N.25 OTTOBRE 2019

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L’EDITORIALE di Edoardo Bucci

Il 5 ottobre, ospiti del festival di Internazionale a Ferrara, abbiamo svolto la prima riunione della nostra storia editoriale in una città che non fosse Roma. Hanno partecipato ragazze e ragazzi, di Ferrara ma anche di Bologna e Modena, che hanno avuto una parte attiva nella stesura di questo numero. È stato per tutti noi un’esperienza straordinaria e formativa, un primo tentativo di condividere il modello d’inclusione al centro della nostra proposta editoriale. Quella di Scomodo è una prospettiva di cooperazione con alla base una missione chiara e condivisa: proporre un’informazione valida come strumento di crescita e di formazione individuale e collettiva. Seppur la strada per permettere a Scomodo di replicarsi fuori dal grande orticello romano sia ancora lunga, rimane per noi solida la constatazione di quanto la nostra generazione possa essere aperta verso proposte volte all’inclusione e di quanto solo processi di partecipazione trasversali possano fornire gli strumenti per agire. Scomodo vuole essere un’iniziativa di lavoro quotidiano ed impegno collettivo, per superare quei limiti di esclusione e mancanza di dialogo che tengono in ostaggio la nostra generazione. Nel piccolo un’esperienza di condivisione come quella di Ferrara ha rafforzato in tutti noi la consapevolezza di quanto sia possibile costruire in autonomia, con la nostra generazione e per la nostra generazione.

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Un ringraziamento speciale va a: William Temgoua Alessia Terentoli Matteo Noce Matteo Selva Michelle Anago Sara Bonora Elisabeth Ofoelo Christian Saracino Giorgio Beltrami Nicola Sisti Enrico Rossi Sagid Karamat Francesca Bovina Federico Gulotta Vittoria Colombari Matilde Camella 1


I N D I C E FOCUS IL BENE COMUNE • Una rigenerazione urbana e sociale La ricchezza nascosta dei beni comuni di Andrea Calà Ricostruire la democrazia tramite i beni comuni di Chiara Falcolini Il Comune come modo di abitare di Christian Saracino La lotta alle mafie si gioca dentro casa di Thomas Lemaire ed Ettore Iorio Intervista a Gregorio Arena di Chiara Falconini ed Ettore Iorio Infografica di Davide Antoniotto

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ATTUALITÀ Epica Siriana di Francesca Asia Cinone e Pietro Forti Il karma del Golfo di Elena Capezzone, Anastasiya Myasoyedova, Susanna Rugghia, Francesco Paolo Savatteri Quanto vale il Made in Italy? di Simone Martuscelli e Marina Roio La città inamministrabile III: Mobilità a Roma, cosa si muove in città? di Carlo Epifanio I CONSIGLI DEL LIBRAIO Parallasse di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol

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MOSTRI Palazzo Nardini di Susanna Rugghia e Pietro Forti

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Scomodo per Internazionale illustrazione di Louis Otis

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CULTURA LA COPERTINA di Maria Marzano Attivismo 2.0 di Annachiara Mottola di Amato Tesori ritrovati di Tancredi Paterra I dolori del giovane trapper di Alessandro Luna e Jacopo Andrea Panno Il fenomeno del k-pop di William Temgoua RECENSIONI Once upon a time in Hollywood di Carlo Giuliano e Cosimo Maj

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Stereo8 di Jacopo Andrea Panno I consigli di Scomodo per Romaeuropa Festival Intervista al naso di Antonio Pronostico di Maria Marzano

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PLUS 77 Lo stato uccida la pirateria di Emanuele Caviglia e Luca Bagnariol 78 Industrie occidentali e imperialismo cinese, chi resiste e chi no di Elena Lopriore e Giovanni Tiriticco 82 L’ azionariato critico di Ismaele Calaciura Errante 87

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IL BENE COMUNE

UNA RIGENERAZIONE URBANA E SOCIALE

In un periodo storico difficile in cui l’attuale sistema politico-economico fa i conti con la sua crisi, riscoprire il valore dei beni comuni rappresenta un’occasione per costruire un nuovo modello sociale che rimetta il cittadino, nella sua dimensione collettiva, al centro dei processi democratici ed economici. L’amministrazione condivisa dei beni comuni è la strada giusta da percorrere per ricreare un legame tra le istituzioni e la comunità che le elegge.

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La ricchezza nascosta dei beni comuni La strada poco battuta dei beni comuni nasconde in realtà numerosi significati giuridici ed economici che si interpongono tra le sfere del pubblico e del privato rilevando teorie economiche da premio Nobel. L’ampia accezione di bene comune Sebbene non esista una chiara definizione giuridica dei beni comuni, gran parte dell’orientamento giurisprudenziale li definirebbe come beni il cui uso è reso libero alla comunità trattandosi di risorse considerate dall’ordinamento essenziali per il conseguimento dei diritti fondamentali dell’uomo, risorse che costituiscano un motivo di autodeterminazione della propria personalità se non addirittura motivo di sopravvivenza. Da un punto di vista prettamente giuridico, considerando quindi, il titolo di proprietà che caratterizza questa tipologia di beni, risulta piuttosto utile rimandare a quella definizione che diede la c.d. “commissione Rodotà”, istituita nel 2007, quando si trovò a presentare un disegno di legge che aveva l’obiettivo di ammodernare la normativa del codice civile: “Si dicono essere beni comuni quei beni che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati”. Nella definizione che diede la commissione si facevano poi una serie di riferimenti all’entità di questi beni comuni, che rientrerebbero più o meno tutti nella categoria delle risorse naturali, come i fiumi, i torrenti e le altre acque; o come l’aria, le zone montane di alta quota, i ghiacciai e la fauna selvatica. Per quanto però a seguito del lavoro compiuto dalla commissione Rodotà emerga l’essenza quasi prettamente naturalistica dei beni condivisi, è necessario comprendere il concetto ben più ampio che di questa accezione se ne fa e se n’è fatta. 4

L’evoluzione della società e dello stato hanno determinato il sorgere di nuove forme di beni comuni facendo rientrare in questa categoria anche i beni appartenenti allo Stato; stiamo parlando, per scendere nel dettaglio, di edifici abbandonati, scuole e strutture che potrebbero essere valorizzate e gestite direttamente dai cittadini. Attualmente l’amministrazione dei beni dello Stato è affidata alla macchina pubblica, che con la sua burocratica e macchinosa operatività fa sì che gli spazi vengano utilizzati meno di quanto in potenziale possano esserlo, si pensi banalmente alle scuole, che al suonare della campanella si cominciano ad avviare verso lo svuotamento totale dell’edificio, che per metà della giornata rimane quindi totalmente inutilizzato. In tutto questo contesto di noncuranza generale degli spazi risulta comunque non indifferente evidenziare come il momento storico di forte istinto liberale e di privatizzazione in cui viviamo consegni ai cittadini un’impostazione mentale che riconduce tutte le forme proprietarie a due opzioni: il singolo proprietario privato o la proprietà demaniale, ossia la proprietà dello stato. È necessario tuttavia, in alternativa a questi due sistemi concettuali, considerare un’altra via: la cosiddetta teoria della terza via che ha valso nel 2009 il premio Nobel per l’economia a Elionor Ostrom, prima donna a riceverlo, che elaborò una tesi che concettualmente parlando è in grado di stravolgere l’intera economia di mercato ad oggi basata sul valore di scambio dei beni, sulla fruizione e sulla disposizione riservata ai privati. Prima di andare ad analizzare il modello che l’economista americana aveva ipotizzato per rilanciare l’uso comune dei beni, è importante comprendere bene le problematiche reali che possono generarsi dalla gestione libera e diffusa di un bene e che vennero in particolare evidenziate da alcuni studiosi: la critica formulata evidenziò come una risorsa concessa all’uso indiscriminato di tutti i componenti di una comunità è un bene che è destinato a deperire; ossia, un ambiente condiviso da molti individui è un ambiente che facilmente subirà un degrado. In sostanza l’uso comune su un bene può facilmente far sì che la libertà stessa concessa ai cittadini si trasformi in un’esasperazione del bene, che ne risentirebbe nelle sue qualità essenziali andando così contro lo scopo stesso per cui la risorsa sarebbe stata resa comune. Scomodo

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Le uniche alternative per ovviare a questo “anarchico saccheggio del bene” sarebbe quella di lasciare la gestione del bene comune o all’amministrazione privata dando il via alla libera concorrenza, o a quella pubblica, lasciando nelle mani dello stato il governo dei beni. Il bene comune si fa modello politico-economico La tesi della Ostrom parte proprio da una visione controproposta alla tesi sopra esposta, dimostrando, tramite una serie di esperimenti empirici, che un bene è più fruttuoso quando gestito dai fruitori stessi. Il godimento del bene, rischia di cadere nell’ esasperazione solo in assenza di regole ben definite, nell’uso e nella gestione. Elinor, per spiegare i vantaggi dell’uso comune, distinguibile dall’uso pubblico che spetta indiscriminatamente a tutti, pone il dilemma del prigioniero in cui due incarcerati vengono separatamente rinchiusi e dove viene loro proposto uno sconto di pena in cambio di un’informazione che procuri danno all’altro prigioniero; entrambi i prigionieri, mancando di comunicazione e cooperazione, si troveranno a fare il nome dell’altro e ad essere condannati allo stesso modo. Con questo piccolo dilemma la Ostrom cerca di dimostrare la tesi per cui di fronte ad una scelta l’approccio difensivo e non cooperante, che razionalmente valuta la scelta individuale più utile per sè, tende ad essere l’opzione peggiore per entrambi. “Il tema centrale del mio studio – afferma Ostrom - è il modo in cui un gruppo di soggetti economici che si trovano in una situazione di interdipendenza possono auto-organizzarsi per ottenere vantaggi collettivi permanenti, pur essendo tentati di sfruttare le risorse gratuitamente, evadere i contributi o comunque agire in modo opportunistico”. La comunità che pubblicamente beneficia del servizio, secondo tale modello, gestisce ed amministra l’esercizio stesso dell’attività, in modo democratico e disciplinato, secondo regole ben precise, di cui la Ostrom ci fa un elenco come condicio sine qua non, regole cioè da cui una buona gestione comune non può prescindere. L’amministrazione comune deve avvenire in capo ed entro dei limiti ben definiti, rendendo partecipi del processo decisionale tutti o la maggior parte dei membri, che devono avere un effettiva attitudine di monitoraggio sulla gestione e che devono allo stesso tempo prevedere delle sanzioni di tipo progressivo per chi violi le regole della comunità; regole che generando conflitti devono prevedere meccanismi di risoluzione poco costosi e di facile accesso. I grandi beni comuni devono dunque essere gestiti sempre secondo quel principio di sussidiarietà, citato all’art 118 della costituzione, secondo cui la singola scelta deve essere presa il più vicino possibile ai soggetti su cui quella decisione ricadrà. Scomodo

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Un compromesso tra stato e cittadino: la fiscalità Come riportato da “Labsus”, laboratorio per la sussidiarietà che porta avanti progetti di partecipazione diretta al bene comune, è possibile, nella pratica, agevolare tramite il fisco la formazione di queste realtà di rigenerazione e di conseguente autogestione dei beni che vengono abbandonati o quantomeno trascurati. Antonio Perrone, professore di diritto tributario all’Università degli Studi di Palermo, ha elaborato una tesi dove nella valorizzazione e nella rigenerazione dei beni evidenzia una convergenza di interessi tra pubblico e cittadino. Un bene rigenerato è un bene che contribuisce al patrimonio sia statale che cittadino, costituendo la rigenerazione, ad esempio di un edificio inutilizzato, un metodo alternativo e addizionale al sistema tributario per contribuire alla ricchezza di uno Stato, che si troverebbe così ad avere sia un edificio sfruttabile in più sia un ulteriore bene da tassare. Ciò che ipotizza Perrone è una forma di sgravio fiscale che venga scandita non unilateralmente dallo stato ma secondo le istanze della comunità, che capendo le proprie esigenze è così in grado di non disperdere la spesa pubblica. Sgravare fiscalmente le opere di rigenerazione costituirebbe, spiega Perrone, una forma di cooperazione tra stato e cittadino che, proprio come avviene nel dilemma del prigioniero, agevolerebbe entrambi, sia singolarmente che come collettività. I beni comuni verrebbero così a rappresentare una categoria di beni che esce fuori dalla definizione di privati e di beni prettamente pubblici, introducendosi tra i due come forma intermedia dove possano partecipare entrambe le componenti, sia private che pubbliche. Se si volesse pensare alla struttura pratica, allo scheletro di questa tipologia di proprietà, si potrebbe immaginare una configurazione simile a quella che troviamo negli enti del terzo settore, strutture il cui uso, seppur possa essere destinato al pubblico, è circoscritto ad un limitato gruppo di componenti e il cui monitoraggio dello scopo perseguito viene compiuto dall’autorità pubblica. Una concorrenza tra Stato e cittadino che è in grado di rimettere in discussione i rapporti di potere. La gestione del bene comune, avvenendo in forma di democrazia partecipativa rappresenterebbe così una forma di educazione politica alla partecipazione decisionale dove il cittadino coadiuva lo Stato anche alla gestione della spesa pubblica; uno spunto da cui ripartire per rilanciare la centralità del cittadino anche all’interno dei contesti così affollati che caratterizzano le città moderne, dove lo Stato, isolato con la sua burocrazia, spesso risulta insufficiente nella gestione e nella scansione di quelli che sono gli interessi cittadini, sempre più tralasciati, sempre più scavalcati. di Andrea Calà

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Ricostruire la democrazia tramite i beni comuni Parlare di beni comuni in un’ottica di amministrazione condivisa è un pensiero rivoluzionario sia per l’economia che per la politica: in un mondo dominato dalla sfiducia, la responsabilità di una partecipazione diretta potrebbe aprire la strada ad un nuovo modo di vedere e vivere la res publica. Le democrazie del nostro tempo stanno attraversano momenti difficili, la crisi del ruolo del Parlamento, delle leggi nazionali e dell’economia hanno generato un clima di paura e di individualismo, in cui derive populiste possono facilmente proliferare. Proprio in questo momento e in questo mondo allora, cosa vuol dire ripartire dai beni comuni? vuol dire prendere una posizione e contrapporre alla chiusura e all’isolamento un’idea di cooperazione e cittadinanza. Dietro tutto questo c’è, a ben vedere, un progetto politico, una visione imperniata sulla fiducia, che da un lato significa fiducia del cittadino verso i suoi rappresentanti, dall’altro la fiducia che il pubblico deve restituire alla popolazione. Secondo la Costituzione francese dell’anno III la democrazia si fonda sulla “lealtà” dei pubblici poteri e sulla garanzia della “vigilanza” dei cittadini, sono questi i due pilastri del rapporto Stato-Cittadino che regge il sistema democratico: io cittadino mi sento parte di uno stato che mi rappresenta e verso cui svolgo attivamente un controllo. Nel rapporto in questione però sempre più messo in discussione, ormai imperniato in una logica conflittuale, il cittadino si sente come mai distante dal processo decisionale e dalla gestione del bene comune, generando così un distacco che fa venir meno la “vigilanza”. Se dunque si priva di uno dei due pilastri un rapporto già complesso, questo inevitabilmente crolla, considerando che gli scandali politici, la progressiva perdita di potere decisionale della politica nazionale sono solo alcuni dei fattorichehannofattovenirmenoilpilastrodella“fiducia”, 6

il singolo si trasforma in un “consumatore politico” che assiste a dibattiti politici e sceglie alle elezioni l’offerta migliore, una “democrazia del pubblico”, per riportare le parole di Bernard Marin. In un tale quadro dunque il cittadino è relegato ad un marginale ruolo di spettatore-votante. Per invertire questa tendenza è necessario porre il singolo al centro di una dinamica argomentativa piuttosto che di mera approvazione. Portare la politica alla cittadinanza significa anzitutto rispondere ad un bisogno di ascolto delle esigenze particolari, ma significa anche responsabilizzare, favorire una nuova politica costruttiva attraverso un dialogo tutt’altro che facile, ma che sia capace di valorizzare e dare dignità alle diverse componenti etnico-sociali del territorio. In questo cambiamento è bene ricordare che il pubblico non fa e non deve fare un passo indietro, al contrario si fa garante dell’amministrazione condivisa proprio per quel compito di “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona” di cui parla l’articolo 3 della Costituzione. A tal proposito riportiamo l’esempio virtuoso della regione Lazio, la prima ad approvare una legge che prevede ed incentiva espressamente l’amministrazione condivisa dei beni comuni, che sarà poi resa effettiva da un regolamento attuativo. Legge che individua la regione sia come un soggetto che può formulare patti di collaborazione per i beni regionali, tra i quali figurano ad esempio l’Appia antica, sia come tutrice per comuni minori della regione, che può avvenire con diversi strumenti, dal finanziamento della formazione per i funzionari cittadini alla creazione di banche dati, fino all’attribuzione di vantaggi economici ed altre forme di sostegno ai patti di collaborazione. Potremmo insomma immaginare per il parco dell’Appia Antica un patto di collaborazione tra la regione Lazio e le comunità di abitanti. Potremmo immaginare che tutti, dagli anziani, ai bambini, agli immigrati, si riuniscano per curare il parco ed i suoi spazi ricreativi, realizzando quindi un meccanismo che rigeneri sia la socialità che i suoi luoghi. Cosa significa, in conclusione, questa gestione partecipata di cui si e trattato finora? Innanzitutto non significa, come si potrebbe pensare, autogestione: il potere pubblico non è assente in nessuna delle esperienze, anzi ha il duplice ruolo di dialogare con la comunità –in piccola scala- e di predisporre le forme e i mezzi della partecipazione –sul piano statale e regionale. Scomodo

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La gestione condivisa dei beni comuni può allora essere il terreno di prova per recuperare un rapporto Stato-cittadinanza ad oggi incrinato, può portare a ricostruire i due pilastri di cui parlava la costituzione francese di “lealtà” e “vigilanza”. La nostra generazione è cresciuta in un clima di generale sfiducia nei confronti dello Stato, un pensiero economico-politico prevalente che ha generato un’immagine di cittadino disilluso e spettatore e ha fondato il suo dominio sulla presunta incapacità delle collettività di cooperare ed autorganizzarsi, avva-

lorata tanto dalla gestione del bene comune statalizzata quanto da quella liberalizzata. In questo scenario è proprio la nostra generazione a reclamare a gran voce un cambiamento di sistema per contrapporre al cittadino disilluso e spettatore un’immagine di cittadino partecipe. di Chiara Falcolini

Il Comune come modo di abitare Asserragliate da piattaforme di sharing economy e dal turismo di massa, le città possono ritrovare la propria dimensione di collettività ed una nuova “democrazia del Comune” tramite la riappropriazione e la gestione diretta dei beni comuni. La crisi economica del 2008, propagatasi sul mercato immobiliare e sulle condizioni finanziarie degli enti locali, ha prodotto ripercussioni sulla gestione delle aree urbane, che nel corso degli anni sono state soggette ad abbandono e deterioramento. Dalla guida pubblica, il ruolo assunto dalle istituzioni è diventato strettamente economico, finalizzato all’attrazione dei mercati, tralasciando quella che è la vera ricchezza delle città: le persone che la attraversano. Saranno proprio queste a dar vita ad un processo di riappropriazione degli spazi urbani a favore di forme di coordinazione alternative allo Stato e al mercato, per una restituzione, di questi spazi alla fruizione collettiva e al soddisfacimento degli interessi generali. Questo processo di partecipazione dal basso comincerà da un’innovativa funzione amministrativa, adottata per la prima volta dal comune di Bologna, città simbolo di un fenomeno nazionale, una realtà cittadina ormai da qualche tempo fatta di case malmesse, costi esorbitanti e ricerche senza fine. Nell’arco di una decina d’anni, tra l’accordo promosso dal Comune dell’Aereoporto Marconi con la compagnia di voli Low cost Ryanair, la nascita di AirBnb e il numero sempre crescente della popolazione studentesca e non, è venuto delineandosi uno scenario sempre più complesso della città, in cui decifrare la concatenazione degli eventi non risulta immediatamente visibile. Scomodo

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Stando ai dati del 2018, Bologna sfiora le 50 rotte aeree Ryanair al giorno ed un afflusso turistico che ammonta a 3/4 milioni di individui ogni anno, rendendola di fatto una meta turistica per eccellenza; il fenomeno non può che tradursi in motivo di vanto per i cittadini fino a quando i diritti di quest’ultimi, non vengono più considerati la priorità per il benessere della città, sostituiti dal diritto al consumo per coloro che non costituiscono una spesa, sotto forma di servizi pubblici e welfare ma rappresentano per la città esclusivamente una forma di guadagno. Nell’arco di 10 anni, la crescita della popolazione residente di 15 mila persone - di cui 3600 studenti non essendo stata accompagnata da un adeguato piano abitativo, ha portato ad un costante innalzamento dei prezzi degli alloggi, rendendo la possibilità di vivere questa città un lusso per pochi; centinaia sono gli studenti e le studentesse costrette ad abbandonare la città per impossibilità economiche o per mancanza di alloggi adeguati, nonostante 10/14 mila risultino essere gli edifici sfitti o invenduti secondo il censimento ISTAT, le misure adottate dal Comune: il Piano Mille Case, gli esperimenti di sharing economy e cohousing sembrano non aver compreso l’entità della questione: tutt’alpiù aggirandola. Se da un lato le possibilità economiche degli studenti si misurano con affitti esorbitanti, proprietari selettivi (per utilizzare un eufemismo) e appartamenti limitati, dall’altro il turismo sembra essere incentivato - stando ai dati di Inside AirBnb - dai 4300 alloggi offerti da Airbnb, di cui il 65% interi appartamenti, senza contare il restante gestito da altre piattaforme. 7


L’aspetto che conferisce una chiave di lettura della situazione attuale, è il processo di professionalizzazione da parte della multinazionale, in atto su una classe sociale medio-bassa che si avvicinerebbe agli affitti brevi di appartamenti con l’idea di arrotondare per arrivare a fine mese, camuffando con la filosofia dell’azienda “partecipativa” quella che è diventata a tutti gli effetti un’attività imprenditoriale ormai diffusa, a dimostrarlo è un semplice dato: il 49% degli host gestisce più di un annuncio. Cosa impedisce il Comune di regolamentare le piattaforme turistiche? Perché non tassare le attività imprenditoriali dei multiproprietari? La scelta politica che vi sta dietro è riassumibile dalla nota “Teoria delle finestre rotte” riportata da Wolf Bukowski in La buona educazione degli oppressi «In poche righe, poche ma decisive, quella che diventerà la teoria egemonica sulla sicurezza urbana afferma che la percezione conta più dei fatti, e che il modello di ordine pubblico da preferire è quello che soddisfa la percezione anche quando questa è contraddetta dai fatti. La motivazione politica è evidente: per blandire la classe media, che decide l’esito delle elezioni, non è conveniente impiegare risorse per perseguire crimini complessi, ma è efficace utilizzarle per colpire il disordine, cioè illeciti piccolissimi o persino inventati ad hoc, migliorando così la percezione, e la propensione elettorale, dei residenti» A partire dal 1992 dall’abbandono dell’equo canone, per ogni casacca politica la deregolamentazione si è rivelata essere la giusta strada per coniugare ai facili voti, un freno al flusso di studenti fuorisede che intraprendono gli studi a Bologna. Destabilizzare per stabilizzare, lasciar permeare il caos nello stato di cose, perchè sia più desiderabile l’ordine piuttosto che il cambiamento. Questo è il modus operandi di una politica che ha perso ogni interesse sulla questione abitativa rendendola una vera e propria emergenza. Di fronte questo silente assenso da parte delle istituzioni, si riaccende l’azione collettiva dal basso: migliaia sono state le firme raccolte da parte di studenti, famiglie, insegnanti e sindacati riuniti sotto l’etichetta di “Pensare Urbano” per richiedere un cambio di rotta e fermare l’avanzata del mercato speculativo attraverso l’istruttoria pubblicata nelle giornate del 20 e 21 settembre scorso. 8

Con una discussione pubblica e una tendata al di fuori del Palazzo del Comune, la comunità cittadina ha messo alle strette l’amministrazione costringendola a prendere parte alla redazione del nuovo Piano Urbanistico Generale attraverso una serie di manovre: revisione dei contratti a canone concordato e una mappatura degli alloggi vuoti e in disuso. Nel comunicato successivo all’istruttoria pubblica Pensare Urbano ha dichiarato «L’obiettivo é stato quello di porre l’amministrazione ad un bivio, senza alcuna possibilità di procrastinare o di sottrarsi dalle responsabilità politiche. Le due strade che abbiamo delineato portano a due città diverse: da un lato una città privata della sua natura e solo per pochi, dall’altro una città giusta e accogliente, per tutti. Abbiamo proposto una regolamentazione ferrea delle piattaforme turistiche, tramite l’introduzione di un codice unico identificativo e del criterio “un host, una casa”, così da ridurre al minimo la sottrazione di immobili dal mercato degli affitti.» Il diritto ai beni comuni - e quindi alla città - deve tornare con forza sul piano della riflessione giuridica; una direzione già intrapresa, ad esempio, dal comune di Napoli dove una discussione partecipata sulla destinazione d’uso degli immobili ha portato, grazie alla volontà della giunta De Magistris, alla concretizzazione di atti amministrativi a partire dal “riconoscimento dei beni comuni in quanto funzionali all’esercizio di diritti fondamentali della persona nel suo contesto ecologico” fino alla creazione di un Tavolo dei Beni Comuni in senso all’amministrazione della città di Napoli. I regolamenti comunali volti ad attuare un processo di rigenerazione dei beni comuni urbani, che “sfidano” la legalità formale, supportati dall’iniziativa da parte dei singoli cittadini, risultano ora quanto mai necessarie per aprire nuove possibili alternative di sviluppo e per ritornare a vivere in città democratiche. di Christian Saracino

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La lotta alle mafie si gioca dentro casa I beni confiscati alla criminalità organizzata sono beni comuni. Un’importante risorsa nella lotta alle mafie, una ricchezza per l’Italia. Leggi incerte e procedimenti lenti della burocrazia minano l’efficacia di questi interventi. Sono passati quasi venticinque anni dalla legge 109/1996 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alla criminalità e nonostante i benefici generati dalla gestione collettiva di questi beni, tante ancora sono le criticità da risolvere. I beni confiscati costituiscono solo in Italia un patrimonio di 18.270 immobili e 1.985 aziende. Di tali beni l’82% si trova nel Mezzogiorno, ma non è da sottovalutare una percentuale alta come quella Lombarda dell’8%, indicativa delle metamorfosi subite dalla complessa e nascosta realtà delle mafie. Di questi 720 sono stati i progetti realizzati, che hanno messo al centro i cittadini tramite processi di riappropriazione e gestione collettiva. Negli anni questi beni sono diventati palestre di democrazia, occasione di lavoro vero, pulito, di accoglienza per le persone fragili e in difficoltà, di formazione e impegno per migliaia di giovani che volontariamente, ogni anno, vi trascorrono un periodo dell’estate. Allo stesso tempo però, secondo dati forniti da “Libera”, due terzi dei beni affidati alla gestione sociale versano in stati di cattive condizioni e il tempo medio tra il sequestro e l’effettivo riutilizzo sociale è in media di dieci anni. L’amministrazione condivisa è la direzione da seguire per raggiungere un’efficiente allocazione dei beni sequestrati perché è anche tramite questi processi che passa la lotta alle mafie. Come spiega Umberto Postiglioni che per quasi tre anni ha guidato l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), un bene confiscato diventa essenziale per promuovere una cultura della legalità, se la mafia è un sistema che si fonda sulla paura e l’omertà dei singoli, un bene comune permette all’individuo di riscoprire l’importanza e la forza della collettività e minare le fondamenta di tali associazioni criminali. La gestione condivisa di un bene comune educa al rispetto delle regole, poiché si fa esempio di come diritti, doveri e responsabilità vengono condivisi tramite esse. Scomodo

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Il valore aggiunto di una collaborazione sul modello dell’amministrazione condivisa tra pubblico e privato rispetto ad un riuso sociale da parte di un ente istituzionale o del terzo settore risiede nel concetto di rete: “rete” è la parola fondamentale per il rilancio di una riflessione – e di una azione – condivisa tra più attori perché in grado di intercettare dinamiche locali di attivismo civico per inserirle all’interno di una progettualità più ampia. La rete crea relazioni tra persone, tra competenze e risorse diverse che possono essere unite per servire un unico scopo, tra best practices che possono essere meglio esportate e tra responsabilità condivise. Tra le numerose testimonianze di questo processo emblematica è l’esperienza nella cittadina di Corleone in cui una abitazione confiscata alla mafia locale è stata resa dall’associazione “Laboratorio della Legalità” un museo che racconta l’evoluzione del fenomeno mafioso dalla fine del’800 ai giorni nostri tramite immagini e racconti suggestivi, promuovendo al contempo numerose attività sulla legalità. Il modello di co-progettazione che ha determinato il successo di questa esperienza è stato reso possibile proprio grazie allo strumento dell’amministrazione condivisa che ha garantito una gestione diretta e virtuosa del bene sequestrato. E’ possibile e necessario dunque pensare ai beni confiscati alle mafie come nuovi beni comuni che “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”. di Thomas Lemaire ed Ettore Iorio

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Intervista a Gregorio Arena, fondatore di “Labsus” Nel panorama dei beni comuni “Labsus: laboratorio per la sussidiarietà” rappresenta l’esperienza più virtuosa nel panorama nazionale. Capovolgendo la visione del bene comune, l’energica spinta propulsiva del Professor Arena ha portato alla stesura ed approvazione in 210 comuni italiani di un regolamento visionario che permette ai cittadini di gestire direttamente i beni comuni favorendo un modello di società inclusivo, egualitario e partecipato. Professore come è nato Labsus e in risposta a quali esigenze? Mi sono sempre occupato dell’amministrazione pubblica dalla parte dei cittadini cercando di cambiare le cose tramite gli strumenti che avevo, cioè tramite il Diritto amministrativo. Nel 97’ scrissi un saggio intitolato “Introduzione all’amministrazione condivisa” in cui ipotizzavo la nascita di un nuovo modello di amministrazione. Nella mia ottica le problematiche non potevano essere affrontate con una netta divisione tra ciò che è delegato all’amministrazione e ciò che è delegato ai cittadini, da questa consapevolezza nasce il concetto di amministrazione condivisa in cui l’amministrazione condivide con i cittadini uno scopo d’interesse generale. Quando nel 2001 è stato inserito il principio di sussidiarietà in Costituzione molti l’hanno interpretato come una legittimazione dell’esternalizzazione di funzioni e servizi, inteso come un semplice dovere dello Stato di supportare economicamente i cittadini una volta che questi si fossero attivati, per poi ritrarsi. Essendo io contrario a che il pubblico si ritraesse, soprattutto alla luce dell’art 3 secondo comma della Costituzione che prevede l’intervento dello stato per rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo delle persona, iniziai a girare l’Italia dicendo ai cittadini che c’era questo principio che gli permetteva di prendersi cura dei beni comuni. 10

