S. Rufo ieri ed oggi

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SI RINGRAZIANO Lilina Benvenga Francesca Fiore Daniela Somma Maria Marmo Gelsomina Santoriello Luciana Salvioli

Pubblicazione realizzata grazie al contributo di Pasquale Capozzoli

PRIMA EDIZIONE 1991, Edizioni Cantelmi - Salerno SECONDA EDIZIONE 2004, Pro Loco Sanrufese – San Rufo (Sa) Pro Loco Sanrufese - San Rufo (SA) sito internet: http:\\prolocosanrufo.interfree.it e-mail: prolocosanrufo@interfree.it

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EMILIO SOMMA

S. Rufo, ieri ed oggi. a cura di Giuseppe Guarino

Pro Loco Sanrufese 3


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PRESENTAZIONE Da tempo la Pro Loco Sanrufese si era prefissa l’obbiettivo di fare una ristampa della presente pubblicazione, viste le continue richieste fatte al sottoscritto in particolare dai sanrufesi trasferitisi, ma anche per l’ampio contributo che questa pubblicazione ha dato e darà alla conoscenza della storia e della cultura locale. Altro motivo che ci ha spinto alla stampa di questa seconda edizione è stato il constatare che molti giovani non ne conoscono l’esistenza perché le copie allora stampate non furono sufficienti per entrare in tutte le case. Oggi tale desiderio si concretizza grazie alla disponibilità del Sig. Pasquale Capozzoli che finanziando l’intera operazione ha dato un contributo determinante per una ulteriore diffusione della cultura sanrufese. Ringraziamenti vanno fatti anche alla signora Fernanda Natelli vedova Somma per la piena disponibilità mostrata nell’autorizzare la ripubblicazione. Un ringraziamento particolare va fatto al Prof. Cesare Marmorosa, il quale già dai primi contatti avuti qualche tempo fa con il sottoscritto in merito alla ristampa, ha dimostrato con entusiasmo la sua disponibilità mettendosi subito al lavoro per l’ampliamento della parte di sua competenza. Sul Gen.le Emilio Somma molto ci sarebbe da scrivere; in questa sede mi sembra opportuno almeno ricordare che anche se dava l’impressione di essere burbero ed autoritario in realtà era una persona colta, sensibile, generosa ed umile, molto affezzionata a San Rufo e ai Sanrufesi. Prova ne è che ha donato a noi tutti un patrimonio storico e culturale che lo hanno impegnato sicuramente per buona parte della sua vita. Questa pubblicazione il cui titolo fa pensare ad un libro di storia, in realtà non è solo tale; infatti è arricchita da numerosi ricordi personali, che sono importanti per capire meglio il modo di vivere dei sanrufesi negli anni passati. Alcuni di tali ricordi sono ancora presenti nella mia mente, ma a leggerli si ha l’impressione di parlare di un San Rufo distante da noi centinaia di anni fa, invece era ieri .

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Per concludere consiglio ai lettori di leggere con attenzione l’intero volume perchĂŠ, oltre ad arricchire le nostre conoscenze su San Rufo il volume offre numerose opportunitĂ di riflessione, ed è una miniera inesauribile di dati e notizie, fondamendali per ulteriori approndimenti sulla storia del nostro paese. Giuseppe Guarino

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Alla memoria dei nostri genitori

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Emilio Somma Generale di Corpo d’Armata

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Fernanda Natelli ved. Somma

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Parlate degli argomenti che avete meditato lungo tempo ed ascoltate ciò che gli altri dicono su quelli che avete studiato da poco. Il saper e il legno non si dovrebbero adoperare prima che siano bene stagionati. Oliver Wendell Holme (The autocrat of the breakfast-talle)

PREMESSA Nel presentare il libro «San Rufo e la sua storia» dell'Arciprete Don Giuseppe Ippolito formulavo l'augurio che qualche altro volesse rompere il cerchio d'ombre che ancora circonda il passato di San Rufo. Qualche tempo dopo pensai che invece di dar consigli, mestiere facile e comodo, sarebbe stato più opportuno se mi fossi adoperato per dare un diretto contributo, cercai perciò di riordinare alcuni appunti, da tempo giacenti in un cassetto, e mi preoccupai di rintracciare documenti e notizie utili allo scopo. Compito non facile perché nel passato di San Rufo non vi sono fatti ed avvenimenti di particolare importanza, né vi è traccia di reperti archeologici od opere d'arte. Per la documentazione da consultare mi sono stati di valido aiuto il defunto avvocato Camillo de Felice del foro di Salerno, per avermi consentito di consultare alcune riviste di Storia Salernitana, l'arciprete don Giuseppe Ippolito per la documentazione esistente nell'archivio parrocchiale, il prof. Carmelo Setaro, per la documentazione di casa Carrano, l'amico Amedeo Spinelli, per le notizie sul poeta Nicola Marmo e la signorina Gilda Naso, per la documentazione dell'archivio comunale, ai quali va l'espressione del mio animo grato. Al termine del lavoro, nel quale ho cercato di porre in rilievo il dramma di intere generazioni, per lungo tempo asservite al potere baronale, sottoposte all'ingordigia del clero e soggette all'arroganza dei nuovi ricchi, mi son chiesto se fosse presunzione dare alla stampa una storia così modesta e lacunosa e nel dubbio, l'ho lasciata decantare per qualche tempo, il che mi ha consentito poi di aggiornarla con gli ultimi avvenimenti Successivamente a conoscenza che il Prof. Cesare Marmorosa, con molta pazienza e tanto amore, aveva raccolto canti e proverbi 13


popolari sanrufesi e si apprestava a completare un particolare glossario, pensai che dal punto di vista culturale e per una migliore comprensione dei genuini sentimenti del popolo fosse opportuno riunire in un'unica pubblicazione il suo ed il mio lavoro in modo da costituire presupposto e stimolo per chi, in un prosieguo di tempo, volesse approfondire e ampliare i nostri studi. Trovato concorde l'amico Cesare è stato realizzato il presente volume che consta di una prima parte riguardante la storia passata e recente di San Rufo ed una seconda parte contenente canti, proverbi popolari ed il glossario. Per quanto riguarda la parte storica, oltre al buio più fitto perdura su Calvanello e Casalvetere, i due borghi limitrofi, che non mi è stato possibile dissipare, vi sono altre lacune, alcune volute ed altre no. Fra quelle volute cito il mancato accenno alla storia della nostra Chiesa. Non l'ho fatto perché l'arciprete Ippolito nel suo libro ha trattato ampliamente l'argomento ed io non avrei saputo far di più e meglio. In ogni caso a lui compete, eventualmente ampliare e trattare l'argomento. Altre lacune, e non solo le sole, riguardano le origini delle singole famiglie, molte estinte, alcune emigrate, altre immigrate e quelle relative ai Gerosolomitani ed ai padri Cruciferi, che nei secoli passati operarono in San Rufo. Accurate ricerche non mi hanno consentito di venire in possesso di una pur minima notizia sul conto di questi due ordini se non una generica indicazione di beni patrimoniali posseduti dai Gerosolomitani. In conclusione, «San Rufo ieri e oggi» vuol essere, togliendoli dall'oblio, un doveroso omaggio alla memoria di quanti ci hanno preceduto ed un modesto contributo a favore di chi vorrà continuare le ricerche per dissipare il velo di incertezze ancora esistente e scrivere, finalmente, la storia completa del nostro paese. Emilio Somma San Rufo, dicembre 1981.

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Parte prima

DALLE ORIGINI ALLA FINE DEL SECOLO XIX

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CENNI TOPOGRAFICI S. Rufo, paese agricolo di circa duemila abitanti, si trova in provincia di Salerno, a novanta chilometri dal capoluogo, ed è dislocato a cavallo della S.S. 166 degli Alburni, che, attraverso il passo della Sentinella, dal Vallo di Diano porta alla Valle del Sele. Il suo territorio è caratterizzato da tre distinte zone: una montuosa, una collinare ed una in pianura. Il paese è collocato al centro ed in alto di quella collinare, antico anfiteatro morenico, ad una altitudine di 640 metri. La zona montuosa, a sua volta, è costituita da un settore comprendente le pendici meridionali dell'altopiano degli Alburni brullo, arso e roccioso - che inizia al passo della Sentinella ed attraverso la Serra Nuda, la Valle Salice, la Spina dell'Ausino (m. 1469), la Mola, le propaggini a monte del Triglio raggiunge la Valle di Lama 1, ed un altro - boscoso - che dal passo della Sentinella, attraverso l'altipiano della Cerevolla, il canale del Mangarone, il Cocuzzo delle Puglie (m. 1465), i dirupi dei Vanzi, il varco della Montagnola e la sella del Corticato, con andamento nord-ovest sud-est, degrada verso la pianura. Nel secondo settore, in alto alligna l'abete e soprattutto il faggio ed in basso il castagno e la quercia, con ampie macchie di ginestra. La zona di pianura è la più fertile, è fittamente abitata e nel raccordo con quella collinare presenta parecchie chiazze di querceti, che hanno come margine inferiore la Tempa Tornatauro e le contrade Ruielle e Camerino, nei pressi del Complesso Sportivo. Una fitta e funzionale rete stradale interseca l'intero territorio. A San Rufo si può accedere attraverso quattro vie principali: -da nord-est: San Pietro al Tanagro, Valle di Lama, Santuario della Madonna della Tempa, San Rufo; 1

Le carte topografiche della zona portano poche indicazioni topografiche e l'ampia zona a cavallo ed a nord del Triglio è denominata R.ne la Varlama. La valle che dalla Tempa, con andamento sud-nord est, adduce a San Pietro al Tanagro, non porta alcuna indicazione, ma comunemente viene denominata Varlama e, talvolta Verlama. In un documento dello Stato di Diano del 1774 e dalla suddivisione fatta dall'ingegnere Cannitelli all'atto del distacco dei Casali da Diano viene indicata come valle di Lama ed a tale denominazione riteniamo opportuno attenerci.

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-da est: bivio S. Marzano (dove confluiscono le strade provenienti da Polla, Atena Lucana, Sala Consilina e Teggiano), contrada Foresta, bivio per Fontana del Vaglio (Cimitero), San Rufo, (SS. 166); -da sud: Teggiano, Prato Perillo, Bivio per San Marco, San Lorenzo, Fontana del Vaglio, Cimitero, San Rufo; -da ovest: passo della Sentinella (dove confluiscono le strade provenienti da Roscigno, Paestum, Roccadaspide e Corleto Monforte), Valletorno, sbocco Valle Salice, Piede la Valle, contrada Finocchiara, San Rufo (SS. 166). Nella zona di pianura vi è la frazione di Fontana del Vaglio con i nuclei abitati di Rielle, Camerino, San Lorenzo, Campanella, Palizzo, Policeta, Colaprece e Moiano. Intorno al paese i nuclei abitati contraddistinguono le singole contrade e precisamente: Censuali, Tempa, Triglio, Cerasuolo, Foresta e Vignola. Di Calvanello e Casalvetere, i due borghi un tempo esistenti rispettivamente ad oriente e ad occidente del paese, rimangono soltanto pochi ruderi. Ad occidente dell'abitato di San Rufo vi sono due sorgenti: la Grotta e la Finocchiara. La prima con caratteristiche stagionali, limitata al periodo autunno-primavera, e la seconda perenne. Inoltre, sempre nel territorio di San Rufo hanno origine altri corsi d'acqua, tutti con caratteristiche torrentizie: Mola, Racanielli, Acqua Fredda, Acqua dell'Orefice, Marza (Abbottaturo) e Casanova. La Finocchiara e la Grotta, per essere quasi inglobata nell'abitato, sono le due sorgenti che nel tempo sono state normalmente utilizzate dagli abitanti. Attualmente l'intera superficie del territorio di San Rufo è di ettari 3.162, dei quali. - comunali: Ha 1.283

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-privati:

" 1.875

-Chiesa:

"

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cosĂŹ distinti: Comune

Privati

Chiesa

Totale

Ha 342

Ha 253

Ha 1

Ha 596

Pascoli, alberati e nudi

" 253

" 575

" 2

" 830

Incolti, produttivi

" 513

" 51

" --

" 564

Prati alberati e nudi

" --

"

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" --

"

Seminativi, vigneti, oliveti " --

" 945

" 1

" 946

Fabbricati, strade, acque "

" 12 ______ 1.875

" -___ 4

" 86 ____ 3.162

Boschi

Totale

74 _____ 1.283

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SAN RUFO IERI Tanti anni fa la zona collinare e buona parte della montagna erano coperte di boschi con una intricata e fitta rete di sottobosco e la Foresta, oggi ricca di vigneti e di oliveti, nota in un documento del 1700 come bosco di Tallaro 1 era realmente una selva. Altri tratti coperti di spine, roveti, sterpi, macchie, collegavano le varie parti boschive. In effetti, il territorio si prestava soltanto al pascolo e, probabilmente, sarà stato sfruttato dai pastori dei paesi circonvicini, specie da quelli di Diano, del cui stato l'intero territorio faceva parte. La zona di pianura, parte del Vallo di Diano, antico bacino di un lago pleistocenico, era ed è una pianura intermontana formata inizialmente dalla sedimentazione lacustre e poi da quella fluviale. Il drenaggio delle acque, mai perfetto a causa degli apporti alluvionali dei torrenti che scendono dai versanti dei monti circostanti, lasciava ampie aree paludose e acquitrinose, bonificate una prima volta al tempo dei romani, poi, al tempo degli Angioini, per merito dei Sanseverino, che per la bisogna ebbero dalla Regia Corte 450 mila ducati 2, quindi dai Borboni nel 1795 prima e dal 1819 al 1833 dopo. I risultati, nel complesso, furono molto modesti i primi, discreti i secondi, per cui la malaria e le zone paludose continuarono ad imperversare, il che spiega e giustifica la mancanza di un pur minimo insediamento umano e l'assenza di abitazioni sino agli inizi del 1800. La lontananza dall'unica via di grande comunicazione, la via Annia, e dall'unico corso d'acqua che attraversa il Vallo, il Tanagro, nonché la posizione appartata e boscosa del territorio dove sorgerà poi San Rufo, chiusa ad occidente e a settentrione da una barriera impervia di monti, nell'antichità non aveva indotto né gli Elleni, né i Lucani - che erano di casa - né i Romani, né i Longobardi, a scegliere la zona per un insediamento umano. Senza discutere, per il momento, le varie ipotesi da più parti formulate sull'epoca della fondazione di San Rufo, c'è da chiedersi perché e quando, malgrado le condizioni negative, ha avuto inizio l'insediamento umano in San Rufo. 1

Archivio di Casa Carrano. Bianchini -«Storia delleFinanze delle Due Sicilie». Cassese - La vita sociale nel Vallo di Diano dal secolo XVI alla vigilia della Rivoluzione del '99. Rassegna storica, 1947. 2

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Per i motivi sopra esposti è da ritenere che solo cause di forza maggiore, gravi ed impellenti, abbiano motivato l'insediamento di un certo numero di persone, anche se forse all'inizio orientate a limitarlo nel tempo. A mio avviso queste cause sono da ricercarsi nel perdurante imperversare dei musulmani nel Vallo di Diano nella seconda metà dell'800 ed agli inizi del 900. L'impeto delle scorrerie dei saraceni, disordinato ed intermittente, le richieste continue di gizyah (pagamento di una imposta pro capite in oro), assassinii, violenze di ogni sorta anche a danno di donne, vecchi e bambini, saccheggi, persone ridotte in schiavitù ed ogni specie di ribalderia, compresa l'imposizione della loro religione, dovettero indurre più d'uno a salvarsi dandosi alla montagna e portandosi dietro quanto era possibile, soprattutto gli armenti, che costituivano la loro ricchezza reale e contemporaneamente assicuravano una iniziale possibilità di vita. E' probabile che ciò sia avvenuto tra la fine dell'800 e gli albori del 900 da parte di elementi isolati di Diano e forse anche di Polla, i quali si sarebbero portati in zona boscosa, fuori dall'itinerario battuto dai musulmani e, nello stesso tempo, non lontana dai paesi d'origine 3. Forse all'inizio si sarà trattato di iniziativa di poche persone, seguita successivamente, perdurando le incursioni, da altre. Si sarebbero così formati vari nuclei, anche distanti tra di loro, che, sistemati alla buona in capanne, per necessità di vita e di opportunità avrebbero incominciato a sfruttare il terreno disboscandolo e coltivandolo, dando così origine ad un insediamento temporaneo. La constatazione di poter disporre a volontà di un pezzo di terra demaniale, quale in effetti era, senza alcuna opposizione da parte dell'autorità costituita, che, oltre ad essere all'oscuro di tutto, in quei frangenti non aveva alcun potere ed in ogni caso aveva ben altro di cui occuparsi, avrà indotto i nuovi venuti a non muoversi più della zona, dando origine ad un insediamento stabile. Il fenomeno dell'occupazione delle terre demaniali nel corso dei secoli diverrà sempre più ampio, tanto da provocare vertenze interminabili fra Diano e i Casali, fra i singoli Casali e fra gli 3

Nell'800 e 900 due erano le vie di accesso del Vallo di Diano: la via Annia - principale - e l'itinerario Antonini - secondario - poco battuto. I Saraceni seguirono il primo itinerario e perciò presumibilmente i profughi teggianesi scelsero la zona di S. Rufo, aspra e boscosa, lontana dalla via Annia.

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stessi contadini con liti, risse e frequenti spargimento di sangue, anticipando il clima da Far West non con la pistola ed il fucile ma con l'accetta ed il coltello. In tale situazione, nell'arco del cinquantennio di permanenza dei saraceni nel Vallo, si sarebbero formati tre modesti nuclei: uno ad oriente (Calvanello); uno al centro (che sarà poi San Rufo), uno ad occidente (Casalvetere o Castelvetere), tutti su posizioni dominanti, in vicinanza dell'acqua e con possibilità di occultarsi nel bosco. Questa ipotesi non è poi tanto peregrina, perché nello stesso periodo gli abitanti di Paestum, per sfuggire alle orde saracene che avevano devastato il paese e decimato gli abitanti, si rifugiarono sui monti circostanti dando luogo alla formazione del paese di Capaccio. Una simile ipotesi, per altro per il momento non documentata né documentabile, giustificherebbe ed avvalorerebbe quanto, con motivazioni diverse, hanno scritto in merito il Rubettino e l'arciprete Ippolito. Da un documento del 1774, esistente presso l'archivio della Famiglia Carrano di Teggiano, si legge: «l'Articolanti (cioè Diano e i Casali) intendono e vogliono provare come essa città (Diano) con i suoi Casali Sassano, San Giacomo, San Rufo e Sant'Arsenio nella loro origine e per il decorso di più e più secoli han formato un sol corpo, governato dall'amministradori che si eleggevano in Diano, ed uniti insieme sopportando li pubblici pesi. Ma nel secolo passato avendo li casali sud(det)ti preteso separarsi per governarsi separatamente e sopportare li rispettivi pesi, se ne fè finalm(en)te separaz(ion)e, mediante li publici (sic) rispettivi Instrum(en)ti di emancipaz(ion)e, cò esser bensì rimasta fra di essi la comunanza del Territ(ori)a, in cui han sempre vissuto e tuttavia vivono, servendosi ciascuna Unità, e li ris(petti)vi Cittadini nel pascere li propri animali, aquare (sic), legnare, ed esercitare ogni altro diritto civico»: «Intendono e vogliono provare, come essa città ha parimenti dalla sua origine coi suoi Casali ha posseduto e possiede per sua dote alimentaria e patrimonio nativo per l'utilità e comodo dei suoi Cittadini molti terreni demaniali e comuni, riservati per il solo uso della pastura degli animali, siti così nella piana che nei monti. Il qual possesso e dominio gli fu anche confermato nel 1335 dall'Il(lus)tre Conte di Marsico Tomaso Sanseverino allora Possess(or)e dello Stato di Diano, che molte porz(io)ni de 22


sud(det)ti terreni erano stati occupati furtivam(ent)e da particolari, e molte altre concedute da predecessori Baroni a persone di loro benemeriti ne riscorse al med(esim)o domandando essere reintegrato, infatti, conosciutasi la verità dell'esposto fu da esso Il(lus)tre Conte cò suo Rescritto in forma di Privilegio ordinato, che tutti li terreni comuni occupati, o conceduti, nuovamente ritornassero in mano dell'Unità, come erano stati per lo passato, confermando la proibiz(ion)e di ridursi a coltura, e di farvi edifizi, acciocché fussero addetti per il solo comodo ed uso della pastura». "...oltre dê terreni demaniali comuni vi erano li Demaniali Feudati, li quali da esso Ill(us)tre Conte nel sud(dett)o Rescritto o sia Privilegio furono accettuati, come di sua pertinenza, colli nomi particolari Il Bosco della Policeta, ... Petrone ... li quali luoghi ora si posseggono da diverse famiglie in suffeudo per concessioni posteriormente fatte da Principi di Salerno, dalla casa Pellegrini, dal barone di San Rufo...". Il "Privilegio", oltre a darci un quadro della situazione generale dello Stato di Diano e suoi Casali, conferma che talune arbitrarie occupazioni tali in effetti non erano, perché concesse in precedenza da altri feudatari. Ciononpertanto il Conte Sanseverino con il "Privilegio" intese, fra l'altro, confermare le concessioni da lui fatte (vedasi la Policeta, concessa in suffeudo a Giovanni Pellegrini) ed annullare ogni altra concessione fatta in precedenza da altri; inoltre fece divieto di «farvi edifizi» in conseguenza dell'avvenuta proliferazione di fabbricati, E' logico quindi supporre che nel territorio di San Rufo da tempo esistessero parecchie case prima dell'avvento dei Sanseverino, cioè prima della fine del XII secolo 4. Secondo un'errata convinzione, basata su vaghe ed orecchianti notizie desunte da quanto nel 1600 Paolo Eterni aveva scritto su San Rufo, il paese sarebbe stato fondato nella seconda metà del XIII secolo da Gubello Pellegrini, originario di Capua 5. In effetti l'Eterni nella «Descrizione della Valle di Diana e castelle ivi poste e loro signori», pubblicazione introvabile sino a qualche tempo fa e di recente rintracciata dal prof. Vittorio Bracco presso l'Archivio di Casa Carrano di Teggiano, precisa: «San Rufo castello ameno, civile ed honorato di Antonio Pellegrini 4

I Sanseverino erano subentrati ai Guarna nel possesso della contea di Marsico. 5 I Vedasi allegato n. 1

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(suffeudatario del tempo), edificato a divozione di esso Santo convertito da Santo Apollinare 6 e creato terzo vescovo di Capua nella cui metropoli vi si riposa il suo corpo, come dice il nominato Santoario Capoano aggrandito poi di popolo da Dianesi, e donato da Tommaso Sanseverino terzo conte di Marsico, e padrone già della Valle nel 1293, a Giovanni Milite figlio di Gubello Pellegrini e di Diano in ricompensa dei servizi fattili nella Guerra di Sicilia appresso al Duca di Durazzo ...». E' quindi pacifico che alla fine del 1200 San Rufo aveva già una intrinseca consistenza, «aggradito poi di popolo da Dianesi», per merito del loro concittadino Giovanni Pellegrini, ed ai primi del Trecento dall'afflusso spontaneo degli abitanti di Casalvetere, già possesso dei Templari 7. Il milite Giovanni Pellegrini, come risulta da più fonti, fu senza dubbio il primo suffeudatario di San Rufo, il che non deve indurre, come per molto tempo erroneamente si è fatto, a ritenere che sia stato il fondatore del paese. Anzi proprio tale privilegio porta ad escludere una simile ipotesi. In conseguenza la data di fondazione deve essere anticipata di qualche secolo. Al fine di renderci conto del tempo necessario in passato allo sviluppo di un centro abitato, sia pur piccolo, basti pensare alla frazione di Fontana del Vaglio, costituita da poche centinaia di anime, che è divenuta tale a distanza di circa centocinquanta anni. La supposizione che San Rufo sia stata fondato prima del Mille, nel periodo delle incursioni musulmane, appare più che logica. Rimane il dubbio, e probabilmente tale rimarrà per molto tempo ancora, se Calvanello, che si vuole sia stato in lotta con 6

Secondo mons. Ambrasi, che ne ha scritto nel I vol. della «Storia di Napoli» e nella «Biblioteca Sanctorum» e col quale ho avuto una corrispondenza sull'argomento, il martirio di S. Rufo sarebbe avvenuto nel IV secolo ad opera del vescovo ariano Epitteto e non sotto Domiziano, il quale, contrariamente a quanto talvolta si è affermato, non effettuò alcuna persecuzione contro i cristriani (Falcone - Storia dei Papi - I Vol.). Nella «Biblioteca Sanctorum», alla voce S. Rufo, l'Ambrazi accenna a S. Rufo del I secolo e precisa che si tratta di leggenda priva di fondamento. In separata sede ha poi spiegato che ciò è dovuto all'ignoranza accoppiata alla fantasia campanilistica di taluni preti del medioevo. Della custodia dei resti di San Rufo hanno menato vanto le chiese di Capua e, con più validi motivi, quella di Sinuessa (Mondragone). 7 V. Bracco, «La descrizione secentesca della Valle di Diana» di Paolo Eterni, pag. 56, nota 51.

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Borgo Marzio (San Marzano), distruggendosi a vicenda, abbia avuto origine prima di San Rufo. La risposta dovrebbe essere affermativa perchĂŠ diversamente gli abitanti di San Rufo, distanti appena 800 metri, certamente sarebbero accorsi in aiuto dei loro vicini, se non altro perchĂŠ indirettamente minacciati. Probabilmente questa progenitura avrĂ costituito polo di attrazione per altri insediamenti avvenuti successivamente. Le stesse considerazioni possiamo ritenerle valide per quanto attiene Casalvetere, in quanto i pochi ruderi ritrovati non sono sufficienti a illuminarci sulla reale consistenza di quell'agglomerato. E' opportuno tener presente, quale probabile causa concomitante, la situazione grave venutasi a creare in conseguenza della persistente malaria e della scarsa disponibilitĂ dei terreni idonei alla coltivazione a causa delle zone paludose ed

Ruderi di Calvanello (Foto del prof. Antonio Esposito) acquitrinose e degli ampi spazi destinati alla pastorizia, che avrebbero provocato la fuga delle popolazioni verso l'alto, ove si

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sarebbe accentrata la ricerca dei terreni per il pascolo e per la coltura e dove forse già esistevano capanne dei pastori 8. Da queste capanne, affiancate poi da tuguri ed infine da modeste case, raffittitesi nel tempo, si sarebbero formati alcuni nuclei abitati, ai quali nessuno si preoccupò - e perché preoccuparsene? - di dare un nome, se non, forse, una generica e difforme indicazione più che di località di raggruppamento. La mancanza di una precisa individualità, la modesta consistenza e la scarsa importanza del posto non hanno consentito di farne oggetto di segnalazione fino a quando Giovanni Pellegrini, nella seconda metà del secolo XIII, non ebbe la giurisdizione su questa terra e non le diede un nome. Anche in quest'ipotesi, è giusto ritenere che il paese esistesse molto prima dell'avvento di Giovanni Pellegrini. E' il caso di osservare che alcune contrade e la maggioranza dei borghi che compongono San Rufo portano il nome di un santo: San Giuseppe, San Giovanni, San Michele (l'Angelo), San Rocco, San Sebastiano, San Giuliano, Santa Maria e, in tempi successivi, Sant'Antonio 9. Viene perciò da pensare che, seguendo la tradizione religiosa del tempo e soprattutto come naturale reazione alle persecuzioni dei Saraceni che, come sappiamo, oltre ogni altro arbitrio, avrebbero voluto imporre la loro religione, ciascun gruppo, costituito da gruppi familiari affini, sia stato indotto ad affidarsi alla protezione di un Santo, liberamente scelto, in onore del quale, forse, sarà stata poi eretta una modesta cappella od un semplice tabernacolo. Non possiamo neanche escludere che fra i componenti i vari gruppi vi siano stati religiosi, sfuggiti alle persecuzioni musulmane, che avrebbero contribuito in modo

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E' probabile che le grotte esistenti sulle pendici dei monti che degradano verso il Valetorno e quelle poste ai piedi del Cocuzzo delle Puglie e della Cerevolla siano state ricoveri dei pastori. In tempi successivi saranno utilizzate da briganti e fuorilegge (Grotta di Zì Luigi, dei Briganti, delle Puglie, del Castello, della Fasana, del Rosiello, della Melania, dei Porci, dell'Ausino, ecc.; queste ultime due disposte sui monti della zona orientale). Alcune di queste grotte si trovano a cavallo dell'itinerario Antonini, di cui parleremo in seguito, e non è da escludere che possano risalire ad epoca remota. Comunque l'argomento meriterebbe ulteriore approfondimento. 9 Per rendersi conto della reale consistenza del paese in quel tempo, bisogna considerare che nel 1500, cioè alcuni secoli dopo, S. Rufo superava di poco i 500 abitanti.

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determinante a dare un supporto religioso alle comunità 10. Il nome dei singoli santi avrebbe perciò contraddistinto ed amalgamato ciascun rapporto dando la possibilità di indicare col nome di un santo la zona da essi occupata. Sarebbero così sorti, sia pure in tempi diversi, i nuclei che hanno poi dato origine al paese. Il progressivo aumento della popolazione, dovuto a diversi fattori, e la lenta proliferazione di modeste costruzioni, avrebbe portato all'ampliamento dell'area occupata dai singoli nuclei e conseguentemente alla compressione delle distanze fra di loro. In tal modo la successiva disposizione abitativa avrebbe assunto l'aspetto di un agglomerato di capanne e di rare case sparse, non molto dissimile da quello di un modesto villaggio rurale, tanto da consentire poi a Giovanni Pellegrini, allorché ebbe la giurisdizione feudale del territorio, di indicare l'intero complesso con un solo nome, quello di San Rufo, un santo al di sopra delle parti 11. Infatti, a parte i motivi di ordine spirituale che lo legavano al paese di origine del padre ed alla devozione di quel santo, la scelta del nome di San Rufo, vescovo di Capua martirizzato da Epitteto, avrebbe consentito al feudatario di evitare una contrapposizione tra i diversi nuclei, i quali, per altro, avrebbero continuato a distinguersi in base alle vecchie denominazioni. Ciò che in effetti avviene ancora oggi, come vedremo in seguito. Giova altresì osservare che l'attuale frazione di Fontana del Vaglio, la cui formazione ha avuto un lento inizio dopo il prosciugamento delle paludi e degli acquitrini che infestavano la pianura, raggruppa alcuni nuclei abitati: Rielle, Camerino, S. Damiano e San Lorenzo. E' da presumere che l'ulteriore incremento edilizio, attualmente in atto in questa zona, porterà all'avvicinamento prima ed alla riunione dopo dei singoli nuclei, che, pur conservando ciascuno il nome tradizionale, consentiranno alla frazione di avere una maggiore consistenza ed una autonoma ed uniforme individualità. 10

E' probabile che, per gli stessi motivi, parte dei monaci basiliani operanti in quel tempo nei paesi del Vallo si siano rifugiati nel territorio di S. Rufo. 11 11 E' da osservare che anche altri paesi del Vallo, sorti presumibilmente nel periodo delle incursioni saracene, portano il nome di un santo.

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Questa constatazione porta a considerare sufficientemente valida l'ipotesi esposta sulla graduale formazione di San Rufo. Comunque continuiamo a dissertare basandoci su semplici supposizioni e, probabilmente, sino a che non si avranno sufficienti elementi di valutazione, continueremo la diatriba sulla data di fondazione di San Rufo, ma essa è pur utile al fine di stimolare l'interesse degli studiosi e di quanti, vicini e lontani, dimostrano attaccamento al proprio paese. Purtroppo le incertezze e i dubbi non riguardano solo le origini di San Rufo, ma anche il periodo successivo a quello ritenuto come noto perché mancano elementi concreti di giudizio e lo stesso archivio parrocchiale è privo di qualsiasi documentazione. In definitiva, fino al 1600 si brancola nel buio, per quanto anche dopo non ci sia di che rallegrarsi, stante le modeste notizie pervenuteci. Il dramma della popolazione di San Rufo inizia agli albori dell'anno Mille, o poco prima, e, con alterne vicende, si protrarrà fino agli inizi di questo secolo ed è opportuno rievocarli accennando all'ambiente, agli avvenimenti più importanti, agli usi, ai costumi ed ai progressi verificatisi nel tempo. Per brevità non ci si soffermerà su quanto già trattato dall'arciprete Ippolito nel suo citato libro.

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IL FEUDALESIMO ED I SUOI RIFLESSI NEGATIVI Il feudalesimo fu la causa che provocò una stasi nello sviluppo della società meridionale e quindi anche nello sviluppo di San Rufo. Il Winspeare, che fu il regio procuratore generale presso la commissione ed operò nel nostro Vallo nel 1809, nel suo libro «Storia degli abusi feudali», presenta un quadro quanto mai impressionante degli arbitri commessi dai feudatari a danno delle popolazioni a loro soggette, tanto da rinverdire il ricordo dei servi della gleba, il che insulta ed offende la ragione e l'umanità. I feudatari, nominati dal Re nelle province, miravano a formare nel loro territorio delle Signorie sempre più autonome, dimostrandosi despoti assoluti. Difatti, dopo la morte di Federico II, un po' alla volta, di loro iniziativa prima ed ottenendo l'assenzo regio dopo, esercitarono oltre la giurisdizione civile anche quella criminale, il che concedeva loro di permutare le pene, concedere la grazia, torturare il reo senza limiti di tempo ed imporre pene superiori a quelle previste dalla legge. La popolazione perciò era incapsulata in un regime agrariofeudale nel quale i feudatari (baroni) ed il clero rappresentavano i grandi proprietari fondiari in possesso delle terre migliori, esenti da qualsiasi imposta, mentre i piccoli proprietari ed i contadini dovevano accontentarsi di terreni poco fertili e per di più gravati da un cumulo di servitù. Il clero di San Rufo, come vedremo dettagliatamente in seguito, soltanto per quanto attiene la proprietà fondiaria, possedeva circa 350 tomola di terreno (120 ettari), il che spiega la corsa al sacerdozio, il numero rilevante di preti, in relazione alla popolazione numericamente modesta, ed il livello scadente di buona parte del clero, che spesso si dimostrava cupido ed avaro. A loro volta i Gerosolimitani, presenti in paese sino ai primi del '700, possedevano altri terreni, tutti fertili. Il fenomeno, sia ben chiaro, non riguardava solo San Rufo, ma era comune a tutti gli altri paesi del Mezzogiorno. Come precisa il Colletta nella «Storia del reame di Napoli» , dopo il Concilio di Trento nel Regno di Napoli vi erano 110.000 sacerdoti (circa il ventotto per mille della popolazione) e nella sola città di Napoli se ne contavano 16.500. L'arbitrio, posto a sistema, consentiva al barone di richiedere la decima sui raccolti, il glandiatico per la raccolta delle ghiande, il plateatico per il passaggio su alcune strade e su alcuni ponti, 29


l'erbatico per chi pascolasse gli animali su alcuni terreni demaniali, il legnatico per la raccolta della legna, il terratico per la seminagione. Contrariamente a quanto previsto dalla legge in favore dei più indigenti, la preclusione al godimento dell'erbatico era uno dei tanti abusi del barone. Altri servizi personali erano imposti dal feudatario, quali i trasporti a soma, la sorveglianza delle terre, la custodia delle carceri ed altri ancora. In occasione dell'inizio dell'anno e di particolari festività, al barone spettavano donativi in natura, quali polli, agnelli, formaggi, uova ed altro. L'adoa, tributo per il servizio militare dovuto al re dal feudatario, veniva riversato su tutta la popolazione, indipendentemente dalle condizioni economiche dei singoli. In queste condizioni il lavoro dell'umile gente su una terra poco fertile, con i raccolti minacciati dalla siccità e dalle ricorrenti intemperie, diventava travaglio e pena e la povertà si tramuta in miseria. Vi furono, è vero, delle iniziative idonee a sollevare dallo stato di miseria i più indigenti, ma all'atto pratico i risultati furono negativi. Ad esempio, Alfonso d'Aragona consentì ai contadini di contrarre prestiti in rapporto di un decimo del valore della terra posseduta allo scopo di liberarla dalle diverse forme di servitù, ma l'iniziativa diede risultati negativi perché il denaro mutuato si dimostrò insufficiente al riscatto della terra che si trovò gravata da nuovi debiti, con vantaggio, in definitiva, dei baroni e degli appaltatori delle finanze. Sempre durante il regno di re Alfonso, su pressione dei baroni, nel 1443 fu stabilito un testatico di 10 carlini a fuoco (il cosidetto focatico che oggi chiameremo tassa di famiglia), uguale per tutti, ricchi e poveri, e sei anni dopo, per incrementare le spese per la guerra di successione nel Ducato di Milano, fu aggiunto l'acquisto obbligatorio di un tomolo di sale l'anno per ogni nucleo familiare al prezzo di 52 grani, poco più di mezzo ducato. E' il caso qui di accennare anche al balzello (colletta) dovuto dalla popolazione in occasione del matrimonio dei figli del barone e dei figli e parenti del sovrano; chi invece voleva sposarsi doveva pagare, a parte lo ius primae noctis, un apposito tributo al feduatario. Mentre la popolazione veniva gravata da ogni sorta di imposizione i feudatari, al contrario, pagavano soltanto il "relevio", la tassa di succesione e nient'altro. 30


A loro volta le Università (oggi diremo i comuni) imponevano le gabelle sui prodotti di più largo consumo, come uova, vino, formaggio, polli, etc., che riuscivano particolarmente odiose alle classi più umili, tanto più che ne erano esentati, oltre al feudatario ed i suoi giannizzeri, anche gli ecclesiastici, le loro famiglie e sinache le perpetue e le amanti, come precisa il Bianchini nella sua «Storia delle finanze del Regno delle due Sicilie». Poiché il baratto era la norma ben si può immaginare a quali espedienti la povera gente era costretta a ricorrere, per pagare i vari tributi. Non dimentichiamo che nel 1647 l'imposizione della gabella sulle verdure e sulla frutta fu la scintilla che fece esplodere la ribellione di Masaniello e dei popolani di Napoli. Non deve sembrare strano che i baroni abusassero del potere e commettessero usurpazioni ed illegalità a danno della povera gente e delle Università, perché la concezione autoritaria che avevano del loro potere li portava, in dispregio di qualsiasi legge umana e divina, a commettere le imprese più odiose ed assurde, non disdegnando l'impiego dei loro armigeri pur di raggiungere gli scopi prefissisi. Le condizioni del popolo in simile situazione non erano, in definitiva, dissimili da quelle degli schiavi. Scrive il già citato Bianchini: «Si stenderebbe a credere che in tale disordine fossero allora le cose, ove non ce ne facessero piena fede una celebrata prammatica del 21 marzo 1474 e le non poche scritture dei nostri archivi nelle quali leggendo non puoi ristarti dal dolerne l'infelice sorte di quegli uomini che sentendo il peso delle loro sciagure levavano inutili gemiti ai regi ufficiali e ministri ed allo stesso Sovrano». Può sembrare un assurdo eppure l'aristocrazia feudale che viveva principalmente dei prodotti della terra si dimostrava la meno idonea ad incrementare e a far prosperare la terra e, conseguentemente, non si aveva alcun progresso agrario, progresso che si ottiene soltanto allorché si ha un aumento dell'estensione di terre coltivate ad una regolare rotazione delle colture. A ciò si aggiunga che l'industria agraria, a causa delle continue guerre, ribellioni, perturbazioni sociali, era enormemente danneggiata dal proliferare dei ladroni, dalla mancanza di sicurezza della proprietà, per cui talvolta i contadini preferivano lasciare incolte le terre e darsi al brigantaggio. I pastori, a loro volta, con la vita seminomade, simile a quelle dei briganti, 31


soggetti alle oppressioni del feudatario, alle angherie dei ribaldi, alla vita miseranda, sovente andavano ad ingrossare le fila dei fuorilegge. I contadini, che costituivano la grande maggioranza della popolazione, mal nutriti e mal vestiti, vivevano in capanne o in catapecchie, che mal li riparavano dalla inclemenza del tempo, assieme al bestiame, che costituiva la loro ricchezza. Costretti a mangiare solo pane di granturco con un pasto di erbe o addirittura fatto di una sola cipolla, raramente arricchito dal più umile dei cereali, la cicerchia, o dalla "vitaccia" (vitalba), vivevano in uno stato di incosciente rassegnazione e remissività, salvo ad esplodere in forme violente con delitti e vendette. La malaria, le ricorrenti malattie reumatiche, bronchiali e polmonari, la denutrizione, l'assoluta mancanza di calzature, i pochi stracci che mal li coprivano e le avversità naturali si ripercuetevano specialmente sui bambini, gracili e sparuti, costretti a lavori pesanti e non adeguati alla loro delicata costituzione, contribuendo ad elevare la mortalità che, in taluni periodi, raggiungeva proporzioni allarmanti. Sino agli inizi di questo secolo, a causa della scarsa alimentazione, le persone si caratterizzavano per la bassa statura. Soltanto i ricchi e i preti erano grassi e panciuti. Non era infrequente che vecchi e bambini, e non solo questi, bussassero alle porte dei ricchi e dei benestanti per chiedere un tozzo di pane. Una fame atavica accompagnava la loro esistenza ed il fenomeno, duole constatarlo, continuerà a manifestarsi fino agli inizi di questo secolo. C'è da chiedersi con sgomento come mai tanta gente ricca vedendo un povero vecchio emaciato ed incartapecorito non abbia pensato che quell'uomo era un suo fratello e che il bambino che stendeva la mano per chiedere l'elemosina altro non era se non l'immagine stessa di Dio davanti al quale anche il cuore più duro deve aprirsi all'amore. Tutto ciò non deve meravigliare perché erano tempi in cui il povero, il contadino ed il bracciante venivano considerati esseri inferiori, non dissimili dalle bestie. Mentre la massa della popolazione viveva miseramente, i baroni guazzavano nel lusso e nel fasto, lasciando l'amministrazione dei loro beni ad agenti ed ai vari Azzeccagarbugli. L'ozio, il fasto, la mania di cercare di superarsi a vicenda li porteranno poi alla dissoluzione e talvolta alla povertà, mentre 32


crescerà l'influenza dei ceti medi che amplieranno le loro proprietà terriere a spese della oziosità baronale. Con la scomparsa dei Sanseverino, il fenomeno si accentuerà in conseguenza del triste commercio della compra-vendita dei feudi. I Sanseverino, già nemici ribelli di Federico II, poi fautori e fedeli degli Angioini, ribelli a Ladislao prima, a Ferrante d'Aragona dopo e di nuovo a Federico, furono costantemente decimati in modo cruento. I superstiti, salvatisi con l'esilio, ogni volta furono privati dei loro beni e poi parzialmente reintegrati nei loro possedimenti. Alla fine del 1400, con Antonello, morto esule a Senigallia, perderanno il prestigioso feudo di Marsico, per altro carico di debiti. Il figlio di Antonello, Roberto, parzialmente reintegrato nei possedimenti degli avi, per far fronte alle richieste dei creditori fu costretto a vendere alcune terre del Vallo di Diano, compresa la tenuta di Mandranello, acquistata dalla Certosa di Padula. Si iniziava così lo sfaldamento della contea di Marsico. La famiglia Pellegrini, che coerentemente aveva seguito le alterne vicende dei Sanseverino, fu più volte privata e poi reintegrata nei suoi feudi, riportandone notevoli danni economici, ma restando dignitosamente unita e compatta a S. Rufo. Come vedremo in seguito, allargò il suffeudo della Policeta su alcuni contigui terreni demaniali, ma trovò poi opposizione da parte dello stato di Diano e fu obbligato a rientrare nei limiti della concessione a suo tempo ottenuta dai Sanseverino. Trattavasi comunque di cosa di poso conto rispetto alle pretese ed agli arbitri del duca Schipani, ultimo feudatario dello Stato di Diano e del quale parleremo allorché si accennerà all'esecuzione della legge sulla abolizione della feudalità. Purtroppo i Pellegrini, in seguito all'azione dei creditori, si videro messo all'asta il feudo per far fronte ai debiti contratti. Sfaldatasi la contea di Marsico, i cui beni erano stati incamerati dalla Regia Corte, lo stato di Diano con i suoi Casali fu comprato dal Principe di Stigliano. Sempre per acquisto, passò poi al Vescovo di Eboli, Don Rodrigo Gomez de Sylva 1 e da questi, dopo otto anni, a Don Nicola Grimaldi. Nel 1593 il feudo fu ceduto a Donna Giulia Caracciolo, marchesa di Brienza, e poi a suo figlio Giovan Battista che, a sua volta, lo vendette per 80.500 1

E' questo un esempio dell'abitudine dei rappresentanti della Chiesa di acquistare con frequenza beni immobili.

