola, mentre le rughe racchiudono mille meraviglie. Sono isole del tesoro.” “È così vecchia da sembrare una strega…” mormora Hortense. Un giorno scorticherà Gary e ne berrà il sangue. Mentre io, sempre pimpante, lo affascino, lo stupisco, lo intenerisco, lo stringo tra le cosce, lo tengo in mio potere e… La voce beffarda scoppia a ridere. Non sempre, riconosce lei chi27


nando il capo fero. Nessuno tiene Gary in suo potere. Nessuno lo riduce in pastone per cuori innamorati. L’uomo è imprevedibile. E poi c’è la sua musica come una fnestra spalancata. A ogni istante può saltare giù. Evadere. Qual è la frase che ripete continuamente? Ah, sì, una di Cecil Beaton. “Il secondo peggior delitto al mondo è forse la noia. Il primo è essere noiosi.” Io non sono noiosa! Esita un attimo. Risalire fno alla Ottantaseiesima Strada e ritrovare Gary al Café Sabarsky, gettargli in faccia piattini e tazze o percorrere la Madison Avenue indugiando davanti alle vetrine dei negozi di lusso? Non c’è bisogno di rifettere oltre: percorrerà la Madison guardando le vetrine. Studiare quello che fanno gli altri per non imitarli. Creare, perfezionare, insistere. Voglio che i miei abiti trasformino la donna, la rendano dolce, femminile, che correggano il corpo, incantino le linee, cancellino i cuscinetti di grasso, allunghino le gambe. Voglio disegnare un abito comodo come un pigiama e chic come una creazione di Yves Saint Laurent. Allora i miei modelli andranno a ruba e… Mi ha abbandonata in Central Park. Se solo potessi chiamare un’amica del cuore e sfogare la mia rabbia. Non ho amiche. Solo conoscenze. Compagne per andare a pescare idee. “Ma sì… un amico ce l’hai,” dice la vocina che gracchia nella sua testa come un vecchio transistor. Hortense si blocca, con i sensi vigili. Possibile che…? A quell’ora? Ma no! Dorme da un pezzo. Cerca il telefonino in fondo alla borsa, si graffa le dita, fnisce col trovarlo, lo porta all’orecchio, non sente nulla, digita “dormi?”. La risposta è immediata, “no”, “mi chiami?”, “cinque minuti…”

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Entra al Carlyle, ordina un caffè molto lungo. La luce soffusa delle lampade bianche la placa. Dovrei incipriarmi il naso, il freddo lo avrà trasformato in un ravanello. Dov’è il mio portacipria, il mio magico astuccio blu? Alle pareti sono incorniciate foto di jazzisti e un grande manifesto che rappresenta la bandiera a stelle e strisce di Jasper Johns, Three Flags. Si erano riconciliati sotto quel quadro dopo il loro primo battibecco newyorkese. Al MoMa. Non ricorda più molto bene perché avessero litigato. Ah sì… Camminavano sulla Cinquantatreesima, diretti al Museum of Modern Art. Gary stava spiegando come i quadri gli suggerissero idee di melodie. I quadri cantano e ballano. Quelli di Matisse soprattutto, un festival di colori che scoppiano in note nella mia testa. Faceva altri esempi. Hortense ascoltava stringendosi a lui. Il telefono di Hortense aveva squillato, lei si era scostata per rispondere. E lo aveva perso di vista. Gary non sopportava di essere interrotto da un telefono. Diceva che era una cosa scortese, maleducata, addirittura cafona. È come se un terzo si mettesse tra di noi e parlasse con me senza guardare te. Ti offenderesti e te ne andresti all’istante. E io ti darei ragione. Si era dunque allontanato. Con calma, senza affrettarsi, a che serve affrettarsi quando si sa di avere ragione? Senza guardarsi indietro. Senza rallentare però per consentirle di raggiungerlo. Lei non credeva ai propri occhi. Guardava la sua alta sagoma rimpicciolirsi, girare a destra, entrare nel museo. Non aveva bisogno di fare la coda, aveva un abbonamento, superava il tornello con le mani in tasca. Lei aveva detto ti richiamo a Frank Cook che continuava a parlare, a parlare, e aveva chiuso la comunicazione. Aveva rincorso Gary. Mica facile con tacchi da sette centimetri e mezzo, una grande borsa piena di cartelle e una gonna stretta. Un uomo grosso e calvo la seguiva con lo 29


