Vita da editor(e) 2009

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VITA DA EDITOR(E) 2009

Livia MR Di Pasquale

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LIVIA MR DI PASQUALE

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Livia MR Di Pasquale

VITA DA EDITOR(E) 2009 Un anno di Liblog

Prefazione di Carlotta Borasio

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SOMMARIO

Prefazione Vita da editor(e) Grammatica Speciale – Più libri più liberi 2008 Nascita di una casa editrice

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Prefazione

Io quando prendo in mano un libro in genere le prefazioni le salto e se lo farete nessuno ve ne farà una colpa. Però sarebbe un peccato, perché per cogliere appieno il valore di questo libro dovete capire chi c’è dietro. E quindi chi è Livia? Intanto è una lettrice accanita e onnivora. Se guardate le sue recensioni toccano praticamente qualsiasi genere e spaziano allegramente per ogni dove. È come una viaggiatrice, di quelle vere, che non disdegnano di provare quel cibo esotico o indossare quel costume tanto strano quanto curioso. Questo poi non significa che le piaccia tutto quello che legge (questo significa avere gusto) però mai si permette di imporre il proprio giudizio come verità assoluta. Critica, diretta, equilibrata ma mai arrogante. Però questo libro non tratta di recensioni, e qui si arriva al suo mestiere. Livia è un editore o editor(e) se vogliamo essere pignoli, ossia una di quelle persone che spulciano i testi per vedere se sono validi, adatti per la casa editrice in questione e che poi, dopo un’attenta selezione, assieme all’autore provvedono a modificarli finché non sono davvero pronti per essere pubblicati. Ora potete ben immaginare che per leggere centinaia di testi, analizzarli, scoprire le pecche e contrattare modifiche con gli autori ci voglia un enorme pazienza. Ecco un’altra caratteristica di Livia che vi permetterà di capire il perché di tutti questi articoli. Ci vuole pazienza per raccontare, per far comprendere con la dovuta chiarezza argomenti spinosi come l’editoria a pagamento o i 7


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diritti d’autore affrontando spesso l’ostinazione di chi pensa di essere dalla parte del giusto senza riserve. E ci vuole pazienza nel scegliere le parole per arrivare a vincere la resistenza di chi magari sente di aver sbagliato e non vuole rendersene conto. Ci vuole pazienza, ci vuole coraggio. E qui arriva il momento per un altro nobile sentimento, il coraggio, facile da sventolare quando sei in posizione di poter dire “io so e tu no”. Livia non è mai supponente o arrogante, solo non si arrende davanti alle difficoltà e davanti alla malafede di chi ha tutti gli interessi a screditarla. È il coraggio tranquillo ed equilibrato di chi vuole cambiare le cose, di chi vuole rendervi partecipi del proprio lavoro mettendosi in discussione. Ma la radice di tutto ciò, l’elemento scatenante e l’unica vera ragione di quello che leggerete è la passione. La passione di chi è nato per fare questo lavoro. La passione che ti fa stare alzato la notte a leggere. La passione che ti spinge a sondare un testo immergendotici completamente. La passione che ti fa lottare contro coloro che ti dicono che non ce la farai mai, che è troppo dura, che il tuo è un sogno irrealizzabile, che non è il momento giusto. Persone come Livia lottano, tenendo i piedi per terra, aprendo il loro mondo agli altri e scrivendo nella convinzione che le parole da sole non bastano ma sicuramente aiutano. Con tutta la mia stima e il mio affetto, Carlotta. Carlotta Borasio

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Ma lei che mestiere fa?

Non è un mistero che io sia un editore, qualunque cosa questo significhi. Ho la fortuna di avere quindi un punto di vista privilegiato sul mondo della scrittura, lettura, pubblicazione. Ma sembra che il mio mestiere sia tutto sommato un po’ anonimo e un po’ idealizzato. Quando si parla di editori sembra che istintivamente la gente si figuri un uomo dietro una scrivania, imperioso, che decide le sorti degli autori, un pezzo grosso; oppure che pensi ad una specie di tipografo, da cui andare per trasformare il proprio scritto in “libro”. Quasi nessuno pensa a gente che fa un mestiere, quello dell’imprenditore, per essere esatti. In realtà un motivo c’è: in Italia esistono migliaia di imprese registrate come “editrici”, ma a ben guardare sono pochi grandi gruppi con produzioni che spaziano in ogni settore (penso a Feltrinelli, Mondadori, Mauri Spagnol), qualche medio editore ostinato, e una selva di piccoli editori, onesti e meno. Noi apparteniamo alla categoria piccoli e onesti, e la vita quiggiù non è facile. A me e alla mia compagna di (s)ventura capitano sempre episodi un po’ strani. Sarà la nostra scelta o le facce che evidentemente ispirano la pazzia, ma le situazioni in cui ci troviamo passano dal comico al grottesco, in genere nell’arco di pochi secondi. E la maggior parte di queste accadono con gli autori, aspiranti o già editi, specie negli incontri faccia a faccia, cui non ci neghiamo. Non so per quale motivo io ancora sia in grado di sorprendermi, ma va all’incirca così: 13


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«Buongiorno sono Donald Duck, ho pubblicato ABC e DEF e vorrei che valutaste il mio libro». «Certo, nessun problema sig. Duck. Per chi ha pubblicato prima?» «Per Questo e Quello (in genere due editori a pagamento). A proposito, qual è il vostro costo?» «Non capisco cosa le interessi quello che spendiamo come editori...» «No, quanto mi costa pubblicare con voi?» «Guardi, siamo editori, noi paghiamo l’autore, non viceversa. L’editore è un imprenditore che rischia il capitale su un progetto». «Vabbe’, ma quante copie mi devo comprare?» «Nessuna. Lei ha diritto per contratto ad un tot di copie a suo uso». A quel punto fanno una faccia allibita: allora non è vero che si pubblica sempre pagando, non è normale! Poi, ancora increduli, ti squadrano meglio, e sembra proprio stiano pensando “Chissà quando arriva la fregatura”. E se ne vanno, confusi. Non ti considerano quasi più un editore: non hai fatto grandi promesse di successo assicurato, non hai detto che il loro testo è perfetto. Ma io, allora, che mestiere faccio?

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La vita ingrata dell’editor

No, non ho scordato una e. L’editor è forse il più trascurato, benché essenziale, personaggio della filiera del libro. Quello che vive a contatto con l’autore e cerca, per il bene dell’azienda e dell’autore stesso, di lavorare con quest’ultimo al perfezionamento del testo. Ma è anche colui che viene dimenticato prima. Un lavoro durissimo, puntiglioso, difficile. Per il quale nessuna scuola ti prepara veramente. Per il quale è ­l’intuito, affinato dalla lettura continua ed instancabile, a guidarti, e l’abitudine a temprarti. Un lavoro che prevede la rilettura ossessiva dello stesso testo, finché non ha raggiunto la perfezione (si spera). Senza fare discorsi sui massimi sistemi, ecco come funziona. Arriva un testo buono in redazione; buono significa sia leggibile (vi stupireste nel vedere cosa le persone riescano ad inviare), sia strutturalmente valido. Strutturalmente. Il che vuol dire in genere che pur avendo una buona trama o uno stile piacevole, abbonda di errori dettati dall’inesperienza. Stereotipi, iperaggettivazione, dialoghi patinati, descrizioni bucoliche fanno parte del campionario dei difetti comuni. Capita che gli autori dimentichino che vogliono essere pubblicati qui e ora, e che il loro pubblico in questo qui e ora vive. Non si pubblica per la critica, né per riviste ottocentesche: si pubblica per il lettore. Ecco, l’editor è un lettore speciale, molto rodato, onnivoro, che identifica i difetti e ci fa lavorare su l’autore, dandogli appoggio e consigliandolo nei punti più 15


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difficili. Non è un correttore di bozze, che interviene a verificare gli errori di digitazione o di impaginazione: è una specie di filtro, che lascia passare dello scritto solo le parti più valide. Questo mestiere può dare molte soddisfazioni, e molti travasi di bile. Le prime, per fortuna, maggiori dei secondi. Sfatiamo un mito: gli autori che abbiamo selezionato fino ad ora (selezioni durissime ma necessarie) sono stati sempre ben disposti ad intervenire sul loro testo, ponendosi criticamente verso se stessi e recependo gli spunti di miglioramento. Non tutti gli autori sono primedonne. Molti sanno che, come uso dire, un testo è un testo, e non è sacro.

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Editing e correzione bozze

Online spesso mi capita di leggere infinite discussioni sui “servizi” offerti dalle case editrici. Tra questi vengono inseriti editing e correzione di bozze, spesso e volentieri senza distinguere bene tra l’uno a l’altra. Vediamo di fare un po’ di chiarezza, specie alla luce di un post apparso sul WD. L’editing è un intervento sul testo che si concentra sulla trama, sulla caratterizzazione dei personaggi, sulla credibilità dei dialoghi, sulla coerenza interna e sui riferimenti extratestuali. Opera quindi sul contenuto, sulla forma e sulla scrittura dal lato del significato. La correzione di bozze, una volta impaginato il testo già “ripulito”, cerca le inesattezze ortografiche e di giustificazione dell’allineamento. Gran parte di questi errori sicuramente va via nell’editing, la prima fase del processo ma succede sovente che, stando così tanto e profondamente a contatto con lo scritto, l’editor alla fine non si renda conto di alcuni refusi. Sembra quindi ovvio, quasi lapalissiano, che ambedue gli interventi siano fondamentali per una pubblicazione. Ebbene, a sentire alcuni “esperti” di editoria, così non è. Tutto parte sempre dalle famose liste del WD, che suddividono in tre categorie gli editori, facendo nomi e cognomi. Beh, la prima minaccia di denuncia la ebbero un paio di mesi fa, e da quando il loro lavoro si è fatto più serrato i tentativi di intimidazione sono aumentati di molto. Eppure il loro lavoro è semplice. Contattano la casa editrice in questione e chiedono la loro politica editoriale. 17


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Se è previsto un contributo, di qualsiasi specie, a carico dell’autore, non si entra nella Lista Paradiso. Se è richiesto un contributo di bassa entità e comunque viene svolto un buon lavoro di promozione, editing et similia, si va nella lista Purgatorio. Se vengono chiesti ingenti contributi e/o il livello qualitativo è scarso e la distribuzione inesistente, si finisce nella Lista Inferno. I ragazzi si sono trovati davanti a un caso spinoso: una casa editrice che fa pagare l’editing ma che, comunque, fa un buon lavoro, secondo la loro opinione: l’hanno quindi inserita nella lista Purgatorio. Apriti cielo! Far pagare l’editing, a sentire un utente (che dice d’essere dentro all’ambito editoriale), è cosa normalissima. Sostiene inoltre questo: [...]Ed ecco la prima distinzione necessaria che mi premeva qui sottolineare: c’è una bella differenza tra l’editore che fa pagare all’autore editing e correzione (e parliamo di tariffe ragionevoli) e l’editore che chiede all’autore un contributo come copie da ricomprare o spese di stampa. Se l’editore fa pagare la stampa, si mette alla stregua del tipografo; se l’editore fa riacquistare le copie, cosa che penso sia la peggiore da parte di un editore, vuol dire che egli per primo NON crede a quello che sta pubblicando e non compie un vero investimento. Invece, chi non fa riacquistare le copie e non fa pagare la stampa, ma semplicemente richiede una piccola spesa per la correzione di bozze (che è comunque un lavoro e va effettuata comunque sul testo, 18


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se non si vuole pubblicare un manoscritto pieno di errori), si pone materialmente e anche moralmente ad un livello più elevato di chi invece utilizza quei mezzucci sopra menzionati.[...] Se l’editore fa pagare la stampa, si mette alla stregua del tipografo e sono d’accordo con lui/lei. Se l’editore fa pagare l’editing si mette però alla stregua dell’agenzia letteraria. In ambedue i casi sono imprese di tipo diverso. Sulla moralità non metto bocca: non mi permetto di dare giudizi di valore. Mi infastidisce invece che i difensori di tale modus operandi tentino sempre di screditare il lavoro di questi ragazzi con le stesse, stantie, argomentazioni, oppure insultandoli. Vorrei dare una risposta che spero essere definitiva. 1. Queste liste infrangono la legge! - Falso. In Italia vige il diritto di cronaca e di critica. Essendo informazioni fornite volontariamente dalle case editrici, a volte espressamente sui loro siti, non c’è nulla di illegale. 2. Tutti i piccoli editori fanno così. - Falso. Non solo i grandi editori non fanno pagar nulla. Esistono una miriade di piccoli che non hanno costi aggiuntivi né dichiarati né nascosti. Chi frequenta Liblog ne conosce più d’uno. 3. Sono ragazzini ignoranti quelli che compilano le liste. Non sanno niente di editoria. - Falso. La fondatrice del progetto è giovanissima, è vero, e non ha una vasta esperienza, ma è affiancata da persone che hanno conoscenza del settore. Inoltre l’età non cer19


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tifica l’intelligenza o la capacità di affinare un giudizio. Infine, avere 17 anni in Italia mi sembra non sia ancora un reato. Considerando che, come dice il filosofo, gli insulti degli stolti sono complimenti agli occhi del saggio, direi che i ragazzi hanno imboccato la strada giusta.

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Perché esistono gli editori a pagamento?

La risposta è ovvia, lo so, ma nessuno lo dice mai: gli editori a pagamento, che io chiamo tipografi (anche se i veri tipografi detengono la mia massima considerazione) soddisfano una domanda del mercato. La domanda di coloro che, pur di sentirsi scrittori, pagherebbero qualunque prezzo, e che sostengono e diffondono la Vanity Press. Un libro è un prodotto. D’arte, ma sempre un prodotto. Un editore ha il compito di capire quali, fra tutti i prodotti possibili, sono quelli che il suo particolare “club di lettori” potrebbe apprezzare. Si chiama linea editoriale. Ciò comporta una quantità di rifiuti, secchi e in poche righe o anche ampi e circostanziati. Ma quanti autori sono disposti ad accettarlo? Pochi, direi. Moltissimi sono arcisicuri di aver scritto un gran libro. Libro, lo chiamano. Come se io, prendendo una tela e lanciandoci del colore su, possa dire “ho dipinto un quadro”. Eppure sono “dannatamente sicuri” che sia un testo valido, ottimo addirittura, e che meriti di essere pubblicato. A tutti i costi. Esauriti i rifiuti presso gli editori onesti, scrivono ad altri, che rispondono solleciti: “ho capito subito il valore della sua opera, non leggevo un xxx così da moltissimo (xxx sta per romanzo, racconto o raccolta poetica), ma sa, è un periodo di crisi, siamo obbligati a chiederle un aiuto, le spese, ma non si preoccupi...”. Ed ecco con un esborso consistente, spesso sufficiente a coprire il doppio della tiratura effettiva, vedere la luce il capolavoro letterario, rifiutato dai recensori seri, distribu21


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ito per poco e in punti invisibili, se mai riesce a uscire dal magazzino. E si sente molta gente, in gran parte autori, dire “in Italia la cultura non si può fareâ€?. Ritengo sia vero, ma spesso sono gli autori i primi a non volerne fare.

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Le varie forme di editoria a pagamento

Fosse una cosa tanto normale, così come affermano gli editori Vanity, il contributo non sarebbe accuratamente occultato da molti degli stessi che ne sostengono la perfetta moralità e normalità. Invece viene reso esplicito in pochissimi casi, generando di fatto grande confusione. Cosa penso del pagare per pubblicare è universalmente noto: ritengo sia stupido e sbagliato, che sminuisca il proprio valore artistico, che sia sintomo di altro. Ma è una scelta personale e ben venga se compiuta nella massima onestà e chiarezza. Quello che non mi va giù sono i corollari, come “è così per tutti” e “non c’è altro modo”, e anche i camuffamenti. Vi elencherò le forme di contributo possibili, tutte egualmente sbagliate, non per mostrarle e basta, ma perché le riconosciate per quel che sono: richieste indebite e non imprenditoriali. • Pagamento diretto – è la forma più esplicita, giustificata con l’acquisto dell’ISBN o del bollino SIAE o di chissà che altro (tutte cose che hanno costi risibili). Finora ho sentito cifre che si aggirano dagli 800 euro ai 6000. • Acquisto copie – diffuso un po’ dovunque, varia da 80 a 200 copie, arrivando a oscillare tra i 500 e i 4000 euro. Si gioca tutto sul prezzo di copertina: se per un editore imprenditore deve essere ragionevolmente basso per consentire la vendita, per un Vanity deve essere alto per garantire il rientro immediato con l’acquisto dell’autore. 23


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• Riacquisto tiratura – una forma subdola, con la quale si dice che alla scadenza del contratto, che, in questi specifici casi è per pura coincidenza biennale, tutto ciò che avanza della tiratura dev’essere acquistato dall’autore, chiaramente a prezzo di favore. È subdolo perché illude che non ci sia contributo, quando invece generalmente un autore, specie esordiente, non esaurisce così facilmente la sua prima tiratura, e gran parte degli editi italiani non vende neppure una copia. • Mancati diritti – merita la palma della più subdola tra le forme di contributo, anche se è la meno esosa. L’editore trattiene per sé il diritto d’autore per X copie, che possono essere anche l’intera prima tiratura. Questo è tutto ciò che mi viene in mente, ma sono certa che i Vanity sapranno inventare nuove e magnifiche forme per stupirmi. Ebbene, autori, attenti a queste clausole, quando state per firmare; se poi lo volete comunque, almeno sarete coscienti di quello che vi si richiede.

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Da cosa si riconosce un editore a pagamento (e i suoi libri)?

Come mi insegnò immediatamente al mio arrivo nella redazione della Villaggio Maori (dove lavoravo prima di fondare Tanit) il buon vecchio zio Lazarus, ci sono alcuni parametri infallibili per riconoscere un editore a pagamento. Alcuni sono immediati, altri meno, ma l’editore a pagamento in un modo o nell’altro si riconosce. Elemento principe è la fotografia in copertina, nuda e cruda (non elaborata né ritoccata). Perché? Perché un grafico o un fotografo, specie se dotato, costa, costa molto, mentre gli scorci paesaggistici sono gratis, abbondanti, sempre possibili. Fotografare una goccia d’acqua che cade, un paesino, una maschera di pietra non ha praticamente nessun costo. E non consuma nessun tempo. Vero è che alcune grandissime case editrici utilizzano fotografie: ma quelle sono fotografie di artisti noti, ritoccate, patinate, e pagate profumatamente. La veste grafica in quel caso è curata e pressoché perfetta, con uno studio dell’armonia di composizione maniacale. Aprendo il libro spesso si nota l’assenza di controllo di orfani e vedove, le righe con due povere lettere lasciate sole a terminare il paragrafo, insomma una incuria generale. E leggendolo si nota l’assenza della mano di un sapiente editor. Perché quasi nessun buon libro pubblicato, per fortuna, è fedele copia dello scritto inviato dall’autore (ma questa è un’altra storia). Inoltre i refusi, che imperversano in numero variabile in ogni pagina. Se uno, due, cinque piccoli errori, scambi di lettera o virgolette ballerine possono anche scappare 25


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in un intero libro (ricordo un Feltrinelli che arrivò alla stratosferica cifra di 26 refusi in poco più di 90 pagine!), trovarne uno per pagina non è giustificabile se non con la totale assenza di correzione di bozze. Se poi si ha voglia di approfondire con certezza basta una breve ricerca su internet: sicuramente c’è un autore scontento che si lamenta di aver pagato troppo e ottenuto poco. Da Ozoz al Rifugio degli esordienti, fino al Writer’s Dream il web ha messo molte risorse a disposizione degli aspiranti scrittori. Un consiglio agli autori: diffidate di chi vi dice che siete dei geni, raramente lo pensa davvero. Fidatevi di chi vi dice che il testo è buono, ma bisogna lavorarci: sicuramente lo ha letto. E no, nemmeno l’editing si paga.

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Essere autore oggi

Si scrive, si riscrive, si pensa. E si dice: ho scritto un libro. Come se avere trasposto le proprie fantasie trasformasse in scrittori professionisti. Si fa leggere agli amici, si accettano per buone le loro critiche, si invia agli editori. Ma gli amici raramente sono critici professionisti, o agenti letterari e in genere identificano il nostro bene col non disilluderci. Quindi si invia ogni sorta di sciocchezze. Vero è che la grande editoria ci riempie di cattivi maestri: gente semianalfabeta che va un paio di volte in televisione e sforna un “libro”, magari scritto da altri. Gente che viene pubblicata per il suo cognome famoso, per la parentela con Tizio e Caio. Gente che viene pubblicata sfruttando traini pubblicitari riferiti ad “altro”. Gente, non scrittori. Che vuol dire questo: vuol dire che a fronte di un testo buono e un paio decenti, ne arrivano altri 97 fra il mediocre, il banale, il pessimo. Statistica che considera solo la redazione di cui faccio parte, probabilmente fin troppo rosea per i medi e grandi editori, letteralmente sommersi di materiale. Ed ecco una breve e divertente classifica (divertente per me, non necessariamente per gli autori che dovessero riconoscersi) dei tipi più comuni: 1. Sono un genio incompreso. Tutti mi hanno rifiutato, ma il mio scritto è dannatamente bello. Me l’ha detto mia zia. Chi è tua zia, la signora Sellerio? 2. So scrivere bene in italiano; certo, ho riformato la grammatica a mio piacere, ma son bravo. Ha pro27


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posito, o notato diversi erori nel vostro sito. Grazie, meno male che ci sei tu... 3. Certo della pubblicazione da parte vostra, attendo fiducioso il contratto. Se non me lo mandate siete degli incompetenti. Il bastone e la carota? 4. Ho scritto un romanzo fantasy innovativo, anche se voi pubblicate tutt’altro vi piacerà. Ma perché dovremmo leggerlo? 5. Sono XYZ, dottore in XYZ, e vi esibisco il mio scritto al fine di ottenerne riscontro. Qualora doveste addivenire a positivo giudizio contattatemi. Ohmmioddio, Beccaria è ancora vivo! Questi sono quelli tutto sommato normali. Poi, quando ero alla VME, c’erano quelli che insultavano e quelli che volevano essere pubblicati a tutti i costi e chiedevano il prezzo (facendomi arrabbiare). A Tanit invece arrivano mail di aspiranti che “mettono in chiaro di non essere disposti a pubblicare a pagamento”, facendomi capire che non hanno nemmeno guardato il nostro sito per capire qualcosa dell’editore contattato. Infine c’è una trascurata schiatta di brave persone, che scrivono magari in modo mediocre o banale, ma che almeno sono gentili, rispettose, capaci di accettare un no senza dare di matto. Anche e soprattutto per loro svolgo il mio lavoro. Mi prendo la briga di dar loro risposte personali, spiegazioni e motivazioni. Non tutti possono essere scrittori, ma non è così difficile essere persone civili.