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ducati a Don Giovanni Villano, marchese di Polla. Ritiratisi in convento, il marchese lo lasciò, carico di debiti, al nipote Francesco Antonio, il quale, nel 1640, per far fronte alle istanze dei creditori, fu costretto a cederlo per 50.000 ducati al duca Marcantonio Colonna. Dopo dodici anni, nel 1652, lo acquistò don Carlo Calà e nel 1801, maritali nomine, passò a Vincenzo Schipani, che ne fu l'ultimo feudatario. E' opportuno ricodare, per comprendere lo stato di disagio dei poveri contadini ed il disumano arbitrio dei baroni, che nel 1600, allorché si ventilò l'ipotesi della vendita dello stato di Diano, molti signori, che desideravano acquistarlo, e fra questi il reggente Calà che poi l'ottenne, per averlo a poco prezzo, fecero in modo che nessuna opera di bonifica, anche la più elementare, si effettuasse. In tal modo lo stato di Diano regredì per l'aumentato numero dei terreni paludosi e l'imperversante malaria. In conseguenza nel 1656 si verificò una grave pestilenza che falcidiò la popolazione. Il feudo di San Rufo fu acquistato da don Giuseppe Parisi nel 1686, che dopo pochi anni lo vendette a Giovan Matteo Rinaldo (e non Rinaldi, come spesso si è scritto). Sempre per acquisto, nel 1778 don Paolo Laviano divenne barone di S. Rufo. Diciotto anni dopo lo ereditava don Antonio Laviano, che fu l'ultimo barone nel nostro paese. Incaricato di esigere i censi che gravavano su alcuni terreni del feudo Laviano fu Felice De Vita, che li riscosse sino alla fine della seconda guerra mondiale, quando i proprietari dei terreni si affrancarono. Don Giuseppe Parisi, nel breve periodo che fu feudatario di S. Rufo, non prese mai stabile dimora in paese lasciando agli amministratori la cura dei suoi interessi. Diversamente si regolò il barone Giovan Matteo Rinaldo 2 che

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Contatti diretti con gli eredi del barone Gian Matteo Rinaldo, per mancanza di documentazione e di pur minime notizie, non mi hanno consentito di acquisire elementi validi per meglio lumeggiare il periodo durante il quale quella famiglia tenne le redini del paese. A Giovan Matteo (1690) seguirono Matteo (1714), Orazio (1737), Gaetano che nel 1778 vendette il feudo a don Paolo Laviano.

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non solo vi si stabilì, ma, come vedremo in seguito, si fece costruire un imponente palazzo, di fianco alla chiesa, su un poggio dominante la vallata. Similmente si regolò poi il barone Paolo Laviano. Lo spezzettamento della contea di Marsico, fenomeno comune agli altri feudi del regno, consentì la proliferazione di nuovi baroni, quasi tutti provenienti dai proprietari terrieri arricchiti alle spalle dei feudatari, per cui si ebbe un'enorme inflazione di nobili o presunti tali. A tal proposito, Croce nella «Storia del regno di Napoli» scrive: «Facile era altresì ai nuovi proprietari ottenere titoli; e la nobiltà del Regno, che già da qualche tempo formava oggetto di meraviglia e di celie per la eccessiva copia dei suoi titoli altisonanti e pel contrasto tra il parere e l'essere, noverava nel '600 non meno di 119 principi, 156 duchi, 173 marchesi, molte centinaia di conti». Con lo sminuzzamento dei grandi feudi, accentuatosi fra la seconda metà del 1500 e gli inizi del 1600, i nuovi ricchi, che, come affermava il Filangieri, «avevano ancora le mani incallite dalla zappa», si dimostrarono non meno implacabili dei loro predecessori negli abusi e negli arbitri, anzi li aggravarono. A differenza dei vecchi signori, che tali erano e si comportavano da gentiluomini, i nuovi padroni, com'è caratteristica dei nuovi arrivati, erano duri, superbi, boriosi, presuntuosi, gradassi, scostumati nel tratto e nelle azioni. In proposito val la pena di ricordare in proverbio veneto: «Xe mato chi sparagna co l'idea de farse sior», che ben si addice ai nuovi ricchi, i quali, secondo un detto popolare, erano «cafoni arricchiti». «Guardatevi da pezzienti arrichiti» affermava un proverbio sanrufese. Contemporaneamente al cambio del feudatario, avvenuto nello stato di Diano e nei Casali, iniziavano le liti fra Diano e i Casali. La prima ebbe luogo nel 1575 «avendo alcuni naturali del Casale di S. Arsenio tentato di ridurre a coltura alcune porzioni di terreni demaniali comuni nel luogo detto Campoglia cò farvi anche de tuguri». Ad affiancare la azione del Casale di S. Pietro, interessato nella persona di don Marcantonio Marsicano, intervenne Diano con gli altri Casali e, mostrando copia del "Privilegio", dal quale risultava che i terreni in contestazione erano demaniali, «desistettero quei Naturali di S. Arsenio dall'inovaz(io)ni, e cessò per allora la lite». 35


L'inconveniente si ripeté nel 1718 e ad essere interessato fu anche S. Rufo " avendo i Naturali di S. Arsenio tentato di ridurre a altre porz(io)ni cò terreni demaniali comuni, cosi in Campeglia, come in altri luoghi detta la Marza, e Cortraccioli ". Dopo aver sostenuto notevoli spese, con decreto del 1723 fu sentenziato " no si fusse inovato nè sud(dett)i contra la forma de' Privilegi dell'Unità di Diano sotto la pena di doc(ati) 1000; il quale decreto fu poscia confiormato con decreto della S.C. " 3 In seguito alle arbitrarie, saltuarie occupazioni «moltissime informaz(io)ni di contravvenz(io)ni ne furono prese ad ist(an)za né meno dell'Unità di Diano, che dell'Ill(us)tre Barone«. Ma quelli di S. Arsenio non desistettero «malgrado li ordini della S.C. proibitivi della cultura dei sud(det)ti terreni per il bisogno ch'eravi, che restassero saldi per l'uso della pastura degli animali dello Stato, sono stati da tempo ridotti a cultura nella mag(gior)e parte precisamente nella Piana cò irruenza e tumultuariame(nt)e né meno di naturali del Casale di S. Arsenio, che per l'esempio di costoro, dà naturali delle altre Unità dello Stato (e quindi anche da parte dei Sanrufesi) nò essendo bastata l'autorità del sud(dett)o Supremo Tri(buna)le per impedirgli a reprimere la loro temerità, essendovi accadute continue risse, ed anche omicidi». Evidentemente i "naturali" di S. Pietro e di S. Rufo, seguendo l'esempio di quelli di S. Arsenio avranno occupato terre demaniali contigue, disturbandosi e danneggiandosi scambievolmente. In conseguenza erano sorte liti e risse fra gli occupanti ed alla fine c'era scappato il morto. Ad un certo momento sia Diano sia i Casali si accorgono, ed era ora, che «oltre il bisogno di pascoli e considerandosi nello stesso tempo esservi di molto aumentata la populaz(ion)e dell'Università dello Stato... bisognando il comodo della semina ugualm(en)te necessario per il mantenimento della vita; di venirsi ad un economico Partitaggio dè sud(dett)i terreni così quelli siti nella Piana, che nei monti, descritti e misurati dall'Ingegnere d.(on) Nicola Cannitelli nella sua Relaz(io)ne fatta per ordine S.C.R., cioè che stabilita una quantità di terreni nella Piana comoda e sufficiente per l'uso della Pastura degli animali di tutto lo Stato, tutto il più si dividesse frà l'Unità pro numero focolariorum, cò assegnarsi a ciascuna primieram(en)te quei terreni montuosi, che sono adatti alla cultura nelle risp(ettiv)e 3

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Archivio di Casa Carrano


vicinanze e supplirsi il contingente de quei terreni della piana, cò aversi ragione della maggiore e minore di loro qualità, e valore». In conseguenza, per quanto riguarda il nostro paese, viene precisato che «nelle vicinanze del Casale di S. Rufo vi è altra quantità di terreni montuosi addetti nò meno per il pascolo che per la semina ne' luoghi chiamati La Costa della Montagna dell'Angelo; Li Belli Forrielli; Cerevolla; Policeta; Serra Nuda Vallesalice - Mola - Fontanella cò abbondanza d'acqua Valletorno - La Fossa di Quagliano: La Costa della Fossa Fontanara dell'acque del Volturno (!); L'Impianata: La Costa della Melaina - La costa dell'Angelo; La piana del Fornaturo: La serra della cerza - Valle Salice - Calvaniello - Valle la fossa; L'Ambrusta - Lo Setone - Lo Varco del Persaino; La Piazza del Ceraso - Lo Spino dell'Asino (Ausino) Tempariello; Cataratta, Piano d'Auterio - Fontanella - Piano Cerrato - Ferrielli - Fossa della Nivera - Petricelle - Pendini delli Vienti - Bello Fornielli Valle Cupa - Il cuozzo dell'Angelo - Farinola - Scivola - Nocelle Campanella - Rupa della Fusara, ed altri, li quali sono di capacità di c(irc)a tom(ol)i 750 giusta la descriz(ion)e pianta dall'Ingegn(e)re Cannitelli». Inoltre, «come altri delli sud(dett)i terreni demaniali montuosi ve ne sono altri nelle med(esim)e adiacenze del Casale di S. Rufo, siti nella parte superiore della strada pubblica detta la Policeta di capacità di c(irc)a tom: 250 addetta alla cultura chiamati colli nomi particolari di Temponi, ed altri, né quali sebbene dalla famiglia Pellegrini di d(ett)o Casale di S. Rufo si pretenda avervi il diritto di esiggere (sic) la decima delle vettovaglie, che si seminano, tuttavolta non può spettarli in tale diritto per essere del demanio universale comune, essendosi per tale stato sempre riputato per l'uso che li Cittadini dello Statovi han sempre esercitato di legnare, pascere e sicome han praticato (sic) negli altri demaniali, né mai sono stati compresi o riportati per parte del Feudo di d(ett)i Pelegrini, il quale è sito da sotto la strada publica (sic) detta la Policeta, di cui non vi è controversia, e nò già nella parte superiore». Fanno parte del territorio di S. Rufo «i suffeudi del Barone Civili di questa Terra come nell'Atti dell'Apprezzo dello Stato di Diano, formato nel 1698 ad ist(an)za del Regio Fisco» e più precisamente: «Bosco di Tallaro, chiamato volgarm(ent)e La Foresta, La Terra di Pantastella: La Terra di S. Elia, comprensorio di terreni nella Valle dei Salici vicino la Montagna dell'Angelo: 37


Terre al Triglio ed al Setone; Terra e Castagneto nella Policeta un altro territorio confinante con l'Ospedale». Interessante quest'accenno all'Ospedale che dovrebbe riferirsi al Lazzaretto dislocato il località Foresta, poco dopo il Km. 2 e funzionate sino agli inizi della seconda metà del secolo scorso, ma che potrebbe riferirsi ad un non meglio precisato ospedale 4. Sempre nel territorio di S. Rufo vi è anche un suffeudo posseduto dal duca di Ruscigno nel luogo detto il Colle di Corticato». L'elencazione non è finita, perché vi sono altri suffeudi di pertinenza del Barone di S. Rufo, che in quell'epoca era Gian Matteo Rinaldo, e precisamente: «Altro chiamato Musciano, confinante colla Marza, posseduto dal Mag(nifi)co Franc(esc)o D'Aromando: Altro chiamato la Policeta, posseduto da Mag(nifi)co Franc(esc)o Pellegrini: Altro chiamato li Verti, conceduto dal Mag(nifi)co Don Alfonso Sabini: Altro conceduto a Sig.re Battà ( Giovanbattista ) Mele nel luogo detto Camerino, li quali pretesi suffeudi, eccettuati quelli denominati nel Privilegio del fù Conte di Marsico Tommaso Sanseverino, come luoghi del demanio suffeudale, cioè la Policeta, il Colle di Corticato, il Petrone, tutti gli altri di sopra descritti erano parte del Demanio comune, conceduti ingiustam(ent)e dalli Baroni precedenti al giud(izi)o Apprezzo». E' questa un'ulteriore conferma degli arbitri e degli abusi che i Baroni erano soliti commettere, e sul loro esempio altrettanto facevano i singoli proprietari, specie i "magnifici" cioè i nobili. Dalla precisazione fatta in merito ai limiti del feudo Policeta emerge che nell'Apprezzo del 1698, fatto dall'ingegnere Cannitelli, nella parte sovrastante il feudo correva la strada pubblica, di cui poi si è persa traccia, la cosidetta «strada dello straniero», che, al tempo della Magna Grecia, collegava Marcelliana, Consilinum, Tegianum (poi Dianum) con Paestum, attraverso il colle di Corticato, il passo della Sentinella e la Valle del Calore. I reperti archeologici trovati nella zona di Roscigno confermano che fra il Vallo di Diano e la Valle del Sele vi era un diretto collegamento. 4

In vari documenti dell'800 viene spesso citata la «via dell'ospedale» di cui poi, si è perduta traccia. Presumibilmente la via si trovava fra la Temparella ed il borgo S. Sebastiano

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Una ulteriore conferma dell'esistenza di tale via di comunicazione la dà l'«Itinerarium Antonini», secondo il quale, oltre all'itinerario principale (la via Annia) che attraversava il Vallo di Diano, vi era un itinerario secondario che collegava Paestum alla via Annia, seguendo all'incirca l'attuale tracciato che da Roccadaspide, Bellosguardo, colle Corticato, portava, biforcandosi a Fontana del Vaglio, da una parte a San Pietro e Polla, e da un'altra, rasentando la collina di Diano, raggiungeva Marcelliana. Tale è anche il parere del prof. Antonio Marzullo 5. Giova aggiungere che la strada rasentava la contrada Campanella, dove nel 1926 mio cognato Angelo Sorge, dissodando il terreno, casualmente portò alla luce il sepolcro di Caio Luxilio Macer 6 - Allegato N. 2. Ritorniamo alla divisione delle terre dello stato di Diano ed alle beghe ad esse connesse. La Terra di San Pietro, «quantunque si fusse chiamata col nome di Casale di Diano, tuttavolta è stato sempre un feudo distinto e separato soggetto alla giurisdiz(ion)e dè possessori della T(er)ra di Polla e di altri Baroni;...vi è stata bensì la promiscuità del territorio soltanto, e nò già comunità, che godono li casali, per cui avendo li Naturali di San Pietro dissoldati li terreni demaniali comuni dello Stato, framischiandosi (sic) colli cittadini dell'Articolanti tumultariam(en)te come sopra han commesso doppio attentato si per l'ordini proibitivi del S.C. e si per aver fatto uso di quella comunità che loro non appartiene, onde come intrusori si devono dall'autorità di esso S.C. espellere» 7. L'osservazione interessa soprattutto S. Rufo, perché, stante la mancanza di ben definiti confini, i cittadini di S. Pietro, "intrusori", cercavano di allargarsi a danno dei naturali del casale vicino, cioè di San Rufo, mentre in effetti i terreni «per tom(ol)a 5

Rassegna storica Salernitana, 1973. La zona ad oriente della contrada Campanella, in tenimento di S. Rufo, presenta qualche interesse archeologico, ma sino ad oggi nulla è stato fatto per portare alla luce eventuali reperti. Il sepolcro citato interessa la storia di Diano e non di S. Rufo, allora inesistente. Comunque l'argomento è stato trattato dall'arciprete Ippolito nel suo citato libro ed in precedenza, in modo più approfondito e compiuto, da Matteo della Corte: «S. Rufo. Avanzi del sepolcro monumentale di C. Luxilius Macer» in «Notizie degli Scavi» 1926, pag. 25. Archivio Storico della provincia di Salerno, 1934, pag. 134. 7 Archivio di Casa Carrano 6

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1845 chiamati coi nomi particolari Salici, Corticelli, Piedicanciello, - Cannito - Tempa delli Cardoni - Via del Quarino - Via del Campo: Via del Parmitiello - Petrazzoli, Rogella Marinella - Valle di Lama - Lo Stuorzo - Lo Lacito ( Lacevo ) ed altri, ridotti a cultura dà molto tempo dà Naturali di San Pietro, su dè quali l'Università di Diano e Casali vi han sempre posseduto ed attualm(ent)e posseggono senza contraddiz(ion)e il diritto della Spica, che ogni hanno (sic) dà in affitto, ed esercita ogni altro iusso (diritto), che possiede in tutti l'altri demaniali comuni e, sebbene dal Duca di Diano, ossia della Polla Barone, di d(ett)a T(er)ra di San Pietro se n'esigesse il terraggio e ciò è avvenuto per usurpaz(ion)e e per prepotenza baronale». Ma il barone della Polla non aveva di che arrossire, perché: «l'odierno Ill(ust)re Duca ( il Duca Calà di Diano ) occupò molti terreni demaniali siti nella Piana in più luoghi...di capacità c(irc)a tom(ol)la 5 ridotto a coltura in contravvenz(ion)e dell'ordini proibitivi del S.C., che tiene per un uso d'ortilizio (!) d'inverno, e desta cò averselo chiuso all'intorno cò profondiss(im)o fosso a guisa di letto di fiume, cò avervi fatto formare un ponte di legno per entrarvi; in mezzo a d(ett)o territorio ha similm(ent)e fatto formare altro fosso grande per uso di privata peschiera, facendovi introdurre l'acqua del vicino fiume: oltre a ciò vi ha fatto costruire due edifici col nome di Pagliara, uno piccolo per comodo dell'ortolano; e l'altro grande cò pavimento di calce, e colle pareti intonacate... proibendo a cittadini l'entrarvi né coll'animali, né di persona». Ma al Duca non bastavano i broccoletti e l'insalata dell'«ortilizio» e neanche le trote della peschiera, perché «il medesimo Ill(ust)re Duca tiene occupati altri terreni demaniali della Piana... cò averseli parim(ent)i chiusi con fossi profondi e piantag(ion)e di salici all'intorno: Nel luogo detto Villa altra quantità, cò aversela parim(ent)i chiusa cò siepi per uso d'ortilizio» 8. Vi è abbondanza d'«ortilizi», ma vi è altrettanta materia per far rallegrare e proliferare gli avvocati, il che regolarmente avverrà e si accentuerà dopo il 1806 e si protrarrà poi sino ai giorni nostri. Gli arbitri, le prepotenze e gli abusi, come abbiamo visto, erano cose di ogni giorno: litigavano, in conseguenza, i Casali contro i baroni e contro glia abusivi, ma nessuno brigava per dare 8

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Archivio di Casa Carrano.


condizioni di vita piÚ umane agli indigenti, per i quali lo stato di soggezione permaneva e si aggravava continuamente. Lo storico Giuseppe Maria Galanti affermava che nel feudo S. Gennaro di Palma, distante poco piÚ di venti chilometri da Napoli, da lui visitato nel 1789, abitasse in case solo il personale del barone e che la popolazione - 2000 uomini circa - si riparava, con le bestie, sotto pagliai e nelle grotte, esposta ai rigori delle stagioni. Se questa era la situazione che si presentava alla periferia di Napoli, si può ben immaginare quale fosse quella della povera gente del nostro paese.

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I BENI DEMANIALI, FEUDALI E PRIVATI Prima ancora che sorgesse Calvanello e succesivamente Casalvetere e S. Rufo tutti i terreni facenti parte dell'attuale comprensorio sanrufese erano demaniali ed appartenevano allo Stato di Diano. Erano delimitati a nord dalle pendici meridionali degli Alburni, a nord-ovest dalla Serra Nuda, confinante con il territorio di Corneto (attuale Corleto Monforte), e parzialmente con Roscigno, mentre la catena di monti che dalla Cerevolla degrada in direzione sud-ovest li delimitava ad occidente. Nessuna limitazione ad oriente perché continuavano col territorio di S. Pietro al Tanagro e di S. Arsenio, facenti parte dello stesso Stato di Diano. Col sorgere dei casali citati, per necessità di vita, si erano avute saltuarie arbitrarie occupazioni di terreni demaniali e poiché il fenomeno aveva assunto proporzioni preoccupanti lo Stato di Diano ritenne opportuno rivolgersi al feudatario, conte Tommaso Sanseverino, perché le arbitrarie occupazioni cessassero ed i terreni fossero restituiti alla comunità. Effettivamente «molte porzioni di detti terreni erano state occupate furtivamente da particolari» e perciò il conte Sanseverino ordinò che «ritornassero all'Unità». Ciononpertanto molti terreni demaniali continuarono ad essere occupati da "particolari" ed il fenomeno acquistò più vaste proporzioni per analoghe occupazioni fatte successivamente dai feudatari. Difatti la valle dei Salici, il Bosco del Tallaro (Foresta), la terra di Pantanella, quella di S. Elia, la terra al Triglio e il Setone, tutti terreni demaniali, furono man mano incamerati dalla corte baronale con grave danno della popolazione più indigente. Alla fine del 1600 rimanevano demaniali soltanto i seguenti terreni: la Mola, la Costa dell'Angelo, la Fossa della Nivera, la Serra Nuda, la Valle (Avaddi), la Serra della Cerza, la costa della Melania, la Spina dell'Asino (Ausino), Tempariello, i Pendini delli Venti, i Belli Forrielli, la Rupa della Fusara, Campanella, la Montagna e parte dei Temponi. I beni della corte baronale, oltre quelli indebitamente incorporati, erano: la Marza, S. Antonio, limitatamente alla zona a monte della mulattiera S. Antonio - Tempa, Triglio, Mosciano, li Verti, la Difesa e parte dei Pagliai Bassi. La Difesa era adibita al pascolo degli animali ed alla raccolta del fieno e l'Università pagava un apposito tributo al feudatario. 42


Per quanto riguarda i terreni compresi tra la Marza e la Scafa, è da tener presente che trattavasi di terreni acquitrinosi e parzialmente paludosi, destinati esclusivamente al pascolo 1. Ai suddetti terreni bisogna aggiungere quelli suffeudali dei Pellegrini, costituiti, oltre la Policeta, da Acquafredda, dalla Mezzana, dall'Acqua dell'Orefice, Cortina, Rupe Rossa, Piede Casale, un oliveto di 15 tomola nei pressi della casa Pellegrini ed un altro di circa cinque tomola alla Tempa. Nel corso della trattazione abbiamo ripetutamente fatto cenno alle misere condizioni in cui si dibattevano pastori, "bracciali" (braccianti) e contadini, ma non vorremmo s'ingenerasse la convinzione che non vi fossero piccoli e medi proprietari. Ve ne erano e parecchi, ma non è possibile precisare quando singolarmente lo siano diventati. Alla fine del 1600, come risulta dalla platea del 1691, a S. Rufo, in relazione alla modesta consistenza del paese, vi era un discreto nucleo di piccoli e modesti proprietari 2. Tale situazione era in stretta relazione con alcuni provvedimenti adottati, per ragioni politiche, due secoli prima da re Ferdinando I d'Aragona (re Ferrante), che, a causa del minaccioso atteggiamento di Carlo VIII, re di Francia, con lo statuto del 14 dicembre 1482, aveva disposto: «potesse chiunque esercitare qualsiasi onesta industria ... e vendere e comprare liberamente le cose tutte, in specialità il vino, l'olio, la galla, il sale nitro e altri somiglianti oggetti che i feudatari esser volevano i soli rivenditori, e quel prezzo ritraevano che loro acconcio tornava» 3. Sino allora, a parte gli arbitri dei feudatari, il re, che commerciava attivamente anche con l'estero, aveva sottoposto i proprietari di terre a continue vessazioni costringendoli a 1

Il Bianchini, nella citata «Storia delle finanze delle due Sicilie», precisa che col termine "scafa" si intendeva indicare il limite di confine dove era obbligatorio pagare il diritto di dogana. 2 Agli inizi del 1600 la popolazione di S. Rufo non superava i 1000 abitanti. Nel 1740 raggiugeva le 1200 unità (v. G. Volpi). All'atto della formazione del regno la popolazione raggiungeva 3062 abitanti, consistenza mai più raggiunta, anzi con l'emigrazione si ebbe un notevole calo (1338) nel 1911 e 1813 nel 1921. Una rilevante ascesa di ebbe nel 1953 con 2579 abitanti, ma dieci anni dopo si registrò un calo (2280 unità) seguito nel 1971 da un ulteriore calo (1991 abitanti). Dall'ultimo censimento, effettuato nel 1976, risulta una popolazione di 1995 abitanti. 3 Bianchini, Storia delle finanze delle due Sicilie.

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vendergli i prodotti della terra al prezzo stabilito dal suo arbitrio. Inoltre il re - obtorto collo - aveva disposto la vendita di alcuni beni demaniali con evidente sollievo della borghesia. Il successivo arrivo a Napoli di Carlo VIII rappresentò per il ceto medio un ulteriore motivo di soddisfazione perché sapendo che in Francia quel sovrano svolgeva una politica economica favorevole alla borghesia, sulla quale si appoggiava, molti cittadini possidenti, non più gravati da alcuna imposizione, si affrettarono ad acquistare terreni, che assicuravano loro un reddito modesto ma sicuro. Purtroppo dopo la partenza di Carlo VIII tutto ritornò come prima, ma nel frattempo si era iniziato un processo di ruralizzazione anche nel nostro paese consistente in sempre più frequenti investimenti di capitali nell'acquisto di terreni. La chiesa ed i suoi rappresentanti, che non mancavano di capitali, anche questa volta furono molto attivi nell'acquisto di terreni. Nei secoli successivi i proprietari terrieri aumentarono ulteriormente, ma già ala fine del 1600 troviamo a San Rufo un numero abbastanza consistente di piccoli e medi possessori di terre. Nel citarli nominativamente a fianco di ciascuno indichiamo la contrada dove erano situati i terreni di loro proprietà. Essi sono: 4 * Magnifico Abbamonte5- contrada Arenazzo * Magnifico Benvenga Domenico - contrada Piano Marino e Temponi * Magnifico Brandolino Giuseppe - contrada Sotto Calvanello * Capobianco Giuseppe - contrada Sotto Calvanello e Piano Marino - Capozzolo Giulio - Terra di Rao - Cimino Abbondazio e Domenico - Castagneto, Temponi, Fontana delli Salici * Curto Biagio - Candetiello (Cannetiello) * Curto Domenico - Cerza di Venere, Torre di Marco 4 I nomi segnati con asterisco si riferiscono a famiglie da tempo estinte o trasferite altrove.

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Curto Paolo - Temponi Curto Francesco - Fornace e Temponi Reverendo D'Ippolito5 Benigno - Marza e Torre di Marco D'Alto Geromina - l'Arenazzo D'Errico5 Claudio- S. Antonio De Vita Gian Giacomo - Finocchiara Donadeo Matteo - Sotto Calvanello Di Somma5 Biagio - Pagliai Bassi - Temponi Di Somma Francesco Maria - l'Arenazzo Di Somma Gennaro - Piano Marino Di Somma Giovan Battista - Piede Casale Reverendo di Stabile5 Antonio - Capo Casale Reverendo di Stabile Angelo - Capo Casale - Temponi Reverendo di Stabile Giovanni - l'Arenazzo Reverendo di Stabile Mariano - Piede Casale Reverendo di Stabile Matteo - Terra di Rao e Torre di Marco Giuliano Francesco - Temponi Giuliano Antonio - Capo Casale - Temponi Giuliano Marco - Temponi - Pagliai Bassi Grieco Giuseppe - Marza - Candetiello (Cannetiello) Luongo Domenico - Castagneto Marmoro 5 Elisabetta - Vignola - Arenazzo Marmoro Filadelfo - Vignola - Arenazzo Marmoro Giuseppe - Terra di Rao - Arenazzo Candetiello Marmoro Lattanzio - Vignola e Prato del Fico (Mosciano) Marmoro Lattanzio e Paolo - Terra di Rao Mangieri Giuseppe - Camerino Mangieri Donato - Temponi Mangieri Taddeo - Temponi Motta Francesco - Arenazzo M* Mottola Francesco - Terra di Rao Paladino Giacomo Antonio - Sotto Calvanello Perillo Tommaso - Piano Marino Perillo Stefano - Temponi Perillo Giuseppe e Domenico - Castagneto

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Nel 1700 abbrevieranno il nome in Bamonte, Ippolito, Errico, Somma, Stabile e Marmo.

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* Dottor Procacci Aniello - Foresta - Pagliai Bassi Calvanello - Candetiello - Sant'Antonio - Temponi * Sansone Domenico - Piano Marino - Reverendo Spinelli Camillo - Colaprece - Spinelli Carlo - Pagliai Bassi - Reverendo Spinelli Tommaso - Candetiello - Sant'Antonio Torre di Marco * Sorice Donato - Pagliai Bassi * Sorice Giovanni - Vallone d'Alfano - Capo Casale - Tierno 6 Francesco - Fornace - Tierno Marco - Piano Marino - Piede Casale. Non è possibile precisare l'estensione dei singoli terreni, ma è da ritenere che si trattasse di cosa da poco conto perché, come vedremo, quasi tutti prendevano a censo dalla chiesa terreni estesi e di maggior reddito 7. Ad eccezione di poche famiglie, come, ad esempio, quella del Dottor fisico Aniello Procacci, che disponevano di consistenti proprietà immobiliari, molte altre si consideravano fortunate se possedevano un fazzoletto di terra, non sempre redditizio e molto spesso dislocato in zona montagnosa o lontano dal paese. Molti terreni, alcuni secoli addietro, erano poco fertili, come, ad esempio, i Temponi, Calvanello, Cortina, i Castangeti, la Rupe Rossa, Piede Casale, La Torre di Marco, ecc., e quindi esser proprietario di un terreno in quelle zone non voleva significare di aver risolto il grave problema dell'indipendenza economica e del sostentamento. L'ambiente in cui vissero i nostri antenati è profondamente mutato; è mutato il paesaggio agrario, così come è mutato il regime idrografico e conseguentemente è mutata la ripartizione delle colture. Tutto va visto perciò con ottica rovesciata e ricostruito alla luce di ciò che sopravvive nel presente, senza cioè tener conto di quanto l'uomo e gli agenti atmosferici hanno modificato. Valga per tutti l'esempio della pianura, che oggi si presenta incantevole per la vivacità e varietà delle sue colture, e la vecchia "chiana", paludosa, acquitrinosa, malsana.

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In precedenza tale casata figura col nome Eterni. Occorre tener presente che sui terreni privati, con l'esclusione di quelli della Chiesa, gravavano varie servitù imposte dal feudatario. 7

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Solo in tal modo possiamo renderci conto del dramma di intere generazioni, oppresse dal feudatario da una parte e dalla Chiesa dall'altra, che dovevano affrontare il problema del pane quotidiano fra lacrime e dolori. La maggioranza dei terreni veniva, in genere, lavorata direttamente dai proprietari (coltivatori diretti del tempo) e solo pochi potevano permettersi il lusso di farli lavorare dai "bracciali" e dai contadini. L'esistenza di piccoli proprietari, premessa la formazione del ceto medio, nel secolo XVI consentì la formazione di professionisti dei quali l'Università aveva bisogno ed era in relazione anche al continuo regredire del potere dei Baroni. Difatti, come rileva Benedetto Croce nella «Storia del Regno di Napoli»: «Se la ricchezza scemava nei Baroni (a causa del lusso, del fasto e dell'ozio), si accresceva ed in parte trapassava nel ceto medio nei due principali elementi di cui si componeva: gli speculatori e gli avvocati». Alla prima categoria appartenevano gli appaltatori, i procuratori, i prestatori di denaro (preti compresi) ed alla seconda gli avvocati che approfittando dello spirito litigioso e talvolta gretto dei nuovi arricchiti od in via di arricchimento rimescolavano a non finire problemi il più delle volte di modesto interesse. Come vedremo parlando degli statuti, gli arbitri del baroni che allargavano i loro diritti sui beni del demanio, non erano infrequenti e le Università attraverso gli avvocati, i deputati e i razionali 8 escogitavano sottigliezze per non essere danneggiati nei loro diritti e per ostacolare gli interessi del barone. A base delle controversie vi erano quasi sempre la terra, che, anche dopo l'eversione della feudalità, sarà il motivo conduttore di continui fermenti fra Università, demanio, possidenti e contadini.

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I deputati ed i razionali erano incaricati di applicare le tasse e controllare la contabilità.

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I BENI ECCLESIATICI ED IL CLERO Non si sa quando ebbe inizio la formazione della proprietà immobiliare della Chiesa di S. Rufo, né quale consistenza ebbe nel tempo. E' probabile che abbia avuto inizio con donazioni fatte da pie persone, così come è possibile che alcuni beni siano stati acquistati dai privati per un opportuno impiego di capitali. Il fenomeno degli acquisti di beni da parte degli ecclesiastici, in tacita concorrenza, con le occupazioni arbitrarie dei feudatari, riguardava, un po' tutti i paesi del regno ed in particolare Napoli, tant'è che la nobiltà napoletana mandò ambasciatori a Madrid presso Filippo IV prima e Carlo II dopo perché si ponesse un freno ai continui acquisti di beni da parte del clero 1. Dalla platea del 1691, redatta dal notaio Nicola Garzillo di Sala Consilina, esistente presso l'archivio parrocchiale, conosciamo le donazioni e gli acquisti fatti dalla Chiesa di S. Rufo, nonché i nomi dei donanti, dei venditori e la dislocazione dei terreni: a) Donazioni: Don Pietro Capozzoli - Fondo alla Marza - Casanova 2 * Francesco De Rosa - Mola (facente parte degli attuali beni della Chiesa) Giuliano - Pagliai Bassi * Pompilio Sorice - Una casa in località Piedi Casale * Luca Monaciello - Casalino (casetta, alias "casedda") in località Capo Casale D. Biagio Calceglia - Vignola b) Acquisti: - Terra a S. Antonio, acquistata da un'ava del magnifico Benedetto Palmieri con istrumento del 2-1-1668 - Castagneto di quattro tomola, acquistato da Gian Giacomo Greco, da Corneto (Corleto Monforte) con istrumento del notaio Nicola Garzillo. Di tutti gli altri beni, per complessivi 120 ettari, non è specificata l'origine e non è da escludere che siano pervenuti, tutti o in parte, attraverso i famosi «testamenti dell'anima».

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Storia di Napoli - Vol. VI, pag. 610. Le famiglie segnate con asterisco sono estinte.


La corsa ai beni attraverso i testamenti dell'anima era prassi normale ed era facilitata dal frequente insorgere di pestilenze, di terremoti, di carestie o mancanza di eredi. Con azione diretta e costante i preti riuscivano a convincere gli anziani e gli infermi di presentarsi al giudizio divino liberi da ogni pastoia terrena, affidando alla Chiesa i loro beni. In cambio avrebbero ottenuto, la continua assistenza spirituale dei sacerdoti mediante la celebrazione di messe. Le vie del cielo erano infinite ma la più sicura passava attraverso i beni patrimoniali! Allorché qualcuno moriva senza testamento od avendo legato il patrimonio, tutto od in parte, a celebrazione di messe, i preti, e talvolta i vescovi, s'affrettavano a redigere il testamento dell'anima 3. In caso di palese opposizione da parte dei parenti del morto si negava la sepoltura, che sino al 1839 avveniva in chiesa, ed in tal modo si costringevano i congiunti riottosi, impossibilitati a sopportare le conseguenze della putrefazione del cadavere, a rinunciare a qualsiasi diritto di eredità. I beni della chiesa di S. Rufo, distinti in blocchi, località e superficie, erano i seguenti: (allegato 1) - Terre di Rao - tomola, 20, di cui 1,1/2 vigneto; - Tempa di Cerza - tomola 8; - Temponi - tomola 6, di cui 4 vigneti. Altri piccoli appezzamenti e due casalini erano nelle località Colaprece, S. Sebastiano, S. Maria e Piede Casale. In totale si trattava, in misura locale, di 350 tomola di terreni seminativi, vigneti, oliveti ed "arborati da frutta ", la terza parte, la migliore di tutti i terreni produttivi di S. Rufo, certamente non idonea a far passare attraverso la cruna di un ago coloro che ne beneficiavano. Probabilmente a questi beni si aggiunsero poi quelli, notevoli, dei Gerosolimitani all'atto della soppressione dell'ordine. In definitiva clero e baroni erano i reali possessori di quasi tutti i beni patrimoniali e la popolazione più misera era costretta a vivere una vita servile e di stenti, non dissimile da quella degli schiavi. L'ingordigia dei baroni faceva il pari con quella dei vescovi feudatari, che pure ve n'erano e non pochi, e quindi non deve meravigliare se i beni ecclesiastici fossero in diretta concorrenza 3

Colletta - Storia del reame di Napoli

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con quella della corte baronale. Come vedremo, il clero, ottemperando a precise direttive superiori, non mancavano di dare in prestito somme di denaro derivanti da redditi patrimoniali e di capitali, ma si ben guardavano dall'impiegare le stesse somme, o parte di esse, o quanto meno gli interessi che producevano, in favore delle famiglie più povere. In una situazione gravemente precaria, era frequente che qualche "morto di fame" si desse al brigantaggio e rubasse a man bassa nel gregge del vescovo, giustificandosi poi col dire, se individuato ed arrestato, di essere caduto in errore perché quelle pecore non avevano la chierica! Taluni provvedimenti, come i monti frumentari od i monti di pietà, nella sostanza non modificarono la situazione che si aggravava sempre più a causa della "decima" sui raccolti pretesa dalla Chiesa. Ma ritorniamo a parlare dei terreni della Chiesa e del loro reddito. I predetti terreni erano dati a censo perpetuo in natura od in danaro per complessive 68 tomola di grano e 170 ducati. Fra coloro che prendevano a censo i terreni vi erano grossi proprietari, come il dottor fisico Procacci, sacerdoti, come D. Tommaso Spinelli, D. Angelo Stabile, D. Camillo Spinelli, economo della chiesa, D. Diego Tierno ed altri proprietari terrieri. Dalla platea non risultano gli introiti per il taglio di castagni, la raccolta delle ghiande e per l'olio ottenuto dalla molitura delle olive. Giova ricordare che per il taglio dei castagni occorreva l'autorizzazione del vescovo, diversamente s'incorreva nella sospensione "a divinis". A loro volta i Gerosolimitani possedevano beni immobili, quasi tutti confinanti con quelli della Chiesa, alle contrade Cola Tropece (Colaprece), Vignola, S. Maria di Casanova, Rielle, Tempa Tornaturo, Pietra Figliarola, Piano Marino, Torre di Marco, S. Maria Scoperta, Arezzano, Terra di Rao ed altre località. Non conosciamo l'estensione dei singoli terreni né la rendita che producevano, ma è da supporre che fossero più che sufficienti ai loro bisogni. La Chiesa, per arrotondare gli utili, concedeva prestiti in denaro all'interesse del dieci per cento, per complessivi 725 ducati, una somma notevole per quei tempi. Per ciascun prestito si redigeva apposito istrumento con il quale le somme concesse 50


venivano ipotecate sui beni immobili dell'interessato o di altre persone garanti. Poteva accadere che non sempre a fine anno finanziario (mese di agosto) i debitori fossero in condizione di pagare gli interessi maturati ed allora si rivolgevano, con petizioni, al procuratore della Chiesa per ottenere il condono degli interessi "attrassati". E' il caso di «Tommaso Di Filippo del castello di San Rufo» il quale in data 17 novembre 1751 con supplica «espone come trovandosi debitore di docati diece alla parrocchiale Chiesa, trovandosi in stato miserabile, e carico di dodici figli maschi e femmine che la povertà non può somministrare a' medesimi il vitto necessario per il loro mantenimento« chiede che «per carità» gli venga condonato il pagamento degli interessi maturati. Il 30 ottobre dell'anno dopo «il miserabile Don Gioacchino Capobianco», debitore di venti ducati, a causa della sua povertà, chiede di non pagare gli interessi "attrassati". In tale circostanza il Clero di S. Rufo si dimostrò disposto a condonare gli interessi a patto che il petente restituisse il capitale. Evidentemente don Gioacchino non ispirava fiducia, ciò pertanto nel 1793 lo troviamo procuratore (amministratore) della Chiesa. Nell'aprile del 1754 Giovanni Poppa e la cognata «la povera miserabile Rosa Benvenga, moglie del defunto Poppa» a causa della loro povertà chiedono di non pagare "l'attrasso" dell'interesse sui quaranta ducati ricevuti in prestito 4. Ma le cose non erano così semplici perché il più delle volte il mancato pagamento degli interessi o la mancata restituzione del capitale comportava la "censura", o, addirittura, "la scomunica" e conseguentemente, in caso di morte, l'esclusione dalla sepoltura dello scomunicato. Analogo provvedimento poteva essere adottato a carico di coloro che fossero recidivi nel non pagare il censo o la decima. Anche dopo che decima e censura saranno abolite dai Borboni le autorità ecclesiastiche non mancheranno di richiamare l'attenzione dei parroci sulla necessità da parte dei debitori di assolvere gli impegni assunti con la Chiesa. Lo ricorda con una lettera del 14 agosto 1832 Luca Carrano, vicario di Capaccio in Sala : «Vuole anche il prelodato Vescovo nostro, che voi signori curati facciate conoscere ai vostri figliani l'obbligo stretto, che 4

Archivio parrocchiale.

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esiste ai legatari di sodisfare i legati pii e le messe connesse alle cappelle gentilizie, le cui rendite si percepiscono dai rispettivi compratori, da quali vengono con iscandalo convertite in altri usi profani, rammentando loro la censura, e le scomuniche fulminate dai Sommi Pontefici contro coloro che commettono simili eccessi. Fate loro conoscere che in simili scomuniche incorrono quegli altri, i quali restringono, o danneggiano notabilmente (sic) i fondi della Chiesa e privano la medesima della percezione della rendita dei campi, de canoni e di altra legitima (sic) prestazione, facendo loro sapere che pel defraudamento dei suffragi lasciati da loro antenati, o per l'ingiusto approfitto della Chiesa, il Signore sovente permette che le famiglie refrattarie perdano il loro primiero lavoro e cadano nell'avvilimento e nella miseria». Così scriveva l'arcidiacono Carrano rappresentando un Dio vendicativo, dimentico che Dio è soprattutto amore. In definitiva il trattamento della Chiesa verso i bisognosi non si discostava di molto da quello del barone, entrambi insensibili alle necessità dei più poveri. Il feudatario arrestava e perseguitava, la Chiesa faceva arrestare e nel frattempo graziosamente scomunicava. I beni della Chiesa di san Rufo erano senza dubbio cospicui, come cospicue erano le rendite alle quali bisognava aggiungere gli altri introiti di cui parla Don Giuseppe Ippolito a pag. 114 del suo citato libro e quello derivante dal taglio dei castagni e dalla raccolta delle ghiande e delle olive. L'amministrazione delle rendite non doveva essere semplice ed in ogni caso non sempre corretta. Lo desumiamo dalla ispezione fatta il 24 settembre 1751 da Filippo Sanseverino, «professore della Sacra Teologia», delegato del Vescovo Raymondi di Capaccio, ed assistito da Francesco Sanseverino "Procuratore della Chiesa di S. Maria Maggiore della città di Diano". «Essendosi conosciuti i molti disordini accaduti nella revisione dei conti della Chiesa di S. Rufo», detto precise norme sulla gestione delle rendite «tanto della Sacristia quanto delle cappelle», raccomandando che «non si tenghino detti capitali oziosi ed in possesso dei sacerdoti sotto pena di scomunica ipso facto». Sempre nello stesso anno, i due Sanseverino affettuano un'accurata ricognizione dei conti della Chiesa per il periodo 1720 sino all'anno 1751. 52


Al termine concludono con la «collettiva generale»: - Il Magnifico D. Tommaso Spinelli per il 1738 resta debitore di carlini 34 e grana due 5. - Il Magnifico D. Simone d'Ippolito per il 1741 resta debitore di carlini 12 e grana uno e mezza e per l'anno 1749 di 10 ducati, 1 carlino e 13 grana. - Il sig. Arciprete Curcio per il periodo 1741 sino al 1747 resta debitore di ducati 35 e carlini sette. - Il sig. D. Antonio Mangieri per l'anno 1748 resta debitore di 5 ducati e grana 19. - Il sig. D. Filippo Marmoro per il 1750 resta debitore di 18 ducati e 12 carlini. - Il sig. Cantore D. Giuseppe De Rosa 6 per l'anno 1751 resta debitore di 13 ducati, quattro grana e mezzo, cinque tomola e due stoppelle di grano e undici stoppella di orzo. Il 18 marzo 1762 il Vescovo di Capaccio, MONSIGNORE Pietro Antonio Raymondi, durante la S. Visita rivede i conti della Sacrestia per il decennio 1751-61 e riscontrate inadempienze, da parte degli arcipreti e dei procuratori (amministratori), «ordina e comanda che sotto pena della sospensione a divinis ipso facto incurrenda ne diano intera soddisfazione alla Sacristia della Chiesa e per essa al di Lei Procuratore per farsene carico nella prima partita dell'Introito dei suoi conti per tutto il prossimo mese di agosto del corrente anno 17sessantadue; anzi vogliamo (che) il rev. Arciprete sotto la medesima pena metta sub sequestro tutti li frutti della massa comune che spettare possono di porzione alli detti significati nel succennato mese di Agosto e nell'altre divisioni da farsi in futuro sino all'integrale sodisfazione (sic) de rispettivi debiti». Gli addebiti riguardanti il reverendo D. Giuseppe Buscè, il diacono Domenico Marrone, il procuratore don Filippo Marmoro, D. Matteo Curcio, ed i procuratori D. Baldassarre Fiore e D. Francesco Mattina. Il 12 giugno 1794, probabilmente su ordine del vescovo o del vicario di Sala, «relazionari (controllori dei conti) D. Leonardo Marmoro e D. Eustachio Fiore, sacerdoti partecipanti di questa Parrocchiale Chiesa, presenti i testimoni Stefano Spinelli e 5 6

Per le monete, pesi e misure vedasi l'allegato n. 10. Il "Cantore" era ed è una carica onorifica.

