Annisettanta

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CARTELLA STAMPA

dal 27 ottobre al 30 marzo in mostra alla Triennale di Milano


ideazione e regia

ufficio stampa

Gianni Canova

La Triennale di Milano Antonella La Seta, responsabile Damiano GullĂŹ Marco Martello

messa in scena Mario Bellini con la collaborazione di Giovanni Cappelletti

comitato scientifico Marco Belpoliti Gian Piero Brunetta Elio Fiorucci Peppino Ortoleva Stefano Pistolini Oliviero Ponte di Pino

progetto grafico Zetalab - Milano Lucio LuZo Lazzara Stefano Lionetti

interventi scenografici Giancarlo Basili

assistenza alla regia, ricerca audiovideo e coordinamento Silvia Borsari Elena Gipponi Massimo Rota Marco Villa

catalogo annisettanta edizioni Skira a cura di Marco Belpoliti, Gianni Canova e Stefano Chiodi progetto grafico e impaginazione: Mario Piazza

t. 0272434241/205 f. 0272434239 ufficio.stampa@triennale.it Le immagini e i testi sono scaricabili dal sito www.triennale.it/press


annisettanta il decennio lungo del secolo breve Arte, Architettura, Cinema, Design, Editoria, Fumetto, Grafica, Letteratura, Moda, Musica, Radio, Teatro, Televisione, Videogiochi. E poi bar, viaggi, conflitti, corpi, colori, simboli, loghi, cortei, delitti, cibi, sport. La Storia, e le storie. Triennale di Milano 27 ottobre 2007- 30 marzo 2008 La Triennale di Milano presenta la mostra annisettanta. il decennio lungo del secolo breve. Curata da Gianni Canova, si articola come un percorso labirintico dentro uno dei periodi più ricchi, complessi e contraddittori della nostra storia recente. Senza effetti nostalgia, ma anche senza furori liquidatori, con la volontà di offrire ai visitatori un’occasione di riflessione aperta prospetticamente da quegli anni fino al nostro presente. La mostra ripercorre gli anni Settanta attraverso alcune installazioni dedicate a parole-chiave (viaggio, corpo, conflitto, corteo, ecc.) o a figure emblematiche (Moro, Pasolini) del decennio in questione. Nello stesso tempo, passa in rassegna ed espone, sottolineando le contaminazioni e le ibridazioni fra i vari linguaggi, quanto gli anni Settanta hanno espresso nel cinema e nella letteratura, nel design e nella musica, nell’arte figurativa e nel fumetto, nel teatro e nella moda, nel sistema mediatico e in quello tecnologico, nella comunicazione e nello sport. La mostra si articola su due piani su una superficie totale di 2834 mq. L’allestimento di Mario Bellini presenta uno spazio

neutro, bianco, con nuvole sul soffitto. Le stanze, per contrasto, sono un’esplosione di creatività, colori, suggestioni ed emozioni che spingono il visitatore a creare un proprio personale percorso, non a seguirne uno obbligato. La mostra non solo racconta la storia del periodo ma consente al visitatore di “farne esperienza” diretta. Al primo piano, dalla ricostruzione di un bar nella settimana della partita di semifinale dei Mondiali Italia-Germania del 1970 agli ambienti di uno studio radiofonico in cui è trasmesso l’audio dei funerali di Fausto e Iaio, all’installazione di Chiara Dynys dedicata al corteo molteplici sono gli spunti che la mostra offre per far capire la grande creatività e i profondi cambiamenti con cui ancora oggi ci confrontiamo. Al piano terra, oltre alle sezioni dedicate a fumetto, grafica e moda, l’arte degli anni Settanta è presentata attraverso una selezione di opere di vari artisti da Mario Schifano a Alighiero Boetti, per citarne solo alcuni. Il tema del rapporto fra arte e corpo, a partire dagli anni Settanta a oggi, è indagato attraverso i lavori di artisti come Andres Serrano e molti altri. La mostra del 1972 Italy. The New Domestic Landscape, organizzata dal Moma di New York, esemplare per il riconoscimento del design italiano all’estero, è il punto di partenza per presentare la ricostruzione della Kar-a-sutra di Mario Bellini e l’installazione di Gaetano Pesce Habitat for Two People realizzata proprio in occasione di quella mostra e presentata adesso per la prima volta in Italia, a cui si aggiungono lavori di Riccardo Dalisi, Ugo La Pietra e Enzo Mari. Due artisti affrontano e si confrontano con due eventi cardine del decennio: le tragiche morti di Pier Paolo Pasolini e di Aldo Moro. Elisabetta Benassi presenta un’installazione dedicata a Pier Paolo Pasolini, mentre Francesco Arena ricostruisce a grandezza naturale la cella in cui è stato rinchiuso Aldo Moro.


Lungo tutto il percorso sono inoltre presenti una cronologia e delle tavole sinottiche che permettono di individuare gli eventi pi첫 importanti in ambito storico e socio-culturale. Alla realizzazione dei vari spazi della mostra hanno collaborato studiosi, esperti, artisti e docenti universitari tra cui Francesca Alfano Miglietti, Silvana Annicchiarico, Francesco Arena, Giancarlo Basili, Luca Beatrice, Marco Belpoliti, Elisabetta Benassi, Chiara Dynys, Gian Piero Brunetta, Elio Fiorucci, Fulvio Irace con Alessandro Mendini e Franco Purini, Elena Marco, Filippo Mazzarella, Peppino Ortoleva, Mauro Panzeri, Luigi Pedrazzi, Stefano Pistolini, Oliviero Ponte di Pino, Italo Rota, Massimo Rota, Fabrizio Vagliasindi.


Ricordo Considero gli Anni Settanta il decennio più importante del secondo dopoguerra e credo che la mia generazione, che non ha conosciuto sulla pelle i totalitarismi, gli sfollamenti e la Guerra civile, possa di buon grado ritenersi gratificata dall’aver vissuto un momento così fortemente vitale e nello stesso tempo tragico. Questo lemma è dedicato al ricordo, perché negli Anni Settanta hanno preso vita molte tendenze, costumi, correnti sociali, artistiche e politiche sviluppatesi compiutamente nei decenni successivi, in parte ancora oggi. E non ci sono dubbi sul fatto che intellettuali, critici, storici e anche opinione pubblica convengano su questa filiazione. La memoria degli anni Settanta è però fatta soprattutto di storie collettive - movimenti, classi, masse - e solo ultimamente fioriscono gli episodi artistici, e creativi in senso lato, che danno un peso e un valore cognitivo, esemplare, alle storie minute, alle vicende personali e private. Penso per esempio alla Meglio Gioventù di Marco Tullio Giordana, e alle piccole storie che della Grande sono tributarie importanti, decisive per la loro capacità di pesare il ricordo sulla propria pelle, prima che sulle statistiche dei movimenti collettivi. Io iniziavo il decennio dopo le avventure dello studio e mi radicavo in fretta a Milano: nasce mia figlia Costanza, mi sposo, mi trasferisco in Via Alfieri, in zona Canonica, ricca di un tessuto vitale di trattorie e piole, tra cui una trattoria veneta allora molto rinomata e una mantovana, proprio al limite di Via Canonica. Erano i riferimenti della nostra dolce e articolata mappa del quotidiano, naturalmente rallentata e soffice, ben prima che qualcuno cominciasse a parlare di cibi slow o fast. La mansarda che abitavo con mia moglie Lucia era sopra lo studio del pittore Piero Leddi, uomo dolce ma colpito nella propria sensibilità dalla brutalità-banalità del quotidiano di quegli anni, con

cui inaugurai un’intensa stagione di amicizia il cui primo amato frutto furono la passione per i libri - il De proporzione di Durer, le prime edizioni delle opere del naturalista Georges-Louis Leclerc, il Buffon – e le conversazioni sulla politica e l’arte. Grazie a Piero conobbi l’amico più importante della vita: il poeta Franco Loi, uomo straordinario con cui ci lega ancora una radicata affinità spirituale. Era una Milano socialmente, o meglio collettivamente, pericolosa nell’angoscia delle stragi e nel radicalizzarsi quotidiano dello scontro politico; ma a livello individuale, personale, ricordo un’atmosfera pacifica, quasi bucolica: non era raro uscire sui Navigli e c’era ancora chi giocava a bocce, a Milano. Nei nostri discorsi saltava all’occhio che Franco veniva da lontano, aveva vissuto esperienze che non ci erano famigliari, e cominciavo a capire cosa significasse superare l’ideologia di sinistra e abbracciare una costante e sensibile attenzione all’individuo e alla sua crescita spirituale, un senso religioso che basa i propri canoni sulla conoscenza e l’amore verso l’essere umano. L’impiego di allora erano delle collaborazioni in RAI, grazie a Raffaele Crovi, allora Direttore dei “Culturali”, e i primi programmi per ragazzi, in qualità di ricercatore iconografico prima, autore poi. L’inizio dell’amore per la televisione. Intanto incalzavano gli avvenimenti tragici. La strage di Piazza Fontana, all’alba dei Settanta, l’avevo vissuta a Verona, ma la dolce e mortifera vita di provincia mi aveva preservato, in parte annebbiato. Eppure, la città di Milano continuava a sembrarmi estremamente libera. Ricordo passeggiate fino a tardissima ora, e nessun senso di sgomento e timore. Una città paradossale, violentissima nel rappresentare ed esprimere le controverse ideologie, ma sicura nelle relazioni individuali con l’altro. Anche la malavita, che aveva i nomi di Epaminonda e Vallanzasca, non ci faceva tanta paura: eravamo giovani, e sapevamo che questa aveva i suoi codici e le sue regole. Il ricordo tragico di cui conservo il rumore sordo della morte è legato al 14 marzo 1972, quando ca-


pimmo che la vicenda di Feltrinelli rappresentava la conseguenza tangibile delle scelte estreme che aprivano incertezze e conflitti interiori. Con Piero Leddi, al Cimitero Monumentale, in una grigia giornata di marzo, tutt’altro che primaverile, il silenzio era di pietra, come le statue che ornano il cimitero. Quando invece ci arrivò la notizia della fine di Pasolini, la “morte” mi colpì in compagnia dell’amico friulano Francesco Bierti, un poeta della pittura, figlio di un decoratore itinerante di chiese, finissimo artigiano egli stesso. Il suo viso aveva i tratti di un soldato della Mitteleuropa e cozzava con il suo spirito ingenuo e candido: stemperava le notizie con la grappa, e il silenzio che lo pervase mi sembrò più rumoroso di tanti lamenti superflui che sentii in quella occasione tragica. Nei giorni successivi, senza accorgercene, intensificammo gli incontri con Franco Loi ed Ennio Tomiolo, straordinario pittore senza lobby o mercanti, maestro di metafore. Ci si incontrava nel piccolo appartamento popolare di via Coni Zugna, profumato dai colori a olio. Ida, la moglie di Ennio, cucinava per noi catini di pasta e fagioli. La gioia di mettersi attorno al tavolo, mangiare un’intera pignatta di pasta e fagioli all’imbrunire, quella gioia della tavola fu un altro insegnamento appreso nella tragedia. Così, nel ricordo dei Settanta, riemergono i momenti felici, gli amori, le relazioni umane, il lavoro duro ed entusiasmante con cui cercavamo di cancellare le tragiche domande che i giornali e la televisione proponevano in modo ossessivo. Proprio quella TV, che segnerà in futuro la mia vita, e che per me aveva il sapore del laboratorio, con la stagione dell’emittenza privata, quando lavoravo con Enzo Tortora, Beppe Recchia, Gino Tortorella e ci sentivamo avanguardia, pionieri del costume. Il decennio che qualcuno definisce buio per me si chiuse con due grandi mostre, in qualità di curatore, sul Costume e la Società veneta e su Giorgione, rispettivamente a Palazzo Grassi e a Castelfranco Veneto. Ricordando quelle esperienze capisco che la fretta di vivere che ci pervadeva non

era solo la manifestazione della nostra giovinezza, era una difesa cognitiva ai momenti tragici di quel decennio, un modo di testimoniare che la felicità si radica nelle tragedie e che la gioia acquista un significato nel loro superamento, nel ricordo del dolore quando esso diventa proposta, azione, gratitudine, vita.