Fondai “Labsus” nel 2005 e continuai a girare il paese accorgendomi che il problema principale per l’attuazione di questi progetti era la mancanza di disposizioni legislative o regolamentari, non bastando il riconoscimento costituzionale. A quel punto, avendo incontrato ad un convegno il direttore generale del comune di Bologna, per due anni abbiamo lavorato nei quartieri della città per scrivere un regolamento per l’amministratore condivisa dei beni comuni insieme con i cittadini e i dirigenti del comune di Bologna.Sabato 22 Febbraio 2014, me lo ricorderò finché campo, con Il sindaco di Bologna Virginio Merola abbiamo presentato questo regolamento e lo abbiamo caricato sul sito di Labsus. Da quel momento ci sono state migliaia di adesioni in tutta Italia, sono iniziato ad andare dove mi chiamavano e mi sono reso conto che avevamo intercettato senza prevederlo un bisogno di centinaia di migliaia di persone che già svolgevano queste attività ma nell’assenza di un regolamento che li legittimasse. La cosa incredibile degli ultimi mesi è lo sviluppo a livello internazionale, in Francia, Spagna e da ultimo persino in Sudafrica. Perciò quello che stiamo capendo è che questo bisogno di prendersi cura dei luoghi dove si vive non è un sentimento solamente italiano. Stiamo liberando energie nascoste. Come la realizzazione di questi progetti può far nascere un’educazione al bene comune? In Italia non è normale prendersi cura delle cose di tutti come se fossero proprie e se lo vedi fare da altri cittadini pensi che siano matti. Se però vi è un regolamento che li legittima e un sostegno dal comune, la cittadinanza inizia a convincersi di poterlo fare, superando l’eventuale stigma sociale. Noi non parliamo mai di manutenzione ma piuttosto di cura, un termine che ha un significato empatico e mette in evidenza che la ricostruzione dei legami di comunità è il vero valore di questi progetti. Le persone che si prendono cura dei beni comuni sono allegre, si divertono. Tempo fa in un’assemblea un medico di base mi disse di aver riscontrato una diminuzione del livello di depressione negli anziani della sua città dove erano stati realizzati i patti di collaborazione, perché prendersi cura dei beni della loro città li faceva sentire utili e li aveva aiutati ad uscire dalla solitudine. L’educazione ai beni comuni passa dalla cura di quest’ultimi, il sesto senso, quello civico, va educato. Scomodo

Ottobre 2019


Quali sono i prossimi passi per arrivare ad un riconoscimento legislativo a livello statale? Il riconoscimento potrebbe venire solo dal parlamento, il problema è che il nostro legislatore, che sia nazionale o regionale, tende ad imbrigliare anziché liberare le energie, diffida dell’espressione dell’autonomia dei cittadini e per questo temiamo che una legge nazionale si tradurrebbe in una burocratizzazione eccessiva. Noi stiamo andando avanti con la proliferazione dei regolamenti a livello comunale. Se il governo italiano si dotasse di un ufficio di coordinamento nella gestione dei regolamenti e dei patti di collaborazione il nostro progetto potrebbe avere un maggiore sviluppo, ma da amministrativista temo la burocrazia. Si può ricostruire la fiducia dei cittadini nello stato tramite questi progetti e quanto lo stato ha fiducia nei suoi cittadini? I beni comuni sono di tutti, devono rimanere fuori dalla contesa elettorale ma allo stesso tempo certamente i beni comuni non sono politicamente neutrali: una società che si fonda sulla cura condivisa dei beni comuni è ben diversa da una società fondata sull’egoismo, il risentimento e la paura. Stiamo effettivamente proponendo un progetto politico e di società al cui interno, fra l’altro, c’è sicuramente anche il recupero del rapporto con le istituzioni più vicine ai cittadini, quindi con il comune e la regione. La fiducia è circolare: i cittadini si fidano del comune e il comune dei cittadini. Il grosso problema sono i funzionari e dirigenti, non gli amministratori locali che sono persone come noi che cercano con tante difficoltà di gestire le città. Gli amministratori capiscono che i cittadini sono loro alleati, mentre i funzionari e i dirigenti li vedono come degli intrusi e rendono il tutto più difficile. In presenza di sindaci determinati e cittadini insistenti anche i dirigenti possono diventare difensori dei patti di collaborazione. Alla fine si accorgono della convenienza dei patti poiché si generano risorse, il clima sociale migliora e la gente è contenta.

In Italia si stima che ci siano circa 5 milioni di immobili abbandonati, ex caserme, ex asili, ex tutto, senza tralasciare i beni confiscati alle mafie che sono anch’essi spesso abbandonati, così come molti beni ecclesiastici. Tramite la Sibec -la Scuola italiana per i beni comunistiamo tentando di formare dirigenti capaci di gestire questo immenso patrimonio di beni abbandonati, trasformandoli in beni comuni e gestendoli in maniera economicamente sostenibile. Stiamo ragionando inoltre sulla possibilità di contribuire ai patti di collaborazione non solo con le energie e il tempo impiegati dai cittadini, ma anche prevedendo la possibilità di contribuire economicamente con risorse in denaro a sostegno dei patti, tramite per esempio dei voucher. Se intorno ad ogni patto nascessero forme di crowdfunding di quartiere gestite in maniera trasparente questo potrebbe alimentarne la replicabilità. A prescindere da queste evoluzioni la cura dei beni comuni produce indirettamente sviluppo economico perché produce capitale sociale e le imprese preferiscono investire in territori dove c’è molto capitale sociale. Oggi un’impresa preferisce stare in un territorio con un clima sociale di questo tipo piuttosto che in uno dove magari ci sono delle agevolazioni fiscali ma allo stesso tempo ci sono problemi di criminalità e tensioni sociali. di Chiara Falcolini ed Ettore Iorio

La sostenibilità economica dimostrata nella realizzazione dei progetti di sussidiarietà può generare un nuovo modello economico incentrato sul bene comune e sulla diretta partecipazione dei cittadini? É una cosa su cui stiamo ragionando molto per far si che la cura dei beni comuni generi lavoro per i giovani e non solo. Ci siamo resi conto che i patti di collaborazione si distinguono in due categorie: il 90% sono ordinari e riguardano verde pubblico, scuole, beni culturali ecc; poi c’è un 10%, i patti complessi, che riguardano gli edifici abbandonati. Scomodo

Ottobre 2019

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di Davide Antoniotto


AT T UA L I TÀ


L’ombelico del mondo Come continua l’incubo del Medio Oriente

Il ritiro delle truppe americane dalla Siria nord-orientale e la conseguente offensiva turca. La riaccensione dei conflitti tra Iran e Arabia Saudita che da anni si confrontano indirettamente in una delle guerre piĂš devastanti di sempre. Le scorse settimane hanno visto diverse regioni mediorientali ripiombare in una spirale di violenza, tra interessi geopolitici di potenze mondiali e narrazioni propagandistiche.

continua a pag. 18

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Il lettore non appassionato di politica internazionale potrà rimanere infastidito di fronte a gran parte della sezione dedicata ai conflitti mediorientali. In realtà, alla base di questa scelta ci sono esigenze e motivazioni ben precise. Raccontare la genesi dei due articoli in questione potrà forse chiarire eventuali perplessità. 16

Scomodo

Gennaio 2019


Medio Oriente Il 5 ottobre si è tenuta la prima riunione di redazione per la pianificazione del numero che avete tra le mani. Da qui sono uscite diverse proposte di articoli, ancora confuse e poco strutturate. Tra queste, una delle meglio recepite e di cui eravamo più sicuri è stata quella di trattare le nuove tensioni in Medio Oriente. Mentre le pagine di politica nazionale erano impegnate nell’inseguimento delle dichiarazioni di Conte e di Renzi, alle prese con il suo neonato partito, gran parte del dibattito internazionale delle settimane precedenti era stato piuttosto monopolizzato dallo scambio di minacce tra Teheran, Riyadh e Washington. Due giorni dopo, mentre diventava sempre più evidente la necessità di chiamare nuove riunioni per definire meglio gli articoli da scrivere, è arrivata la notizia del ritiro delle truppe USA e l’annuncio dell’offensiva turca. A questo punto andava operata una scelta. E chiunque sia un minimo avvezzo al lavoro di redazione sa quanto “operare una scelta” nella pianificazione editoriale di un giornale sia un’attività di carattere negativo: per ogni argomento a cui si decide di dare spazio, ne vengono esclusi o rinviati a data da destinarsi molti altri, seppur validi. In questo caso la decisione era ovviamente quale dei due temi mediorientali trattare. Entrambe le ipotesi avevano buoni punti a favore.

Da un lato le tensioni nel Golfo rappresentavano un nucleo tematico che, seppur trattato da buona parte della stampa, difficilmente era stato contestualizzato in modo approfondito. Dall’altro, non parlare dell’offensiva turca non voleva dire soltanto ignorare un’esigenza di cronaca giornalistica – a cui Scomodo, in qualità di mensile cartaceo, non ha mai dato troppa rilevanza – ma soprattutto ignorare una responsabilità politica verso i nostri lettori, dopo che in occasione della pubblicazione di Presente 2018 abbiamo definito quella in Siria come “la grande guerra del nostro tempo”. Il risultato di tale dibattito è ciò che leggerete nelle prossime pagine. E’ nata così quindi la volontà di dedicare più di metà della sezione di attualità a entrambi i due grandi conflitti mediorientali, yemenita e siriano, evidenziandone in questo modo anche i legami e le similarità. Con la speranza che queste pagine siano d’aiuto inoltre alla formulazione – da parte di qualcuno più bravo di noi – di una teoria che riesca a spiegare perché, in un mondo in cui la diplomazia e la finanza diventano sempre di più il campo di gioco della politica internazionale, il Medio Oriente continui a rimanere in una costante spirale di violenza da cui non sembra poter uscire.

Medio Oriente Scomodo

Ottobre 2019

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EPICA SIRIANA -------------------------------------------------------------------L’invasione turca in Siria del nord su cui ogni potenza sta creando una narrazione differente

Dalla notizia del ritiro americano delle truppe e, conseguentemente, dall’inizio dell’operazione militare turca nel nord-est della Siria, i messaggi, i comunicati e le dichiarazioni passate per i media di tutto il mondo sono stati il punto focale della guerra. Molto più dell’effettivo andamento della guerra stessa: i media mondiali hanno tentato di decifrare le intenzioni americane, europee, siriane, russe, turche e curde più di ogni altra cosa. Data anche la scarsità delle fonti attendibili (dal dibattito sulle armi chimiche in giù), per intuire l’andamento della guerra e il peso delle forze in campo si è creata un’attesa ansiosa dell’ultima dichiarazione di questo o quel leader. Con un apparato mediatico così assetato di comunicati e così poco curioso della guerra, quale terreno più fertile per i vari leader per far passare in prima pagina la propria propaganda? Equilibrismi atlantici Il Rojava non smette di essere al centro delle rivendicazioni turche da ormai troppi anni e Ankara non sembra disposta a compiere nessun passo indietro. Ad oggi l’emergenza umanitaria in Siria provocata dalla guerra è in pieno atto e non bastano tregue di 120 ore a disinnescarla. Stando agli ultimi dati rilasciati dalle Nazioni Unite, gli sfollati nel nordest del Paese in dieci giorni di invasione sarebbero circa 300mila, con decine di morti e feriti da aggiungersi al conto. 18

Scomodo

Ottobre 2019


In questo quadro desolante, l’Europa è risultata sin dall’inizio spettatrice ammanettata e impotente, la Turchia sembra essersi dimenticata del suo posto nella Nato e gli USA sembrano giocare a convenienza un gioco che ancora in pochi sono riusciti a decifrare. La frontiera 2.0 intanto è stata solcata: il 7 ottobre Donald Trump ha annunciato con un tweet il ritiro del contingente americano dal lato curdo, sostenendo la necessità di far cessare queste “ridicole guerre senza fine e riportare i soldati in patria”. L’America, dunque, ha spianato la strada alla Turchia. Due giorni dopo, infatti, Recep Tayyip Erdoğan ha comunicato a sua volta su Twitter l’inizio dell’operazione “Primavera di pace” contro le milizie curde YGP (Unità di protezione popolare) e il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan), scrivendo che «[...] La missione turca è quella di distruggere e impedire la creazione del corridoio del terrore che sta cercando di stabilirsi attraverso il confine meridionale e di portare la pace nella regione». Ma le mire del Sultano vanno ben al di là dell’opposizione alle richieste indipendentiste e autonomiste del popolo curdo, percepito non poco come minaccia alla sicurezza interna; Erdoğan infatti vuole che nella cosiddetta zona cuscinetto, oggi di fatto sotto il controllo dei curdi, vengano trapiantati all’incirca i 3 milioni di rifugiati siriani che ospita attualmente in Turchia. La sua propaganda - non dissimile da quella del Presidente americano Trump - nel caos di una guerra decisamente spietata, è battente e senza sosta e i social network sono a questo proposito l’arma prediletta: il posting quotidiano alimenta il mito populista della nazione e della tutela dei confini, legittima l’utilizzo della violenza verbale e dell’odio gratuito. Scomodo

Ottobre 2019

Lo scambio di tweet da un capo politico all’altro svilisce la portata del messaggio in sé, sminuisce la delicatezza delle scelte da prendere e da riferirsi nel privato, rendendo noto alla coltre globale di internet cosa ne sarà del futuro di migliaia vite umane nel bel mezzo di una guerra civile di qui alle prossime ore. Ciò che intimorisce è che la propaganda politica turca è riuscita ad infiltrarsi su vari strati: il calcio, in questo senso, è diventato forse il primo strumento di manipolazione ideologica di massa.

“«È un risultato fantastico, ringrazio la Turchia, ringrazio i curdi, milioni di vite sono salve», twitta Trump, in un evidente eccesso di entusiasmo.” Dopo la vittoria per 1-0 della Nazionale a Istanbul contro l’Albania, la squadra turca si è posizionata in fila inscenando il saluto militare tipico dei soldati turchi; inutile dire che il gesto politicamente schierato è stato avvolto dal silenzio dell’Europa e in particolare delle società calcistiche, le quali non hanno preso nessun provvedimento ammonitore. Addirittura una propaganda indiretta si è abbattuta sul social più potente di sempre, Facebook: moltissime pagine di movimenti sociali e testate indipendenti solidali con la causa curda sono state oscurate perché mostravano foto o video di simboli e slogan pro-Kurdistan. Anche Donald Trump non è da meno in questo gioco di autodeterminazione.

Più sferzanti rispetto a quelli di Erdoğan, i suoi numerosi tweet rimbalzano da una parte all’altra dei social e delle testate giornalistiche mondiali. Degna di nota è la lettera del 9 ottobre inviata istituzionalmente al Presidente turco nella quale chiede, con tono pietoso e al contempo duro, di mettere fine al massacro di migliaia di innocenti. In un punto si legge: «[...] La storia ti guarderà favorevolmente se riuscirai a farlo nel modo giusto e umano. Ti guarderà per sempre come il diavolo se non accadono cose buone. Non essere un tipo duro. Non essere sciocco!». Queste parole arrivano un po’ come arriva il sereno dopo la tempesta; Trump ha lasciato i curdi combattere da soli nel pieno dell’attacco, togliendo loro quasi ogni speranza di sopravvivenza militare e civile e badando unicamente al proprio utile: lasciar stare le guerre incerte e combattere unicamente quelle che l’America può vincere. Allo stesso tempo, Trump gioca proprio su un aspetto caro a Erdogan: l’immagine. Se quella interna può uscire rafforzata dalle operazioni militari turche, lo stesso non è successo con il suo appeal internazionale, ritrovandosi a fronteggiare una stroncatura dopo l’altra. Dopo la lettera inviata al Presidente turco e dopo i successivi bombardamenti, è arrivata poi la “tregua”, il cessate il fuoco concordato tra Turchia e USA. Il patto è questo: le truppe di Erdoğan si impegnano a non impugnare le armi per cinque giorni restando comunque a presidiare il territorio, mentre i curdi depongono le armi e abbandonano definitivamente la “safe zone”. 19


«È un risultato fantastico, ringrazio la Turchia, ringrazio i curdi, milioni di vite sono salve», twitta Donald Trump dalla poltrona del suo studio in un evidente eccesso di entusiasmo. In questa finta tregua, infatti, non c’è nulla di veramente positivo: per i vertici turchi le operazioni militari verranno riprese allo scadere dei cinque giorni di tregua concordati e protratte fino a che il territorio non sarà espugnato dai curdi totalmente. E Trump questo lo sa bene. Tanto che la strategia che sta mettendo in campo è diventata palese agli occhi dei milioni che lo leggono sui social: provare a fare il mediatore delle parti, il pacificatore tra la Siria e la Turchia. E tutto questo è ossimorico già solo a dirsi. È ossimorico anche perché, nonostante il cessate il fuoco stipulato, le armi turche non hanno smesso di attaccare, cinque civili sono stati uccisi e Amnesty International ha denunciato la Turchia per crimini di guerra. Eppure, anche stavolta, i tweet del Presidente della Casa Bianca dopo gli attacchi susseguitisi alla tregua non si sono fatti attendere e una frase recita: «si è trattato solo di un limitato gioco di mortaio». È sempre più chiaro, dunque, quanto gli Stati Uniti abbiano fatto una scelta: tacitamente (ma non troppo), gli americani di Trump hanno scelto di sedersi al tavolo turco abbandonando quello curdo con il quale, prima, avevano un accordo militare e non solo. Sicuramente, però, non sarà l’America a trarre dei benefici da questa guerra, né sarà colei che ne uscirà trionfante, anzi. L’attrice che più di tutti, tra i presenti al tavolo, avrà effettivamente i suoi guadagni sarà la Russia. La stessa Russia che dalla propaganda di Trump è risultata essere, sin dall’inizio, completamente assente e tagliata fuori. 20

Come scrive Pierre Haski in un articolo su France Inter (tradotto da Internazionale): «Ora Putin approfitta nuovamente dell’eclissi di Washington per affermare il suo paese come unica potenza straniera presente sul campo e capace di dialogare con tutti gli attori coinvolti. Alleato e protettore di Damasco, il presidente russo è il padrino delle trattative di Astana che riunisce i protagonisti della guerra, oltre a incontrare regolarmente i leader di Iran e Turchia».

“Allo stesso modo con cui ci si era abituati a vedere un Putin categorico, la sua reazione pacata è sembrata quasi fuori posto.” La proverbiale calma degli Zar Mentre Trump cerca in maniera convulsa una giustificazione alla propria mossa, altrettanto confusamente minaccia la Turchia e tutti gli statunitensi annaspano nel trovare una soluzione migliore (il Dem Debate del 15 ottobre ne è una cristallina dimostrazione) è evidente chi abbia più beneficiato di questa mossa. Oscurato dall’oggettiva povertà di condizione del proprio Paese e relegato a poco più di un fanalino di coda nella disputa tra Trump e il suo partner commerciale cinese Xi, Putin ha trovato nuovamente il modo di imporsi al mondo come leader grande potenza. E tuttavia, in una stagione di grandi proclami, i media russi (in prima fila i canali social ufficiali del Cremlino) sono stati piuttosto silenziosi.

In una home page costellata da foto di strette di mano tra Putin e capi di Stato di Paesi per lo più vicini, il resoconto della telefonata tra il Presidente russo e il Sultano turco passa quasi in secondo piano. E tuttavia, rimane l’unica puntata sulla Siria in cui il Presidente russo sembra non essere neanche troppo coinvolto e preoccupato dall’invasione in piena regola in territorio siriano. Un Paese della NATO che invade il territorio in teoria di un alleato della Russia, dopo una serie di negoziazioni fallite. Allo stesso modo con cui ci si era abituati a vedere un Putin categorico, la sua reazione pacata è sembrata quasi fuori posto. Eppure, se combinata con i titoli dei principali giornali e canali di informazioni russi (dal più filoccidentale Moscow Times all’Izvestija passando per l’agenzia di stampa RIA Novosti) è chiaro che l’invasione non sia neanche lontanamente il primo pensiero della Russia in Siria. “I giornalisti russi hanno visitato una base americana abbandonata in Russia” (Izvestija) “I funzionari di Trump si precipitano in Turchia mentre la Russia avanza per riempire il vuoto in Siria causato dal ritiro degli Stati Uniti” (The Moscow Times) “L’operazione militare turca nella Siria settentrionale ha causato una nuova grave crisi nelle relazioni tra Ankara e gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO […] Martedì il Ministero della Difesa russo ha anche annunciato una situazione mutevole nella zona di conflitto, pubblicando una mappa con l’equilibrio di potere sul suo sito web” (Kommersant) Scomodo

Ottobre 2019


Senza nessun annuncio in pompa magna, dalla Russia le poche notizie sulla Siria si sono limitate a sottolineare, anche qui pacatamente, il fattore di disordine: il ritiro degli Stati Uniti dalla zona interessata dall’invasione. Un “vuoto”, un “abbandono” a cui rimediare non con azioni eclatanti o proclami, ma con la cognizione di causa di chi sa governare molto bene un’area in preda al caos, una “situazione mutevole”. Anche per questo, incontri e telefonate con Erdogan vanno ad impattare meno sulla narrazione siriana di quanto non abbiano fatto gli “inviati” Pence e Pompeo nel negoziare con la Turchia: mentre gli Stati Uniti proclamano un effimero cessate il fuoco prima di allontanarsi del tutto dalle alture del Golan e dalla Siria del Nord, Putin ha già inviato delle truppe in supporto dell’alleato siriano per tenere la situazione sotto controllo. Detto fatto: per evitare lo scontro fra le forze del regime siriano e quelle delle FSA (Free Syrian Army, la galassia jihadista che opera in accordo con la Turchia) intervengono le forze russe. Per qualche complottista del Ponente, che ha visto nel Russiagate la pistola (quasi) fumante del coinvolgimento russo nella presidenza di Trump, tutto potrebbe tornare: gli USA passano da poliziotto del mondo a poco più che Stato canaglia mentre la Russia fa il processo inverso. E, sicuramente, a Putin e all’alleato siriano Bashar Al-Assad una situazione del genere sta bene. Per il quale, probabilmente, le cose non si sarebbero potute mettere meglio. Con la Russia a coprirgli le spalle, come del resto durante tutta la durata del conflitto, e con le SDF (Syrian Democratic Forces) a fare il lavoro sporco nel confine più delicato, Scomodo

Ottobre 2019

la sconfitta dell’ISIS e la riduzione del dominio jihadista “misto” alla sola regione di Idlib, persino l’intromissione di Erdogan è stata una boccata d’aria. Non solo per la stabilità del regime, comunque salda da ben prima dell’invasione turca, quanto piuttosto per la martellante propaganda in favore di uno Stato siriano unitario.

L’immagine di un presidente in saldo controllo del proprio Paese, sicuramente, non è conciliabile con un’invasione di uno Stato nemico-ma-non-troppo. La Turchia, dunque, viene dipinta a tinte fosche dai media siriani, ma non nelle vesti di Paese invasore: l’incursione di Erdogan è solo l’ennesimo attentato alla stabilità e all’unitarietà della nazione siriana. E, al contrario della maggior parte dei media occidentali ed orientali, l’apparato siriano non manca di sottolineare i suoi nemici giurati: i jihadisti alleati di Erdogan, che tanti problemi hanno causato al regime di Assad tra il 2011 e il 2015. E se l’alleato russo non preme questo tasto dolente, poco male.

I giornali “di regime” non possono non rimarcare con forza la gravità dell’azione turca, ma non si focalizzano solo su ciò. “Giovedì scorso, le occupazioni turca e americana hanno raggiunto un accordo per sospendere l’aggressione per 120 ore, secondo la quale la cosiddetta ‘zona sicura’ nel nord della Siria sarebbe sotto il controllo dell’esercito di occupazione turco, in cambio della revoca delle sanzioni statunitensi contro il regime turco e del ritiro delle milizie curde dalla zona. Damasco ha definito l’accordo ‘ambiguo’ ” (Al-Watan) “Fonti dei media e fonti locali hanno riferito che le forze di occupazione americane hanno trasferito dozzine di centri di detenzione dell’organizzazione terroristica (Daesh) dall’interno del campo Houl a est della città di Hassakeh in concomitanza con intensi sorvoli degli elicotteri di occupazione nell’atmosfera del campo, meno di 24 ore dopo il trasferimento di 230 terroristi […] alla prigione di al-Shadadi nella campagna meridionale di al-Hasakah” (Al-Thawra) Tuttavia, nonostante l’attacco frontale all’aggressione turca nella sua totalità e nonostante la descrizione degli Stati Uniti come ulteriore invasore e fattore di instabilità, questa narrazione si concentra assai poco sulla condizione della Siria del Nord. “ ‘Oltre ad omicidi a sangue freddo, la Turchia è responsabile delle azioni dei gruppi armati che li sostengono e li armano, ed ha scatenato gravi violazioni in Afrin’, ha dichiarato Komi Naidu, segretario generale dell’organizzazione (Amnesty International, ndr). 21


Il regime turco sta lanciando un’aggressione contro un certo numero di villaggi e città nelle campagne di al-Hasakah e Raqqa, provocando la morte e le lesioni di centinaia di civili, compresi bambini, donne e lavoratori nei settori dei servizi e danni materiali significativi alle strutture di servizio e a importanti infrastrutture come dighe, centrali elettriche e acqua” (Tishreen)

Il karma del Golfo -------------------------------------------------------------------Come i conflitti tra Iran e Arabia si ripercuotono sulla guerra yemenita

Afrin e Raqqa, dalla loro conquista, sono parte di due diversi cantoni del Rojava, di fatto mai riconosciuti dal regime di Assad. Eppure il popolo colpito viene subito accostato alle preziose infrastrutture governative e non all’immediato obiettivo di Erdogan. Che, come ampiamente dimostrato, non ha alcun interesse nel rovinare i rapporti con i vicini siriani (soprattutto in vista della sua uscita de facto dall’alleanza atlantica) ma piuttosto a liberarsi di quel che resta delle forze curdo-siriane del nord. Le SDF infatti, nonostante l’alleanza temporanea stretta con il regime in chiave anti-turca, diventano l’ennesima forza esterna e illegittimamente armata sul sacro territorio controllato dal Ba’ath. Con lo scenario scatenato dal ritiro degli Stati Uniti, dunque, la Siria diventa territorio di prova per una nuova narrazione: i grandi saggi, Putin e Assad, veglieranno sulla stabilità della regione. A patto che siano loro a controllarla, nella loro interezza.

di Francesca Asia Cinone e Pietro Forti 22

Scomodo

Ottobre 2019


Sabato di fuoco Il 14 settembre il portavoce del gruppo di ribelli yemeniti Houthi ha rivendicato l’attacco da parte di 11 missili e 20 droni armati che si è abbattuto su due giacimenti petroliferi della Saudi Aramco, ad Abqaiq e Khurais, due degli impianti più grandi del mondo dove viene gestita la maggior parte del greggio esportato. Il primo giacimento ad essere stato colpito è quello ad Abqaiq, vicino alla costa sul Golfo Persico, alle quattro di mattina, seguito poco dopo dall’attacco al giacimento di Kharais. I due impianti si trovano a 200 km di distanza l’uno dall’altro e costituiscono due siti altamente strategici per gli introiti sauditi.Gli attentati hanno avuto sulla produzione petrolifera di Riyad un impatto drastico: si registra infatti un calo esponenziale nella quantità di produzione di barili che, da 10 milioni al giorno, si è dimezzata arrivando a un totale di produzione giornaliera di 5,7 milioni. E’ considerato il peggior attacco ai giacimenti petroliferi sauditi che l’Arabia abbia mai subito dall’inizio della guerra in Yemen nel 2015. Nonostante gli Houthi abbiano rivendicato l’attacco, si sta ancora indagando sulla responsabilità effettiva del blitz contesa fra i ribelli ed il possibile coinvolgimento dell’Iran, ancora da accertare.Ad accusare direttamente l’Iran sono stati per primi gli Stati Uniti, con il tweet del segretario di stato Mike Pompeo che recita “(…) Non c’è alcuna prova che l’attacco sia arrivato dallo Yemen” e, successivamente, attraverso le immagini diffuse dall’emittente americana CNN che conferma che i missili provenivano da Nord e non da Sud. Scomodo

Ottobre 2019

Secondo questa analisi i missili partivano da una base iraniana al confine con l’Iraq che si trova molto più vicina rispetto alle aree controllate dai ribelli Houthi nel nord dello Yemen. L’Arabia Saudita, al contrario, non ha ancora accusato l’Iran, poiché il coinvolgimento diretto di militari iraniani vorrebbe dire ricorrere ad una immediata reazione militare in una regione che è già sull’orlo di una guerra totale.

“E’ considerato il peggior attacco ai giacimenti petroliferi sauditi che l’Arabia abbia mai subito dall’inizio della guerra in Yemen nel 2015.” I recenti attacchi hanno reso ancora più incerta la già delicatissima situazione in Medio Oriente che si regge su equilibri interni molto fragili, ai quali fanno da sfondo la guerra yemenita e le implicazioni di carattere economico per quanto riguarda l’approvvigionamento del petrolio da parte del mondo. Il primo elemento preoccupante è il rafforzamento da parte degli Houthi che si sono dimostrati in grado di maneggiare armi sofisticate fornite loro dal sostegno dell’Iran. Inoltre, la continuazione degli scontri dei ribelli contro l’Arabia Saudita non fa che inasprire ostilità preesistenti da decenni, mantenendo altissima la tensione nel Golfo Persico ed in particolare i rapporti fra Arabia Saudita/Stati Uniti e Iran.