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Policarpo Calceglia», eseguono una ispezione ed un controllo sulla amministrazione delle rendite della Sagrestia relativa al ventennio 1773-93. Riscontrate mancanze da parte dei sacerdoti, alcuni dei quali defunti, pur lasciando alla Corte laica di stabilire eventuali pene a carico degli eredi secolari che non restituissero le somme indebitamente trattenute dai sacerdoti defunti, precisa quanto dovuto da ciascuno: - Il magnifico Michele Mangieri, erede del fu D. Giuseppe, suo fratello: 14 ducati, 7 carlini e tre tomola di grano; - Il magnifico Pasquale e Ignazio De Vita, eredi del fu D. Pietro, loro fratello: ducati 10, grana 22 e 3 tomola di grano; - Giovanni Marmoro, erede di D. Filippo Marmoro: ducati 56, carlini 8, grana 5 e tomola 3 di grano. Similmente i seguenti sacerdoti viventi dovevano alla Chiesa: - D. Giuseppe Ippolito: 31 ducati, 9 carlini, 7 grana e 5 tomola di grano; - D. Pasquale Fiore: 16 ducati, 2 carlini ed 1 tornese; - D. Antonio Curcio, erede del defunto fratello D. Matteo: 50 ducati, 7 carlini, 9 grana e 3 tomola di grano. Sotto la stessa data i tre sacerdoti firmavano l'addebito, per accettazione. In una situazione del genere era naturale che la Chiesa continuasse a degradare, ad essere pericolante e tenuta in condizioni di trascuratezza non degne di un tempio sacro e perciò non deve meravigliare se il Vescovo Angelo Maria Zuccari, succeduto a monsignor Raymondi, nel verbale relativo alla S. Visita fatta 1773 affermava in modo drastico che la Chiesa di San Rufo «più rettamente dovrebbe chiamarsi spelonca di ladri» 7. Per tutti questi motivi le S. Visite non erano gradite al clero, anche perché comportavano notevoli spese per la sistemazione e per il vettovagliamento, in sede e durante le tappe, del personale che accompagnava il vescovo. Quest'ultimo normalmente in paese veniva ospitato dalle famiglie Pellegrini e Mattina. Le S. Visite, che prima avvenivano molto saltuariamente ed in modo puramente formale, dopo il 1670 furono organizzate dal cardinale Innico Caracciolo in modo scrupoloso e con il personale meticolosamente preparato. Anche da noi, a cominciare dal vescovo Raymondi, della diocesi di Capaccio dalla quale 7

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G. Ippolito San Rufo e la sua storia, pag. 91.


dipendeva San Rufo, le S. Visite furono organizzate in modo severo. E' da considerare che dai verbali delle S. Visite si riscontrano costantemente irregolarità amministrative, ma non appare mai un intervento a favore dei più miseri, dei bisognosi, dei vecchi, delle mamme, dei bambini, né si rilevano suggerimenti o consigli per una più incisiva azione dottrinale e spirituale da svolgere. Si direbbe che alla base delle S. Visite vi fosse solo l'interesse e la preoccupazione che il clero potesse appropriarsi indebitamente del denaro della Chiesa. Fu, invece, Ferdinando II ad intervenire presso i vescovi perché nel campo ecclesiastico svolgessero azione morale idonea a stroncare il triste fenomeno del brigantaggio, che pullulava in tutto il regno, e le continue ruberie, che, con fasi alterne, si verificavano un pò dappertutto. Lo afferma nella citata lettera del 14 agosto 1832 l'arcidiacono Carrano: «La massima parte dei colpevoli sta nella parte non civilizzata tra l'individui in bisogno, effetto ordinario dell'inattività e dell'ozio; e si è giudicato che l'istruzione religiosa sia uno dei mezzi efficaci alla minorazione progressiva dei reati per cui S. M. e da Suo Figlio si è ordinato ai vescovi che ne dispongano la maggiore effusione, quindi è che noi vi incarichiamo che sovente facciate l'istruzione religiosa ai vostri filiani facendo loro conoscere che tutti i danni che assistono all'uomo, e sopratutto (sic) all'uomo cristiano, tra i quali vi è quello di procacciarsi il vitto col sudore della propria fronte, è di fuggire a tutto potere (!) l'ozio e la mollezza che sono li motivi di tutti i vizi e specialmente dei fatti delle rapine». Non sappiamo se tali concetti siano stati recepiti e compresi dalla «classe non civilizzata» i cui componenti spesso rubavano e ammazzavano a causa della enorme diversità di vita esistente fra i "signori" ed i "cafoni". Questi ultimi, non a torto, si saranno detti: «va bene, lavoriamo e sudiamo pure, ma per quale motivo i "signori" sono dispensati dal procacciarsi il vitto col sudore della propria fronte e continuano a sfruttare noi poveri disgraziati?». Anche stavolta la funzione sociale ed umana della Chiesa e soprattutto il profondo significato del Vangelo erano sfuggite al clero. I mali della Chiesa di San Rufo non erano diversi da quelli degli altri paesi del regno perché il numero dei sacerdoti, 55


sproporzionato alle reali necessità, non era compensato da criteri, anche minimi, di ideale ascetico se non di coscienza del sacro da parte della maggioranza dei sacerdoti. La scelta del sacerdozio veniva fatta principalmente per evadere il fisco, sfuggire al braccio secolare ed assicurarsi il pane quotidiano e il companatico. Non dimentichiamo che si era in pieno feudalesimo e la Chiesa era l'unica in condizione di contrastare, talvolta con interessati accomodamenti, gli arbitri e le prepotenze dei baroni ed assicurare ai suoi adepti un modus vivendi dignitoso. Bisogna ancora osservare che alla scarsa preparazione culturale e dottrinale spesso i preti accoppiavano abitudini inveterate, quali il concubinaggio 8, il commercio, il lavoro dei campi, la frequenza delle bettole, il gioco e lo sfrenato egoismo, saturo più di decime che di amore per il prossimo. Il citato Cardinale Caracciolo nel riferire alla Congregazione del Concilio sugli ordinandi li giudicò indegni e impreparati 9. L'episodio del cardinale che visita i carcerati nella prigione della Curia e vi trova non pochi sacerdoti delinquenti è un sintomo dello stato in cui viveva il clero in quella epoca. E non solo in quella epoca!. Pochi erano i sacerdoti che provenivano dai seminari di Capaccio, di Diano o di Sicignano. Per essere i più preparati erano questi destinati al canonicato, ad assumere la direzione delle parrocchie ed a progredire nella carriera ecclesiastica. La maggioranza si formava presso le parrocchie con obblighi limitati per la formazione spirituale e prima di prendere gli ordini gli aspiranti dovevano dimostrare di avere frequentato la scuola della dottrina cristiana. Determinante per l'ammissione era il parere del parroco, che veniva regolarmente richiesto dal Vescovo. Bisogna anche tener presente che sino alla metà del secolo scorso nelle famiglie benestanti era consuetudine far contrarre matrimonio soltanto al primogenito in modo da non intaccare l'asse patrimoniale, anzi rafforzandolo con appropriati matrimoni. Gli altri figli abbracciavano la carriera ecclesiastica, quella delle armi o qualsiasi attività professionale idonea a contribuire a 8

Il Pastor, riferendosi al clero romano, così scriveva: «La sua immoralità era così diffusa e grande che qualcuno invocò l'abolizione del celibato». Storia dei Papi, vol. I 9 Storia di Napoli, vol VI, ibidem.

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rafforzare il patrimonio del primogenito. Le donne raramente contraevano matrimonio, talvolta prendevano la via del Convento o si automortificavano come «monache di casa». Ciò stante era inevitabile che i sacerdoti cadessero nel grave inconveniente del "nepotismo", fenomeno non nuovo nella storia della Chiesa, e dimostrassero ingordigia per l'interesse e scarso spirito di disciplina e di subordinazione. Un esempio indiretto di tale situazione è dato dalla lettera, in data 11 febbraio 1856, di Monsignor Vignone, Vescovo di Diano, diretta ai parroci della diocesi invitandoli ad inviare in quella sede un parroco od un ordinato in sacris per rilevare l'Olio Santo. Aggiungeva che nel caso di rifiuto il prescelto doveva essere sospeso dalla messa «per un tempo a loro arbitrio» il che comportava l'esclusione dalla puntatura (indennità di presenza) e l'esclusione dalla divisione dei redditi della Chiesa. Poiché molti sacerdoti si dimostravano sensibili solo all'interesse, probabilmente per tal motivo il Vescovo Domenico Fanelli, con gli «Statuti disciplinari pel clero della Diocesi di Diano», del 22 febbraio 1860, rifacendosi alle disposizioni impartite dal suo predecessore, stabilì alcune pene pecuniarie a carico dei sacerdoti che incorressero in talune mancanze, quali: - Omessa omelia domenicale: tre carlini; - Mancato controllo dei parroci sui confessori nella settimana in albis: dieci carlini; - per chi non interveniva alla soluzione di casi morali e iturgici: due carlini. Vi erano poi disposizioni per la sospensione ipso facto della messa, in genere otto giorni, in caso di mancanze riguardanti l'arbitrario uso di abiti, cappelli tondi e calzettoni da cacciatore durante i lavori di campagna, le confidenze fra i confessori e donne penitenti, giochi d'azzardo, arbitraria assenza dal proprio paese, ecc. Potevano incorrere nella sospensione a divinis i parroci spergiuri, coloro che frequentavano con assiduità caffè e farmacie per oziarvi o giocarvi d'azzardo e chi interveniva a fiere e mercati per vendere o comprare animali o per fare da sensale 10. Non infrequentemente i sacerdoti, a cavallo o con l'asino al guinzaglio, si recavano in campagna, dove effettuavano gli stessi lavori dei contadini, categoria dalla quale la maggioranza 10

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proveniva. E´ facile immaginare il sudiciume che si accumulava, in questi casi, sugli abiti talari dei preti e lo scarso prestigio che ne derivava. In materia, i richiami dei Vescovi si limitava a ricordare l'obbligo di indossare l'abito talare anche durante questi lavori. Inoltre l'elevato numero dei sacerdoti contribuiva a far sì che alcuni trovassero comodo giocare a «scarica barile», preoccupati degli impegni relativi ai lavori dei campi, del benessere personale dimenticando volutamente gli obblighi derivanti dallo loro veste di sacerdoti. In definitiva più che "dell'aldilà" si preoccupavano di tener ben saldi i piedi per terra. A S. Rufo il numero dei preti è stato sempre elevato, come risulta da un documento del 25 aprile 1829. A quella data vi erano i seguenti sacerdoti: Arciprete D. Daniele Marmo; Cantore D. Cesare Pellegrini; D. Eustachio Fiore; D. Pasquale Fiore; D. Clemente Mangieri; D. Domenico Curto; D. Cono Capozzoli; D. Pasquale Mea; D. Giuseppe Antonio Marmo; D. Cono Marmo; D. Vincenzo Somma; D. Pasquale Pagano. Come abbiamo visto, molti dimostravano particolare sensibilità allorché venivano attaccati i loro interessi ed in questi casi non disdegnavano adoperare l'arma del reclamo per ottenere anche ciò che non spettava. Difatti l'8 ottobre 1863 al sacerdote Francesco Antonio Mangieri, «incarcerato per iniquità», dal novembre dell'anno precedente dai «Ragionieri Clericali», non era stata concessa la «puntatura» e perciò l'interessato reclamò al Vescovo di Diano, il quale, malgrado il parere contrario del parroco, dispose che al Mangieri fosse pagata la puntatura dal Procuratore pro tempore. Comunque D. Francesco Antonio Mangieri doveva averla fatta grossa per finire in carcere. Il 1° ottobre 1878 il parroco, don Felice Capezzoli, rispondendo al pro-vicario in merito ad altro reclamo presentato dallo stesso sacerdote, affermava che il clero 58


di San Rufo «tranne qualcuno (il riferimento è chiaro)... ha sfidato ogni impertinente detrattore, anzi dico meglio, disprezzando ogni calunniatore l'ha rimandato al giudizio della pubblica riprovazione» e soggiungeva di «essere stato villanamente oltragiato dal reclamante Mangieri»... «Il reclamante ignorando o fingendo di ignorare diritto e logica ... sfrontatamente chiede partecipare di lucri avventizi insieme agli altri curati senza la sua presenza come ha confessato nel reclamo...essendosi occupato all'insegnamento pubblico non gratuitamente ma con la mercede di lire cinquecento oltre il sussidio» 11. Insomma anche stavolta don Francesco Antonio voleva la "puntatura", dimenticando che «nel marzo ultimo fu assente per infermità. Non fu d'esso ancora presente nelle messe cantate in suffragio del suo parente D. Cono Mangieri, nonostante che era il terzo grado di consanguinità, caso non contemplato nel Capitolo. Ciò premesso, concludeva il parroco, sono del parere che non è dovuta la Puntatura al Mangieri». Lo stesso reclamante si trovò poi impelagato in una duplice vertenza giudiziaria con il sacerdote D. Angelo Pagano 12, per la custodia dell'oro della Madonna (ex voti). Il Mangieri non doveva avere un carattere accomodante e lo dimostra l'episodio che lo vide scontrarsi col Sindaco del tempo allorché insegnava nelle scuole elementari di S. Rufo, allora dipendenti dal Comune. Il Sindaco, in occasione della festa della Madonna della Tempa, non aveva consentito che in quel giorno si osservasse l'orario festivo, ma gli alunni, d'accordo con i genitori marinarono la scuola. Il sacerdote si recò regolarmente a scuola e non avendo altro da fare si soffermò al balcone a curiosare. Poco dopo passò il Sindaco, Francesco Spinelli, che redarguì il Mangieri invitandolo a rientrare in aula e svolgere regolare lezione. Don Ciccio sbottò immediatamente: «in assenza degli alunni, più intelligenti di te , vieni tu a scuola perché, ignorante come sei, potrai trarre reale vantaggio». Ma a reclamare e a protestare non era solo il Mangieri, perché in data 4 marzo 1876, l'arciprete don Felice Capozzoli così 11

Archivio Parrocchiale Nel 1896 nel periodo in cui resse la parrocchia, l'arciprete Mangieri fece aggiungere altri due piani al campanile, ma si guardò bene dal fare imbiancare le pareti della Chiesa, luride e sporche. 12

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scriveva al pro-vicario generale, canonico, teologo D. Stefano Macchiaroli: «D. Pasquale Pagano, pretende che la messa pro populo non sia letta, ma letta nell'ora di quella conventuale. Il medesimo sacerdote ritiene ancora che sia obbligo mio celebrare qualche messa rimasta in massa, perché da questa ne ho avuto la congrua». «Il soprariportato sacerdote nega che non mi sia dovuta la doppia nei funerali sempre però presente il corpo». Il parroco rappresenta quindi l'infondatezza della tesi sostenuta dal reclamante perché in contrasto con la decisione dei Vescovi che «quante volte i Parroci (sic) godono della massa comune .. non debbono essere gravati dalla messe della massa, sono obbligati (sic) solo alla messa per pro populo». Il pro-vicario generale rispondeva che le leggi canoniche dovevano essere soddisfatte da tutti i partecipanti e che la «Messa cantata doveva essere adempiuta da ciascuno, giusto il turno fatto dal parroco». In data 2 giugno l'arciprete rappresentava ancora «D. Pasquale Pagano, il quale senza ritegno ha dichiarato che tante dottrine citate dalla S.a V.a sono vecchie e non sorrette dall'attuale Governo» 13. Insomma, la messa per alcuni preti costituiva davvero un sacrificio. In vero neanche D. Felice Capozzoli, bravissima persona, fu un fulmine di guerra, non perché non brillasse per cultura enciclopedica, ma perché, per l'intero periodo in cui tenne le redini della parrocchia, trascurò di iscrivere nell'apposito registro, che era anche quello dei nati, i nomi dei bambini battezzati. A testimonianza della sua attività sacerdotale rimane una croce scolpita in pietra di Teggiano, attualmente sistemata nella Piazzetta della Pace. A questo punto, prima di concludere l'argomento, sorge spontanea la domanda . «a parte la Bibbia, troppo complessa, i sacerdoti conoscevano i Vangeli e le norme restrittive del Concilio tridentino?». Per alcuni preti, che non brillavano per cultura e dedizione alla missione sacerdotale e la cui morale consisteva nel non averne

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alcuna, la risposta potrebbe essere negativa, o, quanto meno, molto dubbia. Gli episodi citati, forse propalati da qualche sacerdote interessato, non potevano sfuggire all'attenzione del ristretto ambiente locale, provocando una lenta e costante spirale anticlericale, specie fra gli elementi piĂš evoluti. Non dimentichiamo che in passato fatti che durano un giorno, in un piccolo ambiente, come quello di S. Rufo, occupavano le cronache per mesi ed anni. Prima di parlare dell'avvento dei Borboni ed esaminare i provvedimenti adottati per stroncare talune prerogative dei baroni, ridurre il numero dei preti e limitare la loro influenza, dobbiamo soffermarci brevemente sulle consuetudini e sugli statuti che regolavano la vita di alcuni paesi del Vallo e del Cilento e su quelli, presumibilmente, vigenti nella nostra UniversitĂ . (Vedi allegati 12, 13, 14 e 15)

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STATUTI E CONSUETUDINI Lo stato di indigenza creava situazioni abnormi in tutti i cittadini: uno sconfinamento di animali in terre altrui, un patto non rispettato, una pendenza insoluta, una promessa di matrimonio non mantenuta, una banale e talvolta involontaria offesa, un mancato riguardo fra le famiglie erano motivi per accendere gli animi con urla, strepiti e minacce, creando rancori ed inimicizie senza fine sino ad arrivare, talvolta, a fatti di sangue. La Chiesa avvalendosi del diritto di asilo, non infrequentemente dava ospitalità ai fuorilegge, senza intervenire per sanare moralmente l'ambiente, ma pronta a correggere alcune supposte storture formali dei fedeli. In un simile bailamme le Università dovevano sobbarcarsi a non indispettire né il feudatario né la Chiesa, ma anzi cercare di armonizzare i rapporti con l'uno e con l'altra. Contemporaneamente era necessario creare equilibrio fra il barone e 1'Università, fra i cittadini e la Municipalità, fra cittadini e cittadini, cercando attraverso il Parlamento ed i suoi deputati di regolamentare i rapporti e gli usi civici e di convincere il feudatario ad attenuare alcune sue pretese, a rinunziare ad alcuni privilegi e consentire un più umano modo di vivere della popolazione statuendo il rispetto di norme, consuetudini e diritti acquisiti. I1 feudatario perciò non sempre poteva restare indifferente quando il popolo chiedeva il rispetto dei suoi diritti e si ribellava a costrizioni desuete. Purtroppo nel nostro archivio comunale non v'è traccia di questi statuti, e non solo di questi, perché il carteggio, abbandonato per lungo tempo in un locale umido, è finito poi come carta da macero. In conseguenza non sappiamo nulla dei rapporti intercorsi fra la nostra Università ed i feudatari e perciò sul loro conto non possiamo esprimere nessun giudizio negativo né revocarlo in dubbio. Questa constatazione non deve indurci a non ricostruire il passato del nostro paese, perché, avvalendoci di quanto ha scritto Pietro Ebner in due poderosi volumi sulle consuetudini e sugli statuti del Cilento e riferendoci a quanto avveniva a Sant'Arsenio, Atena Lucana, Laurino e Roccadaspide, paesi a noi vicini, 62


possiamo dedurre le usanze che caratterizzavano la vita sociale del nostro paese. Allorché bisognava decidere su qualche questione di carattere generale il popolo veniva chiamato in piazza a mezzo di banditore. Alla riunione, come prescritto, presenziava un incaricato del feudatario, il quale aveva anche il compito di mantenere l'ordine. Dirigeva l'assemblea (il parlamento) il sindaco affiancato dagli "eletti", noti anche come "magnifici de regimine". Le mansioni degli eletti variavano da paese a paese ma in genere erano quelle di far rispettare le leggi, sopraindicate alla manutenzione delle strade, delle fontane, dei pozzi ed alla sanità pubblica 1. Alle votazioni partecipavano solo gli uomini con esclusione di coloro che avevano riportato condanne. I1 parere su ogni singolo argomento si esprimeva deponendo in un'urna fagioli (parere favorevole) o fave (parere contrario). Le decisioni adottate dal parlamento, una volta ottenuto i1 "placet" dal feudatario, venivano riunite in appositi fascicoli che costituivano gli statuti dell'Università. In questi statuti si trovano disciplinate le attività sociali, economiche e finanziarie, dall'annona ai pesi e misure, le disposizioni di diritto civile sulle successioni, sul matrimonio, nonché sulle esazioni di diritti fissi spettanti all'Università ed alla Corte baronaIe. Inoltre vi si trovano sanzionate le consuetudini locali che dovevano essere osservate ed alle quali i cittadini potevano richiamarsi per difendersi dalle pretese baronali. Riguardavano principalmente alcuni comportamenti secolari della collettività, come il godimento dei beni demaniali per sé e per il bestiame, che era la fonte essenziale di sussistenza. In questo regolamento delle consuetudini non sempre vi era aperta ostilità fra il feudatario e 1'Università, ma, come più volte ha osservato Ruggero Moscati, spesso era lo stesso feudatario a favorirne la regolamentazione. Non di rado è possibile trovare qualche affinità normativa fra l'Università e le prescrizioni dei Sinodi diocesani, come, ad esempio, nello statuto di S. Arsenio erano punibili con l'ammenda 1

Un artistico ed antico pozzo pubblico, risalente alla fine del XVII secolo, si trovava al termine di Via Cortiglione, nell'omonimo piazzale, di fronte all'antica abitazione dell'arciprete Maggese e successivamente abbattuto in conseguenza del terremoto del 1980.

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di un carlino 2 le donne che «prorompono in urla, strida, battimenti di mani, graffiamenti di faccia, estirpazione di capelli ed altri inconvenienti di che si tratta, e non solo che nel sentire tali urla e strida vengano ad atterrirsi gli astanti, ma con questo si argomenta qualche eccidio sortito, pertanto nessuna donna ardisca di prorompere in tali eccessi fuora di casa e fuora il recinto della casa». Nei sinodi non vi sono ammende, ma condanne di queste forme di lamentazioni femminili in occasione di lutti o di disgrazie di vario genere. Chi conosce le vecchie consuetudini locali, può tranquillamente affermare che tali disposizioni si saranno bene adattate anche a S. Rufo. Nello statuto di Laurino (art. 141) si fa divieto di condurre animali in chiesa, ed analogo divieto viene ribadito dai sinodi diocesani. L'art. 96 dello statuto di Roccadaspide prescriveva «Vole la Università che le femmine de li pryti (preti) che siano tenute a l'acqua quando ogni altra suczura che facessero tanto intra la terra quanto de ffora secondo pagano Ile altre donne». Analoghi richiami si rilevano dagli atti delle visite pastorali. C'è da chiedersi: le concubine dei preti mandrilli di S Rufo per le loro "suczure" erano forse destinate alla beatificazione? Fra le norme curiose ed umane nello stesso tempo figura quella che.vietava di punire «le donne gravide che per qualsiasi desio si cogliessero due fichi, due prune o altro de frutta in poca quantità bastante a muovere il gran desio». E da noi non si è forse sempre avuto riguardo verso le donne in stato interessante per evitare che «'u criaturo» nascesse deturpato da una voglia? Spassosa questa disposizione valida nelle Università di S. Arsenio: «Quando qualcheduna persona, tanto mascolo quanto femina, da quindici in supra, stridesse in mezzo la via pubblica o stridesse dentro le loro case che se sentissero da loro vicini o se mazziassero o se graffiassero in faccia, o li capilli, o altro, non paghi (al barone) altra pena se non un tari, quando però si mazziassero da loro; ma quando fussero bastonate le donne giustamente da loro mariti, o madri, o padri, non paghino pena alcuna se non quando uscissero alla strada stridendo».

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Vedasi allegato n. 3.


Insomma, potevano darsele di santa ragione purché non disturbassero la quiete pubblica. Meritevoli di menzione alcune norme riguardanti la tutela della salute pubblica, molte delle quali potrebbero essere tuttora valide ed opportune specie in quei paesi e soprattutto in talune città le cui strade sono ingombre di immondizie di ogni genere. Nell'art. 60 dello statuto di Atena erano previste pene per chi gettava le immondizie in luogo diverso da quello indicato dal comune «ubi affixit sunt pali» o vicino alle mura della chiesa. A Laurino veniva punito con un'ammenda chi gettava acqua o sporcizia dalle finestre e dalle scale (quelle esterne alle abitazioni) e chi non teneva pulito l'ingresso della propria casa (art.20). Come vedremo parlando degli usi e costumi di S. Rufo, anche da noi era frequente assistere allo spettacolo del lancio dalle finestre di ben altro. A S. Rufo esisteva in fondo alla via XX settembre il "monezzaro" dove i cittadini avrebbero dovuto gettare le immondizie, ma non sembra che tutti si attenessero a tale prescrizione. Esisteva anche il "porcile" al termine dell'attuale via Greco, ma non sappiamo con quale compito. Negli statuti non mancano le disposizioni riguardanti la manutenzione delle siepi, il pascolo degli animali, la tutela degli alberi e delle aie, la costruzione dei forni per il pane ed i provvedimenti contro gli incendi dolosi. Residui del vecchio statuto di S. Rufo, probabilmente, sono costituiti dalle «fide pascolo» e «fide legna» per pascolare il bestiame sui terreni demaniali e per raccogliere legna secca nei boschi comunali. Particolari norme regolavano le strutture a carattere comunitario ed aggregante rappresentate dalle confraternite, dalle opere pie, dai monti frumentari, ecc. In conclusione gli statuti erano la concreta manifestazione del diritto del popolo a difendere le consuetudini, le sue autonomie, il beneficio di poter godere di taluni beni comuni. Sull'argomento così scrive Pietro Ebner: «Gli statuti sono lo specchio su cui si riflettono gli interessi e la vita economica e sociale delle comunità o che si sviluppano in un arco di materie, che vanno dalla distribuzione e coltivazione dei terreni, alla conservazione del patrimonio boschivo e dei pascoli, dai prezzi dei prodotti delle locali industrie delle pelli, del latte e della lana ai prezzi dei prodotti agricoli, ittici ed artigianali, dai salari operai, 65


ai danni e ai furti nella proprietĂ demaniali, patrimoniali, delle UniversitĂ e dei singoliÂť 3.

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Paolo Ebner, Consuetudini e statuti del Cilento, vol. I pag. 365

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DAI BORBONI ALL'UNITA' D'ITALIA Nel 1734 Napoli, risorta a capitale di regno indipendente dopo 232 anni di vicereame e di sudditanza allo straniero, con l'avvento di Carlo III vide finalmente l'autorità regia sostituirsi a quella dei feudatari. I1 governo dei Borboni, consapevole di non poter abolire immediatamente la feudalità, si preoccupò di preparare gradatamente l'opinione pubblica contro di essa, di limitarne frattanto le competenze, di imporre ai feudatari l'obbligo di pagare i tributi dovuti e di abolire le guardie personali dei baroni. Similmente limita l'influenza ecclesiastica nell'acquisto dei beni, vietando i non mai sufficienti vituperati testamenti dell'anima, assoggettando i beni ecclesiastici ai tributi ed infine vietando il diritto di asilo che, sino allora, aveva consentito a più di un malvivente di sfuggire ai rigori della legge. Sempre nel campo ecclesiastico, col concordato del 1741, si pose freno all'eccessivo numero di preti. Nello stesso anno (1741) per la prima volta fu eseguito il catasto, che presentò parecchi difetti, perché molte terre sfuggirono al controllo e vennero assoggettate al pagamento dei tributi alcuni modesti proprietari terrieri e, ingiustamente, i ceti più umili, mentre i grossi proprietari riuscirono a far rilevare soltanto la metà dei loro beni. Inoltre si diede più valore alle terre dei poveri e meno a quelle dei ricchi, i quali pagavano soltanto per il reddito dei beni immobili, mentre i contadini venivano tassati per i terreni e per il lavoro accertato o presunto di ciascun componente la famiglia. In definitiva, il catasto, che avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e comportare un vantaggio per la comunità, si dimostrò un atto palese di ingiustizia sociale. Mentre ferveva un'intensa attività, intesa a modificare le strutture dello stato, negli anni 1763-64 una grave crisi attanagliò il paese. Per le avverse condizioni climatiche il raccolto del 1763 fu quanto mai misero e di gran lunga inferiore alle necessità della popolazione. Le autorità, errando madornalmente, ritenne che la scarsità di grano in commercio fosse conseguenza del mercato nero messo in opera da alcuni appaltatori che avrebbero occultato il frumento per poi maggiorarne il prezzo. In qualche paese la popolazione affamata ritenne veritiera tale diceria e linciò i supposti accaparratori, ma la verità era ben altra e, quando agli inizi del 1764 la situazione si fece drammatica, le autorità di 67


Napoli si videro costrette a rivolgere un pressante appello all'estero per un immediato aiuto. La Spagna prima e gli altri stati d'Europa dopo s'affrettarono a soccorrere le popolazioni meridionali inviando un notevole quantitativo di grano. I paesi del Vallo di Diano ne risentirono maggiormente perché i terreni destinati alla coltivazione erano limitati essendo la maggioranza o paludosa o destinata al pascolo. Come narrano le cronache del tempo, a S. Rufo la situazione era disperata, perché la gente moriva letteralmente di fame, cosicché, quando il 14 giugno dalla Valle di Lama spuntò la colonna di quadrupedi col carico di grano, si gridò al miracolo. A distanza di meno di venti anni, nel 1782, si ebbe un inverno estremamente rigido, che provocò gravi danni alle piante e alle colture. La prolungata siccità ed il forte caldo dell'estate successiva essiccarono i pozzi e danneggiarono le varie colture. I braccianti di S. Rufo, resi irragionevoli dall'ira e dallo sconforto, nell'ottobre.del 1783, invasero a mano armata e a suon di "tofa" alcuni terreni del vicino comune di S. Arsenio, provocando guai di ogni genere e la giusta reazione dei santarsenesi 1. Riprendendo il discorso sull'attività svolta dai Borboni in favore delle popolazioni, è da ricordare l'abolizione, risalente al 1771, delle decime ecclesiastiche e la diminuzione dei censi sulle proprietà ecclesiastiche e laicali. Notevole importanza ebbe la legge del 1776, con la quale fu stabilito che le terre incolte non pagassero tributo per vent'anni e per quaranta se vi fossero piantati olivi. Alcuni dei nostri attuali oliveti furono messi a sito in quel periodo. Un altro passo avanti si fece nel 1791, allorché su proposta del Vivenzio fiscale del real patrimonio, furono aboliti in tutto il regno i passi ed i pedaggi, mentre l'editto del 23 febbraio 1792 del marchese Palmieri, direttore della segreteria delle finanze reali, inteso ad ottenere la divisione delle terre demaniali e l'abolizione delle relative servitù, all'atto pratico, lasciò le cose come prima. Dopo una stasi di circa tre secoli, nel 1795 fu ripresa la bonifica del Vallo di Diano, purtroppo con risultati modesti malgrado che dal marchese D. Niccolò Vivenzio fosse stata dichiarata completa. Per tramandare ai posteri tale impresa 1

G. Ippolito, S. Rufo e la sua storia, pag.47. Giliberti, Il Comune di S. Arsenio.

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compose un'ampollosa epigrafe che fu murata lungo la strada regia. In tanti secoli trascorsi non era stato mai affrontato e portato a soluzione il problema delle vie di comunicazione e quelle poche strade esistenti erano ridotte a poco più di mulattiere tanto che, ad esempio, era difficile, oltre che pericoloso, andare a cavallo in Calabria. Invero sotto il governo del viceré duca di Alcalà Parafran de Rivera, verso il 1560, era stato progettato l'ampliamento della via Annia, ma, malgrado il contributo forzoso, non si andò oltre Salerno e la via delle Calabrie, continuando ad essere trascurata, andò sempre più rovinando al punto che si ridusse ad una semplice mulattiera. Soltanto sotto il duca d'Alba, nel 1622, fu costruito il ponte sul fiume Sele, ma altro non fu fatto. Re Carlo III, appassionato cacciatore, affrontò il problema delle «strade atte alla ruota», limitandolo agli itinerari che da Napoli portavano alle zone venatorie. In provincia di Salerno fu perciò prolungato il tratto Salerno-Persano. Probabilmente se il re non avesse lasciato Napoli per cingere la corona di Spagna, il che fece il figlio, Ferdinando IV, nel 1778, affrontando in modo organico il problema delle «strade rotabili per trafficare tra provincia e provincia». Fra gli altri furono iniziati e portati avanti i lavori della strada Napoli-Campotenese, l'altopiano ad occidente del Pollino sovrastante Castrovillari, e successivamente proseguita per Cosenza, Mileto sino a Reggio Calabria, per complessive 286 miglia, 430 chilometri circa. La strada, di 40 palmi di larghezza, fu munita di fossi laterali per lo scolo delle acque ed il piano stradale, a schiena d'asino, fu riempito con selci rotonde e quindi coperto di brecciame. Re Ferdinando dispose inoltre che lungo gli itinerari fossero poste pietre militari indicanti il numero delle miglia a partire dalla capitale. Nel 1788 il re volle rendersi personalmente conto dell'andamento dei lavori e giunse sino a Lagonegro, dopo una breve sosta a Polla ed un pernottamento nella Certosa di Padula. Con la strada per le Calabrie si interrompeva l'isolamento dei paesi del Vallo di Diano ed il re, inconsapevolmente, aveva aperto la via che le truppe francesi del gen. Regnier nel 1806 avrebbero

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percorso nell'inseguimento di quelle borboniche del gen. Damas in ripiegamento verso le Calabrie 2. Con l'occupazione napoleonica di Napoli, nel 1806 ebbe finalmente termine l'assolutismo, che in forme diverse aveva prostrato e mortificato le popolazioni del meridione d'Italia, ed il regno di Napoli assunse un assetto istituzionale ed amministrativo più moderno ed efficiente di quello avutosi dopo il 1734, molto simile a quello francese. I1 regno fu suddiviso in province, distretti e comunità. A capo delle prime fu posto un intendente, mentre nel distretto fu posto un sottintendente. Nei comuni il decurionato (costituito dal sindaco e 9 consiglieri e da qui il nome), stabiliva il preventivo delle spese, eleggeva gli impiegati per la durata di un anno e ne controllava l'operato. Con la legge 2 agosto 1806 venne abolita la feudalità e con essa furono aboliti i dazi, le gabelle ed ogni altra arbitraria imposizione. L'eversione della feudalità nell'assetto della proprietà, pur avendo sottratto i contadini ai soprusi ed all'oppressione baronale, scatenò una serie di lotte per l'accaparramento delle terre ed i contadini, scontratisi con la nuova borghesia agraria, ne uscirono sostanzialmente sconfitti. A sua volta la nuova borghesia, nobilitatasi con l'ingrandimento delle sue proprietà terriere, non si dimostrò verso i contadini meno intransigente dei vecchi baroni, sottoponendoli a pesanti patti agrari e ricompensando in modo irrisorio il loro lavoro. Per rendersi conto di qual'era la situazione di tanta povera gente non occorre andare lontano nel tempo ma osservare, tanto per citare una sola categoria, come venivano retribuite sino ad alcuni decenni addietro le donne addette alla raccolta delle olive. Dopo una giornata di lavoro svolta nei mesi invernali, in perenne equilibrio su un olivo, col sempre latente pericolo di cadute e senza alcuna forma assicurativa, a ciascuna donna veniva consegnata una "coppa" d'olio (la terza parte di un litro).

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Il passaggio nel Vallo di truppe francesi, al comando del gen. Regnier prima e del Massena dopo, non interessò S. Rufo perché fuori dall'itinerario seguito dai francesi. Le pattuglie spintesi sino a S. Pietro al Tanagro qui si arrestarono e perciò sono destituite di fondamento le notizie riguardanti supposte avvisaglie di soldati nel nostro territorio.

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La nuova borghesia, forse perché impreparata, non si dimostrò all'altezza dei tempi mutati, ad eccezione dei professionisti che da tale classe provenivano. I grossi proprietari, generalmente dimostratisi poco inclini allo studio, fieri della loro ignoranza e forti della loro astuzia, si preoccupavano esclusivamente di accumulare danaro convinti che la categoria dei "pennaruli" non rendesse economicamente. Eppure quasi tutti i "pennaruli" di S. Rufo acquistarono prestigio nei rispettivi campi professionali, ma, a causa della loro rettitudine, non mutarono posizione. Il Galanti, già citato, inviato dal governo a studiare le condizioni delle province, osservava: «tutte le parti dello stato si risentono ancora delle calamità sofferte nel corso dei secoli. Le persone più distinte serbano un tono di puerilità e generalmente tutti un certo egoismo, che li rende poco sensibili al bene della patria. Ogni classe ed ogni individuo non sembra di altro sollecito che far de' vantaggi propri sulla salute pubblica» 3. Venne di moda, per giustificare la propria apatia ed il proprio individualismo, il detto «ho famiglia», che tutto voleva e nulla giustificava. In conseguenza, i maggiori si chiusero a caposaldo nel proprio guscio, covando sorde lotte tra famiglia e famiglia. Ma ritorniamo alla legge contro la feudalità, dimostratasi subito incompleta ed affatto radicale, perché lasciava in sospeso molti diritti arbitrariamente accampati dai feudatari e non tutelava sufficientemente i comuni ed i privati, per cui 1'11 novembre 1807 fu nominata una speciale commissione, composta da sette magistrati, col compito di giudicare le controversie riguardanti diritti, rendite e prestazioni sopra i terreni. Gli intendenti di ogni singola provincia dovevano a loro volta tener conto di tutte le prestazioni tenute dai feudatari nei singoli comuni, di impedire che si perpetuassero quelle abolite e di segnalare al ministero della giustizia le eventuali contravvenzioni effettuate in relazione alle irregolarità riscontrate. Inoltre presso la commissione feudale vi era un procuratore generale che, oltre a controllare l'applicazione della legge, aveva il compito di difendere gli interessi dei comuni. La commissione operò con molta fermezza anche se fra molte difficoltà non ultima quella degli imperfetti catasti comunali.

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Galanti, «Testamento forense».

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Comunque, malgrado la.ritrosia a rinunciare a taluni privilegi, si pose fine «ad immenso numero di soprusi e di pretesi diritti». Purtroppo fra i comuni di Diano, S. Rufo, S. Arsenio, Sassano, S. Giacomo e l'ex feudatario don Vincenzo Schipani la contesa fu complessa, anche perché lo Schipani fu disonestamente appoggiato dal sindaco e dai decurioni di Diano con una falsa documentazione a suo favore. Sindaco e decurioni, su proposta del procuratore generale Winspeare, furono sostituiti, ma non fu possibile dimostrare il falso dei documenti prodotti in giudizio. Per questo giudizio i comuni si dissanguarono ed alla fine fu giocoforza addivenire alla concessione di mille tomola di terra in favore dello Schipani, malgrado che il procuratore Winspeare, in contrasto con quanto sentenziato dalla commissione feudale, fosse convinto che il diritto dell'ex feudatario fosse molto dubbio. Inoltre si addivenne alla separazione delle promiscuità fra i comuni di Teggiano, S. Rufo e S. Arsenio, secondo un progetto risalente al 1799 dei consiglieri don Domenico Salomone di Napoli e don Francesco Coiro di S. Arsenio. In tale occasione more solito - si ebbero arbitrarie usurpazioni di terreni demaniali confinanti con le proprietà private. Infine, con decreto del 10 maggio 1811 del consigliere di stato Paolo Giampaolo, commissario del re per la divisione dei demani, patrocinante il sig. Antonio Pecori a S. Rufo furono assegnate «tomola 1754 incolte, 325 coltivate sui monti, 796 boscose», per un totale di 2375 tomola 4. Resosi finalmente autonomo anche territorialmente ed eliminate le strutture feudali con le relative restrizioni e limitazioni, anche S. Rufo si organizzò nel campo economicocommerciale istituendo la fiera in occasione della festa del Patrono, senonché, riscontrata una maggior partecipazione di pubblico alla festa della Madonna della Tempa, fu chiesto di spostare la fiera da agosto a giugno. II sottintendente di Sala, accogliendo l'opposizione di Polla, che proprio nel mese di giugno già teneva la fiera nella ricorrenza della festa di S. Pietro, non autorizzò lo spostamento.

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Attualmente l'intera superficie è di Ha 3162.


Similmente non fu accolta la proposta fatta da S. Rufo, S. Pietro e S. Arsenio perché fosse spostato al giovedì il mercato settimanale che si teneva, e tuttora si tiene, a Polla il sabato 5. Di questo stesso periodo è da ricordare il miglioramento apportato nella proprietà terriera e nella lotta alla malaria. Difatti, dopo il ritorno dei Borboni a Napoli, nel 1819 furono ripresi i lavori di bonifica del Vallo iniziati nel 1795 dall'ingegnere Pallio, lo stesso che successivamente dirigerà i lavori stradali nel tratto Ponte Sele - Polla e che sembra abbia trovato la morte a causa di una violenta reprimenda fattagli da re Ferdinando per le eccessive spese sostenute nella costruzione del ponte di Campestrino. Alla morte del re, avvenuta nel 1825, i lavori furono fatti proseguire dal figlio Francesco I e poi da Ferdinando II, succedutogli sul trono nel 1830. La bonifica, ritenuta conclusa nel 1833 6 sarà continuata nel tempo sino ai giorni nostri, ma non v'è dubbio che allora segnò un rilevante progresso nella vita delle popolazioni deI Vallo. Ampliatasi la zona coltivabile con la scomparsa delle paludi e degli acquitrini, debellata - sia pure in parte - la malaria, assecondato lo stanziamento fisso e non più mobile dei contadini, il Vallo incominciò ad assumere un aspetto di oasi così come oggi appare ai nostri occhi. Purtroppo nello stesso arco di tempo un'epidemia di colera ed una carestia causarono molte vittime in tutta l'Italia meridionale e S. Rufo non ne fu esente. Dopo quello degli anni 1816-1817, una recrudescenza del morbo si ebbe nel 1836. In entrambi i casi, i morti furono seppelliti nella chiesa di S. Michele, nel rione di S. Rocco (1'Angelo). Questi furono gli ultimi morti seppelliti in chiesa perché, in seguito al divieto napoleonico, nel 1839 fu aperto il primo cimitero sulla collina a sud-est della Tempa.