Davide Rampello


PRESENTAZIONE Spesso, sul nostro presente e sulla nostra memoria individuale e collettiva incombono fantasmi: quello di un passato che non passa, quello di un rimosso che ritorna. Come se la Storia dell’Italia moderna e contemporanea fosse condannata a non potersi mai liberare dal peso di ciò che è accaduto prima, come se i traumi, le ferite e le lacerazioni del passato non riuscissero mai a cicatrizzarsi definitivamente. Anche gli anni Settanta non sono ancora passati. Nel bene e nel male, sono ancora qui. Con la loro scia di sangue, con le loro maschere ora tragiche ora grottesche, ma anche con la loro straordinaria creatività, e con la capacità, per certi versi unica e irripetibile, di trasformare rapidamente la società, la cultura, l’immaginario e, più in generale, il modo di vivere e di “sentire” delle persone. Ritornare oggi sugli anni Settanta senza atteggiamenti pregiudiziali, senza condanne né assoluzioni aprioristiche, come fa l’iniziativa promossa dalla Triennale di Milano con l’organizzazione di una grande Mostra e con la pubblicazione di questo libro, è un modo per cercare di consentire al passato di fare il suo corso, riguardandolo con gli occhi critici e disincantati del nostro presente. Questo libro sceglie di attraversare lo spazio e il tempo che uniscono e separano gli anni Settanta e noi utilizzando la prospettiva offerta dall’eco di alcune parole-chiave. È una scelta stimolante e suggestiva: non solo perché la Storia e i suoi fantasmi spesso si depositano nelle parole, e lì lasciano decantare sensi e significati che sedimentano nel tempo, ma anche perché è nell’uso delle parole, e nel diverso modo in cui esse sono abitate, che si misura la distanza - o anche l’analogia - fra ciò che eravamo e ciò che

siamo. Basta pensare all’eco che parole come “classe” e “rivoluzione” avevano negli anni Settanta e a quello che evocano oggi. Parole che testimoniando le variazioni di significato registrano le oscillazioni e le mutazioni del senso. Per questo, fra i tanti libri pubblicati su quel periodo nevralgico della nostra storia recente, questo mi sembra uno dei più necessari: perché nel suo delineare un lessico del tempo, e nel suo farlo ricorrendo all’analisi e alla riflessione di alcune delle personalità più eminenti della cultura e della società del nostro paese, senza preclusioni ideologiche e senza esclusioni pregiudiziali, riesce a tracciare una mappa sufficientemente esaustiva – ancorché aperta e problematica – dell’habitat linguistico, storico e culturale in cui si è formata molta parte della attuale classe dirigente del nostro paese, e in cui più generazioni di italiani hanno vissuto capitoli chiave del loro “romanzo di formazione”.

Francesco Rutelli


Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura... (Fabrizio De André)

Grigio. Grigiopiombo, grigiofumo, grigioaustero. E rosso. Rossosangue, rossofuoco, rossobandiera. A volte, sembra quasi che la coperta stretta della memoria abbia avvolto gli anni settanta in una penombra spessa e scura, lasciando galleggiare nel ricordo soltanto due tonalità cromatiche. Gli anni di piombo, gli anni del sangue, e nient’altro. Questa mostra cerca, prima di tutto, di riesumare proprio questo altro. Il suo nulla, il suo tutto. I mondi, i sogni, i fantasmi che esso contiene. Senza voglie di vintage, senza effetti-nostalgia, ma anche senza furori liquidatori. Perché gli anni settanta non sono finiti, non sono passati. Sono ancora qui. Con i loro conflitti, le loro speranze, le loro categorie di interpretazione del mondo. Dal buco più nero del secolo scorso, ancora ci riguardano. Questa Mostra vuol essere un invito a ricambiare lo sguardo, e a ripercorrere quel periodo senza tragitti prefissati, senza itinerari prestabiliti. Seguendo piuttosto un flusso libero di associazioni che sappia scivolare con leggerezza da un punto all’altro, e che sia disponibile a lasciarsi sorprendere, e ad accettare il confronto con il rimosso e l’inatteso. Nella consapevolezza che dentro il decennio lungo del secolo breve

ci sono scontri conflitti lacerazioni spettri crolli slanci sogni e snodi che hanno cambiato il mondo. La Mostra annisettanta ha come ambizione non solo quella di raccontare la storia di questo cambiamento, ma anche di consentire al visitatore di fare esperienza di quegli anni. O di rifarla. Con la memoria, con la ragione e con l’emozione. Ritrovando i nostri cuori che pulsano sotto la coperta scura della Storia.

Gianni Canova


RELAZIONE ARCHITETTONICA Un cielo cumuliforme sormonta uno spazio latteo, immateriale, metafisico, onirico e totalizzante, ingombro di corpi bianchi - le stanze tematiche - come monadi fluttuanti nel bianco, astratto colore della memoria. È lo “spazio” degli anni settanta. Lo spazio della memoria ancora viva e bruciante del decennio più lungo del secolo più breve, per alcuni. Lo spazio di evanescenti ricordi punteggiati di pochi indelebili flash, per altri. Lo spazio immaginato, di un passato non vissuto, già consegnato alla storia - anche se ancora immanente - per le più giovani generazioni. Uno spazio complesso e molteplice che mentre si fa rappresentazione dei meccanismi neurologici del ricordo, mantiene un forte valore “architettonico”, stabilendo relazioni a “carattere urbano”, suggerendo luoghi che possono a ragione definirsi col nome di “strade” e “piazze”. E l’interessante è che questi due aspetti – il neurologico e l’architettonico - confluiscano nel ricordo dei “Palazzi della Memoria”, espressione - da Lulli a Giordano Bruno - della rinascimentale scienza “mnemotecnica”. Ed in effetti, come è per l’esempio appena richiamato, ognuna di queste “stanze” aspira ad essere un condensato di memoria, a riaprire un contatto. Trattate al loro interno con una ricca varietà di atmosfere, colori e suggestioni, le stanze tematiche interpretano le “parole chiave” della mostra. Ognuna di esse è riempita di ricordi come una scatola da imballo e, una volta usciti dalla mostra, potrà entrare a far parte della raccolta che ognuno di noi

possiede ed ordina nella testa. Il cielo cumuliforme ha invaso anche lo spazio a piano terra, rendendolo più evanescente e poetico, disposto a fondersi con le installazioni in esso collocate e – qui come al piano superiore - il bianco ricopre e ricongiunge ogni superficie, compresa quella del pavimento. In questa atmosfera galattica e sospesa, sarà compito della grafica – dei suoi pochi colori - suggerire percorsi, fornire indicazioni sulla visita, accompagnare il visitatore con commenti, tavole cronologiche e didattiche, sottolineature ed informazioni sugli anni ’70. La grafica sarà dunque discretamente pervasiva ma non invasiva: la si troverà sulle pareti esterne delle stanze, sul pavimento, sopra la testa. Vero e proprio basso continuo a servizio del visitatore è concepita per farsi duttile strumento della sua curiosità.

Mario Bellini


Sulle tracce del cinema di Gabriele Salvatores (Zelig, 1997), David Cronenberg (Edizioni Il Castoro, 1994). Nel 2002 ha realizzato come curatore il volume sul cinema dell’Enciclopedia Universale Garzanti e ha curato il volume 1965-1969 della Storia del cinema italiano (in 15 volumi) edita dalla Scuola Nazionale di Cinema, pubblicato nell’aprile 2002 da Marsilio. Nel 2001 ha ideato e curato la Mostra Le città in/visibili, ispirata all’omonimo romanzo di Italo Calvino (Triennale di Milano, 4 novembre 2002-9 marzo 2003).

GIANNI CANOVA Professore Ordinario di Storia e critica del cinema presso l’Università IULM di Milano, è Presidente del settore accademico in “Media e Tecnologe della comunicazione” della stessa Università nonché coordinatore del Corso di Laurea Specialistica in Televisione, cinema e produzione multimediale. Fondatore e direttore del mensile di cinema e spettacolo Duel (ora Duellanti), è stato critico cinematografico per la Repubblica, il Manifesto, Sette del Corriere della sera e la Voce di Indro Montanelli. Collabora a Letture, Segnocinema, Max, Elle, Rolling Stone e Geo e da dieci anni è titolare di una rubrica di cinema e economia sulla rivista Economia & Management edita dalla SDA Bocconi. Attualmente è critico cinematografico per Sky Cinema, dove tiene una striscia quotidiana (“Il cinemaniaco”) Tra le sue pubblicazioni, i volumi L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani, 2000), Giancarlo Basili. Spazio e architettura nel cinema italiano (Alexa Edizioni, 2000), L’occhio che ride (Editoriale Modo, 1999), Nirvana.

Nel 2004 è curatore della mostra Dreams. I sogni degli italiani in 50 anni di pubblicità televisiva italiana, per conto della Rai e della Triennale di Milano (Triennale, 16 febbraio – 31 maggio 2004). Dal 2001 al 2005 ha fatto parte come rappresentante italiano del Comitato scientifico del Festival Internazionale del Film di Locarno (Svizzera). Dal 2005 è membro del Comitato Scientifico della Festa del Cinema di Roma.


Culturale e Teatro di Torino, i cui cantieri si apriranno all’inizio del 2008, e il Museo delle Arti Islamiche al Louvre di Parigi, attualmente in fase di costruzione. Nel 2007 vince il concorso internazionale a inviti per il rinnovo radicale della grande sede centrale di Deutsche Bank a Francoforte, Germania ed è invitato a partecipare al concorso per la progettazione del nuovo Sheikh Zayed National Museum di Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti. Nel 2007 prenderà avvio il cantiere del complesso Verona Forum, Italia.