In questa situazione di incertezza si tende a sfruttare l’occasione per accusare i nemici storici. Nello Yemen, da anni i ribelli Houthi sono sostenuti dall’Iran contro l’intervento diretto dell’Arabia Saudita e ciò declina una rivalità esistente tra Iran e Arabia Saudita che sta permeando molti conflitti dell’area mediorientale quali, oltre allo Yemen, Iraq e Libano. Inoltre, in seguito ai recenti avvenimenti, le minacce e le accuse degli Stati Uniti di prendere duri provvedimenti contro l’Iran sono tornate protagoniste. In questa prospettiva, la guerra yemenita sembra il luogo in Medio Oriente in cui i rapporti di forza tra le due grandi fazioni si formano e modificano continuamente attraverso uno scontro (quasi) diretto. I numeri (umani) della guerra Nel febbraio 2015 il gruppo armato ribelle sciita degli Houthi, con il timore che le elezioni previste dopo l’arrivo al potere di Abd Rabbuh Mansur Hadi potessero essere solamente delle futili promesse, conquista in uno scontro la capitale San’aa e costringe il presidente Hadi alle dimissioni immediate. Da quel momento il Paese è diviso a metà con i ribelli insediatisi a Nord del Paese e il Sud nelle mani dello spodestato Presidente Hadi il quale, trovando rifugio ad Aden, la rende la seconda capitale dello Yemen. Nel marzo dello stesso anno l’Arabia Saudita si pone a capo di una coalizione di altri otto paesi arabi con il supporto logistico degli Stati Uniti, incominciando un massiccio bombardamento nei territori settentrionali dello Yemen controllati dal gruppo ribelle degli Houthi, supportato esclusivamente dall’Iran. 23


L’ONU ha descritto la guerra in Yemen come la più grande catastrofe umanitaria del mondo. Secondo la Human Rights Watch nel Novembre 2018 il bilancio risultava di 6.872 morti civili e di 10.768 feriti dagli attacchi aerei della coalizione Saudita. Attualmente l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) riporta un notevole peggioramento della situazione, con l’aggiunta dei 14 milioni di civili a rischio di fame e morte a causa degli scoppi continui di malattie, tra cui il colera. Già a partire dal 2014, sono stati documentati da gruppi e avvocati yemeniti per i diritti umani centinaia di casi di sparizione forzata e di detenzione arbitraria, di persone in seguito registrate come oppositori politici o minacce alla sicurezza. Sempre dalla Human Rights Watch sono stati documentati 16 casi di persone trattenute illegalmente dalle autorità Houthi con il fine di estorcere denaro alle famiglie o barattare persone detenute da forze opposte. Da agosto 2016 la coalizione ha chiuso l’aeroporto internazionale di San’a. Da maggio 2017 sono state limitate le rotte di viaggio alle aree dello Yemen sotto il controllo degli Houthi per giornalisti e per le organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra cui la sopracitata Human Rights Watch. Ad Aden, le guardie hanno torturato, stuprato e giustiziato migranti e richiedenti asilo, compresi bambini. Solo nel 2017, le Nazioni Unite hanno registrato 842 casi di reclutamento di ragazzi di appena 11 anni da parte delle forze Houthi, 24

quando ai sensi del diritto yemenita e internazionale l’età minima per il servizio militare è di 18 anni.

Secondo le Nazioni Unite entro il 2018 erano circa 3 i milioni di donne a rischio di violenza, in quanto la mancanza di protezione legale le rende esposte a matrimoni forzati e spesso precoci, come alla violenza domestica e sessuale.

“Secondo la Human Rights Watch nel Novembre 2018 il bilancio risultava di 6.872 morti civili e di 10.768 feriti dagli attacchi aerei della coalizione Saudita.” Come riporta l’articolo del 19 marzo 2019 di Repubblica, negli ultimi mesi si contano 22 milioni di persone che sopravvivono di aiuti, rispetto ai 14 milioni del 2018.

“Siamo di fronte a un bilancio atroce e assolutamente inaccettabile”, dice Paolo Pezzati, consulente politico per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia. “Nonostante il leggero calo del numero di vittime dopo i colloqui presieduti dall’ONU in Svezia, le stesse Nazioni Unite hanno affermato che ogni giorno che passa senza un concreto progresso verso la pace, altri yemeniti perdono la vita e se sopravvivono lottano per il cibo, l’acqua, per trovare un riparo”. E aggiunge ancora: “In questo momento, quasi 14 milioni di yemeniti sono ormai sull’orlo della carestia a causa dell’azzeramento dell’economia del Paese e della chiusura dei principali porti. Nel paese c’è una gravissima emergenza idrica e sanitaria: quasi 18 milioni di persone non hanno accesso a fonti di acqua pulita e 19,7 milioni all’assistenza sanitaria di base, rimanendo così inevitabilmente esposte a epidemie mortali. Qui il colera ha contagiato 1,3 milioni di persone dal 2017, di cui quasi 400 mila persone solo nell’ultimo anno, causando migliaia di morti”. L’O.n.g. INTERSOS registra inoltre ogni mese almeno 7000 persone che fuggono dal Corno d’Africa per raggiungere i Paesi del Golfo in cerca di lavoro. A causa dei confini blindati quest’ultimi rimangono bloccati nello Yemen, costituendo in tal maniera una grossa percentuale di profughi. Scomodo

Ottobre 2019


Non è così semplice Gli attacchi del 14 settembre sono stati – anche a causa del j’accuse americano – interpretati attraverso il filtro dei rapporti internazionali tra Arabia e Iran. In realtà la situazione è decisamente più complessa di quanto sembra e il legame tra i ribelli Houthi e Teheran ha varie sfumature. Il movimento fu fondato nel 1990 da Hussein Badreddin al-Houthi, ucciso dalle truppe yemenite nel 2004 ed ora è retto dal fratello Abdul Malik. Nel dicembre del 2017 l’assassinio del vecchio presidente Ali Abdallah Saleh, che dopo essere stato loro alleato di circostanza era tornato un nemico, fu un gesto considerato allora come un precipitoso errore del quale i ribelli avrebbero finito per scontare le conseguenze. Eppure, a dispetto dello choc legato alla caduta di chi ha amministrato lo Yemen per più di tre decenni, gli Houthi hanno trovato poche resistenze, il che rileva la loro morsa sulle istituzioni e le risorse del paese così come la grande capacità di mobilitazione ideologica.

Eleonora Ardemagni, ricercatrice associata dell’ISPI la cui analisi si è focalizzata negli anni sullo Yemen, le monarchie del Golfo e le forze militari arabe,

“Gli Houthi sono lì per durare – si legge su Le Monde Diplomatique in un articolo di marzo scorso – specialmente nella loro culla settentrionale, intorno a Sa’sa, San’aa e Dhamar e nelle zone più densamente popolate del Paese, in cui le tribù sono largamente allineate sulle loro posizioni”. Il sostegno iraniano, oggetto di molti dubbi e controversie a livello internazionale, resterebbe invece marginale. Nonostante un rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 26 gennaio 2018 denunci che l’Iran fornisca, violando le risoluzioni Onu, armi e componenti di missili agli Houthi, che vengono poi assemblati in Yemen anche grazie a tecnici iraniani e degli Hezbollah libanesi lì presenti. I sauditi hanno sottolineato, fin dal 2015, i legami tra Houthi e Iran per legittimare il loro intervento militare, ma tale alleanza di convenienza si è saldata proprio a seguito delle bombe saudite sullo Yemen, che hanno spinto gli Houthi a cercare la sponda di Teheran, che dal canto suo non ha esitato a sostenerli pur di mettere sotto pressione il rivale saudita. La Ardemagni ci spiega tuttavia come il ruolo dell’Iran in Yemen sia stato da subito sovrastimato, in quanto “gli Houthi non sono stati creati ideologicamente da Teheran (come invece Hezbollah e le milizie sciite irachene), ma hanno un’agenda politica locale volta all’autonomia delle terre del nord yemenite, non all’esportazione della rivoluzione islamica filo-khomeinista”. Le fa eco Francesca Gnetti di Internazionale, contattata da Scomodo: “È più verosimile che sia gli Houthi sia l’Iran usino la loro relazione per portare avanti i propri interessi.

“Gli Houthi […] hanno un’agenda politica locale volta all’autonomia delle terre del nord yemenite, non all’esportazione della rivoluzione islamica filo-khomeinista”

La capacità dei ribelli sciiti zayditi – espressione di una minoranza che conta un terzo della popolazione yemenita – in quanto forza inizialmente marginale, di tenere testa a una coalizione di eserciti supportati finanziariamente e militarmente da Stati Uniti, Regno Unito e Francia, rimane difficile da spiegare. A gennaio 2019 un rapporto del Security Council, redatto dalla commissione di esperti delle Nazioni Unite addetta al monitoraggio delle sanzioni contro lo Yemen, ha dichiarato che “la leadership degli Houthi ha continuato a consolidare la propria presa sulle istituzioni governative e non”. Scomodo

Ottobre 2019

ha riferito a Scomodo che è stata in un primo momento l’alleanza tattica fra gli Houthi e il blocco di potere dell’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh – che ha guidato il paese fino alla rivolta anti-governativa del 2011 – a permettere agli Houthi di penetrare gradualmente le forze di sicurezza ancora legate a Saleh.

Tutto ciò, stringendo rapporti con molte tribù settentrionali che sostenevano l’ex governo.

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Agli Houthi fa comodo avere una potenza amica nella regione per far fronte all’Arabia Saudita, e Teheran approfitta delle difficoltà create dagli Houthi a Riyadh e soffia sul fuoco.” La forza degli Houthi si spiega infatti anche grazie al discorso nazionalista: gli Houthi si sono posti, con le azioni e la propaganda, come i difensori dello Yemen contro “l’aggressione” dell’Arabia Saudita, soffiando sul sentimento nazionalista nonostante rappresentino solo una piccola comunità del paese. Nelle regioni dominate dalle loro forze si coniugano contestazioni dell’ordine internazionale, associate alla dominazione americana e all’ingerenza di Riyad e la rivendicazione di una propria identità per le popolazioni delle terre settentrionali. Scacco al re Tra le varie forze in campo della guerra in Yemen, l’Arabia Saudita è sicuramente quella che ha più da perdere. E allo stesso tempo è quella più in difficoltà: a soffrirne in maggior modo è il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, detto “Mbs”. Nel 2015 era Ministro per la Difesa da tre mesi quando ha dato il via ai bombardamenti in Yemen. Immaginata, quella yemenita, come una guerra lampo e pubblicizzata con grande orgoglio dal principe Mbs. “Da subito - racconta la Ardemagni - la guerra in Yemen è stata la guerra di Mohammed bin Salman Al Saud”. Secondo il New York Times lo si vedeva spesso in “fotografie ufficiali circondato da generali, mentre stava ricurvo su delle mappe, ispezionava un elicottero o persino nel retro di un aereo da trasporto militare”. 26

Quattro anni dopo, con migliaia di vittime e costi in più, la guerra in Yemen è stata definita da varie testate internazionali nello stesso modo: “Quagmire”, un pantano da cui Mbs non sa più come uscire.

È vero che internamente al governo Mbs non deve ancora affrontare forti opposizioni, in quanto è “riuscito a marginalizzare i rivali interni alla famiglia reale, anche grazie alla presenza del padre Salman sul trono”, come ci spiega la Ardemagni. Ma ad essere in pericolo è la sua figura internazionale, peggiorata non soltanto a causa del disastro umanitario yemenita. Anche l’omicidio del giornalista Khashoggi nel consolato saudita a Istanbul ha avuto grande ripercussioni sulla sua leadership. Nonostante abbia negato le accuse della CIA, secondo cui l’omicidio è stato ordinato proprio da lui, il principe ereditario se ne è assunto la piena responsabilità politica in quanto capo del governo saudita. Inevitabilmente la questione ha incrinato l’immagine di Mbs; persino negli Stati Uniti - il più grande venditore di armi all’Arabia Saudita - l’omicidio Khashoggi, che scriveva per il Washington Post, ha fatto storcere il naso a molti esponenti politici. Secondo il New York Times adesso diversi “deputati americani guardano con più scetticismo alla guerra in Yemen”.

“Nell’aprile di quest’anno entrambe le camere del Congresso americano aveva approvato una risoluzione che avrebbe terminato l’intervento militare degli Stati Uniti in Yemen.” Tanto che “si potrebbe dire – spiega alla BBC Michael Stephens, un esperto del Royal United Services Institute – che strategicamente Riyadh è in una posizione più debole di quella in cui era nel 2015”.

Nell’aprile di quest’anno entrambe le camere del Congresso americano avevano approvato una risoluzione che avrebbe terminato l’intervento militare degli Stati Uniti in Yemen. Successivamente Trump ne ha impedito l’entrata in vigore esercitando il suo diritto di veto.

Scomodo

Ottobre 2019


Ad aggravare la situazione è inoltre il ritiro progressivo di gran parte dell’esercito degli Emirati Arabi Uniti dalla zona di guerra, una “redistribuzione strategica” delle truppe cominciata a luglio. Ciò ha avuto un duplice effetto. Da un lato ha dimostrato ancora di più quanto sia fratturata la coalizione saudita. Cosa diventata evidente poco più di un mese dopo, a metà agosto, quando il dominio della città di Aden è stato motivo di conflitto armato tra le milizie separatiste del Southern Transitional Council (STC) – appoggiate dagli Emirati – e le forze guidate dal Presidente Hadi e supportate dalla coalizione (di cui gli stessi Emirati fanno parte). Ma dall’altro lato la riduzione delle forze di Abu Dhabi “indebolisce le capacità militari saudite in Yemen, aggiungendo pressione a Riyadh per cercare attivamente una soluzione politica più che militare alla guerra”, scrive il Guardian. Impresa non semplice se – come spiega il NYT - il parziale ritiro degli Emirati “riduce severamente la forza contrattuale saudita, alzando il potenziale costo per Mbs di una qualsiasi trattativa per mettere fine agli attacchi degli Houthi”. E’ probabile che anche questo abbia spinto a fine settembre gli Houthi mettere spontaneamente fine agli attacchi missilistici in Arabia Saudita – come quello che poco tempo prima si era abbattuto sugli impianti petroliferi dell’Aramco – per iniziare un processo di riappacificazione in Yemen. “Finora la risposta di Riyadh sembra positiva - racconta la Gnetti i bombardamenti non si sono fermati, ma si sono ridotti; inoltre è stato consentito l’accesso di rifornimenti di carburante nel territorio controllato dagli Houthi.” Scomodo

Ottobre 2019

Nonostante gli investimenti stellari in materia di sicurezza (il Der Spiegel cita almeno sei miliardi di dollari pagati all’azienda statunitense Raytheon per dei sistemi di difesa aerei) l’Arabia Saudita si è dimostrata molto vulnerabile in alcuni dei luoghi più economicamente produttivi di tutto il regno, registrando quella che il Financial Times ha valutato una perdita di 2 miliardi di dollari. Ma ad essere maggiormente danneggiata è la posizione del principe ereditario come leader del regno più che l’economia saudita. Secondo alcuni, infatti, alla base degli attacchi del 14 settembre agli impianti di Khurais e Abqaiq ci sono proprio le scelte politiche del Mohammed bin Salman. “I critici di Mbs – spiegano ad Al Jazeera quattro fonti vicine all’élite politica e economica del regno - dicono che la sua politica estera aggressiva nei confronti dell’Iran e il coinvolgimento nella guerra in Yemen hanno esposto il regno alle minacce di attacchi”. E mentre Mbs si trova ad affrontare sempre maggiori difficoltà, l’economia saudita promette grandi riprese: secondo quanto scrive l’agenzia Reuters, il ministro dell’energia Abdulaziz bin Salman ha dichiarato il 14 ottobre che la produzione di petrolio del regno tornerà a regime tra Ottobre e Novembre, addirittura superando i livelli pre-attacchi. Ma ciò che è più interessante è il momento in cui è stata fatta la dichiarazione: un’intervista a margine di un evento in occasione di alcuni investimenti arabo-russi. Lo stesso giorno l’arrivo di Putin nel palazzo reale di Riyadh per firmare degli accordi sul petrolio e

per discutere di sicurezza regionale, in particolare della rivalità tra Arabia e Iran. Erano più di 10 anni che il presidente russo non metteva piede nel regno saudita. Ma il fatto che sia successo proprio ora, considerando che “la Russia – come spiega la Ardemagni – è vicina all’Iran, e si è più volte mostrata dialogante con gli Houthi, anche se non ha preso ufficialmente le loro parti”, dimostra che forse qualcosa si sta muovendo nel Golfo.

di Elena Capezzone, Anastasiya Myasoyedova, Susanna Rugghia e Francesco Paolo Savatteri 27


Quanto vale il Made in Italy? -------------------------------------------------------------------Analisi economica (e politica) dell’import-export italiano

Tutta colpa degli Airbus Nell’ottobre del 2004 il governo di Washington pone fine ad un accordo del 1992 tra USAUE sulla costruzione di velivoli civili, e apre un fascicolo presso l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) per denunciare una presunta concorrenza sleale da parte dell’Unione Europea. Sotto la lente d’ingrandimento finiscono infatti 22 miliardi di dollari, sotto forma di sgravi fiscali, con i quali l’UE avrebbe aiutato illegalmente il colosso Airbus, principale concorrente della compagnia statunitense Boeing. Alla mezzanotte del 18 ottobre, 15 anni di contese hanno finalmente trovato una loro, parziale, conclusione: gli Stati Uniti hanno avuto il via libera dal WTO per imporre dazi di compensazione del 25% verso l’UE per un “risarcimento” complessivo che ammonta a 7,5 miliardi di dollari. I prodotti più interessati saranno quelli del settore agroalimentare: formaggi italiani, vini francesi, olive greche, whiskey scozzese; ma anche prodotti tessili, plastica, carta o componenti per l’aeronautica. Come esce l’Italia da questo braccio di ferro? Peggio di chiunque altro. Se si pensa che l’Italia non fa parte del consorzio Airbus (che coinvolge invece altri paesi europei come Francia e Germania) e che i dazi colpiscono uno dei fiori all’occhiello delle esportazioni italiane sul mercato statunitense (andando a penalizzare 28

il commercio italiano per una cifra intorno al miliardo di euro), ecco che ci sono tutti gli elementi perché si possa gridare ad una decisione quantomeno ingiusta. In questo verso, è sensato inquadrare la visita di Mattarella a Trump avvenuta verso la metà di ottobre come un tentativo di ricucire uno strappo che può essere molto doloroso per l’economia italiana.

Tentativo che ha portato i suoi, scarni, frutti: Lawrence Kudlow, il consigliere economico del presidente USA, ha dichiarato a margine della visita di Mattarella che l’aumento delle tariffe sul settore automobilistico, che avrebbe avuto come obiettivo principale l’industria tedesca, è stato evitato perché avrebbe danneggiato in maniera considerevole anche l’economia italiana. Il colloquio tra Mattarella e Trump, però, non è stato sempre così sereno.

Il capo dello Stato italiano ha apertamente rimproverato a Trump una generale politica di protezionismo e chiusura dei mercati che sarebbe controproducente per entrambe le economie, mettendo nel mirino probabilmente anche la stretta su acciaio e alluminio avvenuta nel 2018. La risposta di Trump è stata di quelle che fanno riflettere: il presidente USA si è lamentato dell’esigua quantità di finanziamenti che l’Italia riserverebbe alle spese militari e quindi al finanziamento della NATO (circa l’1% del PIL invece del 2% richiesto da Trump). Ciò mette in risalto come quella tra Europa e Stati Uniti sia una partita tutt’altro che limitata al settore economico: il progetto di un esercito comune europeo recentemente ritornato in auge va proprio nella direzione di rendere l’Unione Europea sempre meno dipendente da un alleato statunitense ritenuto non più così affidabile. E allo stesso modo va interpretata la visita di Xi Jinping in Italia lo scorso marzo, con gli accordi commerciali che lo hanno accompagnato: un tentativo di instaurare rapporti commerciali alternativi. Peraltro, la querelle tra Airbus e Boeing non può dirsi affatto conclusa, come ha ricordato lo stesso Kudlow dichiarando che “ci sono ancora sei mesi per negoziare”: è attesa a stretto giro di posta, infatti, anche la sentenza inversa che dovrebbe riconoscere gli USA colpevoli di concorrenza sleale per gli aiuti a Boeing, concedendo quindi all’UE l’opportunità di imporre a sua volta dazi sulle esportazioni statunitensi. L’Italia troverà quindi il modo di difendere il Parmigiano Reggiano dall’assalto del Parmesan americano? Scomodo

Gennaio 2019


Il CETA e i rischi del libero mercato In questo senso, una situazione esemplare ma di significato opposto è quella che riguarda il CETA, l’Accordo economico e commerciale globale stipulato da Unione Europea e Canada. Il trattato, firmato nell’ottobre del 2016 ed entrato in vigore nel settembre 2017, fa parte dei cosiddetti “mixed agreements”: ha bisogno quindi di ratifica da parte dei singoli stati membri per essere applicato, anche dopo l’approvazione del Parlamento Europeo. Finora il CETA ha ottenuto la ratifica di 13 paesi membri su 28, e tra questi non figura l’Italia. Proprio nelle scorse settimane la nuova Ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova aveva ripreso a spingere affinché l’Italia ratificasse presto l’accordo, riaprendo di fatto un acceso dibattito sul tema. Da un lato, il CETA potrebbe rivelarsi un ottimo mezzo di promozione del Made in Italy, nonché un nuovo mercato su cui ripiegare viste le chiusure che vengono dagli USA. Lo dimostra il fatto che da quando è stato firmato il CETA l’export italiano in Canada è cresciuto dell’11%, con un valore delle esportazioni verso il paese nordamericano tre volte superiore rispetto alle importazioni. Dall’altro lato, però, una liberalizzazione di questo tipo potrebbe essere il primo passo per un attacco alla rigida legislazione europea sull’agricoltura. Lo scorso aprile la Camera di Commercio canadese ha pubblicato, insieme a CropLife (l’associazione internazionale delle aziende agrochimiche), un dossier che metteva in evidenza come alcune misure rappresentassero un freno alla crescita delle esportazioni canadesi nel settore agricolo: tra queste figuravano l’etichettatura del grano, il divieto sugli OGM e i timori verso il glifosato.

Nel dossier si sottolineava come, dal 2014 al 2018, le esportazioni canadesi di grano fossero crollate da 557 milioni di dollari l’anno a 93, e tutto ciò a causa di quelle politiche precedentemente menzionate, definite “protezionistiche” e “a tutela del mercato interno europeo”.

Ecco perché il ritorno in campo della possibilità di una ratifica del trattato ha causato un’ampia levata di scudi.

E poi della Coldiretti, con la pubblicazione a fine settembre di un report che dipinge un quadro per nulla positivo: nel primo semestre del 2019 le esportazioni di Grana Padano e Parmigiano Reggiano verso il Canada sarebbero calate del 32%, 1/3 in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Ad influire su questo crollo sarebbe stata la diffusione del cosiddetto “falso Made in Italy”, ovvero quelle merci prodotte in Canada ma spacciate per prodotti italiani, spesso con marchi falsi. Proprio come il “Parmesan”, spauracchio dei caseifici italiani sui mercati esteri e che 8 volte su ogni 10 pezzi di Parmigiano venduti viene scambiato per il marchio originale. Sempre secondo i dati Coldiretti, nello stesso periodo è aumentata di 9 volte la quantità di grano importato dal Canada, che ha raggiunto i 387 milioni di chili e che quindi può rappresentare un serio problema per il settore agroalimentare italiano. Non solo un problema economico, ma anche sociale e ambientale: la scarsa tracciabilità delle merci dal Canada e i controlli qualità alla frontiera non sempre all’altezza del loro nome possono far arrivare sulle tavole degli italiani prodotti non all’altezza degli standard di sicurezza e salute alla quale sono invece obbligati a sottostare le merci prodotte all’interno dell’Unione Europea. Quale che sia la strada giusta, tra la chiusura protezionistica e le opportunità che vengono dell’apertura dei mercati, la tutela del settore agroalimentare rimane un nodo cruciale per il sistema produttivo italiano. Basti pensare che le esportazioni riguardanti il settore secondario incidono per 411 miliardi di euro sull’economia italiana: circa il 20% del PIL del nostro paese.

“È sensato inquadrare la visita di Mattarella a Trump come un tentativo di ricucire uno strappo che può essere molto doloroso per l’economia italiana.”

Scomodo

Gennaio 2019

Innanzitutto di una parte della coalizione di governo, ovvero il Movimento 5 Stelle, che si è sempre dichiarata contraria al CETA e che esprime tra le altre cose il presidente della Commissione Agricoltura alla Camera.

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Perché non cresciamo più? Il 2019 si è presentato come un anno in cui molti indicatori economici hanno segnato un ribasso. La bilancia commerciale italiana del 2019 è stata stimata in calo rispetto all’anno precedente, e la nostra economia ed il nostro PIL stanno attraversando una fase di stagnazione, ovvero una fase in cui la valutazione di crescita è pari a zero. Il rallentamento della crescita delle esportazioni è una delle cause maggioritarie di questa condizione, che nell’ultimo anno è diventata una caratteristica comune soprattutto nell’Eurozona e nei paesi emergenti. Analizzando più nel dettaglio, il 2019 è attraversato da una continua oscillazione di percentuali negative e positive: la stima finale sembra positiva, ma non si traduce in una crescita del PIL. E tutto ciò ovviamente non fa che ripercuotersi sulla mancata crescita del mercato del lavoro. Ma il 2019 è stato anche un anno di grandi aspettative non raggiunte, specialmente per le stime che aveva registrato l’anno precedente. Il clima di fiducia del consumatore è migliorato, nonostante un clima economico non facile, soprattutto grazie a un miglioramento della valutazione delle prospettive future; tuttavia l’indicatore anticipatore ha continuato a viaggiare su linee di valori negativi, lasciando intendere il proseguimento della fase di debolezza dei vari livelli produttivi. Si sono verificati episodici segnali di ripresa economica, ma comunque meno positivi rispetto alle aspettative. Queste conseguenze derivano da alcune situazioni congetturali: come ad esempio la non corrispondenza di prospettive commerciali tra consumatore e aziende, o valori altalenanti che riguardano il tasso di disoccupazione, le importazioni, gli investimenti esteri e le esportazioni.

Parallelamente questa fase si è riversata in prospettive di scambi sfavorevoli e nel protrarsi di tensioni commerciali. Un particolare non irrilevante riguarda i numeri sproporzionati che sussistono tra il quantitativo di merce che abbiamo esportato verso la Cina (6.490,35 milioni di euro nel solo periodo da gennaio a giugno 2019) negli ultimi anni rispetto a quanto abbiamo importato (15.661,99 milioni di euro nello stesso periodo).

E ovviamente, queste influenze negative destabilizzano il commercio mondiale. Una considerazione da fare nei riguardi delle trattative tra Cina e America è ragionevolmente sulle prospettive globali. Cosa significa a livello economico questo scontro? Sono subito i numeri a rispondere a questa domanda, in quanto si parla di miliardi di dollari di danni per entrambi i paesi. In questo panorama che parte dal mese di luglio del 2018 ed arriva fino al settembre 2019 si parla di un danno americano nei confronti della Cina complessivo di 293,75 miliardi di dollari in dazi. Dal punto di vista degli USA, riguardo l’effettivo danno inflitto dalla Cina si riscontrano cifre più contenute. Infatti, gli Stati Uniti concludono il girone con più o meno 107,35 miliardi di dollari in dazi. Il danno economico registrato dagli USA, tra il quantitativo monetario dei dazi e il cambio dollaro-yuan, è di 87 miliardi di dollari. Seguendo la seconda ipotesi, ovvero di un rialzo dell’aliquota del 30%, le prospettive sono inevitabilmente più drastiche e tragiche. Per il fronte americano si stimerebbe un danno economico di 106,25 miliardi di dollari, considerando anche i 231,25 miliardi di dollari in dazi. E, a differenza di come potrebbe sembrare, queste prospettive non sono così distanti dall’Italia.

“La scarsa tracciabilità delle merci dal Canada può far arrivare sulle tavole degli italiani prodotti non all’altezza degli standard di sicurezza.” Ci troviamo, inoltre, in un periodo di incertezze sulle future relazioni commerciali internazionali, causate da alcune circostanze mondiali: come il proseguire del conflitto tra USA e Cina e la perenne minaccia della Russia di “chiudere i rubinetti d’Europa”.

“l rallentamento della crescita delle esportazioni è una delle cause maggioritarie di questa stagnazione.”

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I dazi imposti dagli USA, le varie precauzioni che sono state attivate dai paesi coinvolti, insieme ai fattori geopolitici minano l’equilibrio e causano il rallentamento dell’economia di altre potenze mondiali come la Cina.

Legami indissolubili Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quando è stato ricevuto alla Casa Bianca, ha rilasciato dichiarazioni esplicite sulla continuazione di questa partnership USA-Italia usando parole come “una grande amicizia”. Uno dei grandi problemi dell’economia italiana è proprio questa tendenza al cristallizzare i possibili sbocchi di mercato.

Scomodo

Ottobre 2019


È ormai consolidato il mito della “forza del nostro export” ed infatti i numeri che registriamo segnano ancora un’esportazione forte nell’ambito dei prodotti agroalimentari, dell’abbigliamento e dell’energia. La vera domanda è: cosa importa invece l’Italia? In questo contesto entra in gioco anche la Russia, altra potenza con il quale abbiamo un legame costante per quel che riguarda l’importazione di materie come gas e petrolio. Nonostante sia stato tra i partner che hanno perso di più in termini relativi, l’Italia resta il secondo partner commerciale UE della Russia preceduta dalla sola Germania. Tra le merci più importate, troviamo principalmente prodotti delle miniere e delle cave, “coke” e prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio. Le relazioni economiche e commerciali tra Italia e Russia sono tradizionalmente forti e molto articolate, così come molto forti sono anche le reciproche influenze tra i due paesi. La situazione economica italiana è contraddittoria, per quel che riguarda l’interscambio tra l’Italia e paesi extra Ue, anche per il dislivello di valore di mercato tra i prodotti importati e quelli esportati. Tuttavia, l’Italia non è indipendente nemmeno in quest’ultimo settore: in quanto alcune materie prime utilizzate per realizzare il prodotto finale con l’etichetta “Made in Italy” vengono in realtà importati da altre nazioni. Ciò avviene spesso, ad esempio, con gli USA per la realizzazione di prodotti alimentari, con alle spalle imprese che ricercano sempre più soluzioni “biotech”. Altro risvolto della situazione è che le nostre importazioni riguardano prodotti Scomodo

Ottobre 2019

e componenti fondamentali in una società avanzata: gas e componenti petroliferi. La vera malattia del commercio italiano è quindi probabilmente l’incapacità, o forse la riluttanza, nel cercare e sviluppare nuovi spazi di scambio. Il nostro legame a doppio filo con gli Stati Uniti, dovuto soprattutto alla presenza italiana nella NATO, ha creato una situazione di inevitabile subordinazione per quel che riguarda alcuni elementi del mercato, a discapito della Cina con la quale i contatti sono molto meno intensi.