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Bracco, Polla. Linea di una storia. Nel 1883 il Lenormant scriveva che c'era ancora molto da fare per la bonifica del Vallo. 6

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LA REPUBBLICA DEL '99 Nel periodo compreso fra il 1799 ed il 1820 nel regno di Napoli, e quindi anche in S. Rufo, si ebbero le ripercussioni di due moti importanti: l'avvento della repubblica nel '99 ed i moti carbonari nel 1820. Esaminiamone le cause. Come abbiamo visto, alla fine del 1700 la popolazione di S. Rufo e del Vallo, eccezion fatta di pochi privilegiati, si trovava in condizioni di estrema miseria. Gli stessi ceti privilegiati, rappresentati dalla nobiltà, talvolta posticcia, e dalla borghesia, inquadravano la loro attività nell'ambito dei propri interessi, di natura prevalentemente terriera e, come tali, cozzavano con quelli dei contadini, dei braccianti e dei piccoli proprietari. La «democratizzazione», di cui tanto si parlava e si parlerà ancora per qualche tempo, era qualcosa di indefinito per alcuni ed un'aspirazione dei ceti medi a soppiantare la nobiltà feudataria. Inoltre, pregiudizi di classe, gelosie, dissidi incepparono l'opera della municipalità perché pur essendovi uomini preparati non seppero e forse non vollero affrontare i problemi secolari e vitali della popolazione rappresentati soprattutto dalla soluzioni delle terre demaniali e delle usurpazioni avvenute, che i contadini avrebbero voluto risolte in loro favore. In definitiva, l'interesse fu la leva che fece oscillare la massa della popolazione, talvolta con reazioni disordinate e violente, a favore una volta dei giacobini e, successivamente, a favore dei realisti. La notizia della fuga del re a Palermo, avvenuta nella terza decade di dicembre del 1798, lasciò sconcertate le popolazioni, titubanti e sbigottite, cosicché fu facile ai giacobini «democratizzatori» svolgere propaganda a favore della repubblica, che a Napoli era stata proclamata il 24 gennaio 1799. Non dimentichiamo che nel nostro paese la massa sentiva nominare la repubblica per.la prima volta e non sapeva che cosa fosse e, benché indifferente inizialmente, successivamente, non per convinzione ma per opportunismo, seguì i capi-popolo che innalzavano l'albero della libertà, sormontato dal berretto frigio. Molti si ornarono di coccarde tricolori nella speranza di trarne poi un vantaggio. La situazione della guardia civica, avversata dalla popolazione perché gravava sui più poveri, fu uno degli elementi che rese difficile e talvolta ostacolò la democratizzazione. I discorsi sui vantaggi della repubblica rispetto alla monarchia non sempre vennero compresi, perché il popolo, in base alle 74


esperienze del passato, riteneva che il re fosse l'unico al quale poteva rivolgersi per ottenere giustizia e per sottrarsi alle angherie ed ai soprusi dei "signori". Comunque, anche in conseguenza di eccessi e di violenza che in taluni paesi non mancarono, il nuovo corso fu accettato. A S. Rufo gli animatori del nuovo corso furono don Giovanni Antonio Pellegrini, il sacerdote don Cono Capuozzolo (Capozzoli) e Leonardo Palladino, tutti e tre compresi fra «gli individui dei paesi della provincia di Principato Citra, che sono notati per materia di stato» 7. Il Pellegrini, eletto presidente della municipalità, sarà poi posto sotto accusa al ritorno del re a Napoli, perché «nel Parlamento fatto alla popolazione per risolvere l'articolo della democratizzazione aveva fatta una allocuzione spiegando i vantaggi del governo democratico». Don Cono Capuozzolo e Leonardo Paladino, quali deputati del pubblico Parlamento, furono inviati a Napoli per confermare alla repubblica l'attaccamento della popolazione e per «prendersi le istruzioni per eseguire la democratizzazione del luogo». Tutti e tre, a restaurazione avvenuta, furono posti sotto accusa, ma non carcerati. Fruirono poi dell'indulto del 30 maggio 1800. A S. Rufo fu piantato il solito albero della libertà e distribuite coccarde tricolori, ma, a differenza di tanti altri paesi del Vallo, non si verificarono fatti di sangue, anche se nei vari cambiamenti di governo non mancarono manifestazioni di facinorosi. Come sappiamo, la democratizzazione, che fra le città e la campagna ebbe aspetti diversi, perché diverse erano le aspirazioni del popolo, non durò a lungo, poiché lo sbarco del cardinale Ruffo in Calabria, avvenuto 1'8 febbraio 1800, segnò l'inizio della fine dei giacobini e della repubblica. Col procedere dei sanfedisti verso Napoli si sprigionò la reazione non tanto da parte degli elementi rimasti fedeli alla monarchia quanto dagli elementi turbolenti e mestatori, come lo Sciarpa a Polla e gli Abatemarco a Montesano, che, fiutato il vento contrario alla repubblica, erano passati nelle file dei realisti, commettendo imprese atroci e disumane. Prima della fine di febbraio del 1800 la ribellione si propagò in tutti i paesi del Vallo e quindi anche a S. Rufo.

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Archivio di Stato - Napoli - Casa Reale - Vol. 177, foglio 139 r e 236.

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Furono abbattuti gli alberi della libertà, distrutti i berretti frigi e le coccarde, annullati i provvedimenti adottati dalla municipalità, sciolte le guardie civiche e, come accade in tutti i rivolgimenti politici, incominciò la caccia contro quegli stessi uomini che poco tempo prima erano stati osannati ed adulati e che comunque erano persone degne di stima. Bande più che di ribelli di delinquenti si sparsero per tutto il Vallo, ammazzando e depredando chiunque avesse osato avventurarsi fuori dalla propria abitazione ed appartenesse alla categoria dei benestanti (proprietari terrieri). La stessa folla, che fino a poco tempo prima aveva gridato: «viva la repubblica, abbasso il re e la monarchia», ora gridava: «Viva il re, morano i giacobini». Nelle stesse chiese dove era stato intonato il "Te Deum" per solennizzare l'avvento della Repubblica, ora veniva nuovamente cantato per festeggiare il ritorno del re e della monarchia. In effetti era l'esplosione di una popolazione, che, dopo aver sofferto ogni sorta di umiliazioni e di soprusi, manifestava con episodi di violenza e di selvaggia ferocia l'odio ed il rancore non tanto contro un regime, quanto contro i signori proprietari di terre. In tale situazione la controrivoluzione si trasformò in anarchia e le fila dei rivoltosi aumentarono con l'affluire dei sanfedisti, le cui forze erano state sciolte al rientro del re a Napoli. Nel nostro Vallo rapine, usurpazioni ed omicidi furono all'ordine del giorno. Nell'ottobre del 1800 fu assalito e derubato il procaccia delle Calabrie da Antonio e Rosario Curcio di Polla e da dodici individui di S. Rufo ed Atena. In tale circostanza due persone rimasero uccise 8. Per stabilire l'ordine, furono inviati nelle province «visitatori economici» e «visitatori generali», con il compito di ristabilire l'ordine economico e quello politico e per estirpare la mala pianta del giacobinismo. Nella nostra provincia fu nominato il «caporuota» don Vincenzo Marrano. Questo stato di cose continuò per lungo tempo, sino a che, con la venuta di Giuseppe Buonaparte e la nuova fuga del re Ferdinando in Sicilia, le truppe francesi non misero ordine nel regno, arrestando e facendo condannare i rei di molti delitti.

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Indice dei Processi della R. Udienza di Salerno - n.12.959.


L'anelito di rinnovamento e di libertĂ ed i fermenti di rivolta di uomini eletti per virtĂš civiche e per l'alto sentire purtroppo non erano stati compresi dalle masse - e non lo potevano essere - e nella rivoluzione e nella controrivoluzione avevano visto, sia pure attraverso arbitri ed assassinii, la possibilitĂ di scuotersi dal giogo che da secoli le aveva oppresse ed inaridite. Alla popolazione erano sfuggiti, perchĂŠ impreparata a recepirli e perchĂŠ esulavano dai suoi interessi, gli ideali che avevano ispirato i moti del '99.

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I MOTI CARBONARI Durante e dopo la parentesi muratiana, l'emarginazione culturale che aveva caratterizzato lo sviluppo di S. Rufo, emarginazione che in parte tuttora permane, trovò un'eccezione in alcuni spiriti eletti, che, ribellandosi alla meschina routine paesana seppero comprendere ed esaltare gli ideali di libertà e di patria propugnati dalle nuove generazioni attraverso le organizzazioni carbonare affermatesi nel periodo della restaurazione. La carboneria, società politica segreta, liberale e patriottica (era previsto «l''abbruciamento», cioè la morte, per i traditori) aveva per programma un governo costituzionale e la liberazione del paese dallo straniero ed operò, nel primo periodo del Risorgimento, nel meridione d'Italia; successivamente si diffuse al centro ed al nord. Giuseppe Mazzini ne raccolse l'eredità, creando la «Giovine Italia», che fornì al movimento risorgimentale italiano uno strumento organizzativo nazionale ed un programma più avanzato e democratico. Alla «Giovine Italia» aderirà poi Giuseppe Garibaldi. Anche da noi gli spiriti eletti non rimasero indifferenti al nuovo corso, anzi la "vendita" 9 di S. Rufo fu tra le più attive del Vallo. La notizia del movimento rivoluzionario, iniziatosi il 2 luglio 1820 a Nola ad opera dei sottotenenti Michele Morello e Giuseppe Silvati, giunse nel nostro Vallo il giorno 6, lo stesso giorno in cui il generale Pepe, messosi a capo dell'insurrezione, aveva concordato col vicario del re (il futuro Francesco I) l'ingresso in Napoli per il giorno 9 della truppa dei presidi di Salerno, Nocera Inferiore ed Avellino, che, unitamente alle popolazioni, avevano aderito al movimento. Per avere un quadro il più esatto possibile sull'attività svolta dai carbonari di S. Rufo, esaminiamo gli elementi che risultano dall'atto di accusa ai carbonari detenuti ed elencati nell'atto medesimo, notificati dall'usciere della Gran Corte Criminale di Salerno 10. Da tale atto di accusa risulta che Capi e Gran Maestri della carboneria di S. Rufo erano Nicola de Petrinis e Giovanni Spinelli, collaboratori: Luigi Mattina, figliastro del de Petrinis, Crescenzo Spinelli di Pasquale, tenente dei militi Cono Marmo, 9

Cellula dell'organizzazione carbonara. Archivio storico per la provincia di Salerno - Dicembre 1923 - fasc. 4°.

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Pietro de Vita e Giuseppe Pagano. In sottordine: Giuseppe Somma, Eustachio Fiore, Pasquale Curcio e Vito Palladino. L'atto di accusa afferma che nella notte del 6 luglio gli ultimi quattro furono veduti "ammutinati" presso la fontana del Porcile con una bandiera tricolore in attesa del Gran Maestro per ricevere ordini sul da farsi. Lo stesso atto afferma che il giorno 7 quattro militi, inviati dal capitano Bernardo Tramontano e da Vincenzo Parisi, quest'ultimo Gran Maestro della carboneria di Polla, si recarono a S. Rufo per conferire con il capo della carboneria Nicola de Petrinis, perchĂŠ quello stesso giorno proclamasse la costituzione. Poco dopo il de Petrinis e Giovanni Spinelli lessero in piazza un proclama firmato dal Parisi, nel quale si precisava che i carbonari riunitisi in Sala Consilina avevano proclamato la costituzione e che da quel momento la monarchia non era piĂš assoluta bensĂŹ costituzionale, che il prezzo del sale veniva ribassato a grana sei, il rotolo ed il tributo fondiario era stato ridotto di un terzo. Secondo altra fonte risulterebbe che fu lo stesso Parisi a recarsi a S. Rufo dopo essere stato a S. Arsenio e a S. Pietro. Sta di fatto che al vespero di quello stesso giorno tutti i carbonari di S. Rufo, fra i quali Luigi Mattina, Francesco Spinelli di Pasquale, Cono, Marco Pietro de Vita e Giuseppe Pagano, si radunarono davanti alla chiesa, fecero suonare le campane a storno, esposero su un altarino il ritratto del re ed issarono la bandiera della carboneria sulla casa comunale. De Petrinis e Giovanni Spinelli sollecitarono l'arciprete, che in quel periodo era Don Daniele Marmo, prozio del poeta, per la funzione di un "Te Deum" che fu cantato solennemente. Giovanni Spinelli in chiesa lesse per la seconda volta il proclama del Parisi. Al termine della funzione il sindaco e capo della carboneria locale Nicola de Petrinis assieme a Luigi Mattina, Francesco Spinelli ed altri carbonari, tutti con la coccarda tricolore (rosso, nero, turchino), si recarono nel botteghino dove avveniva la vendita dei generi di privativa e, dopo regolare verbale, disposero per la vendita del sale a grana sei al rotolo. Il giorno 8 il tenente Cono Marmo, riuniti i militi a lui sottoposti, unitamente a Luigi Mattina, Francesco Spinelli, Pietro

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L’arciprete don Daniele Marmo (1765 – 1830) (Foto gentilmente fornitami da Amedeo Spinelli)

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De Vita, Giuseppe Pagano ed altri carbonari, tutti armati, si portarono a Sala Consilina. Quivi furono accolti calorosamente dai carbonari locali al grido: «Viva Iddio, viva il re, viva la Costituzione, vivano i carbonari, lo sale a sei grana!». L'atto di accusa afferma che «i militi si posero in linea e fecero il solo maneggio d'armi, per segno di applauso e di accoglimento», il che significa che si riordinarono, si schierarono e resero l'onore delle armi ai capi della carboneria dei vari paesi convenuti. Tutti i carbonari del distretto di Sala (corrispondente all'attuale circondario), in numero di circa 1500, si riunirono in un campo denominato «la strada Ciccatori», non meglio precisata, per tenervi una riunione e, per evitare che elementi non carbonari potessero introdursi, furono poste a guardia del perimetro del campo alcune sentinelle carbonare. In tale riunione fu stabilito l'ordinamento da dare agli armati, furono scelti gli ufficiali che avrebbero avuto il comando delle singole unità, e furono date disposizioni per l'applicazione del nuovo regime instaurato. Per acclamazione fu scelto il B. C. (buon cugino, termine con il quale si chiamavano tra di loro i carbonari) Parisi a «reggere l'accetta in travaglio borbonico», cioè capo dei carbonari del distretto. Su designazione del Parisi furono scelti quale primo e secondo assistente: Saverio Arcangelo Pessolani di Atena e Tommaso Cestari di Sala. Dal verbale della riunione, subito redatto, risulta che scopo della riunione stessa era quello di proclamare la nuova costituzione del regno e si stabiliva, come dice testualmente l'atto di accusa: « 1 - che tutte le autorità civili, amministrative e giudiziarie, a norma della dichiarazione pubblicata, dovessero continuare nelle loro funzioni, salva la sola restituzione per la vendita del sale e ribasso del terzo fondiario. 2 - che tutta l'armata del distretto si divideva in tre battaglioni, due dei carbonari, il terzo dei militi (la milizia provinciale). 3 si fissarono due battaglioni di riserva, cioè uno dei carbonari e l'altro di militi da servire per la tranquillità del distretto in mancanza della forza attiva. 4 - si diede la facoltà ai capi battaglioni di nominare i loro aiutanti maggiori e gli ufficiali pagatori; si disse che il capo del 1° battaglione era il comandante in capo di tutta l'armata, attiva e riserva, che le sue deliberazioni politiche e finanziarie dovevano 81


emettersi con gli altri due capi battaglioni attivi, e formarsi da tutti e tre. Il comando in capo fu autorizzato a nominare nel bisogno i componenti della commissione marziale e si attribuì al ramo militare tutta la polizia del distretto durante lo stato di guerra. 5 - Per capo della compagnia dei militi si confirmarono quelli stessi nominati. Si disse che gli ufficiali e sotto ufficiali delle compagnie de' carbonari dovevano nominarsi dai componenti medesimi a pluralità di voti, si diede l'incarico ad ogni capitano di attivare al momento la sua compagnia e farla trovare pronta nel campo di S. Giovanni di Polla, nel giorno di lunedì 10 luglio, sotto pena di essere punito dalla Commissione Marziale, cui si diede la facoltà di eseguire le sue sentenze entro ventiquattro ore. 6 - Autorizzarono i capi dei battaglioni a chiedere conto del denaro esistente nelle casse pubbliche e metterlo a loro disposizione. 7 - Fu fissato un sol Quartier - mastro col grado di capitano per tutta l'armata sediziosa. 8 - Si rivenne facilmente alla nomina dei comandanti, capitani ed altri ufficiali, e rimasero eletti cioè: Vincenzo Parisi per comandante in capo e cumulativamente del 1° battaglione dei carbonari, col soldo corrispondente, col grado di maggiore (in effetti tutti e tre i comandanti di battaglione vi rinunziarono); Saverio Arcangelo Pessolani, per capo del 2° battaglione dei carbonari nello istesso modo; Tommaso Cestari, confirmato capo del 3° battaglione dei militi con tutti gli altri uffiziali; Filadelfo Bove per capo battaglione dei militi di riserva (poi sostituito da Michele Pessolani); Michele de Petrinis per capo battaglione di riserva dei carbonari; Giovanni Pessolani per Quartier-mastro. La scelta dei capitani ed altri uffiziali dei battaglioni dei carbonari fu rimessa alle rispettive vendite (vendite presenti: Polla, Pertosa, Atena, S. Arsenio, S. Rufo, S. Pietro, Padula e Sala) e i capi delle medesime vennero definiti per capitani...Luigi Mattina...e per tenenti e sottotenenti...Francesco Spinelli, Pietro De Vita...». Come si è visto nell'elencare le "vendite" presenti alla riunione di Sala, non parteciparono i carbonari di Teggiano e perciò per lettera furono invitati a proclamare il mutamento politico e disporre viveri ed alloggi per 600 uomini. I teggianesi non tennero conto dell'avvertimento ed il sindaco con altri compaesani nel pomeriggio del giorno 8 si recò a Sala per spiegare la particolare situazione locale. La delegazione, accolta da Saverio Arcangelo 82


Pessolani col nome dispregiativo di "calderari" 11, ebbe l'ingiunzione di fornire sessanta uomini ed il contributo di quattrocinque mila ducati. Fra il tramonto del giorno 8 e la mattina del 9 luglio, la massa degli armati si mosse da Sala e confluì a Polla. Per iniziativa dei capitani dei vari paesi, compreso naturalmente S. Rufo, affluirono anche armati non carbonari. I1 giorno 10 i tre battaglioni, al comando dei rispettivi comandanti, mossero da Polla per congiungersi a Salerno alle altre forze carbonare «onde costringere S.M. a firmare la Costituzione». Giunti in località Scorzo, i carbonari seppero da un gendarme a cavallo che il re aveva firmato la Costituzione ed alcuni carbonari, venuto a cessare il motivo per il quale si erano mobilitati e posti in cammino, incominciarono a sbandarsi per rientrare ai rispettivi paesi, ma i comandanti di battaglione riuscirono a riordinarli ed a convincerli a proseguire, non essendo ufficiale la notizia ed ignorando gli avvenimenti dei giorni precedenti avvenuti a Napoli. Ad Eboli ebbero conferma dell'avvenuta concessione della Costituzione ed i carbonari rientrarono a Sala e poi ai rispettivi paesi. Effettivamente il re aveva firmato la Costituzione il giorno 6, ma per rendere più solenne l'avvenimento, su pressione dei carbonari che diffidavano del re, il giorno 13, dopo la Messa, presenti le più alte autorità dello Stato, Ferdinando I giurò sui Vangeli di difendere e conservare la Costituzione, anzi, non contento, alzati gli occhi al cielo, con estrema e disinvolta faccia tosta, aggiunse: «Onnipotente Iddio, che collo sguardo infinito leggi nell'anima e nell'avvenire, se io mentisco o se dovrò mancare al giuramento, Tu in questo istante dirigi sul mio capo i fulmini della Tua vendetta» 12. I1 Padreterno, che ben lo conosceva e non lo stimava, non gli diede retta. Il Parisi ed il Pessolani raggiunsero Napoli, dopo l'avvenuta manifestazione carbonara del giorno 9 in presenza dei reali, ma in tempo utile per presenziare al giuramento del Re.

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Calderani: Società segreta a carattere filoborbonico, costituita a Napoli nel 1813 e diretta dal principe di Canosa. 12 Colletta, Storia del Reame di Napoli, Vol. 4, pag. 90.

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Entrambi furono poi deputati provinciali nel Parlamento cosiddetto "sedizioso". E' purtroppo noto che, qualche tempo dopo il re, su invito del Metternich, si recò a Lubiana dove accettò l'intervento austriaco per abrogare la Costituzione e ristabilire l'assolutismo. Tali notizie allarmarono i nostri carbonari, che si tennero pronti ad intervenire per dare man forte all'esercito al fine di evitare l'ingresso degli Austriaci in Napoli, ma dovettero desistere da ogni azione non appena appresero che il generale Pepe, dopo essere stato battuto a Rieti, il 7 marzo 1821 aveva subito una più grave sconfitta nella stretta di Antrodoco. I carbonari del Vallo non vollero restare inattivi ed il 28 marzo si riunirono a Sala, invitando la popolazione a sollevarsi, ma pochi giorni dopo furono traditi dai «calderari realisti» e successivamente arrestati e posti sotto accusa, non senza aver prima subito l'umiliazione della tosatura. Con l'occupazione della capitale da parte dell'esercito austriaco ed il ritorno del re, il principe di Canosa fu nominato ministro di polizia e, per suo ordine, a Napoli venne applicata la pena della frusta contro i carbonari, estesa poi a coloro che parlavano male del governo. Soltanto in seguito all'intervento del Consiglio di Stato, il barbaro provvedimento non fu esteso a tutto il regno. Da considerare che, con decreto dell'8 agosto 1820, era stata accordata l'amnistia per i moti del luglio, ma al ritorno del re da Lubiana l'autorità giudiziaria inizio lo stesso una serie di provvedimenti penali contro i carbonari, primi fra tutti i tenenti Morelli e Silvati, che in un primo momento erano riusciti a darsi alla macchia. Entrambi furono condannati a morte e giustiziati il 12 settembre 1821. I carbonari del Vallo di Diano, con alla testa Vincenzo Parisi e Saverio Arcangelo Pessolani, nell'autunno di quell'anno furono tutti arrestati, come abbiamo prima accennato, ed ammessi l'anno successivo ad avvalersi del rescritto, sovrano del 4 ottobre 1822, che dava la facoltà di assoggettarsi a regolare giudizio ovvero di recarsi in esilio all'estero. Pur avendo scelto quest'ultima soluzione i carbonari del Vallo, respinti a Terracina dalle autorità pontificie con possibilità però di recarsi in Spagna, Grecia, Tunisia ed America, giunti a Fondi furono arrestati, condotti a Napoli e posti in prigione. 84


Fra costoro vi erano i concittadini Giuseppe Pagano, Cono Marmo, Pietro De Vita e Francesco Spinelli, che il 20 dicembre 1823 vennero rinchiusi a Salerno nel convento di S. Lorenzo. Successivamente, non offrendo il convento sufficienti garanzie di sicurezza, a parere dei monaci, ma in effetti per toglierseli dai piedi, furono trasferiti nel carcere di S. Antonio, l'attuale casa circondariale. I detenuti del carcere di Salerno, cioè i carbonari sanrufesi, il 24 febbraio 1824, in conseguenza delle sofferenze della prigionia, fecero domanda per ottenere di andare in esilio, ma, su parere contrario del Consiglio di Stato, le domande non furono accolte 13. Con deliberazione del 17 marzo 1824 il regio procuratore generale sostituto presso la Gran Corte Criminale del Principato Citra pose sotto accusa quasi tutti i carbonari del distretto di Sala e fra questi i sanrufesi: - Luigi Mattina fu Domenico, di anni 22, possidente; - Francesco Spinelli fu Pasquale, di anni 30, possidente; - Pietro De Vita di Ignazio, di anni 34, farmacista; - Cono Marmo di Lorenzo, di anni 32, possidente; - Giuseppe Pagano di Pasquale, di anni 34, possidente; imputati di «cospirazione ed altri attentati per distruggere e cambiare il governo, eccitando i sudditi e gli abitanti ad armarsi contro l'autorità reale». Tale imputazione comportava la pena di morte. Nello stesso tempo una ingiusta legge denominata "empara" dava la facoltà alla polizia di trattenere indefinitivamente in carcere i detenuti per delitti di stato, anche se assolti. per insufficienza di prove, per abolizione dell'azione penale, o per qualsiasi altro motivo. Con sentenza dell'll maggio 1829 Parisi e Pessolani vennero condannati a morte, pena poi commutata nell'ergastolo. Il Parisi ottenne la commutazione per intercessione di una dama di corte, Isabella Scripani, e poi nel 1832 la libertà. I1 Pessolani ottenne lo stesso la grazia e poi la libertà nel 1831, unitamente a tutti gli altri

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Archivio di Napoli - Ministero Giustizia - Processo di Monteforte fascio 2.

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condannati. Per mancanza di documentazione, non conosciamo l'esito del processo a carico dei sanrufesi 14. Da documenti esistenti presso la famiglia Spinelli (estratto di decisione della Gran Corte Criminale della provincia di Principato Ultra) risulta che a carico di Francesco Spinelli fu Pasquale, «accusato di corruzione ed attentati per distruggere, e cambiare il governo, eccitando i sudditi, e gli altri abitanti ad armarsi contro 1'Autorità Reale, con organizzazione di bande e saccheggi delle pubbliche casse; con decisione del dì diciassette del Corrente Mese di Dicembre ed anno milleottocentoventicinque, ha (sic) voti uniformi ha dichiarato non esservi luogo a sottoporsi nell'accusa contro il suddetto Francesco Spinelli, ed alla maggioranza di quattro voti sopra uno, ha ordinato che fosse messo in libertà». (Allegati 4 e 5). La gravità delle accuse contrasta con la decisione della Gran Corte che, con quattro voti contro uno, rimise in libertà lo Spinelli, il che dimostra la superficialità, la leggerezza e l'accanimento che le autorità rege adoperavano contro i carbonari, accusandoli dei reati più assurdi, per poi dimostrare formale generosità nelle sentenze. In effetti tale sentenza non era altro che una burla, perché in precedenza la stessa Gran Corte, in data 3 dicembre 1825, aveva deliberato contro lo stesso Spinelli, «imputato di lesa maestà», che fosse «messo in libertà, restando in carcere per l'altro reato consimile che ebbe luogo nei primi di luglio milleottocentoventi» (sollevazione dei carbonari del Vallo). E' questo un chiaro esempio di applicazione della legge "empara", di cui abbiamo fatto cenno. Come per gli altri carbonari di S. Rufo, purtroppo non conosciamo l'esito definitivo del processo a carico del tenente Francesco Spinelli, ma sappiamo che languirà in carcere sino al 1831. Ferdinando II il 18 dicembre 1830, a distanza di un mese circa dal suo avvento al trono, condonò la metà della pena residua a tutti i condannati per delitti contro lo stato, ridusse la pena 14

Tutti gli atti riguardanti la carboneria furono fatti distruggere da Ferdinado II; è stato possibile riportare, parzialmente in sintesi, l'atto d'accusa contro i carbonari per la fortunata combinazione offerta al dr. Luigi Giliberti di S. Arsenio che lo rintracciò presso un discendente del carbonaro Francesco Tierno di S. Pietro al Tanagro.

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dell'esilio a cinque anni e abilitò tutti coloro che in linea di prevenzione politica si trovavano in esilio o in prigione. Con altro atto sovrano del 30 maggio 1831, di cui si avvale anche il Pessolani, re Ferdinando, «volendo aggiungere novelli tratti di clemenza verso di coloro che rei nella funesta causa di Monteforte (1820) 15 si trovino espiando la loro pena; e volendo comprendere ne' tratti medesimi di clemenza quelli benanche che per politiche contemporanee e posteriori colpe, trovansi tuttavia in esilio o espatriati; certi essendo nel nostro reale animo che la memoria delle sofferte sventure e gli effetti della clemenza valevoli saranno a rendere più profonda la lezione del passato, più vivo il pentimento figlio della gratitudine, e solida la rigenerazione dei sentimenti di devozione e di fede», concesse la libertà a tutti i condannati e la facoltà di rimpatrio agli esuli. Dopo nove anni di detenzione si concludeva la triste vicenda dei nostri carbonari che per altro continuarono ad essere oggetto di costante e sospettoso controllo della polizia. In tempi successivi anche il dottor Urbano Mangieri, da studente, fu arrestato a Napoli perché sospettato di attività antiborbonica, ma fu posto presto in libertà per intervento del padre presso Francesco II, di cui, sembra, godesse la benevolenza 16.

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Località in provincia di Avellino dove, a sollevazione avvenuta, confluirono i tenenti Morelli e Silvati con le loro forze. 16 Il nonno paterno del dottore Urbano Mangieri era l'organaio Francesco Antonio, di cui parleremo in seguito.

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I MOTI GARIBALDINI Anche nei moti del '48 i nostri concittadini non rimasero inerti, ed esplosero di entusiasmo nel 1860, al passaggio di Garibaldi dal Vallo. La notizia dello sbarco di Garibaldi in Sicilia, avvenuto 1'11 maggio 1860, infiammò gli animi dei nostri concittadini, specie quando seppero che tra i Mille che si coprivano di gloria vi era anche il sacerdote Ovidio Serino, che nel '48-'49 aveva svolto la sua attività a S. Rufo 17. Gli aderenti ai «Comitati d'azione», formatisi in quasi tutti i paesi, di ispirazione democratica e garibaldina, in questo periodo furono i più attivi per contribuire alla liberazione del paese. Animatore dell'insurrezione garibaldina nel nostro Vallo fu il teggianese Giuseppe Matina, reduce dall'esilio e dalle prigioni borboniche. A S. Rufo diede impulso al movimento un non meglio precisato Spinelli, che assunse il comando degli insorti sanrufesi. La prima tappa del moto insurrezionale fu S. Angelo Fasanella, dove era affluito il contingente di Bellosguardo, e, fra il tripudio generale, venne proclamata la decadenza dei Borboni. Ai componenti del gruppo di S. Angelo e Bellosguardo, raggiunto Corleto, si unirono poco dopo gli insorti di Sicignano, di Galdo, di Roscigno e di Ottati che, muovendo per S. Rufo e Teggiano, raggiunsero Sala, ingrossando le proprie fila man mano che procedevano. Le squadre degli altri paesi del Vallo affluirono a Sala, dove si congiunsero tutti gli insorti, mettendosi agli ordini del modenese gen. Fabrizi, lo stesso generale che poi inquadrerà nella sua brigata i componenti del battaglione "Tanagro", di cui presto parleremo. I1 contingente, di circa tremila uomini, non tutti armati, formatosi in soli tre giorni, fu dislocato parte nella stretta di Campostrino, parte al Fortino, le due vie di accesso al Vallo. I1 generale Fabrizi pose il suo quartier generale allo Scorzo, dove affluirono gli insorti di Campagna. Con tali disposizioni, l'esercito borbonico fu posto in condizioni di non potersi collegare né congiungere con le forze dislocate in Calabria e di non poter 17

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R. Moscati. Rassegna storica Salernitana, 1960.


combattere nella piana tra Eboli e Salerno, perché minacciato alle spalle ed ai fianchi dagli insorti. Infatti, in Calabria, le truppe regie, isolate, furono costrette a deporre le armi e quelle dislocate nel salernitano a ripiegare su Napoli. Nel Vallo Giuseppe Matina, animatore indiscusso dell'insurrezione, assunse le vesti di prodittatore in nome di Vittorio Emanuele e di Garibaldi. A differenza di quanto era avvenuto nel 1799 e nel 1820-21, non si verificò nessun eccesso e nessun atto che turbasse l'opinione pubblica, il che dimostra che il popolo era maturo per l'assunzione di responsabilità autonome, convinto che la causa, per i suoi alti fini ideali, meritava di essere abbracciata, come dimostrò anche il notevole afflusso di sacerdoti nelle file dei volontari, pur essendo consapevoli del ruolo di mangia-preti svolto costantemente da Garibaldi. I1 passaggio di Garibaldi dal Vallo (5 settembre 1860) suscitò vivo entusiasmo fra i giovani, molti i quali corsero a raffittire le fila del battaglione Tanagro costituito nel precedente mese di agosto. I1 battaglione fu poi avviato a Salerno nella seconda metà di settembre ed inquadrato nella brigata Fabrizi, facente parte della divisione Bixio ed inglobata, alla vigilia della battaglia del Volturno, nella divisione Avezzana. La battaglia del Volturno, come afferma lo stesso Garibaldi, fu una vera battaglia campale. Le preponderanti forze borboniche attaccarono con tutte le forze disponibili su tutto il fronte ed in sei punti diversi: a Maddaloni, a Castel Morrone, a S. Angelo, a S. Maria, a S. Tammaro e a S. Leucio, ma soprattutto con molta ostinazione, da Maddaloni a S. Maria. Lo stesso Garibaldi si trovò coinvolto nella lotta e fu costretto a combattere all'arma bianca. La lotta fu particolarmente dura al centro dello schieramento e Monte S. Angelo, presidiato dalla divisione Medici e rinforzato dalla 19a divisione Avezzana, vide prodigi di valore dei volontari del battaglione "Tanagro", malgrado mancassero di un preciso addestramento militare. A sera il nemico ripiegò su tutto il fronte, incalzato dalle truppe garibaldine che fecero molti prigionieri 18. Dallo «Stato nominativo Ufficiali, Sottufficiali, soldati dell'Esercito Meridionale» risulta che a quella battaglia presero parte i seguenti volontari di S. Rufo (allegato 6): 18

Garibaldi, Memorie.

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- Pecora Francesco - foriere - Giuliano Raffaele - sergente - Coccoli Pietro - soldato - Di Feo Pietro - soldato - Di Feo Antonio - soldato - Seno Giuseppe - soldato - Sapaluro Arcangelo - soldato - Terrazzano Francesco - soldato - Giuliano Luigi - soldato - Pezzuti Antonio - soldato - Lettieri Antonio - soldato - Lisi Leonardo - soldato - Di Feo Raffaele - soldato - Giammarone Antonio - soldato - Pezzuto Tommaso - soldato - Ferdinandi Giuseppe - soldato - Fontano Antonio - soldato - Aratro Vincenzo - soldato L'elenco è privo di ulteriori riferimenti anagrafici e non è improbabile che qualcuno di questi nomi non sia quello reale perché, secondo una vecchia tradizione risalente alle compagnie di ventura e perpetuatasi nel tempo, taluni volontari erano usi arruolarsi sotto falso nome (nome di battaglia). Oltre ai citati elementi che presero parte alla battaglia del Volturno, vi sono altri quattro garibaldini sanrufesi che combatterono agli ordini di Garibaldi, percependo regolare pensione, e precisamente: - caporal maggiore Palladino Luigi - contadino - soldato Marmo Giuseppe (Masto Carmine) - contadino - soldato Salvioli Luigi - contadino - soldato Mangieri Francesco - guardia campestre - pronipote dell'ingegnere Francesco. Agli inizi del 1861, l'esercito meridionale veniva sciolto, perché il suo compito era finito. Inutilmente Garibaldi si era battuto perché venisse fuso con quello regolare. Con l'esercito meridionale furono sciolti tutti i corpi garibaldini. I volontari che avevano sofferto e combattuto per un grande ideale, rientrarono alle loro case paghi del dovere compiuto, ma anche mortificati e 90


scoraggiati perché i governanti si erano dimostrati ingenerosi ed irriconoscenti nei loro riguardi. Gli ufficiali furono sottoposti all'esame di una commissione d'inchiesta ed i prescelti ammessi nell'Esercito con un grado inferiore a quello precedentemente rivestito. Materia questa di malumore e malcontento, di cui parla anche il gen. De Bono nel suo libro «Nell'Esercito italiano prima della grande guerra». Lo stesso Garibaldi, dopo essersi battuto per ottenere il riconoscimento dei valori dei suoi volontari, si ritirò in dignitoso riserbo a Caprera. L'insurrezione del Meridione era stata un atto spontaneo e in tutti vi era la fiducia che da quel momento le strutture dello stato avrebbero subito una radicale trasformazione, il che non avvenne perché i "moderati" ebbero il sopravvento e le vecchie clientele continuarono ad accodarsi ai nuovi padroni. Molti di quelli che erano stati perseguitati dalla polizia borbonica e poi erano stati gli animatori dell'insurrezione furono messi da parte e guardati con sospetto. Rimase puro ed immacolato l'atto di dedizione alla Patria delle camicie rosse garibaldine. A S. Rufo, purtroppo, non esiste un documento né una targa che abbia tramandato ai posteri i nomi dei carbonari e dei garibaldini locali.

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LO STATO UNITARIO Nel 1861 con la formazione dello stato unitario si ebbe il definitivo assetto nella organizzazione interna dello Stato, ma, come vedremo, agli entusiasmi iniziali seguirono malumori e molti furono gli scontenti 19. Con le decisioni del 1861 e del 1867 furono espropriate le proprietà della Chiesa e ne fu predisposta la vendita all'asta, unitamente ad alcune terre demaniali, nell'intento di favorire soprattutto i contadini. In realtà accadde che costoro, non potendo competere con i grossi proprietari, che all'asta avevano fatto salire i prezzi, rimasero soccombenti e così si ripeté la vecchia storia del povero che rimane sempre più povero e del ricco che diventa sempre più ricco. Dei beni della Chiesa, eccezion fatta di modeste proprietà non espropriate, rimasero invenduti un suolo in contrada S. Rocco e la Chiesa di S. Michele, che furono poi messi all'incanto nel 1895 e nel 1896. Soltanto di queste due vendite esiste la documentazione presso l'Archivio di Stato di Salerno. Più esattamente: «- suolo diruto S. Rocco alla contrada S. Rocco, confinante col corso Maggiore, con Tierno Antonio e Giuliano Giuseppe. Prezzo di vendita lire 140, acquistato da Somma Francesco Giuseppe (verbale di aggiudicazione del 25-11-1895); -Fabbricato alla contrada borgo S. Michele (già cappella di S. Michele) confinante con viottolo che conduce all'abitazione di Fiore Pasquale, fabbricato eredi Fiore, proprietà rustica di Marmo Antonio e il largo pubblico detto S. Michele. Prezzo di vendita lire 500, acquistato da Marmo Luigi (verbale de11'8-2-1986)». Intanto negli strati più poveri, e non solo in quelli, serpeggiava un malessere ed un'intolleranza per l'estensione di istituti piemontesi, quali il servizio militare obbligatorio da prestare in sedi lontane dal meridione ed il sistema fiscale molto più rigido ed oneroso di quello borbonico. Fra il 1862 ed il 1865 la pressione fiscale aumentò notevolmente. Le imposte dirette (ricchezza mobile e fondiaria)

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Filomeno Pellegrini - Lettera programma agli elettori del collegio di Teggiano (Allegato n.7).

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aumentarono del 54% e quelle sugli scambi (registro, bollo, successione, ecc.) del 40% 20. La gran maggioranza della popolazione continuava a vivere nello squallore e nella povertà perpetuatasi attraverso secoli di primitivo isolamento e quindi non deve meravigliare se tutti questi motivi aggiunti al mancato possesso della terra, alla obbrobriosa tassa sul macinato, al richiamo alla spodestata monarchia, che per oltre un secolo aveva retto il regno di Napoli, a passioni ed aspirazioni confuse abbiano creato le premesse per la crescita ed il dilagare di quel fenomeno noto sotto il nome di brigantaggio. I1 fenomeno da noi non fu meno grave che altrove e sono noti i fatti di sangue avvenuti in località Fontanelle alla Cerevolla ed a cavallo della Valle di Lama (otto assassini). Ma su questo non è il caso di soffermarci ulteriormente perché è ancora troppo presto per approfondire l'argomento. In una situazione grave di eventi ed incerta la popolazione più misera trovò uno sbocco nella emigrazione, che iniziatasi dopo il 1870 continuò sino agli inizi della prima guerra mondiale. Gli emigranti privi di mezzi si indebitarono per pagarsi il viaggio, che in quei tempi durava sino a quaranta giorni. La maggioranza si diresse nell'America del nord, ma altri preferirono sistemarsi nel sud America. Trattandosi di mano d'opera non qualificata, i nostri concittadini, prevalentemente contadini ed analfabeti, furono impiegati in lavori onerosi ed in mestieri umili. Per chi, come loro, aveva conosciuto la fame non fu tanto doloroso sottoporsi a gravi sacrifici nella speranza di un domani migliore. Le loro speranze non andarono deluse perché con i risparmi di tanti anni di lavoro ritornati in patria poterono acquistare il tanto desiderato e sospirato pezzo di terra e trasformare le catapecchie in decorose abitazioni. Ad aggravare la situazione morale della popolazione nel 1870 intervenne la legge, iniqua ed ingiusta, che assegnava al censo ed al grado di istruzione il diritto di partecipare o meno alle competizioni elettorali. Poiché la maggioranza era rappresentata da poveri ed analfabeti, ed era il caso di tutto il Mezzogiorno e non solo di San Rufo, alle elezioni di quell'anno solo il 2,50% fu interessata alle votazioni. Con la legge 22-1-1882 si cercò di allargare il suffragio universale consentendo il voto ai cittadini che indipendentemente 20

Pescosolido - Storia dell'Italia contemporanea. I Volume, pag.78.

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dal censo, avessero firmato in presenza di un notaio la domanda di iscrizione nelle liste. Occorre proprio aggiungere che il numero degli elettori rimase immutato? In materia di istruzione, con la legge Casati del 1859, allora valida per il Piemonte e la Lombardia, fu stabilito anche per 1'Italia meridionale l'obbligo dei Comuni con meno di 4.000 abitanti di garantire l'istruzione primaria per almeno un biennio ai ragazzi dai 6 ai 9 anni. Come sappiamo tale legge, sotto l'impero di Murat, da noi era stata varata sin dal 1810 con risultati poco soddisfacenti. All'atto pratico anche questa volta la legge trovò scarsa applicazione sia per difficoltà economiche da parte dei comuni, sia perché i genitori preferivano impiegare precocemente i loro ragazzi in attività lavorative, ma fu pur utile perché diede origine alla formazione di maestri laici (non dimentichiamo che gli insegnanti erano prevalentemente sacerdoti), attraverso l'istituzione di corsi magistrali rurali. Da documenti esistenti presso l'archivio parrocchiale e presso la famiglia Spinelli risulta che all'atto della costituzione del regno d'Italia la signorina Giuseppina Marmo, cugina del poeta, insegnava unitamente al sacerdote Francesco Antonio Mangieri. Entrambi venivano compensati con una stipendio annuo di cinquecento lire. Con la legge del 15 luglio 1877 del ministro Coppini venne resa obbligatoria l'istruzione biennale elementare, venivano fissate le ammende da comminare ai genitori inadempienti e si riaffermava l'obbligo dei comuni di pagare i maestri. Malgrado la severità della legge, le cose non mutarono, perché l'analfabetismo, che raggiungeva il 90%, continuò a mantenersi su livelli molto elevati.