MARIO BELLINI L’architetto milanese Mario Bellini lega la sua fama internazionale sia alla precoce e vasta opera di designer (premiato con 8 Compasso d’Oro; nel 1987 il Museo d’Arte Moderna di New York gli ha dedicato un’importante mostra personale), sia alle numerose opere di architettura, cui si dedica con crescente successo dagli anni Ottanta, ottenendo incarichi e vincendo concorsi in vari Paesi del mondo. Tra le sue realizzazioni più importanti in entrambi i campi, oltre alle macchine per ufficio, alle sedie e agli imbottiti, agli oggetti (disegnati per Olivetti, Cassina, B&B, Flou,Vitra, Rosenthal, Yamaha e altri), sono da ricordare il quartiere Portello della Fiera di Milano, il Centro Esposizioni e Congressi di Villa Erba sul lago di Como, il Tokyo Design Center in Giappone (dove Mario Bellini ha firmato altri tre rilevanti complessi architettonici), la sede di Natuzzi America negli Stati Uniti e il nuovo quartiere della Fiera di Essen in Germania. Tra i successi più recenti da segnalare tre prestigiosi incarichi acquisiti vincendo concorsi internazionali: la National Gallery of Victoria, a Melbourne, in Australia, inaugurata nel 2003, il nuovo Centro

Inoltre, è stato incaricato da Genova High Tech SpA della progettazione architettonica del nuovo Parco Scientifico-Tecnologico sulla collina degli Erzelli a Genova che comprenderà l’intero complesso della facoltà di ingegneria di Genova, la cui costruzione inizierà nel 2008. Tra i suoi allestimenti di mostre d’arte e di architettura nei maggiori musei del mondo, sono rimasti memorabili quello per “Il Tesoro di San Marco di Venezia” (1984-1987) e quello per ”I Trionfi del Barocco. Architettura in Europa 1600-1750” (1999) Mario Bellini è stato direttore della rivista Domus dal 1986 al 1991, ha tenuto conferenze e corsi nelle più importanti sedi internazionali, ha ottenuto numerosissimi premi e riconoscimenti per la sua opera di designer e di architetto. Nel 2004 il Presidente della Repubblica Italiana, gli ha conferito la Medaglia d’Oro quale riconoscimento per la sua attività in Italia e all’estero. Nell’aprile 2008 la Triennale di Milano gli dedicherà una grande mostra retrospettiva.

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entocinquantasette giorni, tremila mq. Allegria di un naufragio

Buchi neri I - Pier Paolo Pasolini - 2 novembre 1975

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Buchi neri II - Aldo Moro - 9 maggio 1978

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Azione Politica o atto rituale?

Panna, pizza e surgelati

Nei labirinti del Teatro

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Francesca Alfano Miglietti (FAM)

Archeologia dello sguardo ludico

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Scrittura del malessere e suoni del disagio

Architettura disegnata e rappresentazione

Gli stadi della musica

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Fulvio Irace con Alessandro Mendini e Franco Purini

Il bar italiano, prima dell’era dell’happy hour

Pugni, curve, calci, ruote

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Le radio libere negli anni dei movimenti

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L’agorà del design

Peppino Ortoleva e Giovanni Cordoni

La caverna catodica

Silvana Annicchiarico con interventi di Mario Bellini, Riccardo Dalisi, Ugo La Pietra, Enzo Mari, Gaetano Pesce

Peppino Ortoleva

I segni della grafica

Muri sfondati e sguardi proibiti

Il paesaggio dei manifesti

Le sale del cinema

Mauro Panzeri

Gian Piero Brunetta

Dopo l’arte povera, prima della transavanguardia

Simboli, loghi e identità

Le fabbriche del bello

Il tempietto del sacro e del profano

Luca Beatrice

Gianni Canova con Silvia Borsari e Elena Gipponi

Cannibali, frigidi, malefici, politici, erotici

Forme dell’uguaglianza: il corteo

Le spirali del fumetto

Tutti per uno, uno per tutti

Filippo Mazzarella

Chiara Dynys

La vetrinizzazione del mondo

Dalla videoausterità alla videoabbondanza

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Allegria di un naufragio

Tracce di mappe del mondo

Il muro dei conflitti

Percorsi di viaggio

Gli anni Settanta riaffiorano nel ricordo individuale e collettivo seguendo un duplice binario memoriale. Da una parte, il tempo congelato dell’immagine fotografica. Dall’altra, il tempo fluido e liquido dell’immagine filmica.

Gli anni Settanta sono il decennio del Viaggio per antonomasia. Per quanto antipatica possa suonare l’affermazione, sono stati l’ultima chance per godersi il Pianeta “a bocce ferme”. Prima della globalizzazione, delle ondate migratorie, dei voli lowcost e degli internet point a Kathmandù, dei telefonini e delle magliette con Michael Jackson indossate dagli indios amazzonici, dei rapper pakistani e dei bancomat a Goa. Una fase temporaneamente libera da guerre, fondamentalismi, perversioni turistiche, tour del Cammello nicotinico. Prima che il mondo si andasse inesorabilmente rimpicciolendo come un prezioso capo di cachemire lavato a temperatura sbagliata.

Di qua (negli home movies, nei filmini di famiglia) la vita, di là (nelle immagini pubblicate dai giornali) la Storia. Là il pubblico, qui il privato. Qui il colore, là il bianco e nero. Ma le due forme della memoria non costituiscono due scene contrapposte. Non sono l’una il controcampo dell’altra. Stanno invece, piuttosto, entrambe dentro la stessa scena. Sono uno split screen: la stessa immagine che si scinde, si sdoppia, si moltiplica. Che entra in conflitto con se stessa, e con la propria persistenza nel tempo. Forse è per questo (o anche per questo) che gli anni Settanta fanno così fatica a passare. Perché non contrappongono scena a scena, ma mettono in conflitto più visioni dentro la stessa scena. Scenamuro, scena-soglia, scena-limite. Scena che si nutre all’infinito di se stessa, galleggiando su un tappeto sonoro fatto a sua volta di frammenti e di reperti, di jingles e di slogan, di sussurri e di grida. Di Storia e di vita. Gianni Canova

Italo Rota & Matteo Guarnaccia

Azione Politica o atto rituale?

Nei labirinti del Teatro Che cosa è il teatro. E’ possibile rappresentare la realtà se il mondo cambia troppo in fretta. Come fare spettacolo nella società dello spettacolo. Che cosa è per te il teatro. Puoi salire in scena se non sai chi sei. Bisogna distruggere la barriera tra attore e spettatore. Dobbiamo fondere tutte le arti. Con quali metodi trasmettere il sapere quando non esiste più la tradizione. Dove trovare il proprio maestro. Reinventare il teatro per reinventare la vita. Il teatro è un’azione politica o un atto rituale. Il gesto e l’immagine contro la parola. Ripartire da zero. Ripartire dal corpo. Scoprire il tempo, lo spazio, la voce, il silenzio, l’altro. Non avere regole è la regola più dura. Punti di domanda. Oliviero Ponte di Pino


Un laboratorio per far vedere i suoni

I cambiamenti nell’universo cromatico

The Vinyl Room

Il teatro dei colori

Nella intensa e vivacissima necessità di comunicare per codici e simboli tipica delle cosiddette culture “alternative” degli anni Settanta la musica pop e rock, affermandosi come fenomeno non solo musicale ma anche e soprattutto culturale e sociale, ha giocato un ruolo fondamentale per una generazione che cercava una drastica rottura con il passato.

L’universo monocromatico del bianco e nero, che era stato segno di povertà, ma proprio per questo standard generale, fino agli anni Sessanta, viene definitivamente emarginato dai rotocalchi, dalla televisione (dopo lunghe resistenze) e dal cinema: dove assume presto valore di culto, segnale un po’ snobistico di cinefilia. Con la TV a colori arriva un cromatismo nuovo, fatto di tinte che non esistono in natura, non “illuminate dalla luce” ma “fabbricate dalla luce”: gli stessi colori che poi saranno propri dei videogame, e dei computer. Negli stessi anni si saturano le tinte come mai si era osato prima, ma allo stesso tempo si gioca sulla sfumatura esasperata, sul beige, sul flou, come a voler moltiplicare gli effetti di illusione ottica; si gioca sul colore caldo (il rosso, l’arancio, il giallo) ma allo stesso modo si elettrifica il freddo del blu, come a inseguire il luccichio degli schermi catodici. Più che un arcobaleno, un caleidoscopio, da attraversare e non solo da vedere, per riconoscere le radici di un universo sensoriale che è ancora il nostro.

L’album in vinile, con la sua preziosa copertina in cartone dalle generose dimensioni, diventava infatti matrice e incrocio di sperimentazione di arti diverse, di innovazione e rivoluzione, di eccessi e genio creativo, interpretando e spesso anticipando le pulsioni e le contraddizioni di quel periodo. La rottura delle regole, delle tradizioni e dei linguaggi ha dato un impulso straordinario alla libertà creativa e alla provocazione stilistica di tanti giovani artisti. Il 5 Agosto del 1967 usciva in Inghilterra il primo album dei Pink Floyd: The Piper at the Gates of Dawn. Nel 1968 un loro compagno di scuola, il designer e fotografo Storm Thorgerson, fondava con Aubrey Powell HIPGNOSIS, uno studio di grafica, design e fotografia che immaginava e realizzava copertine di rock music nel segno di una definitiva e totale rottura di ogni schema, come la musica che illustrava. I nomi che si sono rivolti al suo genio sono ormai storia: Genesis, Led Zeppelin, Paul McCartney, Nice, Black Sabbath e molti altri. Destinato a cambiare radicalmente il concept delle copertine dei dischi, HIPGNOSIS sarà il laboratorio visivo a cui si devono immagini che sono ormai memoria collettiva di una stagione irripetibile. Luigi Pedrazzi e Storm Thorgerson

Peppino Ortoleva

Archeologia dello sguardo ludico

La consolle dei videogiochi Quando sono nati i videogiochi? È difficile dare una risposta: c’è da destreggiarsi tra ricercatori e studenti, tra oscilloscopi e ingombranti calcolatori nascosti in un qualche campus americano. Origini distanti, lontane dagli orizzonti delle persone comuni e dal loro modo di divertirsi.


Fino agli Anni Settanta. Fu proprio in questo decennio, infatti, che i videogiochi trovarono il modo di crescere, evolversi e diffondersi. Con i cabinati e le prime console casalinghe divennero un’industria e mossero i primi passi tra i colossi dell’intrattenimento e della cultura, tra curiosità e pregiudizi. Si misero in relazione con il proprio tempo, ritrovando nell’immaginario collettivo le suggestioni dello sport, della fantascienza e del giocare alla guerra, fino a raggiungere il pathos del racconto. Nel corso di un decennio di avventure, posero le basi di quello che oggi è un panorama maturo, capace di offrire contenuti diversi a pubblici diversi. Per questo, la domanda più interessante non è tanto “quando sono nati i videogiochi?”, ma “cos’è successo, poi?” Fabrizio Vagliasindi

Scrittura del malessere e suoni del disagio

Gli stadi della musica Inevitabile la definizione per opposizione: antagonismo, alternativa, indipendenza, contro. Il percorso della musica innovativa durante i ‘70 corre sul binario parallelo e mai convergente a quello della musica commerciale, del Tuca Tuca, di Richard Clayderman e Papetti, ovvero il suono debole che mantiene prevalenza e continua a soggiogare i favori dei grandi media. Eppure il pop innovativo (con le sue contaminazioni) non è più esperimento, ma rappresentazione: non più una fun music come nei ‘60, non più esercizio psichedelico. Piuttosto scrittura del malessere, dell’ansia di cambiamento, del disagio occidentale, soprattutto di un’estetica nuova, raffinata e seducente. Dal Bowie-alieno che si suicida artisticamente sul palco di Hammersmith, all’ossessione per

i significati dei nostri cantautori, fino alla morte di Sid Vicious e alla nascita di Mtv e della musica che va verso la visione (congedandosi dal rituale dell’ascolto): il pop vive il suo decennio più importante e rappresentativo. Tocca l’apice di narratività giovanile, diviene descrizione di una condizione e della scia di sogni che si lascia dietro. Stefano Pistolini L’opera Cappella Seventina è di Matteo Guarnaccia