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Risposta personalizzata o standard

Prendo spunto da un magnifico articolo di Eco apparso su Golem e da un sondaggio sul Writer’s Dream, per fare qualche considerazione sulle risposte delle case editrici ai loro aspiranti autori. Quasi tutti gli autori lamentano l’impersonalità nelle risposte degli editori, dicendo “caspita, è il lavoro dell’editore rispondere a noi autori!” e altre frasi simili; manca la considerazione che sia solamente una parte del lavoro, e nemmeno la più rilevante, e vada in qualche modo resa agevole (ad esempio evitando di intasare la mail di scritti che non hanno nulla a che fare con la linea editoriale). Invocano in coro risposte personali e dettagliate. Poi però quando si sentono dire “riteniamo che la sua opera non sia valida” (commercialmente, letterariamente, stilisticamente) eccoli lì, pronti a tacciare gli editori di incompetenza, grettezza, stupidità, ignoranza, persino malafede, talvolta. Passatemi la provocazione, se potete: quanto sarebbe stato meglio che Proust, la Rowling e Fforde fossero rimasti sconosciuti! Perché è ai loro casi che si appigliano gli scrittori rifiutati, adducendo a colpa dell’editore una ottusità generica nel riconoscere il talento, dato che questi autori hanno faticato non poco ad essere pubblicati. Cosa dovrebbe quindi fare un editore? Dare una risposta standardizzata o personalizzata, spendendo il proprio tempo per averne un ritorno di insulti o peggio? C’è una soluzione intermedia, che mi sembra un buon compromesso: la scheda standardizzata. 29


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La scheda di rifiuto che abbiamo elaborato per Tanit inizialmente era relativamente semplice e comprendeva pochi, essenziali, punti: • Errori gravi nella grammatica/morfologia/sintassi. • Non aderenza alla linea editoriale. • Eccessiva sperimentazione stilistica/linguistica. • Stile involuto. • Argomento non rilevante/non pertinente alle collane. • Narrazione stereotipata. • Nuclei narrativi piatti. • Assenza di motore narrativo/motore narrativo insufficiente. • Scarso senso del parlato. • Caratterizzazione dei personaggi insufficiente. • Incoerenza nella trama. • Dialoghi ridondanti. Un paio di queste caratteristiche nel testo portano al rifiuto dello scritto. Ma almeno, ricevendolo, gli autori potranno avere una idea precisa del motivo, augurandoci che la desiderino. Resta comunque chiaro che i nostri criteri non sono e non vogliono essere universali: valgono per la casa editrice, per la sua linea editoriale attuale e per noi come persone, qui e ora.

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Pod o non Pod?

Per chiunque fosse capitato qui per caso chiarisco subito che non si tratta di gadget tecnologici, né di gruppi musicali, bensì del dilagante Print-on-demand. Ovvero autopubblicazione in chiaro, senza sotterfugi né ricorso a sedicenti editori. Per fare qualche nome, mi vengono in mente Boopen, lulu e ilmiolibro. Io non ho ancora le idee ben chiare in merito: se rifiuto a priori di recensire i libri provenienti da editori a pagamento, per quel che concerne i Pod sono ancora in una posizione “possibilista”, direbbe mio padre. Mi pare un’alternativa più onesta, poiché scelta con consapevolezza. Vorrei tentare qui un’analisi dei pro e contro, per orientarmi e capire, al di là delle facili esaltazioni e demonizzazioni; come ogni volta che ci si pone davanti ad una innovazione ci sono sempre le tre strade da poter seguire: quella del reazionario, quella del progressista e quella dello scienziato. Direi che quest’ultima è la mia preferita. Iniziamo dai contro, più facili da trovare: 1. Assenza di una selezione critica (di un editore). 2. Assenza di controllo qualitativo-tipografico. 3. Proliferare di pubblicazioni mediocri e di sedicenti scrittori. 4. Effetto marmellata (moltiplicando gli stimoli diventano indistinti, non permettendo di evidenziare i prodotti notevoli). Veniamo ai fattori positivi: 1. Tutela dell’ambiente: viene stampato il libro solo se ordinato, senza resi o copie al macero. 31


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2. Possibilità di scoprire nuovi talenti (non sempre un buon autore riesce a scovare il suo editore). 3. Certezza o quasi che chi ha grandi volumi di vendita su pod abbia talento nel suo settore (non ha a “spingere” uffici marketing o uffici stampa). Ovviamente bisogna utilizzare un sistema ponderato per fare la media di questi dati; nonostante ciò ad oggi penso che il Pod sia uno strumento positivo e innocuo. Non serve a diventare il prossimo premio strega, ma regala un po’ di soddisfazione gratuita e permette di sperimentarsi. È chiaro però che è necessario non prendersi troppo sul serio: non è pubblicazione ma autopubblicazione, e la differenza c’è.

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Curiosità su editoria ed eurocentrismo

Come ogni studente occidentale che si rispetti sono sempre stata pronta a rispondere alla domanda “Chi inventò il processo di stampa a caratteri mobili” con un nome solo: Johann Gutenberg. L’uomo di Magonza è entrato a far parte ormai dell’immaginario collettivo dell’editoria. L’ha permeato tanto da essere continuamente citato nei vari progetti, come il Project Gutenberg (è tedesco, non inglese, quindi si legge proiect), o anche il Circolo Gutenberg (uno dei tanti progetti in cui sono impegnata). A lui, a Manuzio e a grandi editori e stampatori occidentali sono dedicate centinaia di organizzazioni e citazioni. Ben diverso è il destino toccato a quello che effettivamente è stato l’inventore della stampa a caratteri mobili (il primo di cui abbiamo notizia, quantomeno). Sono sicura che alla maggioranza di voi il nome Bi Sheng non ricordi nulla. Eppure fu lui il primo a creare una macchina per la stampa, utilizzando caratteri di terracotta. Per fortuna Wikipedia ci viene in soccorso: Bi Sheng (cinese tradizionale: ; cinese semplificato: ??, pinyin: Bì Sh?ng) (Huizhou, 990 - 1051) è stato un tipografo e inventore cinese, realizzatore del primo sistema di stampa a caratteri mobili. Il sistema di Bì Sh?ng, fatto di caratteri di terracotta, fu inventato fra il 1041 e il 1048 in Cina. Bì Sh?ng era di umili origini, e non esistono documenti sulla sua vita. L’unico documento 33


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è il Mengxi Bitan (????) di un funzionario cinese, intellettuale e scienziato, Shen Kuo (??) (1031-1095). Il Mengxi Bitan fornisce una descrizione piuttosto dettagliata dell’invenzione di Bì Sh?ng.[1] I fragili caratteri di Bi Sheng non si prestavano per la stampa in larga. Il funzionario Wang Zhen (attivo fra il 1290 e il 1333) migliorò il sistema di Bi Sheng introducendo caratteri mobili incisi nel legno. Successivamente, la stampa a caratteri mobili fu sviluppata in Cina e in Corea verso il 1490 con la realizzazione di caratteri di bronzo da parte del tipografo Hua Sui (1439-1513). Sono cinque secoli che intercorrono tra Gutenberg e Bi sheng, e un millennio l’oblio di quest’ultimo, che mi auguro possa ritrovare il suo giusto posto nel pantheon dell’editoria. Non mi dilungherò in questa sede sulla mancata attribuzione italiana all’invenzione e sulle varie teorie che circolano tutt’ora sulla B42 (la Bibbia di Gutenberg). Certo è che il contrasto resta focalizzato sull’Europa, in particolare sull’asse Italia-Germania (come per l’invenzione dei raggi X e dio solo sa quante altre). Se voleste approfondire esiste un museo dedicato a Huangcun (ahimé molto lontano), un volumetto quasi introvabile, Haben Die Chinesen und Koreaner die Buchdruckerkunst erfunden? (Gutenberg Gesellschaft - 1954), ed uno per fortuna più reperibile, La scrittura, di Albertine Gaur.

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Il booktrailer

È giunto il tempo di pormi e porvi qualche domanda sul booktrailer stesso, sul suo uso, sulla forma, sul significato e sulla validità. Il booktrailer (da ora in avanti solo BT), è bene ricordare, è un cortometraggio incentrato su un libro che trova diffusione spessissimo sul web e molto di rado sui media più tradizionali. Manca ancora una categorizzazione, un punto di vista analitico sulla questione, per cui provo a teorizzare delle distinzioni. Quelli che ho visto finora si possono racchiudere in soli tre tipi: il BT testuale, il BT mimetico, il BT diegetico, il BT ludico (che Floch e Greimas mi perdonino). Il BT testuale, come lascia presagire la parola, è un semplice avvicendamento di frasi tratte dal libro, o immagini di copertina. Discorso un poco più complesso per i BT mimetici e diegetici: nel primo tipo (derivante dal termine mimesis) è la rappresentazione delle scene a trovare posto centrale, nel secondo invece fa da protagonista la voce narrante. Una differenza, se vogliamo, sottile, ma necessaria. Infine il BT ludico (di cui ho visto pochi esemplari): puro esercizio di pensiero laterale, sembra non avere alcun nesso evidente col suo libro di riferimento, benché poi, nella lettura, la connessione risulti chiara. I più attenti avranno sicuramente notato una certa convergenza verso i tradizionali paradigmi della comunicazione pubblicitaria. In effetti una riflessione importante è se sia un prodotto pubblicitario o culturale; dal mio canto io tendo a 35


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considerarlo come uno spot: non evidenzia la cultura in sé o i libri in generale, ma uno specifico prodotto-libro, non incentiva la lettura ma l’acquisto di un testo; per questo trovo sia più corretto assimilarlo alla pubblicità, per quanto, per una volta, una pubblicità positiva. Anche la durata avalla questa percezione: il booktrailer dura poco, da uno a cinque minuti, tempo tipico delle pubblicità complesse (ricordo the cage di nike, ad esempio) e ruota intorno ad un prodotto specifico. Questo non significa volerne sminuire il valore artistico, che in alcuni casi, sia nel BT che negli altri spot, è altissimo: vuol dire solo avere chiaro la differenza tra una comunicazione culturale ed una commerciale. Dopo questa grossolana distinzione fra le possibilità espressive del booktrailer e dopo aver riflettuto sul suo appartenere o meno alla categoria di pubblicità, restano da discuterne il significato e la sua validità. Non voglio approfondire il significato del singolo booktrailer ma quello del genere in sé, per quanto possa sembrare una pretesa piuttosto ambiziosa. Mi vengono in mente due domande. Qual è il senso di dare una rappresentazione visuale ad un testo scritto? A che esigenza risponde questa trasposizione? Il BT è come un ulteriore paratesto rispetto al prodotto culturale cui si riferisce, ma un paratesto imperfetto e indiretto: se una buona comunicazione pubblicitaria non deve mai prescindere dallo studio del target cui si riferisce, sembra che il BT invece tenda a ignorarlo apertamente. Il BT appartiene ad un modo di comunicare veloce e visivo, tanto quanto il libro attiene ad un modo lento e immaginifico; è quindi probabile che i target di queste due forme di comunicazione non coincidano. Mi chiedo infatti 36


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quale sia l’influenza dello spot, magari diffusissimo attraverso Youtube, sull’effettiva vendita del libro: quanti video portano poi all’acquisto del loro prodotto? Come molti lettori il mio personale BT esiste da sempre, ed è un altro: la recensione del critico di fiducia e l’anticipazione mandata in giro dall’editore, l’estratto del primo capitolo, una piccola storia dentro la storia, una buona copertina ed una buona quarta. Vero è che questo non è del tutto possibile via web, ma sembra che ci si stia “attrezzando” con l’utilizzo dell’ottimo strumento Issuu a disposizione online. Credo, ma è solo una opinione, che il BT possa essere un eccellente strumento di diffusione per una determinata categoria di libri, che risponda alla stessa esigenza di comunicazione veloce, oppure possa ampliare la sua efficacia cambiando un po’ la struttura e l’orientamento. Se, infatti, venisse svincolato dall’esigenza pubblicitaria (come alcuni già girati – Coraline e Manituana) e diventasse un prodotto culturale a sé, allora farebbe partire quella tanto virtuosa risonanza creativa che permette alle idee di fermentare e diffondersi, contaminandosi (in senso positivo). Chissà se dopo il Booktrailer Lab all’interno del Trailerfilmfest cambierò opinione.

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Scrittura creativa (?)

Come diceva una persona di mia conoscenza, si moltiplicano i corsi di “scrivura cretina”: quei corsi in cui un certo numero di aspiranti-velleitari-sedicenti autori si impegnano per tentare di sfornare il prossimo bestseller. Forse sono solo io a considerare un pleonasmo l’accostamento di “scrittura” e “creativa”: qualsiasi atto di scrittura, per definizione, crea del testo (anche se non necessariamente del contenuto) dove non c’era, fosse anche un elenco della spesa. E, a pensarci bene, molti sedicenti scrittori scrivono proprio quel tipo di liste... Poi, sembra che chiunque sia in diritto di tenere un corso di scrittura creativa: passi per Baricco (che piaccia o meno è un autore affermato), ma tutti gli altri emeriti ignoti con che qualifica possono insegnare? Ed è davvero così immediato che uno scrittore famoso sia anche un bravo docente? Perché quel che si rischia non è di trovare il proprio stile, ma di apprendere delle tecniche, a volte al limite della macchietta, per far “funzionare” un testo; di diventare non degli artisti ma dei contabili della parola. Peggio, di diventare autori kinder (con buona pace degli ovetti, questa ve la spiego prossimamente). Avrei temuto un corso di scrittura creativa persino se lo avesse tenuto il mio amato Borges: cosa avrebbe, infatti, potuto insegnarmi? Forse avrebbe potuto parlare del suo modo di scrivere, e dubito che comunque avrei potuto raggiungere il suo genio; ma avrebbe davvero fatto affiorare il mio stile, il mio mondo? 39


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Certo questa consapevolezza è maturata negli ultimi dieci anni, in cui ne ho lette di cotte e di crude. Forse e maturata perché in questa ingenuità caddi pure io, fortunatamente per soli tre giorni di follia. Passo indietro. 1998. Attirata dal prestigioso nome di Dacia Maraini la nostra eroina affronta i perigliosi flutti dello Stretto, Scilla e Cariddi, e frequenta uno “stage di scrittura creativa”. Bilancio dello stage: scrittura 0, consigli troppi, buoni consigli 1 (leggere, leggere sempre, leggere ovunque: ma forse, per me, era un consiglio superfluo). Ecco, amerei che questi corsi li tenessero editor esperti (con almeno dieci anni di esperienza): loro sono abituati a tirar fuori il meglio del testo, a dirozzare la scrittura, a puntare sullo stile e sfrondare il resto. Agli aspiranti scrittori posso solo girare quel consiglio: leggere, leggere sempre, leggere ovunque. Poi, se proprio si deve, scrivere. Se non ne siete capaci non c’è corso che tenga.

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Racconti Kinder

Scrivere va terribilmente di moda. Scrivono tutti. Nel periodo in cui ho lavorato con la Villaggio Maori Edizioni ho scoperto una quantità di insospettabili: il panettiere, la farmacista, la ragazza della lavanderia. Tutti morbosamente interessati appena scoprivano il mio lavoro. Con questo si spiega la sconsiderata proliferazione dei corsi di cui parlavo poco tempo fa. E dei racconti (o autori) kinder. Di questa teoria/considerazione sono debitrice a Sigurd, alle volte chiamato anche Giuseppe Quaranta. Su aNobii, a proposito di Seta di Baricco scrive infatti: Baricchinate - Bariccolo ha un’idea di letteratura basata sulle trovate. Leggete qua; scrive su un racconto di Carver: “Sono andato dritto al più bello (secondo me) dei racconti di Carver: Di’ alle donne che usciamo. Un marchingegno pressoché perfetto. Una lezione. (…) Ho iniziato a leggere. Da non crederci, gente. L’ha scelto anche Altman, per il suo America oggi, quel racconto. Piaceva anche a lui. Otto paginette e una trama molto semplice. Ci sono Bill e Jerry. Amici del cuore fin dalle elementari. Di quelli che si comprano la macchina metà per uno e si innamorano delle stesse ragazze. Crescono. Bill si sposa. Jerry si sposa. Nascono bambini. Bill lavora nel ramo grande distribuzione. Jerry è vicedirettore di un supermercato. La domenica, tutti a casa di Jerry che ha

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LIVIA MR DI PASQUALE la piscina di plastica e il barbecue. Americani normali, vite normali, destini normali. Una domenica, dopo pranzo, con le donne in cucina a riordinare e i bambini a far casino in piscina, Jerry e Bill prendono la macchina e vanno a farsi un giro. Per strada incrociano due ragazze, in bicicletta. Accostano con la macchina e fanno un po’ i fessi. Le ragazze ridacchiano. Non gli danno molta corda. Bill e Jerry se ne vanno. Poi tornano. Non è che sanno benissimo cosa fare. A un certo punto le ragazze posano le biciclette e imboccano un sentiero, a piedi. Bill e Jerry le seguono. Bill, un po’ spompato, si ferma. Si accende una sigaretta. Qui il racconto finisce. Ultime quattro righe: “Non capì mai cosa volesse Jerry. Ma tutto cominciò e finì con una pietra. Jerry usò la stessa pietra su tutte e due le ragazze, prima su quella che si chiamava Sharon e poi su quella che doveva essere di Bill”. Fine. Freddo, asciutto fino all’ eccesso, metodico, micidiale. Un medico alla milionesima autopsia tradirebbe maggiore emozione. Puro Carver. Un finale fulminante, e un’ ultima frase perfetta, tagliata come un diamante, semplicemente esatta, e agghiacciante. Quell’ idea di impietosa velocità, e quel tipo di sguardo impersonale fino al disumano, son diventati un modello, quasi un totem. Scrivere non è stata più la stessa cosa, dopo che Carver ha scritto quel finale”.

Bariccolo ha un’idea di letteratura basata sulle trovate. Quando penso ai suoi libri (mi capita molto di rado invero) penso a trovate, nella stragrande mag42


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gioranza dei casi disgustose e orrende, ma che piacciono a molti suoi adepti e lettori. Un’idea di letteratura basata su trovate è un invenzione di Bariccolo, bisogna rendergli il merito. Un giorno vidi in tv uno della sua scuola di scrittura creativa che dava dei consigli su come scrivere un racconto, con tanto di accortezze. Il messaggio più importante che ne veniva fuori era che bisognava attrarre subito l’attenzione del lettore, catturarlo con uno splendido (?) incipit e portarlo, bum, subito in alto. Tipo: Un giorno Gregor Samsa si sveglia e si vede trasformato in un insetto. Bum. Quello è un incipit perfetto per i bariccoli. E basta. Veniva bocciato chiunque non si presentava con un’ idea simile. Ovviamente anche il finale deve essere dei più sconvolgenti. Bisogna, sempre secondo i bariccoli, cambiare repentinamente la scena, stravolgere quello che il lettore crede, creare non delle sensazioni inaspettate ma dei sensazionalismi. Una frase messa lì, che mette in discussione quello che per te era una certezza è il massimo per questi omuncoli. È bastata quella frase finale nel racconto di Carver e per bariccolo: Scrivere non è stata più la stessa cosa, dopo che Carver ha scritto quel finale. Bum. (Bum è una parola ricorrente nei suoi interventi). Non ho letto quasi nulla di Baricco, in compenso trovo che questa descrizione si possa tranquillamente utilizzare per tutta una schiatta di autori che utilizzano proprio questa tecnica, e che io chiamo “autori kinder”. Non me ne vogliano i famosi ovetti, oggetto del desiderio di molti di noi in altra età, ma questi racconti “nuovi” 43


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hanno un involucro colorato, poco cioccolato e un po’ acidognolo, altro involucro con sorpresa, e sorpresa, infine, quasi sempre deludente. Sembra che il piacere della storia debba annidarsi lì, alla fine, che tutto il racconto/romanzo si annulli e acceleri in funzione di un finale a sorpresa. Producendo nel lettore sostanzialmente due soli effetti: 1. Ridurre all’oblio la scrittura e lo stile per ricordare solo il finale. Di molti libri non saprei dire nulla se non “come va a finire”. 2. Produrre fin dalla prima riga l’effetto scommessa: il lettore dopo un po’ infatti comincia a capire il meccanismo e a prevederne gli esiti. Se ha vinto è deluso perché il libro era prevedibile, se ha perso gli sembra comunque poco credibile. In entrambi i casi il narratore è delegittimato. A me personalmente piace godermi la lettura, il piacere della parola scritta, il dispiegarsi graduale della trama. Lo shock non fa per me. Di sensazionalismo ne ho piene le tasche, grazie alla tv. Una preghiera a tutti gli scrittori: lasciate stare il finale. Concentratevi sulla storia. Non importa, sul serio, come andrà a finire.

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Il primo libro - Il castoro John, Pedron Pulvirenti

Non tutti hanno la (s)fortuna di avere una madre modello “custode della memoria”, che conserva proprio tutto. Dalle prime maldestre poesie ai quaderni di scuola, alle impietose foto coi brufoli, nulla per queste madri è meritevole di oblio. Purtroppo. Alle volte però una tale disgrazia è ripagata da un contrappasso gustoso. Fra gli immani carteggi di stupidaggini affiora ogni tanto un repertorio da far venire i lucciconi, come quello che ho per le mani adesso: il primo libro che io abbia mai letto. Il castoro John, tenuto insieme più dalla forza di volontà che dalla rilegatura, risente sia dell’usura sia degli anni, ma dubito che Fiorentina, colei che me lo regalò, sperasse di vederlo sopravvivere fino ad oggi. E che immaginasse quali catastrofiche conseguenze queste 16 pagine avrebbero avuto. Non sto qui a raccontarvi come io abbia imparato a leggere, a che età e con che supporto; vi basti sapere che questo fu il primo libro che lessi, anche solo stentatamente. Da questo a Liblog sono passate molte migliaia di pagine, ma la curiosità che mi mosse allora è la stessa che mi muove adesso. E adesso la trama: il protagonista è chiaramente un castoro, di cui viene narrata la maturazione fino al matrimonio. Non c’è molto da dire, frasi elementari e molte immagini, caratteri grandi, quasi nessun aggettivo, insomma, il classico libro prescolare. Del resto è un libro prescolare, sarebbe strano se fosse in qualunque altro modo. 45


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Inoltre ha un chiarissimo intento educativo, senza essere melenso come molti dei moderni testi simili; la vita di John rispecchia effettivamente le caratteristiche di quella di un normalissimo castoro americano, escluso l’inspiegabile cappello da baseball; tuttora gran parte di ciò che so sui castori viene da questo libro così modesto. Non voglio spingervi a cercare questo titolo, dall’81 (prima edizione) ad oggi non penso sia più stato stampato; voglio solo spingervi a regalare ai vostri figli, nipoti, cuccioli umani insomma, un bel libro col quale, arrivati a 28 anni (proprio oggi), possano spiegare le loro insane tendenze alla lettura.