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IL PROGRESSO Alla fine del 1600 San Rufo, che non contava mille anime, si presentava con un complesso di abitazioni molto modesto. Poche erano le case in muratura e ad un sol piano, tutte senza intonaco, molte quelle costruite da uno o soli due vani a livello stradale, parecchie le baracche, parzialmente in legno, mentre alla periferia, e non solo qui, vi erano tuguri dove alloggiava la gente più misera. Quasi tutte le case avevano la stalla incorporata od affiancata all'abitazione ed ai lati dell'ingresso solitamente vi erano murati due o più anelli in pietra per legare i quadrupedi. Ogni costruzione aveva un limitato numero di finestre, spesso prive di vetri, rari i balconi, mentre il soffitto era coperto da embrici tenuti fermi da grosse pietre per proteggerli dall'imperversare del vento nei giorni di bora e durante le non infrequenti tempeste. Dietro le porte d'ingresso e dietro le finestre, per ragioni di sicurezza, perché non di rado si verificavano furti, veniva applicata una sbarra di legno (o varra,' u varrone) ed in aggiunta un puntello di legno o di ferro per dare maggiore consistenza e resistenza agli infissi. Poiché la popolazione era costituita prevalentemente da contadini, pastori e piccoli proprietari terrieri la situazione abitativa non poteva essere migliore. Faceva eccezione la casa della famiglia Pellegrini, l'unica degna di tal nome 21. I1 paese era attraversato da oriente ad occidente da un unica strada dal nome altisonante di «Corso Maggiore», corrispondente agli attuali corsi Mazzini e Garibaldi, che collegava borgo S. Antonio con borgo S. Rocco e costituiva trait d'union dell'asse Calvanello- Casalvetere, su questo "corso" stretto ad angusto, si

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Stante la scarsa consistenza del paese, è da supporre che Gubello Pellegrini ed i suoi immediati successori non abbiano preso stabile dimora in S. Rufo se non in tempi successivi quando il paese aveva assunta una certa consistenza. E' da escludere che il palazzo di quella casata possa risalire al XIII secolo.

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Palazzo Rinaldo

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Il portale di palazzo Rinaldo (Foto del prof. Antonio Esposito)

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affacciavano case molto modeste e catapecchie che erano l'espressione di una popolazione povera ed arretrata. I1 paese si sviluppava prevalentemente a valle e ad occidente di questo corso e l'attuale via XX settembre costituiva la strada principale perchĂŠ portava a Diano, del cui Stato S. Rufo faceva parte. Il fondo stradale delle varie vie mancavano di tutto, ma non certamente di buche, colme di fango d'inverno e di polvere d'estate, con larghe chiazze di letame delle vicine stalle e tracce palesi del passaggio di animali. Soltanto quando pioveva le strade si ripulivano parzialmente. L'attuale via Roma non esisteva come tale, ma era poco piĂš di una mulattiera che collegava il paese alla Grotta e poi, attraverso un disagevole sentiero, raggiungeva la Finocchiara. Il terreno compreso fra il vecchio municipio e Piazzetta della Pace, privo di abitazioni, degradava rapidamente e senza soluzione di continuitĂ sul Corso Maggiore. A monte della via Roma, l'attuale via Fratelli Bandiera, vi era un gruppo di case isolate, una delle quali tuttora in piedi porta incisa sul portale la data del 1625. Fra la fine del 1600 ed i primi del 1700 furono costruite per la prima volta due case a due piani piuttosto imponenti, una del Barone Rinaldo, feudatario di S. Rufo, (poi casa Mattina) e l'altra della famiglia Marmo (ora Spinelli). Il palazzo Rinaldo, del 1693, posto su un poggio dominante la vallata e di fianco la chiesa parrocchiale, sul lato ad oriente presentava una costruzione a forma di torretta, poi parzialmente modificata, con tre feritoie, di recente eliminate, con il compito di difesa vicina del caseggiato. L'imponente portale d'ingresso in pietra di Teggiano sormontato dallo stemma araldico della casata ancor oggi si presenta in ottimo stato di conservazione. Sulla sinistra dell'ingresso, ampio e quadrato si apre un locale dove a suo tempo vi era il corpo di guardia degli sgherri baronali. Gli altri locali a piano terra, bui e tetri erano utilizzati come magazzini. In fondo a destra vi era la prigione, successivamente costituente la legnaia. Da uno dei vani laterali della legnaia (locale attualmente adibito a caldaia del termosifone) si accedeva alla vera e propria prigione attraverso una botola ed una scaletta strettissima ancora esistente, percorribile con grande difficoltĂ . Il cancello che si vede a destra della scala chiudeva il cortiletto adibito alla quotidiana ora di aria dei carcerati. 98


Uno scalone, in pietra di Teggiano, con andamento leggermente sinuoso e con scanalature su alcuni gradini per lo scolo dell'acqua piovana, adduce ai piani superiori. Al primo piano vi era la cucina e l'alloggio del personale di servizio mentre nelle camere esposte a mezzogiorno abitava la famiglia del barone. Sempre a mezzogiorno troneggiava la "galleria", il salone di ricevimento. In prossimità della via dell'Arco, dove si trova il Mini Market, vi era il tappeto (frantoio) per la molitura delle olive, in precedenza della famiglia D'Alitto. Il palazzo Marmo, appartenente alla famiglia del poeta Nicola Marmo, lo stesso imponente ed a due piani, sorse, non lungi dal palazzo Rinaldo, nel 1713. Ai lati ed al di sopra dell'ingresso presenta quattro feritoie, due frontali e due laterali per la difesa vicina. All'interno, sul soffitto, è posto in rilievo lo stemma araldico della famiglia. Anche l'antica abitazione della famiglia Marmorosa, risalente al 1809, presenta una torretta con sei feritoie. La casa è posta al termine dell'attuale via XX Settembre, dalla quale si staccava la mulattiera che portava a Diano. Costituiva perciò sentinella a difesa del paese per i malintenzionati provenienti da sud-est che in quel tempo purtroppo abbondavano. Dai sotterranei, a destra entrando, si staccava un cunicolo che a circa 200 metri sbucava in piena campagna in un terreno di proprietà Marmo, ora Donadeo, consentendo ai perseguitati ed ai briganti di poter sfuggire alle ricerche della polizia del tempo. Si vuole che nel 1860 due briganti siano stati decapitati e le loro teste poste sulla torretta come monito agli altri fuorilegge. Nessun'altra casa è attrezzata per la difesa vicina, neanche il palazzo Laviano, sorto verso la fine del 1700 nell'attuale piazzetta della Pace, allorché Paolo Laviano successe al barone Rinaldo nel feudo di S. Rufo. Anche in questo edificio, a due piani, sul soffitto dell'ingresso è riportato lo stemma araldico della casata. A piano terra vi erano i locali per il corpo di guardia e le prigioni contraddistinte da strette finestre sbarrate da robuste inferriate. Come è noto, dopo il 1806, con l'abolizione della feudalità, molte famiglie ingrandirono le loro proprietà terriere con l'acquisto di terreni demaniali e feudali e per la mutata

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Scalone d’ingresso del palazzo Marmo – ora Spinelli. (Foto del prof. Enrico Spinelli)

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posizione sociale alcuni grossi proprietari, stimolati dall'esempio dei Rinaldi, dei Marmo e dei Laviano, ritennero di dover dare un più adeguato assetto abitativo alle loro famiglie. Mentre i Mattina ed i Marmo (Rocco), che godevano di una solida posizione economica, trovarono dignitosa sistemazione con l'acquisto rispettivamente del palazzo Rinaldo e del palazzo Laviano, altri provvidero a farsi costruire una casa meglio rispondente a criteri moderni. La maggioranza delle case sorse sulle aree di vecchie e maleodoranti catapecchie abbattute lungo il corso Maggiore. Esplodeva così il boom edilizio che con alterni rallentamenti ed altrettante alterne riprese si prolungherà sino ai giorni nostri. Oltre le case Marmorosa, citiamo le case costruite nella prima metà dell'800: la casa De Vita, che è del 1820, la casa Mangieri, del 1832 22, entrambe a due piani al borgo S. Rocco, la casa ad un piano al numero civico 47 di corso Mazzini, pure del 1832. Quest'ultima, di proprietà della famiglia del sacerdote don Vincenzo Somma, come quella dei Mangieri, presenta sul portale lo stemma araldico della casata. Nel primo tratto. del corso Mazzini, vi erano, alternate a stalle e tuguri, poche modeste abitazioni, come la casa che fu poi di Marianna Costa e quella di Giuseppe Tierno. Della stessa epoca possiamo considerare la casa Spinelli, disposta a mo' di maniero a monte del vecchio municipio e confinante con quella dei Laviano; trasformata e sopraelevata nel 1880 è la casa Pagano, al borgo S. Rocco. Nel 1844, all'attuale numero civico 6 di corso Garibaldi, sorse un'altra casa piuttosto modesta. Ai primi del secolo scorso risale pure la casa di Luigi Giuliano, al borgo S. Rocco, di fronte alla casa De Vita. Merita anche di essere citata la casa Calceglia, ad un piano, presumibilmente di epoca anteriore, prospiciente la casa parrocchiale al borgo S. Antonio. Tale costruzione, che si vuole sia stata l'abitazione della famiglia di Paolo Eterni, presenta, a livelli diversi, due portali, uno dei quali in stile classico, l'altro, all'altezza del piano stradale, e arricchito da uno pseudo stemma araldico. 22

Demolita dopo il terremoto del 23 novembre 1980. In passato è stata la sede dell'esattoria comunale.

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Caratteristica comune delle case di questo periodo ed in genere dell'800 è quella di avere la maggioranza delle camere intercomunicanti. Lo sviluppo edilizio verificatosi in un arco di tempo di circa due secoli lungo il corso Maggiore fu limitato a pochi ed importanti edifici, quali i palazzi Rinaldo, Marmo, Laviano, De Vita e Mangieri, ma lo sviluppo maggiore si ebbe nella prima metà dell'800, in tempi abbastanza ristretti, a valle del predetto corso con costruzioni a cavallo delle vie XX Settembre e Francesco Greco. Lungo la prima via sorsero anche le case di alcuni professionisti del tempo, quale i Caggiano e i Bamonte, mentre in via Greco, nel 1843, sorgeva la casa dell'omonima famiglia. Queste abitazioni, ad eccezione di quelle dei professionisti citati, si caratterizzano per avere la scala in pietra all'esterno della casa con un ballatoio antistante la porta d'ingresso. Fino alla metà dell'800, il paese si era sviluppato ad occidente ed a cavallo della via XX Settembre, al termine della quale si staccava, più precisamente a S. Sebastiano, la mulattiera che collegava S. Rufo a Teggiano (nuova denominazione di Diano), paese col quale si erano avuti e continuavano ad aversi costanti rapporti. Al centro e ad oriente di tale strada vi era il Piazzile, un largo che rappresentava un po' il centro del nostro paese. Al Piazzile fra il 1832 ed il 1838, sorse un complesso di tre edifici della famiglia Somma. Il corso Maggiore acquisterà importanza e diventerà l'arteria principale del paese soltanto nella seconda metà dell'800; ad avvenuta costruzione della rotabile Polla - S. Marzano - bivio Corleto Monforte, quando le costruzioni si svilupperanno progressivamente lungo questa strada, modificando in tal modo la disposizione topografica del paese. Le altre strade, strette ed anguste tutte a fondo naturale, colme di pietre e di buche, non erano che vicoletti, comunemente denominate "carrale". La nuova distribuzione abitativa altro non fu che la naturale selezione della popolazione in base alla nuova situazione economica creatasi dopo la vendita all'asta dei beni patrimoniali della Chiesa e di quelli demaniali. La popolazione più povera, la maggioranza, rimase emarginata in zone periferiche, a monte ed a valle del corso Maggiore, in case 102


Palazzo Laviano

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molto modeste ed in miseri tuguri, In conseguenza le vecchie vie, che già lasciavano a desiderare, andarono sempre più degradando. Mentre l'iniziativa privata aveva incrementato la costruzione delle case consentendo al paese di presentarsi in veste più decorosa, le modeste entrate ed il bilancio deficitario non avevano permesso al comune di dare una più razionale sistemazione e pulizia alle strade malmesse e brulicanti di escrementi di animali, senza contare i rifiuti solidi e liquidi che regolarmente venivano gettati dalle case circostanti. Se la situazione viaria era precaria nel Paese è facile immaginare quale fosse quella delle vie che dall'abitato si diramavano verso la campagna ed i paesi vicini. Queste vie altro non erano che semplici mulattiere e tali rimarranno per lungo tempo ancora sino a quando le amministrazioni Marmorosa, Luongo e Sellaro non le trasformeranno, raffittendole, in una rete di ampie e comode strade moderne, e questa è storia di oggi. Una mulattiera collegava, attraverso la Valle di Lama, San Rufo a S. Pietro, S. Arsenio e Polla, ma, a causa della neve, non sempre era transitabile nel periodo invernale, specie nel tratto a cavallo della Valle di Lama. Per Teggiano e Sala la mulattiera partiva dal rione S. Sebastiano e seguendo il fondo valle del torrente Marza, s'innestava a Fontana del Vaglio sul tracciato dell'attuale rotabile S. Rufo - Teggiano, biforcandosi per Sala alla contrada Ferrante. Anche questa mulattiera in alcuni tratti presentava una notevole pendenza e giunta in piano, per mancanza di ponti, costringeva uomini ed animali ad attraversare a guado i torrenti Marza e Casanova. Quando i torrenti erano in piena si era costretti, tenendosi in equilibrio, a transitare su due travi poggiate sugli argini. Difficoltoso oltre ogni dire il passaggio sul terreno fangoso e melmoso limitrofo ai due corsi d'acqua. In tempi successivi su questa mulattiera si innestò un'altra che partendo dal paese e rasentando l'attuale cimitero raggiungeva Fontana del Vaglio. Altre mulattiere collegavano il paese alle varie contrade, alla campagna ed ai paesi del Cilento ("Capammonte"), attraverso la

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L’artistico balcone di casa De Vita (Foto del Prof. Enrico Spinelli)

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Valle del Torno (Valetorno), denominazione questa che appare nell'atlante geografico del regno di Napoli del 1809 23. Nello stesso documento, per quanto attiene la nostra zona, sono riportate soltanto due mulattiere: una, ripetutamente discontinua a causa della morfologia del terreno, con inizio a monte della sorgente del torrente Marza (Abbottaturo) e protraentesi poco oltre il passo della Sentinella, e l'altra congiungente borgo S. Antonio alla Tempa 24. Da tale constatazione possiamo dedurne che, a quell'epoca, le altre mulattiere, talvolta confondendosi ed alternandosi con sentieri e tratturi, erano del tutto fatiscenti rendendo oltremodo difficoltoso il collegamento fra il paese e i paesi vicini e con la stessa campagna. Per mancanza di strade ordinarie, i trasporti si effettuavano a dorso d'asino o di mulo, eccezionalmente s'impiegava il cavallo, di massima destinato al trasporto delle persone. Sempre in pianura, scomparsa la malaria in seguito al prosciugamento delle paludi e degli acquitrini, le capanne e le pagliare incominciarono ad essere sostituite da modeste costruzioni in muratura, le cosidette "casedde" (piccole case, casette). In un prosieguo di tempo sorgeranno poi costruzioni piÚ complesse, i "casini", villini di campagna, e fra i primi notiamo quelli dei Mattina e dei Pagano che risalgono al 1848. Altre costruzioni del genere seguiranno successivamente dando origine alla frazione di Fontana del Vaglio. I1 casino dei Pagano, nella torretta presentava alcune feritoie per la difesa contro briganti e delinquenti che infestavano il Vallo. Nello stesso periodo, alla contrada Foresta, sorse il casino degli Spinelli, oggi trasformato in una imponente villa. Nonostante ciò la maggior Parte dei contadini si recava in campagna ogni mattina, quasi sempre prima del sorgere del sole, ed a sera, talvolta a notte fonda, rientrava in paese, superando notevoli distanze con inutile perdita di tempo. In conseguenza le case di campagna (le cosidette "casedde") erano fatiscenti e non 23

Dalla divisione fatta dall'ingegnere Cannitelli figura Valletorno. La denominazione corretta è Valetorno. 24 Atlante Geografico del Regno di Napoli - 1809 - dell'Abate Rizzi Zannoni.

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curate. I pochi contadini che pernottavano in campagna dormivano con le bestie. Soltanto dopo la seconda guerra mondiale la popolazione contadina ha preso stabile dimora in campagna dove sono sorte abitazioni dotate di ogni conforto. Avviati ormai sulla via del progresso, nella seconda metà dell'800, telegrafo, rotabile e ferrovia romperanno definitivamente l'isolamento di S. Rufo. I1 telegrafo raggiunse l'abitato nel 1870 in un momento in cui le finanze comunali attraversavano - more solito - un periodo critico al punto che il Comune, che con Polla, S. Arsenio e S. Pietro avrebbe dovuto sostenere le spese d'impianto per complessive 500 lire, si trovò nella necessità di rifiutare la sua quota contributiva 25. Nel 1882 entrò in funzione la rotabile Polla - S. Arsenio - S. Pietro - S. Marzano - S. Rufo e proseguita, quale strada di arroccamento, per Corleto - S. Angelo - Ottati da un lato e per Bellosguardo - Roccadaspide dall'altro 26. Poiché il Corso Maggiore, all'altezza del Palazzo Pellegrini, oggi Scaliati, presentava un notevole restringimento fu necessario abbattere parzialmente e dimensionare il predetto caseggiato. Sarà ristrutturato nel 1894. Nel dicembre del 1886, infine, venne inaugurato il prolungamento del tronco ferroviario Sicignano - Polla sino a Sala Consilina. Sarà poi proseguito fino a Lagonegro. Per quei tempi era quanto di più avanzato si potesse desiderare anche se il viaggio in ferrovia costituiva una mezza avventura perché, raffrontato ai tempi moderni, era disagevole ed i treni viaggiavano a velocità molto modeste. Fino alla fine della prima guerra mondiale le locomotive, specie quelle utilizzate sul tratto Sicignano - Lagonegro, erano molto meno potenti di quelle che precedettero gli attuali locomotori e le vetture, non molto lunghe, erano divise in scompartimenti autonomi, senza corridoi, cosicché, una volta 25

V. Bracco: Polla, pag.447 Con l’apertura della rotabile Polla – San Rufo e la successiva entrata in funzione della ferrovia, in sostituzione del «corriere del circondario», l'ultimo dei quali fu un certo Antonio di Leo, fu istituito un regolare servizio di collegamento fra i due paesi, a mezzo carrozze, per lo smistamento della corrispondenza e l'eventuale trasporto passeggeri. 26

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chiuse le portiere alla partenza del treno, si rimaneva ingabbiati sino alla stazione di arrivo od alle fermate intermedie, che si prolungavano allorché le locomotive dovevano rifornirsi di acqua o quando bisognava attendere la coincidenza con un altro treno. Le vetture erano prive di acqua, di gabinetti, di riscaldamento e l'illuminazione era assicurata mediante una lampada ad olio fissata al soffitto di ogni scompartimento. Successivamente vennero impiegate vetture aventi alle estremità delle terrazzine ed uno stretto corridoio al centro. Si distinguevano in vetture di prima, seconda e terza classe. Quest'ultime, molto rustiche, avevano i sedili tutti in legno. Perché ci si possa rendere conto del progresso fatto, è opportuno tener presente che a distanza di quaranta anni dall'inaugurazione del tronco ferroviario del Vallo, per andare da S. Rufo a Salerno si impiegavano sei ore: due ore sino a Polla e ben quattro sino a Salerno 27. Perciò chi voleva recarsi nel capoluogo od a Napoli doveva preventivare anche il pernottamento fuori sede non essendo possibile rientrare in giornata. Nello stesso tempo occorreva "appuntare" (prenotare e noleggiare) la carrozza per raggiungere lo scalo ferroviario. A tal proposito è doveroso rivolgere un memore pensiero a quello che per antonomasia per lunghi anni è stato il classico vetturino: Michele De Vita (Muscialisi) che, senza limitazione di tempo e di clima, accompagnandosi con un costante e bonario brontolio, ha svolto il compito con molta onestà ed elevato spirito di sacrificio. La passione dei cavalli non gli venne meno neanche allorché le auto soppiantarono le carrozze. Con la rotabile si ebbe una evoluzione nei mezzi di trasporto. La carretta ed il "traino" (un carro più pesante) ebbero un notevole incremento perché consentivano un più ampio trasporto di merci e masserizie mentre il trasporto con l'impiego di carri trainati da buoi si estese dalla campagna al paese. Ma fu la carrozza ad avere un impiego notevole sia in città sia in paese ed il suo dominio durerà a lungo, sino ai giorni nostri. La carrozza nelle sue varie forme (carrozza a quattro od a due posti, coupé, calesse, ecc.) venne considerata come indice 27

Il tratto Sicignano - Lagonegro era autonomo e perciò una volta giunti a Sicignano era necessario attendere la coincidenza del treno proveniente da Potenza sul quale si trasbordava per proseguire per Salerno. La sosta non sempre era breve. Lo stesso accadeva per il percorso inverso.

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massimo di proprietà economica. I signori ne ebbero di vari tipi, in genere di lusso, ma la carrozza più comune, la cosiddetta "carrozzella", fu quella che trovò un più corrente impiego. A causa delle strade polverose uomini e donne in viaggio usavano indossare lo "spolverino", un leggero soprabito. I cavalli erano muniti di finimenti con sonagli che annunziandone a distanza l'arrivo avrebbero dovuto evitare gli investimenti, il che purtroppo accadeva con una certa frequenza. Evento non secondario per importanza fu l'illuminazione a petrolio delle vie del paese avvenuta verso la fine del 1885. Fu Ferdinando II che, primo capo di stato in Italia, nel 1835 introdusse a Napoli l'illuminazione a gas delle strade di quella città; da quell'esempio le altre città ed i paesi del regno si adeguarono nel tempo 28. Dopo secoli scompariva la lanterna che era stata compagna di chi era costretto a spostarsi di notte. Gli anziani certamente ricordano Vicienzo «'O Mbrellaro», l'ultimo addetto alla accensione dei lampioni. Questo brav'uomo svolse un'attività poliedrica: fu lumista, netturbino, becchino, attacchino, banditore, arrotino ed inoltre riparava gli ombrelli, di qui il nomignolo, e gli oggetti rotti di creta, maiolica e porcellana. Sempre in lotta per far quadrare il bilancio, il comune non aveva la possibilità di assumere più di un operaio per l'assolvimento dei vari compiti e fu giocoforza far gravare più incarichi sul povero Vicienzo 'O Mbrellare. Da allora durante le festività religiose si ebbe una ricca illuminazione delle strade, prima ad olio, poi ad acetilene ed infine elettrica. Nello spazio di trent'anni e forse meno, dopo una secolare sonnolenza, la civiltà aveva raggiunto e trasformato anche le popolazioni rurali, il che per quei tempi significò un notevole progresso.

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Nel 1789 Ferdinando IV aveva disposto l'illuminazione ad olio della città di Napoli, ma a causa della eccessiva spesa di esercizio - circa 149.000 ducati - non fu attuata. (A. Tutolo: Storie minime, pag. 217).

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LE ATTIVITA' ARTIGIANE E QUELLE ALTERNATIVE A S. Rufo le attività artigiane, per necessità di vita, appaiono in genere all'inizio della formazione del nucleo che costituirà l'asse portante del futuro paese, ma soltanto in un lontano prosiego di tempo assumeranno una precisa fisionomia senza, per altro, costituire una individualità autonoma. Improvvisatisi muratori o falegnami, i primi abitanti provvidero a costruirsi una casa, sia pure sotto forma di capanna, e dopo aver risolto una serie di impellenti problemi, primi fra tutti quello dell'alimentazione, loro malgrado, iniziarono una timida e incerta attività artigiana in parallelo con quella principale, costituita dalla pastorizia e dal lavoro dei campi. Si trattava comunque di attività marginali, embrionali e non qualificate non per colpa dei singoli ma per carenze e debolezze insite nella struttura feudale e nello scarso tessuto conettivo del paese, con notevoli riflessi negativi sul proletariato, costituito dalla maggioranza della popolazione, che non avendo una specializzazione, né un lavoro fisso, prestava la sua opera saltuaria con modeste retribuzioni. Tale situazione, in maniera più o meno accentuata, si ripeterà costantemente nel corso dei secoli. In definitiva, sia nel Medio Evo sia nel periodo rinascimentale e post rinascimentale i nostri antenati non poterono far altro che preoccuparsi di due problemi essenziali: quello del mangiare e quello del vestire. Sappiamo che il problema dell'alimentazione fu risolto in modo molto precario e per quanto riguarda i vestiti c'è da precisare che la maggior parte era fatta di lana e tutti i capi di abbigliamento e di corredo necessari alla famiglia venivano, di massima, filati, tessuti e cuciti nelle singole case, utilizzando per la tessitura i telai a mano, perché soltanto i feudatari ed i benestanti potevano permettersi il lusso di andare dai sarti, che in genere si trovavano nel capoluogo e nella capitale del regno. Sino a tutto il 1800 i vestiti degli uomini e delle donne delle famiglie benestanti erano molto ricchi ed elaborati, comportavano una spesa notevole ed in parte erano la manifestazione esteriore della solidità economica e della posizione sociale di chi lo indossava. Il povero contadino doveva contentarsi di capi di corredo grezzi, appena sufficienti a ripararlo dal freddo e dalle intemperie, 110


e le calzature i famosi "zampitti", li ricavava dalle pelli di capra e di pecora 1. C'è da aggiungere che durante il Medio Evo e nel periodo immediatamente successivo non si usavano bottoni, sostituiti da legacci di stoffa, ed anche in seguito ebbero principalmente una funzione ornamentale, talché l'abito dei nostri antenati fu di una semplicità e di una modestia senza pari. Le prime attività artigiane, a carattere prettamente familiare, furono strettamente connesse con le necessità contadine, quali, ad esempio, la lavorazione del latte, per ricavare ricotte e formaggi, e quella del grano e del granturco per ottenere farina e confezionare il pane. Entrambe queste attività le svolsero essenzialmente le donne. Gli uomini si applicarono, fra l'altro, nella costruzione di contenitori, intrecciando vimini, steli di salici, di olmi e di canne per ottenere ceste, cestelli canestri e recipienti vari. Tale attività, che avuto continuità nel tempo, è andata man mano scemando in conseguenza del proliferare, in tempi recenti, dei contenitori di plastica. In stretta relazione con le necessità di vita, sorse e si sviluppò la lavorazione della creta, della pietra, del legno e del ferro. Con la creta si confezionarono brocche ("u muscetore"), piatti rustici, orciuoli ("arzuli"), pignatte, anfore ed embrici ("irmici"). Da tempo tale attività che pure contava un floridi passato, è scomparsa soprattutto perché l'artigianato locale non è stato in condizioni di contrapporsi alle forme industriali attuate in alcuni paesi vicini. E' rimasto soltanto il nomignolo di "pignataro" agli eredi di coloro che lavoravano la creta. I primi abitanti di S. Rufo, come sappiamo, provenivano da Teggiano, dove ancor oggi è attiva la lavorazione della pietra e, basandosi su una esperienza tramandatasi di generazione in generazione, iniziarono a lavorare la pietra per ottenere pile, vasi, recipienti di ogni genere e grandezza che adoperano per abbeverare il bestiame, conservare l'olio e contenere la salamoia dei formaggi e latticini. In un secondo tempo e parallelamente lavoravano la pietra per ottenere gradini, frontoni per le case, colonne e macine per mulini 1

Rinverdendo la tradizione di un lontano passato, analoghe calzature (le Cioce) sono portate nei paesi della Ciociaria (prov. Frosinone) in occasione di sagre paesane

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e frantoi. Gli scalpellini di S. Rufo, nel loro campo, non furono secondi a nessuno anche se il lavoro era gravoso e pericoloso. Per trasformare le capanne e le baracche in case in muratura, fra l'altro, fu giocoforza procurarsi la calce che si ottenne ponendo a cuocere le pietre calcaree in apposite fornaci ("carcare”). Nel tempo sorse più d'una di tali fornaci e per tutte citiamo quella che ancora oggi si presenta in ottimo stato di conservazione, dislocata a monte della strada per la Tempa, all'estremità orientale del fondo già dei Mattina ed ora di proprietà degli eredi Marmo (Nunziata). In quei pressi sorse anche una cava di pietre ed un'altra si sviluppò a monte del paese, nei pressi del casino del dottor Caggiano. Il lento sviluppo di S. Rufo si ripercosse sul numero dei muratori, che non è stato mai elevato, cosicché ogni qualvolta era in predicato qualche costruzione edilizia di una certa importanza si chiamavano i muratori dei paesi vicini. Ancora oggi, forse a causa dell'autonomia e dell'individualismo dei nostri muratori nonché di altre cause che esamineremo in appresso, quasi sempre nel campo edilizio si ricorre alla mano d'opera esterna. Talvolta è accaduto che muratori forestieri, intervenuti per effettuare lavori complessi, abbiano preso poi stabile dimora in paese, risolvendo parzialmente il problema della mano d'opera specializzata. Valga per tutti l'esempio di mastro Gerardo Siano, di Calvanico, che venuto temporaneamente a S. Rufo nel 1914 vi trasferì poi definitivamente la famiglia. Anche il numero dei falegnami è stato costantemente limitato, ma a differenza di quando accadeva con i muratori, per i lavori di falegnameria raramente si è ricorsi a mano d'opera forestiera. L'attività di questi bravi artigiani è stata molteplice: costruzione di porte, finestre, armadi, tavoli, panche, casse per biancheria, i classici "vanghi" (cassapanche con spalliera e braccioli) che un tempo fiancheggiavano i focolari, banchi di scuola, sui quali da ragazzi maltrattammo ortografia e grammatica, nonché ogni altro mobile di legno, comprese le casse funebri che sino a qualche decennio addietro venivano costruite in loco, di volta in volta, costringendo i falegnami a lavorare di notte per approntarle in tempo utile. Questi mobili possono anche non essere corrispondenti al gusto moderno, anzi non lo sono affatto, ma per la loro solidità sono destinati a sfidare i secoli. 112


I falegnami lavoravano il castagno, l'abete, il noce, il ciliegio, la quercia e talvolta l'ulivo con notevole abilità ma anche con molta fatica dovendo effettuare la segatura e la piallatura esclusivamente a mano. Non è possibile citarli tutti, ma non possiamo non ricordare l'ebanista Cono Marmo autore dell'ampia ed artistica nicchia mobile che racchiude la statua della Madonna della Tempa, posta dietro l'altare maggiore della chiesa parrocchiale, che, a detta dei competenti, costituisce una opera lignea di notevole livello 2. I fabbri, che agli inizi limitarono la loro attività battendo il ferro per forgiare (di qui in nome "forgiaro" dato ai fabbri) ferri di cavallo, zappe, vanghe, aratri, serrature chiodi, utensili per la cucina, nei secoli successivi allargarono il campo di loro competenza in parallelo con le costruzioni edilizie. I lavori in ferro, alcuni dei quali molto elaborati, che appaiono sui balconi e sulle scale delle nostre case sono opera loro. Verso la fine del secolo scorso furono affiancati, in modo marginale, perché esplicavano la principale attività nella compravendita di asini e cavalli, dagli zingari, i quali, in modo petulante, cercavano di collocare presso le famiglie i loro modesti e rudimentali manufatti. Tutte le attività artigiane di cui abbiamo parlato ebbero notevole incremento ai primi dell'800, dopo l'eversione della feudalità, ed è di questo periodo l'affermazione anche dei sarti e dei calzolai che sino allora avevano avuto vita stentata e saltuaria. I sarti, costretti a lavorare in maggioranza stoffe alquanto ruvide tessute in casa con i telai a mano, ottennero risultati più che apprezzabili ed analoghi risultati conseguirono le sarte nel campo femminile. Fra i sarti citiamo per tutti Peppino Tierno, che nel tempo in cui operò fu l'arbitro dell'eleganza paesana. Purtroppo col tempo anche questa attività è andata scemando soprattutto a causa dello sviluppo industriale nazionale che ha raggiunto anche i centri periferici.

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Sulla base della nicchia è posta frontalmente una targhetta con la seguente iscrizione: «A divozione dei San Rufesi in New York - Collettori Erminio Fiore e Domenico D'Alto - per cura del Sac. Angelo Pagano» e sul lato destro, in lettere dorate: «CONUS MARMO FILIUS JOSEPHI FESIT OPUS OPUS – 1891»

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La nicchia costruita dall’ebanista Cono Marmo per la statua della Madonna (da una foto dell’epoca, gentilmente fornitami da Amedeo Spinelli)

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L'esistenza di parecchi telai permetteva, oltre la tessitura delle stoffe d'abbigliamento, anche quella di lenzuola, asciugamani, tappetini, sacchi, "mesali" (tovaglie), "bangale" (grembiuli) e coperte molto belle e caratteristiche, specie quelle a disegni scozzesi, consentendo alle famiglie una certa indipendenza economica. Si trattava di stoffe rustiche, alle volte un po' ruvide, ma resistentissime e assai interessanti nella loro semplicità. Oggi i telai sono del tutto scomparsi non tanto a causa della loro vetustà quando per l'indolenza delle nuove generazioni nel non voler continuare le tradizioni dei loro padri, mentre almeno la tessitura delle coperte avrebbe meritato miglior sorte. Pur non costituendo allora attività artigiana specifica, occorre ricordare le "ricamatrici" che fiorirono in quasi tutte le famiglie della borghesia nascente ed in parte integrarono il lavoro delle sarte. In parallelo con l'attività dei sarti ed a completamento di essa assurse ad importanza di rilievo quella dei calzolai ("scarpari"), la maggioranza delle calzature veniva fatta con pelli molto consistenti, poco morbide (la "mbigna") e con abbondante chiodatura, ma non mancarono calzature più raffinate fatte con pelli di maggior pregio quali quelle cosiddette di "pelle a cromo" e quelle di capretto che, di massima, escludevano la chiodatura delle suole. Annualmente, su richiesta, sarte e calzolai si recavano nelle famiglie, provvedendo alle necessità familiari in materia di vestiti e calzature dove consumavano il pasto. Poiché il risparmio ed il senso dell'economia costituivano la base morale degli individui, molte volte si andava dal sarto per rinnovare il fondello dei pantaloni e dal calzolaio per cuciture e rattoppi. Per arrotondare il modesto guadagno poteva accadere che il calzolaio, specie il sabato e la domenica, si trasformasse in barbiere, Francesco De Vita, alias Ciccio Carrano fu l'ultimo calzolaio barbiere. La disponibilità di sarti e calzolai non deve indurre a ritenere che tutti vestissero e calzassero adeguatamente, cosi come avviene oggi. Purtroppo le condizioni economiche della popolazione continuavano ad essere misere, molti ancora soffrivano la fame ed i bambini vestivano pantaloncini di lana grezza con spaccature a tergo dalla quale spuntava la "pettola". Questi modestissimi 115


indumenti normalmente venivano confezionati dalle mamme dei ragazzi o da qualche loro parente. Per rendersi conto di quanto precaria fosse la situazione economico-sociale della popolazione sanrufese, ricordo che nei primi decenni del 900, a distanza di oltre un secolo dalla fine del feudalesimo, in pieno inverno, molti ragazzi si recavano scalzi a scuola ed al termine delle lezioni, sotto la pioggia o la neve, correvano in campagna per coadiuvare i genitori nei lavori dei campi. Aggiungo che si tratta di ricordi personali. A San Rufo non mancò un certo numero di pittori, alcuni bravi, altri modesti ed i più quasi imbianchini. L'unico degno del nome di pittore, anche per la preparazione acquisita nelle scuole, fu Giuseppe Mangieri, il pittore per antonomasia, che pitturò le pareti della chiesa, ne affrescò la volta ed operò con solerzia in molte case. Fu vice sindaco col notaio Giovanni Spinelli. Il pittore era pronipote di Francesco Antonio Mangieri, valente e notissimo"organaio", che costrui per la Badia di Cava dei Tirreni un organo ritenuto monumentale di notevole pregio. Nel 1919 un mantice ed una decina di canne d'organo, rimaste abbandonate per molti anni nel solaio di casa Mangieri furono vendute ad un antiquario dal nipote Mario. Nessuno dei figli dell'organaio continuò il mestiere del padre 3. 3

La famiglia Mangieri era originaria dell’Abruzzo (L’Aquila), dove sin dal Medio Evo, alcuni componenti esercitarono la magistratura. In origine il nome era Manieri, poi Mangieri, trasformato in Mangieri durante l’occupazione francese. Nella seconda metà del 600 un ramo della famiglia Mangieri risultava emigrata a S. Rufo, dove, in località Camerino gli eredi di Giuseppe Mangieri possedevano alcuni terreni. Altri terreni possedevano ai Temponi Taddeo e Donato Mangieri. Nel 1700 Francesco Antonio Mangieri figlio del citato Giuseppe, esercitò il mestiere di organaio. Ebbe quattro figli. Dal primogenito Giuseppe, farmacista, nacquero Antonietta, Francesco Antonio, l'arciprete di cui abbiamo parlato in precedenza, ed Urbano, medico, che da studente, a Napoli, fu arrestato e poi rilasciato per presunta attività antiborbonica. Il medico era nonno del nostro concittadino Urbano Nolfi Nipoti e pronipoti di Francesco Antonio furono anche il garibaldino Francesco, figlio di Carmine Antonio, il pittore Giuseppe, l'esattore Francesco (Ciccio), l'impiegato comunale Beniamino (Mimi), che emigrò negli Stati Uniti, ed il citato Mario. Questi ultimi tre li incontreremo allorché parleremo della festa della Madonna della Tempa.

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Non sappiamo se in altri paesi del Vallo vi siano organi costruiti da Francesco Antonio Mangieri. Sappiamo che nel periodo feudale soltanto al barone era consentito possedere frantoio e mulino, ed i cittadini, di volta in volta, per la molitura dovevano pagare un tributo. Con la scomparsa del feudalesmo si ebbe una proliferazione di frantoi, che, in tempi abbastanza recenti, hanno cessato ogni attività perché soppiantati da quelli moderni. Possedevano frantoi, la famiglia di Orazio Marmo, alla Grotta, il notaio Pagano, a S. Rocco, la famiglia Pellegrini prima e Luigi Pagano dopo, nei pressi dell'abitazione, poco a monte c'era il frantoio degli Spinelli, quello dei Mattina, gia del barone Rinaldo, occupava il locale dove prima del terremoto vi era il Mini Market, ed infine quello dei Marmo (Rocco) a S. Antonio. La molitura delle olive avveniva facendo rotare su una piattaforma concava una grossa macina posta verticalmente. La rotazione si effettuava generalmente a trazione animale ma spesso anche con l'impiego di uomini. Il lavoro era lento e faticoso e di notte si svolgeva alla luce fioca di una lucerna. Il recente impiego di frantoi elettrici ha reso più spedito ed igienico il ciclo lavorativo delle olive, e meno disagevole il lavoro degli operai. I mulini ad acqua stanziati nel territorio di S. Rufo erano dislocati in località distanti dal paese e precisamente: quello dei Bubba, Greco, Pacifico e De Vita nei pressi del torrente Marza, in contrada Pagliai Bassi, quello cosiddetto dei Monaci e l'altro di Giuseppe Marmo (Peppe re Paolo) a Capo la Marza. Non ebbero vita facile a causa della tassa sul macinato, imposta dopo la formazione del regno, ed anche per la dislocazione eccentrica rispetto al paese che contribuiva a rendere faticoso il trasporto del grano prima e della farina dopo. Scomparvero tutti allorché subentrarono i mulini a cilindri, che, a loro volta, ebbero vita effimera. Il pane ottenuto con la farina dei mulini ad acqua era bigio, ma aveva un profumo, una fragranza ed un gusto che sono sconosciuti alle nuove generazioni.

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A differenza di quanto accade oggi, che con la meccanizzazione dell'agricoltura, l'impiego generalizzato dei concimi ed il proliferare dei forni pubblici ha reso meno pesante il lavoro dei campi, più abbondante il raccolto e meno laboriosa la confezione del pane, in passato ogni chicco di grano ed ogni briciola di pane costituivano il frutto di lavori e di stenti inenarrabili. Anche la produzione del vino da noi ha sempre avuto carattere artigianale. Molti sono i terreni coltivati a vigneto, sia in collina sia in pianura, ma la zona più idonea alla coltivazione della vite e la contrada Foresta, che, come sappiamo, in passato era una selva. Purtroppo i nostri coltivatori non sempre hanno avuto l'accortezza di selezionare i vitigni, per ottenere vini di qualità, né di associarsi fra di loro, cosi come è avvenuto in altre regioni. L'individualismo spinto fino all'egoismo è andato a scapito della qualità del prodotto perché ciascun coltivatore è convinto di produrre il vino migliore anche quando trattasi di modesto vinello, qualche volta destinato ad incrementare la produzione dell'aceto. Infine un cenno sull'attività boschiva che, pur non raggiungendo livelli elevati come altrove, ha costituito punto di riferimento per attività collaterali. Difatti il taglio di castagni, querce, cerri, faggi effettuato in zone montane e pedemontane, in passato si è svolto senza soluzione di continuità ed in sintonia con le costruzioni edilizie prima e l'incremento delle telecomunicazioni e ferrovie dopo. I materiali ricavati dal taglio dei boschi, quali travi, traversine (chiangaredde), pali necessari per pavimenti, soffitti, baracche, palificazione dei vigneti, linee elettriche, telegrafiche e telefoniche, sono stati prodotti con regolarità ed in misura più che sufficiente al fabbisogno. Cosi pure ancor oggi continua la produzione di traverse per ferrovie, mentre è stata accantonata quella del carbone, gia florida in passato. In tempi recenti, favoriti dalla meccanizzazione e motorizzazione, gli industriali boschivi hanno organizzato ed attuato il taglio e la consegna a domicilio della legna da ardere. Il tempo in cui la povera gente, il più delle volte sprovvista di "fido legna", era costretta a recarsi in montagna per rifornirsi di una bracciata di "frascedde" - ramaglie secche di faggio - è un lontano, pallido ricordo, cosi come non si accenna più alle molte astuzie alle quali ricorrevano coloro che tentavano di sfuggire alla 118


sorveglianza ed al controllo vessatorio dei guardaboschi, progenitori delle attuali guardie forestali. Per quanto attiene le attività connesse alla montagna, scaduto l'interesse della pastorizia a causa del depauperamento dei greggi, non si è mai notato attaccamento alle escursioni in montagna od ai campeggi. Ancor oggi, sono del tutto sconosciuti gli sport invernali. Riguardo alla organizzazione ricettiva è da osservare che da noi vi è stata sempre carenza di locande - non è il caso di parlare di alberghi, mai esistiti - e di trattorie. In questo secolo, e per lungo periodo, Elvira Costa ha tenuto una locanda ricavata nella sua abitazione, dove i rari avventori, volendo, potevano rendere gradevole la loro sosta mediante qualche sollazzevole diversivo. Successivamente è subentrata, con ben altro decoro e comodità, la locanda - trattoria delle sorelle De Vita alias Carrano. In quest'ultimi tempi anche le predette sorelle hanno smesso tale attività per cui non rimane che sperare nella realizzazione del programmato albergo del Centro Sportivo di Camerino. S. Rufo era ed è un paese agricolo e la popolazione, nella maggioranza, è di estrazione contadina. Per questi motivi, artigiani e non artigiani, ancorché impegnati in lavori di loro specifica competenza, in occasione del raccolto di qualsiasi prodotto agricolo e dagli indispensabili lavori della terra, chiudevano ed ancor oggi chiudono casa e bottega per correre nei campi confermando l'atavico attaccamento alla terra e ponendo in non cale ogni altra attività.