Le radio libere negli anni dei movimenti

La strada e lo studio Con la fine del monopolio RAI, la radio assume tra il 1975 e il 1980 compiti del tutto inediti. Diviene, insieme, la voce pubblica dei movimenti e uno dei principali motori della loro crisi. Dà voce alle istanze collettive più eterogenee, e insieme accoglie le confessioni e le richieste di tanti, che nel silenzio delle relazioni personali trovano almeno per un attimo un ascolto pubblico. Le radio libere, e le prime radio commerciali, negli anni Settanta sono sempre e rigorosamente live. Le voci che arrivano dal telefono si mescolano di continuo con la musica del giradischi azionato fisicamente e in diretta dal DJ, e con i reportage in simultanea dalla strada. Lo studio, messo insieme generalmente con materiali improvvisati, non fa tanto da filtro quanto da mixer e amplificatore. Le cronache di Radio Popolare, nel 1978, scandiscono in modo emblematico, dai primi giornali radio straordinari alla “diretta” della grande manifestazione dei funerali, le giornate di mobilitazione seguite all’assassinio, il 18 marzo, di due militanti di estrema sinistra: Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Fausto e Iaio). Peppino Ortoleva


Il bar italiano, prima dell’era dell’happy hour

Muri sfondati e sguardi proibiti

Il luogo della socialità

Le sale del cinema

Non quel bar, ma un bar. Non un locale realmente esistito e diligentemente ricostruito. Piuttosto, un idealtipo di bar: un paradigma di quello che erano i bar dell’immensa provincia italiana, nell’era in cui il flipper non era ancora stato soppiantato dal rito mondano dell’happy hour, e prima che i tagliandi del gratta-e-vinci sfrattassero malinconicamente le schedine del Totocalcio.

La palla che sfonda il muro della stanza di Prova d’orchestra di Fellini (1979) rappresenta in modo emblematico le condizioni caotiche e l’esigenza di rinnovamento del cinema italiano alla fine d’un decennio in cui, accanto a esaltanti manifestazioni di creatività, ai trionfi a Venezia, Cannes, Berlino, Los Angeles, al ricambio generazionale in atto, con l’apparizione sulla scena di Moretti, Benigni, Amelio, Avati, Giordana, Troisi, Verdone… si piange la scomparsa di Visconti, De Sica, Rossellini, Germi, Pasolini e si assiste a un’irreversibile emorragia del pubblico in sala.

Allora, negli anni Settanta, prima dell’arrivo dei Centri Commerciali, prima della proliferazione suburbana dei megastore, i bar erano ancora uno dei principali luoghi di socializzazione degli italiani. Dei maschi, per lo più, giacché le donne li frequentavano poco. Ma i maschi – dai ragazzini in fuga dalla scuola ai pensionati carichi di ricordi – ci passavano ore e ore al giorno. Per giocare al biliardo o a Scala 40, per farsi il cicchetto o per parlare di donne e di sport. Lì la comunità metteva in scena se stessa, i suoi riti di appartenenza e di rappresentanza. La mia scelta è stata quella di ricostruire uno di questi bar, così come riaffiorava nella mia memoria e come era documentato dalle immagini del tempo. Tutti i materiali impiegati – dal bancone alle bottiglie esposte – sono rigorosamente d’epoca. Solo lo sguardo che ha guidato la ricostruzione non lo è, e appartiene inevitabilmente all’oggi. Giancarlo Basili

Nell’arco di un decennio, come in uno spettacolo pirotecnico, si celebrano i fasti e la morte di molti generi popolari, dal film politico al western, all’horror al poliziottesco. La maggior parte dei registi preferisce non interrogarsi sugli anni di piombo e volge lo sguardo al passato, piuttosto che tentare di decifrare gli enigmi del presente. Basti pensare ai film di Rosi, Zurlini, Bellocchio, Bolognini, Pasolini, Montaldo, Lizzani, Scola e a Opere Mondo come Amarcord di Fellini, L’albero degli zoccoli di Olmi e al grande affresco di Novecento di Bertolucci. In questi anni la censura celebra per l’ultima volta i suoi fasti, mandando al rogo l’Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e condannando il Salò di Pasolini per poi chiudere un occhio, di fronte al voyeurismo adolescenziale dei film in cui si contemplano dal buco della serratura le nudità tutto sommato innocenti, in attesa dell’avvento dell’era delle luci rosse. Gian Piero Brunetta


Dalla videoausterità alla videoabbondanza

La caverna catodica Gli anni Settanta della televisione italiana sono segnati da tendenze contrastanti, tra l’austerità e l’abbondanza, tra il sogno di un video “liberato” e il trionfo del sistema commerciale, tra il persistere di un progetto di egemonia cattolica e la caduta di ogni barriera anche di buon gusto. Ce lo mostra un album di famiglia che non si limita a riproporci ritagli e souvenir, ma ci costringe a soffermarci davvero sulle immagini. Fino al 1976 il bianco e nero rimane obbligato, a differenza da quanto accade ovunque in Europa occidentale, per una scelta politica in nome del rigore; in quell’anno la caduta del monopolio porta con sé decine di canali nati tutti insieme, tutti a colori, con pochi soldi ma capaci di attirare subito i potenziali investitori pubblicitari. Lo stesso mezzo che fino al 12 maggio 1974 era stato il propagandista massimo del fronte antidivorzista vede l’esordio quattro anni dopo di uno spettacolo che fa notizia in mezzo mondo, lo strip tease delle casalinghe. A differenza che per la radio, non si parla mai di TV “libere”, solo di TV commerciali: l’inizio di un’avventura, e di una success story, tutta italiana. Peppino Ortoleva

Simboli, loghi e identità

Il tempietto del sacro e del profano In una celebre campagna pubblicitaria degli anni Settanta, una nota azienda produttrice di liquori usava l’icona di Mao-Tse-Tung per vendere e promuovere un proprio amaro: l’ideologia e la merce fuse in

un’unica immagine come strategia di comunicazione privilegiata per intercettare i sogni e i bisogni della generazione dei “figli di Marx e della Coca-Cola”. Ma tutto il decennio è una selva di simboli e loghi che si mescolano e si sovrappongono, in una spregiudicata mistura di “sacro” e “profano”. Da un lato la falce e martello e la svastica, il simbolo femminista e quello pacifista, il pugno chiuso formato dalla scritta “lotta continua”, la bandiera rossa che garrisce al vento. Dall’altro lato il logo del Mulino Bianco e quello della Gomma del Ponte, la mela della Vespa e le natiche generose dei jeans Jesus. Equivalenti, fungibili, ubiqui. Gli uni come gli altri dispensatori di identità, o nella forma relazionale dell’appartenenza o in quella protoedonista del consumo. E’ lì, nel decennio frettolosamente liquidato come quello degli “anni di piombo”, che il simbolico scivola a poco a poco nell’immaginario, si consustanzia ad esso, e cessa di porre a chi lo usa l’interrogazione sul suo senso. Lì il logo prende il posto del simbolo, e ne fa una variante del brand. Non lo si vide, allora, questo processo. Lo si vede ora, guardando a quegli anni con le lenti dell’oggi. Questa installazione vuole alludere – non senza un non celato intento provocatorio – a quella/questa mutazione. Le sententiae di Marcello Marchesi in lingua neonlatina (dal libretto Sancta publicitas, 1970) offrono al tutto il necessario e opportuno controcanto ironico. Come in una sorta di “montaggio delle attrazioni”. Gianni Canova


Buchi neri I - Pier Paolo Pasolini - 2 novembre 1975

Forme dell’uguaglianza: il corteo

Alfa Romeo GT Veloce

Tutti per uno, uno per tutti

All’inizio del 2007 ho acquistato un’Alfa Romeo GT Veloce 2000 del 1975: è la mia automobile. Per anni l’ho cercata di quel modello e di quel colore, grigio metallizzato. È identica a quella che guidava Pasolini. A più di trent’anni dalla morte la sua è una presenza tuttora scomoda, che torna a far domande, a disturbare. Pasolini potrebbe essere ancora con noi, dal 1975 la sua macchina non si è mai fermata. Continuerà ad andare in giro: ha i fari accesi, ci abbaglia ancora.

L’installazione rivisita i cortei studenteschi e operai degli anni Settanta cercando di rendere l’aspetto individuale, sentimentale e anche “ipnotico” che l’uomo-massa ha provato e prova in situazioni del genere.

Elisabetta Benassi

Buchi neri II - Aldo Moro - 9 maggio 1978

3,24 mq All’interno di una cassa di legno di 270x120x250 cm, di quelle che solitamente si utilizzano per il trasporto delle merci, sono ricavate due stanzette: una di 70x120 cm che funge da ingresso e dalla quale si accede attraverso una porta alla seconda stanza, di 200x120 cm, priva di qualsiasi apertura verso l’esterno. Le pareti sono di compensato mentre il pavimento è di linoleum grigio, le due stanze sono illuminate ognuna da una lampadina. La stanza più grande è arredata con una branda richiudibile, coperta, lenzuola, cuscino e federa, un wc chimico e una bacinella, una mensola con sopra una risma di fogli A4, una penna, una bottiglia d’acqua, un rotolo di carta igienica e del sapone. La cella è la ricostruzione in scala 1:1 del presunto luogo dove fu tenuto prigioniero Aldo Moro in via Montalcini 8. Francesco Arena

Quando il visitatore accede allo spazio, un effetto elettronico moltiplica il suo volto, trasformando il singolo in una folla composta tutta di individui uguali, che scandiscono all’unisono lo stesso slogan. Ecco realizzata la perfetta uguaglianza e unanimità del sentire che la forma-corteo spesso cercava di realizzare. Mentre nella realtà gli aspetti fisici del corteo – gli odori, i rumori, i movimenti – ne facevano un’esperienza “romantica”, qui l’effetto è volutamente freddo e straniante, quasi a rivelare in vitro il meccanismo ipnotico di partecipazione e di condivisione che il corteo sollecitava in coloro che con il loro corpo consentivano al corteo stesso di prendere forma. Nello stesso tempo, l’installazione vuole essere anche un contributo alla riflessione sul rapporto fra individuo e massa in un tempo storico – l’ultimo, forse – che ha sognato di fare della massa la protagonista della Storia. Chiara Dynys


Panna, pizza e surgelati

La grande abbuffata Cibi precotti e sofficini surgelati, pizze gia’ pronte e panne omogeneizzate. E’ negli anni Settanta - con il crescente lavoro delle donne e con la rapida e irreversibile trasformazione degli stili di vita - che l’Italia entra nell’era dell’alimentazione “industriale”. Lo spettro della fame, ancora attivo negli anni Sessanta come eterno ritorno di una paura ben radicata nel passato contadino del paese, e’ ormai alle spalle. Ma il rapporto con il cibo gia’ comincia a rovesciarsi nel suo opposto: nella pratica del rifiuto, o nelle fantasie del nutrimento come autodistruzione... Gianni Canova