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Ode a Cometa

Apprendo con due anni di ritardo che il professore Michele Cometa è diventato preside della Facoltà di Scienze della Formazione a Palermo. È una notizia che mi fa piacere e mi turba: da un lato il riconoscimento ad un’intelligenza e una cultura smisurate mi rende molto felice, dall’altro mi rammarica pensare che potrebbe avere molto meno tempo per l’insegnamento, e questa sarebbe una grave perdita per i suoi allievi. Io lo conobbi come studentessa, frequentando un suo corso di Letterature comparate. Dopo il primo ne frequentai almeno altri due, non per problemi con la materia ma perché era una delle poche lezioni veramente piacevoli, che davano più soddisfazione nel frequentare che nel “dare la materia”. E fu lui, col suo corso sulla Digital literature, a spingermi a inseguire l’utopia possibile di un’editoria moderna e integrata con le nuove risorse culturali. E qui apro una spinosa questione: quanto conta l’influsso di un docente “illuminato” nei percorsi di apprendimento? Direi, dalla mia esperienza, tutto; quindi renderò qui omaggio alle figure che hanno avuto un ruolo cruciale nella mia formazione. In primis venne mia madre, che vedendo la mia mania per la lettura sin da piccolissima mi assecondò, insegnandomi prima l’alfabeto fonetico (e non le ridicole bi, effe, acca) e poi fornendomi una vasta biblioteca di classici da cui attingere. Poi venne la maestra Costanzo (ebbene sì, sono di quell’epoca in cui la maestra era una sola). Si faceva mettere in croce ma cercava di rispondere sempre, anche se le 47


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domande dei bambini sanno essere complesse, sono ingenue e difficili. Lei mi ha fornito la parte “solida” della mia istruzione, quella fatta di certezze numeriche e grammaticali, regole semplici ed eccezioni. Continuando (quanta fortuna!) incontrai la professoressa Briguglio alle scuole medie, che ogni anno ci fece ripetere l’intera grammatica e l’analisi logica, e il dott. Leonardi (un collega di mio padre), che aprì ai miei occhi la parte poetica della matematica (vi giuro che c’è). A seguire due insegnanti di liceo, le professoresse De Mauro e Militi, con i loro apporti: la prima mi diede l’impulso a letture più moderne e mi introdusse ai contemporanei, la seconda mi spronò ad esplorare la scrittura. Devo dire però, a onor del vero, che i loro metodi furono affatto differenti; l’una aveva un fare materno e protettivo, l’altra era dura, intransigente e ostica, per quanto preparatissima e appassionata tanto da trasmettere le sue conoscenze. In ultimo, appunto, Michele Cometa e i seminari che accompagnavano i suoi corsi tenuti dall’eccezionale Clotilde Bertoni; lui che mi folgorò con Borges il primo giorno di lezione, e lei che mi dimostrò quanto c’era e c’è da scoprire nella letteratura mondiale. Ricordo che dimenticavo lo scorrere del tempo alle loro lezioni e mi dispiaceva dover andare via. Ora che ho finito l’apologia ai miei insegnanti vi e mi chiedo cosa sarebbe successo altrove, quanto è vero che certe tendenze siano innate e quanto derivino dalla capacità dei mentori che ci troviamo incontro, quanto sia predeterminato e quanto sia modificabile nelle nostre attitudini. E provoco: che speranze ha una società che distrugge la sua classe docente? Comunque, ora sapete chi incolpare per quel che scrivo! 48


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Le classifiche di vendita

Dacché esiste la capacità di misurare e numerare qualcosa, qualsiasi cosa, esistono anche le classifiche; con maggiori o minori pretese di obiettività, nessuno di noi ne è esente, persino quando parla dei propri amici. Poteva mai sottrarsi la letteratura a questo uso? Poteva, poteva, ma purtroppo non l’ha fatto. Fioriscono quindi le classifiche librarie, basate per lo più sulle vendite, più raramente su dati complessi o ponderati. Ovviamente questo a vantaggio degli editori di grosso calibro, che possono permettersi di occupare grandi spazi, virtuali sui media e fisici in libreria. Generano una grande confusione e spesso delusione, specie in chi pensa possano essere specchio del valore del libro; così, poi, capita che il libro non sia all’altezza delle nostre aspettative. Ma sono quest’ultime ad essere sbagliate, o meglio divergenti da quello che effettivamente la statistica misura. Le classifiche sono strumenti di marketing, utili solo per chi ha lanciato il prodotto per controllare la validità della sua strategia e la validità delle campagne pubblicitarie predisposte. Per parlare del libro in sé, infatti, bisognerebbe applicare dei correttivi; potrebbero essere, secondo me: 1. Risonanza mediatica: quanto e come è stato pubblicizzato il libro. 2. Percentuale di esaurimento tiratura: per un grosso gruppo mille copie sono nulla, per un microeditore è successo. 49


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3. Percentuale di gradimento del pubblico: di difficile misurazione, ma necessaria, considerando quanti libri vengono acquistati e accantonati. 4. Capacità di generare cultura: spettacoli derivati, rappresentazioni teatrali, musicali, cortometraggi, contaminazioni visive. Sono solo idee, ma servono ad equiparare i piccoli ai grandi, per non tagliare fuori dalle classifiche quelli che si impegnano a fare cultura e non solo commercio. E ad evitare di incappare in grosse delusioni. Personalmente compro di rado i libri in classifica, preferisco lasciarli decantare un po’, come in un processo di selezione naturale. Quanti libri infatti non sopravvivono al loro primo anno?

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Shortseller e Longseller

Oggi voglio riprendere un discorso analogo a quello sulle classifiche librarie. Quasi ogni libro dei grandi editori si fregia del titolo “Bestseller”. A torto. Cominciamo dall’aspetto banale di questo errore prospettico: bestseller per un piccolo editore è esaurire 10.000 copie in un anno, ma quanto valore ha per Mondadori vendere 130mila copie? Direi praticamente nessuno. Firmino, edito da un minuscolo editore e diventato popolarissimo per passaparola dei lettori (in America) è definibile bestseller come La solitudine dei numeri primi, che ha avuto una campagna mediatica tartassante? E ancora: è un bestseller quello che sparisce dagli scaffali (e dalla nostra memoria) dopo 10 mesi? O non è forse più appropriato chiamarlo Vanityseller? Secondo me anche in questo caso è necessario apportare almeno due aggiustamenti: il primo riguarda la parola in sé, l’altro il valore che le si attribuisce. La parola bestseller pare non avere un criterio selettivo di discernimento: tutto è indistintamente bestseller. Ora, il significato è approssimativamente “migliore nelle vendite” e il superlativo assoluto tende ad identificare un solo elemento, non un collettivo. Quindi bisognerebbe impiegare meno questo appellativo e cercare di restringerlo al massimo a due titoli per editore, non di più. Poi bisognerebbe utilizzare dei criteri ponderati: quanta pubblicità è stata fatta al titolo, su che canali, che distribuzione aveva? Per I sognatori, che distribuisce solo online, il successo si basa su criteri diversi rispetto a quelli di 51


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Mondadori. Infine bisognerebbe correggere secondo un criterio di durabilità: un vero bestseller è Il conte di Montecristo, che vende sempre e da sempre. Secondo aggiustamento è il valore che si attribuisce alla parola bestseller: non è patente di qualità, né lo può essere; bestseller è una categoria temporanea per sua natura, effimera e passeggera, che dice solo quante persone hanno comprato un libro, non esprime il gradimento, non esprime le qualità letterarie. Per cui non mi glorierei tanto di avere uno, due dieci bestseller. Io divido i libri in due categorie: i longseller e gli shortseller. I longseller sono quei titoli che, con costanza, vendono giorno per giorno, magari senza fare grossissimi volumi, ma sono inarrestabili e si ricordano a distanza di generazioni, come un Borges, ad esempio. Gli shortseller sono quelli che con gran schiamazzo totalizzano vendite esorbitanti nei loro primi mesi, per poi darsi all’oblio. Inutile dire che preferirei trovare sempre e solo longseller, anche se so che è impensabile; intanto, per celia, posso dirvi che abbiamo già un bestseller in Tanit: essendo l’unico libro in catalogo, il primo romanzo è il migliore nelle vendite, per la nostra casa editrice!

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I librai

In epoca di GDO, di centri commerciali, di megastore reali e virtuali, ogni tanto sento la mancanza di quei bravi librai di una volta, con la loro cultura enciclopedica, la capacità di capire i tuoi gusti e consigliarti, la voglia di chiacchierare un po’. Ne son rimasti pochi, pochissimi, triturati nel vortice delle classifiche standardizzate di cui sopra e degli ultimi successi commerciali; alcuni sopravvivono anche mimetizzati all’interno delle grandi catene, ma nel complesso diminuisce la quantità di quelli che fanno il mestiere del libraio per passione e non come interstizio tra la disoccupazione e un lavoro stabile. Certo non è facile sopravvivere con una piccola libreria indipendente, anzi è una fatica immane, calcolando le percentuali sul venduto che prendono i librai. E inoltre i piccoli non hanno accesso alle grandi promozioni editoriali, agli sconti, insomma a quelle facilitazioni che spingono la gente verso i megastore. Non può però essere una giustificazione per certi atteggiamenti di alcuni piccoli librai, inclusa la pigrizia e l’ostilità verso i piccoli editori. Ingiustificata, peraltro, perché invece i piccoli editori, specie ottenendo una distribuzione esclusiva, possono essere un plus. Comunque, riporto l’esaltante conversazione tra me e un libraio. Io: Salve, vorrei comprare il libro XYZ dell’autore YYY. Libraio: Sicura che si chiami così? Non credo di averlo. Che edizione è? 53


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Io: Mi pare che sia della ABC, sì (consulto il mio taccuino), è proprio della ABC. L: Ah, ma quella casa editrice non è facile da prendere... Io: In che senso? L: No, è che non è distribuita, quindi devo prenderne x (venti, trenta, cinquanta) copie, se no non me lo mandano. Io: Ah, va bene, grazie lo stesso. Quello che il malcapitato libraio non sapeva è che io nel Magico Mondo dell’Editoria praticamente ci vivo, e che sono stata saltuariamente all’interno di una libreria non solo come acquirente ma come venditore. Quindi determinate dinamiche, ecco, direi che le conosco un po’, il minimo sindacale. Dunque: purché il libro abbia l’ISBN e venga quindi schedato dall’apposita agenzia, i principali software di ordine e gestione libreria lo avranno. L’inserimento nei database è automatico, e nulla ha a che fare con la distribuzione, che invece si occupa della “presenza in scaffale”. Inoltre l’unica quantità non ordinabile è mezzo libro (Salve, vorrei Se una notte d’inverno un viaggiatore, da pagina 30 a pagina 66); per il resto nessuno, tantomeno un piccolo editore che conta le vendite copia per copia, sarebbe così pazzo da mettere dei blocchi per quantitativo. In sostanza non so bene perché ogni tanto si comportino così, ma non è la prima che mi capita, e suppongo non sarà nemmeno l’ultima. Beh qualora doveste incappare in un libraio così o insistete, o cambiate libreria.

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Il punto vendita

Voglio prendere spunto da una bella riflessione di Peresson, apparsa su Testo e senso n.9 per parlare un po’ dell’acquisto di libri e delle sue modifiche, e, ovviamente, dei librai. Parlerò dal punto di vista di un piccolo editore che comincia a “scontrarsi” con la catena distributiva, quindi un punto di vista molto fazioso. So che così il testo diventa chilometrico, ma è necessario citare alcuni passi fondamentali: Non bisogna mai dimenticare come ognuno di noi prima di compare un prodotto (libro compreso) decide di «acquistare» (scegliere) il punto vendita con i suoi livelli di servizio; forse oggi scegliere (per alcuni contenuti) anche tra canali fisici e l’on line. e ancora: Quando in una libreria di 150 metri quadri l’indice di affollamento delle sole novità è 325 titoli per mq se consideriamo i soli titoli pubblicati nel 2005 (Fonte: Istat) diventano centrali le tecniche di gestione della varietà e delle informazioni (quelle che altrove chiamano metadati): che sono di tipo bibliografico/editoriale ma anche commerciali e di marketing. L’autore sarà o no ospite di Fabio Fazio? [...]La variabilità e l’imprevedibilità dei comportamenti del cliente rende per la gran parte dei titoli più breve rispetto al passato il ciclo di vista del prodotto: l’89,8% dei titoli

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LIVIA MR DI PASQUALE che compongono lo stock a fine anno di una libreria sono titoli entrati nell’assortimento dell’anno. E il 63,6% dei titoli a stock a dicembre 2005 hanno come data lo stesso 2005 (Fonte: Librerie Gruppo Libris, 2006). Se questi dati implicano rischi di obsolescenza, di invenduto e resa; di un tempo sempre più ristretto per collocare sul mercato prodotti di successo, dall’altro c’è da chiedersi quanto tutto questo è una conseguenza di un mix di fattori che rimandano alla gestione finanziaria del punto vendita o più banalmente dello spazio della libreria, e quanto invece dei bisogni e dei comportamenti del cliente e del lettore. Tanto più che si dimostrano sempre meno efficaci nell’interpretare le decisioni d’acquisto dei clienti segmentazioni della domanda basate su un’aggregazione in categorie per variabili descrittive sociodemografiche. Il fatto è che molte decisioni d’acquisto di libri – come ci capita personalmente per altre merceologie sono influenzate dal momento stesso di presenza del cliente nel punto vendita. Questo conduce a rivolgere una particolare attenzione verso tutte le variabili di marketing contenute nel sistema d’offerta. Sempre più si parla di marketing esperienziale in quanto il momento d’acquisto si connatura con aspetti ricreativi ed edonistici in quanto influenzato dall’ambiente nel quale esso si svolge: multistore, fiera e salone del libro, bookshop museale, libreria di una galleria di un centro commerciale, ecc. Già qualche anno fa solo il 46,1% entrava in libreria sa-

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VITA DA EDITOR(E) 2009 pendo già cosa compare: l’altro 53,7% compiva le sue scelte all’interno dell’«esperienza di visita» della libreria (Fonte: Demoskopea, 2003). Oggi molti compiono le loro scelte all’interno dell’esperienza d’acquisto di librerie on line dove l’offerta – anche relativa al singolo titolo – spazia dall’edizione hard cover, a quella paperback, quella a caratteri ingranditi, l’audiolibro e quello usato con lo sconto del 75%. Ma da dove si arriva sempre più spesso da motori di ricerca o dalla lettura attraverso Google Book Search di un capitolo free del libro.

Ora, questi dati sono interessantissimi. Prima di tutto perché bisogna avere il coraggio di non partire dalla premessa che l’editoria sia in crisi: per quello che ho sentito alle varie conferenze, e persino nel rapporto AIE, questo non è vero; dopo anni di crescita moderata il numero di lettori è sceso dell’1% ma il mercato è cresciuto dello 0,9%, dimostrando una leggera flessione, compensata dall’aumento del 37% del mercato online. “L’editoria è in crisi” è per me una mera giustificazione: se Tanit non dovesse vendere non sarebbe colpa del mercato ma dimostrazione che io e la mia socia non abbiamo saputo leggere il nostro tempo e il nostro mercato, non siamo state abbastanza competitive (mi auguro di non dover verificare di persona). La lettura interessante per me è quella sul punto vendita, che da materiale diventa sempre più virtuale. Da un lato perché la scelta sugli store online è maggiore, dall’altro perché una delle variabili che ha subito il crollo maggiore nella valutazione delle librerie fisiche è il servizio di consulenza, ovvero il piano umano. È né più né meno il lavoro di Liblog, consigliare i libri alle persone, secondo i loro gusti; ed è di quelle cose che non trovo 57


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più in libreria: persino gli indipendenti sono diventati “supermercati” del libro. Arrivi, sfogli, ti aggiri da solo per gli scaffali da cui gli ultimi shortseller (vedi più su) ti guardano minacciosi, vai alla cassa dove un commesso – commesso, non libraio – ti fa pagare. Passi per le librerie di catena, ma anche gli indipendenti si comportano così e non vedo come sperino di competere: sul volume e sull’assortimento non possono di sicuro. Io uso gli amici, le loro segnalazioni e idee, e poi compro online, che per i miei volumi d’acquisto è molto vantaggioso in termini economici: trovo quasi sempre la promozione giusta e riesco a ottimizzare il numero di libri per budget in modo da trarne il massimo vantaggio. Nessuna libreria può garantirmi gli stessi sconti, nessuna ha lo stesso assortimento e, per esperienza locale (e spero non nazionale), i librai indipendenti oppongono maggiore resistenza a dare spazio alla piccola editoria: se si prova a ordinare un libro di Aìsara (sostituire un piccolo editore a piacere), ad esempio, cominciano a fare orecchie da mercante, quando a loro controllare in database o comunque, male che vada, su google, non costa nulla. Uno dei discriminanti maggiori per una casa editrice è la presenza nel punto vendita, per la quale si viene giudicati, spesso duramente: ma che speranza ha un piccolo editore di competere accanto ai titoli della Mondadori, RCS, Mauri Spagnol, che da soli coprono il 98% del punto vendita? Ammesso di riuscire, chiaramente, ad essere esposti e non schiaffati in un angolo buio. Allora non avrebbe senso creare una sinergia tra piccoli, offrire una differenza che sia qualitativa, essere nuovamente consiglieri e non venditori?

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Editori del XXI secolo

Quella di oggi è una riflessione breve e titubante; sto ancora adesso ponderando sulle mie scelte e su quelle di altri editori in materia di aggiornamento e nuovi media per l’editoria. Attraverso il sito di Marco Valerio, infatti, ho trovato un testo piuttosto interessante per chi vuole diventare editore ai tempi moderni. Oltre ad essere tecnicamente bravi, fortemente ottimisti (tutti vi daranno contro), bisogna conoscere i nuovi meccanismi dell’editoria e cercare soluzioni diverse all’attuale filiera del libro. L’e-book di Sara Lloyd, Il Manifesto dell’editore del XXI secolo, affronta tutti i temi della digitalizzazione della cultura, di quella che è stata definita, in modo molto appropriato, “paperless society”, proponendo soluzioni e integrazioni fra un vecchio modo di concepire l’editoria e le grandi opportunità offerte dai nuovi mezzi. Ovviamente condivido buona parte delle sue riflessioni, ma continuo ad avere idee “reazionarie” sugli ebook: sono ottimi per romanzi brevi, per testi scientifici, per ricerche filologiche, per testi di utilità come questo, per le 63 piccole pagine (in A4 sono appena nove) del suo saggio, ad esempio, ma troverei debilitante leggere Infinite Jest in formato digitale. Inoltre il video o le periferiche portatili che si stanno perfezionando sono ottime per la capacità multimediale e i riferimenti ipertestuali, ma mi tolgono il piacere tattile del libro, l’odore della carta, il pregio della fattura. Sono fermamente convinta che si possa fare un’editoria nuova, basandosi sui nuovi mezzi e sulle nuove forme 59


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della letteratura, non sono sicura invece del fatto che il cartaceo sia destinato a sparire. Non sono convinta che la digitalizzazione sia la soluzione per l’editoria, io preferisco un approccio cross-media, in cui il libro è solo una parte in una rete di informazioni, che tutte insieme o singolarmente facciano “cultura”. Non è detto che il modello da me scelto sia quello giusto o vincente, ma è un modo possibile di conciliare il nuovo e il vecchio, e spero dia qualche frutto. Vi lascio il link del testo originale in pdf, con una domanda aperta: perché per un testo da mettere online l’uso vetusto di note in fondo al libro con i riferimenti bibliografici, invece di un’integrazione ipertestuale?

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Studium e punctum in lettura

Mi sono particolarmente affezionata alle categorie utilizzate da Roland Barthes riguardo alla fotografia, e ho iniziato a chiedermi se sia possibile applicarle anche a tipi di testo differenti, quali quelli letterari. Se, da un lato, è facile riconoscere quali siano le caratteristiche di un saggio, cosa colpisca in un romanzo è più difficile da definire. Si devono esaminare molte caratteristiche oggettive: stile, scrittura, temi. Ma ho come l’impressione che siano un contorno al buon ricordo che ci lascia un libro. Quando cerco nella memoria non sono infatti questi gli elementi immediati a riaffiorare. Per chi come me abbandona il temperamento analitico durante la lettura, sono dati accumulati a posteriori, dopo essersi immersi nella lettura ed immedesimati in uno dei protagonisti. Ma lì, sul momento, a colpire sono gli eventi o la struttura? Ecco, anche se sembrerebbe più probabile la prima risposta, per me è la seconda quella giusta; non intendo però la struttura come forma rigida in cui la narrazione è impostata, bensì la sequenza in cui gli eventi sono disposti e armonizzati con la scrittura. Perché un romanzo può essere un pandemonio, oppure avere un unico evento narrato, ed essere ugualmente splendido? Proprio per l’organizzazione, che permette, se particolarmente chiara o significativa, di ricorrere a sperimentazioni linguistiche anche molto forti, o all’annullamento del motore narrativo. 61


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Va da sé che colpisca inconsapevolmente; si tratta infatti di quel “non so che” deputato a lasciare intatto nella nostra memoria il ricordo di alcune letture e a passare un colpo di spugna su altre che, di primo acchito, avevamo apprezzato. Il problema per gli scrittori è che non esiste, e non può esistere, un vademecum di armonizzazione tra struttura e scrittura. Che è poi, in fondo, il motivo per cui non tutti sono artisti e mestieranti della parola.

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Odi et amo

Qualche mese fa, per essere esatti l’otto giugno, aprii una discussione su aNobii, in un gruppo che già dal nome lasciava trasparire il suo intento: A difesa del sacro diritto di leggere quel che mi pare. Sulla scia di Come un romanzo di Pennac e dei suoi non-comandamenti, mi avventurai a proporre questo argomento: Vorrei fare notare che c’è un secondo tipo di giudizio e pregiudizio: che ti debba per forza piacere quello che a tutti piace. Se ti azzardi a dire, che so io, “a me il nome della rosa non piace” ecco arrivarti addosso una serie di occhiatacce espressive (di compatimento se ti va bene, altrimenti di disgusto). Abbiamo anche questa libertà in questo gruppo? Perché non vedo l’ora di fare outing (che per ora si usa) e dichiarare quanti libri famosissimi ho detestato! Il numero di risposte (143 ad oggi) è stato piuttosto alto, come se molti aspettassero un luogo in cui poter dire indisturbati che avevano odiato questo o quel libro tra gli osannati dal pubblico e dalla critica. Come se ci si dovesse vergognare o si dovesse provare un sentimento di inferiorità. Quello che non credevo è che la discussione avrebbe portato a galla nomi impensabili, ritrovando la relatività del giudizio sulla letteratura, e rafforzando la mia idea che ci sia per ciascuno il libro giusto ma non un libro giusto per tutti. 63


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Oltre ai prevedibili Moccia, Dan Brown, Patricia Cornwell, che sono autori molto discussi, ecco qualcuno dei nomi e titoli “ex-intoccabili” che alcuni utenti avrebbero volentieri cancellato dalla storia della letteratura, giusto per farvi venire un po’ di ulcera: 1. Guerra e Pace Tolstoj 2. Hemingway (non meglio specificato) 3. Siddharta di Hesse 4. Alla ricerca del tempo perduto di Proust 5. Calvino (vari testi) I puristi e gli estremisti della cultura, per intenderci quelli che dividono in caste i libri, obietteranno che queste persone non avranno capito il valore letterario, lo stile, l’importanza. Che non sono in grado di discernere. Io amo pensare invece che queste esternazioni ci riportino alla logica della differenza e della varietà come unico modo di progredire. E che ci ricordino, quando disprezziamo qualcosa, che non siamo gli unici giudici del mondo, per fortuna. Certo, crea disappunto trovare alcuni dei propri autori favoriti nell’elenco dei detestati, ma bisogna avere classe e cultura sufficienti a capire che è giusto così, ed è proprio dalle differenze di opinione che sono nate le correnti culturali più interessanti. Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

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Desiderata

Perché alcuni libri spariscono? Perché sono esauriti, perché non hanno venduto abbastanza, perché rappresentano posizioni controverse? Non ho risposta. Questo post serve solo come sfogo e richiesta agli editori di stampare di nuovo alcuni libri. So che per molta parte delle pubblicazioni attuali l’oblio è più che meritato, considerando la sovrapproduzione di materiale scadente, ma perché far finire nel calderone anche testi di autori di tutto rispetto - Asimov, uno per tutti - o testi di grande importanza letteraria? Chi è che decide che un testo non va più ristampato e perché, io mi chiedo. Specie testi introvabili e richiesti. Ho scritto a uno degli editori di cui cercavo un libro, ma ancora sono in attesa di risposta (son passati sei mesi, direi che posso legittimamente smettere); il libro è esaurito, in tutte le sue ristampe, ma non sembra essere più in catalogo. Sicuramente Maremagnum è sempre un valido aiuto per trovare tali testi, ma per chi come me volesse regalare il libro agli amici ci sarebbero poche possibilità! Per cui, cari editori, i miei desiderata sono questi: • Della letteratura - Madame de Stael • Notturno - Isaac Asimov e Robert Silverberg • Ishmael - Daniel Quinn • Genji Monogatari - Murasaki Shikibu - tradotto in italiano direttamente dal testo giapponese • New Grub Street - George Gissing Ma voglio aggiungere anche i vostri, quelli di chi mi contatta privatamente e pubblicamente e anche dei miei 65


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amici. Postate le vostre richieste nei commenti e le inserirò in questo spazio. 1. In fine - Yaakov Shabtai - segnalazione di Baruch 2. Il mestiere della narrativa - Percy Lubbock - segnalazione di Angelo 3. I cieli dimenticati - Mariangela Cerrino - segnalazione di Angelo 4. Teoria della Letteratura - Warren & Wellek - segnalazione di Sfranz 5. Racconti fantastici - I. Ugo Tarchetti - segnalazione di Sfranz 6. Magic - William Goldman - segnalazione di Tom Traubert 7. Il peccato - Boine - segnalazione di Sfranz Aspetto le vostre segnalazioni per estendere l’elenco!