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PROFESSIONISTI E PERSONALITÀ CIVILI E RELIGIOSE SINO ALLA FINE DEL XIX SECOLO Nel corso dei secoli S. Rufo, in relazione alla sua modesta consistenza, ha avuto sempre un notevole numero di professionisti, principalmente notai, avvocati e medici. Non sono mancati ingegneri e farmacisti. Nel medio evo e nel rinascimento con il termine notaio correntemente si intendeva indicare sia i notai sia gli avvocati. Nel 1300 chiamavano notai i traduttori che volgevano in latino, il greco e l'arabo dei testi, in genere, di medicina. I traduttori di lingua greca venivano chiamati «notarius in graeca scriptura» 1. Soltanto in tempi successivi troviamo ben distinte le due professioni. I notai e gli avvocati lavoravano intensamente, i primi per stipulare contratti per diritti di proprietà, di successione, ecc. ed i secondi per le continue controversie fra privati, fra congiunti, fra università e baroni per qualsiasi altra sottigliezza giuridica che consentisse di rimescolare le carte dei più strani interessi, comprese le liti per divisioni di eredità. Vi erano poi i medici in genere dottori fisici ma in caso di urgente necessità si trasformavano in cerusici (chirurgi) dentisti ecc. Per i parti i medici si avvalevano della collaborazione delle levatrici (le "vammane") che sino alla seconda guerra mondiale, a S. Rufo non sono mai mancate e che ora mancano del tutto. Il più delle volte la povera gente, e non solo quella, per i parti chiamava la levatrice e non il medico. I dottori fisici lavoravano come si dice oggi, a tempo pieno di giorno e di notte, sempre pronti ad accorrere al capezzale degli ammalati, anche se dislocati in campagna od in casolari sperduti in montagna. Conoscevano singolarmente i componenti delle famiglie e non avevano bisogno di analisi cliniche, che allora non esistevano per diagnosticare le malattie. I medicinali quasi sempre a base di sali e di erbe, venivano preparati dai farmacisti o dagli speziali e confezionati in pillole. L'olio di ricino ed il fegato di merluzzo costituivano il toccasana specie per i ragazzi ingordi o di fisico delicato. Il sale inglese ben si adattava ai tipi pletorici, corpulenti, beoni ed a quelli destinati

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Storia di Napoli, vol. III, pag. 139.


ad andarsene al creatore col tocco (infarto). Il disinfettante principe era costituito dal sublimato. La povera gente, che non disponeva dei mezzi, il più delle volte si disobbligava con un "panariello" di uova, con un pollo oppure con prestazioni varie. Una forma indiretta di baratto. Non era il caso dei soli medici bensì un po’ di tutti i professionisti, tutti spiccati galantuomini, che a causa della loro onestà e della loro rettitudine, non cambiarono posizione economica e più di una volta, specie per l'educazione dei figli o per matrimoni, furono costretti ad intaccare i loro beni patrimoniali. Di costoro conosciamo ben poco perché non sempre gli eredi hanno conservato documenti idonei a meglio illustrare la figura 2. In passato (dal 1600 agli inizi del 1900) e stato rilevante il numero dei medici appartenenti alle varie casate: * Cimino Francesco, *Avicola Rosa, * Procacci Aniello, * Procacci Nicola, *Procacci Pietro, * Cimino Francesco, * Capobianco Gioacchino, * Eterni Andrea, * Mandia Giuseppe, * Novellino Bernardino, * Mattina Giuseppe, * Rubino Raffaele, * Mangieri Urbano, * Curcio Pasquale, * Marmo Daniele, Spinelli Giovanni, Caggiano Carmine, * Bamonte Nicola 3. Il dottor Bamonte è stato l'ultimo medico condotto locale avendo i successivi laureati in medicina preferito svolgere attività professionali altrove. Sul conto del dottor Daniele Marmo, padre del poeta Nicola e stretto parente dell'arciprete omonimo abbiamo trovato questa notizia riportata da un quotidiano del tempo: «la scuola medica napoletana ha occupato in tutti i tempi un posto distintissimo fra le più celebri d'Europa ed oggi, lo diciamo con compiacenza, la nostra gioventù dedita a quello studio mette tutta la cura per mantenere il lustro. L'esame che han sostenuto i giovani alunni del R. Collegio medico-cerusico è stato più dell'usato glorioso. 2

Oltre le famiglie Pellegrini, Rinaldo e Laviano, innalzarono insegna comitale anche i Marmo,(ramo del poeta) ed i Mangieri, famiglie entrambe estinte, ma s'ignora il predicato e la data della concessione, consentendo, a conferma di quanto ha scritto in proposito Benedetto Croce, ogni logica illazione (v.pag. 18). 3 Le famiglie dei professionisti segnate con asterisco sono estinte o trasferitesi altrove.

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I seguenti cinque alunni meritano poi in concorso le lauree gratuite: 1° Don Daniele Marmo S. Rufo. ..................................................» Fra gli avvocati troviamo .* Pellegrino Antonio (giurista), * Pellegrino Filomeno, * Pellegrini Francesco, * Mattina Giuseppe e * Greco Francesco. Fra i farmacisti notiamo: * De Vita Pietro, * Curcio Luigi e *Mangieri Giuseppe. Sempre dal 1600 a tutto il 1800 troviamo notai nelle famiglie Tierno, Spinelli, Marmo, * Mastandrea e * Pagano. In vari documenti i notai, come d'uso sino al XVIII secolo, figurano con l'appellativo onorifico di "magnifico" (nobile). Alla fine del 1600, indipendentemente dall'attività professionale svolta singolarmente, figuravano "magnifico": *Benvenga Daniele *Brancolino Giuseppe *Cimino Abbondanzio Domenico *Di Rosa Andrea Di Somma Marco De Vita Pasquale De Vita Ignazio 4 *D'Ippolito don Simone *Mangieri Michele *Marcoro Abbondanzio *Pellegrini Domenico *Palmieri Benedetto 4

Da notizie gentilmente fornitemi dalla signora Carolina De Vita Spinelli, risulta che il capostipite della famiglia. provieniente da Salerno fu Girolamo coniugato con Maria Pellegrini. Dal matrimonio nacque l'1.2.1562 Ignazio che nel 1591 sposo' Assunta Marmorosa, procreando nel 1597 Feliciano. Questi nel 1625 sposò Caterina Dante, il cui figlio Francesco, nato nel 1626, sposò nel 1645 Rosalia de Greci. Martino, nato nel 1651, dal predetto matrimonio,sposò Rosa Stabile nel 1685. Il figlio Francesco nato nel 1689, sposò Angela Somma procreando nel 1712 Giuseppe, coniugato poi con Rosaria Palladino. Il loro figlio Ignazio, nato nel 1757, sposò Caterina Manjeri (Mangieri). Dal matrimonio, nel 1790, nacque Pietro, sposato con Vincenza Mangieri. Il figlio Giuseppe, nato nel 1834, sposato con Maria Somma, nel 1864 procreò Michele, nonno degli attuali fratelli De Vita. Il citato "magnifico" Ignazio era nipote di Feliciano, primogenito del figlio Rufo. Purtroppo, sino ai moti carbonari, non si hanno notizie sull'opera svolta dai singoli componenti la famiglia.

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Spinelli D. Camillo *Soja Domenico Sino agli inizi del secolo scorso i professionisti di S. Rufo, ingabbiati nella rete baronale e spesso legati all'interesse del privilegio del feudatario, vennero emarginati da ogni forma di attività culturale e politica, eccezion fatta di quella prevalentemente amministrativa nell'ambito dell'Università. Nell'elenco «degli uomini illustri», inserito nella «Cronologia dei vescovi pestani ora detti di Capaccio» di G. Volpi, edita nel 1752, non vi figura nessun professionista sanrufese mentre vengono ripetutamente citati quelli di quasi tutti i paesi vicini. L'ambiente ristretto e chiuso del paese, appartato e isolato, la consuetudine di interessarsi esclusivamente di problemi locali, strettamente personali ed economici, il quieto vivere, l'assenza di frequenti contatti con colleghi di altri paesi e delle città, inaridirono e frenarono qualsiasi ambizione ed interesse culturale dei nostri professionisti per cui nessuno si elevò oltre la ristretta cerchia paesana. Successivamente le nuove generazioni, alimentate dallo spirito della rivoluzione francese, esplosero nel '99 e nel '20, durante il moto repubblicano prima e carbonaro dopo, ma mal gliene incolse perché la loro generosità ed il loro desiderio di rinnovamento furono ripagati col carcere ed il controllo vessatorio della polizia. Sono noti i nomi di coloro che, rompendo una triste tradizione di apatia, pagarono, di persona la loro generosità. Garibaldi, che aveva portato una ventata di libertà e la spinta all'unità d'Italia, suscitò nelle popolazioni meridionali un più ampio respiro di pensiero e di aspirazioni. Nella seconda metà dell'800 due altre personalità, ben distinte fra di loro, faranno spicco su tutti: Filomeno Pellegrini e Nicola Marmo, sui quali ci soffermeremo brevemente. Con la maggior dilatazione dell'istruzione, nel corso di questo secolo la schiera dei professionisti aumenterà notevolmente, ma, per necessità di vita, molti si trasferiranno in città dove più d'uno raggiungerà traguardi di prestigio e la cattedra universitaria. Parlando del clero il giudizio, nel complesso, non è stato favorevole e ciò non deve condurre a conclusioni nettamente negative perché ad elementi modesti e fors'anche discutibili moralmente hanno fatto riscontro sacerdoti di altissimo livello culturale e spirituale. 123


Per diritto di precedenza, ricorderemo innanzitutto Paolo Eterni (Tierno), che nel 1620 resse la nostra parrocchia. L'eterni è stato l'unico in passato a scrivere, sia pure succintamente, su S. Rufo. Per cultura, preparazione dottrinale e spirito missionario meritò stima e considerazione non solo nel Vallo ma anche presso la Curia di Capaccio. Ebbe il merito di aver dotato il paese di un piccolo convento di frati, che, come gli altri conventi di scarsa consistenza, per disposizione di papa Panphili (Innocenzo X), dopo breve vita fu soppresso. Il convento era ubicato nella chiesa di San Michele Arcangelo «l'Angelo», (ora abbattuto) «extra moenia». Fu anche «magister caeremoniarum» della cattedrale di Capaccio nella cerchia del vescovo Matta e del successivo Pappacoda. Ricordiamo ancora D. Giuseppe Marmo, D. Francesco Felice Mangieri, D. Antonio Pellegrini ed infine D. Daniele Marmo. Per la elevata preparazione culturale e dottrinale furono destinati a svolgere la loro missione presso i seminari di Capaccio, Diano e Sicignano. D. Giuseppe Marmo, fratello di D. Daniele, prozio del poeta, nacque a S. Rufo il 10 aprile del 1779. Fu «maestro di ogni scienza» nel seminario di Diano e direttore spirituale delle suore. Mori nel 1838 a 59 anni. D. Francesco Felice Mangieri, canonico a Diano, vicario generale della Curia di Cava prima e di quella di Diano dopo, quale dottore in teologia ed in «utroque iure» meritò la stima incondizionata dei vescovi, del clero e dei fedeli tutti. D. Antonio Pellegrini, canonico a Capaccio, dottore in teologia, predicatore e professore in quel seminario. Arciprete nella nostra parrocchia nel 1794. D. Daniele Marmo, nacque a S. Rufo nel 1765, fu arciprete della nostra parrocchia per lungo tempo. Rettore e lettore di dogmatica e morale nel seminario di Sicignano, predicatore efficace, direttore spirituale delle suore di Diano, fu anche direttore del sinodo di Capaccio. Con molto tatto e raro senso di equilibrio, unitamente a D. Cesare Pellegrini, cantore ed economo della nostra Chiesa, D. Daniele, pur assecondandola, seppe contenere l'azione dei carbonari durante gli avvenimenti del 1820. Mori il 26 ottobre 1830, a 65 anni. Oltre ai citati sacerdoti, lustro e vanto della nostra chiesa, abbiamo avuto altri sacerdoti, anche se modesti culturalmente e 124


dottrinalmente, che sono stati di esempio per spirito cristiano, per l'ampia dedizione alla missione sacerdotale e per generosità e comprensione umana. Non dobbiamo dimenticare, altresì, il debito di riconoscenza dovuto a tanti sacerdoti che, in tempi difficili e calamitosi, hanno svolto proficua ed intensa attività di insegnanti, onorando la Chiesa di S. Rufo e meritano la gratitudine della popolazione. Per concludere l'argomento riguardante le personalità di S. Rufo riportiamo l'elenco dei sindaci succedutisi dal 1809 sino ad oggi: Marmo Pasquale CapuozzoloFelice Marmo Rufo Pellegrini Pasquale Marmo Nicola De Petrinis Nicola Greco Giuseppe Marmo Pasquale De Petrinis Nicola Capozzuolo Felice Tierno Luigi Pellegrini Francesco Marmo Matteo Marmo Antonio Marmo Matteo Mattina Nicola Pagano Giuseppe Pellegrini Filomeno Marmo Antonio Mattina Nicola Pellegrino Filomeno Tierno Achille Greco Francesco Spinelli Francesco * Marmo Antonio * Avv. Pellegrini Filomeno * Not. Spinelli Pasquale Comm. Marmo Orazio * Not. Spinelli Pasquale * Ins. Paladino Giuseppe

1809 1810 1811 1814 1817 1818 1823 1826 1832 1835 1838 1839 1834 1845 1850 1855 1860 1865 1869 1871 1874 1884 1886 1893 1901 1902 1909 1942 1943 1946 125


Ins. Marmorosa Cesare Not. Spinelli Giovanni Ins. Marmorosa Cesare Geom. Luongo Franco Prof. Sellaro Umberto

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1949 1952 1956 1970 1980


FILOMENO PELLEGRINI Filomeno Maria Taddeo Pellegrini nacque a S. Rufo il 2 marzo 1835 dall'avvocato Francesco e dalla N. D. Gaetana D'Alitto. Fedele alla tradizione familiare, si laureò in giurisprudenza a ventun anni, l'anno dopo la morte del padre, avvenuta il 14 ottobre 1855, all'età di 55 anni. Spirito indipendente ed intraprendente, gentiluomo di antico stampo, carattere misto di semplicità e di signorile alterigia, impenitente scapolo, si immedesimò nella situazione precaria in cui si trovava il paese e con l'entusiasmo e la perseveranza del neofita intraprese, con quella professionale, l'attività politica. Nel 1865 all'età di trent'anni, fu eletto sindaco di S. Rufo, carica che il genitore aveva ricoperto dal 1839 al 1843 e prima ancora un suo avo, il giurista Giovanni Antonio Pellegrini, come presidente della municipalità, nel 99 era stato l'animatore della democratizzazione del paese. Sempre in età giovanile fu eletto consigliere provinciale, incarico nel quale, in tempi successivi, verrà rieletto due altre volte. Nel 1874 ritornò a capo dell'amministrazione comunale, nello stesso anno in cui fu eletto deputato al parlamento nazionale. Durante il periodo in cui diresse l'amministrazione fu realizzata parte della rete fognante del paese, fu inaugurato il municipio, costruito ex novo, e realizzata la toponomastica. La fognatura fu limitata al tratto via dell'Arco bivio S. Antonio, ad oriente, ed al tratto comprendente l'inizio e parte dell'attuale corso Garibaldi, ad occidente. Passerà circa un secolo prima che, in tempi abbastanza recenti, si addiverrà alla costruzione dell'intera rete fognante del paese. Dopo l'eversione della feudalità era stato abbandonato il vecchio sistema di riunire il Parlamento nella pubblica piazza ed il Comune era stato sistemato provvisoriamente nell'attuale abitazione di Luigi Giuliano al rione S. Rocco, negli stessi locali dove, in tempi successivi, sarà sistemata l'aula della terza e quarta elementare. La sistemazione definitiva fu trovata costruendo ex novo il municipio, quasi di fronte alla casa della famiglia Pellegrini, su un'area concessa dalla famiglia Spinelli, con la clausola che l'edificio non superasse il primo piano. 127


Il municipio fu inaugurato poco dopo l'apertura della strada S. Marzano, S. Rufo, bivio Roscigno. Recentemente, in seguito alle gravi lesioni riportate durante il terremoto del 23 novembre 1980, l'edificio è stato demolito. All'atto dell'elezione a deputato, il Pellegrini, in data 11 giugno 1874, indirizzo agli «elettori politici del collegio elettorale di Teggiano» una «lettera-programma» per ringraziare «i signori elettori» per la preferenza accordatagli e precisare quale sarebbe stato il suo comportamento in parlamento (allegato 7). «Non intendendomi affatto preso dalla comune vaghezza di illudere con dettaglio di promesse - scriveva - come voi vedete veggo anch'io la ferrovia a congiungimento di strade Nazionali e Provinciali; a lavori di bonificazione». In campo nazionale, dopo tredici anni dalla formazione del regno, rilevava che la «squallida realtà ha ormai sfumato l'idillio dello entusiasmo» e toccava gli argomenti che maggiormente interessavano la popolazione meridionale. “Una radicale riforma nello erroneo, essiccante e non riparativo sistema delle Tasse, fra le quali pesano più che tutto, come l'incubo nello stomaco, la impopolare del macinato, e la immoralissima della successione». Più oltre con argomenti che in parte sembrano di attualità: «Poco tenero di un governo, che, senza mai rinsavire fin qui, ci ha succedevolmente regalato della insicurezza: del disavanzo; del deprezzamento dei Fondi Pubblici; della migrazione; della miseria; io mi risiederò alla Sinistra, ma alla Sinistra moderata, però eclettica ed amante di un processo ben inteso; perciocché non mi senta affatto passionato della sistematica, preconcetta opposizione da partito.» Chiarisce poi questo suo concetto: «cosicché, io liberale progressista, della Sinistra mi opporrò alla Sinistra, quando essa trascorra i giusti limiti della opposizione ragionata e leale. Dalla Sinistra, io appoggerò la Destra e il Governo, semprecché Governo e Destra non ismarriranno la diritta via del bene». Era, in definitiva, la politica del «trasformismo» di Agostino Depretis «l'incorruttibile corruttore», come fu chiamato, per cui un deputato di sinistra poteva votare per la destra e viceversa, indipendentemente dal partito di appartenenza. Con il «trasformismo» si iniziava lo scadimento del Parlamento col conseguente sorgere ed affermarsi del «clientelismo». Durante il secondo periodo in cui Filomeno Pellegrini, per dieci anni consecutivi, fu nuovamente sindaco di S. Rufo si 128


riaccese la lite fra S. Rufo e Corleto per il possesso della "Montagna", costituita da 974 ettari di boschi e prati, situata a cavallo dei due paesi. (allegati 8-9). La vertenza, sorta nel 1668 fra il barone di Corleto ed il duca di Diano, dal quale in quell'epoca dipendeva il nostro casale, era stata definita nel 1798, più di un secolo dopo, con un decreto del Sacro Regio Consiglio perché: «nihil innovetur de facto». A distanza di 83 anni da tale sentenza, il 18 febbraio 1881, il comune di Corleto riprese la vertenza davanti al tribunale di Salerno. Fra Tribunale, Corte d'Appello e Cassazione la lite, con fasi alterne, si protrasse a lungo, con notevoli spese da parte di entrambi i contendenti, e venne definita, di comune accordo, soltanto nel 1951. Nel 1909 Filomeno Pellegrini, ormai stanco e greve di anni, lasciò la carica di sindaco, che aveva ricoperto per la terza volta, e si ritirò a vita privata, seguendo, per altro, lo sviluppo della pratica riguardante il rifornimento idrico del paese. Dopo di lui S. Rufo non avrà mai più un suo rappresentante in seno al Consiglio Provinciale ed in Parlamento. Egli fu anche l'ultimo avvocato locale perché l'avvocato Giuseppe Mattina, di lui più giovane, si trasferì presto a Salerno e le nuove generazioni di laureati in giurisprudenza per molteplici motivi, non hanno inteso svolgere attività professionale in paese. Il 15 luglio 1915, a ottanta anni Filomeno Pellegrini decedeva fra il rimpianto dell'intera popolazione.

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NICOLA MARMO Nicola Beniamino Marmo nacque a S. Rufo il giorno di capodanno del 1838 dal medico Daniele Marmo, di cui in precedenza abbiamo parlato, e dalla N.D. Teresa Celio di Teggiano. Intelligente, estroso, bizzarro, fisicamente non molto prestante, lineamenti e tratto distinti e signorili, chioma fluente, baffetti contenuti, piacque alle donne e le donne piacquero a lui. Una di esse, Rosina, una imponente levatrice, fu l'amica preferita, ma fra i suoi amori non mancarono le Terese le Colombe e le Nicolette che egli ricorderà nel lungo e spassoso "testamento": A Rosina mia diletta Che m'appunta la brachetta Per il gusto che mi ha dato Lascio tutto il Corticato 1 A baffuta mia Teresa Lascio i Verti e la Difesa 2 Anche un vaso di mostarda Per Colomba di Fiscarda. Compì i primi studi in famiglia sotto la guida attenta e premurosa della madre, che si vuole sia stata un'insigne latinista, e li completò a Salerno ed a Napoli. Proveniente da una famiglia che aveva dato esperti notai, insigni medici e dotti sacerdoti, non volle seguire le orme paterne e cercò l'affermazione nel campo letterario; affermazione che non gli mancò, come attestano le quattro medaglie ricevute in premio e di cui volle fregiarsi nel farsi fotografare, (unica fotografia a noi pervenuta). Spirito inquieto, avventuroso e rusticante, si spostò con una certa frequenza fra S. Rufo, Salerno, Napoli e Milano e con altrettanta frequenza ritornò a S. Rufo, dove in lieta brigata era solito stornellare e cantare alternando le canzoni con genuini bicchieri di vino. Il suo istintivo bisogno di proteggere gli umili e gli umiliati lo spinse a suggerire alcuni canti popolari "a dispetto".

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Località a nord-ovest di S. Rufo Località a nord-est di S. Rufo


Collaborò alla rivista letteraria «Il secolo» di Milano e al «Don Paolino» un giornale umoristico che si pubblicava a Salerno. Fondò e diresse il settimanale «Il Tanagrino», giornale politico amministrativo che si pubblicava a Sala Consilina, e che in origine si sarebbe dovuto chiamare «La Gazzetta del Circondario». Ma l'attività letteraria non gli diede il benessere perché nel secolo scorso tale attività era scarsamente remunerata ed allora escogitò altri sistemi per poter tirare avanti, compreso quello di impiegarsi come guardia forestale del cantone di Polla (allegato 9). Non disdegnò l'attività politica e fu vice sindaco nelle amministrazioni rette dai sindaci Francesco Spinelli e Filomeno Pellegrini, ma era troppo onesto per trarne vantaggio. Alla morte del padre, avvenuta nel 1886, fu perseguitato dagli agenti delle tasse perché dovette sottostare alla «immoralissima tassa di successione», come l'aveva definita Filomeno Pellegrini, che in quel tempo era stata aumentata del 40%. Ed egli si vendicò dei «signori di Polla» - gli agenti delle tasse - maltrattandoli in molti sonetti e li colmò di veleno nel «Testamento» lasciando loro «fulmini e carcasse». Abbandonata da tempo la città, dove si sentiva esule nel frastuono cittadino, refrattario a costruirsi una famiglia, ritornò a S. Rufo, che gli aveva cantato con i noti versi: S. Rufo mia bella, aria gentile, beato chi ci viene ad abitare. Ma l'inverno gli divenne triste non per la neve e il freddo, ma per il peso degli anni, per la gotta che l'afflisse e perché l'amore delle donne incominciò a venirgli meno. Ad una di esse indirizzerà il suo risentimento: Finché vivrai ti renderà infelice l'ombra tremenda mia persecutrice. Nessun confronto in casa, perché anche i fratelli vivevano per proprio conto, qualche lume a mano, lucerna ad olio e lumi a petrolio per rischiarare le lunghe serate invernali da trascorrere, spesso addormentandosi, accanto al caminetto od al braciere.

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Il poeta Nicola Marmo. (foto gentilmente fornitami da Amedeo Spinelli)

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Ritorna la primavera ed egli continua a scrivere sonetti ed epigrammi lamentando una persecuzione di cui in effetti nessuno lo aveva fatto oggetto e trovando in ogni fatto della vita ed in ogni contrasto, anche apparente, vivo risentimento e la sua vena poetica diventa accorata e malinconica: L'uccel canta, l'albero fiorisce Ciascun dal sonno dominar si lascia sol la vita mia piange ed appassisce. Si attenuava lentamente la vena gioviale, l'attaccamento alla vita spensierata e l'amore per le belle donne. Una solitudine sconfinata con un ampio orizzonte di lontananza che nei giorni di sereno permetteva di distinguere Teggiano, dove aveva trascorso alcuni anni della fanciullezza e dell'adolescenza, Sala Consilina, dove aveva svolto attività giornalistica, Padula, Montesano ed il monte Serino, che gli erano muti compagni, ma muti anche nel ricordo della sua giovinezza. I monti della Maddalena ed i "Canali" chiudevano questo abbraccio amoroso. Nel 1903, dal presidente Altieri, dell'Associazione della stampa della provincia di Salerno, gli pervenne la comunicazione che quel Consiglio direttivo, ritenendolo meritevolissimo e degno di appartenere a quell'associazione, lo pregava di aderire ad essere annoverato, quale pubblicista, fra i suoi soci (allegato 11). Sul rovescio di questa comunicazione scrisse un sonetto in ricordo di Peppino Mangieri - Sasso: Ma alfine moristi nel natìo tuo colle come muore al mattin l'ultima stella. Egli scrisse molto ed è simpaticamente ricordato per i suoi versi in vernacolo e soprattutto per la «Storia di santu Conu», che è fra le sue cose migliori: Setticient'anni arretu o poco minu Nasciu nu zarieddu nda Rianu 3. Sempre in vernacolo scrisse «Roppu la festa»: Eccutilla ja fernuta tanta fodda addò ja juta?

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«La storia ri santu Conu», scritta in dialetto teggianese, è riportata per intero nel citato libro dell'arciprete Ippolito.

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Ed ancora la «rispensa» - la dispensa - chiesta al papa per poter mangiare carne in occasione della festa di S. Cono, che in quell'anno capitava di venerdì, perché diversamente: Nui li maccaruni ccu che l'ama cunzà cu li c...? Nel 1963, l'avvocato Settimio Mobilio, di Salerno, aveva iniziato la raccolta dei canti dialettali dei poeti della nostra provincia, in testa ai quali figurava don Nicola Marmo. La sopravvenuta morte non gli consenti di pubblicarli. Scrisse poi un poemetto satirico «Roma liberata», giudicato blasfemo dal clero locale. In effetti gli strali del poeta non sono rivolti alla Chiesa od al papa, ma vogliono essere una ferma denuncia delle condizioni di arretramento e mortificazione delle popolazioni meridionali dopo l'unità. Il suo argomentare è fin troppo chiaro: egli si sente offeso dal disordine e dai sorprusi che erano stati e continuavano ad essere commessi a danno dei suoi corregionali. Nella «Roma liberata», fra l'altro, vi è, qualche frecciata robusta e poco gradita contro i cattivi preti, sui quali in precedenza aveva scritto: Han di fiele la lingua, il cor di sasso (A parte i pochi che non van con essi) Invidi, maldicenti, impuro ammasso D'infami intrighi e d'immorali eccessi. E continuava, forzando le tinte: Muovon rissa e litigi ad ogni passo Non aman che la trippa di se stessi, Gelosi a più non dir, mangiano il grasso E predicano il magro ai genuflessi 4 Ancora più severo, sempre nei riguardi dei cattivi preti, appare in questi altri versi: In tempi men leggiadri e più feroci Si appendevano i ladri in su le croci In tempi men feroci e più leggiadri 4

Non diversamente si era espresso il Colletta cinquant'anni prima: «Sono i curiali timidi nei pericoli, vili nelle sventure, plaudenti ad ogni potere, fiduciosi delle astuzie del proprio ingegno, usati a difendere le opinioni più assurde, fortunati nelle discordie, emuli tra loro per mestiere, spesso contrari, sempre amici.» (Storia del reame di Napoli. Libro primo,pag.90)

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S'appuntano le croci in petto ai ladri. Nicola Marmo, contrariamente a quanto molti ritengono, era credente e deferente verso i valori religiosi e morali, ma, per i motivi che abbiamo esaminato parlando del clero, era un anticlericale sfegatato. Nella «Roma liberata», parodiando la «Gerusalemme liberata» del Tasso, pomposamente inizia: Canto l'arme pietose ed il Maresciallo Che a Pietro confiscò scettro e predella, ed accenna all'ingresso dei bersaglieri attraverso la breccia di Porta Pia: Una ventina di animose penne Che sempre innanzi galoppar si fanno. Entrati in Roma, i soldati incontrarono una forosetta, Elvira, che confida loro di essere l'amante di un prete il quale la teneva ben chiusa in casa: Ma la bugia più certa ed accreditata è quella che mi tien per sua nipote. Seguono poi le considerazioni sul comportamento dei governanti piemontesi verso le popolazioni meridionali: Hanno spremuto il sangue dalle pietre E gli onesti son essi, e noi siam ladri! Mazzate sulla schiena e corna in fronte.... Questo ci ha fatto il piccolo Piemonte ed aggiunge una dolorosa considerazione: Se ci han costretto a piangere soltanto ma che ci val la libertà del pianto. Riferendosi al general Cialdini, comandante del C. d'A. di Napoli all'atto del plebiscito: Che attese il plebiscito accanto ad un fosso... Andate a dir di no, col fuoco addosso. Che vale cambiare questo o quel re, che vale gridare ed osannare quando i nuovi venuti: Si circondano d'armi e torpedini E a noi restan le tasse e le raucedini! Nei riguardi delle masse afferma: La plebe che com'idolo t'inchina. Poi per la via ti strazia e ti trascina. Inconsapevolmente anticipava piazzale Loreto.

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A Cavour fa dire : Che l'arte non consiste nel saper fare Ma disfare a sua volta e poi rifare. e aggiunge: L'esempio l'avete in me del filugello Che nel bozzolo compare e vi si culla Finché si muore d'angustia e di dieta E gli altri se ne estraggono la seta. Feroci gli accenni a Liborio Romano ed a Nino Bixio. Il primo perché, ministro della polizia di Francesco II, s'affrettò ad andare incontro a Garibaldi accompagnandolo alla reggia ed il secondo perché, riabilitato dopo l'eccidio di Bronte, ricadde in disgrazia dopo la presa di Roma. Vittorio Emanuele II viene graziosamente cucinato in salsa piccante mentre un certo riguardo il poeta mostra verso Pio IX. Non così con il cardinale Antonelli che: Il popolo ignorante e miserabile Lo crede consacrato ed invulnerabile. Non manca, anzi vi si attarda, un accenno alla politica ed ai politicanti ai quali indirizza i suoi feroci strali. E non mancano le frecce all'indirizzo dei francesi, degli inglesi e degli austriaci. Severo il giudizio su Montecitorio: Ecco, amici miei, Montecitorio Covo di camorristi e di falsari e i suoi rappresentanti: Ministri, deputati e senatori Un gregge di corrotti e corruttori. Al termine delle scaramucce che contraddistinsero la presa di Roma i caduti papalini si presentarono in cielo a S. Pietro, il quale chiede loro: Qual perfid'arte Qual potenza infernal vi ha messo a morte? e soggiunge: Or che siam giunti in Domo Dei Taccian fra noi gli sdegni, ospiti miei. Segue il processo a carico dell'Italia davanti al tribunale dell'Eterno e l'incriminata con monotonia si difende asserendo che ormai è «fatto compiuto». In difesa dei colpevoli interviene Gesù: Padre, tu li perdona, essi non sanno 136


(e li perdono anch'io) quel che si fanno. Ha quindi la parola la difesa d'ufficio, rappresentata da S. Sebastiano e S. Antonio, ma alla fine il giudizio dei giurati è avverso all'Italia. Alta e solenne: L'eterna voce accompagnata udissi: Tremi chi il sangue altrui beve e ribeve, Ché la sentenza sortirà fra breve. In effetti il poeta non la annunzia e lascia al lettore immaginarla: Uscite, uscite. L'udienza è chiusa! Gridò allor un uscier del paradiso. Pietro si volse attorno e cercò scusa, serrò la porta, e con piacevol viso fece piazzar quell'alma al primo piano Ed ei restò col catenaccio in mano. Termina cosi il decimo canto ed il poema. Nicola Marmo non fu critico e severo soltanto verso i cattivi preti, ma contro chiunque non fosse ligio al proprio dovere e contro i ricchi perditempo del paese. Nei riguardi del sindaco del tempo, non precisato né individuabile, cosi si esprimeva: Sulle rive di un viscido pantano Un vecchio rospo ingravidò una rana. Dal connubio lurido e scortese Nacque il sindaco del mio paese. Contro i signorotti locali, che regolarmente spremevano i poveri contadini, non fu meno severo: Per voi si vendemmia, per voi si miete Per voi si raccolgono ghiande e patate II popolo cammina e voi sedete Il popolo lavora e voi mangiate. Egli continuò a scrivere sino alla vecchiaia, ma negli ultimi canti, nei sonetti e negli epigrammi manca il lirico abbandono ed è quasi un arresto del sentire gioiosamente. La morte lo colse il 25 giugno 1904, a 66 anni, e ci piace immaginarlo mentre, nell'ultimo spiraglio di vita, ripete l'inno dedicato alla Madonna della Tempa: Vergine bella, mattutina stella tu rifugio sei del peccatore del Paradiso la delizia sei e dell'inferno l'intimo terrore! 137


Voglio cantar di te da mane a sera finché nel petto mio palpita il core e quando il labbro mio più non favella accogli l'alma mia Vergine bella. Ai primi del secolo i missionari, di passaggio da S. Rufo, convinsero gli eredi del poeta a distruggere col fuoco tutto ciò che don Nicola aveva scritto. Nicola Marmo fu senza dubbio uomo di cultura, uno dei pochi del suo tempo, in un periodo in cui la cultura, anche per le persone cosiddette "istruite", era qualcosa di indefinito, poco appetibile e non utile economicamente. Egli non si adontò della palese ed occulta incomprensione e, "pennarulo" e democratico di formazione, preferì la compagnia degli umili e non disdegnò quella degli scavezzacollo. Sarebbe opportuno intitolare al suo nome una via del paese, a meno che non si voglia attendere l'anno 2004, centenario della sua morte.

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USI E COSTUMI Nei giorni di festa gli uomini solevano indossare il vestito "buono" di lana grezza ricavato dalla filatura della lana delle loro pecore e tessuta in casa con telai rustici. In genere indossavano il costume imposto dal mestiere, dal clima e dalle miseri condizioni economiche. Quello dei contadini e dei pastori, in origine pressocchÊ uguale, era costituito dai pantaloni fermati sotto il ginocchio, da rustiche calze bianche lunghe che si accordavano ai pantaloni e dagli "zampitti", calzature costituite da una suola di cuoio ripiegate alla punta e con il tallone scoperto. Gli "zampitti" erano tenuti fermi da lacci di cuoio che si avvolgevano intorno alle gambe. La camicia, fatta di stoffa robusta, sprovvista di colletto, aveva le maniche piuttosto ampie. Al posto della giacca veniva indossato un indumento privo di maniche ricavato dalle pelli di pecora. Per copricapo si usava un berretto che con l'andar del tempo ha poi assunto la forma odierna. Questo costume è rimasto in vita sino al secolo scorso poi sostituito dal comune vestito di lana grezza. Sino alla fine della seconda guerra mondiale si usò il mantello a ruota. Per ripararsi dalla pioggia, si usava un ombrello molto ampio dai colori assai vivaci (rosso, verde, giallo) con doppia o tripla filettatura ai margini, dai colori chiassosi e contrastanti. Durante l'estate i professionisti e le signore usavano un leggero ombrello per ripararsi dai raggi solari. Gli "zampitti", che normalmente venivano usati solo d'inverno, furono poi sostituiti da scarpe chiodate di cuoio, fermo restando che quando era possibile, per ragioni di economia, si preferiva andare scalzi. Il fazzoletto usato dagli uomini, dai colori vivaci e violenti, era molto grande, il doppio di quelli attualmente in uso. Il costume delle donne, rimasto parzialmente in vita sino agli inizi della seconda guerra mondiale, era costituito da una gonna, una sottogonna, una camicia, un corpetto ed un grembiule. La gonna di panno, dai colori vivaci, lunga sino al malleolo, terminava con un nastro colorato. Nei lavori casalinghi veniva rimboccata e annodata dietro, all'altezza della cintura. La sottogonna ("sottaniello") era di stoffa piÚ leggera, con o senza nastro ai margini, e della stessa lunghezza della gonna. 139


La camicia di mussola bianca aveva le maniche molto ampie e gonfie, con arricciatura in alto, terminanti sotto il gomito e tenute ferme da passanti della stessa stoffa del corpetto di raso al quale erano collegati a mezzo di due nastri sottili. Al petto ed ai polsi la camicia presentava un ricco merletto, mentre sul petto due bottoni d'oro tenevano uniti i lembi della chiusura. Sul corpetto, che poteva avere un sottocorpetto di stoffa sottile con funzione di reggiseno e facente parte della "buffa" parte anteriore del corpetto veniva posto un fazzoletto di seta con frangia e sulla gonna un grembiale, anch'esso di seta ("vandesino"). Completavano il costume le scarpe nere di vitello con le calze di filo nero fermato sotto il ginocchio da un nastro ("capisciola"). Al collo le donne portavano una ricca collana d'oro terminante con un ciondolo ("birlocco") o con una crocetta ed alle orecchie grossi orecchini pendenti ("sciacquaglie"). Quasi tutte si pettinavano con la scrimatura al centro del capo e con i capelli intrecciati e annodati al di sopra della nuca. Il "tuppo" (chignon) verrà di moda soltanto ai primi del '900. In testa specie d'inverno, portavano un panno leggero ripiegato in modo che sulla fronte apparisse la linea della ripiegatura e ricadente sulle spalle dove terminava con un orlo frangiato o fasciato. Nell'uso comune il panno veniva sostituito da un largo fazzoletto con i lembi ripiegati sulla testa ovvero fermati dal corpetto. D'inverno le donne si riparavano dal freddo con un panno di lana, in genere di colore rosso. Agli inizi del secolo sarà parzialmente sostituito dallo scialle. Con qualche variante da paese a paese, nel 1600 il costume venne adottato in tutto il regno di Napoli. Si vuole che sia stato portato a Napoli dalla Spagna, tale è il parere di alcuni autori napoletani, e che la stessa Isabella la Cattolica lo indossasse allorché si recava in visita nei vari paesi. Più appropriatamente Adelaide Cirillo Mastrocinque nella «Storia di Napoli« osserva: «Il fluttuare della camicia di tela la cui ricchezza parte da un'arricciatura, il gonfiore che a volte forma la sovrabbondanza del tessuto, sono elementi che appartengono al costume classico, e per essere più precisi al costume greco». Un costume pressocché analogo a quello delle nostre donne si osserva nella popolana che è accanto alla duchessa Corigliano 140


Saluzzo nel dipinto di Angelica Kauffmann al museo di Capodimonte. C'è da osservare che proprio per la ricchezza il costume non sempre fu portato dalla povera gente che il più delle volte, a causa della miseria, si copriva di pochi stracci e non sempre lo poterono adottare coloro che nelle relazioni con i signorotti pensavano e speravano di modificare sostanzialmente la loro condizione economica. Non mi riferisco a quelle donne che per naturale predisposizione esercitavano il mestiere più antico del mondo, bensì alle molte giovanette che tentate ed insidiate dal signorotto o dal benestante, per bisogno e per fame, erano costrette a far commercio del proprio corpo. La condizione di queste disgraziate, destinate ad alimentare la popolazione dei brefotrofi, era quanto mai ingrata perché, disprezzate e nello stesso tempo momentaneamente ricercate e adulate, peggiorava con l'aumentare delle loro relazioni illecite. Nei riguardi di queste povere disgraziate non si può parlare di amoralità, bensì di accentuazione del bisogno spinto sino alla esasperazione ed alla umiliazione. Il fenomeno è del tutto scomparso non appena sono mutate le condizioni economiche e sociali delle classi più indigenti. Nel secolo scorso anche S. Rufo ebbe il suo caffè, luogo di riunione della classe media. Fra i più antichi ricordiamo il caffé De Vita e quello di Antonio Greco; quest'ultimo entrato, in funzione dopo la prima guerra mondiale. Sin dal mattino l'aromatica bevanda veniva preparata e tenuta pronta in una grossa caffettiera e poi di volta in volta riscaldata e servita. Il caffè era luogo di riunione per l'immancabile partita a carte, per pettegolare, caratteristiche dei piccoli paesi, e per commentare gli avvenimenti o i fatti del giorno riportati dai due o tre giornali che pervenivano al ristretto numero di corrispondenti locali, che lo ricevevano gratuitamente. E' da considerare che a differenza di quanto avviene oggi, in passato il caffè era frequentato da poche persone, maggiorenni e perditempo del paese, in condizione di potersi permettere il lusso di una modesta consumazione. Non sempre le stesse persone, bravissime nel gioco del tressette e dello scopone, dimostrano interesse allo studio ed alla cultura. Altro luogo di riunione serale era la farmacia. Qui, oltre al commento dei fatti del giorno, si parlava di politica ed a tarda ora si giocava a carte, qualche volta anche d'azzardo. 141


Mentre agli uomini era consentita la massima libertĂ , le donne dovevano starsene tappate in casa, anzi era sconsigliabile o addirittura vietato, specie alle signorine, di trattenersi al balcone o alla finestra. La domenica nel recarsi a messa o in altre eccezionali occasioni che le obbligavano ad uscire era opportuno che le donne tenessero lo sguardo rivolto a terra e che rispondessero al saluto degli uomini con riservatezza e pudicizia. Durante il periodo di fidanzamento i promessi sposi non venivano mai lasciati da soli ed era normale che i familiari della fidanzata fossero sempre presenti all'incontro. E' facile immaginare quali discorsi si tenessero in simili circostanze: il tempo, il raccolto, il costo della vita e cosi via. Alla sposa non era consentito alzarsi per accendere il lume a sospensione, operazione questa che veniva effettuata dalla mamma, che, ad accensione avvenuta, dava la "buona sera" e tutti i presenti rispondevano "buona sera". Dopo tanta segregazione e riservatezza gli sposi appena uniti in matrimonio potevano andarsene a letto come le madri li avevano fatti senza alcun trauma psichico da parte della sposa, anzi con molta soddisfazione di costei. In passato, ed in qualche caso agli inizi di questo secolo, i matrimoni venivano "combinati" fra le famiglie quando i futuri sposi erano ancora bambini od appena adolescenti, non dimenticando di trattare la parte economica nei piĂš minimi particolari. Fino al 1929, allorchĂŠ fu stipulato il Concordato fra la Santa Sede e lo Stato Italiano, l'atto matrimoniale avveniva prima civilmente, dinanzi al sindaco, ed in tempi successivi, di massima di domenica, si effettuava quello religioso. Qualche giorno prima di quest'ultimo evento, in genere il mercoledĂŹ, fra la curiosa e stupida ammirazione degli invitati, avveniva l'esposizione del corredo in casa della sposa ed il giorno dopo, ben visibile al pubblico, veniva portato in casa dei futuri sposi. In relazione alle condizioni economiche della famiglia, oltre al corredo, la sposa portava anche viveri (grano, olio, vino) ed una serie di oggetti casalinghi, compreso il classico matterello ("laanaturo"). Il giorno della celebrazione del matrimonio religioso gli sposi, in corteo, si recavano in chiesa accompagnati dai parenti, dal "compare d'anello", dagli amici e dalla gongolante "commare", che, per avere, a suo tempo, portato la "mmasciata", vedeva 142


coronata la sua opera. Chiudeva il corteo la "vammana" (levatrice), serena, sorridente e fiduciosa in un suo futuro intervento. Lo sposo, vestito a nuovo e con il fiore all'occhiello, e la sposa, con il ricco costume tradizionale, in veste di protagonisti, apparivano emozionati e spesso "ngeppati" (intimiditi), specie se molto giovani. Al termine del rito religioso si riformava il corteo per raggiungere la casa dello sposo e lungo il percorso parenti e compare d'anello, in segno d'augurio, lanciavano monetine e confetti fra il sollazzo e l'"ammoina" dei ragazzi che si affollavano a raccoglierli. Una volta a casa gli sposi ricevevano dagli invitati la "rona" (il dono), consistente, in genere, in una somma di denaro, con l'immancabile augurio: ÂŤmille di questi giorni e figli maschiÂť. Nel tardo pomeriggio, dopo un pantagruelico pranzo, al suono dell'organetto, si intrecciavano le danze a base di tarantelle e qualche pretesa polka, mentre parenti dello sposo, ad intervalli, offrivano vino e taralli agli invitati. A notte inoltrata, dopo vani tentativi degli amici di condurre fuori casa lo sposo, la coppia nuziale poteva, finalmente, ritirarsi in camera da letto. In tempi lontani dopo la prima notte di matrimonio, specie se la sposa da signorina era stata chiacchierata, non era infrequente, al mattino seguente, vedere esposte le lenzuola sui davanzali delle finestre o dei balconi a testimonianza della illibatezza della sposa. Qualche tempo dopo il matrimonio, quando i sintomi della maternitĂ erano palesi, man mano che il tempo passava, in famiglia aumentava la tensione per l'atteso lieto evento che, in genere, avveniva al compimento del nono mese, o poco dopo, quando la sposa, in casa e con la sola assistenza della levatrice, dava alla luce un "ninnillo" o una "nennella". Se il neonato era maschio, e quindi assicurava la continuitĂ della famiglia, il tripudio era generale e consentiva al raggiante genitore di vantarsene orgogliosamente, ma se era una femminuccia, fra forzati sorrisi e finta soddisfazione, non mancava qualche viso scuro, viatico poco lieto per la neonata e motivo di preoccupazione per la giovane madre. A seconda del sesso, al neonato veniva imposto il nome del nonno o della nonna paterna, che, in genere, tenevano molto ad essere "ponteddati" (puntellati). 143