Narrazione, poesia, saggistica

I luoghi della parola Gli anni Settanta in letteratura cominciano nel 1969. In marzo il poeta Alfredo Giuliani scrive un lungo articolo di dimissioni sul mensile “Quindici”. Lascia la direzione di quella che in quel momento è la più importante e diffusa rivista di letteratura e politica, promossa da membri dell’ex Gruppo 63, perché la seconda, la politica, ha preso il sopravvento sulla letteratura. Molti anni dopo Italo Calvino scriverà che quel decennio sarà segnato dal prevalere, anche e soprattutto tra i comuni lettori, della saggistica politica sul romanzo e sulla poesia. Vero? Probabilmente sì. Il romanzo italiano è già di per sé un genere spurio, e guardando la produzione letteraria tra il 1969 e il 1980 si noterà che di veri romanzi ce ne sono pochi. Sono soprattutto iper-romanzi, romanzi spe-

rimentali, romanzi-saggio, antiromanzo, ecc. La lista è lunga. Eppure, se si rivede con occhio critico tutta la produzione di quel lungo decennio, si scopriranno molte opere importanti, dalla narrativa alla poesia – di cui i Settanta sono l’indiscusso laboratorio d’incubazione –, dal testo di studio al saggismo vero e proprio. Sulle pareti di questa stanza sono incollate le prime pagine di quei libri, i più importanti – una scelta personale e forse opinabile. Il primo criterio è quello del libro: opere pubblicate tra il 1969 e il 1980. Sono gli incipit di testi poetici, narrativi, saggistici e, in un caso almeno, teatrali. Non le copertine o i frontespizi, bensì le parole, quelle che il lettore dell’epoca si trovava davanti una volta aperto il volume, dopo essersi messo seduto per leggere, o invece in piedi, per carpire la seduzione che promanava dal titolo, o seguire la curiosità legata al nome dell’autore. Parole sulle pareti e parole al centro. Lì ci sono le immagini e le parole di alcuni di questi autori. Per necessità di numero, ma anche per la difficoltà a reperire documenti televisivi dell’epoca (di molti scrittori o poeti non ci sono immagini coeve) sono 12 autori soltanto. Una scelta limitata, ma penso ugualmente efficace. Parole silenziose – pagine a stampa – e parole sonore: voci che si susseguono. Un autore (o un gruppo di autori) per ogni visore. Gli anni Settanta si chiudono nel 1980. Subito dopo Se una notte d’inverno un viaggiatore, (1979), l’iperromanzo di Calvino, tutto composto di incipit, “bestseller di qualità”, e Lunario del paradiso (1979) di Gianni Celati, primo libro giovanilista, e non solo, arrivano i tre libri che chiudono quel decennio così complesso, anche in letteratura: Il nome della rosa di Umberto Eco, “best seller di qualità”, grande successo internazionale; Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, libro scandaloso, che inaugura la “letteratura gio-


vanile”, insieme a Boccalone di Palandri, uscito un anno prima; e Ora serrate retinæ di un altrettanto giovane poeta romano, Valerio Magrelli. Un anno prima, in sintonia coi tempi, è uscita “Alfabeta”, la rivista che ha tra i redattori anche numerosi collaboratori di “Quindici”. Sarà la rivista di dibattito letterario più diffusa e più autorevole degli anni Ottanta, ma senza la politica in primo piano. Il decennio è giunto alla fine. Marco Belpoliti

Visibili, invisibili, diversi, stranieri

Corpi dell’arte, corpi nell’arte

re nuove configurazioni di problemi. Capacità di cui l’intenzione poetica rivendica l’inattualità e, dunque, l’eccedenza sul presente. Artisti che non rappresentano ma sperimentano, che non giudicano ma affermano. Una tendenza del “divenire invisibile”, che ignora, ad un tempo, sia il gesto estremo che l’inutile apologia della trasgressione. Una concezione del mondo prende le mosse da una diagnosi della realtà quotidiana che appare, al di là della sua complessità di situazioni e mutazioni, inguaribilmente sfregiata dal negativo. La creazione artistica come necessità vitale. Se non si inventassero parole, opere e sequenze, nuovi giochi e nuove storie, il mondo rimarrebbe il luogo del giàvisto: un luogo in cui disperare. Perciò l’arte, l’arte secondo me. Francesca Alfano Miglietti (FAM)

Una selezione di opere pensate come confini, una selezione di squarci, di corpi, di divieti, di rivolte, e di potenze dalle quali si estrae una storia, il percorso di uno sguardo che esplora lo spazio in quanto visione.

Anni di “piombo”

I corpi dell’arte…quelli che c’erano e quelli che ancora non c’erano…

Interno notte. Odore di piombo. Passi stanchi.

Un viaggio attraverso il rapporto arte e corpo e mondo indagato a partire dagli anni Settanta. La Body-Art e l’Iperrealismo e il Punk e il Glam proiettati in bianco e nero sul soffitto della stanza, ancora presenti, ancora lì: guardando in alto. Per il contemporaneo, invece, una serie di presenze pensate come Esseri mobili, che attraversano facilmente le frontiere, che rappresentano una dichiarata diversità poetica. Una delle caratteristiche in comune degli artisti scelti è un legame stretto con la cultura della vita, la capacità che queste opere hanno dimostrato di contagiare, aprire spazi di pensiero, crea-

Press Gallery Benvenuti in tipografia. Non oggi, ma ieri, negli annisettanta, quando spuntano i computer, ma internet non è ancora un’ipotesi e la parola blog neppure un monosillabo. Pensare, scrivere, stampare un quotidiano, o un periodico, è stata - a lungo e per molti - la straordinaria avventura di squadre di uomini e donne compatte, solide, unite. Dall’alba alla notte, dalle scarpe del cronista agli zoccoli del tipografo. Risultato: una pioggia di notizie. E che notizie. Quando la tivù era solo Rai 1 e Rai 2. E quando le edicole non erano supermarket. Notizie che in questa galleria tornano a ricordarci che oggi sono, e saranno per sempre, il sussidiario della Storia d’Italia degli


annisettanta.

noi raccogliamo le forze”.

Piazza Fontana, Italia-Germania, le fughe di Vallanzasca, il golpe Borghese, Berlinguer Enrico, l’occupazione della Fiat Mirafiori. E il divorzio, l’Italicus, la morte di P.P.P., il Trattato di Osimo, il terremoto del Friuli e poi dell’Irpinia, Montanelli (prima e dopo il Corsera), Moro, l’addio di Leone e l’arrivo di Pertini, la fine di Papa Luciani e l’inizio di Papa Woytjla, l’aborto, Ustica, la strage di Bologna.

Sul finire degli anni Sessanta, comincia dunque a definirsi il ruolo del disegno come strumento teorico e il dibattito sull’autonomia della rappresentazione – ormai definitivamente slegata da ogni funzione di transito obbligato verso il cantiere – si incentra sulla possibilità di attribuire al disegno un intrinseco valore conoscitivo.

Tac tac tic. Tic tac tic. Quante macchine per scrivere… Piovono notizie, volantini, pubblicità. “E’ la stampa, bellezza”. Aprite gli ombrelli. Elena Marco

Architettura disegnata e rappresentazione

Cantieri di carta Gli “anni di piombo” furono in realtà “di carta” per l’architettura, soprattutto in Italia. Percorsa dal vento della Crisi, l’architettura degli anni Settanta si svolge, infatti, sotto il dominio della Teoria di cui la penna è il braccio armato. Il libro di Storia accanto al tavolo di progetto, più che una metafora, riflette una prassi entro cui si consuma l’ansia di una rifondazione che riposizioni l’architettura in una centralità scalzata dal primato della politica e della gestione sociale, che Manfredo Tafuri assume nella forma della critica dell’ideologia. “I do not build, because I’m an architect”. L’epigrafico paradosso di Leon Krier rimanda alla funzione dell’“architetto immaginario” teorizzata da Bruno Taut nel clima incandescente dell’espressionismo postbellico: “L’attività professionale mi disgusta […]. Detto con franchezza, è proprio giusto che oggi non si costruisca. Così le cose possono maturare, mentre

La strada tuttavia non è univoca e, attorno al neorazionalismo della “tendenza” santificato da Aldo Rossi nella XV Triennale del 1973, si agglutina la densa galassia di una “gläserne kette” i cui adepti, pur riconoscendosi in comuni presupposti –, si comportano piuttosto come battitori di poetiche individuali. La chimera di un’architettura “autonoma” – dal sociologismo urbanistico, dallo psicologismo e dalla tradizione moderna della “funzione”, ecc. – si presta, infatti, a molte declinazioni, dal rigore “oggettuale” di chi considera l’architettura come un codice fondato sulla logica delle regole all’autobiografismo di chi usa il foglio come sfondo per la messa in scena dei meccanismi onirici della memoria. Il fattore “D” ha condizionato fortemente il destino di più di un decennio di architettura italiana ed è stato anche, insieme alla vasta produzione teorica, l’ultimo importante contributo progettuale dell’Italia al dibattito internazionale. Fulvio Irace

I disegni di architettura di Aldo Rossi negli anni Settanta

La casa lontana “La casa lontana” è il titolo di questa installazione pensata per contenere alcuni bellissimi disegni di


architettura di Aldo Rossi fatti negli anni Settanta. Una casa schematica, con tetto a due falde, piccola e intensa, la citazione di un freddo tempietto rossiano. E dentro di essa un corpus di disegni fra i più importanti e suggestivi della “architettura disegnata”. Disegni caldi, molto caldi, con colori arancio, giallo, rosso, nero e azzurro, ad infuocare con ombre, luci e tramonti le monumentali scenografie del suo mondo “pensato”. Scheletrici graffi e grafie nere per rivisitazioni romantiche di vie, piazze, statue, silos e ciminiere come Sironi e come De Chirico. La “lontananza”: è una delle suggestioni che sempre mi ha colpito nella poetica di Aldo Rossi. Ovvero lo scarto metafisico del senso delle sue immagini rispetto al caos del mondo reale, e l’evocazione di scenari in attesa, lontani, immobili e silenziosi, dove esistono quella arcadia e quella pace che oggi si pongono solo come miraggi. Disegni, cioè, di miraggi architettonici. Un coinvolgimento nelle geometrie e nei colori delle proto-forme dell’architettura, assunte come garanzia di collegamento con la profondità della storia. Garanzie reperite anche nei materiali e nelle tecniche proposte, anche esse basiche e lontane, così distanti da risultare incontaminate e purificate, come partecipi della geografia dei mondi e della costa terrestre. Lontananza fuori dall’iper-realismo del tempo corrente, ma invece dentro alla misura senza mutamento della grandiosità dello spazio. Leggo in questa ottica l’eccezionale sequenza dei disegni di Rossi, espressi come un continuo, autonomo ed intimo intreccio compiuto attraverso, sopra e assieme ai suoi amati e spartani spazi architettonici realizzati. Ricordo quando chiesi ad Aldo di disegnare una caffettiera. Pure quella occasione innescò in lui un forte innamoramento, che diede luogo a tanti schizzi con skyline di città lontane e solitarie, prive di persone, protette da visionarie enormi caffettiere fatte come cupole, come oggetti-colosso, basici, potenti e misteriosi. Il piacere e il desiderio, impossibile nel reale, di vedere nell’astratto compiersi la propria

urbanistica, tradotta poi sotto forma di micro-urbanistica, di aberrazioni dimensionali, di oggetto casalingo di acciaio. E poi la “tenerezza”: un altro aspetto sub-liminale della sua opera. La caffettiera, l’orologio, il tavolo, la sedia, le cabine dell’Elba: i ricordi classici della felicità da bambino, di una estrema e tenera spensieratezza autobiografica. Che alla fine però anche si indurisce, si trasforma e si ribalta in una rappresentazione tragica, in una nera rozza calligrafia ipnotica, quasi litografica, quasi da grafitista, in un’esigenza di terapia esistenziale. Aldo Rossi più Mario Sironi più Giorgio De Chirico più Jean Michael Basquiat? E infine il senso meccanicistico, ingegneristico e scientifico sempre presente nei suoi disegni-progetto, spesso decomposti nella stessa tavola e ricomposti sovrapponendo, in una sintesi cubista dell’insieme, piante, alzati, sezioni, vedute prospettiche e a volo d’uccello. Un metodo di sequenza, di racconto descrittivo, tanto adatto ad essere finalizzato alla realizzazione, quanto ad essere percepito come autonoma formula estetica e pittorica, come segno, teoria, organigramma di ciclopiche stereometrie piranesiane o da Jules Verne. Alessandro Mendini