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L’ambientazione

Tempo fa io e l’Elfo della compagnia abbiamo avuto uno scambio di opinioni sull’ambientazione dei romanzi. Io sostenevo la necessità di una scelta che sia narrativa e non estetica, lei difendeva la libertà assoluta di ambientazione. Ritengo che l’argomento sia molto interessante e che vada ripreso. Come Tanit io leggo davvero di tutto. E con davvero intendo dire che leggo sia scritti molto belli sia scritti pessimi senza battere ciglio (certo, ogni tanto devo fare qualche seduta di psicanalisi, ma niente di preoccupante!). È anche vero che, quando ricevo scritti i cui personaggi si chiamano Elizabeth e Andrew comincio a sentire il tintinnio di invisibili campanelli d’allarme e leggo con maggiore attenzione. Perché è lì che comincio a chiedermi per quale motivo i personaggi abbiano nomi stranieri e la città sia Las Vegas; e nove volte su dieci il motivo non riesco a ravvisarlo in nessun punto. Ora, si ha un bel parlare della multiculturalità, della capacità di descrivere luoghi anche immaginari, della libertà dello scrittore, ma quanto è credibile un romanzo scritto da un autore di Canicattì e mai uscito dalla Sicilia ambientato in California? La risposta è “dipende”. Dipende proprio dalla capacità dell’autore di calarsi nell’ambientazione estera, di renderla parte inscindibile della narrazione. Uno dei romanzi editi da Tanit è ambientato in Irlanda ed è necessario alla narrazione che sia così: non potrebbe essere traslato in nessun altro luogo al mondo, proprio per le sue 67


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particolari caratteristiche. Il primo è invece ambientato in Sicilia, ma dato che è una storia personale e universale potrebbe essere ambientato dappertutto in Italia, e forse anche in Europa. Non c’è un criterio univoco, purtroppo, per capire se l’ambientazione sia giusta o sbagliata, apprezzabile o meno. Ma io uso un trucco, che vi regalo. Poniamo il caso che abbiate appena finito le vostre 300.000 battute di romanzo, di Carl e Lenny che negano il loro amore omosessuale (bene, con questo mi sono assicurata una denuncia per violazione di copyright) in una cittadina della provincia americana. Adesso aprite un atlante... va bene anche google maps; puntate il dito o il mouse su una località italiana e stringete fino alla visualizzazione dei paesini. Diciamo che avete visualizzato il minuscolo Torre de’ Busi, poche anime. Ora sostituite tutte le occorrenze della vostra fantomatica Burlingtonville con Torre de’ Busi. Per quanto il nome vi stia antipatico se il testo funziona ancora avete appena scoperto che la vostra era una scelta estetica e non narrativa. E quindi siate consapevoli che non sarete troppo apprezzati per questo, anzi, non lo sarete affatto. Se il testo diventa incomprensibile invece la vostra scelta è andata oltre il mero piacere di avere un nome anglofono che “fa più figo”, ma è entrata dentro la narrazione tanto da diventarne inscindibile. Ciò significa che siete stati in grado di descrivere bene non solo il luogo in sé ma anche il modo di viverlo, il modo di sentirlo e interpretarlo dei vari personaggi, in sostanza che avete fatto un buon lavoro.

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Bartezzaghi e l’apostrofo perduto

Bartezzaghi è un cognome che si commenta da sé, come ho più volte detto; e anche questa volta si conferma più che degno del mio platonicissimo amore, con un nuovo articolo di Stefano Bartezzaghi, che scrive l’epitaffio dell’apostrofo. [...] anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo una questione di apostrofi. I media di scrittura hanno in antipatia tutto ciò che esorbita dal carattere alfabetico, e così sms, e. mail e indirizzi di siti web pullulano di “cè” anziché “c’è”; di “pò” anziché “po’”; di “mò vengo” o “a mò di...” anziché “mo’ vengo” e “a mo’ di”; di “non centra niente” anziché “non c’entra niente”. I vari “dì qualcosa, fà presto, stà zitto e và via”, spesso del tutto normalizzati con “di qualcosa, sta zitto, fa presto e va via”. In ognuno di questi esempi l’accento è sempre sbagliato, il caso nudo e crudo non è più considerato scorretto ma l’apostrofo ci vorrebbe per segnalare che all’imperativo è caduta la sillaba finale. Meno macroscopiche e più controverse le fattispecie di “buon amica” anziché il corretto “buon’amica” o “pover uomo” anziché “pover’uomo”: su questi anche la Crusca discute. Anche da noi è presente la controtendenza che aggiunge apostrofi dove non ci vogliono. Pittoresco, per la sua diffusione, il caso di 69


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“qual’è”; ma si leggono anche dei “c’è n’è abbastanza”. Spessissimo poi, a causa della mancata collaborazione delle tastiere e dei programmi di scrittura, si è costretti a usare l’apostrofo in luogo del segno di accento: “Là non c’e’”. È infine inqualificabile l’usanza di trascrivere i discorsivi “ci hai sonno?” e “ci avevo fame” come “c’hai sonno?” o addirittura “ch’avevo fame”. È che l’apostrofo, oggi, è un po’ come le quattro frecce dell’automobile: si mette e si toglie quando non si sa bene cosa dobbiamo segnalare al prossimo, e come. L’apostrofo è insomma un bacio rosa fra le parole “c’entro (qualcosa) o non centro (la soluzione giusta)?“. È vero, la lingua si modifica nel tempo, ma si tratta di processi non così immediati come queste variazioni personalistiche vorrebbero. È necessario una norma in questa giungla, per garantire la funzione primaria del linguaggio: comunicare.

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SIAE o non SIAE

Leggo oggi di un ennesimo caso SIAE, che mi turba sempre più: Compensi SIAE per letture in biblioteca Lettera a «La Repubblica», 19 marzo 2009 Il signor Marzio Bossi di Bologna, in una lettera pubblicata da Repubblica lo scorso 18 febbraio, si stupisce che in Italia le letture pubbliche effettuate in biblioteca per finalità di promozione culturale siano soggette al pagamento del diritto d’autore. L’art. 15 della L. 633/1941 (sulla protezione del diritto d’autore) sancisce che il diritto di recitare, eseguire o rappresentare in pubblico un’opera dell’ingegno di qualsiasi natura rientri fra i “diritti esclusivi” dell’autore o dei soggetti che ne hanno acquisito i diritti di sfruttamento economico. In parole povere, qualsiasi forma di esecuzione in pubblico deve essere autorizzata dagli aventi diritto, per il tramite della SIAE. Si tratta in tutta evidenza di una stortura contro la quale dovrebbero mobilitarsi anche le associazioni dei consumatori, degli enti locali e dei cittadini. Esattamente come nel caso del diritto di prestito, introdotto nel 2007 nel nostro ordinamento in forza di una direttiva europea che impone alle biblioteche di pagare un compenso ad autori e editori per i prestiti 71


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effettuati. In Italia sono stati stanziati 3 milioni di euro all’anno, ma in futuro potrebbero essere di più. A questo stato di cose l’Associazione Italiana Biblioteche si oppone con fermezza: vengono penalizzate, anziché incoraggiate, le iniziative delle biblioteche per diffondere la conoscenza dei libri e promuovere la lettura. In un paese di non lettori, esse andrebbero a vantaggio anche di autori ed editori, ma soprattutto dei cittadini, che dovrebbero essere i beneficiari ultimi di tali attività. Se un autore – desideroso di incoraggiare queste forme di pubblicità gratuita alla sua opera – decide di autorizzare una lettura in biblioteca rinunciando al suo compenso, la SIAE è comunque autorizzata a riscuotere il compenso a prescindere dalla volontà degli aventi diritto. In sostanza la SIAE obbliga al versamento di denaro in cambio di un servizio non solo non richiesto, ma inutile e indesiderato. Dalle mie parti la cosa ha un nome ben preciso. Organi come questo, che tutelano solo i propri introiti, dovrebbero essere smantellati. Mi rivolgo a tutti voi: cosa possiamo fare nella pratica? Si accettano suggerimenti.

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A volte ritornano (ahimè)

Punto informatico aggiunge un nuovo tassello a quel puzzle chiamato SIAE. Riporto alcuni passaggi: la SIAE ha reso nota l’intervenuta pubblicazione sulla gazzetta ufficiale n. 80 del 6 aprile 2009 del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 febbraio 2009, n. 31 con il quale sarebbe stato reintrodotto in Italia l’obbligo di apposizione del contrassegno SIAE: obbligo che, come ricorderanno i lettori di Punto Informatico, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con una Sentenza dell’8 novembre 2007 aveva stabilito essere inopponibile ai privati. [...] Al riguardo sembra anche il caso di ricordare che nei mesi scorsi si è aperto un ampio dibattito sull’opportunità di continuare ad utilizzare nel nostro Paese - solo in Europa assieme a Portogallo e Romania - una misura antipirateria anacronistica e ritenuta inutile ed anzi dannosa dalla stessa Federazione dell’Industria Musicale Italiana, e che è stato addirittura depositato in Senato un disegno di legge volto alla definitiva eliminazione dell’obbligo di apposizione del contrassegno. [...] Il contrassegno SIAE costituisce una prestazione patrimoniale imposta ed appartiene, dunque, all’universo delle imposte: fuor di giuridichese, quindi, attraverso la disposizio-

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LIVIA MR DI PASQUALE ne in commento, si sta dicendo che un regolamento di attuazione del 2009 può imporre retroattivamente, sin dal 2001, l’obbligo di pagamento di un balzello in barba ad una decisione della Corte di Giustizia con la quale si è ritenuto detto obbligo inopponibile ai cittadini europei. [...] Si tratta di un’elegante traduzione del brocardo “Chi ha dato, ha dato e chi ha avuto, ha avuto”. L’obiettivo è evidente: consentire a SIAE di sostenere che essa non è tenuta a restituire ai privati quanto incassato in virtù di una previsione di legge, dichiarata loro inopponibile dai più alti Giudici Europei. Brutta norma anche questa che fa assai poco onore a chi l’ha suggerita ed al Governo che, per ovvie ragioni di comodo e non certo a tutela dell’interesse pubblico, l’ha fatta sua e recepita in un provvedimento firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Ministro dei beni e delle attività culturali e controfirmato dal Ministro della Giustizia. [...] Cultura e giustizia, appunto, due valori e contenitori di principi che sembrano difettare completamente al nuovo regolamento sull’apposizione del contrassegno SIAE appena pubblicato in Gazzetta. Varrà, forse, infine, la pena di ricordare - ma anche questo formerà oggetto di ampio dibattito negli anni a venire e probabilmente ancora una volta dinanzi alla Corte di Giustizia - che il testo del nuovo DPCM non tiene, sostanzialmente, in nessun conto le osservazioni formulate dalla Com-

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VITA DA EDITOR(E) 2009 missione UE allorquando il nostro Governo, nell’aprile del 2008, le trasmise, per la prima volta, la bozza di tale provvedimento che aveva in animo di varare per porre rimedio alla situazione venutasi a creare a seguito della decisione dei giudici europei. [...]

In un altro eccellente articolo si parla del disegno di legge citato: [...] È anche la stessa industria dei contenuti a denunciare l’inefficienza del bollino: sarebbe inadatto a prevenire la contraffazione delle merci, si ripercuoterebbe sulle strategie degli editori e delle etichette, che per agire sul mercato italiano si trovano costretti a mettere sul piatto denari aggiuntivi e a imbarcarsi in trafile burocratiche che, con poche eccezioni, gli altri paesi europei non prevedono. Per questo motivo l’industria ne chiede l’abolizione, rivendica il diritto di poter scegliere di non essere tutelata dalla pirateria con uno strumento che risulta inadatto allo scopo. “È bene precisare subito - spiega il senatore a Punto Informatico - che il bollino è un balzello iniquo che non serve certamente ad impedire le frodi”. L’industria si sente defraudata dall’anacronistica pratica della vidimazione, invoca la possibilità di investire sul mercato il denaro che spende nell’imbollinatura: “francamente - chiosa il senatore - penso che l’abolizione del bollino possa spingere a ripensare nuovi sistemi che consentano di conciliare le legittime pretese dei detentori dei diritti con le

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LIVIA MR DI PASQUALE aspettative degli utenti del mercato digitale. Non si può pensare di parlare di diritto d’autore legiferando solo in materia di pirateria: la pirateria è solo una parte del problema”. [...]

Ora, tutto ciò che vale qui per i supporti informatici e musicali, è valido altresì per i libri; in Italia gran parte degli scrittori sono convinti che sia la SIAE a tutelare il diritto d’autore, cosa che non risponde al vero. Facciamo chiarezza sui compiti della SIAE, ancora una volta (repetita iuvant). La SIAE, tramite registro OLAF, prende in carico i testi degli autori per consentir loro di dimostrare la precedenza rispetto ad eventuali altre opere “clonate”; obiettivo che si può raggiungere con un minore dispendio economico col metodo della vidimazione postale o della spedizione sigillata (sempre postale). Funge insomma da notaio, acquisendo un atto e datandolo. Questo per gli autori. Per gli editori – nel senso più ampio del termine, che include l’industria di libri, musica, informatica – la SIAE certifica il numero di copie circolanti apponendo il famigerato bollino. Peccato che questa sia una certificazione, anche in questo caso, ottenibile con metodi diversi (vidimazione singola tramite firma e fattura dello stampatore/ produttore del supporto fisico). Basterebbe consultare Wikipedia sulla SIAE: La SIAE non crea diritti d’autore, ma si limita a tutelare coloro che intendano depositare volontariamente le loro opere presso questo ente al fine di vederne protetta la paternità e i correlati diritti (l. 248/2000[1]). Il deposito non è obbligatorio in quanto il diritto d’auto-

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VITA DA EDITOR(E) 2009 re, per sua natura, sussiste sin dalla creazione dell’opera e quindi possono essere usati altri mezzi per la dimostrazione della titolarità dei diritti, come ad esempio Copyzero. Punti controversi: * La SIAE acquisisce un compenso (chiamato “equo compenso”) sui supporti vergini venduti in Italia. Ciò vuol dire che esiste una pretassazione su CD, DVD, musicassette, VHS, memorie digitali e pellicole fotografiche che si acquistano poiché si presume che qui vi si registri del materiale protetto dai diritti d’autore, anche se ciò non è detto che avvenga. * La facoltà della SIAE di poter chiedere un compenso su eventi di natura non lucrativa è stata fonte di polemiche. Un caso che fece molto discutere fu quello della richiesta di pagamento da parte della SIAE ad un’associazione che aveva preparato un piccolo spettacolo con dei bambini di Chernobyl che avevano cantato una canzone popolare bielorussa per ringraziare le famiglie che li avevano ospitati in Italia[3]. * La pretesa della SIAE di richiedere compensi per diritto d’autore anche per le attività didattiche è stata oggetto di un’interrogazione[4] al Governo da parte del senatore Mauro Bulgarelli, che ha anche proposto di valutare l’opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. * La SIAE svolge un ruolo preponderante nel Comitato consultivo permanente per il di-

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LIVIA MR DI PASQUALE ritto d’autore in base a norme poste in essere quando vigeva il Diritto corporativo. * La SIAE detiene nel territorio italiano un monopolio legale (ovvero concesso dallo Stato) sull’attività di intermediazione. Più volte è stato sollevato il problema dell’effettiva correttezza di una posizione del genere. Alcuni enti, come la FIMI, hanno chiesto che venisse modificato l’articolo 180 in favore di un mercato più concorrenziale. Stando all’art.181 bis della legge n. 633/1941, uno speciale contrassegno, comunemente denominato bollino SIAE, dovrebbe essere apposto su ogni supporto contenente opere protette dal diritto d’autore.Ma a seguito della Sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee[5] e di alcune Sentenze della Corte di Cassazione[6], è stato decretato che non costituisce reato la semplice assenza del contrassegno SIAE sui supporti contenenti opere dell’ingegno[7] come esplicitamente riportato sul sito della stessa SIAE, in cui viene anche spiegato più in dettaglio che per ciò che concerne il contrassegno, la stessa Corte [di Cassazione] ha applicato, nella sua massima estensione, il principio proposto dalla Corte di Giustizia Europea, secondo cui il bollino SIAE è qualificabile come regola tecnica. Questa regola, non essendo stata comunicata in via amministrativa dallo Stato Italiano all’Unione Europea, non è rilevante penalmente nei confronti dei privati, che non

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VITA DA EDITOR(E) 2009 appongono il contrassegno sui supporti[7]. Recentemente non solo con una decisione del Tribunale di Cesena è stato assolto un imprenditore a cui era stata contestata la commercializzazione in Italia di Cd-Rom privi del bollino[8], ma addirittura un editore italiano ha ottenuto dal Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo per 1,2 milioni di euro a carico della SIAE quale rimborso per quanto versato tra il 2004 e il 2008 per acquistare i bollini da porre sui supporti che diffondeva in allegato alle proprie riviste cartacee[9].

Di nuovo, e sempre, la stessa domanda: perchĂŠ abbiamo la SIAE, ormai soli con Portogallo e Romania?

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Creative commons

A marzo di quest’anno mi trovai a parlare, con quello che sarebbe diventato il mio “capo” qui su Liblog, dell’evoluzione dell’editoria nel mondo, del copyright, del copyleft e delle licenze CC. Dopo una mia iniziale diffidenza, legata più che altro alla mia concezione tradizionalista dell’editoria, ho iniziato a studiare, e sono pervenuta a diverse idee che vorrei condividere con voi. Riguardo al copyleft non mi sbilancio, sballottata tra chi lo intende come una forma di CC e chi come una rinunzia. Sulle licenze Creative Commons invece ho trovato abbondante materiale, molti pareri e molte accese discussioni. Una parte degli autori e degli editori, forse per ignoranza o forse per tendenze protezionistiche, combatte la diffusione delle CC. Ora che le ho studiate mi sembra un mistero: non ledono il diritto d’autore, non ledono la diffusione del libro, non ledono le vendite. Vediamo in dettaglio perché. Esistono più tipi di licenze, che riporto così come sul sito di CC Italia: • Attribuzione 2.5 • Attribuzione – Non opere derivate 2.5 • Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 • Attribuzione – Non commerciale 2.5 • Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 2.5 • Attribuzione – Condividi allo stesso modo 2.5 81


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Come potete notare i parametri variabili sono tre: Attribuzione - Commerciale/Non commerciale - Non opere derivate/Condividi allo stesso modo. Analizziamoli nel loro significato specifico. Attribuzione significa che viene riconosciuta una paternità all’opera. Questo, in Italia, è l’inalienabile diritto morale d’autore, che quindi è ampiamente tutelato. Non opere derivate significa che nessuno può trarne adattamenti, riduzioni, rielaborazioni o rifacimenti. Non commerciale significa che chiunque fruisca del materiale sotto la licenza non può trarne guadagno senza aver richiesto autorizzazione al titolare del diritto. Condividi allo stesso modo consente la rielaborazione e/o l’adattamento, ma chiunque lo faccia è tenuto a rilasciare secondo la stessa licenza e citando la sua fonte. La sola attribuzione significa che chiunque può fare un uso commerciale, non commerciale, una variazione, un adattamento o uno stravolgimento dell’opera. Poco indicata quindi per l’editoria, sicuramente. La seconda, attribuzione – non opere derivate, è invece poco utile per la creazione del fermento culturale, dato che consente di lucrare ma non di creare a partire dall’opera. E così via. Quelle veramente interessanti per l’editoria sono Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate insieme a Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo. Significa che si può liberamente riprodurre l’opera e le sue parti, purché non se ne tragga guadagno; nel primo caso non si può modificare l’opera né le sue parti, nel secondo si può creare qualsiasi altra opera liberamente citando o modificando la prima, adattandola, riprendendola. Materialmente, applicandolo ad un caso concreto: oggi la piccola c.e. XYZ pubblica il libro AAA con una delle due licenze qui sopra. Un lettore decide di farne un rea82


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ding pubblico in una biblioteca, gratuitamente: non deve richiedere nessuna autorizzazione. Un regista decide di farne un adattamento cinematografico per la tv: poiché ne trarrà guadagno dovrà contrattare col titolare dei diritti il loro acquisto. Nell’ultimo caso, poi, l’adattamento avrà per obbligo la stessa licenza. Quest’ultimo caso è per me il migliore: crea fermento intorno all’opera, crea cultura, sostituisce insomma per l’era informatica la posizione del salotto letterario ottocentesco, e prima ancora delle corti. Senza Molière dove sarebbe Goldoni? Ecco, spaventa il fatto che si possa scaricare liberamente il libro, cosa che peraltro avviene già illegalmente. Ma chi è in grado di leggere un libro di 400 pagine a video, rovinandosi gli occhi e restando incollato inoperosamente allo schermo? Uno dei piaceri del libro è la portabilità e la sensazione tattile: posso andare al parco, in spiaggia, in biblioteca o al bar, il libro non mi pone limiti. Chi ne ha una copia sul pc o una fotocopia e ha gradito il libro prima o poi lo comprerà: io ho fatto così con i libri che ho amato nel periodo universitario, e che ho letto rigorosamente in prestito (e qui colgo l’occasione per ringraziare gli amici). Non so poi cosa spaventi gli autori, che ne hanno il massimo vantaggio, ma questo sta a voi spiegarmelo.