Per secolare tradizione, scomparsa nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale, il neonato veniva avvolto e ben stretto quasi immobilizzato, in candide fasce e posto nella "naca" (culla) accanto al letto della madre. In caso di indisposizione del "criaturo", oltre alla levatrice ed al medico, eccezionalmente convocato, accorrevano quasi tutti i parenti che, invocando interventi celesti, coprivano il bambino di medagliette ed immagini sacre. In casi disperati, come extrema ratio, per motivi di riservatezza, a tarda sera o di notte veniva chiamata anche la fattucchiera. Se malauguratamente il bambino moriva, il che in passato accadeva con una certa frequenza, si verificavano scene strazianti, come vedremo in seguito. Sempre in materia di parto, in contrasto con l'esposizione delle lenzuola eventualmente a suo tempo fatta, poteva accadere che la sposa desse alla luce il figlio con molto anticipo, provocando commenti pesanti e malevoli nei riguardi della sposa, ma anche della madre, che non aveva sorvegliato sufficientemente la figlia. Non infrequentemente si poteva sentire ripetere: "tale madre tale figlia!". La maggioranza della popolazione ignorava che il sesso del nascituro dipende dal seme dell'uomo e perciò, allorché una sposa continuava a mettere al mondo soltanto femminucce, non le mancavano rimbrotti da parte del marito e mormorii velenosi della suocera e delle cognate, specie se zitelle, nel qual caso si dimostravano le più accanite denigratrici della povera sposa. Qualcuno ancora ricorda il caso dello zingaro che molti anni fa, "sfessò" (malmeno') in malo modo la moglie, appena partorito, perché gli aveva dato una ennesima bambina. Ancora più delicata la posizione della donna che malgrado lo scorrere del tempo, i ripetuti voti fatti a più di un santo di rispetto ed un consulto del mago di S. Gregorio Magno - e non dal ginecologo - continuava a rimanere sterile. In entrambi i casi, ma quest'ultimo era più grave, la malignità e gli "sfottò" (prese in giro) si riservavano prevalentemente sul coniuge che, seconde le male lingue "non era buono". Un affronto rendeva irascibile e torvo l'uomo, il quale, una volta a casa, prendendo lo spunto da un futile motivo, faceva una scenata alla moglie e qualche volta allungava anche le mani, premessa di permanente discordia in famiglia. Ben diverso e delicato il caso della donna che, malgrado l'assenza del marito, o per altri imperscrutabili motivi, dava alla 144


luce "na povera anima re dio", come diceva, quasi volesse scaricare la sua colpa sull'Eterno. In un caso del genere, ad incominciare dalla suocera, i giudizi su quella "sbreognata schifosa", come poi l'avrebbero indicata, erano molto pesanti e se il bambino, come spesso accadeva rassomigliava al padre naturale i commenti diventavano anche esilaranti. In grave disagio veniva a trovarsi il marito, un buon'uomo, o, come altri dicevano un povero fesso, il quale come "cornuto" termine ancora oggi gravemente lesivo, doveva subire salaci commenti e, talvolta, affronti atroci da parte di qualche sconsiderato. Ma a rimetterci moralmente era l'inconsapevole bambino, che veniva indicato come figlio di "ndrocchia" (buona donna) e qualche volta con altro termine ancora più pesante che faceva preciso riferimento ai figli dell'omerica Ilio. In passato non è mancato anche qualche episodio boccaccesco, come quello della donna, sposata e senza figli, che, mentre dormiva ed il marito in lieta compagnia stornellava al chiar di luna, a sua insaputa, con la subdola collaborazione del "compare", fintosi marito, al compimento del nono mese, con grande "vreogna", diede alla luce un mascolone. Ma torniamo a parlare della casa, centro focale della famiglia, e della sua organizzazione. Come sappiamo le abitazioni rispecchiavano le condizioni economiche di chi le abitava e quindi variavano da famiglia a famiglia. La cucina, che era il primo locale che s'incontrava entrando in casa, in genere era piuttosto ampia e costituiva il centro della vita familiare. Elemento primo della cucina era il caminetto o un più modesto focolare ("focagna") intorno al quale d'inverno si riuniva la famiglia con il padre e la madre disposti ai lati del caminetto dal quale pendeva una catena con gancio per appendere la caldaia. Per i bisogni più minuti si adoperava il treppiedi ("treppete") sempre a portata di mano. In un angolo della cucina poteva esserci il "focone" nel quale era posta una grossa caldaia che serviva per più usi, compreso il bucato (lisciva). Ad un altro lato, di solito di fianco o di fronte al caminetto, vi era un rialzo a mezza altezza in muratura con le "fornacelle" necessarie per la preparazione del caffè, dei sughi e di tutto ciò che normalmente veniva preparato in recipienti di creta ("tiani" = tegami) e di rame ("ruoti"). Per cucinare le pietanze più complesse e sofisticate (pollo, torte, ecc.) 145


si usava il «forno di campagna» in lamiera di ferro, col coperchio a cupola e provvisto alla periferia di alcuni fori per l'aereazione. Ad una parete, bene in vista, era appeso il telaio con gli utensili di rame in numero piuttosto rilevante. In occasione della Pasqua, e quindi della benedizione delle case, gli utensili venivano, più che lucidati, fatti brillare a forze di cenere, sabbia e olio di gomiti, ma prima ancora, o contemporaneamente, s'imbiancavano le pareti della cucina con calce adoperando il "munnolo" un pennello rustico ricavato dalla unione di steli di "ioremana", un cereale di montagna. L'acqua necessaria alla confezione dei cibi e per lavare i piatti e le scodelle veniva tenuta nei secchi, nei barili o nelle "langelle", recipienti di creta verniciati forniti di collo ampio e da due manici. L'acqua da bere normalmente veniva conservata nelle "moscetore" o nelle "ciarle" (brocche), piccole giare di creta. Per chi aveva la fortuna di disporne, e non erano in molti, l'acqua veniva attinta dai pozzi, diversamente occorreva andarla a prendere alla fontana oppure, per evitare lunghe file ed altrettante lunghe attese, alla Grotta o alla Finocchiara, le due sorgenti ad occidente del paese, ed in tal caso si usavano i barili portati in testa dalle donne e poggianti sulla "spara", un fazzolettone od un panno qualsiasi ripiegato ed arrotolato. Nella cucina, ma spesso era disposto in altro locale, poteva trovarsi anche il forno per la cottura del pane che sino a qualche decennio addietro, di norma, si confezionava in casa unitamente alla "pizza", una ciambella con al centro un buco, ed alla classica «pizza cu la pummarola ngoppa». In occasione della Pasqua, nel forno venivano cotte le «pizze chiene», pizze rustiche fatte con farina, uova, formaggio fresco e salame, i "pizzicocchi", ciambelle a braccia incrociate con al centro uno o due uova, o le «pizze dolci» (torte) che potevano essere alla crema oppure a base di ricotta. Il "pizzicocco" era destinato ai ragazzi, che in genere mangiavano le uova e lasciavano la parte farinacea. Per il Natale il forno riposava perché per questa festa si confezionavano dolci più semplici quali le classiche "zeppole", alcuni pasticcini a base di farina di castagne o di ricotta, fritture varie e le "canestrelle", liste di pasta all'uovo dentellate superiormente, arrotolate e zuccherate. Abituati, di norma, a mangiare in modo molto parsimonioso o addirittura francescano, il giorno dopo il pranzo natalizio o 146


pasquale, per tema di indigestione, era abitudine sottoporre i ragazzi alla tortura della purga di olio di ricino. Spariva il profumo ed il ricordo dei dolci ed affiorava in continuazione il lezzo della purga. Indipendentemente dalle condizioni economiche delle singole famiglie, in occasione di alcune feste religiose ed in particolare del Natale, della Pasqua e della Ascensione ("Madonna del latte"), cosi chiamata perché quel giorno si consumavano tagliatelle cucinate nel latte, si preparavano piatti tradizionali, che, secondo un'antica costumanza, venivano poi - come si diceva - «fatti assaggiare» ai vicini di casa ed ai parenti. «L'assaggio» in genere, non era formale, ma piuttosto sostanzioso. A giustificazione dello strappo fatto alla misera esistenza quotidiana, la povera gente soleva affermare che quelle leccornie venivano confezionate per "devozione"! A parte le circostanze particolari e, come vedremo, di qualche altra casuale, il pasto quotidiano, incidendo sull'economia generale, era quanto mai frugale nelle famiglie del ceto medio e misero in quelle della povera gente. Il cosiddetto «secondo piatto» (la pietanza), costituito principalmente da formaggio ("caso") o da caciocavallo, eccezionalmente da una frittata di patate, appariva saltuariamente soltanto sul desco di qualche famiglia del ceto medio, ove raramente si faceva capolino anche la frutta. L'imperante miseria escludeva qualsiasi apporto all'unico piatto della classe più povera. La cena, a base di lattuga, di pomodori o di sola cipolla, era quanto mai frugale e francescana. Per i ricchi (pochi) ed i preti (troppi), ben pasciuti e ben panciuti, non vi era alcuna limitazione. Nei mesi invernali si consumavano principalmente patate e legumi, in passato considerati cibi plebei. I legumi venivano cotti nelle pignatte, accanto al focolare, e quando cominciavano a "croccoliare" (iniziare l'ebollizione), mediante un movimento a rientrare impresso alla pignatta dal basso verso l'alto, si provocava la rotazione dei legumi e conseguentemente una più uniforme cottura. La domenica e qualche volta anche in altri giorni della settimana, si era soliti mangiare la pasta fatta in casa, che, secondo la forma, si distingueva in: "fusilli", "cavatielli", "orecchiette", 147


"lagane" (tagliatelle dentellate piuttosto larghe), "fettuccine", "tagliolini" e, eccezionalmente, "ravaiuoli" (ravioli). In questi casi entravano in funzione i fornelli ("fornacelle"), alimentati a carbone, per la preparazione del "ragù", che veniva confezionato in tegami di creta ("tiani" e "tianielli"). Per ottenere un buon ragù si mettevano a cuocere a fuoco lento vari ingredienti: lardo "aracciato" (tritato minutamente a mano), olio, sugna, conserva e salsa di pomodoro, cipolla, prezzemolo e basilico. Il "ragù" poteva essere contornato da un pezzo di carne o da qualche salsiccia, che, oltre a rendere più saporito il condimento, consentiva poi un «secondo piatto» diverso. Quando sulla tavola faceva l'apparizione la salsiccia, a causa del notevole numero di commensali, le porzioni quasi sempre risultavano molto piccole, minime quelle dei ragazzi, ma la "scarpetta", ricavata utilizzando l'intingolo che accompagnava la salsiccia, completava ed armonizzava adeguatamente il pasto. Normalmente l'onore della "scarpetta", alla fine, spettava anche al piatto di pasta. La povera gente, che non poteva permettersi il lusso neanche di un piatto di pasta casalinga, si accontentava di un modesto piatto di polenta. Verso la fine del secolo, ad avvenuta apertura della strada S. Marzano - bivio Corleto Manforte, anche a S. Rufo fu portata la pasta dei pastifici salernitani Scaramella e Rinaldo, quest'ultimo di proprietà dei discendenti del feudatario Gian Matteo. La pasta, comunemente nota col nome di "maccaruni accattati" (maccheroni comperati), per distinguerla da quella fatta in casa, di massima comprendeva: "vermicelli" (spaghetti), "perciatielli" (bucatini), "zita" (candele) e "schiaffettuni" (rigatoni). Poiché le condizioni economiche della maggioranza delle famiglie erano misere o modeste, questa pasta, sempre accolta calorosamente in casa, veniva acquistata soltanto sporadicamente o molto di raro. Eccezion fatta di poche famiglie che saltuariamente potevano arricchire il pasto con un pollo, un coniglio, un capretto, e per i cacciatori, una lepre, la carne vaccina, caprina ed ovina si consumava soltanto in occasione di particolari festività ed in questi casi si improvvisavano le "chianche" (macellerie) dove, in ogni caso, non appariva mai la carne suina. 148


La povera gente barattava uova e polli per provvedersi di mille cose necessarie in famiglia ed a buon motivo non pensava ad acquistare la carne. Nei matrimoni oltre alla classica "abbuffata" generale, bene annaffiata con vino generoso, al termine del pranzo, durante il quale per antica costumanza gli sposi mangiavano nello stesso piatto, potevano essere serviti anche i dolci, con l'immancabile "gattò" (gateau = torta) ed i "buconotti" (paste dolci). In ogni caso non mancavano mostaccioli, biscotti all'uovo e senza, ed altri pasticcini fatti in casa. Altro motivo di pranzo casereccio, vario ed abbondante, si aveva allorché, secondo un'antica tradizione, nelle famiglie si ammazzava il maiale, operazione che, in genere, si effettuava alle prime luci dell'alba. La lavorazione delle carni, con la collaborazione della parentela, durava qualche giorno, dopo di che alle "pezze" (forme) di formaggio, ai caciocavalli, alle ricotte salate ed all'immancabile treccia di peperoni, appesi al soffitto della cucina per la necessaria essiccazione e fumigazione, si affiancavano: prosciutti, salsicce, lardo, capicollo, soppressate "nderlici" (insaccati di carne di scarto del maiale) e le "vessiche" di sugna. Nei giorni in cui si lavoravano le carni sulla tavola non mancava mai il "soffritto", fatto con corata di maiale, fegato, polmone, cuore, milza, esofago, trachea, ed altri parti minori, tagliati a pezzettini, cotti in salsa di pomodoro e completate da peperoncini piccanti. Ad un simile piatto forte si accompagnava regolarmente più di un buon "arzulo" (orciolo) di vino. Per i palati più delicati ben si addiceva il "sanguinaccio" ottenuto miscelando e cuocendo a fuoco lento sangue di maiale, zucchero, cioccolato, e cannella, con successiva aggiunta di uvetta, pinoli e frutta candita. Le soppressate ("sobersate"), i capicollo ed i prosciutti, a stagionatura avvenuta "s'ingignavano" (si cominciavano) in occasione di ospiti a pranzo, per ben figurare, o di feste familiari. Eccezionalmente potevano costituire il «secondo piatto» o la cena. In occasione della tosatura delle pecore vi era il pasto in comune fra pastori e padroni a base di pasta e fagioli e cotica ("coria") bene annaffiato con vino contenuto nei "iascarieddi", contenitori di legno a forma di botticelle di varie dimensioni. All'imboccatura dello "iascarieddo" veniva applicato un pezzo di canna ("canniddo") che consentiva di tracannare il vino senza 149


avvicinare le labbra all'imboccatura del recipiente, anzi tenendolo ben lontano in modo da poter bere a garganella. Nella buona stagione non mancava la frutta e le buone mamme si premuravano di essiccarla in grande quantità in modo da utilizzarla durante il periodo invernale. Nella ricorrenza dell'Epifania ai ragazzi che, girando per le case chiedevano la "carennola" (la befana) veniva data frutta secca (noci, castagne, fichi, mele, susine, ecc.) 1. Una volta consumata ed in attesa della nuova produzione, la frutta veniva surrogata con finocchi, fave, sedano ("accio") 2. Dopo esserci soffermati brevemente su alcuni aspetti dell'alimentazione dei nostri antenati, vediamo ora in qual modo si provvedeva alla illuminazione delle case. La cucina, sempre per motivi importanti di economia, di sera veniva fiocamente illuminata da una lucerna ad olio di ottone che si appendeva al caminetto. Oltre alla lucerna vi erano altri lumi di ottone, lo stesso alimento ad olio, a due, a tre ed a quattro becchi ("i candelieri") oggi meglio noti col nome di "fiorentino". Vi erano poi i lumi a petrolio, in genere di opalino, bianco o colorato, ed altri molto più importanti in porcellana muniti di campana o di corolla di cristallo senza contare quelli di Capodimonte e di Sèvres che potevano trovarsi solo nelle famiglie dei baroni od in quelle molto ricche. La massa mangiava in cucina dove non mancava mai un tavolo il "buffettino" e durante i pasti non era infrequente il passeggio, di cani, gatti, galline e di altri animali, ma nelle famiglie del ceto medio si usava mangiare in sala da pranzo dove dal centro del soffitto pendeva sopra la tavola la "sospensione", un lume a petrolio coperto da un'ampia campana bianca o azzurra che

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I ragazzi, recandosi presso le famiglie in cerca della befana, erano soliti canticchiare in modo scherzoso: Ramme la carennola chera ca te pennola (quella che ti avanza) si no' mme la vuo rà sanda Lucia te pozza cecà. 2 Verso la fine del secolo ed agli inizi di questo, ad apertura avvenuta dell'attuale S.S. 166 degli Alburni, in paese incominciarono ad arrivare, molto saltuariamente, mezzi carichi di arance ("purtualli"), che, di massima, venivano scambiate con papate ed uova. Il consumo fu molto limitato, oltre che per ragioni economiche, per la scadente qualità del prodotto.

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si alzava e si abbassava mediante un contropeso costituito da una sfera di ottone o di porcellana. Fra gli elementi sussidiari di illuminazione ricordiamo i porta candele, con in testa la immancabile bugia, ed i candelabri, che potevano essere di metallo, di cristallo, di porcellana o di argento. La "torciera" in ferro battuto, con le candele sistemate a ventaglio od a semicerchio orizzontale, costituiva elemento a se stante ed ovviamente non si trovava in tutte le case. Nella galleria del barone al centro del soffitto troneggiava il lampadario di cristallo con dodici, diciotto e sinanche ventiquattro candele. Alle pareti le "applicques" sempre di cristallo, completavano l'illuminazione del salone. In altre camere potevano esserci lampadari ed applicques in ferro battuto. Altri lampadari di ottone a piÚ luci, i cosiddetti "fiamminghi" si potevano trovare nelle stanze delle case signorili. L'umile lanterna, parzialmente poi sostituita dal lume Mazzocchi, questo adottato in preferenza per l'illuminazione dei "traini" si usava allorchÊ bisognava uscire all'aperto e quindi esporsi al vento ovvero per recarsi in locali (stalle, depositi, ecc.) dove per i materiali ivi esistenti vi potesse essere pericolo di incendi. Prima del 1885, quando anche S. Rufo ebbe l'illuminazione delle strade, di sera chi era privo di lanterna si muniva di tizzone che agitava per non farlo spegnere e nello stesso tempo per indicare la propria presenza a chi provenisse dalla parte opposta. Questo sistema primordiale ritornava in auge ogni qualvolta per eventi bellici o per mancanza di petrolio si verificava una interruzione nell'illuminazione pubblica. Dopo aver fatto cenno alla cucina e rapidamente alla sala da pranzo, sulla quale ritorneremo fra poco, diamo uno sguardo alla camera da letto. Sia in quella matrimoniale, sia in quella dei figli i letti erano piuttosto alti e rustici, i materassi, raramente di lana e quasi sempre invece ricolmi di foglie secche di granturco ("scoie") poggiavano su tavole e queste su cavalletti di ferro ("pieristalli"). Ai lati del letto vi erano i comodini, le cosiddette "colonnette", mentre in un angolo della stanza porta-bacile, catinella ("vacile") e brocca ("muscetora") servivano per la pulizia personale. Quando mancava l'armadio e il cassettone (comò) completo di specchiera, appeso al muro poteva trovarsi lo specchio. In mancanza del comò, in un angolo, vi era la cassa della biancheria. 151


La povera gente dormiva come poteva. Spesso nella stessa stanza si trovavano ammucchiate piÚ persone senza distinzione di sesso ed in campagna la stalla con le bestie era anche il dormitorio degli uomini. Di norma d'inverno il letto veniva riscaldato col "monaco", un recipiente di creta ("vrasceriello") contenente brace ammorbidita da un pizzico di cenere, che si poneva su un'armatura di legno a forma di doppia lasagna sistemata fra le lenzuola. I gabinetti necessari ed indispensabili per soddisfare l'atto piccolo e l'atto grande, come venivano indicate le due funzioni corporali, erano inesistenti, fatta eccezione di qualche casa che li aveva in modo del tutto embrionale. Non mancava però un grosso vaso smaltato a forma di cilindro che costituiva il gabinetto e serviva esclusivamente per gli ammalati e per i vecchi. Ne conseguiva che non era infrequente lo spettacolo antigienico dello svuotamento dei vasi da notte mediante appropriati lanci dai balconi o dalle finestre, operazione che di massima si effettuava di prima mattina od a tarda sera. Quando nei pressi di casa vi era un orto o un giardino, specie se circondato da siepe, quel terreno era bello e concimato. Nelle case delle famiglie "per bene", negli angoli delle camere vi erano le sputacchiere. Il bagno, praticato solo dai ricchi, veniva effettuato in tinozze di legno e solo alla fine del 1700 apparvero le "bagnarole" di zinco il cui numero a S. Rufo non superava le dita della mano. Water e bidè rimarranno sconosciuti sino alla prima guerra mondiale ed in tempi successivi saranno installate anche le vasche da bagno. La carta igienica, in passato non esisteva da noi, veniva surrogata con fogli di vecchi giornali. Parlando della cucina abbiamo visto che la famiglia si riuniva attorno al focolare risolvendo cosi il problema del riscaldamento, ma allorchÊ il pasto si consumava in sala da pranzo si era soliti riscaldare l'ambiente col braciere di rame posto su un largo cerchio di legno (tieni braciere) sul quale si poggiavano i piedi. Sul braciere, all'occorenza, si soleva mettere anche l'"asciugapanni" (listelli di legno uniti a forma di cupola) per asciugare la biancheria. Nella credenza, nella cristalliera o nell'angoleria della sala da pranzo vi poteva essere qualche bottiglia di liquore custodita sotto chiave perchÊ doveva servire soltanto per ben figurare in 152


occasione di visite importanti 3. Quando si offriva il "rosolio", sotto tal nome erano compresi i veri e propri liquori, rari, ed altri intrugli dolciastri fabbricati in casa, si adoperavano minuscoli bicchierini poco più grandi di un ditale. Il senso dell'economia dominava anche in questo campo, ciononpertanto il "rosolio" veniva sorbito lentamente, con sussiego, con cenni di soddisfazione, lodandone il gusto e il profumo anche quando si trattava di emerita porcheria che più tardi avrebbe provocato il fenomeno del rigetto. Il senso dell'economia e del risparmio si manifestava non solo nel limitare a particolari circostanze il consumo di liquori, considerato un lusso ed un inutile sperpero, ma in qualsiasi attività della famiglia. Lo stesso caffè veniva offerto solo agli ospiti, che lo sorbivano versandolo nel piattino, ma per le necessità familiari spesso si ripiegava sull'orzo. Caffè ed orzo venivano tostati e macinati in casa. Era normale che i pantaloni lisi a tergo fossero rivitalizzanti mediante l'applicazione di fondelli ("u funniello") e poi, col tempo, rivoltati e utilizzati per far confezionare i vestiti dei ragazzi. Entrando in casa ci si affrettava a sostituire le scarpe con le ciabatte (le pantofole?: un lusso là da venire) e la giacca con un'altra lisa o stralisa. Il rammendo, il rattoppo, la risuolatura, più volte ripetute, godevano il diritto di progenitura. Il pezzo di spago, i chiodi recuperati, la carta da avvolgere, le scatole di cartone e le bottiglie vuote venivano gelosamente custodite perché «potevano sempre servire»! Quando una donna della campagna si recava in paese usava calzare calze e scarpe soltanto all'inizio dell'abitato, per evitare di essere mal giudicata. Sempre per ragioni di economia e spesso per mancanza di mezzi si chiamava il medico e si andava in farmacia quasi sempre nei casi estremi perché le buone mamme, per atavica esperienza, provvedevano a curare i malanni più comuni dei loro figli in modo empirico, ma spesso efficace, con erbe medicamentose quali la ruta (la ruta ogni male stuta), il sedano bollito per ottenere effetti diuretici, le radici di malva per decotti e gargarismi, le patate scaldate sotto la cenere e la crusca calda per mal di gola e tonsilliti, gli impiastri di ortiche per piccole ferite, la camomilla 3

I liquori più comuni che potevano trovarsi nelle famiglie erano: strega, ruhm, vermouth ed anice (“l’anisetta”).

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per l'insonnia e il mal di pancia, l'aglio bollito per la tosse asinina e la tenia, il prezzemolo contro l'epistassi, il mallo di noce per ottenere il "nocillo", quale digestivo, ed altro ancora. Queste brave donne altro non furono che erboriste ante litteram. Le erbe e gli impiastri purtroppo, non sempre davano risultati positivi ed allora, sostenendo una modica spesa, ci si recava in chiesa ad accendere un cero ai piedi della statua di un santo miracoloso. Poteva, però accadere che il santo, infastidito dalla pochezza dell'offerta ovvero per altri imperscrutabili motivi, restasse indifferente alle invocazioni lasciando intendere di non voler essere contrapposto al medico. In casi simili si trovava il toccasana rivolgersi ad una fattucchiera che, pronunciando indecifrabili formule magiche ed aiutandosi con olio, acqua, sale e gesti misteriosi, risolveva il caso prospettatole. In casi più complessi venivano demandati ad un "mago" di S. Gregorio Magno che godeva di indiscusso prestigio presso gli allocchi. Sempre alle fattucchiere si ricorreva in caso di "fatture" di "malocchio" e contro potenti "jettatori" che minacciavano la salute e gli interessi dei singoli e di intere famiglie. Taluni talvolta inconsapevolmente coadiuvati dalle rispettive mogli, si proteggevano dall'influsso negativo dei potenziali "jettatori" con corna e cornetti, posti anche sui frontoni delle case, e toccandosi, per scongiuro, parti delicate del corpo. Anche il ferro di cavallo era idoneo a scongiurare l'influsso malefico dei subdoli "jettatori". Allorché tutti questi accorgimenti si dimostravano inefficaci per la salute dei propri cari, come extrema ratio, ci si rivolgeva alle «anime benedette del purgatorio», scelte, ben s'intende, nella cerchia della migliore parentela defunta, e poiché non di rado tali anime restavano insensibili all'appello, forse perché collocate all'inferno e nient'affatto benedette, era giocoforza chiamare il medico e il sacerdote, a seconda che l'inferno fosse o meno ancora in vita. In caso di morte il primo istintivo gesto di dolore e di disperazione delle donne era caratterizzato più che da un grido, da un urlo quasi disumano di gente che sembrava impazzita. "Frangello", "Frangello mio" (disgrazia, sciagura mia), ripetevano convulsamente, con toni alti e striduli, mentre inconsultamente si strappavano i capelli, si graffiavano la faccia, si mordevano a sangue le labbra e le mani ed istericamente e ripetutamente battevano i piedi per terra, alla maniera dei ragazzi capricciosi. 154


Ai laceranti lamenti di dolore, di tanto in tanto intercalati dalla rievocazione di particolari episodi della vita dell'estinto e della enumerazione delle infinite e preclari sue virtù - che in qualche caso erano del tutto destituite di fondamento, o, quanto meno, molto dubbie - si alternavano tutte le donne della famiglia e qualche stretta parente, attorniate dalle vicine di casa, subito accorse, che più tardi, ammirate e commosse, avrebbero commentato: «come lo hanno pianto bene!». Il comportamento degli uomini, in genere, era più composto e contenuto anche se il dolore non era minore. Intanto, appena i rintocchi delle campane avevano annunziato il triste evento ed in un baleno si era conosciuto il nome dell'estinto, la maggioranza della popolazione, alla spicciolata aveva iniziato le visite di condoglianze, che si sarebbero rinnovate dopo il rito funebre ed il successivo accompagnamento del feretro al cimitero. In questa circostanza, a conferma della comprensione e della solidarietà umana, cessavano le inimicizie, salvo poi a riesplodere alla prima occasione, anche per futili divergenze verbali. Prima di chiudere il "tavuto" (la cassa funebre) poteva capitare che qualche familiare ponesse accanto al cadavere alcuni spiccioli, qualche oggetto già caro al morto e l'immancabile cappello Piccole precauzioni per facilitare le iniziali difficoltà dell'aldilà! Chiusa la cassa, le manifestazioni di dolore assumevano un ancora più alto livello di intensità e di drammaticità nel momento in cui la bara varcava la soglia di casa. Frattanto, la parentela, appena venuta a conoscenza della "risigrazia" (disgrazia) si era riunita ed aveva concordato il turno da seguire per il pranzo che, secondo una secolare tradizione, si soleva portare ai parenti in gramaglie ad avvenuto trasporto del feretro al camposanto ed a visite di condoglianze ultimate. Poiché spesso la parentela era complessa i pranzi potevano succedersi per più giorni e ciascun parente, per tema di «essere criticato», sovente ammanniva pasti luculliani. Ne conseguiva che involontariamente il lutto si trasformava in festa dello stomaco, a conferma che tutti i salmi finiscono in gloria. Non finiva in gloria, né vi era festa per la biancheria intima delle persone a lutto, che la cambiavano soltanto a distanza di almeno un mese dal triste evento. In aggiunta gli uomini, traendone un modesto vantaggio economico, si lasciavano 155


crescere la barba e si recavano dal barbiere soltanto a distanza di tempo. Infine, un doveroso riguardo verso la memoria del «caro estinto» imponeva di tener serrati sportelli ed infissi dei balconi e delle finestre di casa, astenendosi, poi, dall'intervenire a qualsiasi festa, anche religiosa, durante il periodo di lutto. In un prosieguo di tempo, che la cordiale ed affettuosa solidarietà degli uomini del nucleo familiare, manifestatasi all'atto del decesso del congiunto, si incrinasse in occasione della divisione della eredità, perché ognuno, per tema di essere «fatto fesso», diffidando di tutti, si faceva furbo ed astuto rendendo difficili le cose semplici. A conclusione di banali o gravi divergenze fra due persone, in barba alle manifestazioni di solidarietà e di partecipazione palesate durante un evento luttuoso, poteva accadere di sentire da uno o da entrambi i contendenti, la più orrende ed atroci maledizioni a base di "muorti" e "stramuorti, non senza aver prima raffrontato l'avversario al pio bove od al corpore sterco ed averlo poi indirizzato a compiere atti contro natura in famiglia, che la penna si rifiuta di trascrivere. Si perpetuavano così superstizioni e tradizioni secolari, difficili da estirpare, e si rinverdivano odi e rancori usando un frasario non dissimile dal turpiloquio. Tutto questo, altro non era che la naturale conseguenza dell'ignoranza, che andava sotto braccio con la superstizione che costituiva il vero ostacolo al progredire della popolazione; ingenerando sfiducia nelle persone e nelle istituzioni ed affidando il proprio avvenire al destino ed al soprannaturale; il che spiega il comportamento irrazionale dei nostri antenati. Contrariamente a quanto avviene oggi, le donne non avevano tempo di preoccuparsi della moda, del parrucchiere e dei bagni estivi perché occupate tutto il giorno e molte volte anche di notte a risolvere i tanti problemi che assillavano la famiglia. queste donne, talvolta larve di donne, furono delle grandi sacrificate che spesso conobbero il riposo solo quando si addormentavano per l'ultimo sonno. La casistica è lunga e non è il caso di elencarla perché oggi molti increduli l'accoglierebbero con diffidenza o con un sorriso di commiserazione. Quanti drammi tenuti nascosti nelle famiglie, specie in quelle del ceto medio, che, assillate dalla preoccupazione di mantenere 156


un certo decoro, dovevano far studiare i figli, maritare le figlie, approntare il corredo e racimolare la dote! Il giudizio degli altri non lasciava indifferenti i singoli componenti la famiglia e le frasi «che dice la gente» e «pare brutto» volevano significare "questo non si deve fare" ovvero "si deve fare" per non essere mal giudicati. Un amor proprio e di casta, spinto sino all’esasperazione, una rigida e severa disciplina familiare costantemente e con alto prestigio diretta e controllata dal pater familias, la preoccupazione del domani che costringeva a sottoporsi a qualsiasi sacrificio ed a qualsiasi rinunzia hanno costituito le premesse e le basi per progredire, prosperare ed affermarsi di molte famiglie che hanno raggiunto il successo non attraverso fortunate combinazioni ma dopo aver asciugato per lungo tempo lacrime e sudore. Ed è stata la famiglia, o meglio l'unità del nucleo familiare coi suoi limiti, a far sì che si potessero sopportare e superare le immutevoli difficoltà che angustiavano i nostri antenati, perché i molti problemi da affrontare non erano di facile soluzione. I nuclei familiari, indipendentemente dalle condizioni economiche e dalle singole posizioni sociali, erano composti da numerosi elementi, tutti conviventi nella stessa casa dove nonni, padri, figli, nipoti e pronipoti costituivano un complesso unico. Nell'interno della famiglia i rapporti fra i vari componenti erano quanto mai rigidi anche sotto l'aspetto formale. Era normale che i figli si rivolgessero ai genitori, ai nonni ed agli zii dandogli del "voi" e baciando loro la mano in segno di rispetto. Nella buona società non era infrequente che marito e moglie si dessero del voi e mantenessero anche formalmente rapporti e costumi rigidi che oggi apparirebbero anacronistici. Tutto ciò non deve indurre a ritenere che qualche strappo alla regola, e qualche volta più di uno si verificasse. Anche i rapporti fra i parenti erano mantenuti su un piano molto cordiale e potevano essere incrinati soltanto da questioni patrimoniali od economiche, davanti ai quali non si sdegnava di adire le vie legali, premessa di inimicizie e di rancori senza fine. Quasi sempre l'astuzia aveva il sopravvento sulla ragione rendendo più difficile la soluzione di alcuni problemi e avvelenando le relazioni anche fra consanguinei. Molto vive le relazioni col vicinato col quale vi era affiatamento e solidarietà. 157


Tale era la situazione economica - sociale della famiglia sanrufese alla fine del XIX secolo.

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Parte seconda

SAN RUFO NEL XX SECOLO

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LA SITUAZIONE AGLI INIZI DEL SECOLO XX La notte di S. Silvestro del 1899 fu particolarmente agitata perché si temeva che con la fine dell'anno e del secolo si sarebbe avuta anche la fine del mondo. Una psicosi del genere si era già manifestata nei secoli passati un po' dappertutto e perciò non deve meravigliare se tale credenza abbia avuto facile presa sul popolino e sugli elementi meno dotati. Durante la notte pianti e preghiere si alternarono, confondendosi ed accoppiandosi, a forme isolate d'isterismo. Per tema di terremoti o di altri fenomeni eccezionali, che avrebbero preceduto od accompagnato il caos generale, malgrado la notte rigida ed il sempre incombente pericolo di incursioni ladresche, più di una porta di casa fu lasciata socchiusa in modo da consentire alle persone un celere deflusso all'aperto in caso di sinistri. Solo i bambini e le persone assennate s'addormentarono senza dar peso alle folle e ai timori degli allocchi. L'alba del primo giorno del 1900 si annunciò livida e grigia a causa della neve che continuava a cadere senza interruzione. A giorno fatto e a timor panico svanito i più andarono a letto, lasciando alle donne l'incombenza di preparare il pasto. La festività, nel complesso, trascorse in modo lieto, non solo per lo scampato pericolo, ma anche perché era uno dei pochi giorni in cui era lecito gozzovigliare. Fatte le debite eccezioni, all'inizio del secolo XX la popolazione continuava a vivere in condizioni disagiate, priva, o, quanto meno, scarsa di mezzi di sostentamento, oberata di lavoro, mal retribuito, ed aspirante sempre al possesso del pezzo di terra che l'affrancasse dalla miseria. Per tal motivo i contadini continuavano a sentirsi impotenti ad emanciparsi dalla propria condizione di inferiorità ed accettavano passivamente la loro sorte. Questo pesante fatalismo condizionava le singole famiglie, aggravando inconsapevolmente la loro situazione. Il ceto medio, pur vivendo in contatto col contadino, per interessi diversi, badava essenzialmente a mantenere e consolidare la propria posizione economica, anche con appropriati matrimoni, nella visione di un ulteriore progressivo miglioramento e, nella speranza di potersi liberare dalle pastoie paesane, a trasferirsi in sedi dove i figli, con lo studio e l'appoggio di amicizie altolocate, 161


avrebbero avuto la possibilità di affermarsi e di illustrare il proprio nome attraverso una brillante carriera. L'aspirazione culturale dei contadini, invece, era quasi inesistente ed in ogni caso aveva un solo sbocco e molto raro: quello del seminario. L'istituzione delle scuole elementari, verso la fine del secolo precedente, nella sostanza non aveva modificato la situazione culturale del paese. I "benpensanti" ritenevano del tutto superflua qualsiasi forma di istruzione generalizzata perché, a parer loro, soltanto i benestanti avrebbero dovuto progredire culturalmente, quasi che l'intelligenza ed il merito fossero in stretto rapporto con il gonfiore ed il peso delle singole borse. Tale situazione non caratterizzava soltanto il ristretto ambiente sanrufese, ma era a fattor comune con quello degli altri paesi del Vallo, e non solo di quelli. In effetti, sul nuovo secolo gravava una grossa ipoteca del passato, le cui radici, difficili da estirpare, affondavano non nella ereditata mentalità borbonica, come spesso si è affermato, bensì nelle secolari costumanze e tradizioni feudali, in parte assorbite dai nuovi arricchiti. I progressi che si erano avuti nella seconda metà del secolo precedente - la rotabile, l'illuminazione, il telegrafo, la ferrovia non avevano modificato la situazione socio-economica della popolazione sanrufese che non differiva da quella antecedente la formazione del regno. Anzi, con l'Unità, si era avuta una maggiore pressione fiscale, compresa l'obbrobriosa tassa sul macinato, che aveva inciso negativamente sulla situazione delle singole famiglie. In tali condizioni non era facile amministrare un comune sostanzialmente povero e dobbiamo riconoscere che le varie amministrazioni, succedutesi nel tempo, hanno dovuto affrontare e risolvere problemi non facili, comprese le beghe giudiziarie con i comuni limitrofi. Ciò nonpertanto il Comune non è mai apparso arretrato rispetto agli altri comuni del Vallo, anzi in alcuni campi, ad esempio quello dell'approvvigionamento idrico, è stato nettamente all'avanguardia. Anche dal punto di vista formale, come l'impianto e la regolarizzazione della toponomastica, prima inesistente, il nostro paese non è andato a rimorchio degli altri. Dopo aver dato a Cesare quel che a Cesare appartiene, dobbiamo pure riconoscere che sulla situazione precaria della popolazione ha influito anche una certa apatia della classe più elevata, nonché le rivalità fra i vari gruppi dominanti, a scapito 162


della povera gente che, di volta in volta s'aggrappava al cavallo vincente nella speranza di un miracolo che non sarebbe mai venuto. Soltanto dopo la prima guerra mondiale, prima lentamente e poi in modo più spedito, si avrà una radicale trasformazione nel campo etico, economico e culturale della società sanrufese. Sparirà l’analfabetismo, sparirà la miseria più acuta, spariranno le nette differenze di classe e il proletariato, costituito da pastori, braccianti e contadini, si affrancherà dalla povertà e dalla soggezione divenendo a sua volta piccolo possidente allorché i grossi proprietari porranno in vendita i loro beni immobili e si trasferiranno in città. Anche la scuola non sarà più appannaggio di pochi, ma sarà aperta a tutti, consentendo ai meritevoli di affermarsi e progredire. Per meglio comprendere questa trasformazione della società, ci soffermeremo su alcuni avvenimenti che hanno caratterizzato la vita di S. Rufo e dal mosaico che ne risulterà sarà possibile rendersi conto del travaglio, dello sviluppo e delle mutate condizioni di vita della popolazione nello scorcio di questo secolo.