La forma “graffito” del progetto

Una scenografia metamorfica L’allestimento dedicato all’architettura disegnata, la vicenda che ha caratterizzato negli anni Settanta del secolo scorso il dibattito italiano, influenzando in modo significativo anche la scena internazionale, cerca di tradurre in un’immagine sintetica e fortemente comunicativa l’idea di Fulvio Irace dei “graffi-


ti”. Un’idea con la quale egli ha interpretato in termini originali un importante fenomeno, che attende ancora una valutazione storico-critica adeguata alla sua effettiva consistenza. Un fenomeno il quale, con la sua grande energia sperimentale, ha preceduto di poco la rivoluzione digitale in architettura, anticipandone alcuni esiti iconici. Evocando la “forma graffito”, Fulvio Irace ha considerato la ricerca ampia e complessa che negli ultimi anni Settanta del Novecento molti architetti hanno svolto attraverso la rappresentazione, come una narrazione collettiva intensa e continua, ispirata e stratificata. Un racconto avventuroso che si è idealmente sovrapposto alla città esistente ricoprendola di nuovi di segni, di dettagli inconsueti, di visioni sorprendenti, di frammenti figurativamente inquietanti, colmi di un autentico desiderio di cambiamento. Una città virtuale e parallela la quale, affiancandosi a quella reale, ne ha modificato radicalmente il significato. L’allestimento, ma sarebbe più appropriato parlare di “installazione”, si inserisce come un’architettura autonoma in una delle stanze della Galleria disegnata da Gae Aulenti. Quattro muri involucrano parzialmente le bianche pareti di uno degli ambienti esistenti sostenendo una copertura. Queste superfici sono ricoperte da fasce sfalsate di fotografie di disegni, ora interi, ora ingigantiti in particolari che mettono in evidenza l’individualità del tratto e le singolarità dei nessi compositivi che caratterizzano ciascuna opera. Le tavole si sommano a quelle contigue quasi confondendosi in esse, provocando una coinvolgente commistione babelica di forme, di colori e di linee. Una commistione che, più di trenta anni fa, ha senza dubbio cambiato il concetto stesso di linguaggio architettonico, proiettandolo totalmente sul piano dell’invenzione e dell’innovazione. Fa da controcanto a questa presenza conflittuale eppure, piranesianamente, “omogenea”, una copia di “progetto e utopia” di Manfredo Tafuri. Rimane da dire che questo allestimento-installazione, una “macchina visiva” che l’osservatore

mette in movimento, tempo in movimento, non è solo la riproposizione di un momento lontano della ricerca architettonica che qualcuno poteva pensare perduto, ma una “scenografia metamorfica” relativa a una stagione creativa la quale, seppure non ancora adeguatamente storicizzata, sembra ancora in grado, parafrasando un’espressione dello stesso Tafuri, di “emettere suoni”. Franco Purini

Pugni, curve, calci, ruote

Lo schermo dello sport Il tennis e lo sci divengono sport di massa negli anni Settanta. Trascinati dalle vittorie di Panatta, di Thoeni e della Valanga azzurra, sono milioni gli italiani che frequentano le stazioni invernali e inseguono una pallina sui campi in terra rossa. Nel campionato di calcio il decennio si apre con la favola del Cagliari di Riva, mentre è la Lazio di Maestrelli e Chinaglia a interrompere nel ‘74 il dominio juventino (5 scudetti in 9 anni per Causio, Furino e Bettega). Nel ’76 entusiasma il Toro dei “gemelli del gol” (Pulici-Graziani), mentre nel ’79 il Milan di Rivera agguanta la stella. Si impone il “calcio totale” olandese, ma i mondiali li vincono Germania Ovest e Argentina e l’Italia di Bearzot comincia a farsi strada. Nel ’74 Alì abbatte Foreman e ritorna campione dei massimi nella magica notte di Kinshasa. Nel ’75 Lauda trionfa in F1 e Agostini arpiona l’ultimo mondiale di motociclismo. Nel ’78 Merckx si ritira, mentre da noi esplode il dualismo Moser-Saronni. Lo sport tricolore cresce grazie alle imprese di Mennea, Simeoni, Calligaris, Dibiasi, Meneghin... Massimo Rota


Partecipazione, autoprogettazione, sperimentazione

L’agorà del design Italy. The New Domestic Landscape. Il titolo della mostra curata da Emilio Ambasz e inaugurata al MoMA di New York nel maggio 1972 coglie e sintetizza in modo lungimirante il processo di mutazione in atto nei modi e nelle forme dell’abitare: il paesaggio domestico sta cambiando e il design italiano è uno degli attori protagonisti del cambiamento. Di quell’esposizione, memorabile ed epocale, si ripropongono qui due degli episodi più significativi: l’Habitat per due persone di Gaetano Pesce (finora mai esposto in Italia) e la Kar-a-sutra di Mario Bellini (prototipo appositamente ricostruito per questa Mostra). Ma mentre il design italiano porta a New York i frutti maturi di una ricerca e di una sperimentazione iniziate parecchi anni prima, in Italia i designer si aprono – come mai né prima né dopo – ai fermenti più radicali della cultura e della società del tempo: ecco allora esplodere esperienze di frontiera come il design della partecipazione attuato da Riccardo Dalisi con gli scugnizzi del popolare Quartiere Traiano di Napoli, ecco le ricerche di Ugo La Pietra sul rapporto fra desiderio e consumo e sul riuso come strategia centrale delle pratiche di design, ecco infine le ricerche di Enzo Mari sul tema dell’autoprogettazione, unite a una pratica critica a suo modo “spietata” nei confronti dell’Istituzione Design, qui documentata con un progetto di Mostra messo a punto negli anni Settanta e mai realizzato. A unire gli episodi selezionati, pur nella loro evidente diversità, è il tema squisitamente politico della partecipazione: tutti i designer lavorano sulle forme e le figure relazionali di un mondo che sta vertiginosamente cambiando e accolgono al centro del proprio lavoro uno dei temi-chiave del dibattito politico e culturale

di quegli anni, inseguendo l’idea di un utente che sappia farsi soggetto attivo – ora sul piano fattuale, ora su quello psicologico, ora su quello progettuale – nelle pratiche di ridefinizione del paesaggio domestico come di quello urbano, ed elaborando per questa via un modo originale e non scontato di entrare in relazione con il proprio tempo, e con i suoi fantasmi. Silvana Annicchiarico

I segni della grafica

Il paesaggio dei manifesti Negli anni Settanta si verifica per la prima volta una forte divaricazione tra progetti grafici istituzionali e comunicazione alternativa. D’autore i primi, la seconda invece che nega l’istituzione e rimanda ad altri modelli. In quegli anni il manifesto era una figura del paesaggio urbano: un nastro affisso ad altezza d’occhio sui muri della città, complice, poetico e civile. I manifesti degli anni Settanta richiamavano il lettore, lo sollecitavano con figure, in un movimento centripeto verso il dettaglio e il testo, come un infinito giornale murale. Ho deciso di invitare allora dei grafici a lavorare su un unico progetto: ridisegnare il manifesto da affissione degli anni Settanta. Alcuni degli invitati sono stati tra i protagonisti di quegli anni e altri sono più giovani, allora in formazione o non ancora nati. Il risultato della mia chiamata è oggi in mostra: una ricostruzione a sorpresa e d’occasione di quel nastro. Unico vincolo per tutti: titolo e sottotitolo di questa mostra. Il resto è libero, come nei ‘70 io ho vissuto. Mauro Panzeri


Dopo l’arte povera, prima della transavanguardia

Le fabbriche del bello L’arte italiana degli anni Settanta è compresa tra due movimenti che hanno fatto la storia della visione contemporanea. Nel 1967 Germano Celant fonda il gruppo dell’Arte Povera, la cui fase germinale e movimentista farà provocatoriamente terminare nel 1970: se i primi testi/manifesti parlano di “guerriglia”, legandosi così a doppio filo con il movimento del ’68, soprattutto all’infausta teoria che per decenni ha privilegiato l’appartenenza al merito, gli sviluppi evidenzieranno formule miranti più alla presa del potere e al riconoscimento istituzionale. Nel 1979 Achille Bonito Oliva insieme a cinque giovani artisti dà vita alla Transavanguardia: è il clamoroso “ritorno alla pittura” dopo quasi vent’anni di pratiche concettuali, l’apoteosi del postmoderno, l’ipotesi di revisione nomadica del passato e della storia. In mezzo passano, spesso sacrificate dalla potenza di questi due colossi, alcune tra le esperienze “singole” e individuali più interessanti dell’arte italiana. Filo che le unisce, nonostante le differenze formali ed espressive, una sottile ricerca del bello per molti versi in contrasto con la politicizzazione di body art, performance e di tutto il filone movimentista lanciato negli anni Sessanta. La sezione si apre idealmente con una serie di Paesaggi TV di Mario Schifano, realizzati nel 1970, prima fascinazione del pittore romano, già protagonista con i Monocromi, di fronte alle seduzioni della nuova tecnologia. Seppur legato all’esperienza dell’Arte Povera, Alighiero Boetti nel 1972 viaggia lontano, e la Mappa testimonia il desiderio di comprendere il mondo, capirlo catalogandolo. Alcuni artisti tendono verso immagini elusive, evocative, raccontate attraverso una serie di gesti minimi, persino impercettibili, a lungo influenti nelle generazioni successive:

da Pier Paolo Calzolari a Marco Bagnoli fino a Remo Salvadori, la leggerezza del pensiero si coniuga alla consapevolezza fisica dello spazio. Velocità, perfezione, luce: c’è del Futurismo nei veicoli di Gianni Piacentino, nei modelli aerei di Maurizio Mochetti, nella grande scritta al neon di Maurizio Nannucci, tensione avanguardista che trova, finalmente, la possibilità di reificarsi in un oggetto bello, lussuoso, prezioso, esclusivo. Sempre di più l’arte abbandona la speculazione pura e semplice e si pone il problema della tradizione. Salvo “torna” a dipingere, rivedendo la lezione dei manieristi e correggendola con i toni zuccherosi ereditati dalla Pop; per Luigi Ontani la performance è occasione di narcisismo e ipercultura, non c’è più niente che faccia pensare ad azioni cruente, politiche, violente, a ciò che esiste nella realtà, ma solo puro inseguire la bellezza. Addirittura Antonio Trotta, nel 1977 con L’artefice, si riappropria della scultura con fare artigiano, non citazione dell’antico ma affermazione di un principio che vorrebbe la fine della dittatura del minimalismo, la sconfitta di un’arte spersonalizzata e distante. Per finire con il grande dipinto Ma Fleur di Nicola De Maria (1979), anticipo della nuova stagione di segni e immagini, speranza di un futuro migliore fatto di poesia, di fede e di pittura. Luca Beatrice