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L’educazione, o quasi

Ovviamente s’intende l’educazione dello scrittore, dell’editore, del critico, non quella generica che ­dovrebbe – quanta tristezza il condizionale qui – regolare la vita quotidiana di tutti. L’educazione, questo lemma sconosciuto che genitori testardi si incaponivano a inculcare nelle teste dei loro figli, sembra ormai obsoleta. I miei penso ce l’abbiano fatta. Pur se a volte con lo stomaco in subbuglio mi sforzo di essere sempre ben educata; vorrei tanto che fosse un modo condiviso di vedere il mondo, ma mi accorgo che non è così. Vi farò qualche esempio, in ordine crescente di gravità. Partirò quindi dagli scrittori. Di recente, come sapete, io ed Emilia abbiamo fondato Tanit; non è passato nemmeno un mese e abbiamo in uscita il primo romanzo. Abbiamo scritto chiaramente che cerchiamo romanzi non di genere, lo abbiamo ripetuto a chi lo ha chiesto, lo abbiamo detto anche ai muri. Allora cos’è che ha spinto molti (almeno una quindicina) aspiranti scrittori a mandarci le loro raccolte di poesie e i loro fantasy, e racconti e materiali disparati? Cos’è che ha spinto uno di loro a scriverci “ve li propongo, per lo stile narrativo ed il genere a mio parere fresco e moderno che vedo contraddistinguere anche altri libri editi da voi”? La mancanza della benché minima educazione, quella che ti fa chiedere se veramente il tempo delle persone sia così futile e il tuo così prezioso da non perdere nemmeno uno dei tuoi istanti per verificare cosa effettivamente gli altri cercano. 85


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Passiamo ai recensori o meglio ai critici; io, chiaramente, non mi ritengo un critico, al massimo una sorella bibliomane a cui si chiede un consiglio su cosa leggere dopo. Ma i critici sono di più tipi, da quelli detti blurbisti, la cui frase tipica è “il romanzo (racconto-silloge poeticasaggio) che vi cambierà la vita”, agli stroncatori. Stroncare è facile, ed è divertente: dà una certa illusione di potere. Stroncare con classe è un esercizio di finezza non solo linguistica ma anche mentale. Ma stroncare con malagrazia e veemenza verbale è segno, a mio avviso, di mancanza proprio di educazione. Accanirsi sui dettagli con insulti, affermare di “disprezzare” lo scrittore (sic), non è acume, è maleducazione. Infine gli editori. Non molto tempo fa una persona che lavorava (lavora?) in una casa editrice apostrofò come “scribacchini” tutti gli scrittori che non hanno mai pubblicato (testualmente “Scrittore esordiente? Ma qui qualcuno ha mai pubblicato qualcosa? Se si, comunicatemi i titoli. Se no, non spacciatevi per scrittori, c’è differenza tra scrittori e scribacchini”), farcendo ogni commento di insulti, provocazioni e orrori grammaticali. Questo è un caso abbastanza palese di mancanza di educazione di base: c’è differenza tra scrittori e scribacchini, ma ce n’è altrettanta tra scribacchini e aspiranti scrittori (aggiungerei professionisti), e le due ultime categorie non coincidono affatto. Inoltre se la pubblicazione fosse il metro per distinguere scrittori e scribacchini, le librerie traboccherebbero di capolavori. Tutto questo per chiedervi, lettori, scrittori, editori, critici, di essere onesti, sì, ma anche educati. Che non fa mai male.

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Lettera all’editore

La parte più divertente, irritante, tragicomica, esasperante del lavoro dell’editore è la lettura delle mail la mattina. Come dice il buon Andrea Malabaila “Prendete una roulette che sta girando, e una pallina bianca che saltella in attesa di fermarsi su un numero. [...] Se siete fortunati, la pallina si bloccherà proprio sul numero o colore che avete giocato. Se non siete fortunati, perderete la vostra puntata. Lo stesso vale per un editore ogni volta che controlla la buca delle lettere o la casella e-mail [...]. Cliccare su “ricevi posta” è esattamente come lanciare quella pallina [...]”. Quello che non dice è che il calcolo delle probabilità è a nostro sfavore. In ogni caso sono pochissimi gli autori che hanno idea di come si scriva all’editore che si vorrebbe. Egoisticamente ora vi dirò cosa, secondo me, è opportuno o meno scrivere. Spero che questo mi serva a ricevere mail più organizzate. Iniziamo col campionario di casi: Mail vuota, con solo il testo allegato – Non si fa! Capisco che l’opera sia spesso considerata più importante, ma due righe di presentazione o quantomeno saluto sono opportune. Egr. responsabile, le invio in allegato il romanzo XXXX corredato dalla seguente breve descrizione dell’opera. Cordiali Saluti, XYZ – Responsabile di che? Acquisto graffette per la Mercedes? Buongiorno, sarei interessato alla pubblicazione del mio libro che vi mando in allega87


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to. – Buongiorno almeno è segno di educazione, ma per il resto non dovrebbe essere al contrario? Nome, cognome, indirizzo – Idem come all’inizio, non è un computer a leggere le mail, si tratta di persone, a cui una riga di saluto fa piacere. Da questo breve campionario trarremo delle semplici regolette, facili facili: 1. È buona norma salutare. 2. Altrettanto buona norma è non fare invii seriali ma specificare il nome dell’editore cui si scrive: si perdono 50 secondi e si guadagnano 100 punti. 3. Ottima misura è dimostrare di conoscere il proprio interlocutore. 4. Specificare cosa si dà in lettura ed eventualmente perché. 5. Aggiungere i dati che si ritengono necessari alla lettura. 6. Salutare di nuovo. 7. Firmare. Dato che quelli sopra riportati sono esempi reali ricevuti da Tanit, vi riporto una di quelle mail perfette, che rendono piacevole l’apertura della posta: Gentile redazione Tanit, mi chiamo XYZ e ho scoperto da poco la vostra interessante e nuovissima realtà editoriale. Vi allego il file in formato.doc con un mio romanzo dal titolo “ABC”, con allegati sinossi e presentazione, come da vostre indicazioni. Mi sento di precisare, per correttezza, che questo lavoro è in lettura anche presso qualche altra casa editrice. 88


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Vi auguro uno splendido periodo di appassionato lavoro e un buon week end, XYZ. Non so ancora se il testo scritto da questa persona sia valido, so che sicuramente la persona mi ha ben disposto e che mi ha regalato un sorriso.

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Cervello e pancia

Negli anni la mia percezione della parola scritta, della scrittura e della letteratura è cambiata più volte. Me ne accorgo confrontandomi con i giovani scrittori, anzi giovanissimi, quelli che oggi sono ancora alla scoperta della propria via e che magari saranno un domani dei novelli Saramago, chi lo sa? Chiacchierando con uno di loro ho avuto modo di riflettere sui due elementi che per me creano una buona scrittura: cervello e pancia. Capisco che il termine pancia possa offendere la sensibilità di molti “artisti”, ma sono mie opinioni e io non sono Umberto Eco, per cui mi si passi il vezzo di utilizzare una parola tanto vile per un concetto così aulico come l’ispirazione. Sì, perché non mi trovo a mio agio a parlare di Muse: avvolgono di un’aura da accoliti, da privilegiati un aspetto che, per me, è molto più sanguigno, quasi viscerale. La scrittura è stata idealizzata fin troppo e per questo ha subito uno sdoppiamento: da una parte i “puristi della scrittura”, quelli che aspirano a una letteratura tanto alta da risultare incomprensibile ai più (e forse anche a loro stessi), dall’altra gli scrittori commerciali, quelli che servono a batter cassa e hanno un successo che è solo di vendite, non legato al contenuto. Resiste – ma per quanto ancora? – una fascia media di letteratura che coglie lo spirito del suo tempo, che si sporca le mani, che usa, appunto, la pancia e che la filtra attraverso il cervello. Scrittori che sono immersi nel loro contesto e che non giudicano nessun lettore indegno di ciò che vogliono dire. 91


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Paradossalmente i “puristi” sono scrittori solo di pancia, e i commerciali solo di cervello. Il motivo è semplice: i primi si occupano solo di tirar fuori la loro idea, senza pensare che scrivere non è per sé, è per i lettori, i secondi si occupano solo di perfezionare il meccanismo alla base delle loro storie, affinché funzionino. Ne vengon fuori libri con grandissima ricerca terminologica, recupero di lemmi obsoleti (quasi accanimento terapeutico), un uso esasperato della dialettica, e libri che non usano più di 600 termini diversi. Ricominciamo da cervello e pancia, allora. Tutti e due: il cervello rende la pancia intellegibile, la pancia riporta il cervello sul piano concreto di confronto con la realtà.

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L’eco di Eco

Per questa settimana niente grammatica, solo consigli, peraltro di qualcuno molto più qualificato di me a darne agli scrittori. In un magnifico libro, La bustina di Minerva, che raccoglie una selezione dei testi dell’omonima rubrica, Eco modifica un vecchio vademecum con la sua consueta arguzia. Spero possa essere una lettura sia piacevole sia istruttiva per chiunque desideri intraprendere il difficile mestiere dello scrittore. 1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi. 2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario. 3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata. 4. Esprimiti siccome ti nutri. 5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc. 6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso. 7. Stai attento a non fare... indigestione di puntini di sospensione. 8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”. 9. Non generalizzare mai. 10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton. 11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.” 12.I paragoni sono come le frasi fatte. 13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già 93


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capito). 14. Solo gli stronzi usano parole volgari. 15. Sii sempre più o meno specifico. 16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive. 17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale. 18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente. 19. Metti, le virgole, al posto giusto. 20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile. 21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso. 22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia. 23. C’è davvero bisogno di domande retoriche? 24. Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media. 25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia. 26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile. 27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi! 28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri. 29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili. 94


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30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio. 31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo). 32. Cura puntiliosamente l’ortograffia. 33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni. 34. Non andare troppo sovente a capo. Almeno, non quando non serve. 35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione. 36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato. 37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni. 38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competente cognitive del destinatario. 39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che. 40. Una frase compiuta deve avere.

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Carta, ecologia e tendenze

Anche la produzione del libro si fa attraversare da correnti, tendenze per così dire, condivise. Molti editori, forse perché appartenenti a poderose strutture imprenditoriali, holding vere e proprie, modificano in sincrono le loro preferenze stilistiche riguardo il para-testo librario. Ho notato con piacere che le tendenze della filiera del libro si spostano verso l’accuratezza nei dettagli, visto forse il costo crescente del prodotto editoriale (costo medio ormai dai 10 ai 20 euro, che rappresentano nella nostra ex-moneta 20mila e 40mila lire, mica poco). Toccando ad occhi chiusi le copertine ormai si incontrano satinature perfette, elementi a rilievo con colori plastificati, ribattuti dall’interno per creare l’effetto di sopraelevazione. Mi ha molto colpita la copertina di un libro letto di recente, della casa editrice laNuovaFrontiera, che presentava dei fori: una lavorazione che prevede la fustellatura, operazione aggiuntiva e non inclusa nel lavoro ordinario. Mi ha colpita in positivo e non so perché: mi ha dato il senso di cura ed attenzione al particolare, mi ha ispirata. Al contrario un po’ mi infastidisce aver perso il rigoroso bianco delle edizioni Einaudi Tascabili, quella sensazione di purezza e perfezione che mi sapeva trasmettere, quell’identificazione. Le immagini a tutto campo che hanno inserito mi ispirano solo confusione. Altra attenzione importante comincia ad essere quella per la carta. Io ho le mie preferenze, sia di spessore sia di levigatezza. Ma noto che molti adesso utilizzano carta leggera e voluminosa che aumenta il dorso a parità di pa97


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gine, ed inizia finalmente a diffondersi, con mio sommo piacere, l’uso di carta riciclata. Ancora è un po’ poco, preferirei che si diffondesse l’uso di carta ricavata da alghe, perfetta (ne ho un campionario e non si nota nessuna differenza) e che non ha mai leso nessun albero. Purtroppo però ancora il costo rende difficile la sua diffusione. Quando si deve preparare un preventivo per il tipografo, bisogna necessariamente cominciare a valutare i tipi di carta e la scelta etica sottesa. Il costo della carta riciclata, mi spiegava il nostro tipografo, incide per circa il 30% sulle spese di stampa, se si vuole una carta come la Favini Shiro, che non solo è fabbricata senza alberi (da un’alga), ma è anche trattata senza prodotti nocivi durante tutta la sua preparazione. Una carta quindi a impatto zero. Il che significa che un libro che al pubblico costa una decina di euro dovrebbe salire al prezzo di 13 o 14 euro; se per una megacasaeditrice con un pubblico di lettori abituali potrebbe essere un fattore che incide in modo blando (cosa che non reputo vera, in questo periodo di crisi diffusa), per un piccolo editore è quasi impossibile. Per chi vuole portare a contatto con un vasto pubblico autori esordienti è una scelta ardua: aumentare il prezzo, quindi ridurre drasticamente i possibili acquirenti, o mantenere un prezzo abbordabile e permettere agli emergenti di farsi conoscere dal pubblico più vasto possibile? Molti piccoli editori (Tanit inclusa) hanno preferito la seconda opzione, pochissimi la prima, qualcuno è riuscito (e speriamo di cavargli il segreto) a mantenere prezzi accessibili utilizzando carta riciclata. Speriamo che la cultura della carta riciclata si diffonda tanto da permettere l’abbattimento di questi costi: ne trarremmo giovamento tutti, sia a breve che a lungo termine. 98


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O quantomeno che, tra le tante sovvenzioni che vanno sprecate a destra e a manca, se ne crei una per supportare l’uso di carta tree-free a tutti i livelli, sia in editoria che nella pratica quotidiana.

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Il manifesto di Moscatelli o Dell’informazione

Di recente tutte le mie strade informatiche hanno incrociato quelle di Moscatelli, come quelle coincidenze che ti fanno riflettere. Pochissimo tempo fa questo sognatore è riuscito a sintetizzare (oddio... il testo è un po’ lungo) dieci punti argomentati in cui dimostra l’assurdità del contributo editoriale. Il suo manifesto è leggibile sul sito ma, data la lunghezza, ne ho impaginato personalmente un pdf. Una delle mie perplessità, chiacchierando col curatore, è che mi sembrava si rivolgesse più agli scrittori che agli editori, e che fosse molto idealista e poco operativo; non vogliono essere critiche, ma semplici puntelli su cui, magari, strutturare il passo successivo. In effetti il destinatario del manifesto è lo scrittore, ma l’adesione comporta anche una presa di posizione comune, un’alleanza tra piccoli editori, il condividere un fronte. Quello che non mi aspettavo è di piombare in una situazione che mi ricordasse quanto è importante fare informazione sull’editoria a pagamento. Entro in una fumetteria; chiacchiero un po’ con i ragazzi all’interno, un lui e una lei, e parlando si arriva anche al famoso “tu che fai?”, che, a seconda del soggetto, prelude a un paio d’ore di tragedia o un simpatico scambio d’idee. Quando si comincia a parlare di editoria, come dico spesso, si scopre che chiunque è uno scrittore di primo o di secondo grado (scrittore in prima persona o amico di uno scrittore – aspirante, sedicente, esordiente). Così, mi son trovata davanti uno scrittore di secondo grado, lui, e 101


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una scrittrice, lei; per comodità nel riportare il dialogo li chiamerò Orazio e Clarabella (continua la sfida per ricevere la denuncia di violazione copyright). Clarabella: Vi è arrivato per caso questo libro? – andando verso la vetrina per prendere un volumetto. Io: veramente non ho una libreria, proprio una casa editrice; i libri non li riceviamo, li facciamo. Clarabella: Ah. Ma l’hai visto in qualche libreria? Orazio: Beh, faglielo vedere comunque, no? Io prendo in mano il volumetto, e dopo pochissimo dico: beh, è chiaramente un libro di un editore a pagamento, è difficilissimo che sia in qualche libreria. Orazio e Clarabella, sorpresissimi: Perché, esistono anche editori non a pagamento? Due minuti di silenzio per riprendermi. Facciamo tre, va’. La discussione tocca il suo apice quando mi chiedono io come ci guadagno; e se a me pare lapalissiano che per guadagnare si debbano vendere i libri, a loro no. Allora faccio l’esempio della fumetteria: “Tu ricevi i fumetti dal distributore, che ti fornisce la materia prima per la tua attività; è il distributore a pagare te per farsi esporre? No, il distributore viene pagato da te e tu ricevi il tuo compenso dal compratore, giusto? E allora perché l’editoria dovrebbe essere l’unica impresa a fare eccezione?”. Morale della favola, e di una mezz’oretta di chiacchierata: Clarabella ha pagato 200 copie da 135 pagine, rilegatura a colla (non a filo), non brossurate, copertina molle, nessuna grafica, nessun editing più di quattro volte il rea102


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le costo di stampa, avendone in cambio una cosa che ha la forma di un libro ma che libro non è, peraltro al prezzo di copertina di 16 euro, rendendosi di fatto invendibile. Che sia il prossimo Saramago o la peggiore imbrattacarte del mondo, non ha importanza: non avrà mai la possibilità di saperlo, proprio perché ha pagato. Non avrà promozione, perché ha pagato (che m’importa vendere, se ho già abbondantemente coperto le mie spese?), non avrà accesso a librerie e recensioni. Non avrà insomma nulla, ma senza un incontro come quello fortuito di ieri sarebbe stata convinta di aver pubblicato, quando invece ha solo stampato. Lei era onestamente e genuinamente convinta che fosse la norma, che fosse la via per diventare scrittori, e ho letto sul suo viso prima la delusione, poi la rabbia, e ancora un’infinita modulazione di sentimenti di sconfitta. Ma la sconfitta non è sua, è nostra, dei piccoli editori che non sanno affermare la loro esistenza tanto da far capire a questi ragazzi che la Vanity press non è editoria ma stampa. E che se proprio ci tengono tanto costa meno andare in tipografia a farsi stampare le proprie cento copie, duecento, per soddisfazione personale. La sconfitta è nostra perché non riusciamo a far sapere a tutti che la norma non è quella, non è giusto pagare, non si deve. La sconfitta è nostra perché ti chiedono come ci guadagni, perché ti guardano come un alieno, perché sono stupiti della tua esistenza. Oggi le ho stampato una copia del manifesto, e gliela porterò più tardi. Penso che ne stamperò un bel po’, a onor del vero, e le distribuirò in giro per Catania, città appestata da editori a pagamento (per il 90%, ahimè).

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Tendenze canose

Canoso è uno dei miei neologismi preferiti, non so se l’abbia coniato qualcuno di famoso ma è così che definisco tutto ciò che attiene ai miei adorati pelosi canidi. Ed è il termine più appropriato, secondo me, per definire la tendenza attuale a dare spazio nella narrativa agli animali. È vero, hanno sempre avuto un ruolo, sebbene marginale. Mi viene in mente Cuore di cane, per citare un libro a caso (che però non è proprio un libro sui cani, ecco), e poco più di questo (sì, sì, non scordo Cujo). Per il resto sono stati relegati a comparse, in centinaia di pubblicazioni, o sono stati protagonisti di manuali per fortuna ormai obsoleti. Adesso invece noto la tendenza sempre maggiore a farli diventare protagonisti; partita in sordina, ormai sta diventando un vero e proprio filone, come la chick-lit, ad esempio. Tutta una narrativa che non solo si interessa agli animali, ma li erge a personaggi principali, nuclei veri e propri della narrazione. Storie di animali e altri viventi apre idealmente questa parata, e poi abbiamo l’ebook Il gatto che cadde dal sole, Io e Marley, La mia vita con George, e ultimo, fresco di stampa, L’arte di correre sotto la pioggia. Di quest’ultimo ho letto l’anteprima grazie all’abitudine ormai diffusa di farne versioni cartacee e distribuirle in libreria. E lo trovo carino, ben scritto; strizza l’occhio al lettore che ama i cani e si fa leggere da chi non li ama. Ma soprattutto apprezzo che sia un altro passo nella diffusione della comprensione del mondo animale. Che possa 105


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servire a scardinare l’idea che “è solo un cane/gatto/cavallo” e che non sia degno di stima e affetto e garanzie come ogni altro vivente (persino l’uomo). Non amo un’unica cosa: la tendenza al patetico, a rappresentare scene molto commoventi, a studiare l’intreccio per spingere all’emotività. Alcuni di questi libri sugli animali infatti sono costruiti in modo estremamente commerciale, con dei punti standard che sono sicuramente toccanti ma che diventano dopo un po’ stucchevoli. Rimane il senso positivo di queste pubblicazioni e l’attenzione al mondo animale che per me è un cardine essenziale dell’evoluzione umana, e spero si corregga un po’ il tiro. Ciò detto mi chiedo se non si debba iniziare a trovare un nome per questo filone (ammesso che non l’abbia già e io lo ignori); propongo puppy-lit o pet-lit, quest’ultimo forse un po’ cacofonico ma efficace. E voi?

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Grammatica

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Grammatica di base per tutti Nome e Cognome

A quanti capita di essere in dubbio sul compilare dichiarazioni o autocertificazioni? Per quel che ho potuto personalmente constatare, suppongo che siano molti a non sapere mai se vada scritto prima il cognome e poi il nome. Sembrerà anacronistico di questi tempi, in cui la formalità è pressoché abolita ed è più facile che si conosca qualcuno per nickname (“piacere, sono bubbone75”); eppure succede ancora spesso di conoscere qualcuno e sentirsi dire “Piacere, Bianchi Mario”. Davvero. L’effetto comico è quasi irresistibile, e il pensiero fatica a non correre immediatamente a qualche personaggio “di supporto” dei romanzi di Camilleri, qualcuno di cui lo stesso autore dice abbia il complesso dell’anagrafe. A meno di non chiamarsi Fazio ed essere quindi immortalati in un famoso romanzo, Cognome e Nome come formula è da evitare sia nello scrivere sia, a maggior ragione, nel parlare. Ora, volendo proprio scomodare il Codice Civile, si può leggere al Libro primo, articolo 6 che: Ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome. Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati. 111


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In poche parole, ad eccezione degli elenchi alfabetici in cui, per necessità ed ottimizzazione, il cognome precede il nome, si considera normale e corretta l’indicazione di Nome (ossia prenome) e Cognome. Per cui, a meno che sulle vostre moo-card non sia scritto “puffettinogoloso57” potrete tranquillamente presentarvi, firmare e compilare documenti ufficiali senza “sindrome dell’anagrafe”.

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Grammatica di base per tutti Femminile o maschile?