Le esportazioni italiane negli USA sono principalmente avanzate nei settori della componentistica, dei mezzi di trasporto, del tessile e dell’agroalimentare, mentre la domanda italiana di prodotti statunitensi sono invece prevalenti i prodotti farmaceutici e chimici di base, le fonti di energia e gli aeromobili. I prodotti principali del nostro export globale, però, saranno proprio quelli che verranno colpiti dai dazi. Le prospettive future dell’Italia sotto questo punto di vista sono critiche anche a causa della contraffazione di prodotti tipici del Made in Italy,

che dovrebbero rappresentare invece una garanzia di qualità. Questa condizione facilita il mercato interno americano proprio nella diffusione di questo tipo di merci: esempio principale è proprio il Parmesan che, come equivalente del nostro Parmigiano Reggiano, solo in questi ultimi giorni ha avuto un incremento di vendite del +220% proprio in vista dei dazi. Queste aziende hanno un fatturato di quasi 87 miliardi di dollari, ma registrano una forte perdita quando si trovano a dover concorrere con prodotti importati dall’Italia. Come si è evidenziato dai dati registrati nell’ultimo anno, la conclusione inevitabile da additare a questo panorama riguarda soprattutto le nostre aspettative economico-commerciali: ovvero, la manifestazione di un’evidente virata politica verso le certezze e i partner di sempre e la mancata fiducia verso altre nazioni e altri spazi di mercato, che potrebbero invece rivelarsi più confacenti alle nostre proposte.

di Simone Martuscelli e Marina Roio 31


La città inamministrabile III -------------------------------------------------------------------Mobilità a Roma, cosa si muove in città?

Oggi: dalla promessa di Raggi all’attualità del fallimento di Roma Metropolitane Nel Giugno del 2016 l’inizio dell’estate arrivava con la promessa della nuova giunta dell’attuale sindaca Raggi, che aveva posto la mobilità al primo degli undici punti programmatici con cui era giunta vittoriosa in Campidoglio con lo slogan: “Roma a 5 stelle è Roma in movimento. I disservizi sono arrivati al capolinea”. A distanza di tre anni, le ultime notizie dai corridoi del Campidoglio parlano di una possibile liquidazione di Roma Metropolitane, la municipalizzata che si occupa di pianificare e realizzare le linee della metropolitana romana. 32

E’ evidente che qualcosa non abbia funzionato, ma è necessario prima fare un passo indietro e provare a fare chiarezza sugli intrichi della mobilità romana, per capire se alcune delle promesse si stiano trasformando nel cambiamento annunciato e vi sia un po’ di speranza nell’aria di Roma. Se la mobilità doveva essere l’inizio della riscossa dopo Mafia Capitale, è proprio da lì che, dopo il suo insediamento, la giunta Raggi ha dovuto affrontare la difficoltà maggiore del primo anno: la procedura fallimentare di ATAC nel 2017. L’azienda finanziata al 100% dal comune si è trovata senza più i soldi per pagare i fornitori del suo servizio. L’opzione scelta dal socio unico, il Comune di Roma, è stata quella di salvare il carrozzone.

Affiancare creditori e debitori ad un giudice in una procedura di concordato preventivo che vige tutt’oggi e che sta traghettando l’azienda fuori dallo scenario del fallimento con un piano concordato di rientro del debito. La rivoluzione sostenibile dei Cinque stelle, apparentemente facile in campagna elettorale, non aveva fatto i conti con la grande necessità non di una rivoluzione, ma di ordinarietà. Quando si parla di trasporti a Roma, infatti, si ha davanti un bollettino di guerra, con quasi un morto al giorno nel traffico e due autobus al mese (nel 2018) che hanno con regolarità preso fuoco. La credibilità dell’ATAC così è peggiorata - pareva impossibile - con uno scandalo dietro l’altro. Basti ricordare le avventure speleologiche dei passeggeri che si sono spesso ritrovati a dover scendere nei tunnel della metro o le scale mobili che hanno inghiottito i tifosi russi a piazza della Repubblica. I nodi sono venuti al pettine. Un problema storicamente strutturale: tra sviluppo senza regole e inconsistenza politica. Considerando la grandezza del suo territorio, Roma, con i suoi 1280 km², si piazza al secondo posto per estensione tra le città Europee. La città si estende su una superficie di ben tredici volte quella dei venti arrondissement di Parigi e sette volte l’intera area del comune di Milano. E’ alla luce di questo dato che bisogna osservare il problema della mobilità a Roma: alla grande estensione corrisponde una città relativamente poco densa e con poche linee metropolitane. La grandezza di Roma rende il deficit infrastrutturale più grave della fallimentare governance delle aziende partecipate della mobilità. Parte del problema della congestione cittadina non è infatti nei numeri di Roma ma nella carenza infrastrutturale. Scomodo

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Il trasporto pubblico rimane pertanto un’alternativa poco valida a risolvere il problema (solo il 26% si sposta con mezzi pubblici contro l’oltre 50% di altre città europee). Ma come siamo arrivati a questo punto? Navigando tra i Piani Regolatori e le relative varianti si scopre che Roma ha dovuto da sempre affrontare una difficile scelta tra salvaguardia del patrimonio storico, che occupava ed occupa il centro e il sottosuolo, e le ambizioni di espansione e ammodernamento del tessuto urbano. Il risultato non è stato sempre coerente. Se nei primi piani regolatori di fine Ottocento del neonato Regno d’Italia si erano ricavati elementi di modernità sia per attraversare i rioni del centro storico che per dotare la città di ministeri e centri direzionali per la classe dirigente, si pensi a Corso Vittorio Emanuele, al lungotevere, via Nazionale o Via Venti Settembre, si è poi spesso passati ad una rinuncia di grandi interventi di questo tipo. Durante tutto il Novecento la città si è espansa sulle consolari e tra tenute nobiliari alla ricerca di nuova terra per far alloggiare la grande popolazione in aumento, ed esclusi quartieri come Prati, lo sviluppo del tessuto urbano è stato impulsivo, di tipo emergenziale e speculativo. Rispetto alla speculazione edilizia romana, fatto certamente riconosciuto e discusso, non si parla spesso di come questo abbia avuto delle gravi ricadute sulla capacità dei romani di spostarsi. Negli anni Roma ha sviluppato dei lunghi tentacoli sulle vie consolari che hanno fatto perdere densità al tessuto urbano, con borgate che sono arrivate anche a 10 kilometri dal centro. E senza densità e sviluppo economico, servizi come appunto la mobilità sono difficilmente realizzabili. Ad aggravare la mancanza di una pianificazione univoca, c’è stato anche un costante cambio di indirizzo nello sviluppo della politica della mobilità.

Si è passati dalla mobilità a cavallo e rotaia, gli Omnibus e le tramvie tra fine Ottocento e gli anni ‘20, con Roma che contava una delle più estese reti tranviarie d’Europa, alla scelta di optare per trasporto su gomma. E se negli anni ‘30 si passa al trasporto su gomma pesante, le sempre più lontane borgate venivano servite con bus per non abbandonare luoghi altrimenti irraggiungibili. Infine, si arriva al trasporto privato su gomma negli anni ‘60. Con mancanza di lungimiranza la metro non è stata al passo e non ha guidato lo sviluppo di Roma per difficoltà ingegneristiche e cambi d’indirizzo di tipo politico.

Il piano futuro per Roma del PUMS e la scomparsa del progetto più voluto dai romani Che le promesse fatte in campagna elettorale dal Movimento Cinque Stelle non avessero fatto i conti con la gravità della situazione economica della gestione ordinaria di ATAC sembra evidente; sintomatici sono i 9 mesi che ci sono voluti per riaprire la stazione metro di Repubblica. Dopo tre anni di operato, vale la pena non disperdere l’analisi e incentrarsi su cosa l’amministrazione ha fatto bene e cosa meno bene per la mobilità urbana.

“Roma Metropolitane, l’ente che gestisce e che doveva pianificare la Roma del futuro con le nuove metro, è al capolinea.”

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La metro B venne concepita da Mussolini, mentre la linea A realizzata sullo spirito delle Olimpiadi del 1960. Questa introduzione al problema di attualità non vuole essere un modo di deresponsabilizzare la classe politica, che al contrario ha e continua ad avere le colpe principali. La discontinuità della visione politica, con cambi di governance continui nelle aziende della mobilità, sono arrivate ai giorni nostri. Dai tentativi delle giunte di Sinistra tra fine anni ‘90 e primi anni 2000 di liberalizzare il trasporto e costruire metropolitane e ferrovie, con la cosiddetta “cura del ferro”, si è tornati ad avvisi differenti negli anni Alemanno. ATAC dal 2009 ha visto aumentare il suo debito a dismisura con una diminuzione degli investimenti totali che hanno coinciso con scandali di assunzioni, parentopoli, corruzione della classe dirigente, tangenti per l’acquisto di partite di filobus e interruzione dell’estensione della metro.

Di sicura portata innovatrice la creazione del PUMS, un documento unico che potrà servire nei prossimi due decenni a coordinare lo sviluppo delle differenti forme di trasporto pubblico e privato “con criteri di sicurezza, sostenibilità, accessibilità ed economicità”. Si tratta di un piano stilato in tre anni di lavoro che coordina “in coerenza con gli altri strumenti di programmazione lo sviluppo delle infrastrutture di mobilità”. Le idee dei cittadini sono state raccolte sul portale pumsroma.it per poi essere accorpate, analizzate e classificate. Partendo dalle proposte popolari i tecnici hanno disegnato una mappa di come i trasporti si dovranno evolvere nei prossimi anni. In questo documento si possono individuare tutti i progetti che l’amministrazione promette di fare o che auspicabilmente verranno realizzati dalla prossima giunta. Il piano prevede dei corridoi della mobilità per autobus, estensione e creazione di linee metro e tram, ciclabili sulle maggiori consolari e le tanto discusse ovovie. In questo documento si sintetizza sia l’ambizione dei Cinque stelle per il cambiamento sostenibile che la loro inconsistenza politica: dall’essere contro le linee metro, 33


metro C e D su tutte, l’amministrazione ha clamorosamente cambiato idea in corso d’opera accorgendosi della grande volontà popolare dei romani per un sistema metropolitano all’altezza. In tre anni però sono state aperte solo due stazioni metro e non si hanno notizie sugli iter per le estensioni e per le nuove linee. Caso diverso per le linee tranviarie e le ciclabili, in corso di progettazione le prime e di realizzazione le seconde. Il caso di Metrovia e del referendum L’amministrazione ha dato prova, proprio sul primo punto del proprio programma, di tutti i limiti della democrazia diretta, innanzitutto snobbando e non facendo informazione sul referendum che lasciava la parola ai cittadini sul futuro di ATAC nell’autunno del 2017. Proprio il più grande strumento di democrazia diretta, previsto dalla costituzione, è stato ignorato e non supportato come di dovere, contribuendo al fallimento della consultazione. La procedura di concordato preventivo tanto difesa dalla giunta Raggi è stata una scelta unilaterale senza consultazione né della base né dei cittadini che continuano a pagare il debito di ATAC.

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In secondo luogo, fatto degno di clamore e passato largamente inosservato dalla stampa, non sono stati considerati i vincitori del PUMS nel disegnare il futuro piano della mobilità. Metrovia, il progetto più votato dai cittadini romani durante la fase consultiva del Piano della Mobilità Sostenibile, è stato il più apprezzato tra le 301 proposte ricevute dall’amministrazione. Perché tanto interesse dai romani? E come ha fatto il progetto che avrebbe dovuto essere il cardine del nuovo piano a sparire? Il team di ingegneri di Metrovia, guidato da Paolo Arsena, ha disegnato un rivoluzionario schema dei trasporti romani in cui si utilizzano le numerose ferrovie trasformandole in delle metropolitane: aumentando il passaggio dei treni e creando nuove stazioni, Roma potrebbe cambiare volto arrivando ad avere ben 10 linee metro e 229 km di rete in più dei 60 km attuali. La portata rivoluzionaria del progetto sta nella relativamente veloce soluzione - i progettisti parlano di 10 anni di lavori - e nei costi ridotti (il progetto ha un costo stimato di 5 miliardi secondo gli autori del progetto, ossia meno della sola Metro C).

Il successo riscontrato da Metrovia sui social e nella fase consultiva aveva suscitato grandi entusiasmi. La sua scomparsa è stata un vero giallo che si risolve leggendo le carte del PUMS: i tecnici di Roma mobilità, che non hanno mai consultato i vincitori, nel considerare i vari progetti hanno tirato delle stime arbitrarie e diverse da quelle proposte dagli ideatori. La classifica di fattibilità, che includeva non solo la votazione popolare ma anche altri parametri tra cui ovviamente i costi, ha quindi visto Metrovia perdere posizioni, con grande stupore da parte degli autori del progetto e degli 11mila sostenitori del gruppo Facebook. Gli autori di Metrovia lamentano sul loro profilo Facebook di come il loro progetto sia stato inserito nel PUMS con costi assolutamente non veritieri, che hanno penalizzato l’inserimento di Metrovia nel piano. Quando si era insediata, la giunta della sindaca Raggi si era proposta di portare inclusione e partecipazione nella politica romana, e il PUMS è stato sicuramente un grande strumento di politica partecipativa. Tuttavia, alla volontà popolare sono state preferite scelte tecniche che non hanno saputo ascoltare la grande sete dei romani per il trasporto pesante.


La grande delusione degli autori di Metrovia e dei suoi sostenitori, che vedevano nel Movimento 5 Stelle una speranza per la rivoluzione che proponevano, corrisponde alla delusione di una fetta del 70% di romani che ha eletto la Raggi tre anni fa, e che ha assistito al recente tombamento delle talpe della Metro C e il fallimento di Roma Metropolitane. Rivoluzione? Non abbastanza Ai post esultanti della ormai ex assessora dei trasporti Linda Meleo corrispondono grandi ombre sul futuro. Una città che ha chiesto a gran voce una risposta pesante e chiara, la metropolitana, ha visto l’attuale giunta raccogliere in modo incerto e contraddittorio la sfida. Rispetto alla determinazione con cui la giunta sta inaugurando piste ciclabili, come quelle sulla Nomentana e sulla Tuscolana, o delle corsie preferenziali rinnovate come il corridoio Laurentino, opera di portata marginale di cui l’assessore Meleo ha parlato per mesi, ci si aspettava sicuramente di più. In tutto questo Roma Metropolitane, l’ente che gestisce e che doveva pianificare la Roma del futuro con le nuove metro, è al capolinea.

La società entra in una fase di liquidazione controllata di cui non è ancora chiaro il percorso che può imboccare il risanamento o il fallimento. Di sicuro il comune e la mobilità a Roma entrano in una fase di incertezza che contrasta con le belle linee della mappa del PUMS. Tutti quei progetti legati a Roma Metropolitane, due su tutti la continuazione della Metro C e la pianificazione della linea D, verranno gestiti dall’insicurezza e nell’inconsistenza politica di Roma, unici elementi di continuità. Una coalizione che vada oltre i partiti che condivida un progetto comune non è ancora nata purtroppo. Quando si parla di infrastrutture e di mobilità bisogna immaginarsi progetti che vanno ben oltre la durata del ciclo politico di 5 anni. E’ evidente che ci vogliono varie amministrazioni per finire uno stesso progetto. Prendere scelte politiche come quella di non affrontare un quesito di referendum o evitare di includere un progetto come Metrovia va contro l’armonia trasversale che bisogna costruire nei temi di mobilità. La continuità di governance che si era trovata tra Rutelli e Veltroni nell’implementare la cura del ferro,

e a cui dobbiamo la metro B, l’attuale tratta della metro C e parte dell’anello ferroviario, va ricucita. Lo strappo che si è avuto con gli anni di Alemanno e di Mafia Capitale sta ancora lasciando i segni con gli sforzi dell’amministrazione volti a sanare i danni e i debiti dovuti ad altri. L’attuale amministrazione deve e può fare di più per ascoltare la voce già espressa dai cittadini durante il PUMS e dai vari comitati che univocamente denunciano come le attuali politiche per rinnovare il trasporto su gomma non facciano abbastanza. Su questo si deve e si può essere d’accordo: Roma deve avere fretta e capire la necessità di trovare una consistenza e compattezza politica che forse solo una figura super partes – ad esempio un commissario speciale, come viene definito nel recente decreto sblocca cantieri - può garantire, per dare vita ad un percorso condiviso cha faccia recuperare il gap infrastrutturale ormai intrinsecamente legato alla struttura di Roma. di Carlo Epifanio

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I CONSIGLI DEL LIBRAIO Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti della nostra città, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso il cartaceo. Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno della nostra città.

LA LIBROLERIA Via della Villa di Lucina, 48, 00145 Roma RM

“Abbiamo toccato le stelle” di Riccardi Gazzaniga Editore: Rizzoli

PUNTO SCUOLA Viale dei Promontori, 68, 00122 Roma RM

“FORTOPIA – STORIE DI AMORE ED AUTOGESTIONE” di C.S.O.A. Forte Prenestino Autoproduzione

KOOB Piazza Gentile da Fabriano,16 00196 Roma RM

“La guerra dei poveri” di Eric Vuillard Editore: E/O 36

Roberto consiglia: Una volta che finisci di leggere queste storie ti sembrerà proprio di toccare le stelle, non tanto per i protagonisti che sono stelle dello sport del presente e del passato ma per quello che ti lasciano dopo. Emozioni, ecco quello che Riccardo Gazzaniga riesce a trasmettere raccontando le storie di Peter Norman, di Alex Zanardi, di Jermain e Bradley e di tutte le altre che incontrerete nel libro. Storie di persone più famose, ma anche storie di personaggi mai conosciuti prima. Non solo storie di sport, ma anche di vita, di diritti civili e di speranza. La speranza dei protagonisti di lasciarci un mondo migliore se solo seguiamo il loro esempio. E questo libro vuole portare la “forza e il coraggio di questi sportivi dentro i piccoli gesti quotidiani delle nostre vite. Forse non vinceremo medaglie, ma saremo campioni anche noi.”

Paolo consiglia: Libro non troppo facile da trovare ma vi assicuro che ne vale la pena. “Dedicato a tutti gli spazi occupati e autogestiti”, il volume racconta trent’anni della storia di una delle esperienze più interessanti nate in questo periodo a Roma. Tante le immagini e i documenti ma soprattutto le testimonianze di chi ha dato il proprio contributo succedendosi in diversi ruoli nel tempo. Una scrittura collettiva quindi, che si aggiunge alla modalità del “fare insieme” che ha caratterizzato da sempre i giorni del Forte. Una storia – scrivono i curatori - fatta di ricerche, culture, scoperte, iniziative, laboratori, autogestioni, amori, desideri e resistenza. Una storia di esperienze che hanno reso questa città viva, vitale, solidale.

Paolo consiglia: Chi dice che i libri di storia debbano essere sempre dei mattoni? Eric Vuillard, premio Goncourt 2018, con poche ispiratissime pagine ci racconta la tragica rivoluzione contadina del 1525 guidata da Tomas Muntzer. Il tempo della narrazione è un incalzante presente: si legge come un romanzo, ma è storia, e negli occhi le immagini delle rivolte in Cile, a Hong Kong, Parigi… Da non perdere! (e se volete approfondire, sempre divertendovi, Q del collettivo Luther Blisset – oggi Wu Ming – di cui ricorrono i vent’anni dalla prima pubblicazione)

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Scomodo

Febbraio Ottobre 2019

Novembre 2018


CLAUDIANA Piazza Cavour, 32, 00193 Roma RM

“I vagabondi” di Olga Tokarczuk Editore: Bompiani

ODRADEK Via dei Banchi Vecchi, 57 00186 Roma RM

“Pepi Mirino e la macchina del buio” di Cristiano Cavina Editore: Marcos y Marcos

TRA LE RIGHE Viale Gorizia, 29, 00198 Roma RM

“Tre piani” di Eshkol Nevo Editore: Neri Pozza

Ci sostengono anche:

TEATRO TLON

Via Federico Nansen, 14, 00154 Roma RM

IL TOMO

Via degli Etruschi, 4, 00185 Roma RM

JASMINE

Davide consiglia: Ci siamo innamorati di Cristiano prima di leggere i suoi libri. Come spesso accade non si può leggere tutto. E’ capitato però, grazie al costante impegno delle edizioni Marcos Y Marcos, di incontrare l’autore in una Hosteria. Da allora abbiamo iniziato a divorare i suoi libri. Lui è un romagnolo purosangue. Nato, cresciuto e tuttora residente a Casola Valsenio. Nei suoi romanzi, sempre caratterizzati in forma autobiografica, la vita in questo borgo romagnolo emerge sempre con forza, ironia e capacità autocritica. Questa volta però Cavina stupisce tutti e tutte. Il libro che abbiamo scelto : Pepi Mirino e la macchina del buio è un romanzo rivolto ad un pubblico giovane. E’ un romanzo per ragazzi dove all’improvviso personaggi dei videogiochi escono dalla virtualità per occupare lo spazio della realtà. Virtualità e realtà si intrecciano in un gioco appassionante e avvincente. In un mondo dove spesso i nostri figli passano ore davanti alle play station questo libro divertente e scanzonato può indurre alla lettura e alle riflessioni giovani lettori. Paola consiglia: Volevo leggerlo da tempo, perché ne avevo sentito parlare tanto e bene, e per aver apprezzato moltissimo, dello stesso autore, “La simmetria dei desideri”. Poi ho saputo che Nanni Moretti ne avrebbe tratto un film, e mi ha incuriosito la scelta. Non si tratta di un vero e proprio romanzo, ma di tre storie che solo di sfuggita si intrecciano: siamo a Tel Aviv, i tre protagonisti abitano nello stesso palazzo, e fra i tre accadono minime interazioni. Ognuno racconta di aver visto o incontrato il vicino, e il lettore ha modo di conoscere i personaggi da angolazioni diverse. Ma soltanto arrivati al terzo piano si giunge a comprendere il legame di tipo psicoanalitico che l’autore ha architettato nella costruzione della struttura narrativa: l’uomo, la giovane donna e la donna anziana con lo snodarsi delle loro storie rappresentano i vari stati dell’anima secondo Freud. Si parte dalle pulsioni del desiderio, si passa alla difficoltà nel distinguere i sogni e i desideri dalla realtà e si finisce con il Super-io, la capacità di ergersi al di sopra di sé stessi, di vedersi dall’esterno come in uno specchio. E in tal modo, forse, risulta possibile riuscire a riannodare i fili delle proprie contraddittorie vite, o si impara a conoscersi, ad accettarsi anche negli errori, a fidarsi e farsi condurre per strade diverse da quelle finora percorribili. Alla conclusione, ho avuto la sensazione di aver dimenticato le due storie precedenti, di averne perso il peso, tale era l’intensità dell’ultima parte: non casualmente Nevo sembra aver voluto creare un percorso a tappe, quasi un’ascesa a un punto più alto della consapevolezza, possibile solo in età matura. L’ingegnosità della sua scrittura corrisponde anche a una tecnica narrativa molto ben costruita, secondo la quale i tre personaggi principali parlano o scrivono a qualcuno di cui non sapremo mai la risposta: sono di fatto dei monologhi, in cui chi narra si mette veramente a nudo nelle pulsioni e nei pensieri più intimi.

Il libraio vi augura una buona lettura

Via dei Reti, 11, 00185 Roma RM

MINERVA

Piazza Fiume, 57, 00198 Roma RM

Scomodo

Federica e Rossella consigliano: All’opera dell’autrice polacca, molto nota nel suo paese, è stata finora riservata in Italia un’accoglienza timida ed appassionata da parte di una élite di lettori. Il premio Nobel ci ha presi alla sprovvista, e ci pare necessario fare ammenda. Non tanto a causa del riconoscimento dell’Accademia svedese, quanto perché il profilo di Olga Tokarczuk nelle pagine dei nostri giornali ha risvegliato un’acuta curiosità nei confronti della sua opera. L’ultimo testo tradotto in italiano, I vagabondi, ci pare essere un valido biglietto da visita. Un caleidoscopio di viaggi e racconti, in cui favola e verità si intrecciano a formare un mondo di uomini e donne in movimento, nello spazio e nel tempo. L’incedere della scrittura è tagliente, non si sofferma mai troppo quasi come se temesse la sedentarietà che è vietata ai suoi personaggi. Dall’Arabia ai Maori, da Roma e alla Polonia, a dorso di cammello, in aeroplano e a piedi, donne e uomini fuori dall’ordinario, che sfiorano la superficie del pianeta e ne percorrono i sentieri. Anche il lettore deve accettare di essere destabilizzato, e di vagabondare tra le parole. Una lettura ammaliante ed energetica.

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Parallasse

-------------------------------------------------------------------la rassegna stampa di Scomodo

Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.

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Fridays for future è un movimento complesso e che, sebbene possieda un’identità forte, gode anche di diverse anime che convivono insieme e che quindi causano già da sole differenti interpretazioni. Se unite ad una pletora di testate giornalistiche e voci mediatiche si generano inevitabilmente una miriade di interpretazioni e letture diverse del fenomeno: un caos in cui è difficile orientarsi. Gli approcci del giornalismo alla questione sono due. Un primo semplicemente narrativo, che si limita a raccontare gli scioperi per il clima e le dichiarazioni di Greta Thunberg, e che già da solo ha un’importanza assai rilevante; il secondo invece è quello analitico, in cui la visione sulla vicenda è subordinata alle linee editoriali della testata. A sua volta emergono sia la critica che l’elogio al movimento, ma spesso (sia nella stampa estera che italiana), la volontà di generare coinvolgimento emotivo supera l’analisi attenta del fenomeno e quindi la comprensione della vera natura del movimento. Dal fatto che si porti l’attenzione su incidenti particolari (i manifestanti che sporcano le strade), ignorando la spinta universale e di ampio respiro del movimento (se il 71% delle emissioni di gas serra è prodotto da cento multinazionali, che differenza fa se buttiamo delle cartacce per terra?), alla critica ideologica verso un movimento che tuttavia di ideologico non ha nulla (bensì è fautore di una maggiore scientificità nell’approccio alla natura).

Nella stampa nazionale Per quanto concerne la narrazione che la stampa italiana ha dato dei vari venerdì di manifestazione del movimento “Fridays for Future”, è possibile notare grazie alle prime pagine dei quotidiani che sussistono due piani d’opinione riguardo alle manifestazioni. Da un lato, i giornali si sono limitati, eccezion fatta per i soliti casi critici come Libero e Il Giornale che hanno optato per una forte linea di condanna nei confronti della mobilitazione studentesca, a dare un taglio unicamente narrativo riguardo gli eventi che hanno direttamente riguardato il nostro paese, arrivando addirittura, come nel caso di quotidiani come La Stampa ed Il Messaggero, a non dare spazio sulla prima pagina a questa vicenda. Questa situazione si è verificata soprattutto nei confronti delle manifestazioni italiane del 27 Settembre, che hanno coinvolto ben 180 città italiane, mentre una maggiore copertura è stata data alle manifestazioni su scala globale che si sono svolte durante la giornata del 20 Settembre, come a voler screditare in maniera inconsapevole la grande mobilitazione che ha visto protagonista il nostro Paese. Mentre i giornali si sono limitati a questa narrazione senza fronzoli, hanno lasciato che fossero i singoli giornalisti a rendersi paladini della crociata anti-studentesca tramite i loro singoli profili social. Emblematico in questo senso è il caso di Marco Pasqua, responsabile editoriale della sezione online del Messaggero, il quale sul suo profilo Scomodo

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Facebook si è lasciato andare ad un post estremamente critico nei confronti dei giovani scesi in piazza, vedendo nella loro partecipazione un mero pretesto per poter saltare ore di lezione a scuola. Una simile affermazione, così come viene presentata nel post tramite una richiesta ai ragazzi di sacrificare il proprio tempo libero nel nome della lotta ai cambiamenti climatici, appare estremamente gratuita, considerato il fatto che il senso di una manifestazione è quello di rinunciare ai propri diritti (in questo caso scolastici) per una giornata per cercare di avere un impatto effettivamente debilitante sulla società e di dare una maggior forza al proprio messaggio. Ma rispetto a quanto detto in seguito dal giornalista, le critiche precedenti non sembrano altro un semplice scivolone. Pasqua infatti procede nel resto del post compiendo una pesantissima generalizzazione nei confronti dei ragazzi coinvolti, descrivendoli come figli di papà che spendono il proprio denaro in alcool e droga e che si riscoprono solo ora come dei paladini dell’ambiente, non curanti del fatto che le loro cicche buttate a terra durante la giornata siano altamente inquinanti. Affermazioni ridicole, che cercano il consenso della generazione passata che ha speso la propria vita nelle piazze senza riuscire a concludere effettivamente nulla di buono e che ora guarda con risentimento qualsiasi tipo di movimento che cerchi di coinvolgere nelle strade un gran numero di persone, che nel nostro paese rappresenta effettivamente lo zoccolo duro di lettori di ogni quotidiano nazionale. Scomodo

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Ciò che fa sorridere (anche se effettivamente dinanzi a tali parole vi è poco da ridere) è che in questo caso il Messaggero non ha voluto appositamente dar spazio sul proprio sito a tale tipo di considerazioni poiché ancora conscio di quanto accaduto nel Maggio di questo stesso anno.