Cannibali, frigidi, malefici, politici ed erotici

Le spirali del fumetto 1976-1980. Aria altra. Aria di rivoluzione. Il siero della verità di Pentothal. La gioventù Cannibale assai prima che (e un po’ prima di Pentothal). Il fuoco del


Male. Il chill-out di Frigidaire. L’arte maivista che verrà. Stefano Tamburini con Massimo Mattioli, poi Andrea Pazienza e Filippo Scòzzari, poi (un po’ più poi) Tanino Liberatore. [E Vincenzo Sparagna.] Cinque uomini [più uno] e cinque anni (più qualche mese) per sconvolgere il mondo del fumetto (e il fumetto del mondo, via) sub specie aeternitatis. New Wave e nuovi dei. Poca ideologia, molta politica. Hobby psicotropi pericolosi. Ingressi flash nel Mito. Prima di loro: poco. Dopo di loro: troppo. Onda lunghissima, infinita. A margine del loro impero: Alan Ford nei fumetti in tivù-ù-ù-ù. E la magnifica invasione dal basso dei pocket erotici: innocenti evasioni clandestine, palestra d’immaginari e segni prima dell’hard omologatore. E l’empireo dei super-eroi Marvel, coi super-problemi dell’uomo comune. Tipo, prima pagare. E poi. Filippo Mazzarella

La vetrinizzazione del mondo

Fiorucci Land “Un cronista più che un creatore”. Così, Enzo Biagi definì Elio Fiorucci che nel ’67 aveva aperto a Milano in piazza San Babila un negozio di moda/antimoda: la fine del diktat calato dall’alto degli atelier. Ma oltre alle zeppe, al tanga e al monokini, da questo “luogo non comune” sarebbero scaturiti fenomeni di costume trasversali come la disco e l’etnico. Idee scovate in ogni parte del pianeta, come fanno oggi i cool hunter, e importate nel primo punto vendita, dove il mondo si è vetrinizzato. Nel ’74, quando allo spazio di San Babila si aggiunge quello di via Torino col ristorante, il book shop, lo spazio-casa, il corner per i dischi d’importazione e l’antique market precursore del vintage, prende definitivamente forma l’archetipo dell’attuale concept

store. Pertanto, in questa istallazione non si trovano vestiti e accessori, ma un mondo di idee: la “Fiorucci land” che con un linguaggio ludico ha scardinato innanzitutto i comportamenti. Le stanze che seguono presentano una sequenza di immagini: lo Studio 54, Warhol, Interview, Madonna, Basquiat, Keith Haring; “semi”, segni e personaggi dell’universo Fiorucci da mescolare e rimescolare. O - se preferite - una serie di figurine da cambiare e scambiare per la circolazione delle idee. Che volano già nelle scritte dei neon sul soffitto. Gli oggetti? Sono esposti solo per dimostrare che nella “Fiorucci land” l’idea in movimento e il movimento delle idee hanno sempre vinto sulla statica del prodotto materiale. Mentre la logica della pluralità ha preso il posto della singolarità dei pezzi unici, elevando le merci a pop art. Non a caso, Basquiat scrisse: “Da Fiorucci tutto e niente veniva considerato arte”. Il concetto della condivisione ha rivoluzionato anche le dinamiche creative: non più frutto del couturier accentratore, ma di una squadra multiforme con cui ha sempre lavorato Fiorucci e nella quale campeggia la figura di Tito Pastore. A questo team dal quale sono passati, tra gli altri, Gianfranco Ferrè, Vivienne Westwood, Enrico Coveri, Franco Moschino e Oliviero Toscani, è dedicato un grande collage. Il “gioco” prosegue sino a metà degli Anni Ottanta con le immagini di Keith Haring che ricopre di graffiti il negozio di Milano. Perchè, neanche la nascita degli stilisti e del conformismo griffato fermeranno il fioruccismo. E solo il futuro potrà svelarci quante volte ancora la “Fiorucci land“ si rivelerà straordinariamente attuale. Gianluca Lo Vetro


I SERVIZI DIDATTICI In occasione della mostra dedicata agli anni Settanta, Ad Artem, in collaborazione con La Triennale di Milano, ha progettato una serie di proposte didattiche, differenziate in base alle diverse tipologie di utenza.

LE OPPORTUNITA’ DIDATTICHE - Visita laboratorio per scuole primarie e secondarie di primo grado (90 minuti) - Visita interattiva per scuole secondarie (90 minuti) - Visita guidata “classica” per scuole secondarie di secondo grado e gruppi di adulti (90 minuti)

VISITE INTERATTIVE E VISITE LABORATORIO Un breve viaggio negli anni settanta: valigia, mappe, diario di viaggio e cartoline Attraverso le stanze della mostra, i ragazzi realizzeranno un proprio breve ma intenso viaggio dotati di Valigia delle Riflessioni, Cartoline di viaggio e Mappe per non perdersi. Alla fine del rutilante itinerario, potranno decomprimere e ricostruire il proprio percorso manipolando, creando, congetturando nello spazio didattico situato al termine del percorso espositivo. Il “bagaglio” esperienziale dei giovani visitatori potrà così sedimentare e approdare alla creazione dei propri personalissimi anni ‘70. Usando strumenti ispirati ad anni che potrebbero risultare già così lontani, i “viaggiatori” scopriranno che linguaggi, gusti, estetiche del contemporaneo sono frutto di una stratificazione che non può prescindere da quel decennio lungo del secolo breve.

WORKSHOP PER STUDENTI DAI 16 AI 18 ANNI Per gli studenti degli ultimi anni delle scuole secondarie di secondo grado che avranno già effettuato la visita della mostra, sono previsti tre workshop tematici, ciascuno della durata di 4 ore, che verranno realizzati nel Salone d’Onore al primo piano. La proposta vuole coinvolgere insegnanti e studenti in modo attivo, per sviluppare alcuni temi chiave del decennio lungo del secolo breve. Esperti della divulgazione culturale presenteranno i temi dell’incontro e seguiranno la realizzazione degli eventi; tutto dovrà svolgersi in modo veloce e dinamico; gli esiti del lavoro verranno subito presentati alla collettività presente. Verranno scelti differenti linguaggi espressivi con i quali dovranno essere raccontati, di volta in volta, alcuni episodi storici del decennio. - 24 gennaio 2008 Workshop teatrale - 14 febbraio 2008 Workshop del fumetto - 13 marzo 2008 Workshop giornalistico

INIZIATIVE PER FAMIGLIE CON BAMBINI DI ETA’ COMPRESA TRA I 6 E I 14 ANNI Ogni prima domenica del mese, a partire da dicembre, alle ore 15:00, sono previste visite laboratorio riservate alle famiglie con bambini (2 dicembre 2007, 6 gennaio 2008, 3 febbraio 2008, 2 marzo 2008). Un’opportunità divertente per fare un viaggio negli anni ’70 insieme ai propri figli.


INIZIATIVE PER SINGOLI VISITATORI Tutte le domeniche di apertura, alle ore 16:00 visite guidate alla mostra.

CATALOGO MOSTRA annisettanta Il decennio lungo del secolo breve

Per informazioni e prenotazioni: Ad Artem 02 6597728 info@adartem.it

a cura di: Marco Belpoliti, Stefano Chiodi e Gianni Canova

www.adartem.it

supporto tecnico:

Gli anni Settanta attraverso un originale e ricchissimo lemmario comprendente ben 140 voci. Il decennio viene indagato attraverso le parole-chiave (viaggio, corpo, conflitto, corteo, performance…) e le figure emblematiche (Moro, Pasolini) tutte affidate allo studio di personalità e autori di primissimo piano. In questo modo vengono analizzate le contaminazioni fra i vari linguaggi in relazione a quanto gli anni Settanta hanno espresso nel cinema e nella letteratura, nel design e nella musica, nell’arte figurativa e nel fumetto, nel teatro e nella moda, nel sistema mediatico, in quello politico e in quello tecnologico, nella comunicazione e nello sport. A differenza di altri periodi della storia recente ormai metabolizzati dall’immaginario collettivo, gli anni Settanta continuano a suscitare passioni, polemiche e discussioni. Caratterizzati da violenza e sopraffazione, dalla nascita della società dello spettacolo e del “romanzo di formazione” di quella che è oggi la classe dirigente. Un decennio lungo, quindi, per le profonde radici che affondano nell’ultima parte degli anni Sessanta e per le ombre che dagli anni Ottanta si proiettano sul nuovo millennio. 2007, 20,5 x 26,8 cm, 256 pagine 233 colori, brossura isbn 978-88-6130-175-7, ¤ 38,00


LEMMARIO 10:25 (bologna ‘80) apollo 11 a/traverso aborto ai alfa romeo gt alice alieni allonsanfan altra grafica (l’) amore anima mia animalità animazione architettura disegnata argentina asilo audio (arte) austerità aut aut autonomia operaia autore autunno caldo avanguardia balena bianca beaubourg beni culturali best seller bisogni (teoria dei) black out black panthers body art boia chi molla brigate rosse bronzi di riace calcio totale caldo/freddo calusca cannabis cantautori caos/caso carcere cartone casa caso moro castelporziano cattolici censura centri sociali centro storico charta 77 ciclostile cile cina cineforum cinema underground cl clandestinità collettivo coloranti colori comico complotto comunità conflitto contratti corpo corteo crimine crimini crisi petrolifera cuore dello stato curve dams ddr design sociale differenza dissenso cattolico diversità divorzio dollaro drughi ecologia edipo/antiedipo editoria effimero erba voglio etere eroina eskimo esposizioni fabbrica fantasmi fantozziano fioruccismo fotografia (arte) fotografia (politica) frigidaire fughe fuori! gay giornalisti giovani glam rock grafica grande avanzata grande vecchio gratis grises gruppi guerriglia semiologica hobbit identità (dell’artista) immagine coordinata immortalità indiani metropolitani inflazione intellettuali (francia) io/noi israele istruzioni italiani laboratorio land art lavoro las vegas-new york letteratura femminista (italia) letteratura femminista (internazionale) liberazione (teologia)

libri d’artista lirico madri maestri maestro maggioranza silenziosa manager manicomio manifesti medioevo megastruttura memoria merda metà (l’altra) metodo microfisica midi miniassegni mode morti mostra mostri movida muri musicassetta neoborghesia neofascismo new domestic landscape new hollywood nofuture now nuovo cinema tedesco off site olimpiadi operai operazione condor oriente osaka p38 padova palma papi parco lambro pensiero negativo pentothal performance photomatic pianoforte piazza piombo (anni di) plastica poesia poliziottesco polvere porno ppp pubblica utilità punk prefabbricati presentazione prêt-à-porter processi pubblicità pugni r4 radical design radicali radio alice razza padrona realismo magico re nudo religioni rft ricordo rifiuto riflusso rivoluzione culturale rivoluzione dei garofani rivoluzione iraniana rizoma romanzo sabato sera sacco a pelo samizdad sangue scioglimento sentimenti servizi segreti sesso settantasette seveso socialisti solidarnosc stammheim statuto dei lavoratori storia strage struttura sudamerica surgelati tensione (strategia) terremoto terrunciello testualità trash underground utopia vagabondi valanga azzurra videogiochi vietnam visibile/invisibile visione vittimizzazione volantino walkman watergate weather underground zampa zeppe zona