sguardo. Aspettava che cadesse. Non aveva nient’altro da fare? Curioso quanti aspettano che io cada. Ispiro il desiderio, sì, ma non la simpatia. Ho un fsico che suscita invidia nelle donne e fa impazzire gli uomini. E talvolta li rende violenti. Di corsa dunque sui suoi trampoli, le sue cose lasciate al guardaroba, in coda per acquistare il biglietto. E si era precipitata su per le scale mobili che portano al terzo piano, dove lo aveva ritrovato. Nella grande sala in cui è esposta la collezione permanente. Aveva scorto il suo vecchio caban blu davanti al quadro di Jasper Johns. Si era gettata contro la sua schiena. Lui si era voltato e l’aveva fulminata con uno sguardo gelido e interrogativo. Che gli prende? aveva pensato Hortense. Di solito sono io a lanciare i coltelli. Gary l’aveva ignorata, passando al quadro seguente. Un altro Jasper Johns, Target. E allora tutto era precipitato, si era decomposto in tre secondi. La paura, prima. E se fosse stanco di me? Aveva visto scaturire mille stelle e le mille stelle giravano, giravano, non riusciva più a respirare. E subito dopo, l’angoscia profonda come una palude che l’inghiottiva. Fino a non poter più tirare il fato, fno a boccheggiare come un pesce rosso su un’asse da stiro. E infne, un’evidenza: era innamorata. Veramente innamorata. Peggio: lo amava davvero. Era fregata. Si era lasciata cadere sul divanetto di cuoio nero, di fronte alla bandiera a stelle e strisce, aveva accarezzato il cuoio lentamente, lentamente, per rifugiarsi in una materia che conosceva, che la rassicurava. E poi aveva mormorato perché non mi hai detto che ero innamorata di te? Lui era scoppiato a ridere, aveva aperto le braccia e l’aveva 30


stretta a sé dichiarando Hortense Cortès, lei è unica al mondo! Quando era commosso, la chiamava Hortense Cortès e le dava del lei. Hortense gli aveva sferrato un calcio nel polpaccio e si erano abbracciati. Era successo due anni prima, davanti al quadro di Jasper Johns. Se ne ricorderà per tutta la vita perché quel giorno aveva capito di essere fnita in trappola.

Il cellulare si mette a vibrare sulla tovaglia bianca. “Hortense?” “Junior! Non dormi?” “Stavo per addormentarmi quando ho ricevuto il tuo messaggio… Ho dovuto agire con astuzia, i miei non erano ancora andati a letto. Sono sgattaiolato in salotto.” Nel salotto di Josiane e Marcel Grobz c’è il telefono che permette di chiamare gratuitamente oltreoceano. “Eri tu la voce nella mia testa poco fa?” “Sì, ce ne hai messo per collegarti!” “Sono arrabbiata, Gary mi ha piantata in asso nel parco. E quando sono arrabbiata, non ti sento bene. Già non capisco come funzioni, questa cosa.” “Te l’ho spiegato cento volte. Visualizzo la parte posteriore della tua circonvoluzione temporale superiore…” “La mia che?” “È una parte del cervello in cui i suoni vengono trasformati in fonemi. Mi collego a questi fonemi, vibrano e…” “Non capisco niente!” “È come la radio, la televisione, il telefono. Una faccenda di onde. Tu emetti delle onde, Hortense, e io mi ci collego.” 31


“Sai che non mi piace quando entri nella mia testa senza avvertire.” “Ma mi presento! Mi presento sempre! Non mi hai sentito perché la collera disturbava la tua rete, ma se avessi teso l’orecchio…” “Allora sai già?” “Sono solo inezie! A quest’ora starà rincasando tutto vispo. Si metterà al pianoforte e non si accorgerà del passare del tempo. Alzerà la testa quando avrà fame e ti cercherà dappertutto.” “Non fa più attenzione a me. Sono un rubinetto. Un piumino per spolverare. Una saliera. Non so più che fare. E poi… sono angosciata. Non riesco più a respirare, soffoco. Ho paura del baratro.” “È normale, bella mia, stai cambiando pelle, ti stai mettendo in proprio. La cosa sconvolge.” Junior ha ragione. Ma come si diventa una stella in ascesa nel frmamento dell’alta moda? Le manca una scaletta.