La sezione online del quotidiano romano, quindi per volontà dello stesso Pasqua, aveva deciso di scendere in piazza accanto ai manifestanti per intervistare i ragazzi coinvolti. Da queste interviste vennero estratti gli interventi più idioti e privi di un’effettiva consapevolezza sulla tematica ambientale, riunendoli in un servizio di pochi minuti che aveva il compito di dimostrare che la totalità dei ragazzi scesi in piazza quel giorno non avesse la benché minima idea del perché si trovasse lì. Il servizio, per quanto fosse riuscito in parte nel suo intento, venne tartassato di critiche non solo da parte dei manifestanti, ma anche dall’opinione pubblica generale che intuì immediatamente la faziosità del lavoro e la volontà che si celava dietro, portando alla sua definitiva cancellazione sia dal sito del giornale che dalla sua pagina Facebook.

Con ancora vivo nella mente il ricordo di questa pessima figura, il Messaggero ha preferito evitare qualsivoglia tipo di coinvolgimento nella questione, non lasciando nuovamente al suo responsabile editoriale la possibilità di esprimere la propria opinione tramite i canali social ufficiali del quotidiano. Una scelta saggia, che non ha impedito però a Pasqua di continuare di far sentire la propria voce di dissenso nei confronti del movimento Green. Nella stampa internazionale La copertura nella stampa internazionale è altrettanto simile a quella nella stampa italiana. Con una narrazione generalmente positiva sulle testate più grandi all’indomani del 20 e 27 settembre, i due giorni in cui si sono tenuti gli scioperi più partecipati. Nelle due giornate infatti tutte le prime pagine aprono con gli scioperi di FFF nel caso peggiore in toni semplicemente narrativi, in quello migliore in toni celebrativi. Il Guardian segue il trend, tuttavia nei giorni successivi adotta un approccio differente, trasformando la crisi climatica in un evento di cui essere emotivamente partecipi - così come FFF sta facendo nella società più in generale. Riporta in ogni edizione giornaliera il livello di CO2 presente nell’aria in ppm, e in un recente manifesto afferma di voler moltiplicare gli sforzi per informare sulla crisi climatica in corso. In questa ottica si passa quindi da un coinvolgimento emotivo relativo all’indignazione ad uno relativo alla costruzione di una narrazione attorno ai cambiamenti climatici che, da semplice rumore di fondo delle notizie quotidiane, 39


diventano strada principale su cui organizzare l’attività mediatica. Si tratta di una strategia finora inesplorata sulla stampa generale e non di settore. È naturale tuttavia aspettarsi che il movimento abbia critici, tra questi ci sono sì tutti i negazionisti del cambiamento climatico, ma anche coloro i quali sono portati a criticare FFF perché troppo vicino alle istituzioni e ai “poteri forti”. Si crea quindi un misto tra le due categorie: i complottisti negazionisti del cambiamento climatico. E se da una parte c’è Breitbart News e le numerose testate e figure mediatiche dell’alt-right, dall’altra seguono a ruota anche Fox News e il mondo dell’informazione conservatrice americano. Si presta molto meglio ad essere osteggiata invece l’attività di Extinction Rebellion che, ad esempio, il 17 ottobre ha visto un suo attivista bloccare una metropolitana pubblica di Londra e poi essere aggredito dai passeggeri. Su alcuni quotidiani quindi si manifesta il classico bomberismo di un più italiano Libero, in cui ci si rallegra che finalmente “a questi teppisti sia stata data una giusta lezione”: “Day eco crusties got rough justice” (Daily Star). Tuttavia, la vera opposizione al movimento (e, in generale, alla transizione verso le energie rinnovabili) arriva in maniera trasversale attraverso campagne pubblicitarie volte a ripulire l’immagine dei combustibili fossili. Dal maggio 2018 sono stati spesi, solo su Facebook, diciotto milioni di dollari in advertisement dalle multinazionali nel settore dell’energia, tra le altre Exxon ConocoPhilips e BP. È di pochi giorni fa l’ad della stessa BP che recita: “Can a banana peel fuel your flight?”. 40

È in corso una grande operazione di PR che, sebbene sia già approdata sulle testate giornalistiche, vista la pervasività del messaggio di FFF e l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), si rivolge verso forme più accessibili di comunicazione.

di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol Scomodo

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di Susanna Rugghia e Pietro Forti Foto di Emma Terlizzese

SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA

PALAZZO NARDINI Anno di costruzione: 1479 Anno di abbandono: 2010 Valore:37,5 mln (2003) Superficie totale dell’area: 5.650 mq 42

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GIÀ SUBITO DOPO IL TRASFERIMENTO DEL GOVERNATORATO VIENE DATO UN INDIZIO SUL DESTINO DI PALAZZO NARDINI: LA PROPRIETÀ VIENE FRAZIONATA, E ALCUNI SUOI LOCALI VENGONO DATI IN AFFITTO

P

alazzo Nardini è probabilmente uno degli esempi più tristi e barocchi di impossibilità, da parte di un’amministrazione, di rendere una sua ricchezza disponibile alla cittadinanza. Un tesoro architettonico, artistico e storico lasciato a marcire nell’indifferente bellezza del centro di Roma: Palazzo Nardini è stato persino il centro propulsivo della vita romana rinascimentale, ed è diventato un tempio di polvere per ampie fette del ‘900 e per quasi tutti i primi vent’anni del duemila.

Gli scherzi del destino Il Palazzo dà il nome alla via in cui si trova, al civico 39. Via del “Governo Vecchio” è tale proprio perché, a circa mezzo chilometro da Castel Sant’Angelo il cardinale Stefano Nardini fece erigere, su indicazione del Papa Sisto IV, una struttura per la carica che ricopriva: il Governatorato di Roma. Di paternità sconosciuta (il nome più noto a cui vie44

ne attribuita la costruzione è il Bramante; secondo altre fonti il progetto sarebbe di Meo del Caprina o di Giacomo da Pietrasanta) viene eretto tra il 1473 e il 1479. Ampiamente rimaneggiato a metà del Cinquecento (e probabilmente donando al Palazzo l’aspetto che possiede oggi), tra il XVI e il XVII secolo avrà tra le più svariate funzioni, e prevalentemente quella di ospedale. Ritornerà ad essere sede principale del Governatorato di Roma su volere di Papa Urbano VIII nel 1627, e resterà tale per un altro secolo abbondante. Nel 1755, con la decisione di trasferire tutte le attività di governo a quello che oggi è Palazzo Madama, il Nardini verrà relegato a un ruolo secondario. E, nonostante i romani ancora pensino che nelle sue stanze si eserciti il potere, già nell’immediato post-trasferimento viene dato un indizio delle intenzioni del governo papale di Roma: la proprietà del Palazzo viene frazionata, e alcuni suoi locali vengono dati in affitto. Per il resto, finché i Papi a Roma sommano potere temporale e potere spirituale, poco altro. Francesco Vespignani compie una nuova opera di ristrutturazione, che però non fa altro che accelerarne il decadimento architettonico e complicarne la struttura, sempre meno unitaria e coerente con il disegno originario. Scomodo

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Il 20 settembre 1870 a Roma, com’è noto, inizia a cambiare tutto, e Palazzo Nardini viene coinvolto nell’opera di rinnovamento della nuova capitale del Regno d’Italia. Di lì a poco, viene nuovamente ristrutturato per ospitare gli uffici della Pretura penale del Regno prima e della Repubblica poi. Per tutta la prima metà del Novecento trova più impieghi, da sede per l’educatorio femminile Vittoria Colonna a quello di rifugio dai bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1957 il Comune di Roma decide che la capitale ha bisogno di un nuovo complesso giudiziario, e nel giro di un decennio tutte le funzioni portate avanti al Nardini vengono spostate alla nuovissima città giudiziaria di Piazzale Clodio. Viene salvato dall’abbandono una prima volta nel 1976: il Movimento per la Liberazione della Donna lo occupa e lo trasforma la prima Casa Delle Donne, uno degli esperimenti femministi più interessanti ed estremi di quegli anni. Durerà fino al 1987: dopo lo sfratto si trasferiranno alla storica sede del buon Pastore. L’abbandono rientra al Nardini per non uscirne quasi più.

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Il terzo millennio Nel 2003 la Regione Lazio, sotto la presidenza di Francesco Storace, acquista dalla Comunione delle Asl Palazzo Nardini per 37.520.000 euro (secondo la Repubblica Cronaca di Roma, 13 aprile 2018) il quale, con atto trascritto il 13 gennaio 2004, viene acquistato dalla Regione Lazio. A giugno scorso risale la sentenza storica del Tar che annulla la vendita di Palazzo Nardini al fondo di investimento immobiliare Invimit. Per comprendere l’esito tra questi due estremi, bisogna guardare al 2015 quando, dopo 5 anni di totale abbandono da parte delle istituzioni – con il subentro della giunta Polverini nel 2010 tutti i lavori di restauro e l’investimento da 6 milioni di euro avviati nel 2008 dall’assessore Rodano della giunta Marrazzo erano stati sospesi – la Regione Lazio ha richiesto al MIBACT l’autorizzazione per consegnare la struttura a Invimit. Una volta rilasciato il nulla osta per l’alienazione, il fondo immobiliare ha messo il complesso sul mercato e nell’ottobre 2017 il Consiglio di Amministrazione ne ha deliberato l’aggiudicazione ad una società privata che intendeva realizzarvi un resort di lusso. 45


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IL CDA DI INVIMIT NE HA DELIBERATO NEL 2017 L’AGGIUDICAZIONE AD UNA SOCIETÀ PRIVATA CHE INTENDEVA REALIZZARVI UN RESORT DI LUSSO Ma nell’aprile 2018 la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio di Roma – sollecitata dalle stesse associazioni che dal 2014 lanciarono appelli per il restauro al presidente della Regione Zingaretti e al Ministro ai beni culturali Franceschini – ha avviato un nuovo procedimento per la “dichiarazione di interesse particolarmente importante dell’immobile in oggetto”, e a luglio 2018 la Commissione Regionale per la Tutela del Patrimonio Culturale del Lazio ha approvato la riformulazione del vincolo su Palazzo Nardini. Appena un mese prima, il 9 giugno 2018, Scomodo realizzava un tentativo di occupazione dell’edificio per la sesta Notte Scomoda, allestendo sulle mura del palazzo una mostra, e lanciando un giro di occupazioni di 72 ore. Durante l’occupazione, il Palazzo fu aperto al pubblico per la prima volta da anni. Così, a quasi un anno di distanza dalla ratifica da parte della Commissione dell’inalienabilità dell’edificio, il TAR a giugno 2019 ha annullato la vendita dell’immobile, riaffermando l’efficacia dei vincoli sul nucleo principale dell’edificio di via del Governo Vecchio. Resta viva tuttavia l’incognita di un ricorso al Consiglio di Stato anche da parte della Regione Lazio. Il 10 giugno le associazioni si sono rivolte quindi ancora una volta al Presidente Zingaretti, chiedendo di non impugnare la sentenza del TAR e di favorire la nascita nello storico palazzo di un nuovo grande Polo culturale romano.

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[in-ter-na-zio-nà-le] traduzione italiana della parola inglese “international” coniata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Riguarda tra le altre cose: la relazione tra stati diversi; l’interesse comune di più nazioni; ciò che si estende a più paesi e che oltrepassa i confini del proprio stato.

L'ARTISTA: Louis Otis, ha soli 26 anni ed è nato in Fracia. Si è laureato nel 2015 in Graphic Design alla Central Saint Martins School of the Arts and Design di Londra e oggi lavora come artista freelance a Parigi, Madrid e Barcellona. Sin da bambino, Otis usava le sue doti artistiche per divertire e far ridere i suoi amici, e da allora non ha più smesso di svilupparle, anzi ha deciso di valorizzarle quando ha scoperto l’esistenza della professione dell’illustratore. Tuttora trova l’ispirazione in ciò che lo fa ridere. È affascinato da come l’era digitale abbia trasformato lo stile di vita delle persone, il loro modo di comunicare e di relazionarsi con il prossimo. In questa illustrazione, l’artista pone particolare attenzione agli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, che permette alle persone di unirsi distruggendo ogni tipo barriere, da quelle fisiche a quelle linguistiche, culturali e sociali.

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L ' A RT I STA :

Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare una parola che descrive e contiene moltissimi significati.

Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti underOttobre 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare Scomodo 2019 49 una parola che descrive e contiene moltissimi significati.


CULTURA


ATTIVISMO 2.0 Quando e perché fare politica è diventato pop

La Nike e le battaglie per la parità di genere, la Pepsi e i movimenti sociali globali, Patagonia e l’ecologismo. Cosa lega i grandi brand alle tematiche sociopolitiche attuali? In un’epoca in cui essere neutrale non è più un’opzione, anche le grandi aziende sono chiamate a prendere posizione. Fare politica diventa allora un imperativo, una nuova strategia del capitale per reinventarsi. Così quello che fino a ieri sembrava un ossimoro, oggi diventa realtà. È la sensibilità politica del consumatore a condurre il gioco, anche a costo di evidenti contraddizioni. continua a pag. 54

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Angelo Licciardello

Angelo Licciardello nasce a Catania il 21 Settembre del 1990. Laureato in Graphic Design presso l’Accademia di Belle Arti di Catania, nel 2019 frequenta il Master di illustrazione MiMaster di Milano. Alla pratica dell’illustrazione accosta la ricerca artistica in campo visuale, prima con il collettivo Nuovo Cinema Casalingo, poi con il duo Licciardello&Tagliavia. Attualmente vive e lavora a Venezia.

Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 52

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Dopo il liceo artistico e l’Accademia, quando hai capito che fare l’illustratore sarebbe diventato un lavoro? Quando i miei disegni hanno iniziato ad aprirsi di più verso chi li guardava. Ho sempre disegnato per addomesticare delle sensazioni personali e per capirmi meglio, ma capito che la cosa si stava facendo seria quando in Accademia feci una portfolio review con il prof. Riccardo Francaviglia al quale presentai una serie di fogli stracciati dalle forme tutte diverse, inseriti pietosamente in un cartoncino piegato ad uso carpetta. Lui mi spiegò che il disegno può diventare un lavoro, se inizi ad avere cura della presentazione e a simulare una certa professionalità. Io penso che questo approccio, per quanto essenziale, non può sopperire al talento (ma ripeto, questo lo penso io). Ho fatto un po’ di fatica perché sono sempre stato disordinato, ma si sa, il mondo è pieno di regole! Come ti poni davanti al foglio bianco? Dipende dal foglio bianco! Quando compro dei fogli costosi ho sempre paura di rovinarli, e sono molto a mio agio invece con dei supporti a caso, come quelli strappati dai quaderni. Quindi se voglio iniziare bene devo sempre illudere il mio cervello, e pensare che i fogli “costosi” che sto utilizzando sono invece dei semplici fogli da stampante A4. Questa tua attitudine fanciullina nell’utilizzo di colori molto accesi enella creazione di personaggi molto buffi ti ha avvicinato Scomodo

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alla dimensione ludica e lavori spesso con i bambini, ci racconti dell’iniziativa “piccoli a teatro” in cui hai collaborato con teatro sommerso? Questa domanda non me l’aspettavo, ma grazie per averla fatta! Con gli amici di Città Sommerse Teatro abbiamo lavorato presso il Teatro Coppola, un teatro occupato a Catania che cura una splendida rassegna di eventi per l’infanzia chiamata Squonk! Il Teatro Coppola ha invitato Città Sommerse alla rassegna, che a sua volta ha invitato me. Già tempo prima con i ragazzi di Città Sommerse ci eravamo trovati a pensare all’infanzia, e al modo in cui teatro e disegno potevano collaborare: attraverso il gioco. Quindi è nata questa folle collaborazione, e dico folle perché alla fine, durante il laboratorio/spettacolo che abbiamo proposto, i bambini erano iperattivi e super attenti, saltellavano e correvano dappertutto ed è stata una vera e propria battaglia… abbiamo conquistato terre lontane, cantato inni, disteso fogli come campi di battaglia e vecchi divani come trincee. Sono stati dei giorni pazzi!

poi sono stato selezionato, e alla fine insieme a lei abbiamo anche pubblicato un libro di fiabe illustrato, con le illustrazioni selezionate a Bologna. Il libro si chiama Leggende perdute, e raccoglie otto leggende sotto forma di piccoli racconti, quasi haiku, scritte da lei e accompagnate dai miei disegni. Mescolare il processo del disegno a quello della scrittura è stato interessante. Purtroppo non posso pubblicizzarlo qui perché è edito solo a Tokyo, in Italia non si trova! Tu, da siciliano, che vivi una terra in cui i beni sottratti alla mafia sono tanti, come ti sei approcciato al tema del bene comune? Per me non è stato un tema facile da affrontare. Da siciliano spesso sono arrabbiato. Ma apprezzo chi riesce a parlare di mafia in maniera sottile, ironica e cruda, senza cadere nel vittimismo: Cipri e Maresco ne danno un affresco convincente, per quanto mi riguarda, e anche me piacerebbe parlarne così. di Maria Marzano

Lo scorso anno le tue opere sono state selezionate per Bologna Children’s Book Fair, una vetrina in cui è possibile ammirare l’incontro tra stili, tecniche, tradizioni visuali e tendenze provenienti da ogni Paese del mondo. Come è stata questa esperienza? È stata una bellissima esperienza. Mentre lavoravo ai disegni da mandare a Bologna, Teresa, la mia ragazza, storceva il naso. Questo mi ha aiutato a convincermi che fossero ottimi lavori! E infatti 53


Attivismo 2.0 -------------------------------------------------------------------Quando e perché fare politica è diventato pop

Quante volte ti è capitato di vedere una pubblicità con chiari riferimenti a tematiche sociali e politiche attuali? Se avessero formulato questa domanda a un uomo o a una donna negli anni ‘60 probabilmente la risposta sarebbe stata molto diversa da quella che una qualsiasi persona darebbe oggi. 54

In effetti non è difficile per chiunque usi i social, navighi in internet o semplicemente guardi la tv ricordare più di un esempio di spot in cui il prodotto pubblicizzato sia associato ad una qualche battaglia sociale, dalla lotta per l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne fino alla difesa dei valori del multiculturalismo. Questa tendenza, che solo da qualche anno a que-

sta parte è diventata particolarmente diffusa e riconoscibile, prende il nome di brand activism, ovvero attivismo dei marhi, e segna il passaggio a una nuova epoca in cui prendere posizione rispetto a questo o quel tema sociale diviene una mossa obbligata, parte integrante della strategia economica delle aziende e fattore determinante alla base del loro successo o insuccesso. Un esempio tra tutti di questo fenomeno è la campagna pubblicitaria We Accept di Airbnb andata in onda nel 2017 durante il Superbowl, il più grande e seguito evento sportivo in America ogni anno. Nel breve video di trenta secondi Airbnb promuoveva un messaggio chiaro nel dibattito politico statunitense lanciato da Trump sull’immigrazione e l’integrazione: noi accettiamo indipendentemente dal colore della pelle, dalla tua provenienza, religione o orientamento sessuale. La compagnia così facendo sceglieva di prendere apertamente posizione sulla tematica sociale più significativa per gli americani in quel momento mettendo in atto un’operazione di brand activism. E’ importante sottolineare, tuttavia, come questa strategia utilizzata oggi da tutti i più grandi marchi sia una seminovità connessa alle nuove frontiere aperte dai social media nonché il punto di arrivo di un processo di sperimentazione complesso. Dall’intrattenimento alle battaglie sociali Nell’era dei social media costruire un brand è diventata una sfida. In un primo momento tutti i grandi marchi avevano guardato a piattaforme quali Facebook e Twitter come a una miniera d’oro per i loro affari grazie alla possibilità che offrivano di pubblicizzare i prodotti. Scomodo

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Così i marchi svilupparono una strategia digitale basata sul brand content, una nuova forma di pubblicità che si presentava in forme diverse da quelle classiche (video, corti etc.) e che aveva come scopo quello di costruire una connessione diretta e a più livelli con il consumatore. Questa tecnica fondata sulla creazione di un prodotto culturalmente rilevante non era nuova, in quanto di norma le possibilità di successo di un marchio aumentano quando questo riesce a connettersi con la cultura del tempo. Approcci presi in prestito dal mondo dell’intrattenimento (storie, trucchi cinematografici ed effetti speciali) catturavano il pubblico e rendevano il loro marchio famoso. I brand riuscivano a inserirsi nel contesto culturale del momento attraverso la sponsorizzazione di programmi tv, eventi, festival. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie, che permettevano al pubblico di scegliere se vedere o meno gli annunci pubblicitari, questa tecnica si reinventò in una forma nuova, in diretta competizione con il mondo dell’intrattenimento.

Con l’avvento dei social media, che riuscivano a collegare e connettere tra loro comunità e sottoculture un tempo geograficamente isolate, si apre una nueva era. Emergono prepotentemente le nuove culture di massa che per i brand rappresentano una nuova sfida. I numeri parlano chiaro: nelle classifiche di Youtube e Instagram, le grandi aziende commerciali appaiono in coda, in ombra rispetto a nuove figure di intrattenitori fino a poco fa sconosciuti come PewDiePie o l’italiano Favij, ragazzi che emergono dalla nuova sottocultura giovanile del gaming.

La Bmw, ad esempio, è stata tra le prime ad utilizzare questa strategia realizzando spot nella forma di cortometraggi. Grandi aziende hanno rincorso registi di fama mondiale pur di guadagnare popolarità; è il caso dello spot di Natale di H&M girato da Wes Anderson o di quelli famosissimi della Barilla, Gucci e Armani etc. di David Lynch. Erano questi gli anni che precedevano il boom dei social media, le grandi compagnie allora credevano che se fossero riusciti ad avere un livello creativo al pari degli standard hollywoodiani avrebbero raggiunto successo e popolarità.

Rispetto a queste nuove figure, e ai contenuti che propongono, sono perdenti anche i più grandi e potenti brand che, nonostante gli enormi investimenti, non riescono tenere il passo. Significativo il caso della Coca Cola che qualche anno fa trasformò il proprio sito online in un magazine digitale. Il risultato fu un flop. Risultava chiaro quindi quale fosse il limite del modello seguito fino ad allora: ineccepibile nella forma ma poco innovativo dal punto di vista culturale per le grandi masse. Se i brand non ottengono dai social media i benefici sperati, le celebrità vedono accrescere la propria popolarità in maniera esponenziale,

data la possibilità per i fans di interagire direttamente con i propri personaggi preferiti (atleti, cantanti, attori etc.). Nella storica campagna Just do It già dagli anni 70 la Nike raccontava le storie personali di atleti di successo partiti da zero sfruttandone la popolarità. Presto si comprende che era preferibile e più efficace associare al volto noto un messaggio innovativo. Uno dei tentativi meglio riusciti in tal senso è quello del marchio di vestiario sportivo Under Armour che in un suo spot propone la logica competitiva sportiva, tipicamente maschile, in versione femminile. La ballerina Misty Copeland che indossa abiti sportivi, con la sua fisicità non convenzionale, rompe con lo standard classico della femminilità tipico del mondo del balletto. In questo caso vediamo come il successo della campagna non sia legato esclusivamente alla notorietà del personaggio, ma al carattere innovativo dell’ideologia sposata. Il fenomeno prende il nome di cultural branding, nuova strategia utilizzata dalle imprese nella quale rientra il brand activism.

“La strategia del brand activism non è pensata per orientare i consumatori verso una certa ideologia ma per compiacere le preferenze culturali e politiche di alcuni di loro.”

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La storia di Chipotle: il fast food che si reinventa Per comprendere questa tendenza seguiamo il percorso comunicativo della famosa catena messicana di fast food: Chipotle. Questo marchio per emergere si è appropriato dell’opportunità creata dai movimenti sociali che, tra 2011 e il 2012, avevano messo in discussione la cultura del cibo industriale dominante in America. Il marchio, identificandosi con i valori alla base di questo movimento come il ritorno al cibo preindustriale, si propone come nuovo modello all’interno della propria categoria. 55


Le ragioni del successo del brand risiedono dunque nella promozione di una ideologia innovativa che rompe con le convenzioni dominanti nel proprio campo. Chipotle prima di tutto le identifica: nell’industria cibaria americana si era diffuso dagli anni ‘60 il mito per cui l’utilizzo di conservanti e la produzione standardizzata avrebbero realizzato cibo saporito e sano e su questa teoria si erano sviluppati tutti i fast food da MacDonald’s in poi. Quando la sensibilità sociale su questi temi cambia e diventa virale con i social media la preoccupazione sulla qualità e salubrità del cibo dei fast foods, si apre una fase in cui l’ideologia fino ad allora dominante viene messa fortemente in discussione ed è qui che si apre la possibilità per un nuovo brand del settore di proporre un ideale alternativo. Chipotle coglie al volo l’opportunità e identifica la nuova cultura di massa che si era venuta a creare intorno a queste preoccupazioni che chiedeva a gran voce un ritorno al cibo preindustriale. Si lega alla sua causa e la fa diventare elemento fondante del brand. La nuova ideologia viene promossa dal brand con due film parossistici sul processo di macellazione e lavorazione della carne che, lanciati sulle piattaforme digitali, divennero presto virali. A determinare il successo della campagna fu la natura del messaggio che andava oltre il mero intrattenimento, tipico della strategia del branded content. Che a promuovere una nuova visione più salutista dell’America fosse proprio un fast food, certo molto più caro rispetto alla media, fu una mossa azzardata ma in definitiva vincente. 56

Dunque i pilastri della strategia del cultural branding sono tre:

individuare una convenzione sociale e il momento giusto per romperla; abbracciare un messaggio alternativo a questa facendolo proprio e infine innovare. Il brand per continuare a cavalcare l’onda del successo deve infatti continuare a connettere i prodotti e le strategie comunicative con temi attuali;

la parola d’ordine è evolversi continuamente dimostrandosi sempre fedeli alla causa originaria.

Si veda ad esempio l’operazione commerciale effettuata dalla Mulino Bianco, come da tanti altri grandi marchi italiani, nei confronti dell’olio di palma, ritenuto tossico per la salute. Il marchio, da sempre legato ad una dimensione domestica, familiare e rassicurante, prende nettamente le distanze dall’utilizzo dell’olio di palma nei propri prodotti per difendere la sua immagine tradizionale. Le regole del gioco: attualità e coerenza L’efficacia di questa strategia ha portato oggi la maggior parte dei brand a correre dietro le stesse tendenze e tematiche sociali: questo ha determinato un appiattimento e una omologazione delle campagne pubblicitarie, allineate sugli stessi argomenti e diventate quindi poco credibili e innovative. I brand iconici invece riescono ad avere successo in quanto, rispetto a un determinato tema sociale, come ad esempio l’uguaglianza universale e di genere, riescono ad articolare un proprio discorso culturale innovativo. E’ il caso di Puma che ha lanciato nel 2018 la piattaforma Reform che promuove il cambiamento interessandosi a temi particolari e specifici come quello della riforma del sistema di giustizia penale negli USA e delle rivendicazioni del movimento Black Lives Matter. Infatti non è un caso che il lancio di questo progetto sia stato accompagnato dalla famosa foto delle Olimpiadi del 1968 con i due atleti che alzano il pugno chiuso verso il cielo come segno di adesione alla causa del movimento delle Black Panthers. Scomodo

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Certo, questa operazione di brand activism può portare a sacrificare una parte dei consumatori per adattarsi maggiormente all’ideologia e all’universo valoriale della fetta di pubblico che si vuole attrarre e che spesso coincide con le nuove generazioni. Del resto la strategia del brand activism non è pensata per orientare i consumatori verso una certa ideologia ma per compiacere le preferenze culturali e politiche di alcuni di loro. Si veda, ad esempio, la campagna della Nike Stand for Something (Prendi posizione) che ha scelto la collaborazione di Colin Kaepernick, giocatore di football americano e attivista contro l’ingiustizia razziale. Questa campagna pubblicitaria ha scatenato la reazione del presidente Trump che a gran voce ha chiesto al suo elettorato, in un tweet, di boicottare il marchio. In questo caso è evidente come la presa di posizione del grande marchio su uno dei temi politici più caldi sia il risultato della polarizzazione esasperata della società statunitense che spinge ciascuno a schierarsi inevitabilmente da una parte o dall’altra. Questo approccio funziona solo se il brand esprime un punto di vista che si trova alla base della azienda stessa o della visione che essa veicola. Al contrario è controproducente quando l’operazione non viene percepita come autentica e anzi si pone in aperta contraddizione con il modus operandi della compagnia. Ad esempio nello spot pubblicitario della Pepsi del 2017 si vede una modella famosa, nel mezzo di una manifestazione, porgere una lattina di Pepsi a un poliziotto. I social sono insorti a gran voce. Da una parte i progressisti che ritengono inappropriato l’utilizzo del contesto della manifestazione in quanto chiara strategia di marketing, dall’altra i conservatori che non gradiscono l’accostamento semplicistico di due posizioni non sempre conciliabili (manifestanti e poliziotti).

Il messaggio veicolato dal brand fallisce perché non sceglie un consumatore tipo (manifestanti o forze dell’ordine) al quale rivolgersi in maniera esclusiva o privilegiata e di cui sposare l’universo ideale. “Se solo papà avesse saputo del potere della Pepsi…” commenta sarcasticamente la figlia di Martin Luther King in un tweet che racchiude le perplessità di molti. Il cuore del dibattito sulle operazioni di brand activism, però, risulta più complesso. Al di là della credibilità o meno del messaggio veicolato, ci si chiede, più in generale, se sia giusto o meno che i grandi marchi e i loro interessi entrino in questo campo e se questo fenomeno possa contribuire a un effettivo cambiamento.

Tuttavia, a parte le perplessità di fondo sull’opportunità del sodalizio tra i grandi temi sociali e gli interessi di promozione pubblicitaria di un prodotto, è necessario prendere coscienza del fatto che la polarizzazione delle società contemporanee ha avviato un processo inarrestabile in cui sono gli stessi consumatori, soprattutto i giovani, a sollecitare i brands iconici affinché prendano posizione sulle battaglie che gli stanno più a cuore. Non chiediamo più, semplicemente, che il marchio venda un prodotto di qualità, ma che esprima anche un punto di vista su determinate tematiche, non uno qualsiasi, il nostro. Parteggiare diventa quindi la regola. Ma a quali condizioni? Prima di tutto deve essere chiara e immediatamente percepibile la base ideologica su cui è costruito il brand a cui lo stesso deve mantenersi fedele in tutte le successive forme ed evoluzioni. In secondo luogo, il marchio deve tenere un comportamento coerente con il messaggio che trasmette. Patagonia, ad esempio, che promuove la conservazione ambientale, produce vestiti che sono effettivamente realizzati con materiali riciclati al 100%. Ma questo basta affinché il cosumatore possa sentirsi sicuro delle proprie scelte? Chi garantisce che anche l’azienda più coerente con il proprio messaggio non inganni ugualmente la buona fede del consumatore? Non si può infatti escludere che un’azienda che utilizza come proprio vessillo la tutela dell’ambiente ed effettivamente impieghi nel ciclo di produzione materie non inquinanti, possa fondare il proprio profitto sullo sfruttamento della manodopera minorile nei paesi in via di sviluppo.