PER IL LEMMARIO ANNISETTANTA HANNO SCRITTO Mario Abis, Alberto Abruzzese, Matteo Agnoletto, Silvana Annicchiarico, Franco Arminio, Gianni Baget Bozzo, Claudio Baglioni, Eva Banchelli, Mario Barenghi, Marco A. Bazzocchi, Luca Beatrice, Marco Belpoliti, Edmondo Berselli, Silvia Berselli, Bifo (Franco Berardi), Piero Bianucci, Matteo Bittanti, Giorgio Boatti, Riccardo Bocca, Guia Boni, Achille Bonito Oliva, Aldo Bonomi, Andrea Branzi, Gian Piero Brunetta, Manlio Brusatin, Riccardo Caccia, Mario Calabresi, Maria Josè Calvo Montoro, Ferdinando Camon, Mara Campana, Gianni Canova, Toni Capuozzo, Gabriella Caramore, Salvatore Carrubba, Bruno Cartosio, Alberto Castoldi, Francesco M. Cataluccio, Gianni Celati, Pierluigi Cervellati, Guido Chiesa, Stefano Chiodi, Fabio Cleto, Vanni Codeluppi, Piero Colaprico, Paolo Collo, Aldo Colonnetti, Giovanni Cordoni, Andrea Cortellessa, Paolo Del Debbio, Maria Teresa Di Marco, Giuseppe Di Napoli, Luca Doninelli, Umberto Eco, F.A.M. (Francesca Alfano Miglietti), Lucia Farinati, Luisella Farinotti, Fabio Fazio, Gianni Ferrari, Maurizio Ferraris, Davide Ferrario, Enrico Franceschini, Ernesto Franco, Claudio Franzoni, Maria Luisa Frisa, Giuseppe Furghieri, Stefano Gallerani, Grazia Giannichedda, Daniele Giglioli, Elena Gipponi, Romy Golan, Wlodeck Goldkorn, Elio Grazioli, Gabriele Guercio, Fulvio Irace, Ugo La Pietra, Cornelia Lauf, Nicoletta Leonardi, Gianluca Lo Vetro, Sergio Luzzatto, Teresa MacrÏ, Raffaele Manica, Elena Marco, Massimo Marino, Gianfranco Marrone, Alberto Martinelli, Arturo Mazzarella, Filippo Mazzarella, Lea Melandri, Alberto Melloni, Rocco Moccagatta, Antonio Moresco, Franco Morganti, Francesco Moschini, Maria Nadotti, Gabriele Neri, Peppino Ortoleva, Nunzia Palmieri,

Mauro Panzeri, Alberto Papuzzi, Felice Pesoli, Marco Philopat, Mario Piazza, Tommaso Pincio, Stefano Pistolini, Oliviero Ponte di Pino, Mario Porro, Franco Purini, Massimo Raffaeli, Davide Rampello, Luca Rastello, Marco Restelli, Luca Ronconi, Christian Rocca, Massimo Roccas, Gianni Rossi Barilli, Massimo Rota, Pier Aldo Rovatti, Francesco Rutelli, Farian Sabahi, Severino Salvemini, Giuliano Scabia, Domenico Scarpa, Tiziano Scarpa, Antonio Scurati, Vittorio Sgarbi, Roberto Silvestri, Federica Sossi, Antonello Sotgia, Marco Sotgiu, Koji Taki, Ugo Tassinari, Roberto Tedeschi, Renato Vallanzasca, Sebastiano Vassalli, Riccardo Venturi, Lea Vergine, Sandro Vesce, Marco Villa, Anna Zafesova.


LES TRAINE SAVATES ALLA TRIENNALE DI MILANO In occasione dell’inaugurazione della mostra annisettanta - Il decennio lungo del secolo breve, la compagnia Francese Les Traine Savates presenterà in anteprima e in esclusiva italiana estratti del loro spettacolo Coup de Savate. Les Traine Savates è una brass band di dieci elementi composta da ottoni, percussioni e chiatarra che grazie alla sua formazione marching è in grado di portare la sua musica in qualunque luogo. Il collettivo veste coloratissimi costumi rigorosamente anni’ 70 e suona un funky energico e trascinante, arricchito da coreografie seventies ed esibendosi per strada, nei locali,, in piazza ed in qualsiasi spazio. La compagnia arriva a presentare per la prima volta il suo spettacolo in Italia dopo il travolgente successo riscosso in estate al celeberrimo Festival di Aurillac, faro e punto di riferimento del Teatro Contemporaneo Europeo.


MOVIDA ANNI 70 Milano, 27-28 ottobre 2007

Erano gli anni della “Febbre del Sabato Sera”, di Happy Days, degli Abba e dei Bee Gees. Erano i favolosi anni Settanta e Milano si prepara a riviverli con due giorni di appuntamenti dedicati alle intense atmosfere di quel decennio. La Movida anni 70, organizzata dall’Assessorato allo Sport e Tempo Libero del Comune di Milano, avrà la sua ‘vigilia’ venerdì 26 ottobre con l’inaugurazione della mostra ANNISETTANTA - Il decennio lungo del secolo breve e proseguirà nel week end di fine ottobre lungo un asse virtuale attraverso il centro storico, da Piazza San Babila al Castello Sforzesco, dove musica, filmati, eventi, happening, dj set, artisti italiani e internazionali, coverband e produzioni inedite ‘dipingeranno’ la città con i colori seventies! “Gli anni Settanta – dichiara l’assessore Giovanni Terzi - rappresentano per la società internazionale un periodo di cambiamenti; contraddizioni e forti passioni. Il movimento studentesco, l’austerity, il terrorismo ma anche la genialità del design, dalla televisione Brionvega alle lampade di Castiglioni, o la disco dance americana che impazzava nelle discoteche. Insomma anni controversi segnati al tempo stesso da sofferenza e creatività”. “Personalmente – continua - i miei ricordi più importanti vanno al 16 ottobre 1978 quando Karol Wojtiwa fu nominato papa ma anche al 6 maggio del 1976 quando un terremoto devastò il Friuli o al 10 Marzo 1978 quando fu rapito, a Roma in via Fani, Aldo Moro.Tre date che hanno rappresentato un momento importante per la mia crescita nella sociètà. Ma i miei anni settanta sono stati anche anni di grande leggerezza e di ricordi piacevoli. Il primo bacio,

quando avevo 14 anni ed era il 1978, o la mia prima bici da cross, una mitica “saltafoss” donatami da mio padre a 9 anni o il mio primo libro letto, pubblicato antecedentemente agli anni Settanta, “La commedia umana “ di William Saroyan. Insomma due giorni in cui tuffarci nei nostri ricordi, ma anche due giorni per capire come, in quegli anni di forti contrasti, una cosa fosse certa: l’importanza dell’uomo. Cuore pulsante di questa grande festa sarà Piazza del Duomo che, nella serata di sabato 27 ottobre, accoglierà un concerto-evento per far rivivere “la febbre del sabato sera” sulle note di KOOL & THE GANG e SISTER SLEDGE! Ma ci sarà tanta musica anche in Piazza degli Affari con il Funky Psyco Stage, strutturainstallazione di 600 mq. in stile psichedelico anni ’70 e in Piazza Santo Stefano dove si terrà il Milano Jazz Seventies-Omaggio al Capolinea. In Piazza Liberty e via Luca Beltrami ci saranno invece cover e tribute band per omaggiare i miti di quei tempi. Durante la Movida anni 70 riaprirà, nella sede dell’ex cinema Nuovo Arti, il Derby, storico tempio della comicità milanese. In tutta la città, inoltre, ci saranno proiezioni cinematografiche dedicate a film, telefilm e cartoon. E ancora giochi, moda, arte, shopping per soddisfare i gusti di tutti i nostalgici seventies. Il calendario completo con tutti gli appuntamenti su www.movida70.it Numero verde 800.626858

in occasione della movida, la mostra annisettanta resterà aperta fino alle ore 2.00


Fondazione La Triennale di Milano consiglio d’amministrazione

settore biblioteca, documentazione, archivio

Davide Rampello, Presidente Gianluca Bocchi Mario Boselli Paolo Caputo Silvia Corinaldi Rusconi Clerici Maria Antonietta Crippa Arturo Dell’Acqua Bellavitis Carla Di Francesco Carlo Edoardo Valli

Tommaso Tofanetti Michela Benelli Elisa Brivio Claudia Di Martino Cristina Perillo Elvia Redaelli

collegio dei revisori dei conti Salvatore Percuoco, Presidente Maria Rosa Festari Andrea Vestita

direttore generale

settore iniziative Laura Agnesi Roberta Sommariva Nick Bellora Carla Morogallo Violante Spinelli Barrile

settore servizi tecnici amministrativi

Silvana Annicchiarico, design, moda Aldo Bonomi, industria, artigianato, società Fausto Colombo, arti decorative e visive, nuovi media, comunicazione e tecnologia Fulvio Irace, architettura e territorio

Marina Gerosa Pierantonio Ramaioli Anna Maria D’Ignoti Giuseppina Di Vito Isabella Micieli Paola Monti Franco Olivucci Alessandro Cammarata Xhezair Pulaj

collezione permanente del design

ufficio marketing e comunicazione

Silvana Annicchiarico, conservatore Giorgio Galleani Roberto Giusti Giuseppe Utano

Laura Benelli Valentina Barzaghi Maria Chiara Piccioli Olivia Ponzanelli

Andrea Cancellato

comitato scientifico

settore affari generali Annunciata Marinella Alberghina Elena Cecchi Franco Romeo

ufficio stampa Antonella La Seta Catamancio Damiano Gullì


Triennale di Milano mostre in corso annisettanta Il decennio lungo del secolo breve 27 ottobre 2007 - 30 marzo 2008 Ideazione e regia Gianni Canova Messa in scena di Mario Bellini David Lynch The Air is on Fire 9 ottobre 2007 – 13 gennaio 2008 La mostra David Lynch. The Air is on Fire è stata ideata e realizzata per iniziativa della Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi.

mostre in programma Venti di Striscia 11-25 novembre 2007

Triennale Bovisa mostre in corso Victor Vasarely 4 ottobre 2007 – 27 gennaio 2008 a cura di Andrea Busto e Cristiano Isnardi Pink Pavillion di Gaetano Pesce Dal 3 ottobre 2007 Struttura permanente destinata ad accogliere laboratori per bambini legati alle mostre in corso in Triennale Bovisa.

La Triennale di Milano Tokyo Bruno Munari: vietato l’ingresso agli addetti al lavoro 25 ottobre 2007 – 27 gennaio 2008 Shiodomeitalia Creative Center Tokyo

Mostre itineranti Il Design Italiano 100 oggetti della collezione permanente del design italiano Dal 16 novembre 2007 Chhatrapati Shivaji Maharaj Museum Mumbai Dal 12 dicembre 2007 Cii Nid Design Summit Bengalore Dall’8 gennaio 2008 Nid Campus Ahmedabad

Triennale Design Museum Inaugurazione 6 dicembre 2007


annisettanta il decennio lungo del secolo breve 27 ottobre 2007 – 30 marzo 2008 orario 10.30 - 20.30, lunedì chiuso ingresso 8¤ - 6¤ - 5¤ La Triennale di Milano viale Alemagna 6 - Milano t. +39 02 724341 www.triennale.it


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