Ricordo ancora qualcosa della mia prima settimana al liceo, un po’ per l’emozione un po’ per la stranezza di essere l’unica ad avere un compagno di banco e non una compagna di banco. Molti si conoscevano da prima, io non conoscevo nessuno. E trovai un compagno di banco che iniziò subito a prendermi in giro (eppure non avevo l’aria da “secchiona”). Così, quando arrivammo a leggere non so più quale poesia, trovando l’eco seguito da un aggettivo, trovò risibile la mia ignoranza, dato che sostenevo che l’eco fosse femminile. Finisce in -o, quindi è maschile. Nessun appello. Da quest’episodio cominciai ad avere il suo rispetto, quando con pazienza l’insegnante gli spiegò anche il motivo per cui eco è femminile (motivo anche mitologico). Vero è che gran parte delle parole che terminano in -o sono maschili, e in -a femminili. Ma non possono sfuggire esempi contrari che hanno un uso quotidiano. Basti pensare alla mano, femminile, o al gorilla, maschile. La presenza di nomi femminili in -o oppure di maschili in -a ha diverse ragioni: in alcuni casi dipende dalla loro etimologia, in altri dall’essere abbreviazioni di sostantivi. Alla prima categoria appartengono ad esempio poeta, virago e problema; alla seconda cinema, foto, radio. So che suona noioso, ma anche qui un buon metodo, oltre a cercare autonomamente di ricostruire l’etimo o la derivazione, è tenere sempre il vocabolario a portata di mano, per ogni dubbio. 113


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Grammatica di base per tutti verbi difficili

Non tutti i verbi sono semplici da coniugare: se alcune forme non prestano spazio al dubbio o all’interpretazione altri mettono in difficoltà persino i più esperti scrittori. Ecco, in sintesi, un po’ di verbi ostici, chiariti con l’ausilio di un po’ di Crusca. Imperfetto dei composti del verbo dire: si segue la coniugazione del verbo dire, ovvero la forma -dicevo; quindi si ha benedicevo, indicevo, interdicevo, contraddicevo. Sono forme che hanno una ragione etimologica (dire viene dal latino dicere). Lo stesso vale, comunque, per ogni altro tempo di questi composti. Identico discorso per i composti del verbo venire: seguono la coniugazione del verbo base, e non sottostanno alle regole della terza coniugazione (-ire). Sì, pertanto, alle forme convenni, divenni, intervenni, no alle forme convenii, divenii, intervenii. Indovinate un po’ cosa avviene per i composti del verbo fare? Seguono la coniugazione di fare, ma stavolta abbiamo un’eccezione; le forme disfare e soddisfare infatti hanno alcune forme distintive per il congiuntivo e l’indicativo presente, per futuro e condizionale: soddisfo, soddisferò, soddisferei, et similia. Restano comunque fisse le forme dell’imperfetto, sia indicativo sia congiuntivo. Cuocere ormai non dovrebbe rappresentare un problema, ma poiché repetita iuvant meglio ricordare ancora una volta che il suo passato remoto è cossi. Sepolto e seppellito, sono ambedue validi participi passati del verbo seppellire (mi raccomando, seppellire, 115


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non seporre). La forma più comune è sepolto, che rispetta maggiormente l’etimologia. E adesso proprio dal sito un rapido elenco di dubbi risolti: Accedere: passato prossimo io ho acceduto, passato remoto io accedei/accedetti, tu accedesti, egli accedé/accedette. noi accedemmo, voi accedeste, essi accederono/accedettero; participio passato acceduto. Dirimere: passato remoto io dirimei/dirimetti, tu dirimesti, egli dirimé/dirimette, noi dirimemmo, voi dirimeste, essi dirimerono/ dirimettero; participio passato non in uso. Espellere: indicativo presente io espello, tu espelli, egli espelle, noi espelliamo, voi espellete, essi espellono; congiuntivo presente che io espella, che tu espella, che egli espella, che noi espelliamo, che voi espelliate, che essi espellano; passato remoto io espulsi, tu espellesti, lui espulse, noi espellemmo, voi espelleste, essi espulsero; participio passato espulso. Nuocere: passato remoto io nocqui, tu nocesti, egli nocque, noi nocemmo, voi noceste, essi nocquero; participio passato nociuto. Piacere: indicativo presente io piaccio, tu piaci, egli piace, noi piaciamo, voi piacete, essi piacciono; passato remoto io piacqui, tu piacesti, egli piacque, noi piacemmo, voi piaceste, essi piacquero; congiuntivo presente che io piaccia, che tu piaccia, che egli piaccia, che noi piacciamo, che voi piaciate, che essi piacciano; participio passato piaciuto. 116


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Premere: passato remoto io premei/premetti, tu premesti, egli premé/premette, noi prememmo, voi premeste, essi premerono/ premettero; participio passato premuto. Rimuovere: indicativo presente io rimuovo, tu rimuovi, egli rimuove, noi rimuoviamo, voi rimuovete, essi rimuovono; passato remoto io rimossi, tu rimovesti, lui rimosse, noi rimovemmo, voi rimoveste, essi rimossero; participio passato rimosso. Sapere: passato remoto io seppi, tu sapesti, egli seppe, noi sapemmo, voi sapeste, essi seppero; participio presente sapiente; participio passato saputo. Scuotere: passato remoto io scossi, tu scotesti, lui scosse, noi scuotemmo, voi scoteste, essi scossero; participio passato scosso. Soccombere: passato remoto io soccombei/ soccombetti, tu soccombesti, egli soccombé/ soccombette, noi soccombemmo, voi soccombeste, essi soccomberono/soccombettero; participio passato non in uso. Solere: indicativo presente io soglio, tu suoli, egli suole, noi sogliamo, voi solete, essi sogliono; passato remoto io solei, tu solesti, egli solé, noi solemmo, voi soleste, essi solerono; participio passato sòlito. Splendere: passato remoto io splendei/ splendetti, tu splendesti, egli splendé/splendette, noi splendemmo, voi splendeste, essi splenderono/splendettero; participio passato (raro e inserito solo in alcuni dizionari) splenduto. 117


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Grammatica di base per tutti Ausiliari

Moltissime persone sono perennemente in dubbio su quale sia l’ausiliare giusto, ricorrendo a vere e proprie forme di contorsionismo verbale pur di non utilizzarne. Essere, avere, e in qualche caso eccezionale venire, mettono in crisi nei tempi composti. Facciamo prima di tutto una panoramica generale, per poi approfondire qualche caso particolare o dubbio. • Verbi transitivi Si usano sia essere sia avere: essere per formare il passivo, avere per i tempi composti. Esempio banale: Mario ha picchiato Giovanni - Giovanni è stato picchiato da Mario. • Verbi intransitivi Questa categoria è quella con maggiori problemi, da dirimere in genere con un vocabolario. Ma alcuni linguisti hanno proposto una tassonomia che io trovo efficace, e che utilizzo nei casi dubbi, formulata a partire dal participio passato. Se il participio può essere utilizzato come asserzione bisogna utilizzare l’ausiliare essere, altrimenti avere. Esempio: Rimasto - Il quadro è rimasto qui (l’oggetto rimasto si può dire); digiunato - l’eremita ha digiunato a lungo (l’uomo digiunato non si può dire). Non pretende di essere un criterio esaustivo, ma finora per me ha funzionato. Alcuni verbi poi si possono considerare ed utilizzare con valore sia transitivo sia intransitivo, passando dall’essere per il passivo all’avere per i composti - Pietro è stato cresciuto dai nonni - La nonna ha cresciuto Pietro. Venire, come ausiliare, sostituisce l’essere nel caso in cui ci sia una differenza fra azione in svolgimento da 119


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parte di qualcuno e azione svolta. C’è una sostanziale differenza tra “il regalo è scartato” e “il regalo viene scartato”. Ovviamente questo funziona esclusivamente nei tempi semplici. Fra quelli di più difficile attribuzione troviamo in prima posizione i verbi di tempo meteorologico: piovere, nevicare, grandinare. Sono tutti difettivi e generalmente intransitivi, se non per qualche uso eccezionale. E anche se è invalso l’uso dell’ausiliare avere, per le forme impersonali, essere invece si può utilizzare per tutte le forme, e quindi, per me, è preferibile. Per i verbi servili invece è sufficiente scoprire quale sia l’ausiliare del verbo che regge, ed utilizzare quello. Particolarità vuole che nel caso in cui un servile regga il verbo essere il suo ausiliare sarà necessariamente avere. Direi che la panoramica si può chiudere qui; e comunque, per tutti i casi dubbi o eccezionali, il mio fedele Devoto-Oli è sempre al mio fianco.

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Grammatica di base per tutti Parole straniere

Di solito mi occupo di lingua italiana, il venerdì. Ma poiché alcuni “barbarismi” sono entrati nell’uso comune, meglio sapere come si scrivano e come si pronuncino. La tendenza italiana è infatti quella di assimilare ogni parola straniera alla parlata anglofona, che già in Italia è di per sé difettosa. Non sto qui a perorare la causa di quanti vorrebbero una traduzione per ogni termine straniero, un adattamento linguistico o un neologismo equivalente. Trovo che quando è possibile, ovviamente, si debba preferire la forma italiana, ma trovo anacronistico e anche depauperante per una lingua viva come l’italiano cercare obbligatoriamente delle traduzioni forzate. Voglio anzi ricordare qui che la lingua italiana è creditrice di numerosi prestiti agli stranieri, molti più di quanti ne abbia ricevuti. Oggi ne voglio affrontare due particolarmente dubbie: privacy e stage. • Privacy Privasi o pràivasi? Ormai è attestata la seconda forma, più universalmente diffusa, anche se la prima dizione è ben lungi dall’essere scorretta ed è anzi largamente diffusa proprio in Inghilterra. Io opto per la seconda perché credo che in certi casi ci si debba adattare alla forma più conosciuta, per essere compresi ovunque. • Stage, internship o apprendistato. Eccola qui, terrore perfino dei telegiornali. Stage è parola francese, e come tale va pronunciata stàj (perdonate, non riesco ad inserire la trascrizione fonetica); il suo corrispettivo inglese è internship, che corrisponde alla forma 121


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italiana tirocinio o apprendistato. Se qualcuno vi dovesse dire “sto facendo uno steig (pronuncia all’inglese)”, chiedetegli da quanto si applica alla falegnameria: avrebbe appena detto infatti che sta costruendo un palcoscenico. Purtroppo in Italia è una forma particolarmente diffusa, benché in paesi ben più anglofoni si preferisca la pronuncia francese.

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Grammatica di base per tutti Congiuntivo e condizionale

Sorgono da più parti comitati di salvaguardia del congiuntivo, che fanno riflettere su quanto la nostra lingua stia cambiando. Posto che, se mai dovesse trasformarsi in un tempo desueto io per prima lo eliminerei dal mio italiano, dato che ancora non siamo, fortunatamente, a questo punto, direi che è opportuno rinfrescare le regole d’uso. Il congiuntivo ha la funzione principale di indicare un’azione o un evento incerto, “non obiettivo o non rilevante”. Nei periodi ipotetici viene introdotto dalla particella se, e seguito poi da un condizionale nella reggente. Il condizionale si usa per esprimere eventi e situazioni subordinate a condizioni o a seguito di proposizioni ipotetiche introdotte da se + congiuntivo. Si può utilizzare quindi sia accompagnato da complementi sia da frasi subordinate. Vediamo come si può usare il congiuntivo nelle proposizioni indipendenti, o meglio che valore ci indichi l’Accademia della crusca: -esortativo (al posto dell’imperativo): vada via di qua!; -concessivo (segnalando un’adesione, anche forzata, a qualcosa): venga pure a spiegarmi le sue ragioni; -dubitativo: che abbia deciso di non venire? (analogamente si può usare l’indicativo futuro: sarà vero?; l’infinito: che fare?; il condizionale: cosa gli sarebbe successo?); -ottativo (per esprimere un augurio, una 123


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speranza, ma anche un timore): fosse vero!; -esclamativo: sapessi quanto mi costa ammetterlo!. Il congiuntivo si usa nelle subordinate invece: 1) con alcune congiunzioni subordinanti, quali affinché, benché, sebbene, quantunque, a meno che, nel caso che, qualora, prima che, senza che; 2) con aggettivi o pronomi indefiniti (qualunque, chiunque, qualsiasi, ovunque, dovunque); 3) con espressioni impersonali, come è necessario che, è probabile che, è bene che; 4) in formule ormai fissate nell’uso (vada come vada; costi quel che costi). Reggono il congiuntivo i verbi che esprimono “una volizione (ordine, preghiera, permesso), un’aspettativa (desiderio, timore, sospetto), un’opinione o una persuasione”, tra cui: accettare, amare, aspettare, assicurarsi, attendere, augurare, chiedere, credere, curarsi, desiderare, disporre, domandare, dubitare (ma all’imperativo negativo può richiedere l’indicativo: “non dubitare che faremo i nostri conti”, C. Collodi, Le avventure di Pinocchio), esigere, fingere, illudersi, immaginare, lasciare, negare, ordinare, permettere, preferire, pregare, pretendere, raccomandare, rallegrarsi, ritenere, sospettare, sperare, supporre, temere, volere. Richiedono l’indicativo, solitamente, i verbi che esprimono giudizio o percezione, tra 124


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cui accorgersi, affermare, confermare, constatare, dichiarare, dimostrare, dire, giurare, insegnare, intuire, notare, percepire, promettere, ricordare, riflettere, rispondere, sapere, scoprire, scrivere, sentire, sostenere, spiegare, udire, vedere. Infine, alcuni verbi possono avere l’indicativo o il congiuntivo, con sfumature diverse di significato (su cui cfr. SERIANNI 1989: XIV 51). ammettere, ind. ‘riconoscere’: ammisi davanti al professore che non avevo studiato bene; cong. ‘supporre, permettere’: ammettendo che tu abbia ragione, cosa dovrei fare?; badare, ind. ‘osservare’: cercò di non badare all’effetto che gli faceva quella strana voce; cong. ‘aver cura’: mi consigliava di badare che non cadessi; capire, comprendere, ind. ‘rendersi conto’: non vuole capire che io non sono un suo dipendente; cong. ‘trovare naturale’: capisco che tu voglia andartene; considerare, ind. ‘tener conto’: non considerava che nessuno voleva seguirlo; cong. ‘supporre’: arrivò a considerare che non ci fossero altre possibilità; pensare, ind. ‘essere convinto’: penso anch’io che tu sei stanco; cong. ‘supporre’: penso che tu sia stanco. Mi viene in mente un caso in cui al se segue il condizionale: anche se avrei potuto leggere di più, ho evitato per non affaticare gli occhi. Mi sapete dire perché? 125


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Grammatica di base per aspiranti scrittori Gli accenti

Mi lamento spesso degli orrori grammaticali che arrivano con gli scritti in redazione. Ebbene forse è il momento di smettere di lagnarsi e dare qualche dritta per un controllo ortografico accurato prima della spedizione della vostra opera. Sono certa che non facciate questi sbagli, ma un ripassino veloce non farà male. Ormai con i vari programmi, openoffice, word e simili, gli errori ortografici puri si sono ridotti drasticamente, per fortuna. Ma i programmi sono pur sempre programmi, ed hanno un bel correggere gli strafalcioni, gli autori sanno inventare sempre qualcosa di nuovo. Prontuario dei tasti dolenti, con l’aiuto dell’Accademia della crusca: NON si apostrofa qual è. Mai. Ci sono dei motivi per cui esistono accenti di due tipi ed apostrofi, vediamo un po’ che uso farne: richiedono l’accento acuto sulla e finale: affinché, benché, cosicché, finché, giacché, né, nonché, perché, poiché, purché, sé (come pronome: “Tizio pensa solo a sé”), sicché, ventitré e tutti i composti di tre (trentatré, quarantatré, centotré, ecc.); infine, le terze persone singolari del passato remoto di verbi come battere, potere, ripetere, ecc.: batté, poté, ripeté, ecc. In tutti gli altri casi, l’accento sulla e finale è grave. Ricordate, in particolare, di segnarlo sulla terza persona del presente indicativo del verbo essere: è, su tè e su caffè. Mettere l’accento o meno in alcuni casi non è facile. Bisogna ricordare che l’accento non si mette sui monosillabi (che orrore leggere: Non ci stà). Quindi non hanno mail’ac127


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cento va (terza persona di andare), fa, sta, qui, qua. dà (verbo dare): Mi dà fastidio - da (preposizione): Vengo da Bari dì (il giorno): La sera del dì di festa - di (preposizione): È amico di Marco è (verbo essere): È stanca - e (congiunzione): coltelli e forchette là (avverbio di luogo): vai là - la (articolo o pronome): La pizza, la mangi? lì (avverbio di luogo): Rimani lì - li (pronome): Non li vedo né (congiunzione negativa): Né carne né pesce - ne (avverbio o pronome): Me ne vado; te ne importa? sé (pronome): Chi fa da sé fa per tre - se (congiunzione): Se torni, avvisami sì (affermazione): Sì, mi piace - si (pronome): Marzia non si sopporta tè (la bevanda): Una tazza di tè - te (pronome): Dico a te! Per gli apostrofi, questi indicano elisione: caso celeberrimo è il va’ pensiero (elisione da vai pensiero, quindi corretto). Seguono questa regola po’ (poco), fa’ (solo quando indica seconda persona - fai). E per gli amanti del web, che spessissimo usano l’apocope (non è una parolaccia, ora vedrete), ecco grafie corrette, in neretto, ed in corsivo gli Orrori più usuali: Beh o be’ - bhe, bhé Mah - mha Ehm - hem, em

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Grammatica di base per aspiranti scrittori Doppia i

Come si forma il plurale delle parole che terminano in -io? Sembrerebbe facile, ma in realtà così non è. La lingua italiana è più complessa di quanto non possa apparire e questo è uno dei casi più controversi. Esistono almeno (e sottolineo almeno) due tipi di plurale per i lemmi in -io, distinguibili in base alla posizione dell’accento tonico. Nel caso in cui l’accento cada sulla i di -io, la o si trasforma in una seconda i (ad esempio rìo - rìi). Se invece l’accento si trova all’interno della parola, verrà semplicemente eliminata la o terminale (ad esempio maglio – magli). Allora perché di tanto in tanto si trova una doppia i per formare il plurale di termini in -io? La -ii (meno di frequente l’accento circonflesso) è una forma utilizzata per eliminare ambiguità del testo, per distinguere nei casi in cui la parola possa essere scambiata per un altro plurale (omicidio e omicida dovrebbero portare ambedue al plurale omicidi). Fortunatamente, però, è un uso che sta diventando obsoleto, per due motivi fondamentali: in alcuni casi si opta per evidenziare l’accento (prìncipi – princìpi), ma in generale basta esaminare il contesto; se dico “Gli omicidi saranno presto catturati dalla polizia” ci sono pochi dubbi sul sostantivo che sto utilizzando. Consigliabile, quindi, evitare la forma della doppia i, che conferisce al testo un sapore arcaico.

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Grammatica di base per aspiranti scrittori La punteggiatura

Esiste un libro, Virgole per caso, che ha per argomento proprio l’uso della punteggiatura sbagliata. Scritto da una giornalista stufa, come me, di leggere, anche presso i suoi colleghi, errori continui. Vediamo cosa dicono gli amici dell’Accademia della Crusca, sempre loro, sulla punteggiatura. Il punto si usa per indicare una pausa forte che indichi un cambio di argomento o l’aggiunta di informazioni di altro tipo sullo stesso argomento. Si mette in fine di frase o periodo e, se indica uno stacco netto con la frase successiva, dopo il punto si va a capo. Il punto è impiegato anche alla fine delle abbreviazioni (ing., dott.) ed eventualmente al centro di parole contratte (f.lli, gent.mo), ricordando che in una frase che si concluda con una parola abbreviata non si ripete il punto (presero carte, giornali, lettere ecc. Non presero i libri). La virgola indica una pausa breve ed è il segno più versatile, «può agire all’interno della proposizione, ma anche travalicarne i confini e diventare elemento di organizzazione del periodo nella sua funzione di cesura fra le diverse proposizioni» Si usa, o almeno si può usare, la virgola: negli elenchi di nomi o aggettivi, negli incisi (si può omettere, ma se si decide di usarla va sia prima sia dopo l’inciso); dopo un’apposizione o un vocativo e anche prima di quest’ultimo se non è in apertura di frase (Roma, la capitale d’Italia. Non correre, Marco, che cadi). Nel periodo si usa per coordinare frasi senza congiunzione (es: studiavo poco, 131


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non seguivo le lezioni, stavo sempre a spasso, insomma ero davvero svogliato), per separare dalla principale frasi coordinate introdotte da anzi, ma, però, tuttavia e diverse subordinate (relative esplicative, temporali, concessive, ipotetiche, non le completive e le interrogative indirette). Le frasi relative cambiano valore (e senso) a seconda che siano separate o meno con una virgola dalla reggente: gli uomini che credevano in lui lo seguirono è diverso da gli uomini, che credevano in lui, lo seguirono. La virgola NON si usa mai: tra soggetto e verbo (se non nei casi sopra indicati); tra verbo e complemento oggetto; tra il verbo essere e l’aggettivo o il nome che lo accompagni nel predicato nominale; tra un nome e il suo aggettivo. Il punto e virgola segnala una pausa intermedia tra il punto e la virgola e il suo uso dipende dalla scelta stilistica personale. Serve a indicare un’interruzione formale ma non nei contenuti. I due punti avvertono che ciò che segue chiarisce, dimostra o illustra quanto è stato detto prima. Serianni riconosce quattro funzioni dei due punti: sintattico-argomentativa (si introduce la conseguenza logica o l’effetto di un fatto già illustrato); sintattico-descrittiva (si esplicitano i rapporti di un insieme); appositiva (si presenta una frase con valore di apposizione rispetto alla precedente); segmentatrice (si introduce un discorso diretto in combinazione con virgolette e trattini). I due punti introducono anche un discorso diretto (prima di virgolette o lineetta) o un elenco. Il punto interrogativo si usa nelle interrogative dirette, segnala pausa lunga e intonazione. Il punto esclamativo è impiegato dopo le interiezioni e alla fine di frasi che esprimono stupore, meraviglia o 132


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sorpresa; segnala una pausa lunga e intonazione. -I punti esclamativo e interrogativo possono essere usati insieme, soprattutto in testi costruiti su un registro brillante, nei fumetti o nella pubblicità. I puntini di sospensione sono sempre tre e si usano per indicare la sospensione del discorso, quindi una pausa più lunga del punto. I puntini fra parentesi quadre indicano l’omissione di lettere, parole o frasi di un testo riportato. Il trattino può essere di due tipi: lungo si usa al posto delle virgolette dopo i due punti per introdurre un discorso diretto o, in alternativa a virgole e parentesi tonde, si può usare in un inciso; breve serve invece a segnalare un legame tra parole o parti di parole e compare infatti per segnalare che una parola si spezza per andare a capo, per una relazione tra due termini (il legame A-B), per unire una coppia di aggettivi (un trattato politico-commerciale), di sostantivi (la legge-truffa), di nomi propri (l’asse Roma-Berlino), con prefissi o prefissoidi, se sono composti occasionali (per cui il fronte anti-globalizzazione ma l’antifascismo) e infine in parole composte (moto-raduno, socio-linguistica) in cui tendono a prevalere, però, le grafie unite. La punteggiatura non va spaziata rispetto al testo che la precede, ma solo dal testo che la segue. Fanno eccezione le parentesi, il cui esterno rispetta questa regola, mentre l’interno non spazia mai (così).