“I brands rifletteranno sempre soltanto quelle che sono le opinioni politiche, dominanti o emergenti, delle masse, senza promuovere valori realmente innovativi.”

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Difatti, nonostante questa strategia di marketing possa influire positivamente sulla trasparenza delle aziende, incoraggiando comportamenti etici, è pur vero che i brands rifletteranno sempre soltanto quelle che sono le opinioni politiche, dominanti o emergenti, delle masse, senza promuovere valori realmente innovativi. Sarebbe, infatti, contrario agli interessi economici dei grandi brands, che continuano a muoversi secondo logiche di profitto, sostenere ideologie minoritarie, poco diffuse e quindi poco attraenti.

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Di fatto quindi è possibile che un marchio carpisca la fiducia del consumatore sulla base di un’informazione parziale del suo comportamento aziendale, con la conseguenza che il consumatore si veda rappresentato soltanto per una parte del suo patrimonio valoriale. In ogni caso il rischio è quello di ridurre l’impegno politico alla mera scelta di portafoglio (scegliere un brand piuttosto che un altro per i valori che sposa). Questo nuovo approccio, dunque, presenta un limite intrinseco: è un modo individuale di fare politica che elude la dimensione collettiva e pubblica alla base della stessa. Infatti, anche in un’epoca in cui è la stessa politica a utilizzare le forme e il linguaggio imprenditoriali, deve esistere uno scarto tra cittadino e consumatore. I due termini non sono e non devono essere in alcun modo sovrapponibili. Il caso italiano: dietro Freeda e la retorica dell’empowerment femminile All’interno del complesso e variegato fenomeno del brand activism una delle tendenze più seguite e di moda oggi è quella del brand feminism, attraverso la quale i marchi più famosi si appropriano dell’ideologia femminista, trasformandola in una versione pop, attraente per le grandi masse. Negli ultimi quattro anni, infatti, sembra che il femminismo sia sulla bocca di tutti come non succedeva da parecchio tempo. Che si parli di movimenti, dall’argentino Ni Una Menos alle sue sorelle hollywoodiane Metoo e He for She, di spot anticonvenzionali sul ciclo mestruale lanciati da un’industria di assorbenti o delle magliette di Dior da 550 euro con la frase iconica We should all be feminists, il femminismo è l’indiscusso protagonista di questo particolare periodo storico. 58

Tutti sentono di doverne fare parte prendendo posizione. Tra i nuovi convinti sostenitori della lotta femminista compaiono anche i grandi brand che, se fino a ieri avevano promosso un’immagine tradizionale e stereotipata della donna, adesso si dicono pronti ad invertire la rotta per adeguarsi a un cambiamento epocale di paradigma. Così l’ideologia femminista diventa un prodotto come un altro. Tuttavia, se questa strategia di marketing è facilmente smascherabile quando realizzata dai marchi iconici, come quelli di cosmetica o vestiario, risulta meno riconoscibile quando proviene da fonti diverse. E’ il caso della piattaforma digitale editoriale Freeda, un progetto tutto italiano considerato da molti il fenomeno del momento. Freeda nasce nel 2017 come startup editoriale che si propone di rappresentare “il punto di riferimento sui social delle giovani donne dai 18 ai 34 anni”. Si rivolge, pertanto, essenzialmente ai millennials e alla generazione Z e per loro inventa una formula accattivante per parlare di femminismo. Se si visitano, infatti, le pagine Instagram o Facebook di Freeda, si è immediamente colpiti dai colori sgargianti, dal linguaggio dei meme, dagli screen che simulano conversazioni whatsapp tra ragazze, tutti elementi tipici della cultura pop giovanile che mirano a ricostruire una cornice familiare in cui inserire sapientemente “nuovi” contenuti. Anche il modo in cui Freeda fa informazione strizza l’occhio ai più giovani. Tutte le notizie prendono la forma di instant articles che compaiono direttamente sui social media, in modo da facilitare la diffusione e fruizione dei contenuti. Ma quali sono questi nuovi contenuti che Freeda propone?

Il modello di femminismo che la piattaforma veicola si basa essenzialmente sul racconto della vita di donne che, in vari campi, dallo sport all’arte, alla politica, hanno guadagnato il successo. Difatti, nonostante molte di queste storie tocchino temi rilevanti nel discorso femminista, dalla parità di genere alla sessualità come scelta libera e consapevole, rimane centrale nella narrazione la dimensione individuale della lotta femminista. Si moltiplicano i messaggi di self empowerment e la realizzazione personale del singolo diviene l’obiettivo principale che prevale sulla dimensione collettiva, sociale, in definitiva politica, che è l’essenza del femminismo. Freeda diviene quindi portavoce di un messaggio femminista neoliberale in versione pop. Ma non finisce qui. La piattaforma infatti si connota come una vera e propria operazione commerciale tenuta in piedi da massicce sponsorizzazioni il cui scopo principale non è quello di fare informazione ma ancora una volta di vendere. Come denuncia infatti Linkiesta, in un articolo su Freeda, molti si chiedono se il reale obiettivo non sia quello di divenire il principale foro delle conversazioni fra giovani donne, “al fine di vendere l’enorme quantità dei dati, così ottenuti, ad imprese che li utilizzerebbero per elaborare strategie aziendali mirate”. Un’operazione strategica ben costruita che non a caso vede tra i suoi fondatori Andrea Scotti Calderini, ex direttore della divisione crossmedia e branded entertainment di Publitalia, e Gianluigi Casole della Holding Italiana H14, anch’essa di proprietà della famiglia Berlusconi. Freeda sarebbe quindi l’ennesimo volto di una strategia d’impresa che rivela grandi capacità di trasformazione. di Annachiara Mottola di Amato Scomodo

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Tesori ritrovati --------------------------------------------------------------------Tra Parmalat, Stato e Pandolfini

Il 29 Ottobre di quest’anno, a Milano, è stata messa all’asta una ricca collezione d’arte da Pandolfini, una tra le più importanti case d’asta del nostro Paese. Nel panorama italiano si tratta di un’asta di grande importanza, con pochi precedenti. Infatti parliamo di alcuni nomi del calibro di Picasso, Magritte, Monet, Kandinskij e Van Gogh, per un totale di 55 opere. L’interesse suscitato da quest’asta però, non risiede esclusivamente nel prestigio delle opere che saranno vendute (da alcuni tra l’altro messo in discussione), ma anche dal motivo per cui e dalle modalità con le quali Scomodo

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queste saranno vendute. A rendere quest’asta unica è soprattutto il fatto che per oltre trent’anni la collezione è stata proprietà di Callisto Tanzi. Chi scrive quest’articolo lo sta facendo proprio mentre l’asta si sta svolgendo, una scelta particolare, ma ragionata. L’idea infatti è quella di non commentare a caldo il successo o l’insuccesso dell’iniziativa, per quanto, come vedremo, questa volta più di altre un fallimento sarebbe inaccettabile, bensì presentare un’analisi di quanto sta accadendo, dalle origini fino alle scelte circa la sua gestione.

Callisto Tanzi. Il cavaliere dei bilanci. Il cavalier Tanzi (anche se questa carica gli è stata revocata per “indegnità” nel 2010) è stato, nel bene e nel male, uno dei più importanti imprenditori italiani del secondo Novecento. Fondatore del colosso Parmalat, è attualmente agli arresti domiciliari (in cui rimarrà probabilmente a vita, essendo ottantacinquenne) condannato per quello che è stato, al livello europeo, il più grave scandalo di bancarotta fraudolenta di una società privata. Il Parmacrac. Infatti a fine 2003, si scoprì che la Parmalat aveva lasciato dietro di sé, negli anni, un buco da 14 miliardi di euro di cui nessuno pareva essersi accorto fino ad allora. Questo, grazie a una costante falsificazione dei bilanci societari e alla contraffazione di numerosi documenti che dovevano garantire la salute della sua azienda. Inoltre, la strategia di Tanzi fu quella di continuare a investire acquisendo altre imprese, tramite ingenti prestiti richiesti alle banche, nonostante la Parmalat fosse in rosso. Il suo scopo era di “dimostrare” al mercato e alle banche che la sua società era in costante crescita, e quindi in salute, principalmente per 2 motivi: al mercato, poiché un qualsiasi segnale di stagnazione se non addirittura di perdita, avrebbe declassato la società in borsa; alle banche poiché, fidandosi della salute di Parmalat, continuavano a prestargli i soldi che gli permettevano di evitare il default. La realtà invece era un’altra; i magistrati, ricostruendo la vicenda, hanno ipotizzato addirittura che la società avesse un bilancio in passivo già dagli anni ’90. 59


Nonostante le ingegnose falsificazioni e strategie messe in atto da Tanzi per mascherare la pessima condizione della propria azienda, ancora oggi non ci si spiega come nessuno, dal mondo della finanza a quello della politica, si sia accorto di ciò che stava succedendo. Comunque , inoltrarsi negli intrecci politici che hanno permesso a Tanzi di far crescere l’indebitamento di Parmalat fino a 14 miliardi prima di essere “scoperto” non è l’obiettivo di questo articolo. prima di proseguire è tuttavia necessario ricordare l’estensione di questa vicenda e la quantità di persone che ne rimase coinvolta. Basti pensare che le maggiori banche Europee hanno venduto i bond della Parmalat ai propri clienti fino al giorno precedente il suo fallimento. La consigliavano come la società sui cui investire i propri risparmi. Si calcola che i risparmiatori colpiti dalla bancarotta Parmalat, cioè quelli che avevano prestato soldi all’azienda prima che fallisse (tramite l’acquisto di bond), furono oltre 130.000, e solo parte di loro recuperò il proprio patrimonio quando la società fu risanata.

Quel giorno infatti si venne a sapere che il fondo di garanzia da ben 4 miliardi di euro che Tanzi dichiarava essere alle Cayman, e su cui le banche facevano affidamento nel continuare a prestargli denaro, non esisteva, o meglio era vuoto.

Una collezione di 100 opere, comprata per buona parte con i soldi della Parmalat, e che per diversi anni sarà al centro di varie indagini e processi. Infatti, quando i vertici della Parmalat (Tanzi, il suo contabile e i suoi familiari) si resero conto dell’inevitabile e imminente fallimento della propria società, non persero un momento per portare quanto possibile fuori dalla barca che affondava, in una vera a propria corsa contro il tempo. I familiari saranno tutti coinvolti nel cercare di nascondere quel poco rimasto dall’impero che Tanzi aveva costruito negli anni. Ed è così che inizia per la famiglia Tanzi, potremmo dire, la seconda parte di questa infinita telenovela. Infatti, buona parte dei loro sforzi furono concentrati nell’impedire che la collezione finisse nelle mani della Guardia di Finanza. Inizialmente Anita Chiesi, moglie di Tanzi, riuscì a “salvare” parte del patrimonio artistico di famiglia, dimostrando che alcune tra le opere d’arte che gli inquirenti avrebbero voluto sequestrare erano sue e non della società di Collecchio.

“La guardia di finanza ritrovò le opere mancanti, 103 pezzi, tra magazzini, sottoscala e officine dei Tanzi”

I più colpiti furono però gli azionisti, quelli il cui patrimonio investito dipendeva interamente dal valore azionario della Parmalat. Questi videro da un giorno all’altro il valore delle loro azioni crollare a picco: si può dire infatti che l’impero creato da Tanzi, che negli anni arrivò a raggiungere tutti e 5 i continenti (35 paesi) e a stipendiare circa 32.000 lavoratori, crollò da un momento all’altro il 23 Dicembre 2003. 60

Di lì poco il valore delle azioni crollò a picco, Tanzi fu sospeso dal suo incarico e al suo posto venne nominato Commissario Straordinario Enrico Bondi. Così finì tutto. Subito dopo infatti cominciarono le inchieste dei magistrati per scoprire i colpevoli di questo crac, indagando su oltre 40 soggetti.

“Si calcola che i risparmiatori colpiti dalla bancarotta Parmalat, furono oltre 130.000” Tanzi fu uno dei pochi condannati: secondo 2 sentenze della Cassazione, 10 anni e 17 anni di reclusione rispettivamente per aggiotaggio e bancarotta fraudolenta. In realtà poi, viste le sue pessime condizioni di salute, gli saranno concessi gli arresti domiciliari. La Collezione Tra i vari beni che vennero pignorati all’ex patron di Parmalat c’è la sua collezione di opere d’arte, la cui vendita, il prossimo 29 Ottobre, è il motivo di questo articolo.

Le altre opere furono invece nascoste, come scoprì la Procura di Parma, tra gli immobili dei figli e della moglie di Tanzi (Anita ne aveva dichiarate solo 13 di sua proprietà). Quasi come in un film, appunto, qualche anno dopo la guardia di finanza ritrovò le opere mancanti, 103 pezzi, tra magazzini, sottoscala e officine dei Tanzi. In particolare 3 opere furono ritrovate a casa di Paolo dal Bosco, mercante d’arte che si scoprì avere avuto un ruolo fondametale nella costituzione di questa collezione. Scomodo

Ottobre 2019


Dal Bosco era l’uomo a cui Tanzi si riferiva sistematicamente per acquistare arte; era il suo consigliere e allo stesso tempo colui che si occupava dell’acquisto delle opere; aveva praticamente carta bianca nel comprare. Secondo Sonia Farsetti, Presidente dell’Associazione Nazionale delle Case d’Asta Italiane, infatti, “C’è necessità di rendere materiale, tangibile, un patrimonio instabile, fragile e indissolubilmente legato al castello di carte false costruito da Tanzi, quale era quello della Parmalat, acquistando dei beni facilmente trasportabili e nascondibili, oltre che prestigiosi.” La raccolta sarebbe quindi nata esclusivamente come strumento di distrazione di capitale e non per le velleità artistiche del cavaliere. Ciò che risulta evidente, analizzando la lista dei lotti dell’asta, è che gran parte delle opere sono disegni, spesso su carta. Questi costano per loro natura meno dei dipinti ed è quindi probabile che del Del Bosco ne avesse giustificato l’acquisto per via del nome, nonostante il valore non fosse appunto dei più alti. Pubblico o privato? Una volta terminata la parabola storica sulle origini di questa collezione, non resta che analizzare la modalità con cui questa collezione sarà venduta. Per farlo però, bisogna tenere a mente lo scopo di questa vendita: contribuire al risarcimento di quei risparmiatori frodati nel 2003. In casi di fallimento, normalmente, il giudice responsabile dell’ufficio indice un’asta giudiziaria che dispone la vendita forzata di alcuni beni del soggetto indebitato; Scomodo

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questo con il fine di soddisfare, in parte o del tutto, i relativi creditori. Lo Stato quindi, incassa la totalità dei proventi delle vendite e con questi risarcisce i creditori. In un caso di bancarotta della portata di Parmacrac, sono stati sequestrati dalla Procura tutti quanti i beni di proprietà di Callisto Tanzi, tra cui (nonostante i vari ostacoli) la famosa collezione d’arte.

Latte su tela 75 x 85 mm

A differenza da quanto vorrebbe la norma, non tutti i lotti di questa collezione sono stati pubblicati e messi all’asta sul sito istituzionale di aste giudiziarie di Parma, nel quale chiunque può fare la propria offerta sui vari beni sequestrati. Per 55 lotti si è deciso di affidare la vendita ad una casa d’aste privata, Pandolfini appunto; lo Stato ha quindi evidentemente ritenuto fosse meglio appaltare la vendita delle opere di maggior valore ad un privato, nonostante, probabilmente, dovrà pagargli una sostanziosa commissione per il servizio (a volte però le case d’asta, previo accordo con il venditore, si accon-

tentano di guadagnare esclusivamente dai fee sulla vendita). Inoltre, è interessante che Il 29 ottobre, formalmente non ci sarà un’asta giudiziaria, ma in apparenza una normale asta di opere appartenenti ad un collezionista privato. Infatti, non è possibile trovare nessun collegamento tra l’asta in questione e la figura di Callisto Tanzi. Basti pensare che il nome dell’asta è : “Tesori ritrovati, impressionisti e capolavori moderni da una raccolta privata”. Ogni legame con l’origine di questa collezione, e con la reale funzione di questa vendita, non è minimamente nominato da Pandolfini. In realtà, quando viene venduta all’asta una collezione di opere, si tende a lasciare anonimo il proprietario. Questo avviene soprattutto in quei casi in cui il venditore non vuole far supporre dei prblemi finanziari a suo conto, o non vuole si sappia che ha opere d’arte. Il nome del proprietario si comunica invece in quei casi in cui la stessa appartenenza a tale persona aumenta il valore della collezione. Su tutti basti vedere la recente asta delle opere d’arte possedute in vita da David Bowie, che ha raggiunto prezzi molto elevati rispetto al reale valore delle opere in sé. Questo però non fa altro che sottolineare la contraddizione di questa operazione; infatti sui maggiori quotidiani è comunque uscita la notizia della vendita della collezione di Tanzi da parte di Pandolfini.L’elemento centrale della discussione, è che questa non può essere considerata una collezione tra le tante, avendo avuto il crac Parmalat una rilevanza e una risonanza enorme a livello nazionale. 61


Simbolicamente, questa collezione rappresenta un prodotto delle frodi messe in atto da Tanzi ai danni di numerosi risparmiatori italiani. Lo Stato, avendo la possibilità di compiere un gesto forte in favore di quei suoi cittadini colpiti, decide, per qualche motivo, di affidarsi ad un privato lasciando passare in sordina la finalità di quest’asta.

Diventa per la maggior parte una questione di rapporti e di bravura nel coltivarli, fattore che si addice molto di più ad un privato piuttosto che a un ente pubblico. Infatti, più relazioni si posseggono e minore sarà il rischio di opere invendute o svendute, l’incubo di ogni asta; a maggior ragione in un’asta d’arte in cui un invenduto o svenduto causa la quasi diretta svalutazione di tutte le altre opere dello stesso artista.

A questo punto non resta che chiedersi il perchè di questa scelta: perché lo Stato preferisce pagare una commissione a un intermediario perdendo il diritto di rivendicare la vendita di queste opere, piuttosto che gestirla personalmente come tutte le altre aste giudiziarie? Evidentemente, è convinto che Pandolfini possa garantirgli, almeno per quanto riguarda la vendita di opere d’arte, dei guadagni maggiori. La questione quindi si sposta da chi vende a cosa viene venduto. Per comprendere meglio la situazione, ed evitare così di cadere in facili stigmatizzazioni incolpando questo o quell’altro soggetto, bisogna analizzare le diLatte parzialmente scremato su tela 75 x 85 mm namiche del mercato dell’arte. Si può infatti affermare senza remore, che un’asta in cui si Detto ciò però, resta ancora da vende arte, a causa delle carat- capire la scelta di Pandolfini teristiche del prodotto venduto rispetto alle varie case d’asta e dei relativi acquirenti, sia in- estere, ben più importanti della trinsecamente diversa da ogni nostrana, e che una collezione altra asta in cui vengono battu- simile avrebbe senza dubbio atte categorie differenti di beni. tratto facilmente. ProbabilmenSono proprio queste differen- te si è scelto di privilegiare una ti caratteristiche che tendo- vendita interna, a collezionisti no a privilegiare un venditore italiani, più facilmente reperiprivato rispetto alla normale bili da Pandolfini, piuttosto che asta giudiziaria. Ad esempio, è stranieri. impensabile mettere in piedi In realtà è possibile che-apun’asta d’arte senza aver prima punto visti i nomi presenti nelsentito diversi collezionisti, più la collezione-questa attirerà o meno grandi, disposti a parte- ugualmente anche alcuni collecipare all’asta. zionisti stranieri. 62

Inoltre, leggendo le basse stime fatte da Pandolfini sulle opere, non si prevede che queste raggiungeranno prezzi stellari. Dal momento in cui però gran parte delle opere sono dei disegni, e non rappresentano quindi il top di gamma dei vari artisti, potrebbe aver senso essersi rivolti a una casa d’arte media che coltiva appunto relazioni con collezionisti medi per cui queste opere rappresenterebbero un ottimo colpo. Pandolfini è stata una decisione corretta o invece un grave errore che si ripercuoterà sui risparmiatori, da anni in attesa di questi soldi? Difficile dirlo visto che l’alone di mistero del mondo dell’arte prevede che i compratori restino anonimi e le cifre si dissolvano al battere del martelletto… difficile ma non impossibile. Ci vediamo alla prossima puntata.

di Tancredi Paterra Scomodo

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I-------------------------------------------------------------------dolori del giovane trapper La difficoltà di emergere in un genere in cui non è più concessa gavetta

I primi anni di carriera per un artista non devono per forza essere un periodo di frustrazione e insoddisfazione. Però chiaramente chi decide di provare a sfondare nello spietato mondo della musica lo fa con la consapevolezza del fatto che dovrà vivere con pochi soldi, scarsi riconoscimenti e affrontando molte delusioni prima di arrivare alla piena realizzazione. È un compromesso a cui si accetta di scendere per poter sperare di vivere della propria passione e magari di raggiungere la fama e il successo, ma molti artisti trap emergenti si trovano a giocare una partita diversa. Nonostante sia presente in Italia almeno dal 2014-2015, grazie a Maruego e poi Sfera Ebbasta, è solo dopo la strage di Corinaldo e la partecipazione di Achille Lauro a Sanremo che la nostra opinione pubblica si è veramente accorta dell’esistenza di questo nuovo genere. Un tipo di musica che le generazioni meno giovani si sforzano vanamente di comprendere e che, a causa del suo linguaggio e immaginario particolare, ha sconvolto i genitori, i nonni ma anche tutti quei parenti che vediamo solo a Natale. Probabilmente allo scorso cenone, mentre i ragazzi erano fuori a “fare una passeggiata”, avranno sussurrato tra loro chiedendosi se anche gli altri avessero avuto modo di sentire questa nuova musica perversa che va tanto tra i giovani. “Io ho sentito uno che parlava di cocaina”, “Ci sta questo Ulisse Lauro che canta di ecstasy”, “Ma Giacomino sembra tanto un bravo ragazzo, non posso credere che ascolti quella roba”. Scomodo

Ottobre 2019

In effetti l’esplosione mediatica della trap ha coinvolto una parte non indifferente di noi e molti nostri coetanei hanno scelto di provare anche loro a “sfondare” nel genere che oggi, più di qualunque altro, appare alla portata di tutti. Un ascensore sociale ed economico che, visto da fuori, da’ l’impressione che creare potenziali hit di successo sia talmente facile da non sembrare vero. In palio c’è la fama, un successo improvviso e inspiegabile con le donne e una stabilità economica che fino a poco tempo prima era solo un miraggio.

La prospettiva di farcela con poco impegno, sia nella produzione che nella stesura del testo, ha fatto e continua a far gola ai tanti su cui inciampiamo quando, scorrendo le storie di Instagram, compaiono i preziosi teaser sponsorizzati della loro ultima fatica. Quindici secondi su cui puntano tutte le loro fiches per convincerci che sono loro il nuovo astro nascente della trap italiana,

che questo è l’anno in cui si “prenderanno tutto”. Proprio per il fatto di avere pochissimo tempo, ci si concentra generalmente su una frase provocatoria, un ritornello orecchiabile o un’immagine del video che resta impressa. Una sorta di speed dating del mercato musicale. Ma spesso, proprio per l’overloading e il bombardamento di questo genere di prodotti, noi ascoltatori siamo portati a una naturale indifferenza e assuefazione al fenomeno, che tende a far cadere ogni esperimento nell’immenso calderone del già visto. Nei video degli emergenti una delle componenti che sembra non poter mancare è l’ostentazione di tutti quei beni materiali che il successo artistico comporta. Si nota poi chiaramente come in molti casi i ragazzi che decidono di cimentarsi nel genere più in voga al momento hanno recepito un messaggio distorto e ingannevole per cui la conditio sine qua non per sfondare nella trap è quella di vestire i panni del personaggio strafottente, provocatorio, arrogante e che deve necessariamente mostrare al pubblico la sua vita chic e il fatto che la sua figura sia universalmente invidiata ed acclamata. Hanno capito che fare trap equivale in un certo modo a fare invidia. Quando in realtà la figura dell’emergente, in tutti i generi, è decisamente lontana dall’essere invidiabile. E’ una fase fisiologica e naturale del percorso artistico e i cantanti, rapper e trapper che vediamo in cima alle classifiche non fanno eccezione. Un periodo in cui non si guadagna neanche per vivere, spesso si fa un secondo lavoro per finanziare i propri progetti musicali e si accetta di suonare a ogni serata sperando sia quella giusta per farsi conoscere. 63


Oggi sembra però che per un trapper questo periodo non se lo possa concedere. Per potersi cimentare in un genere che molti credono sia quasi solamente pura autocelebrazione, non è accettabile rimanere nel limbo della fase artistica embrionale, ma bisogna avere un’ascesa immediata. Ragione per cui, se si confrontano i testi di questo esercito di trapper emergenti e la loro vita reale, spesso ci si accorge delle enormi incongruenze che nascono da questo controsenso. Persino Sfera Ebbasta, il golden boy della trap italiana, ha passato anni di gavetta tra enormi difficoltà, come racconta lui stesso in una delle sue canzoni dove ricorda che “ai live erano in dieci sotto al palco”. E anche Ketama126, un artista che è esploso solo in questo ultimo anno, ha raccontato di quando “non avevo una lira, spicci solo per la birra, pensavo a farla finita”. Gli stessi artisti che ce l’hanno fatta parlano quindi con grande sincerità e naturalezza del periodo prima del successo come un qualcosa di necessario e formativo. Mentre i trapper che ancora sperano di sfondare nascondono, quasi vergognandosene, questo lato che invece, alla fine dei conti, potrebbe risultare molto più interessante, affascinante e coinvolgente della solita fotocopia autocelebrativa. Massimo Pericolo, uno dei rapper di cui l’Italia si è recentemente innamorata, ha scelto di puntare la propria narrativa e il proprio immaginario su uno storytelling disperato del disagio di provincia. Una scelta vincente che lo ha fatto emergere tra i tanti altri che invece insistono sugli stessi temi perché sono convinti che per fare la trap l’ingrediente irrinunciabile sia questo.

Negli Stati Uniti la trap ha innegabilmente questo lato di ostentazione che però ha una spiegazione sfuggente per i giovani emergenti: i gioielli, i soldi e la popolarità sfoggiati non sono solo un vanto effimero, ma soprattutto il simbolo della rivalsa e del riscatto da un passato criminale che è costato loro molto e da cui ora si sono allontanati grazie alla musica. Un passato che però è molto distante dalla realtà quotidiana vissuta da molti di questi emergenti italiani. Sempre Massimo Pericolo, in una traccia di quest’anno, riesce a sintetizzare questa contraddizione tutta nostrana: “Sei David Guetta, zio, non fare il gangsta, sto coi criminali e neanche uno rappa”.

se non fanno vedere qualcosa di particolare non vengono calcolati minimamente. Questo è il link per il pezzo spero che possa venir apprezzato da qualcuno!”. Nel video, che siamo chiaramente subito corsi a vedere, il ragazzo giocherellava con un AK-47 finto puntandolo verso la camera, scelta ormai non più particolarmente provocatoria o rivoluzionaria, come gli hanno fatto notare molti dei partecipanti al gruppo. Nel testo di un’altra delle sue composizioni si vantava delle sue incontestabili abilità al microfono e del fatto che “ai miei concerti è tutto esaurito”. Senza voler prendere in giro inutilmente chi cerca di esprimere la propria arte e far valere la propria musica, capita però spesso di imbattersi in artisti che, contando numeri di iscrizioni al canale Youtube, visualizzazioni e follower decisamente bassi, vantano poi un fantomatico successo che chiaramente ancora non hanno raggiunto. Però, per qualche ragione, sentono di dover fingere di essere già arrivati perchè hanno inteso che lo stupido gioco della trap, parafrasando Salmo, non ammette gavetta. La condizione del trapper emergente nel 2019 sembra quindi una non-condizione, un paradosso, un’antinomia inevitabile ed evidente di cui i ragazzi, alla fine, sono vittime. Scegliere di intraprendere una carriera nell’ambiente significa dover affrontare un genere in cui la concorrenza, vista da fuori, sembra una gara a chi fa vedere di più che è un figo, quando c’è davvero poco di “glamour” nei primi anni di produzione artistica. Ma mentre gli aspiranti cantanti indie e itpop nei loro testi possono sempre appellarsi a grandi storie d’amore,

“La condizione del trapper emergente nel 2019 sembra quindi una non-condizione, un paradosso, un’antinomia inevitabile ed evidente di cui i ragazzi, alla fine, sono vittime.”