Si annoiava nel suo uffcio newyorkese. Era ben pagata, certo, pagata benissimo, ma sbadigliava. Tutti le ripetevano che alla sua età era un fatto in-spe-ra-to. Per lei era di-spe-ra-to. Per tenerla al suo fanco, Frank le aveva proposto di creare una capsule collection due volte all’anno. Quattro modelli disegnati da lei che avevano sflato sotto gli occhi della stampa specializzata del mondo intero. Quattro modelli che erano andati a ruba, sparendo dalle boutique in meno di quindici giorni. Un 32


abito da sera, un cappotto, un tailleur-pantalone, un pantalone alla pescatora con top a fascia. “Allora, continuerai la produzione? Invaderemo il mercato?” aveva chiesto ebbra di gioia a Frank. “No, tesoro, è una capsule collection e, come dice il nome, sono modelli effmeri che vengono prodotti in esemplari limitati e che spariscono in un batter d’occhio… quando funzionano. Il modello capsule è fatto per attizzare il desiderio della cliente, non per essere venduto tutto l’anno. Lo vede, lo vuole, lo acquista. Perché sa che domani non ci sarà più. È la stessa cosa da H&M, non hai che da informarti.” Aveva fatto un gesto della mano che signifcava polvere, tutto è solo polvere, è il nostro destino, amen. Quel gesto non le era piaciuto. “Sai che ho talento e non mi aiuti.” “Hai talento e io lo sfrutto senza imbrigliarti. Fai ciò che vuoi, Hortense. Che altro desideri?” “Che mi aiuti ad avviare una mia maison. Per te, per il tuo gruppo è niente.” “Che ti faccia da banchiere?” Lei si era seduta sul bordo della sua scrivania guardandolo dritto negli occhi. “Sì.” “E tu in cambio cosa mi dai?” “Il mio immenso talento. E una percentuale. Ma dovremo discuterne.” “Tutto qui?” “Ti faccio già un favore.” “Non illuderti, Hortense, ce ne sono centinaia come te a New York, Parigi, Londra o altrove. Ragazzi e ragazze che hanno talento e voglia di riuscire. Ne posso trovare a bizzeffe…” 33


“Ma io non sono come gli altri. Sono unica al mondo.” “Non mi hai risposto… Che cosa mi dai in cambio?” “Non voglio risponderti.” “Allora… non chiedere niente.” Si era rituffato nella lettura delle sue carte per farle capire che il colloquio era terminato. “Bisogna scopare per avere successo, è così?” aveva chiesto facendo ruotare la marea di braccialetti al polso destro. Anche per i braccialetti, traboccava d’immaginazione. “Adesso diventi volgare…” “Parlo in modo volgare ma non penso in modo volgare, questa è la differenza tra te e me.” “Altra differenza: tu hai bisogno di me, non l’inverso!” “Non ne sono così sicura… Rifetti. Tutto ciò che disegno va a ruba. Conosco il volume delle vendite, Frank, non puoi raccontarmi storie.” Lui, guardandola sconcertato, aveva ripetuto: “Conosci il volume delle vendite? Chi ti ha dato le informazioni?” “Le ho e le so leggere. Non mi fregherai. Avete guadagnato del denaro grazie a me. Non ho preso un soldo per i miei modelli. Non uno! Avete bisogno di me, siete un vecchio gruppo che perde colpi, io sono un giovane talento, ho un sacco di idee, lavoro senza risparmiarmi. E che cosa raccolgo? Niente. Sono stufa.” “Ti ho fatto venire a New York. Ti ho assunto. Con una paga ottima.” “Perché avevi il tuo tornaconto e non era denaro tuo ma del gruppo.” “Ti ho trattato come una regina. Ti ho fatto conoscere la città, ti ho portato in giro dappertutto. Non mi hai mai detto grazie!” 34


“E perché avrei dovuto ringraziarti? New York non è la capitale della moda. Parigi o Londra sono mille volte più interessanti, e tu lo sai bene. Non ho niente da guadagnare restando qui. A meno che tu non mi lasci fare, non mi aiuti, non mi fnanzi… altrimenti…” “Altrimenti?” “Me ne vado. E non è una minaccia campata per aria. Non ne posso più di ammuffre qui. Finirò col ritrovarmi i funghi tra le dita dei piedi. Merito di meglio.” Lui giochicchiava con una cartellina, ne sgualciva un angolo, lo schiacciava, lo accarezzava con l’unghia. Esitava. Hortense sapeva cosa stava pensando. La licenzio o aspetto ancora un po’? Ho due collezioni in ballo. Questa ragazza possiede un talento pazzesco ma è troppo ambiziosa. E il gruppo non dispone di abbastanza denaro. Un giorno sarò obbligato a lasciarla andare via. Hortense gli leggeva la propria disfatta negli occhi. Non voleva che la licenziasse. Si sarebbe ripresa da una sconftta, non da un’umiliazione. “Ti aiuterò,” aveva aggiunto Hortense, “me ne vado.” “Lo rimpiangerai!” “Tutto il contrario: do una spinta alla fortuna. Vivo nel presente, io. Avrò successo senza di te.” “Farai fasco! Mi supplicherai di riprenderti. Ma quando arriverà quel giorno sarà inutile che mi mandi il curriculum!” Era uscita dall’uffcio sbattendo la porta. Troppo sconvolta per rifettere.

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