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Grammatica di base per aspiranti scrittori Deissi

Cosa sono i deittici? Beh, tutte le espressioni o gli elementi della lingua che concorrono a indicare con precisione un determinato oggetto. Ovvero? In genere si tratta di pronomi dimostrativi (questo, quello) e avverbi di tempo e luogo (qui, là, ieri). Oltre queste specifiche forme di deissi esistono poi espressioni nel cui contesto alcuni termini assumono la connotazione di deittici: dritto, avanti, indietro, a sinistra e a destra sono gli esempi più comuni di deissi spaziale “contestuale”, utilizzata come tale generalmente nella prima persona. Se dico a qualcuno “andiamo a sinistra” indico chiaramente uno spazio le cui coordinate sono note solo a noi parlanti, quindi ho una deissi contestuale; nel caso in cui io dica “Il personaggio andò a sinistra”, non avendo nessuna attinenza con me che enuncio l’uso non è deittico. Le deissi pertanto hanno l’essenziale funzione di chiarire le informazioni, renderle meno ambigue e determinare con la massima precisione i riferimenti spazio-temporali del testo. In tutto ciò si nasconde tuttavia una trappola evidente. Fondamentale quindi è il loro utilizzo nei testi tecnici, nei saggi, negli articoli giornalistici. Non altrettanto invece nella narrativa. Mentre un racconto o romanzo riesce a funzionare piuttosto bene anche nell’assenza quasi totale di deissi, difficilmente potrà funzionare bene quando ne ha in eccesso. Ricorrerò ad un esempio creato appositamente dallo scrittore Filippo Di Paola per Liblog (colgo l’occasione per ringraziarlo); nel primo caso un testo scarno ma efficace, nel secondo un testo ridondante: 135


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Si alzò, con le sue lunghe gambe, e afferrò un piccolo vaso dal tavolo vicino al nostro. Me lo mise praticamente in mano, e si risistemò sulla panca. – Non ci vedo niente di strano Il vaso era usato come segnaposto, ed era abbellito con piccoli steli contorti che una volta reggevano fiori vivaci, ma che porgevano ormai solo spenti bottoncini gialli e viola adorni di petali ripiegati. Lo spinsi, allontanandolo dal mio piatto. Avevo avuto l’impressione che quei fiori si potessero sbriciolare dentro la mia colazione. Si alzò, con quelle sue lunghe gambe che avevo ammirato e bramato fin dalla comune frequentazione universitaria, e afferrò un piccolo vaso dal tavolo vicino al nostro. Me lo mise praticamente in mano, e si risistemò sulla panca. Lo tenevo davanti a me come una reliquia, girandolo a destra e sinistra, in alto e in basso, scoprendo il fondo che recava solo la scritta di produzione. – Non ci vedo niente di strano Quel vaso era usato come segnaposto, rigato qui da una striscia nera che evidenziava il bordo e lì da un piccolo numero, ed era abbellito con piccoli steli contorti che una volta reggevano fiori vivaci, ma che porgevano ormai solo spenti bottoncini gialli e viola adorni di petali ripiegati. Lo spinsi a sinistra, allontanandolo dal mio piatto. Avevo avuto l’impressione che quei fiori si potessero sbriciolare dentro la mia colazione. 136


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Va da sÊ che solo per uno stralcio può andar bene il secondo tipo di prosa, ma un intero libro risulterebbe in poche pagine tedioso e pesante alla lettura. Buono quindi soltanto se utilizzato consapevolmente e coerentemente al proprio soggetto o pubblico.

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Grammatica di base per aspiranti scrittori Gli

Gli è una delle sillabe italiane che più si presta agli errori: sia come articolo sia come pronome ha usi formali e colloquiali divergenti e i principi che ne regolano l’uso sono sconosciuti ai più. Partiamo dall’articolo: viene utilizzato davanti alle parole di genere maschile e numero plurale, che iniziano con una vocale, con s seguita da consonante, con i gruppi gn, ps, pn, x e z e, per eccezione, davanti a dei (plurale di dio). Nella lingua letteraria si apostrofa davanti alle parole inizianti in i, anche se è una grafia piuttosto obsoleta. Discorso più complesso è quello che riguarda gli come pronome, che ha usi distinti nell’italiano standard (formale) ed in quello neostandard (lingua d’uso). Ha il valore di a lui, a esso, e si trova in posizione enclitica (unito alla fine della parola) o proclitica (prima della parola): digli, gli parli. Spesso accade di trovarlo al posto del complemento errato, invece che a sostituire il complemento di termine; è frequente sentir dire chiamagli al cellulare, ma chiamare regge il complemento oggetto (chiamare qualcuno), quindi bisognerebbe dire chiamalo al cellulare. Il suo uso al posto del plurale comincia ad essere largamente accettato, come testimonia l’Accademia della Crusca: Gli per loro è attestato nei dizionari più recenti, come il GRADIT, “Grande Dizionario Italiano dell’Uso” di Tullio de Mauro (2000, UTET), che nella definizione di gli scrive: “2 139


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gli [...] colloquiale, specialmente nella lingua parlata compare in alternativa a loro, a loro, a essi, a esse: quando me lo chiederanno, gli risponderò” [cioè risponderò (a) loro]. Il DISC; “Dizionario Italiano Sabatini Coletti” (1997, Giunti) scrive: “[…] come pl. gli (come esito del dativo latino plurale illis) è assai freq. in quanto forma più chiaramente atona (e quindi proclitica o enclitica) rispetto a loro […]”. Dunque, a parte la ragione etimologica a tale uso (loro invece deriva dal genitivo plurale illorum), esiste una giustificazione “pratica”, dovuta al fatto che per le altre persone esiste la possibilità di scegliere tra pronome enclitico e proclitico: mi dice / dice a me; ti dice / dice a te; gli dice / dice a lui; ci dice / dice a noi; vi dice / dice a voi; per la terza persona plurale questa possibilità non esiste: dice (a) loro e non *(a) loro dice: il pronome “mancante” viene, nell’uso, sostituito da gli. Tale forma è stata usata anche dal Manzoni: “Là non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi e di dar luogo, rispondevano con un lungo e cupo mormorio; nessuno si muoveva”. (Promessi Sposi, XIII). In ultimo moltissimi utilizzano gli al posto di le, come invariante quindi; questo è da considerare tuttora un errore grave, benché ci siano esempi anche letterari che ne attestino la diffusione.

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Grammatica di base per aspiranti scrittori La D eufonica

Io amo molto la d eufonica, ovvero la d aggiunta ad una congiunzione o preposizione che incontri una vocale nella parola seguente. Trovo sappia dare armonia a frasi di dubbia sonorità e, se ben utilizzata, risolvere molte cacofonie. Se ben utilizzata, però. Ci sono distinte teorie sul suo uso, una che propende per la semplificazione e una che tende a preservare la funzione primigenia. La prima postula che si debba introdurre la d solo nel caso in cui siano in contatto due identiche vocali: e con e, a con a, et similia. Ne consegue che secondo questa teoria sia migliore “e anche” rispetto alla forma più conosciuta “ed anche”. La seconda teoria si basa proprio sul motivo per cui la d eufonica nasce: evitare di pronunciare frasi cacofoniche. Per cui ogni volta che leggendo ci troviamo davanti ad una sonorità dubbia (a una o ad una?) il criterio per l’inserimento della d è la sua utilità nel rendere la frase più gradevole. Nonostante l’Accademia della crusca consigli il primo modo, da sempre io propendo per il secondo: la d eufonica non dovrebbe avere regole restrittive ma essere applicata ogni qualvolta si renda necessaria, onde permettere alle proposizioni di scorrere in modo piacevole. Ovviamente l’orrore fonetico può essere causato anche da un eccesso di D eufonica, che non andrebbe mai usata in caso di ripetizioni di sillabe: “ed educazione”, “od odio”, “ad adempiere” sono sequenze insopportabili. 141


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Resta come unico criterio di discernimento quindi, come spesso accade, il buonsenso, o se preferite il buongusto. E l’utile trucco di leggere ad alta voce il passaggio incriminato, per capire come possa suonare meglio.

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Grammatica di base per aspiranti scrittori Parole dubbie

Entrambe e succube: due parole che mi hanno perseguitata a lungo durante l’adolescenza. Avevo grosse difficoltà a ricordare se fossero invariabili o meno. E anche oggi ho dei momenti di dubbio in cui devo sforzarmi di ricordare la regola per farne un uso corretto. Questo promemoria è quindi più per me che per voi, anche se suppongo di non essere la sola in Italia a soffrire di questa amnesia selettiva (benché del tutto involontaria). Entrambe è un aggettivo/pronome numerativo per due (del tipo “ambo”, “ambedue”); pertanto, come per ogni altro aggettivo, prevede una forma maschile “entrambi”, usata quando i due oggetti a cui si riferisce siano di genere maschile o anche uno di genere maschile e uno femminile (es. Giuseppe e Carla non mangiano carne: entrambi sono vegetariani”), e una forma femminile “entrambe”, da utilizzare se il sostantivo cui si applica è di genere femminile (es. “entrambe le volte”) o nel caso in cui si considerino due oggetti diversi, ma ambedue di genere femminile (es. Daria e Carla non mangiano carne: entrambe sono vegetariane). Succube è abbastanza diffuso nella forma invariabile, dovuta ad un influsso francese; eppure, risalendo brevemente alla sua etimologia si scopre che è un aggettivo derivato dal latino. Per cui, a rigor di logica, dovrebbe seguire il genere del sostantivo cui fa riferimento. In questo però la norma non è rigida, accettando la forma invariabile perché più diffusa, quindi più vicina al sentire comune. 143


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Infine un lemma per cui la “perplessità” è legittima: esiste in italiano il verbo perplimere? La risposta, per quanto possa essere enigmatica, è ancora no. L’origine è davvero recente: merito di una interpretazione di Corrado Guzzanti, che nello “storpiare” la lingua cercando un effetto comico ha creato una parola in grado di colmare una lacuna del nostro idioma. Infatti perplesso, che viene percepito come participio passato, non ha in italiano un verbo di riferimento. Ancora no significa solo che la parola verrà ammessa nei dizionari se i linguisti riterranno, alla loro prossima revisione, che sia entrata a far parte in modo non effimero del vocabolario italiano. Confermando, in tutti i casi, che l’italiano sia una lingua soggetta a modifiche, quindi viva.

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Grammatica avanzata per aspiranti scrittori Preposizioni nelle citazioni

Alle volte si ha la necessità di citare un grande autore, uno scritto, un titolo del passato. Di aprire quindi le virgolette e capire cosa fare dell’articolo che accompagna il nome. Sembra facile, ma in realtà per anni si sono avute attribuzioni controverse, tanto che persino alcune grammatiche e moltissimi testi scolastici ne fanno un uso errato. Per parlare delle citazioni non posso esimermi dal citare un complesso articolo di Giovanni Nencioni sulla Crusca per voi (n° 13, p.11): «La preposizione de non esiste nell’italiano odierno allo stato isolato e i dizionari la registrano perché compare nelle scritture letterariamente analitiche della preposizione articolata (de la, de lo ecc.) o nelle citazioni di nomi propri o di opere che cominciano con l’articolo. [...] Dalle edizioni o imitazioni della scrittura analitica dei testi antichi è [...] venuta l’idea che essa possa usarsi per mantenere intatti i nomi di luogo e persona o i titoli di opere preceduti dalla preposizione articolata; c’è tuttavia chi preferisce ricorrere, per lo stesso scopo, alle sole preposizioni realmente presenti nella nostra lingua, scrivendo sintetico e legato come pronuncia: della Spezia, dell’Aquila, dei “Promessi sposi”, nei “Promessi Sposi”, ai “Promessi sposi” ecc. La soluzione di ricorre145


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re, per la scrittura analitica, al reale di invece del supposto de, scrivendo di La Spezia, di “I promessi sposi”, non sarebbe esauriente se non fosse estesa a tutta la serie, scrivendo anche in “I promessi sposi”, in L’Aquila, e producendo un forte divario tra il modo scritto e il parlato, che denuncerebbe una grave insufficienza della nostra ortografia. Riteniamo pertanto di consigliare la soluzione grafica che riproduce più fedelmente la pronuncia e che è più facile ad essere applicata da tutti.» Che vuol dire, in parole semplici? Vuol dire che se appartenete a quella schiatta di scrittori che utilizza ad esempio Sartre è autore de “La nausea”, dovreste scrivere anche Il personaggio che si trova in “La nausea” è complesso. Che non è proprio gradevolissimo. L’uso corretto e consigliato (non l’unico) consiste nel togliere l’articolo ed utilizzare la preposizione articolata corrispondente. Un piccolo esempio per rafforzare l’idea che sia la grafia corretta: volendo considerare La Spezia, vi faccio notare che gli abitanti della Spezia si chiamano Spezzini, non Laspezzini...

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Grammatica avanzata per aspiranti scrittori Plastismi

Non è una parolaccia, anche se forse un po’ lo sembra. I plastismi sono quei “tic” verbali che sono usati e abusati tanto da aver perso la loro connotazione originaria. Parole spesso polisemiche, come roba o cosa, o locuzioni adattabili a qualsiasi conversazione. I plastismi emergono quasi sempre nel linguaggio colloquiale, nel parlato; a volte sono utili semplificazioni per evitare lunghe parafrasi e creare un immediato “sentire comune” tra gli interlocutori. Diverso è il caso della lingua scritta. Se quant’altro, a livello di, nella misura in cui, cosa e roba sono ancora accettabili nei discorsi, non lo sono certamente nella stesura di un testo, sia esso un romanzo o un saggio. Sono anzi una pericolosa scorciatoia che rischia di togliere senso invece di chiarirlo. Quasi sempre la nostra lingua possiede il giusto termine per comunicare un concetto in tutte le sue sfumature. Ricercare la parola più adatta non è un esercizio fine a se stesso ma una forma di rispetto per il proprio lettore; questo non implica, come molti credono, il ricorso a formule obsolete e termini arzigogolati. Piuttosto si tratta di selezionare tra tutti i lemmi possibili quello che più esprime il proprio sentire, e confidare nella eccellente capacità espressiva della nostra lingua. Ed ecco quello che dice a proposito dei plastismi Ornella Pollidori Castellani nel suo ottimo La lingua di plastica: Tutti i plastismi hanno poi una caratteristica preoccupante: quella di far terra bruciata intorno a sé. Nel senso 147


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che, a furia di usare sempre le stesse formule preconfezionate, si disimpara a cercare di volta in volta la soluzione lessicale piĂš adeguata a rendere una particolare accezione o sfumatura: in pratica, si disimpara la lingua, e si lascia che questa, sfruttata cosĂŹ poco e male, appaia impoverita e desolatamente gregaria.

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Grammatica avanzata per aspiranti scrittori Disgiunzioni

Sembra che pressoché tutti sappiano usare correttamente le congiunzioni; non si può certo affermare lo stesso riguardo alle disgiunzioni, utilizzate spesso in modo casuale o, peggio, arbitrario. Un po’ di chiarezza su alcuni punti nebulosi. Primo fra tutti la corretta concordanza tra soggetto e verbo: la o (disgiuntiva per eccellenza) demarca una scelta, una selezione in cui resta solo uno dei due soggetti. Questo significa che se si trovano due soggetti al singolare il verbo andrà necessariamente al singolare. Per chiarire con un esempio di disgiunzione ed uno di congiunzione: “Il padre o il figlio deve andare alla stazione” e “Il padre ed il figlio devono andare alla stazione”. Un trucco per ricordarlo è rileggere la frase dividendola in due “Il padre deve andare alla stazione o il figlio deve andare alla stazione”. Fra le varie disgiuntive di recente è entrato in voga l’uso di piuttosto che a sostituire la semplice, e sempre efficace, o. L’uso di questa forma, però, è sconsigliabile per l’ambiguità di cui ammanta la frase. Mentre la o disgiuntiva non stabilisce alcun tipo di legame gerarchico tra le varie possibilità di scelta, piuttosto e piuttosto che servono a marcare una preferenza. Proviamo a rendere concreta questa differenza: Preferisco mangiare frutta o frullato a colazione - indica che allo stesso modo gradisco ambedue i cibi. Preferisco mangiare frutta, o piuttosto frullato a colazione - indica che propendo per la seconda opzione. 149


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Preferisco mangiare frutta piuttosto che frullato a colazione - indica che preferisco decisamente la prima delle due scelte. Si può facilmente dedurre quanto sia necessario essere oculati nella scelta della disgiuntiva, che rischia di rendere il senso totalmente differente da quello che l’autore intendeva dare.

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Grammatica avanzata per aspiranti scrittori Affatto

Spesso sento e leggo la parola affatto in contesti che mi danno da pensare, frasi che generano confusioni e fraintendimenti. Sicuramente l’uso colloquiale è molto cambiato, ma a quanto pare anche nella lingua scritta comincia a sentirsi una notevole ambiguità. Rivedere le regole penso che possa non far male a nessuno, specie quando il cambiamento linguistico, incessante e necessario, slitta il senso non verso una maggiore chiarezza ma verso un uso più contorto; pertanto rivediamo un po’ di grammatica. Affatto è un avverbio con valore rafforzativo: significa che aggiunge un “completamente” o “del tutto” sia alle frasi affermative sia a quelle negative. Attualmente però viene considerato quasi esclusivamente con valore di negazione, come se fosse preceduto da “niente”. Ricorriamo agli esempi (come d’abitudine gastronomici, sono troppo golosa): Dopo aver mangiato quel dolce sono stata affatto bene. Dopo aver mangiato quel dolce non sono stata affatto bene. Nel primo caso il senso della frase è che il dolce mi ha creato una forte sensazione di benessere; nel secondo caso significa che avrei fatto meglio a non mangiarne, poiché sono stata male. Queste due proposizioni sono piuttosto semplici e l’uso del termine è lapalissiano. Ma quando incappiamo in altre frasi il dubbio ci assale: nel caso di “Ritengo sia affatto giusto” cosa avrà inteso dire l’autore? Starà utilizzando la corretta grammatica, o quella colloquiale? 151


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Grammatica avanzata per aspiranti scrittori Il suo o il proprio?

La lingua italiana è ricca di parole che, pur attingendo allo stesso significato, ne evidenziano una particolarità ed una sola; basti pensare ai soli verbi che esplicitano l’azione di mangiare: da trangugiare a sbocconcellare si può trovare una sterminata gamma di vocaboli specifici. Se questo è evidente per i sostantivi, lo è sicuramente meno per i pronomi e gli aggettivi. Suo e proprio, infatti, vengono spesso percepiti come sinonimi perfetti, e per questo sono utilizzati indifferentemente; benché il loro senso sia analogo, suo e proprio sono invece due lemmi differenti che vanno a coprire parti di significato simili ma ben distinte. Mentre suo ha una valenza più generica, riuscendo ad accompagnarsi sia al soggetto sia a qualsiasi complemento, proprio si riferisce sempre al soggetto della frase, chiarendo quindi nei casi ambigui il possesso dell’oggetto menzionato. Se generalmente quindi si può operare una sostituzione, operando con criteri stilistici e di preferenza personale, è invece opportuno porre particolare attenzione nelle frasi in cui l’attribuzione dell’oggetto si fa più incerta. Per non continuare a ragionare in via astratta, facciamo qualche esempio: Giuseppe ha mangiato il suo gelato si può considerare perfettamente interscambiabile con Giuseppe ha mangiato il proprio gelato. Eugenio ha scritto un biglietto per Martina con la sua penna. In questo caso potendo sussistere il dubbio che la pen153


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na sia di Martina e non di Eugenio, quindi è sicuramente migliore la forma Eugenio ha scritto un biglietto per Martina con la propria penna. Gli esempi sono un po’ grossolani, ma servono a far percepire la differenza, pur nella loro banalità. Per stabilire quale sia il giusto vocabolo basta quindi chiedersi chi abbia il possesso dell’oggetto nominato e, qualora fosse il soggetto (in terza persona), utilizzare proprio. Nelle frasi impersonali l’uso di proprio è obbligatorio, non essendo esplicitato alcun tipo di soggetto: è stupido lanciare il proprio cellulare contro il muro non sarebbe corretto se sostituissimo suo a proprio. Si rivela una scelta migliore anche nel caso in cui ci si riferisca a un soggetto indefinito: tutti difendono le proprie ragioni oppure qualcuno dà ancora del voi al proprio padre. Proprio può infine essere usato come rafforzativo dei possessivi, in tutte le persone: L’hai scritto di tua propria mano? Ovviamente esistono molti casi in cui suo è insostituibile, ma sono per la grande maggioranza espressioni idiomatiche o contesti in cui mai ci sfiorerebbe la mente l’utilizzo di qualsiasi altra particella.

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Grammatica avanzata per aspiranti scrittori Entrare o centrare

Sull’italiano non mi rassegno facilmente. Così, nonostante a volte per troppo zelo commetta anche io degli errori, non desisto davanti a quelle forme lessicali che, benché ormai nell’uso comune, sono da considerarsi storpiature o dialettismi. Tanto quanto non amo l’uso, tutto toscano ma ormai dilagante, del te in luogo di tu come soggetto, non apprezzo neanche tutte quelle forme, tipiche del parlato, che vengono ormai confuse con le locuzioni corrette nello scrivere. Una di queste abnormi contaminazioni tra scritto e parlato riguarda la forma c’entra. Leggo ormai troppo frequentemente centra, centrarci, riferito all’avere attinenza. Da questo uso hanno origine frasi a dir poco obbrobriose, come “Che ci centra?” (sic). Facciamo un po’ di chiarezza, utilizzando un semplice dizionario e senza ricorrere a glottologi o linguisti; per comodità ed anche per una facile verifica online, cerchiamo sul De Mauro. en|tràr|ci v.procompl. (io ci éntro) CO 1 con valore intens., trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qcs.: in questa macchina c’entrano quattro persone, in questi pantaloni non c’entro più | essere contenuto: il due nel quattro c’entra due volte 2 avere parte, attinenza, relazione con qcs.: che c’entra questo con quanto è accaduto?, non c’entra niente, io non c’entro! 155


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cen|trà|re v.tr. (io cèntro) CO 1 colpire nel centro: c. un bersaglio, c. il boccino 2 fig., cogliere, individuare con acutezza e precisione: c. un problema, c. l’argomento; c. un personaggio, di attore o regista, interpretarlo o rappresentarlo correttamente evidenziandone le caratteristiche fondamentali | conseguire in pieno: c. l’obiettivo 3 fissare nel centro: c. il compasso; in fotografia e sim., inquadrare nel centro dell’obiettivo, del fotogramma o dello schermo: c. un soggetto, un’immagine sullo schermo 4 TS mecc., equilibrare rispetto a un asse di rotazione: c. un’elica, una ruota 5 TS sport ?crossare Ora, sembra evidente che se scrivessi “La tua affermazione non c’entra con il contesto”, sarei colpevole, magari, di avere utilizzato una forma colloquiale ed imperfetta, ma avrei scelto almeno la corretta grafìa. Se scrivessi invece “La tua affermazione non centra con il contesto”, probabilmente starei cercando di utilizzare il contesto come bersaglio di un ipotetico lancio di affermazioni. Per lasciarvi citerò il mio anziano insegnante di Armonia (che non è una disciplina new-age ma una normale materia degli studi musicali nei conservatori), Padre Vincenzo Bernardo Modaro, il quale soleva dire: Chi parla il dialetto scrivendo traduce, e il parlar di colui non isgorga, ma cola. Dall’uso della i prostètica potete capire quanto sia vetusta e quale sia l’età del mio docente. Tuttavia, pur non sapendo di chi sia originariamente la frase, la condivido in pieno. 156


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Grammatica avanzata per aspiranti scrittori I numeri

A meno che non scriviate saggi scientifici che prevedano l’inserimento di formule matematiche, come scrittori avrete limitate esigenze di scrivere numeri; non per questo tuttavia, quando sono necessari, bisogna inserirli con sciatteria. Ci sono regole ben precise per la scrittura dei numeri cardinali e ordinali all’interno di un testo, semplificabili in un criterio generale su cui innestare le dovute eccezioni: numeri interi inferiori a dieci devono sempre essere scritti in lettere. Per tutti gli altri interi esiste sempre la possibilità di doppia trascrizione, benché sia preferibile, ogni volta che si può, la trascrizione in lettere. Ho timbrato 270 schede è ottimo in cifre, ho risolto duecento equazioni è più efficace in lettere. Bisogna trascrivere in lettere: • i numeri cardinali che “identificano in modo assoluto le corrispondenti entità aritmetiche, a prescindere dal sistema di rappresentazione” (sei, quarantadue); • i numeri che indicano concetti, incluso lo zero (le probabilità erano meno di zero, uno tra mille); • i numeri cardinali sia interi sia decimali che appartengono ad espressioni linguistiche standardizzate o ricorrenti (le cinque giornate, un metro e dieci); • quelli che rappresentano entità astratte, indipendenti dalla forma in cui vengono espressi (il più grande divisore di quarantadue che sia minore di sei); • gli orari approssimativi (le sei e un quarto, le undici di sera); 157


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• i numeri ad inizio frase, di qualsiasi grandezza, e quelli a loro legati (due sciamani e seicento gatti celebrarono un rito); • i numeri che nella pronuncia richiedono un apostrofo. Per esigenze di stile è possibile scrivere in lettere anche numeri che non appartengano alle categorie di questo elenco, ma quasi mai è vero il contrario: quella birra aveva il sette virgola cinque di volume d’alcol è accettabile, mamma, rientrerò alle 21:17 no (per quanto inverosimile ho letto davvero la seconda frase). Ovviamente se gli orari precisi servono ad una scansione temporale ben vengano, specie nei generi che lo richiedono (thriller, gialli, noir), ma per il resto sarebbero da evitare. Insomma, anche qui, le regole vanno applicate con discernimento, tentando di capire caso per caso quale sia l’esito migliore.