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Per avere una prospettiva dall’interno a questa tendenza ci siamo così avventurati nel gruppo Facebook in cui gli emergenti italiani pubblicano i loro pezzi chiedendo opinioni ai loro pari. Un ragazzo di un paesino della Basilicata in particolare ha attirato la nostra attenzione, perché nel condividere il suo video ha allegato questo commento: “Il pezzo si chiama L******, è una traccia molto forte e potrebbe sembrare provocatoria per com’è stato fatto il video. Il video è stato strutturato così per cercare di ricevere più visibilità possibile vista la situazione dei neoemergenti che

Scomodo

Ottobre 2019


alla propria città o al caro prezzi sulle Gocciole alla Conad, i trapper emergenti si sentono costretti, non si capisce bene per quale motivo, a produrre “variazioni sul tema” degli immaginari dei loro idoli che ce l’hanno fatta. Tutto ciò ovviamente contribuisce a saturare ulteriormente un genere che già a detta di molti sembra essere arrivato a un capolinea. Non è un caso che molti degli ultimi arrivati capaci di ottenere un riscontro, dalla FSK a Madame, siano riusciti a rimanere impressi negli ascoltatori grazie alla loro diversità dal panorama comune, anche se persino questo elemento di novità non è sempre una garanzia di successo, come dimostra la cometa Young Signorino, caduta presto nel dimenticatoio. La questione degli emergenti quindi è così affascinante anche perché le loro scelte potranno suggerire la direzione che prenderà il rap italiano nei prossimi anni. Il bivio è tra chi deciderà di attaccarsi al carro decadente della trap per partecipare ai suoi ultimi fasti e chi invece tenterà la strada dell’innovazione, per provare a incidere il proprio nome nella storia del genere.

di Alessandro Luna e Jacopo Andrea Panno Scomodo

Ottobre 2019

Il fenomeno del k-pop

-------------------------------------------------------------------La Corea del Sud alla conquista dell’industria musicale

Probabilmente hai visto sui social dei giovani cantanti asiatici con capelli colorati che hanno milioni di fan e che cantano canzoni con una lingua incomprensibile per te. Stiamo parlando del K-Pop, ma che cos’è realmente e come ha fatto il pop coreano a conquistare così tante persone diventando un fenomeno mondiale?

Cos’è il K-Pop e dove nasce Il termine K-Pop sta per Korean Pop ed è un genere musicale rinfrescante, innovativo e all’avanguardia proveniente dalla Corea del Sud. Questo genere musicale comprende una fusione di stili musicali provenienti da tutto il mondo come il pop occidentale, rock, hip hop, R&B, soul, 65


reggae, jazz, gospel, electronic dance (EDM), techno, disco, folk, ballad, country e classical. Le radici del K-Pop iniziano negli anni novanta con l’Hallyu detto anche Korean Wave. Il primo gruppo K-Pop, Seo Taiji and Boys, nasce nel 1992. Successivamente, negli anni successivi, questo genere è diventato famoso tra gli adolescenti prima in Cina e poi anche in Giappone. L’evento che scatenò la mania del K-pop fu il concerto a Pechino della boyband H.O.T., il primo gruppo K-Pop ad avere raggiunto fama internazionale arrivando a vendere fino a 12 milioni di dischi solo in Corea del Sud. Il boom del pop sudcoreano risale al 2003: i cantanti injziano a essere dei veri e propri idols, ossia delle icone venerate in tutto il paese. Tutto questo avviene grazie alla radio, alla televisione, a internet e al cinema; non c’era posto che non vedesse presenti gli artisti del K-Pop. In poco tempo grazie all’avvento dei social network il pop sudcoreano raggiunge un ampio pubblico in Nord America, in America Latina, in Europa, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, iniziando a diffondersi anche nel mondo occidentale. Le Wonder Girls sono il primo gruppo K-Pop ad entrare nella top 10 dei singoli più venduti di Billboard nel 2009. Il K-pop diventa conosciuto in tutto il mondo nel 2012 con il singolo Gangnam Style di Psy, il cui video musicale di divenne il primo in assoluto a raggiungere 1 miliardo di visualizzazioni su Youtube, in soli cinque mesi dalla data di uscita. Nel 2018 il K-Pop diventa così uno dei generi più popolari nel mondo, soprattutto in America, grazie ai BTS e alle BLACKPINK, due gruppi che hanno portato il genere al suo massimo splendore. Il K-Pop è un genere che non comprende solo la musica ma anche elementi visivi come coreografie definite, che includono passi di danza sincronizzati, cambi di formazione e movimenti attraenti e ripetitivi.

Non possono mancare gli abiti colorati e alla moda. Sono presenti molti cantanti sudcoreani solisti ma nel K-Pop, di solito, gli artisti fanno parte di un gruppo musicale dove insieme possono esprimere il meglio di loro, dando vita a una performance piena di talento per i loro fan. Un esempio sono gli AKB48, che con 48 artisti in totale è il gruppo K-Pop con più artisti in assoluto. Il mercato musicale coreano è molto diverso da quello occidentale. Per convenzione le case discografiche offrono contratti vincolanti a potenziali artisti che spesso sono molto giovani. Gli apprendisti idol, prima di debuttare, seguono un rigoroso sistema di formazione dalla durata indefinita.

I nuovi gruppi di idol debuttano spesso con uno di questi, visto che essendo noto al mercato, assicura facilmente un esordio di successo. Si pubblicano poi i video su YouTube per raggiungere il mercato mondiale ma, prima del video musicale vero e proprio, i gruppi e i cantanti idol, per pubblicizzare un nuovo progetto, diffondono foto, trailer e teaser. Per far uscire più progetti un gruppo K-Pop può formare sottogruppi con soltanto alcuni membri del gruppo principale. Boy bands come i BTS e gli Stray Kids scrivono e producono le loro canzoni, lasciando un’impronta più DIY nei loro album. Ogni gruppo poi cerca di veicolare uno stile e una personalità unici per coinvolgere il loro pubblico. Nel K-pop attuale, le canzoni contengono anche frasi in inglese, questo permette agli artisti di raggiungere un pubblico globale più ampio coinvolgendo sia L’Asia e l’Occidente. Non ci sono solo canzoni in lingua coreana ma anche in lingua cinese e giapponese. Infatti gli idols non sono tutti coreani ma ci sono anche thailandesi, cinesi e giapponesi, che per raggiungere loro sogno di cantanti si affacciano all’industria pop coreana. Per loro però, è più difficile debuttare in quanto devono imparare alla perfezione la complicata lingua coreana. I BTS e Psy hanno dimostrato che le barriere linguistiche non esistono nella musica. Una canzone per diventare una Hit mondiale non deve essere necessariamente in inglese. Il punto di forza del K-Pop è l’orecchiabilità e infatti capita spesso che una canzone coreana di cui non si capisce il significato rimanga appiccicata in testa. Qui c’entra anche la scienza: diverse ricerche del 20102012 dicono che i brani più famosi sono quelli con una melodia orecchiabile e ritornelli con cambi di ritmi o melodie inaspettati all’interno della stessa canzone.

“La salute mentale è un problema che spesso manca in quest’industria musicale.”

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Essi vivono insieme in un appartamento gestito dalla casa discografica dove trascorrono molte ore al giorno a studiare musica, danza, lingue straniere e altre materie in preparazione al loro debutto. La formazione di un K-Pop idol non è affatto economica. Le agenzie arrivano a spendere, in media, tre milioni di dollari a persona. Le agenzie sono solite presentare un nuovo gruppo di idol al pubblico tramite uno “showcase di debutto“ ovvero un concerto dal vivo, che consiste in un’operazione commerciale di marketing svolta attraverso Internet e la televisione. Ai gruppi viene assegnato un nome e un “concept”, ovvero il tipo di tema musicale che verrà utilizzato durante il debutto e le performance. I concept possono cambiare durante la carriera del gruppo. Ne esistono di vario tipo:i più famosi sono: carino, sexy, retro, futuristico, bad boy/girl, liceo e soprannaturale.

Scomodo

Ottobre 2019


Il K-Pop si basa molto sui video musicali che sono cinematograficamente impeccabili, infatti sono realizzati nel minimo dettaglio e sono fatti con molta precisione per dare il massimo coinvolgimento. I gruppi più famosi Il boygroup più famoso del K-Pop e del mondo in questo periodo sono BTS (Bangtan Sonyeondan) formati da sette membri: tre rappers chiamati RM, SUGA, j-hope e quattro vocalist di nome Jin, Jimin, V e JungKook. Hanno debuttato il 13 giugno 2013 con la casa discografica BigHit Entertainment e fino ad oggi hanno vinto molti premi sia in Corea che in America come: Artisti dell’anno, Album dell’anno e Miglior Gruppo. Sono stati i primi artisti coreani ad avere tre album consecutivi alla prima posizione nella Billboard 200 in meno di un anno raggiungendo lo stesso record ottenuto dai Beatles prima con: Love Yourself ‘Tear’, Love Yourself ‘Answer’ e Map of the soul: Persona. Il loro video musicale Boy with Luv uscito il 12 aprile 2019 è il video YouTube con più visualizzazioni ottenute nelle prime 24 ore (74,6 milioni). Sono stati anche il primo gruppo dopo i Beatles a fare sold out nello stadio Wembley a Londra nonché in generale i primi artisti coreani a esibirsi in quello stadio e nel 2017 hanno anche lanciato la campagna Love Yourself in collaborazione con L’Unicef per stimolare l’autoaccettazione tra gli adolescenti. Altri gruppi K-Pop famosi sono BLACKPINK, EXO, TWICE, BIGBANG, 2NE1. L’impatto dei BTS e degli altri famosi gruppi K-Pop è stato enorme, non solo in Corea del Sud: la cultura coreana si è diffusa in tutto il mondo, portando ogni anno miliardi di dollari all’economia e aumentando il turismo nella penisola sudcoreana. Scomodo

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Il boom mediatico del K-Pop Il K-Pop è famoso anche grazie ai numerosi talenti degli artisti coreani. Sono molto dotati sia nel canto che nel ballo e la maggior parte di loro sa suonare diversistrumenti musicali. Uno dei motivi più importanti che hanno reso i gruppi famosi è il legame con i loro fan: sono spesso molto attivi nei social condividendo foto, selfie e tweets. Esiste una app K-Pop chiamata V LIVE, in cui i gruppi possono fare dirette live e parlare con i loro fan.

I BTS, ad esempio, hanno creato un loro social network personale chiamato Weverse, e questo attira molti fan e fa conoscere meglio i membri del gruppo. I giovani fan seguono il K-Pop perché i testi delle canzoni parlano di temi molto vicini a loro come amore e i problemi adolescenziali, ma il genere non è seguito solo dai ragazzi, ma anche da molti adulti. Inoltre un motivo non trascurabile della sua popolarità è che gli idols sono esteticamente molto belli. Le criticità dell’industria musicale coreana Il K-Pop però, ha anche i suoi lati negativi. Molti idols, per esempio, per attenersi ai canoni di bellezza coreani - ragazze e ragazzi magri e

carini con occhi grandi, una linea che formi una V tra le orecchie e il mento, nasi piccoli, e pelle a porcellana - hanno bisogno di ricorrere alla chirurgia plastica. Ci sono anche stati fenomeni di corruzione in cui case discografiche pagavano dipendenti di radio e canali via cavo in cambio di air play (passaggi radiofonici o televisivi) o falsi posizionamenti nelle classifiche. Il sistema di “addestramento” di alcune case discografiche per formare degli idols può essere poi molto intensivo, non lasciando al’apprendista tempo per riposarsi, il che può risultare pericoloso per la sua salute. I rumors e i gossip rilasciati dalle fandom sono capaci a volte di rovinare la carriera di un’artista. La salute mentale è un problema che è spesso presente in questa industria musicale. Molti K-Pop idols soffrono di ansia e depressione sfociate persino in casi di suicidio. Ricordiamo Charles Park morto nel 1996, Kim Jong-Hyun, che si è tolto la vita nel dicembre 2017 e Sulli, morta proprio questo ottobre. Il K-Pop è diventato un genere musicale che ha ispirato molti giovani ed è in grado di unire enormi fandom di adolescenti e adulti. Ormai diventare un idol è quasi il sogno di ogni adolescente sudcoreano, ma il processo è molto duro e non è per tutti, perché richiede impegno, passione e dedizione.

di William Temgoua 67


Recensioni ------------------------------

9 Agosto 1969. L’attrice Sharon Tate – incinta di otto mesi del regista Roman Polanski – e altre quattro persone incontrano la morte su mandato di Charles Manson. Mezzo secolo dopo, l’Eccidio di Cielo Drive viene scelto da Quentin Tarantino come cornice per il suo ultimo film, Once Upon a Time in… Hollywood. Un affresco della Los Angeles di fine Anni ‘60 candidato per la Palma d’Oro a Cannes e con protagonisti Leonardo DiCaprio, Brad Pitt e Margot Robbie. Un film che però, come nelle sale, ha finito anche qui per spaccare in due la critica.

Cinema Once upon a time in Hollywood Quentin Tarantino

“Questa attività è stracolma di stronzi poco realisti che da giovani pensavano che il loro culo sarebbe invecchiato come il vino. Se vuoi dire che diventa aceto, è così. Se vuoi dire che migliora con l’età, non è così”. Una regola d’oro che l’immortale Pulp Fiction serve sul piatto d’argento di coloro che vorrebbero applicarla all’ultima pellicola di Quentin Tarantino. Un film visivamente notevole e validamente interpretato nel quale però l’impeccabilità formale finisce per mettere in risalto una certa povertà di contenuti. A un primo sguardo, Tarantino sembra riposare sugli allori, riproponendo numerosi espedienti narrativi – per non dire interi pezzi di sceneggiatura – già visti nei suoi precedenti film. Affondando le mani nel barile dell’autocitazione, qui gonfiato dal valore biografico di alcune scene, il regista si spinge troppo oltre verso un fondo nel quale, da raschiare, non resta che l’autoplagio. Ma coglie nondimeno l’occasione fornita dal ritorno dell’automobile come soggetto di scena prediletto, per escogitare alcune inedite, brillanti inquadrature, inflazionate tuttavia da un utilizzo eccessivo – come accadrebbe con un nuovo brano riprodotto più e più volte sino alla noia. Una metafora non casuale per chi ha sempre reso la musica grande protagonista dei suoi film, ma che qui non riesce ad applicare una cernita ai troppi, grandi brani che hanno costellato uno dei suoi trienni preferiti (’67-’69). Il risultato è una colonna sonora costipata, che perde anche molto in sede di montaggio sonoro perché resa comprimaria rispetto agli altri rumori ambientali. Tanti tappabuchi per diluire un progetto nato forse prematuro, che implora a gran voce di essere sfoltito delle sue tre ore di bobina, e la cui fatica a decollare alimenta per converso il picco improvviso raggiunto dal finale, tanto esplosivo quanto ridimensionabile. Ma nonostante i tanti passi falsi, ingigantiti da un’aspettativa che non lascia a Tarantino il beneficio del dubbio, Once Upon a Time in… Hollywood si rivela un film ricco di spunti, un chiaroscuro di luci e ombre che una singola visione non consentirà di mettere a fuoco a dovere. E questo perché il regista torna a parlare di quei settori di nicchia dell’audiovisivo dei quali il suo percorso da cineasta incallito è sempre stato imbevuto, qui affrontando il campo delle serie tv piuttosto che di generi quali “Exploitation” e “Blaxploitation”, omaggiati rispettivamente in Death Proof e Jackie Brown – uniche due pellicole che non a caso furono accolte tiepidamente e rivalutate col tempo. E per farlo, sceglie un linguaggio metacinematografico che gli consente di firmare l’ultimo tassello di una Trilogia Western che ha sempre voluto concludere. Le colline della Los Angeles ’69 si trasformano in un limbo di frontiera per stuntmen e hippie, per cowboy e indiani, dando vita a un’atmosfera di realismo magico che si ritrova anche negli ultimi fotogrammi, in quel mondo sospeso e fiabesco cui Rick Dalton può accedere varcando i cancelli del possibile. di Carlo Giuliano

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Recensioni

-----------------------------Il nono, e a detta dello stesso regista, penultimo film di Quentin Tarantino è distante dai suoi precedenti ultimi due film, paradossalmente definibili lineari, rispetto a quest’ultimo Once upon a time in Hollywood, un’opera frammentata, poco legata a una vera e propria trama come poteva essere il viaggio di Django alla ricerca dell’amata Broomhilde o il giallo alla Agatha Cristhie di Hateful Eigh. Questo nono film potrebbe essere quasi più facilmente accostabile, come spirito e forza animante, a uno dei meno ricordati del regista e suo unico vero flop, Grindhouse-Death Proof, un film incentrato principalmente sulla rievocazione di un certo cinema e, quindi, di una determinata epoca storica. In questo caso siamo nel 1969, in un periodo in cui Hollywood sta cambiando, l’ondata autoriale dall’Europa sta incalzando e il vecchio star-system è in declino. I due protagonisti, Rick Dalton (Di Caprio) e Cliff Booth (Pitt) sono due della “old school” che si muovono in un tempo che sembra non appartenergli più. Dalton disprezza gli hippie e non vuole andare a girare gli Spaghetti western in Italia (come gli suggerisce l’agente interpretato da Al Pacino) e Cliff Booth non si fa fare i pompini dalle minorenni. Vicini di casa di Dalton, a Cielo Drive, c’è la New Wave, il regista polacco Roman Polansky e la moglie, l’attrice non ancora affermata, Sharon Tate, i quali incarnano perfettamente i nuovi principi del cinema statunitense. Saranno però proprio i due vecchi cowboys a salvare la vita a quest’ultima, riparando alla storia, in un finale al limite del catartico. Questa volta Tarantino si prende tutto il tempo (filmico) del mondo e si concede il lusso di costellare questo film di tutto ciò che ama e lo ha ispirato, dal cinema di genere europeo alla vecchia golden Hollywood. E per farlo torna a casa, a Hollywood, dopo le trasferte nel profondo sud dell’Alabama e le montagne del Wyoming. È un film veramente di cuore, un film in cui la lentezza permette di riassaporare il gusto del bel cinema, del dettaglio, senza badare fin troppo alla trama, con una rievocazione storica impeccabile. La piacevolezza del film risiede non solo nella grande cura di ogni piccolo aspetto del contesto storico ma anche e soprattutto nella costruzione dei tre protagonisti. La coppia Di Caprio-Pitt e la loro amicizia virile, sempre tratteggiata sul filo di un’ironia fortemente tarantiniana e la dolce Sharon Tate, interpretata dalla Robbie, che va a vedere il suo film al cinema senza essere riconosciuta alla biglietteria, in una sequenza memorabile, il cui valore da solo vale il prezzo del biglietto. Seppur fosse abbastanza facile con un cast del genere, Tarantino riesce sempre a fare un lavoro incredibile sugli attori portandoli in stato di grazia, Brad Pitt su tutti. Once upon a time in Hollywood è una favola come dice il critico Alò, ‘di principi e di straccioni’, in cui gli straccioni, alla fine, salvano la vita ai principi.

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di Cosimo Maj Scomodo

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STEREO8 Negli anni ‘70 lo Stereo8 era un formato di registrazione su nastro, utilizzato soprattutto nelle autoradio. Oggi vuole essere una selezione musicale di otto brani che riteniamo meritevoli di un ascolto. Sette nuove uscite e una bonus track dal passato, una cassetta per ottobre da mettere in play anche su Spotify.

Angel Olsen New Love Cassette Da All Mirrors Frequenze: Art pop

La voce di Angel Olsen arriva all’ascoltatore filtrata da echi, sussurri e riverberi, ma riesce a spiccare anche se sommersa da un mare di strumenti. New Love Cassette suona come un gioco di luci e ombre in una stanza degli specchi ed è un piccolo saggio di come si fa una canzone d’amore al femminile nel 2019.

Big Thief – Shoulders Da Two Hands Frequenze: Folk rock

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L’incontro tra il rapper più triste d’Italia e uno dei produttori d’oro della nostra new wave è tanto anomalo quanto potente. L’opener dell’album è un viaggio sperimentale e elegante in cui Luke si destreggia tra synth ed effetti e Mecna trova ancora nuove chiavi per raccontare il suo tipico mood dolceamaro.

“Please wake up” canta suadente nell’intro Adrianne Lenker, creando subito una complicità intima con il suo interlocutore. Chi ascolta viene così trasportato in una ballad folk classica ma anche contemporanea, un pezzo sanguigno in cui il timbro della frontwoman si amalgama con grande armonia al sound denso della band.

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Nick Cave & The Bad Seeds Wild Horses Da Ghosteen Frequenze: Alternative rock

Nick Cave ha definito il suo nuovo album “uno spirito migratore” e Bright Horses, un brano tanto semplice quanto senza tempo, abbraccia in pieno questo concept. I falsetti del cantautore australiano, i cori, le melodie di piano e l’accompagnamento orchestrale creano un’atmosfera di totale estasi emotiva, un ritorno ad una frontiera che sembrava perduta.

Dente Adieu Da Adieu Frequenze: Pop d’autore

Nell’ultimo periodo Danny Brown ha messo da parte la sua figura da weirdo per abbracciare una nuova identità più matura, anche se sempre molto eccentrica. In Change Up l’artista di Detroit galleggia sulla base acquosa di Paul White firmando uno statement come ambasciatore della vecchia guardia del rap americano oggi.

DJ Shadow – Midnight In A Perfect World Da Endtroducing….. (1996) Frequenze: Trip hop

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“Se non giochi non vinci mai” e Dente decide appunto di mettersi di nuovo in gioco con un singolo più accessibile e immediato del solito, ma non per questo meno profondo. La sua verve cantautoriale viene declinata in una maniera più dimessa, quasi da bedroom pop, che però riesce comunque a colpire e a colmare la distanza con il pubblico.

Dan ny Da u Chang Brown Freq knoww e Up uenz h e: Ra atimsay p old in¿ scho ol

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Endtroducing….. di DJ Shadow è un cult classic degli anni ‘90, un album prodotto quasi solo mixando sample e campionamenti. La sua canzone più famosa è una slow jam che attinge al soul, all’hip-hop e al progressive rock portando in un’altra dimensione, un brano da ascoltare di notte, tornando a casa dopo aver fatto serata.

La mina vagante della scena romana è tornata e ha finalmente smesso di cazzeggiare. Prodotto dal maestro Niccolò Contessa, che confeziona un tappeto electro-jazz un po’ a là Depeche Mode, Tutti Fenomeni riesce a mettere insieme i pezzi della sua scrittura ermetico-ironica realizzando una hit di formazione che è un must listen.

ylist Se vuoi ascoltare questa pla tify Spo su cerca Stereo8

di Jacopo Andrea Panno

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Teatro, danza, musica, digital, categorie da cui da profani possiamo essere intimoriti, ancor di più se accompagnate dall’aggettivo contemporaneo. Al tempo stesso però sono anche alcuni dei campi di battaglia più interessanti in cui si sta svolgendo la definizione della nostra epoca.

Quest’anno Romaeuropa Festival permette agli under25 di scoprire il vasto panorama delle arti performative a dei prezzi accessibili e le ragazze e i ragazzi di Scomodo vi aiuteranno a orientarvi tra le proposte di ottobre.

Jusús Rubio Gamo

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Ascanio Celestini

Gran Bolero

Gran finale

Barzellette

Teatro Vascello

Auditorium

Teatro Vittoria

Auditorium Parco della Musica

Clara 22, ballerina Un capolavoro è un’opera d’arte che non perde mai la sua essenza, ed è in grado di raggiungere chiunque ci entri in contatto. Gran Boléro di Ravel appartiene sicuramente a questa categoria,e il coreografo spagnolo Jesùs Rubio Gamo lo dimostra rendendo la composizione protagonista del suo spettacolo: passando da movimenti leggiadri a forti e violenti, i ballerini di Gamo si fanno specchio del viaggio che è la vita tra allontanamenti, dispute, e calorosi abbracci.

Guido 17, liceo scientifico Dalla sperimentazione musicale in chiave elettronica di Christian Fennesz alla fusione tra tradizione e musica pop di Fatoumata Diawara, la cantante e attrice originaria del Mali. Fino alla performance di Alva Noto e Ryuchi Sakamoto che con piano e musica elettronica coinvolgono lo spettatore in un’indimenticabile esperienza percettiva. Dal Mali alla Burkina Faso, dal Giappone all’Austria, passando per Francia Germania e Spagna. Con il passepartout per il gran finale ti godi più di 5 ore di musica.

Damiano 20, DAMS Racchiuse in una struttura narrativa sempre aperta all’improvvisazione, le barzellette di Ascanio Celestini attraversano mondi e culture, raccontano di popoli e di mestieri, descrivono luoghi e atmosfere. E ci ricordano che si può ridere di tutto, soprattutto di noi stessi.

Viola 20, cameriera Tratto da un saggio del filosofo francese Didier Eribon, che ha curato la drammaturgia insieme al regista, lo spettacolo è andato in scena in diversi paesi europei ed è stato riscritto e adattato di volta in volta insieme alle compagnie e ai teatri coinvolti. La storia di un parigino e della sua difficile riconciliazione con il passato invita ad una riflessione sul concetto di identità e sulla trasformazione della politica e della società nell’Europa occidentale.

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Thomas Ostermeier

Ritorno a Reims

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Intervista al naso di Antonio Pronostico Sniff, una grande storia d'amore

Sniff è la graphic novel d’esordio dell’illustratore Antonio Pronostico. Edito da Coconino Press Fandago, una delle case editrici per eccellenza in Italia, è stato scritto da Fulvio Risuleo, fumettista e regista romano, e disegnato dalle matite porose di Antonio, che cerca la composizione perfetta donando un segno caldo e familiare che ci fa entrare subito nella storia e affezionare ai personaggi. Sniff è un romanzo a fumetti che racconta gli strascichi di una storia d’amore di una coppia che si è tanto amata, tra le montagne innevate, ricorda una Bridget Jones in settimana bianca, ma a Trento, e molto all’italiana. Abbiamo scambiato due chiacchiere naso a naso con Antonio, che racconta di questo suo naso prepotente che lo ha sempre un po’ tormentato. Ogni tanto ci si dimentica di avere un naso, di respirare...per lui non è così, lui lo sente vivo. Non c’è che da augurarsi allora che, se è vero che il naso cresce di 3mm ogni anno, il grande naso di Antonio cresca in maniera direttamente proporzionale al suo successo. 74

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Nasce dalla voglia di raccontare una storia in cui tutti possano immedesimarsi, sia come protagonisti che come antagonisti.

Come è nata questa storia d’amore?

Un pò come quando ascoltando una canzone d’amore ti rivedi nel testo, in una storia d’amore, appunto.

Lo stile del segno si è evoluto lungo tutta la storia.

Sniff è stato decisivo per la ricerca del segno, come è mutato dalla prima tavola? Proprio come una storia d’amore.

È STATO MERAVIGLIOSO!

I nasi camminano sempre in coppia, come è stato questo percorso con Fulvio Risuleo? Penso che “Sniff” sia fisicamente il nostro attestato d’amicizia.

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Fulvio è la mia perfetta parte mancante per essere un fumettista.

Ci sarà un ritorno di fiamma? Ci sarà un ritorno nel momento in cui avremmo voglia di raccontarvi un’altra storia.

Siamo stati una sola volta a casa di Loretta.

Avete scritto una storia, disegnato un fumetto, trovato un editore, e ora state anche entrando nelle case delle persone, raccontaci di più...

È stato bello!

Noi vorremmo parlare di “Sniff” a casa delle persone e dei fumetti che hanno il libereria. Noi portiamo il vino e loro portano un pò di amici. Sarà intimo. Sarà bello.

Quella di Piero Ciampi

Che canzone d’amore è Sniff?

Quella che fa...

“È successo un fatto strano, io ti amavo e non ti amo.”

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LO STATO UCCIDA LA PIRATERIA/ IMPRESE OCCIDENTALI E TOTALITARISMO CINESE, CHI RESISTE E CHI NO / L'AZIONARIATO CRITICO

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LO STATO UCCIDA LA PIRATERIA RIFLESSIONI SULLA SEMPRE MAGGIOR ATTUALITÀ DELLA LOTTA ALLA PIRATERIA E LE SUE FUTURE IMPLICAZIONI “Grazie al tuo contributo alla pirateria televisiva, abbiamo fatto tanto: investito nel racket della prostituzione, traffico di droga e criminalità organizzata. Insieme, saremo ancora più forti...”. Questa è la provocazione di Sky, che lancia la sua campagna pubblicitaria contro una delle tentazioni dei giorni nostri: vedere un programma, pagando un prezzo decisamente più basso di quello legale. Ovviamente lo spot non è finito, manca la parte che ammonisce. “La pirateria televisiva, in Italia è reato. Sostenendola compi un’azione illegale, rischi una multa fino a 28.000 euro e fino a tre anni di carcere. Se non vuoi esporti a tutto ciò, sostieni la tv legale.” Da circa due mesi a questa parte l’ex emittente televisiva di Murdoch informa in maniera continua il pubblico su questa problematica, senza dimenticare che da luglio scorso anche altri enti a partire dalla Lega Calcio hanno ripetuto in maniera quasi ossessiva ciascuno il suo spot contro la pirateria. Questa improvvisa offensiva mediatica fa capire che la posta in gioco è piuttosto importante, e i fatti recenti dimostrano ciò che già era nell’aria. A metà settembre è andata in porto una delle più vaste retate anti-pirateria che si siano mai viste, l’operazione “Black IPTV” , che ha coinvolto oltre 100 militari del gruppo speciale frodi tecnologiche. Una cattiva notizia per ben 5 milioni di italiani che avrebbero usufruito dei canali di Netflix, Sky, Infinity, DAZN e Mediaset Premium alla modica cifra di 12 euro al mese, irrisoria rispetto ai prezzi degli abbonamenti legali. Come? Attraverso una fitta rete commerciale diffusa su tutto il territorio nazionale e con basi prevalentemente in Lombardia, Veneto, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. La pirateria televisiva è un tema di grande d’attualità, essendo un fenomeno che riguarda un po’ tutti, perché offre a prezzi stracciati servizi su ciò che occupa in ampia parte il nostro tempo libero; del resto, chi non è appassionato né di film, serie tv o non ha una squadra del cuore? Andando nel pratico, fingiamoci pirati e vediamo come infrangere la legge attivando un sistema illegale. Sul banco degli accusati ci sono la piattaforma IPTV e il software Xtream Codes, tra i più diffusi al mondo pensati per gestire una IPTV, una sorta di pannello di controllo. Questa IPTV è un sistema che consente la trasmissione dei canali tv su reti informatiche o direttamente su internet, a norma di determinati protocolli.

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Il problema arriva quando il pirata di turno riesce a inserirsi nei meccanismi di funzionamento delle pay tv, e i codici criptati dei contenuti live trasmessi tramite IPTV vengono violati e dirottati sulle televisioni di chi paga lo streaming illegale. Così è successo che la società bulgara Xtream Codes inglobava contenuti di IPTV, rendendola al limite tra la legalità e l’illegalità. Infatti, il dibattito che si è scatenato negli ultimi giorni è se sia giusto sequestrare un software che potrebbe essere usato anche per scopi leciti, e il punto su cui si sta indagando è quale era il livello di supporto fornito da Xtream Codes: si limitavano ad affittare il software o aiutavano attivamente nella installazione della rete illegale, diventando quindi complici delle associazioni che poi gestivano queste reti? Ed è qui che entra in scena il famigerato pezzotto, l’ingrediente magico per la buona riuscita del vostro abbonamento light, all’apparenza un semplice decoder (anche a giudicare dalla rozzezza del nome) ma che in realtà è molto di più: è infatti dotato di un codice che a sua volta contiene una stringa e un file con migliaia di link e canali visibili sui vostri schermi. Et voilà, il gioco è fatto. Un altro aspetto che colpisce molto, inoltre, è la complessità di un sistema che dall’esterno può sembrare casuale, ma in realtà è ben definito e i cui uomini si muovono all’interno di una struttura gerarchica. “Innanzitutto è importante sottolineare - esordisce Federico Bagnoli Rossi, segretario generale FAPAV (Federazione per la Tutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali) - che tra questi soggetti c’è molta comunicazione. Si conoscono e si consigliano a vicenda. Nel mondo della pirateria esistono sia piccoli nuclei che grandi gruppi, che vanno dai singoli rivenditori fino ai “proprietari” delle centrali che dirottano i flussi televisivi. Nel caso delle IPTV illegali esiste un vero e proprio disegno piramidale perché ballano davvero tanti soldi”. Nell’immaginario collettivo il pirata del web ha le sembianze di un nerd qualunque, non un criminale. Stavolta invece i protagonisti sono ben diversi. “Non so dire se i personaggi in questione appartengano a qualche organizzazione continua Bagnoli Rossi- ma di fatto si muovono con mentalità criminale. Alcuni sostengono che lo facciano con l’intento di aiutare chi non può permettersi l’abbonamento, in realtà non sono dei Robin Hood del web: “Non pensano di certo al bene dell’umanità, ma solo a fare soldi e buisness illegalmente. Mi piace chiamarla criminalità informatica.” Il volume d’affari viene stimato in centinaia di milioni di euro l’anno, e le menti che architettano il sistema della pirateria lo gestiscono dall’Olanda, Germania, Francia, Bulgaria e Grecia, dove recentemente la Guardia di Finanza ha arrestato un uomo con 110 mila euro in contanti con un giro da 60 milioni di euro. Come vedete il fenomeno è un polipo con i tentacoli in tutta Europa, ma ci sono paesi più colpiti di altri: “A livello di pirateria sportiva l’Italia è un terreno molto fertile. Le persone vanno matte per il calcio, la Formula 1 e la Moto GP più che altrove. Negli ultimi due anni però il tutto è cresciuto in maniera esponenziale per via della crisi. Un altro potenziale motivo però è che dall’anno scorso Sky ha perso 3 partite su 10 a settimana che vengono trasmesse da DAZN; nonostante ciò, il suo abbonamento è rimasto invariato mentre i clienti ne hanno dovuto sottoscrivere un altro per questa nuova piattaforma (senza contare la insoddisfacente qualità del suo servizio). E’ forse una piccola attenuante a discolpa di chi magari non può permettersi la doppia spesa, ma faremo gli avvocati dei pirati più in là. A tal proposito, la risposta di Bagnoli Rossi è piuttosto severa: “Diciamoci la verità, è la solita scusa propria del nostro atteggiamento perché essendo l’offerta illegale comunque di buona qualità fa piacere a tutti usufruire di un prodotto a prezzi stracciati.” Ma se il Belpaese è tra più battuti dalla pirateria, è perché l’offerta legale non è protetta abbastanza? No, è un piccolo paradosso.

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“Dal punto di vista della tutela siamo quelli che ne hanno di più, il problema sta nell’attuare con più severità le pene per i colpevoli in modo da dissuadere i possibili fruitori.” Analizzando la vicenda invece dal punto di vista dei numeri, l’inchiesta targata FAPAV- Ipsos del 2018 ci offre dati piuttosto significativi; la “carta d’identità” della pirateria contiene impatto, numero di soggetti e azioni, età, ed effetti sull’economia. In Italia l’incidenza complessiva della pirateria è del 38% , e il numero di persone che utilizzano IPTV illegali è aumentato di 1 milione rispetto al 2017, andando a raggiungere 578 milioni atti illegali. Altro dato interessante è conoscere l’età di queste persone, se sono pirati navigati o alle prime armi, e la risposta è che questo appare un fenomeno “meno giovane” che in passato. Se nel 2017 due pirati su tre avevano meno di 45 anni oggi sono poco più di uno su due, con un calo del 14% degli under 15 nell’ultimo anno. Forse le nuove generazioni, sapendo muoversi con più disinvoltura all’interno dell’universo digitale, sanno quando fare gli “gnorri” o al contrario fiutare un possibile rischio. Il danno più grave di questo fenomeno, però, è sulla nostra economia. Le previsioni della perdita di fatturato perso di tutti i settori italiani a causa della pirateria è di 1,08 miliardi di euro sono ; la stima in termini di PIL perduto è di 455 milioni è i mancati introiti fiscali ammonterebbero a 203 milioni. Un tesoretto che il Governo potrebbe utilizzare per finanziare politiche di crescita e di sviluppo del settore industriale. Secondo la profonda analisi di Bagnoli Rossi,“E’ un periodo storico in cui l’industria sta cambiando pelle lavorando alla produzione di contenuti originali e soprattutto locali. All’interno di questo processo la pirateria è un ostacolo molto serio perché ciò comporta perdita di posti di lavoro. Continuando così le aziende vedranno il nostro paese con sfiducia, e questo porterà a un esaurimento della produzione culturale italiana.” Logicamente si potrebbe pensare “ma chi me lo fa fare di investire qui, anche su talenti emergenti, quando poi ci ricaveremo molto meno a causa della pirateria?” A rimetterci sono i lavoratori delle piattaforme televisive legali: secondo quanto emerso nella conferenza stampa della Guardia di Finanza, sarebbero teoricamente 600.000 le persone a rischio licenziamento. Chi pensi che seppur illegale questa attività non scalfisca di certo i grandi colossi, dovrebbe ricordarsi dei soggetti più deboli in gioco. Infine, le ultime vittime della pirateria televisiva, sono proprio i suoi clienti stessi. “Una cosa che la gente dovrebbe sapere, è che i dati acquisiti dai database delle piattaforme illegali sono venduti ad altre organizzazioni a tutto danno degli utenti” , sentenzia il segretario generale FAPAV. Per concludere, la domanda da porsi è: qual è la prossima frontiera della lotta alla pirateria? “Abbiamo bisogno di aggiornare gli strumenti attuali perché la pirateria vive nel mondo della tecnologia che si evolve ogni giorno, noi dobbiamo andare di pari passo. Il prossimo step è intervenire sugli eventi dal vivo, perché le armi di oggi sono state pensate quando la pirateria dei contenuti live non era così diffusa” , conclude Bagnoli Rossi. E, se come abbiamo visto, i contenuti sportivi -ovviamente in diretta- stanno diventando tra i più gettonati, è ora di muoversi.

IL FUTURO DELLA LOTTA ALLA PIRATERIA L’operazione “Black IPTV” mostra come la questione della pirateria sia divenuta fondamentale nel corso degli ultimi anni, ma la sua importanza è solo che destinata ad aumentare nell’immediato futuro a causa della sempre maggior centralità del web all’interno della sfera sociale umana.

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Già al giorno d’oggi, Internet rappresenta un’incredibile hub di raccolta di materiale culturale di ogni genere, dalla musica fino a buona parte del patrimonio di fonti scritte dell’umanità, ma in futuro questo suo ruolo non andrà altro che incrementandosi, divenendo il cuore pulsante della diffusione dei prodotti dell’industria culturale. È il nostro stesso presente che ci offre un esempio delle conseguenze di questa situazioni: i proprietari e produttori dell’industria imporranno degli abbonamenti per poter accedere ai propri servizi, impostando i prezzi di sottoscrizione in base in base alle loro necessità e alle oscillazioni di mercato. Maggiore sarà il numero di servizi offerti, più l’uomo sarà costretto a compiere delle scelte, poiché incapace di sostenere economicamente i costi richiesti per accedervi. Proprio dinanzi a questa situazione di bivio, la scelta di ricorrere ad hacking e pirateria assumerà una connotazione completamente nuova, divenendo un fenomeno estremamente più complesso di quanto non sia adesso: esso non consisterebbe più in un atto criminale, ma diverrebbe l’unico modo per le classi sociali meno abbienti di non vedersi privati della possibilità di saziare la propria sete di prodotti culturali e d’intrattenimento. Si verrebbe così a creare una situazione nella quale la pirateria diverrebbe una vera e propria problematica morale per gli organi preposti a controllare e combattere il fenomeno, con le associazioni criminali che oggi gestiscono il sistema pronte ad approfittare di ogni loro minimo tentennamento per continuare a perseguire i propri fini di lucro. Dinanzi ad un simile scenario, l’unica possibilità per evitare che esso si concretizzi risiede in una concreta iniziativa statale atta non solo a combattere lo streaming illegale, ma anche rivolta verso le piattaforme di erogazione di servizi multimediali. Deve essere infatti lo Stato a farsi garante del diritto dei cittadini di poter usufruire dei prodotti culturali e d’intrattenimento messi a disposizione sul web, cercando di scendere a patti con le varie piattaforme nel tentativo di concordare dei prezzi che maggiormente rispecchino le possibilità economiche di tutta la popolazione, in cambio della certezza che il materiale da loro offerto non siano in alcun modo visionabile online al di fuori dei loro canali ufficiali. In questo senso, l’operazione “Black IPTV” offre un primo passo incoraggiante: la sinergia messa in campo fra forze dell’ordine, FIGC e le varie piattaforme non ha portato solo più grande ed efficiente operazione anti-pirateria nella storia del nostro paese, ma ha anche spinto SKY a proporre dei prezzi di sottoscrizione estremamente più bassi per il pacchetto Calcio e l’attivazione di un decoder di ultima generazione, in maniera tale da spingere la fetta di popolazione che prima faceva affidamento al pezzotto di rivolgersi finalmente ai loro canali in modo legale, sfruttando anche la grande paura per le conseguenze penali dovute all’utilizzo del sistema contraffatto. La scelta di SKY si è rivelata assolutamente vincente, visto che nelle 24 ore successive alla notizia del successo dell’operazione “Black IPTV” la ricerca d’informazioni tramite Google su come sottoscrivere un abbonamento a SKY sono cresciute del 100%, segno del fatto che buona parte degli utilizzatori di sistemi di streaming illegali hanno deciso di passare in modo definitivo ad abbonamenti presso piattaforme legali. Visti i risultati, possiamo affermare che il nostro paese si sia mosso verso la direzione giusta nella lotta contro il fenomeno della pirateria, ma deve proseguire su questa strada senza abbandonare la popolazione nelle mani delle piattaforme multimediali e la loro sete di guadagno. Solo in questo modo, il contrasto allo streaming illegale potrà portare benefici a tutti gli attori (noi compresi) coinvolti in questa vicenda. di Emanuele Caviglia e Luca Bagnariol

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INDUSTRIE OCCIDENTALI E IMPERIALISMO CINESE, CHI RESISTE E CHI NO LA CINA E LE SUE INGERENZE ECONOMICHE: I CASI NBA E BLIZZARD IL CASO NBA. TIRO LIBERO? La NBA, National Basketball Association, sta vivendo in questi giorni una situazione di grande tensione con i partner economici cinesi. L’incrinarsi dei rapporti tra Nba e Cina è iniziato con le parole di Daryl Morey, general manager della squadra Houston Rockets: “Fight for freedom, stand with Hong Kong” (“combatti per la libertà, stai dalla parte di Hong Kong”). Ma facciamo un passo indietro. Innanzitutto la Nba è la lega delle squadre di pallacanestro professionistiche americane ed è il campionato di basket più seguito al mondo, dove giocano i migliori cestisti. I giocatori della Nba sono di nazionalità diverse e il campionato è un esempio di multietnicità. La lega è da anni attenta e sensibile alle tematiche sociali americane, soprattutto quelle legate al razzismo e ai diritti umani. Inoltre la Nba dà ascolto alle voci di sportivi e affiliati che possono esprimersi liberamente su temi di attualità e problemi del loro Paese, arrivando persino a criticare il Presidente Trump, definito da Lebron James “a bum” (‘un fannullone”). L’attivismo degli sportivi è sostenuto dalla Lega come nel caso di “Black Lives Matter”, un movimento di protesta contro le uccisioni di afroamericani da parte delle forze dell’ordine, a cui hanno aderito i giocatori Dwayne Wade, Anthony Carmelo e lo stesso James. Nel 2014 il sovrintendente delle Lega, Adam Silver, ha bandito a vita dalla Nba Donald Sterling, proprietario dei Los Angeles Clippers, e lo ha multato di 2,5 milioni di dollari a causa di un’intercettazione telefonica contenente dichiarazioni razziste. Ancora Silver, nel 2017, ha rifiutato la città di Charlotte in North Carolina, come sede degli Nba All-Star Games, per una legge che impediva alle persone transessuali di usare i bagni pubblici secondo la loro identità sessuale. Il basket americano ha spettatori ovunque per la qualità dei suoi cestisti ed e’ nettamente superiore a qualsiasi altro campionato nazionale. È per questo motivo che ha deciso di espandersi in Cina, il paese più popolato al mondo dove il basket è lo sport più popolare, nonché il preferito del Presidente Xi Jinping. La scorsa stagione di Nba è stata seguita da 490 milioni di Cinesi (gli abitanti degli USA sono 327 milioni). Lo sport (o forse il denaro) ha fatto da ponte tra Cina e USA, nonostante la rivalità economica tra le due potenze e l’opposta visione del mondo. L’attore protagonista del business Cina-Nba è la Tencent: azienda cinese che ha un fatturato maggiore di Facebook.

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Il colosso mondiale della high-tech sta investendo moltissimo sulle imprese occidentali e comprando parte delle loro azioni; si trova ovviamente in un rapporto di subalternità al governo di Pechino, dal momento che l’economia cinese è fortemente centralizzata e controllata dal Partito Comunista. Nell’estate 2019 la Tencent ha firmato un contratto quinquennale con la Nba per i diritti TV del basket americano: si stima che l’investimento cinese sia di 1,5 miliardi di dollari. L’enorme bacino di spettatori ha attirato inoltre numerosi sponsor cinesi verso le squadre di Nba; tra i più importanti vi sono la Shangai Pudong Development Bank, l’azienda telefonica Vivo e la compagnia di fast-food Dicos. La squadra di Nba più tifata dai fan cinesi sono proprio gli Houston Rockets, che devono la loro popolarità oltre-oceanica al leggendario Yao Ming, centrale dei Rockets negli anni 2000. Il 4 ottobre, Daryl Morey, manager di Houston, ha pubblicato un tweet in supporto delle proteste di Hong-Kong. Le dichiarazioni di Morey sono state percepite in Cina come un oltraggio, un attacco alla sovranità nazionale e hanno messo a repentaglio affari miliardari. Da mesi infatti, nella città del Sud-Est asiatico, hanno luogo manifestazioni contro il governo di Pechino, accompagnate da richieste di più democrazia e maggiore indipendenza dalla Cina continentale. Il tweet è stato repentinamente eliminato e il presidente dei Rockets si è subito scusato pubblicamente: ”La posizione di Daryl Morey non rispecchia quella degli Houston Rockets. Noi non siamo un partito politico”. Lo stesso James Harden, giocatore di punta della squadra, ha tentato di riparare il danno dichiarando: ”Ci scusiamo, amiamo la Cina. Amiamo giocare là, ci andiamo due/tre volte all’anno. I tifosi dimostrano sempre un grande affetto ed è per questo che li apprezziamo”. Nonostante le rapide contromisure, gli sponsor cinesi degli Houston Rockets, nei giorni seguenti, hanno sospeso qualsiasi tipo di collaborazione con la squadra. La CCTV (tv nazionale cinese) ha annunciato che non avrebbe più trasmesso le partite dei Rockets. Dal canto suo, la Nba ha inizialmente temporeggiato, dichiarandosi dispiaciuta per l’inconveniente, ma non esprimendosi su eventuali provvedimenti a danno di Morey. La lega è stata evidentemente messa in una posizione estremamente delicata. Da una parte c’è la decisione di mantenere la coerenza verso i propri valori e le scelte del passato, garantendo la libertà di parola dei propri affiliati, e dunque non procedere contro il general manager. Dall’altra, quella di continuare a fare ricchissimi affari con la Cina e di garantirsi un futuro nel mercato più vasto e promettente al mondo. Sembra che gli americani della pallacanestro abbiano imboccato prudentemente la prim a via, anche perché punire Morey macchierebbe in modo indelebile l’immagine della Nba ed esporrebbe la lega alla gogna dei media occidentali. Martedì 8 ottobre, il sovrintendente Silver ha detto in conferenza stampa: ”Non ci scusiamo per Daryl, che ha soltanto esercitato la sua libertà di parola. Siamo sì dispiaciuti per le conseguenze del tweet, ma allo stesso tempo difendiamo il diritto di Daryl alla libertà di espressione. Sono personalmente dispiaciuto che la situazione sia causa di disagio tra i fan cinesi”. In risposta la CCTV ha interrotto la trasmissione delle partite di inaugurazione della nuova stagione di Nba, che si sta svolgendo proprio adesso in Cina. I dirigenti della tv cinese hanno dichiarato: “Qualsiasi affermazione che metta in discussione la sovranità nazionale e la stabilità sociale non rientra nell’ambito della libertà d’espressione”. In questo clima da Guerra Fredda, l’ultima mossa della Lega è stata quella di sospendere conferenze stampa e interviste post-partita della tournée cinese: una parola fuori posto potrebbe costare cara.

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IL CASO BLIZZARD La Tencent è anche al primo posto tra tutte le aziende videoludiche nel mondo. La gigantesca azienda cinese non solo ha un contratto miliardario con l’NBA, ma possiede anche il 5% del pacchetto azionario della Activision Blizzard, una casa produttrice e distributrice di videogiochi, anch’essa statunitense. La stretta collaborazione tra le due società ha diffuso dei sospetti sulla natura dei provvedimenti presi dalla direzione della Blizzard nei confronti di Chung Ng Wai, videogiocatore professionista originario di Hong Kong. Proprio il giorno dopo le discussioni scaturite dal tweet di Daryl Morey, al termine di una partita del torneo di “Hearthstone”, un videogioco di carte collezionabili, Chung conosciuto come “Blitzchung” è stato sospeso e penalizzato per essersi dichiarato a favore delle proteste in corso nella sua città, il tutto in diretta streaming e con indosso una maschera antigas come quella utilizzata dai manifestanti di Hong Kong. Come ha evidenziato la Blizzard, Blitzchung ha infranto consapevolmente una delle regole stabilite dall’azienda, secondo cui qualsiasi azione compiuta da un giocatore che vada a screditare, a ledere la sensibilità del pubblico o comunque a danneggiare l’immagine della società, è punibile con la sospensione e il ritiro del premio in denaro. Dopo molti diverbi e svariate reazioni, il verdetto, che ha visto inoltre il licenziamento di due cronisti per aver partecipato e reso possibile la vicenda, è stato modificato dalla Blizzard riducendo il periodo di sospensione del giocatore da un anno a sei mesi e riconsegnandogli il premio. Blitzchung ha risposto su Twitter ringraziando la società per aver riesaminato il suo caso, nonostante sei mesi siano comunque troppi a suo avviso. Il giocatore cinese non è stato l’unico a ritenere esagerata la sanzione, per questo motivo il presidente della Blizzard Entertainment, J. Allen Brack, ha ritenuto opportuno pubblicare una dichiarazione sul sito ufficiale dell’azienda, nel tentativo di legittimare il suo operato. Un aspetto della questione più volte sottolineato dal presidente è proprio quello che ha creato più dubbi e discussioni – “Voglio essere chiaro: la nostra partnership con la Cina non ha influenzato in alcun modo le nostre decisioni” – ha ribadito Brack. Inoltre, ha affermato che “le specifiche opinioni espresse da Blitzchung non sono state prese in considerazione per il provvedimento”, cercando così di difendersi dalle accuse di violazione della libertà di opinione e di mantenere per la sua società un ruolo neutrale all’interno della questione politica in corso tra Cina e Hong Kong. Una presa di posizione ancora più netta è evidente nelle dichiarazioni della Blizzard pubblicate sulla piattaforma di social media cinese Weibo: “Esprimiamo la nostra forte indignazione e la nostra condanna degli eventi accaduti nella competizione di Hearthstone Asia Pacific e ci opponiamo assolutamente alla diffusione di idee politiche personali durante qualsiasi evento. I giocatori saranno banditi e i commentatori coinvolti saranno immediatamente esclusi da qualsiasi attività ufficiale. Inoltre, proteggeremo la nostra dignità nazionale”. Molti giocatori hanno visto dietro le decisioni della Blizzard l’ombra della Tencent, che avrebbe forzato la mano alle direttive dell’azienda; è innegabile la crescente influenza delle grandi case videoludiche cinesi nel mondo del mercato globale. La sfera d’influenza del colosso cinese in questione però non si limita al mondo dei videogiochi, ma arriva a coprire l’intero settore tecnologico, con una serie di investimenti di alto profilo che abbracciano aziende quali Snapchat, Spotify, Tesla e Hollywood film. Si tratta di un gigante aziendale tentacolare che ha recentemente superato Facebook nel valore di mercato, diventando la quinta società quotata più importante a livello internazionale.

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Il giovane cofondatore Ma Huateng, soprannominato Pony Ma, è una delle persone più ricche del mondo, con una fortuna di quasi 50 miliardi di dollari, ed ha inoltre un ruolo di grande rilevanza all’interno del Congresso Nazionale del Popolo, il ramo legislativo della Repubblica Popolare Cinese. Quindi, se da un lato i provvedimenti presi dalla Blizzard si sono dimostrati necessari per preservare gli accordi economici dell’azienda con il mercato cinese, dall’altro l’episodio ha sollevato delle polemiche da parte del pubblico occidentale, convinto dei propri valori. Le severe decisioni fortemente discusse confermano un modus operandi caratteristico di una società proattiva, come la Blizzard, assai scrupolosa nella correzione e nell’autocensura. Tuttavia, le dichiarazioni di neutralità dell’azienda appaiono tanto eccessive da coinvolgerla di fatto nel merito delle questioni politiche cinesi. In America, durante i Collegiate Championship, campionati universitari di Hearthstone, tre studenti hanno voluto mostrare solidarietà verso Hong Kong e in particolare verso Chung “Blitzchung” Ng Wai, brandendo il cartello “Hong Kong libera, boicotta Blizzard” in diretta streaming. Contro le aspettative degli stessi studenti, anche per loro la Blizzard ha annunciato un periodo di sospensione di sei mesi per aver consapevolmente infranto le regole di condotta previste dalla società. “Mi fa piacere vedere una parità di trattamento” tra i giocatori americani e quelli di Hong Kong, ha detto uno dei tre ragazzi. Su Twitter l’hashtag #BoicottaBlizzard si è diffuso rapidissimamente, e molti giocatori lo stanno utilizzando per annunciare la cancellazione dei propri account di Hearthstone e altri giochi dell’azienda. Il malcontento è fortemente presente anche all’interno della società stessa, e lo hanno dimostrato circa trenta impiegati che sono usciti dagli uffici con gli ombrelli aperti, utilizzati dai manifestanti di Hong Kong e simbolo del cosiddetto “Movimento degli ombrelli”. Altri dipendenti hanno coperto una targa, situata all’ingresso del quartier generale della Blizzard in California, che recita “Ogni voce conta. Pensare globalmente”, due dei valori fondamentali teoricamente sostenuti dalla Blizzard. L’ondata d’indignazione scatenatasi online ha visto protagonista la Fight For The Future, un’organizzazione non-profit per i diritti digitali, che ha diffuso sul web delle iniziative contro la Blizzard. L’azione che avrà presumibilmente un impatto enorme è la protesta organizzata per il primo novembre al di fuori dell’Anaheim Convention Center, il grande centro congressi dove si svolgerà la BlizzCon, convegno annuale gestito dalla stessa Blizzard. La convention è l’evento più importante dell’anno per la società, poiché vi si registrano le più massicce oscillazioni azionarie, ed è proprio per questo motivo che anche altri gruppi di manifestanti hanno deciso di boicottarla. Ad alimentare le tensioni si è aggiunta la decisione di Brian Kibler, figura chiave nel legame fra Hearthstone ed il suo pubblico, di annullare la sua partecipazione alla finale dei Grandmasters del videogioco, che si svolgerà proprio alla BlizzCon. L’obiettivo di Fight For The Future è duplice: incoraggiare gli sviluppatori e gli editori a impegnarsi pubblicamente in difesa dei diritti di giocatori, dipendenti e fan in tutto il mondo e convincere Blizzard a cambiare radicalmente le decisioni prese riguardo al caso Blitzchung. La priorità centrale dell’organizzazione è rendere Internet “libero da censura o interferenze e con piena privacy”. Ma questo, in una Cina sempre più controllata e priva di valori democratici, sembra essere un obiettivo irraggiungibile.

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CONCLUSIONE Le vicende di Nba e Blizzard testimoniano l’egemonia della sfera d’influenza cinese sul mercato internazionale, governato da regole non scritte. Nel fare affari con la Cina, le imprese occidentali devono “evitare le tre T”: Taiwan, Tibet e Piazza Tienanmen. Se uno di questi argomenti viene menzionato, bisogna affrontare il governo cinese. Nel 2019, alle tre T si deve aggiungere una H, quella di Hong-Kong. Il caso Blizzard è un esempio di quando soldi e interessi vincono su tutto, anche sulla libertà. Sembra invece che la Nba abbia preso posizione in difesa di diritti che in Occidente consideriamo fondamentali. Ma la Lega si sta battendo davvero per pluralismo e libertà? Oppure ha soltanto paura di perdere credibilità e di essere ripudiata dal pubblico americano? Noi non lo sappiamo. di Elena Lopriore e Giovanni Tiriticco

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L’AZIONARIATO CRITICO UNA POTENTE ARMA DELLA FINANZA ETICA

Uno dei principali strumenti che permette agli istituti di finanza etica di garantire agli investitori l’effettiva eticità dei propri movimenti finanziari è certamente quello dell azionariato critico. In Italia, fra i maggiori fautori di questa iniziativa possiamo certamente considerare Banca Etica, partner ufficiale di Scomodo.

COSA È L’AZIONARIATO CRITICO Consiste nell’acquisto di un piccolo pacchetto di azioni di una società in modo da ottenere voce in capitolo nelle scelte del gruppo, abitualmente dettate da una voracità di profitti senza scrupoli, con lo scopo di dirottarle su provvedimenti costruttivi per tutta la società, che garantiscano “trasparenza, equità, tutela ambientale e diritti dei lavoratori”. L’elemento sicuramente più interessante che si trova alla base dell’azionariato critico sta nell’idea di contrastare gli effetti critici del capitalismo tramite i suoi stessi meccanismi di funzionamento, in maniera tale da riuscire a riportare dinanzi ai vari Consigli di Amministrazione tutte le conseguenze negative delle loro azioni. In questo senso, la Fondazione Finanza Etica è sicuramente la più attiva in Italia nella partecipazione diretta alle assemblee di varie S.p.a del nostro paese. Ad esempio quella di Generali a Trieste per contestare le sue scelte antiecologiche, oppure quella di H&M a Stoccolma con Clean Clothes Campaign come partner della campagna Abiti Puliti Italia, per tentare di combattere le conseguenze spiacevoli della fast fashion. Senza dimenticare l’assemblea di Eni, dove la Fondazione ha posto interrogativi sull’ipocrisia dell’azienda nei confronti dell’emergenza climatica, che si vanta di aiutare l’ambiente piantando alberi ma continua ad investire sull’energia fossile. Per il dodicesimo anno consecutivo, è intervenuta come azionista critica all’assemblea generale di Enel, il colosso italiano dell’elettricità controllato al 23,6% dal Ministero del Tesoro. Le domande poste, nove, riguardano le strategie di transizione energetica di Enel verso un modello di produzione a emissioni contenute. Enel è un’azienda che può avere un’influenza rilevante anche a livello globale nel campo della transizione energetica. Durante l’assemblea, la Fondazione si è concentrata su due temi: i costi eccessivamente elevati dell’energia venduta da Endesa in Spagna, controllata da Enel, motivo per il quale l’impresa ha appena subito una sanzione dalla Commissione Nazionale per i Mercati e la Concorrenza spagnola, e le paghe eccessive dei manager per 5,8 milioni di euro. “I colleghi di Fundacion Finanzas Eticas, anch’essi soci fondatori di SfC hanno partecipato in modo critico all’assemblea di Endesa il 12 aprile scorso, sottolineando il problema dei prezzi eccessivi dell’elettricità, che colpiscono migliaia di famiglie povere e il ritardo nell’uscita dal carbone” ha dichiarato Andrea Baranes, presidente della Fondazione.

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Il 28 maggio 2019, invece, con la Rete italiana per il disarmo, ha partecipato per la quarta volta consecutiva all’assemblea degli azionisti del gruppo Leonardo-Finmeccanica: una S.P.A. attiva nei settori della difesa e dell’aerospazio il cui maggior azionista è di nuovo il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che detiene il 30% dei suoi titoli. Gli interrogativi che sono stati posti e le contestazioni che sono state fatte dalla FFE a Leonardo riguardano l’esportazione di armi in Turkmenistan, il ruoldo dell’azienda nella guerra in Yemen e la produzione di armi nucleari, con l’ICAN (Convegno Internazionale contro il Nucleare). Tra le altre cose, sono stati trovati tre elicotteri da guerra AW109, fabbricati dall’azienda, in operazioni militari in Yemen anche se la vendita, come export militare, non è mai stata autorizzata dallo Stato italiano. Quindi la Fondazione ha posto 13 domande durante l’assemblea, pretendendo chiarezza e trasparenza su queste compromettenti e torbide questioni. L’azionariato critico, grazie agli esempi riportati, si rivela dunque uno strumento estremamente efficace per contrastare direttamente dall’interno le azioni dei grandi colossi economici che andrebbero ad impattare in maniera totalmente negativa sulla società. La speranza è che sempre un maggior numero d’istituti inizino ad utilizzare simili metodologie, in maniera tale da valorizzare sempre di più l’impatto dell’economia etica sul mondo. di Ismaele Calaciura Errante

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