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Speciale

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Speciale Più libri più liberi puntata I

Ecco qui il primo resoconto dalla vostra infiltrata speciale alla Fiera della piccola e media editoria di Roma, Più libri più liberi. Già ieri gli espositori hanno allestito gli spazi ed oggi all’apertura erano pochissimi gli stand sguarniti. All’ingresso la fila scorreva velocemente, benché gli orari per l’acquisto di biglietti o conferma degli accrediti siano un po’ stretti (apertura e accrediti sono contemporanei). L’impressione girando e adocchiando qui e lì è che la qualità complessiva sia medio-alta, con picchi in ambedue i sensi. Le copertine e la cura editoriale sembrano migliorare nel corso degli anni, e sembra inoltre che i piccoli abbiano capito quasi tutti di dover puntare sulla qualità, interna ed esterna, del loro prodotto. Le vesti grafiche sono coloratissime, le copertine sono ben patinate, colorate e con delle grafiche molto moderne, anche quando minimali. In molti stand sono disponibili anche gadget, dalle magliette alle borse in feltro ispirate alle copertine dei libri (le voglio!), alle spillette. Non molto invece il materiale promozionale, piuttosto legato ad un vecchio concetto di marketing librario: volantini e cataloghi restano la forma preponderante di pubblicità. Molto interessante però tra questi il catalogo della Tunuè, un pezzo “da collezione” per me, dato che, in linea con la loro produzione, è una cartolina-fumetto, con un elenco dei titoli sul retro. Mi è invece dispiaciuto notare la presenza di alcuni editori a pagamento, che utilizzano in qualche modo la 163


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fiera come specchietto per le allodole (“paghi, sì, ma poi ti portiamo alla Fiera di Roma”). Purtroppo non c’è molto da fare per combatterli, se non quello che faccio già. Ho avuto infine il piacere di conoscere alcuni dei miei abituali interlocutori, e di poter finalmente associare volti a nick e voci, con molte piacevoli sorprese. Finora ho fatto un giro un po’ superficiale, ma volevo avere un quadro generale, e devo dire che la prima impressione è di un aumento generalizzato di professionalità e di un grande fermento. A breve anche il resoconto della chiacchierata con una giovane e capace editrice.

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Speciale Più libri più liberi puntata II

La chiacchierata con l’editrice giovane, agguerrita e simpatica cui accennavo è con Marianna Martino, editrice sì, ma anche editor, correttore di bozze, ufficio stampa. Allo stand Zandegù oggi ho potuto conoscere lei ed il suo collaboratore Marco ed avere una panoramica sulla loro attività e sul loro spirito, soprattutto. A loro va la palma per lo stand più colorato ed allegro, tra quelli che ho visitato oggi, in cui una copertina in particolare mi ha colpita: era totalmente bianca, sia nella prima sia nella quarta, con il dorsetto scuro che riportava le indicazioni necessarie. Il libro in questione avrà una copertina “normale”, scelta con un concorso, nella ristampa, ma per sicurezza ne ho fatta mettere da parte una copia per farmela firmare dall’autore lunedì, ovviamente con quella immaginaria. Questo anche perché Tasca di pietra, il libro in questione, è un fuori collana, ossia è un testo che, benché non perfettamente aderente alle collane presenti, ha meritato tanta stima da essere pubblicato ugualmente. Così, al posto di una delle coloratissime copertine “superpop”, ecco invece l’assenza di copertina. Tornando all’editrice, Marianna ha appena 25 anni ed ha fondato la Zandegù a Torino nel 2006, iniziando con Hollywood party e proseguendo con altri 6 titoli in quell’anno, cinque nel 2007 e 4 fino ad ora quest’anno. La linea editoriale è di narrativa surreale, libri buffi, esagerati, divertenti ma con un certo spessore. Non c’è limite al tipo di pubblicazione: nel catalogo si trovano raccolte di racconti, romanzi e saggi (anch’essi surreali). 165


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Anche Marianna quando ha intrapreso la carriera nell’editoria s’è trovata circondata da chi la sconsigliava, data la difficoltà del mestiere unita alla congiuntura italiana ed alla presunta diminuzione dei lettori; lei, da ragazza realista sì, ma anche tenace e pronta, senza farsi illusioni ha saputo ritagliare il suo spazio nella piccola editoria, riuscendo ad ottenere, per i suoi libri, passaggi in radio e sui giornali, affare non da poco. Zandegù pubblica, ovviamente senza contributo e senza acquisto copie, autori emergenti (in tiratura tipografica da 1000 copie), per cui è ben disposta a visionare gli inediti, che vi raccomando personalmente di mandare solo se aderenti alla linea editoriale. La sua politica di prezzo è volta a favorire la massima diffusione possibile, per cui i prezzi sono più che ragionevoli, in funzione dei volumi e della qualità. Tutto è funzionale alla promozione degli autori, per cui si organizzano reading, presentazioni e promozioni, anche alla libreria Massena di Torino, che si conferma grande crocevia e spazio essenziale per i piccoli e medi editori italiani. Infine la chiacchierata si è rivolta verso argomenti più faceti: le stranezze nelle lettere di presentazioni degli aspiranti autori. Anche a loro arriva di tutto: chi acclude la copertina pronta per la pubblicazione (che sicumera!), chi assume un atteggiamento provocatorio, chi si informa preventivamente sulla scelta dell’argomento per il proprio libro. E come direbbe Porky Pig, per oggi th-th-that’s all folks!

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Speciale Più libri più liberi puntata III

Dopo una piacevole cena in San Lorenzo (credo) con Domenico Muscolino di Laboratorio Gutenberg, dei cui argomenti presto vi parlerò, oggi sono ripartita alla volta della Fiera del libro di Roma, per partecipare ai convegni professionali sulla distribuzione. Il primo di tutti riguardava questioni prettamente “da editori”, per cui non vi tedierò coi nuovi meccanismi dell’agenzia ISBN, peraltro già visibili sul loro sito ufficiale. Il secondo invece ha messo a dura prova il mio spirito critico e la mia buona educazione. Già, perché ho scoperto oggi di essere una solipsista triste. Sì. Sarà anche stata una provocazione, ma uno dei relatori (si dice il peccato ma non il peccatore), trattando dei problemi delle librerie e dei piccoli editori, ha pensato bene di demonizzare internet che, testualmente, “uccide le librerie”. Io sono stata buonina, ma avrei tanto voluto alzarmi per dirgli che sono i librai ad uccidere le librerie, con il loro modo di fare ancora legato a concetti ottocenteschi di aristocrazia culturale. Secondo lui poi “questi ragazzi così tristi di oggi, che lavorano al computer, giocano al computer, fanno acquisti col computer” sono una generazione che vive in modo “solipsistico”. Inoltre internet, nonostante sia un mercato in espansione velocissima, specie nelle fasce giovanili, è una criticità, secondo loro, anche se non meglio definita. Mah. Mi sembra la solita solfa delle nuove tecnologie, che spaventano chi non le conosce, chi vuole forzarne l’uso in un’ottica tradizionalista. 167


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Interessante invece sentire le opinioni dei piccoli presenti in sala, coi loro problemi, con la messa a nudo dei difetti di un sistema distributivo a volte castrante (e in qualche caso, ho scoperto, anche un po’ truffaldino). Non mi è sembrato di sentire soluzioni o proposte attuabili, e tutte le posizioni mi sono apparse ingessate, ma tant’è, nell’editoria c’è anche questo. Per fortuna a fronte di alcuni che hanno queste opinioni, c’è una leva di giovanissimi che ha idee moderne, capacità di cogliere i punti di forza delle nuove tecnologie e adattarsi ai nuovi mercati. Il re è morto, viva il re!

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Speciale Più libri più liberi puntata IV

Dopo essere stata condotta a Trastevere per una cena dalla mia guida masai, l’indispensabile Memy, e aver gustato un dolce-drink dal nome evocativo, oggi mi sono sentita un po’ ritemprata, pronta a partire di nuovo alla volta della Fiera. Oggi più che il giorno degli editori per me è stato il giorno delle persone; ho incontrato autori, editori e anobiiani, avendo il piacere di chiacchierare con loro più nello specifico e di scoprire il volto dell’editoria oggi, se si può dire. A onor del vero alcuni li avevo incontrati nei giorni passati, e ieri ho omesso di citare la chiacchierata con Leonardo dello Studio Oblique, uno dei tremoschettieri, che si tradurrà in intervista tra qualche giorno, come anche l’incontro con Socrates. Fra coloro che ho conosciuto ho trovato carinissima Die Sonnenbarke, Marina, tutto il gruppo di Aìsara, che mi ha fornito un “rifugio” in questi caotici giorni nel suo stand, sostenendomi anche oggi alla presentazione di una loro pubblicazione. Avrò abbondante materiale da organizzare e condividere nei prossimi giorni, ho infatti intervistato Fabio Marzocca, autore di Fili di fumo, il direttore di Lavieri edizioni, uno dei creatori di ZERO91, ho chiacchierato un po’ con Verdenero, ho sfogliato, guardato, soppesato. Ho chiacchierato molto, in questi giorni, col giovanissimo Giammei (NdE: il fidanzato della fidanzata del poeta) che è riuscito a sorprendermi per la sua lontananza dal mio pre-giudizio sui poeti moderni. 169


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Come avrete notato tra le righe la presentazione si è svolta oggi, l’autrice è stata davvero deliziosa, e più che una presentazione classica è stato un momento di dialogo, molto divertente per parte mia (e spero anche per gli astanti). Data la stanchezza interrompo qui questa puntata, che in realtà è poco più che un appunto per fissare questo lungo giorno. Dopotutto, insomma, domani è un altro giorno. Lungo anche lui.

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Speciale Più libri più liberi puntata V

Giornata conclusiva. Emozioni tante, incontri pure. Stamattina ho fatto la semplice turista, e ho scoperto, complici le indicazioni di amici editori, Verdenero, :duepunti, Toilet. A breve scenderò più nel dettaglio per ognuno di loro, anche perché mi sembrano progetti meritevoli. Ho acquistato tanto, oggi, e avrei voluto anche di più; mi sono fatta guidare dall’istinto e dalle copertine, ma anche e soprattutto dalla simpatia delle facce che mi accoglievano. Motivo per il quale alcuni li ho saltati a priori. Ho fatto la “fan” quando è arrivato Benni, e buona buonina mi son messa in coda per farmi firmare La riparazione del nonno, su cui mi ha anche disegnato il mio animale preferito; devo dire che non immaginavo sapesse disegnare, e che avesse pure un certo talento. Ho conosciuto molte donne dell’editoria, tra cui la deliziosa Daniela Di Sora (Voland), sorridente come l’avevo immaginata, anche se non ho visto il convegno sull’argomento perché mi è sembrato ghettizzante al pari della giornata dell’otto marzo. Infine ho scoperto cosa vuol dire appartenere ai lettori forti: ho riportato a conclusione di tutto uno scatolone con circa venti chili di libri. Ora suppongo di dover comprare una nuova libreria.

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Speciale Più libri più liberi puntata finale

Oggi andrò via da Roma, dopo cinque giorni pieni di vitalità in immersione nella piccola editoria italiana. Cosa mi resterà di questo viaggio? Cosa voglio davvero fissare e che immagine ho tratto? Partendo dalle notazioni a margine, ricorderò il vento che annuncia la metropolitana, i volti curiosi, annoiati, tesi, i colori e rumori della fiera, l’odore del primo giorno, quando ancora non c’era nessuno e i libri erano lì, allineati e ansiosi di essere notati. Le professionalità: benché la fiera, come osservatorio sulla piccola editoria, mi abbia confermato la presenza di molti cialtroni, che si barcamenano senza avere cognizione di causa su cosa sia un editing o una correzione di bozze, ho incontrato tanti grandi professionisti, che si battono per un lavoro di qualità e di alto livello contenutistico. La delusione: ho notato almeno sei stand, anche di una certa grandezza, di editori notoriamente a pagamento e tra i peggiori della categoria; se è vero che a loro serve come specchietto delle allodole per catturare altri autori ingenui e un po’ vanesi, mi chiedo perché comunque gli organizzatori permettano loro di essere presenti ad una manifestazione che vorrebbe invece fornire una panoramica di micro, piccola e media editoria di qualità. Il fermento: mi ha fatto molto piacere notare la quantità di giovani con belle idee, grandi sogni ed ottime capacità, la presenza di libri splendidamente curati e purtroppo non distribuiti per le politiche dei grossi distributori italiani, la simpatia di molti. 173


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La conferma: la parte istituzionale della fiera, i convegni e i momenti di convergenza mi hanno dato l’idea d’essere più “indietro” dei singoli piccoli e micro che affrontano quotidianamente le sfide e le criticità del loro mercato riuscendo spesso a reinventarsi, quando necessario. Avrei gradito più della lezione frontale un confronto in stile barcamp, in cui i piccoli potessero avere un dialogo diretto, analizzare e scambiarsi consigli, progetti, soluzioni. Forse c’è altro che sedimenta nel mio cervello, ma in questo momento è tutto qui quello che desidero si fermi su carta (virtuale). Alla prossima fiera.

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Nascita di una Casa Editrice speciale n.0

Perché aprire una nuova casa editrice? Ne nascono e muoiono ogni anno a migliaia, e sono pochissime quelle che superano il triennio di attività svolta professionalmente. Inoltre il mercato è saturo, e in un momento di forte declino. Perché non aprire, invece, un bel negozio di Hello Kitty, che è puro guadagno? Follia o masochismo? Risponderei passione. Avendo entrambe un lavoro che ci garantisce una certa stabilità ma anche un po’ di tempo libero, abbiamo scelto di dedicarci alla nostra passione comune, che non è decoupage né uncinetto, ahimè, ma l’editoria. Chi legge un libro generalmente vede dentro una storia, uno stile, una scrittura; noi ci vediamo l’editing, la correzione di bozze, l’impaginazione, la qualità della carta e quella della stampa. Ne parliamo di continuo, mentre lavoriamo, certo, ma anche a tavola, mentre facciamo acquisti, mentre leggiamo: spesso capita di telefonarci per riferire di pregi e difetti delle nostre letture. Per due maniache così non c’era altra strada. Premesso questo il punto successivo da dibattere è il tipo di editori che si vuole essere. Coerentemente con le nostre scelte private, noi non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo essere editori a pagamento: vogliamo essere imprenditrici, correre il rischio contando sulle nostre capacità e anche un po’ sul nostro intuito. Di quanto sia difficile siamo a conoscenza, a maggior ragione per chi, come noi, parte dal sud e dai pregiudizi diffusi; ma non è un buon motivo per non tentare, non è 179


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sufficiente a desistere. Se falliremo, avremo almeno provato al massimo delle nostre possibilità, onestamente. Finite le basi si comincia a progettare quali saranno le pubblicazioni, ma soprattutto il nome. Per le pubblicazioni ci è sembrato naturale optare per una linea di romanzi di esordienti: è per loro, per la scoperta del talento inespresso che questo lavoro è così soddisfacente. Per il nome, beh, potremmo dire che abbiamo studiato tanto e pensato seriamente, solo che sarebbe vero solo in parte: lo abbiamo fatto, ma dopo che il nome ci è venuto incontro, da sé, un po’ come i cuccioli che scelgono la famiglia e non viceversa. E se avessimo fatto centinaia di brainstorming non credo avremmo mai saputo trovare nulla di meglio. Non vi preoccupate: ancora pochi giorni per saperlo!

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VITA DA EDITOR(E) 2009

Nascita di una Casa Editrice speciale n.1

Domani alle 19 nascerà ufficialmente la nostra Casa Editrice. Da un lato è la fase finale del progetto di creazione, dall’altro è quella iniziale dell’impresa, perciò è un passaggio materialmente ed emotivamente delicato, e contemporaneamente molto duro, pieno di impegni. Quali sono le formalità da espletare? A questo punto bisogna già aver contattato un buon commercialista e aver scelto la forma e l’oggetto sociale. Sì, perché come quasi per ogni società (le eccezioni sono davvero poche) sarà necessario un notaio, per legalizzare la nascita. Non esistono vincoli al tipo di società da creare; noi abbiamo scelto la forma della Snc: trattandosi di due persone era quella più plausibile per dare le stesse responsabilità e lo stesso valore ad entrambe. Anche se sulla carta le nostre funzioni sono divise, effettivamente sia io sia Memy ci occuperemo dei vari aspetti, congiuntamente e in totale sinergia. Ma, per evitare che il lavorare insieme logori il nostro rapporto personale, abbiamo già stilato un Regolamento interno rigidissimo, che include organizzazione, modi, tempi e modelli di lavoro; in società non si sa mai quali possano essere i momenti critici, e trattandosi di due sole persone è meglio prevedere tutti i casi, compresi, in special modo, quelli di stallo. Al Regolamento sono allegate le norme redazionali, i modelli di contratto, tutti quei documenti ufficiali che servono alla gestione e organizzazione interna ed esterna, dagli acquisti alle collaborazioni. 181


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Il commercialista ci seguirà anche nel momento della firma dal notaio: immediatamente dopo, infatti, i due professionisti faranno richiesta di iscrizione ai vari registri e ci faranno avere la partita Iva, l’agognato primo gradino da cui inizia il turbine degli eventi. Sarà infatti solo con l’attribuzione della partita Iva che potremo aprire un conto in banca societario, acquistare i materiali, iscriverci ai vari servizi a noi necessari. Sarà quella a sancire la nostra presenza nel mondo dell’impresa. Il primo acquisto da fare, appena avuto il codice, sarà il timbro dell’azienda, che sembra un’inezia ma è necessario per molte richieste formali. Poi, a cascata, tutto il resto. A venerdì per gli altri aggiornamenti.

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Nascita di una casa editrice speciale n.2

Attenti, ho una partita Iva qui e non ho paura di usarla! Lasciando stare l’evidente scherzo, ecco qui puntuale il vostro aggiornamento. Finalmente abbiamo (da quasi un’ora) la partita Iva, che significa per noi poter finalmente agire come società. A questo punto inizia lo “shopping”; no, niente a che vedere con il guardare vetrine e scegliere vestiti: si tratta di acquistare i primi materiali per la casa editrice. Innanzitutto un timbro. Vi chiederete perché il timbro prima di altre cose che possono sembrare, d’acchito, ben più importanti. Semplice: i moduli di richiesta per l’ISBN, beh, devono essere timbrati. Nell’era dell’elettronica, del Web 2.0, della comunicazione veloce, l’assenza di un semplicissimo timbro gommato manda in stallo una casa editrice. Se non fosse la cruda realtà sarebbe irresistibilmente comico. Ma, tant’è, dobbiamo andare a comprare il benedetto timbro, che deve riportare la ragione sociale, la partita iva, la sede. Il passo immediatamente successivo è proprio la richiesta dei codici ISBN all’agenzia, che di recente è passata dal cartaceo al digitale. Suppongo quindi che l’iter sia diventato più rapido e che possiamo ragionevolmente aspettarci che si impieghino meno dei 15 giorni limite. Che altro serve? Un po’ di tutto: l’archivio metallico con chiave, il distruggi-documenti, un registro delle tirature, un bell’inedito nascosto di Borges... oh, forse quello non si compra in giro. Peccato! Contemporaneamente si devono richiedere i preventivi ufficiali alle tipografie, in modo da acquisirli agli atti. 183


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Chiaramente, prima degli oggetti materiali, andremo in banca ad aprire un conto corrente. Per farlo sono necessari alcuni documenti ufficiali, tra cui la copia dell’atto costitutivo; speriamo tuttavia che basti la copia col numero di repertorio e non quella conforme con certificato di registrazione, per la quale dovremmo attendere qualche giorno in più. La parola d’ordine, in questi giorni, è burocrazia. Speriamo di sopravvivere. A proposito: qualcuno ha visto il mio Lasciapassare A38? Per chi non lo conoscesse una piccola ricerca su Youtube sarà sicuramente d’aiuto.

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Nascita di una casa editrice speciale n.3

Ci eravamo lasciati alle prese con timbri, bolli, burocrazia. Per la banca le lungaggini continuano: anche se abbiamo un direttore molto carino e cortese, il conto non potrà essere pienamente attivo finché non arriverà il certificato ufficiale della CCIAA. Per fortuna non avevamo depositato tutto! Intanto l’Agenzia ISBN segna un punto a suo favore: ci aspettavamo tempi titanici, e invece eccoci qui, felicemente in possesso del magico prefisso editore! Per la cronaca il nostro, a cinque cifre, è 96340 quindi, escluse le ultime tre cifre, da generare di volta in volta, il nostro codice sarà 9788896340***. Inoltre abbiamo il certificato di deposito del marchio, il che vuol dire che il simbolo e il nome adesso sono sotto la tutela dello Stato. Abbiamo speranze che entro il termine del rinnovo (10 anni) ci venga attribuito il codice di registrazione dall’UIBM: ad oggi, per quel che ci ha detto l’incaricata, lo Stato sta registrando quelli del 2005. A proposito: le istruzioni per la compilazione prevedono una laurea in antiche lingue morte con specializzazione burocratese. Su Facebook intanto abbiamo creato il gruppo, messo degli scatti dei primi istanti di vita della casa editrice e anche qualche gustosa anteprima (in fondo nella pagina del gruppo), in attesa della prima uscita. E ci siamo anche iscritte ad Issuu, in cui trovate due capitoli del primo romanzo edito. 185


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Impaginazione, grafica e correzione di bozze di Livia MR Di Pasquale

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