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TOPONOMASTICA Come è noto, sino alla fine del 1800 l'unica strada che attraversava S. Rufo da oriente ad occidente era denominata «Corso Maggiore», intendendo designare con tale dizione la via principale del paese. Le altre strade, che tagliavano longitudinalmente tale corso, erano indicate facendo riferimento al borgo o al rione al quale erano ubicate: S. Antonio, Chiesa, Piazzile, S. Sebastiano, Porcile, Fontana Sottana, Fontana Soprana, Piazza, San Rocco, Castagneto, S. Giuliano, Grotta, Carrarusso, Arco, Temparella, ecc... Data la scarsa consistenza del paese bisogna convenire che ce n'era a sufficienza per intendersi. Del resto, ancora oggi, seguendo la tradizione, comunemente si usa far riferimento ai singoli rioni e non alle vie. Ad esempio, per indicare la precedente ubicazione della farmacia, nessuno dirà che si trovava al Corso Garibaldi, bensì semplicemente a S. Rocco, alias Sand' Rocco. Poiché le case dei singoli rioni sono enucleate in piccoli gruppi l'indicazione corrente risulta pratica e pertinente. La Piazza, dove si affacciava il vecchio municipio, piccola parte del Corso Maggiore, tutto era fuorché una piazza od un largo e veniva così denominata, come continua ad esserlo ancora oggi, per indicare il centro del paese, dove alternandosi al Piazzile, durante il periodo feudale, avveniva la riunione del parlamento. La costruzione di alcune case agli inizi del 1800, di cui si è fatto cenno in precedenza, aveva migliorato ma non mutato l'aspetto del paese, che continuava ad essere dominato da un complesso di case molto misere. Soltanto nella seconda metà del secolo scorso, ed in particolare dopo il terremoto del dicembre 1857, si ebbe la proliferazione di costruzioni a cavallo del Corso Maggiore, ad apertura avvenuta della rotabile S. Marzano - Bivio Corleto, che attraversava il predetto corso. Al posto di vecchie e maleodoranti catapecchie e di miseri tuguri sorsero alcune case, e precisamente: nel 1851 l'abitazione del sacerdote don Angelo Pagano, oggi delle sorelle De Vita 1, nel 1860 quella di Carmine Pagano, nel 1870 quella della famiglia Stabile (accanto al vecchio municipio), sempre nel 1870 quella del dott. Urbano Mangieri, oggi Filippo Marmo, nel 1878 quella di Giovanni Caggiano, su una preesistente costruzione del 1855, nel 1880 fu sopraelevata di un piano la casa Spinelli, nel 1883 quella 1

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Demolita in seguito al terremoto del 23 novembre '80.


di Agostino Marmo, nel 1886 sorse quella della famiglia Scaliati, nel 1890 la mia attuale abitazione, nel 1892 quella di Antonio Pagano, oggi del farmacista Rocco La Regina, nel 1893 quella di Giovanni Pagano, già Abramo, nel 1894 si ebbe la ristrutturazione della casa Pellegrini, nel 1901 l'attuale negozio di Luigi Palladino, già De Vita, oltre a poche altre costruzioni, senza indicazioni di date, sorte specialmente a cavallo del Corso Garibaldi e corso Mazzini. Al termine dell'attuale Via Roma, al rione Grotta, nel 1890 sorse un imponente complesso della famiglia di Orazio Marmo, solo parzialmente completato ed occupato. Tutte queste case si affiancarono ai palazzi Rinaldo, Marmo, Laviano, De Vita, Mangieri, Pagano, Spinelli, Calceglia ed altre poche case di cui abbiamo in precedenza parlato e sparì la pletoria delle casupole e delle stalle ("stieri") che fiancheggiavano la strada principale. In tal modo il Corso Maggiore assunse una propria ed autonoma fisionomia non dissimile da quella degli attuali corsi Mazzini e Garibaldi. Agli inizi del secolo, a somiglianza degli altri paesi del Vallo, si reputò opportuno addivenire alla formulazione della inesistente toponomastica locale e l'amministrazione retta dal sindaco Filomeno Pellegrino 2, alle vie principali, con la sola eccezione di Via S. Antonio, furono dati nomi emblematici del nostro Risorgimento: Mazzini, Garibaldi, Fratelli Bandiera, Pisacane, XX Settembre e Roma, che testimoniano le preferenze e le impronte culturali degli amministratori del tempo; preferenze ed impronte che stranamente collimavano con quelle liberali e della massoneria del tempo. Con ciò non si vuol fare specifico riferimento agli orientamenti politici di quegli amministratori, anche se il nome dato alla via fiancheggiante la chiesa - XX Settembre - indurrebbe ad affermarlo. E' da osservare che gli amministratori, probabilmente suggestionati dal vecchio nome di «Corso Maggiore», diedero alle vie sostitutive quello di «corso Mazzini» e «corso Garibaldi» invece di «via Mazzini» e «via Garibaldi», come sarebbe stato logico trattandosi di strade distorte, strette ed a livelli differenti e discontinui. 2

In precedenza, sotto l'amministrazione del sindaco Francesco Spinelli, era stata ventilata tale realizzazione

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Le "carrale", cenerentole del paese, ebbero l'onore di essere trasformate in "vicoli" e "vicoletti" dai nomi graziosamente ingentiliti: vicoletto Giglio, vicoletto Gelso, vicolo Acace (Acacia), vicolo Speranza, vicolo delle Canne, vicolo Anticaglie, ecc. La via a valle della chiesa, per la curva che la caratterizza, divenne «vicoletto Storto Campanile», ma vicoletto non era e non è. Due "carrale" furono elevate al rango di vie: Regina Margherita e Piazzile. Due borghi furono confermati come tali: borgo S. Giuliano e borgo S. Michele (l'Angelo), che costituivano ad occidente, gli estremi del paese. Nei nomi delle vie e dei borghi nessun accenno ai re passati o presenti. Così come accade con le persone, che comunemente vengono indicate col nomignolo (soprannome) e non col nome reale, così le strade e le carrale, anche se nobilitate nei nomi, continuarono ad essere chiamate con le vecchie dizioni e continueranno per lungo tempo ancora - in effetti sin oltre la fine della seconda guerra mondiale - ad essere disastrate, prive di manutenzione e di fognature. In questo raffronto, non casuale, si ha la conferma che le consuetudini sono difficili da estirpare. A differenza di tanti altri paesi, che col volgere degli eventi e delle fortune dei loro esponenti variavano in tutta fretta il nome delle vie, la toponomastica locale non ha mai subito modifiche, neanche durante il ventennio fascista, il che è merito degli amministratori succedutisi nel tempo. Piccole variazioni, quali: Piazzetta della Pace, Via Avv. Greco, via Raffaele Spinelli, ecc., nella sostanza non hanno modificato l'assetto toponomastico del paese. L'attuale toponomastica si riferisce ad un preciso periodo storico, al quale è anche legato il nome delle strade e dei vicoli, la cui modifica, puramente formale, non inciderebbe sull'assetto delle strade, dei borghi, dei vicoli e lascerebbe le cose come prima, senza, cioè, un reale miglioramento strutturale del paese. Il terremoto del 23 novembre '80, sia pure in modo surrettizio, ha parzialmente accontentato gli innovatori sconvolgendo, attraverso le demolizioni, l'assetto di parecchi rioni per cui sono scomparsi alcuni vicoli ed al loro posto sono sorti spiazzi anonimi. Cerchiamo, perciò, di conservare quanto è rimasto ed evitiamo, come dirò in seguito, che rimangano senza nome le vie 166


che ne sono prive, rifuggendo dai nomi altisonanti e ricordandoci, invece, di quanti hanno onorato il nostro paese.

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L'ISTRUZIONE ELEMENTARE Verso la fine del secolo scorso, l'amministrazione locale, in ottemperanza alla legge Coppini, dispose l'incremento della scuola comunale limitatamente, così come prescriveva la legge, alla prima e seconda classe e ad insegnanti all'insegnamento continuarono ad essere destinati l'arciprete Francesco Antonio Mangieri, per la classe maschile, e la signorina Giuseppina Marmo, per quella femminile. Come sappiamo, entrambi venivano remunerati con 500 lire annue. L'aula maschile fu sistemata nella casa Salvioli, all'inizio dell'attuale Corso Garibaldi, parzialmente ristrutturata dopo il terremoto, e quella femminile nel lato occidentale del Palazzo Marmo, ora Spinelli. Malgrado l'età avanzata, una vertenza giudiziaria 1 ed il diabete, che resero dolorosa la sua vecchiaia, l'arciprete Mangieri, assolse l'incarico in modo encomiabile fino a che le forze glielo consentirono. Nel 1810 fu sostituito dall'insegnante Maria de Vita. Qualche anno dopo anche la signorina Marmo, a causa dell'età e dei malanni, fu sostituita dall'insegnante Clotilde Caggiano 2. Al termine del biennio fu poi aggiunta la terza classe, con la quale, allora, si concludeva il ciclo di studi elementari. Allorché, agli inizi del secondo decennio del 1900, la scuola divenne statale, gli anni scolastici furono portati a quattro, le classi furono abbinate e non più distinte in maschili e femminili, ma miste. Al primo biennio – 1a e 2a classe - fu destinata la signorina Caggiano ed al secondo – 3a e 4a classe - la signorina De Vita. Deceduta in giovanissima età, la signorina Caggiano nel 1920 fu sostituita dall'insegnante Rosario Somma. 1

Agli inizi del 1900 vi fu una vertenza giudiziaria fra l'arciprete ed il sacerdote Angelo Pagano. L'arciprete Francesco Antonio Mangieri fu denunciato alla Magistratura dal Pagano per aver venduto dei rottami di exvoto, alcune monete ed una vecchia veste della Madonna. L'arciprete fu assolto in Camera di Consiglio il 5 aprile 1906, perché l'equivalente della vendita era stato investito in altri oggetti necessari e, perciò, a sua volta, in data 14 maggio successivo, citava il sacerdote Pagano dinanzi al Tribunale di Sala Consilina perché ritenutosi leso dell'onore. 2 La signorina Giuseppina Marmo, nel 1886 dal Ministero della Pubblica Istruzione venne decorata della medaglia d'oro di benemerenza per quaranta anni di insegnamento.

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Precedute, con un certo anticipo, dai rintocchi della campana della chiesa, le lezioni iniziavano alle ore 8,30 e terminavano alle 12, ed oltre alla domenica veniva considerato giorno festivo anche il giovedì. Durante l'anno scolastico 1919-20, l'orario fu prolungato e sdoppiato, con un intervallo di mezz'ora, ed e fu abolita la festività infrasettimanale. Entrambe le aule disponevano delle attrezzature strettamente indispensabili: una lavagna, una cattedra, alcuni banchi, con il calamaio incorporato, ed una carta geografica d'Italia. Nell'aula della 1a e 2a classe vi era anche il pallottoliere. Il libro, il cosiddetto "sussidiario", era unico per ogni classe e l'inchiostro veniva fornito dall'amministrazione comunale. Quando ne era provvista. I servizi igienici erano del tutto fatiscenti in quanto l'aula del Palazzo Spinelli disponeva di un antigienico antro buio ad uso gabinetto e l'altra, quella di S. Rocco, aveva, a ridosso, l'aperta campagna, il cui tratto prossimo alla scuola veniva concimato con il contributo involontario degli scolari. Durante il periodo invernale il riscaldamento era assicurato da un braciere. Nelle giornate molto rigide gli alunni vi si avvicendavano per scaldarsi le mani, rese paonazze dal freddo, ed i piedi arrossati dai geloni. Per mancanza di palestre, che in quel tempo era utopia sperare, la ginnastica si effettuava fra i banchi in modo molto elementare. Frequenti le lezioni di canto, rappresentate dagli inni di Garibaldi e di Mameli, e saltuarie, nella buona stagione, le graditissime passeggiate scolastiche. Sino alla seconda guerra mondiale nelle scuole la disciplina veniva mantenuta in modo piuttosto rigido. Il manorovescio ed il colpo di riga sulle mani costituivano punizioni adeguate per gli svogliati e per i discoli. I genitori, allorché venivano informati dello scarso rendimento o di qualche marachella commessa dai figli, s'affrettavano a raccomandare agli insegnanti di suonare di santa ragione i malcapitati ragazzi. "Rateli" (dategli), essi dicevano, perché era convinzione generale che un valido ed efficace insegnamento non potesse essere disgiunto dalla repressione immediata di mancanze e svogliatezze. Quei genitori non si limitavano alla sola raccomandazione, perché, poi, a casa, al fine di evitare il ripetersi 169


di inconvenienti lamentati dagli insegnanti, somministravano ai loro figli una solenne "mazziata" od un gagliardo "paliatone". Era anche convinzione che un insegnante, anche se non di eccelsa levatura culturale, fosse un bravo docente se autoritario, severo e, perché no, dalle mani leggere e dal braccio sciolto. Gli alunni frequentanti costituivano una forte minoranza rispetto agli aventi obbligo perché a causa della lontananza dalla scuola, della precaria situazione della popolazione, della inderogabile necessità di accudire ai lavori dei campi e di assicurare la sorveglianza del bestiame, non tutti frequentavano le scuole e quei pochi che iniziavano non sempre le ultimavano. Bisogna anche considerare che la miseria imperversava e dominava sovrana, per cui anche il semplice acquisto del quaderno, dell'asticciola e del pennino - il famoso pennino "Cavallotti" - per molti costituiva una spesa insopportabile e quindi superflua. Allora il denaro non circolava ed il soldo, intendendo indicare con tale moneta i cinque centesimi, veniva speso con molta ponderazione e parsimonia anche dalle cosiddette famiglie benestanti, che non sempre erano tali. Poiché l'istruzione non era considerata preminente rispetto agli altri bisogni, le famiglie non si curavano di mandare i figli a scuola. Tutto questo spiega lo scarso numero di scolari e giustifica la costituzione e l'abbinamento delle classi miste. Allorché, nel 1920-21, sarà istituita la scuola elementare anche nella frazione di Fontana del Vaglio, sistemata inizialmente nel casino dei Mattina ed avente come primo insegnante il sacerdote Pandolfi di S. Arsenio, verrà risolto il problema dell'istruzione dei ragazzi della popolazione rurale. In parallelo, l'istituzione dei corsi serali per adulti completerà il quadro dei provvedimenti intesi a debellare l'analfabetismo. La speranza di Francesco De Sanctis che anche l'«ultimo italiano» imparasse a leggere ed a scrivere era prossima a realizzarsi. Al termine del corso elementare soltanto qualche ragazzo rara avis - in genere appartenente a famiglia benestante, proseguiva gli studi superiori trasferendosi in città, in convitto o presso privati. Molto raramente qualcuno entrava nel seminario diocesano di Teggiano, ma poi, per palese mancanza di vocazione o per altri reconditi motivi, interrompeva gli studi durante il corso. L'ultimo sacerdote sanrufese uscito dal seminario di Teggiano è stato l'arciprete Giuseppe Maggese, che fu ordinato verso il 1910. 170


Comunque, l'istituzione delle scuole elementari, comunali prima e statali dopo, malgrado remore, limitazioni e difficoltà, costituì la premessa per l'evoluzione ed il successivo sviluppo culturale della popolazione sanrufese, per secoli tenuta avviluppata e soffocata nel buio dell'ignoranza. Non si sarà mai sufficientemente grati agli insegnanti, succedutisi nel tempo, per la costante opera educativa e formativa svolta a favore di generazioni e generazioni di ragazzi. In passato, al termine del triennio delle scuole elementari, la formazione degli insegnanti avveniva presso le «scuole normali», gli istituti magistrali di oggi, dopo un corso di studi della durata di sei anni. Nelle scuole normali non era previsto l'insegnamento del latino, della filosofia, e di altre materie che oggi fanno parte dei programmi degli istituti magistrali; materie, senza dubbio, sconosciute agli studenti che si apprestavano a dedicarsi all'insegnamento, ma - malgrado il modesto trattamento economico - erano altrettanto sconosciuti gli scioperi, le assenze e le malattie di comodo degli insegnanti. Per gli scolari l'insegnante era «il signor maestro», perché il docente era soprattutto un maestro di vita: era il padre, il fratello, l'amico al quale ci si rivolgeva per un consiglio, o per un aiuto nel corso degli anni. Fra gli insegnanti e gli alunni, indipendentemente dalla formale rigidità disciplinare e forse anche per questa, si creava un rapporto umano, quasi familiare, perché il maestro considerava l'insegnamento una missione e con la mente ed il cuore seguiva gli alunni per tutta la vita. Oggi è ancora così?

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LA PRIMA GUERRA MONDIALE Il lungo periodo di pace che aveva caratterizzato quello antecedente la prima guerra mondiale non era stato sostanzialmente intaccato né dalle operazioni contro l’Abissinia del 1896 né dalla guerra italo-turca del 1911-12 perché S. Rufo, con i pochi elementi inviati oltremare, vi era stato interessato marginalmente. Di questa ultima campagna merita di essere ricordato l’allora Sergente Maggiore Pietro De Vita, effettivo alla I Compagnia montata, decorato di medaglia d’argento al V. M. «Per il coraggioso contegno tenuto nel combattimento nel quale, ferito una prima volta, continuò a combattere, finché riportò una seconda ferita assai grave. Gaduaria 11.12.1915». Le preoccupazioni suscitate dall’ultimatum dell’Austria alla Serbia e l’inizio della conflagrazione europea, nell’agosto del 1914, erano state stornate dalla dichiarazione di neutralità dell’Italia, cosicché, anche a causa della mancanza di mezzi di comunicazione di massa, la popolazione di S. Rufo, all’oscuro, del successivo evolversi della situazione, aveva potuto lavorare con una certa tranquillità per risolvere il problema sempre grave del sostentamento. Non rimase, però, indifferente allorché si incominciarono a propagare notizie riguardanti le manifestazioni di piazza che venivano intensificandosi nelle varie città ad iniziativa dei nazionalisti, che volevano l’intervento in guerra dell’Italia. Alla massa, in maggioranza contadini analfabeti, erano sfuggiti, e non poteva essere diversamente perché culturalmente impreparata, gli alti ideali della guerra, primo fra tutti il raggiungimento dell’unità nazionale, iniziatasi nel lontano 1848 col passaggio del Ticino, nell’auspicio di un avvenire di libertà e di giustizia. La popolazione si rese sospettosa, diffidente e preoccupata allorché anche i nostri pochi studenti, in paese, si fecero propugnatori del nostro intervento parlando di Patria e di sacri confini. Chi, come la massa, malgrado il duro lavoro quotidiano, non era riuscita a risolvere il problema di acquisire un pezzo di terra ed assicurare con continuità il proprio sostentamento, non poteva recepire e comprendere concetti così elevati. Quando nel tardo autunno del 1914 prima e nella primavera successiva dopo si iniziarono e poi si intensificarono il richiamo alle armi dei riservisti, tutti si resero conto che ormai l’intervento 172


dell’Italia sarebbe stato inevitabile ad avrebbe comportato sacrifici di ogni genere. I richiamati ed i giovani di leva di S. Rufo, all’epoca appartenenti al Distretto Militare di Campagna, in maggioranza furono assegnati al 63° e 64° regg. di Fanteria, facenti parte della brigata “Cagliari” (XX divisione), in quel tempo di stanza a Salerno. Aliquote minori furono destinate al 15° reggimento di artiglieria da campagna ed al 7° e 9° reggimento di artiglieria da fortezza. All’atto della dichiarazione di guerra (24 maggio 1915) i reggimenti della brigata “Cagliari”, inquadrati nella III Armata comandata dal Duca d’Aosta, furono tra i primi a passare il vecchio confine orientale e subito, sul Carso, mossero all’attacco delle posizioni nemiche nel settore compreso fra Polazzo, Fogliano e Redipuglia, da tempo sapientemente apprestate a difesa dell’Austria. Malgrado l’accanita difesa gli italiani conseguirono notevoli risultati ma furono costretti ad arrendersi davanti ai reticolati posti sul margine anteriore delle trincee nemiche e la guerra, come su tutti gli altri fronti, ristagnò in una logorante guerra di trincea con gravi perdite da entrambe le parti. Il primo sangue che irrorò la pietraia del Carso, fra Polazzo e Redipuglia, fu anche sangue sanrufese. Cominciò così la lunga serie di luttuose comunicazioni alle famiglie che si sarebbe protratta per 43 mesi, portando la disperazione in molte case. Il fiore della nostra gioventù diede prove di indiscusso valore e di profondo senso del dovere, assolvendo con spirito di sacrificio compiti quanto mai ardui e difficili. Risale ai primi mesi di guerra, ed è doveroso ricordarlo, l’atto di abnegazione, di altruismo e di coraggio compiuto dal nostro concittadino Giuseppe De Vita, decorato di medaglia di bronzo al valor militare, perché «Sotto intenso fuoco, traeva al sicuro il proprio ufficiale ferito, ritornando immediatamente sul luogo di combattimento, ove egli stesso cadeva ferito. Polazzo, 2.7.1915 ». Il protrarsi della guerra, la lunga vita di trincea, i frequenti attacchi, mai risolutivi, e le gravi perdite ebbero ripercussioni sul morale dei soldati, che nel secondo semestre del 1917, sia pure parzialmente e sporadicamente, palesarono segni di stanchezza. Dopo il cedimento di Caporetto e la ritirata al Piave, tutti questi motivi aggiunti a tanti altri, quali la campagna denigratoria svolti da taluni partiti contro «l’inutile strage», le ricchezze 173


accumulate dai “pescecani”, come venivano chiamati gli industriali ed i commercianti, e la vita comoda e spesso dissoluta degli imboscati, furono le cause che provocarono l’estendersi del triste fenomeno della diserzione. Anche S. Rufo non ne fu esente e la ripetuta caccia ai disertori assunse in paese aspetti altalmente drammatici, come quello che provocò il conflitto a fuoco tra i carabinieri ed un nostro concittadino, che in quella circostanza rimase ferito. La rottura di Caporetto e la conseguente occupazione di gran parte del Veneto da parte degli austriaci ebbe come conseguenza immediata la fuga dalle loro case delle popolazioni della Carnia, del Friuli, del Cadore e del Veneto orientale. I profughi trovarono ospitalità un po’ in tutta Italia ed anche da noi ebbero fraterna accoglienza i cosiddetti “padovani”, taluni dei quali, come i Muraro, vi presero poi stabile dimora, avendo trovato adeguata sistemazione presso l’azienda agricola del notaio Spinelli. La chiamata alle armi dei «ragazzi del ’99», come furono chiamati quei giovani imberbi, dimostratosi al momento della lotta più che maturi e spesso eroi, privò ulteriormente la campagna di braccia valide per cui si rese necessario ricorrere all’impiego dei prigionieri di guerra. A S. Rufo un distaccamento del campo di concentramento di Padula, costituito da bosniaci ed ungheresi, fu accantonato nella vecchia cappella di S. Antonio. I prigionieri, inquadrati dai propri ufficiali e sottufficiali, giornalmente si recavano nei campi a dare man forte ai contadini, risolvendo, sia pure parzialmente, il grave problema della mano d’opera ed assicurando la continuità delle colture e dei raccolti. Quando il 4 novembre 1918 si sparse la voce dell’avvenuto armistizio furono suonate a stormo le campane, tutti emisero un sospiro di sollievo e soddisfazione ed il sorriso ritornò sul volto dei cittadini, eccezion fatta delle mamme, delle spose e dei padri che invano avrebbero atteso il ritorno dei loro cari. E fu per un riguardo verso le famiglie più provate che le manifestazioni a S. Rufo furono contenute. Finalmente avvenne il congedamento dei combattenti, iniziatosi ai primi del 1919 e protrattosi per qualche tempo ancora, ed i reduci, muniti di una polizza di assicurazione del valore di 1000 lire, concessa con decreto del 17 dicembre 1917, ritornarono alle loro case. Purtroppo, a causa della svalutazione, la polizza alla scadenza, trent’anni dopo, avrebbe perduto gran parte del suo valore iniziale. 174


In relazione alla modesta consistenza della popolazione, il contributo dato da S. Rufo fu senza dubbio notevole ed il numero dei morti, dei mutilati e dei feriti lo testimonia. Caduti - Artigliere Alvano Giuseppe di Michele. Effettivo al 15° regg. Artiglieria da campagna. Deceduto il 28/10/1917 a Martignacco (Udine) in seguito a colpo di pistola al polmone destro. - Fante Cardiello Luigi fu Francesco (coniugato). Caduto il 28/08/1917 a Vrodec (Carso) colpito da pallottola di fucile.

- Fante Donadeo Carmine di Giuseppe – Disperso - Fante D’Alto Vincenzo di Domenico (coniugato). Effettivo al 63° regg. Fanteria. Deceduto l’11/07/1916 all’ ospedale militare di Cesena. - Fante Fiore Pasquale di Giuseppe – Disperso - Capor. art. Greco Pasquale di Giuseppe (coniugato). Effettivo alla 117° batteria bombarde. Deceduto il 27/05/1917 a Dolina Madonna (Carso) per emorragia ed asportazione arto superiore destro causato da scheggia di granata. - Bersagliere Giuliano Michele di Giuseppe. Effettivo all’11° regg. Bersaglieri. Caduto il 24/07/1917 a Visintin (Carso) per ferite multiple al viso agli arti ed all’addome. E’ sepolto nel cimitero di Redipuglia. - Bersagliere Lavecchia Francesco di Carmine. Effettivo al 2° regg. Bersaglieri. Disperso in guerra nei fatti d’arme di monte San Michele (Carso) dal 29/10 al 20/11/1915. - Fante Luongo Francesco fu Giuseppe - (figlio unico di madre vedova) - Effettivo al 221° rgt. Fanteria. Disperso nel fatto d’arme di Modigna di Torreano del Friuli il 27/10/1917.

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- Fante Mangieri Luigi di Arsenio - (coniugato) - Effettivo al 261° btg. M.T. deceduto il 9/07/1917 all’ospedale da campo 303 a Radecol per nefrite acuta, con eremia grave e miocardite provocata da gas. - Fante Mangieri Rufo di Arsenio. Effettivo al 141°rgt. Fanteria. Deceduto il 7/08/1916 all’ospedale da campo in Romans (Udine) in seguito a ferita da scheggia di granata al polmone destro, alla regione occipitale ed al braccio sinistro. - Fante Manzolillo Rosario di Luigi. Non meglio identificato il luogo dove fu dato per disperso. - Fante Marmo Antonio fu Luigi. Deceduto l’8/09/1915 all’ospedale militare di Udine. - Fante Marmo Antonio di Giuseppe. Deceduto l’1/10/1918 all’ospedale militare di Venezia. - Fante Marmo Carmine di Angelo. Deceduto il 16/10/1918 all’ospedale militare di Torino. - Fante Marmo Francesco di Giovanni. Effettivo al 18° regg. Fanteria. Deceduto per malattia il 24/4/1917 nell’infermeria presidiaria di Pescara. - Fante Marmo Giuseppe di Cono. Effettivo all’80° regg. Fanteria. Deceduto il 21/10/1915 nelle vicinanze del lago Nucilo (Montefalcone) per ferite d’arma da fuoco all’inguine. - Fante Marmo Giuseppe di Giuseppe - (coniugato) – deceduto il 10/12/1915 nell’ospedale 069 per gastroenterite specifica. - Fante Marmo Giuseppe di Angelo – Disperso. - Fante Marmo Giuseppe di Francesco – Deceduto l’11/12/1916 all’ospedale da campo 060 per emorragia da ampia ferita al torace sinistro ed esportazione dita della mano sinistra.

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- Fante Marmo Giuseppe di Francesco e di Annamaria Benvenga – effettivo al 63° regg. Fanteria – Deceduto il 6/4/1917 a quota 1051 (Asiago) in seguito a ferita da pallottola di fucile. - Fante Marmo Michele di Filippo – Caduto il 9/8/1916 sul Monte S. Michele (Carso). - Fante Marmo Michele di Pasquale (coniugato) – Effettivo al 63° regg. Fanteria – Caduto il 4/7/1915 a quota 89 di Polazzo (Carso) in seguito a ferita da arma da fuoco. - Fante Marmo Vincenzo di Luigi – Effettivo al 18° reggt. Fanteria. Disperso il 21/5/1917. - Fante Naso Cono di Pasquale (coniugato). Effettivo al 111° regg. Fanteria. Caduto il 21/6/1916 a Monte Castelgomberto (Vicenza), colpito al capo. - Fante Salvioli Carmine di Luigi – Disperso in guerra. - Bersagliere Salvioli Giuseppe di Luigi – 9° regg. Bersaglieri – Disperso in guerra. - Fante Somma Luigi di Carmine (coniugato). Deceduto il 22/10/1915 a Romen (Austria) in seguito a colpo d’arma da fuoco al ventre e seppellito dal nemico. - Fante Somma Cono di Pietro. Effettivo al 223° regg. Fanteria. Prigioniero di guerra nel fatto d’arme di Monte Nero (24/10/1917). Internato in Germania, probabilmente deceduto durante la prigionia e dato per disperso. - Fante Stabile Michele Arcangelo di Francesco. Effettivo al 14° regg. Fanteria. Irreperibile nel fatto d’arme di Nordibregon il 25/7/1917, come da dichiarazione di morte presunta del Comando Deposito 225° Fanteria del 4/1/1922. - Fante Streppone Giovanni Gerardo di Giuseppe. Disperso in guerra.

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- Fante Tierno Giuseppe di Francesco (coniugato). Effettivo al 207° regg. Fanteria. Caduto il 21/8/1917 nel fatto d’arme di Siroka Nepa (medio Isonzo) in seguito a scoppio di Granata. - Bersagliere Tierno Giuseppe di Luigi. Effettivo al 20° regg. Bersaglieri. Disperso in guerra. - Fante Uliani Antonio di Maria (coniugato). Effettivo al 117° regg. Fanteria. Deceduto il 6/5/1917 nell’ambulanza chirurgica n. 5 d’Armata per ferita coscia sinistra e frattura del femore. I nomi dei fanti Marmo Antonio fu Luigi e Uliani Antonio non figurano fra quelli trascritti sul monumento ai caduti mentre vi figura il fante Marmo Felice di Giovanni, deceduto l’11/4/1915 all’ospedale militare di Firenze, prima, cioè, dell’inizio delle operazioni di guerra. In totale sono trentacinque i caduti per la Patria. In maggioranza riposano nei cimiteri di guerra di Oslavia (Gorizia) e Redipuglia ed in parte in quelli di Asiago e del Montello. Due sono sepolti in terra straniera: Austria e Germania. I dispersi in guerra presumibilmente riposano negli stessi cimiteri sopra citati e soprattutto a Redipuglia, dove sono sepolti centomila soldati ignoti. Dall’ elenco dei caduti emerge che parecchi erano coniugati ed è facile immaginare le gravi ripercussioni che ne derivarono nelle singole famiglie.E’ anche da rilevare che più di una famiglia aveva dato alla Patria un ripetuto contributo di sangue. La maggioranza dei caduti apparteneva all’arma di Fanteria, dimostratasi, ancora una volta, regina delle battaglie, ma anche del sacrificio. Con i caduti è doveroso ricordare anche i mutilati, che, al pari dei feriti, avrebbero portato nelle loro carni, per tutta la vita, i segni indelebili del dovere compiuto e molte, a causa delle mutilazioni, avrebbero avuto una vita grama e, qualche volta molto breve. Mutilati - Lucia Angelo di Carmine, effettivo al 19° regg. Bersaglieri. Riportò ferita all’occhio destro il 19/09/1917 sull’altopiano della Bainsizza. 178


- Marmo Alfonso di Michele. Riportò ferita all’occhio destro provocata da scheggia di granata. - Marmo Cono di Luigi (Bellonia). Mutilato dell’occhio sinistro. - Marmo Francesco Antonio (’Ngrunato). Riportò ferita e frattura del braccio destro. - Marmo Giuseppe di Pasquale. Mutilato della gamba sinistra. - Marmo Michele di Giuseppe (Caricchio). Effettivo al 210° rgt. Fanteria. Invalido per infermità contratta in servizio nel periodo dal 24/05/1916 al 6/07/1916. - Marmo Michele Luigi di Giuseppe (Rosamaria), invalido per grave ferita all’inguine. - Salvioli Pasquale di Francesco. Mutilato della gamba destra. - Salvioli Silvestro di M. Luigi. Effettivo al 7° artiglieria da fortezza. Riportò ferita all’orecchio sinistro in seguito allo scoppio di un cannone di medio calibro. - Tierno Felice di Carmine. Mutilato della mano sinistra. Per completezza di trattazione e per un’esatta valutazione del contributo dato dai sanrufesi alla lotta contro l’Austria, è da accennare il trasferimento nel 1915, dalla Libia al fronte Giulia di militari facenti parte del corpo di occupazione e l’invio in Francia, nel 1918, del II Corpo d’Armata comandato dal gen. Albricci, che partecipò onorevolmente ai combattimenti dello Chemin des Dames, durante i quali lo stesso Hinderburg dovette riconoscere ed ammettere il valore delle truppe italiane. In entrambi i casi vi furono interessati parecchi concittadini. E’ anche da ricordare il contributo dato dai nostri emigrati negli U.S.A., che, sempre nel 1918, combatterono in Francia nel corpo di spedizione americano comandato dal gen. Pershing. Infine un cenno agli ufficiali sanrufesi comunque interessati alla prima guerra mondiale:

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Maggiore cav. Marmorosa Francesco Capitano ftr. De Vita Pietro Capitano art. Spinelli Pasquale Tenente ftr. Mattina Alberico S. Ten. Bers. De Vita Rodolfo

I reduci, ritornati nella loro case, ripresero nei campi, nelle botteghe artigiane e negli uffici le loro attività e furono di esempio agli altri cittadini per virtù civiche e spiccato senso del dovere. Gli stessi, a distanza di tempo e con rammarico, avrebbero constatato che mentre gli U.S.A., al compimento del sessantesimo anno di età, concedevano un’adeguata pensione di guerra ai nostri cittadini già combattenti in Francia col corpo di spedizione americano, lo Stato italiano continuava ad ignorare i suoi ex combattenti. Soltanto a distanza di oltre cinquant’anni dalla guerra, su insistenti pressioni delle organizzazioni combattentistiche e d’arma i nostri governanti si ricorderanno dei reduci della prima guerra mondiale, concedendo loro una medaglia ricordo, l’onorificenza di cavaliere di Vittorio Veneto ed un assegno di cinquemila lire mensili! Ma anche il nostro paese non fu certamente generoso con i suoi caduti perché l’iniziativa di un monumento che li ricordasse, sorta dopo la fine della guerra, sfumò nel nulla e, soltanto dopo 44 anni circa, auspice l’amministrazione Marmorosa, trovò concreta realizzazione, quando erano state combattute altre due guerre: quella in A. O. e la seconda guerra mondiale. Forse solo allora gli spiriti inquieti dei nostri caduti trovarono pace, perché al rimpianto dei congiunti si era aggiunto, finalmente, il ricordo dei concittadini.

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14 GIUGNO 1920 FESTA DEL RINGRAZIAMENTO E DELLA FEDE Dopo tre anni e mezzo di ansie, di sofferenze e di trepidazione, ritornata finalmente la pace, le famiglie avrebbero desiderato abbracciare i loro cari, il che avvenne immediatamente perché il rientro dei reduci, iniziato prima del 1919 col congedamento di quindici classi, fu parzialmente protratto per le rimanenti quattro classi a causa delle agitazioni di piazza, particolarmente virulente in questo periodo e dell’impresa fiumana di D’Annunzio. A ciò si aggiunga che molti, fra mutilati, feriti ed invalidi, si trovarono ricoverati in luoghi di cura e non potevano essere restituiti alle loro famiglie se non a guarigione avvenuta. Con il ritorno dei combattenti e dei reduci dalla prigionia fu ripresa la normale attività in un ambiente prostrato e duramente provato, ma, rispetto al passato, sufficientemente sereno, pur se angustiato dai molti problemi di natura economica, aggravatisi durante la guerra. Fu ripresa l’illuminazione a petrolio delle strade, si riattivarono le fiere ed i mercati dei paesi del Vallo, si cercò di sanare le ferite e colmare i vuoti lasciati della guerra. Soltanto il Natale del 1919 e la Pasqua successiva ritornarono ad essere feste di serenità e di pace, riunendo intorno al desco domestico tutti i componenti della famiglia, ormai non più turbati da traumi ed assillati da timori e preoccupazioni. Nel 1920, con l’approssimarsi del 14 giugno – festa della Madonna della Tempa – si costituì un comitato, composto dai maggiorenti del paese, per preparare le onoranze alla Vergine, tanto cara al cuore dei sanrufesi. La festa voleva e doveva essere soprattutto festa di ringraziamento e di gioia per l’avvenuta fine del conflitto mondiale e per il ritorno in famiglia dei reduci. Per questi motivi, con il concorso generoso di tutti i cittadini residenti e di quelli all’estero, i festeggiamenti furono organizzati con dovizia e ricchezza di mezzi. Per l’occasione si ritenne opportuno rinnovare la veste ed il manto della Madonna. Una settimana prima della ricorrenza le campane suonarono ripetutamente a stormo e lo scampanio si ripeté nei giorni successivi creando l’atmosfera e le premesse per la buona riuscita della festa. 181


Le strade furono ripulite, riccamente addobbate ed illuminate, e, dopo tanto buio subìto negli anni precedenti, gli archi arabescati ed illuminati ad acetilene crearono nel paese un alone di irrealtà e quasi di sogno. Per i festeggiamenti fu chiamata la banda di Sturno (Avellino), che allora – così si disse – andava per la maggiore, ed il palco per l’orchestra, molto bene addobbato, fu posto nella piazzetta antistante l’antico palazzo Laviano, che in quel tempo non aveva ancora assunto il nome della Pace, ma che tale parve meritare in quella occasione. I festeggiamenti si iniziarono il giorno 13, festa di S. Antonio, ma già il giorno precedente si era avuta l’illuminazione delle strade e la banda aveva suonato girando per tutto il paese. Sempre il giorno 12, al corso Garibaldi, al Cortiglione, in via Fratelli Bandiera, al vicoletto Giglio ed a S. Antonio, secondo un’antica tradizione, a tarda sera erano stati accesi robusti falò (vamparoni) intorno ai quali donne, uomini e ragazzi avevano intonato canti religiosi e litanie. La via principale si riempì di bancarelle colme di “copéte”, torroni, “andriti” (noccioline essiccate ed infilate), mostaccioli, taralli, tarallucci, lupini ed arachidi (noccioline americane), intralciando il traffico reso più intenso e caotico dalla maggiore affluenza di pubblico. Di fronte all’ingresso della casa di Enrico Spinelli, nei pressi della scalinata, il nonno di Amedeo De Marino vendeva neve e gelati. Invero i gelati altro non erano che modesti sorbetti, o poco più, fatti con la neve estratta nei giorni precedenti dalle “nivere” (nevai) della retrostante montagna ed imbevuti di un essenza dolciastra, molto simile ai “rosoli” allora in commercio. I gelati venivano posti in grossi bicchieri aventi il grave inconveniente di essere, in contrasto col volume, di limitatissima capienza. Ciononostante si vendevano a due soldi l’uno, una somma che, grosso modo, corrispondeva a quanto i ragazzi, in occasione della festa, con filo di “andriti”, ricevevano in dono dai genitori e dai parenti. Avvenimento non secondario, anzi eccezionale per quei tempi, la vendita di carni, prevalentemente ovine e caprine, nelle “chianche” (beccherie), improvvisate per la circostanza. Di fronte all’abitazione di Arturo De Vita (“Cazzera”), un biscazziere destreggiava abilmente nel gioco delle tre tavolette, trovando allocchi e creduloni che, ritenendosi più furbi degli altri, 182


tentavano la prova rimettendoci regolarmente doppi soldi e nicheli (venti centesimi). Non mancò all’appuntamento l’orefice Boccia, di Sala Consilina, in passato assiduo di questa festa, che fece buoni affari vendendo collane, spille, anelli ed orecchini, in parte poi offerti alla Madonna. Da “Capammonte” (Cilento) vennero i contadini con la frutta di stagione per barattarla con patate, legumi ed altri generi di alimentari. Apparve anche un nugolo di mendicanti, taluni finti ed eterni ammalati o storpi, in cerca di elemosina, e fra i tanti Michele Asciutto, un povero deficiente, oggetto di ingenerose burle e sberleffi da parte dei ragazzi, che girava le piazze e le fiere dei paesi del Vallo in cerca di un obolo e più di una volta gli capitò, senza mai accorgersene, di ricevere un doppio soldo papalino, come correntemente veniva chiamata la moneta di dieci centesimi del Vaticano, non avente corso in Italia. Di qui il detto: falso come un doppio soldo papalino. Da Polla venne un frate mendicante con la “vertola” (bisaccia) in spalle, bene accolto dalla popolazione. Verso le otto arrivarono, a cavallo, i carabinieri, non più forieri di luttuose notizie, ma come scorta d’onore alla Madonna durante la processione. Dalla campagna e dai paesi vicini si riversò altra gente rendendo oltremodo difficoltoso il traffico, aggravato dal saltuario passaggio degli asini con le “guale” (caratteristiche gerle a larghe maglie fatte con salici ritorti). « Scostatevi, non vi fate male! »>>, avvisavano i contadini, ma gli urtoni si ripetevano con una certa frequenza e non di rado accadeva che qualche ragazzo imprudente capitombolasse fra le zampe dei quadrupedi. L’esattore Ciccio Mangieri ed il fratello Mimì, seguiti da Orazio e Vincenzo Marmo, componenti il comitato organizzatore, a causa della loro mole, faticavano non poco nel fendere la calca ed inconsapevolmente facevano da battistrada agli altri due ed a Mario Mangieri, che dall’alto del suo metro e novanta dominava la folla. La giornata particolare, come d’uso, consentì agli uomini di indossare il vestito della festa ed alle donne, che allora portavano il costume tradizionale, di formare molteplici macchie di colore con le diverse e vivaci colorazioni delle gonne e dei corpetti, che 183


contrastavano con il candore delle ampie maniche delle camicie. Anelli, “sciacquaglie” (grossi orecchini pendoli), collane, “birlocchi” (ciondoli) e spille, tenute per lungo tempo racchiuse nei cassetti, ornavano con dovizia mani, orecchie, petti e colli delle donne. Mentre la moltitudine era gaia e festante, più di trenta famiglie, in gramaglia, se ne stavano chiuse in casa od al lavoro nei campi, pregando per i loro cari non ritornati dalla guerra e lamentandosi per la sorte avversa loro toccata. All’ora della messa la popolazione affluì compatta in chiesa preceduta da alcune donne, mamme e spose di reduci, che in segno di ringraziamento, di penitenza e devozione percossero in ginocchio, la lingua per terra, il tratto compreso fra l’ingresso e l’altare. Queste povere donne scioglievano un voto fatto alla Madonna e mortificavano il loro corpo, indifferenti delle eventuali conseguenze, perché ciò che contava non era loro vita bensì quella dei loro cari, che affidavano alla protezione della Vergine. La messa cantata, officiata da tre sacerdoti, quel giorno fu veramente solenne. Seguì la processione preceduta dal solito codazzo di ragazzi, dal gonfalone, dalle confraternite e dalle “cente” (giglie), portate da graziose giovinette con i capelli sciolti e luccicanti per l’olio profusovi. Subito dopo, accolta dal suono della banda e dallo scampanio delle campane, nella sua sublime maestà, apparve la statua della Madonna, portata a braccia dai reduci, molti dei quali, indossavano, in tutto o in parte, la divisa militare, con a tracolla la bandoliera ed in testa l’elmetto di guerra. La statua della Madonna mai era apparsa così bella, radiosa e sfolgorante, e, nella dolce espressione del volto, dava netta la sensazione di posare lo sguardo su ciascuno e su tutti a protezione dell’intero paese. I fedeli, provati dalla guerra, affamati di giustizia ed assetati d’amore, esprimevano in mille modi la loro devozione ed il loro attaccamento alla Vergine. Molti, in segno di penitenza, seguivano la processione a piedi nudi e tutti col canto magnificavano la verginità e la maternità di Maria. Il canto, variando di poco il tono, continuava osannando: Viva Maria / Maria evviva / Evviva Dio che la creò! Una mamma, allegoria impietrita del dolore per avere avuto il figlio disperso in guerra, in un anelito di speranza e di infinito 184


amore, in ginocchio e con parole strozzate dai singhiozzi, implorava disperatamente: ÂŤ Madonna mia, Madonna mia, fammi la grazia! Fai ritornare mio figlio! Âť. Era la stessa mamma che

Maria SS. del Rosario della Tempa – San Rufo (Salerno)

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qualche tempo dopo, disillusa, con una dolente nenia avrebbe espresso un ultimo desiderio: Fammi la grazia, figlio mio, si puoi riceme ‘nzuonno addò so li resti tuoi! Molte mamme e spose, battendosi il petto, invocando la grazia per la salute di un loro congiunto ritornato mutilato od invalido. La processione durò a lungo, intervallata da frequenti soste dovute ai reiterati spari di batterie coordinati dal comitato organizzatore e da altri predisposti dalle singole famiglie dei reduci in prossimità delle loro abitazioni. Altre soste furono causate dalla generosità di alcuni fedeli che, “modestamente”, vollero “appuntare” personalmente una cospicua offerta alla veste della Vergine in modo che il gesto fosse palese a tutti, ma soprattutto alla Madonna! Debolezze della ingenuità umana! Poco più avanti la piazza, un ragazzo, vestito da bianco angelo alato, fu fatto planare da un balcone e, giunto all’altezza della statua della Madonna, declamò una preziosa preghiera composta dalla maestra De Vita. Inoltre, alla Fontana soprana e alla Tempa, vi fu la sosta d’obbligo per la fotografia di rito. Il fotografo, sordomuto, con ampi gesti delle braccia e delle mani raccomandava di star fermi e tutti, trattenendo il respiro, chissà mai perché, restavano impalati e con gli occhi sbarrati sino al lampeggiare del magnesio. Quella riportata a pag. 111 in «S. Rufo e la sua storia» è una delle fotografie scattate quel giorno. Dietro ed a destra dell’arciprete Maggese, parroco del tempo, è ben visibile, perché si staglia sugli altri, il già citato Mario Mangieri. In primo piano si nota un gruppo di ragazzi, oggi tutti ottantenni, fra i quali chi scrive, vestito di scuro e con la “coppola” in mano. Durante la processione la Madonna fu fatta segno al continuo lancio di petali di rose, di gigli e di “ciccilisanti” (fiori di ginestra). Per l’intero percorso si ripeterono manifestazioni di devozione e mai come in quel giorno furono versate tante lacrime di gioia, di fede e di speranza, tanto che parvero, come in effetti erano, purificazione dello spirito. Nel giorno del ringraziamento e della pace tutti erano compresi della spiritualità di quella festa ed anzi sembrò che non vi fossero più né atei né miscredenti. 186


Verso le ore 15 la statua della Madonna fu riportata in chiesa salutata dallo scampanio delle campane, dal suono della banda e da un’ultima serie di spari di mortaretti. Nel tardo pomeriggio le cantine ed il caffè Greco si riempirono di clienti. Quelli non adusi al vino ed al caffè si soffermarono in Piazza ad ascoltare, attoniti, le gesta dei paladini di Francia ed il doloroso calvario di una donna tradita ed abbandonata che un cantastorie, con l’aiuto di un cartellone, illustrava agli sprovveduti ascoltatori, molti dei quali si affrettarono a tagliare la corda non appena il cantastorie iniziò il giro per raccogliere le offerte. Prima del tramonto la gente si riversò numerosa nell’attuale Piazzetta della Pace per assistere alla conquista di un prosciutto, di una gallina e di bue bottiglie di vino appese all’albero della cuccagna, abbondantemente cosparso di grasso e sapone. Molti furono i concorrenti che si cimentarono, ma solo dopo numerosi tentativi il bottino fu appannaggio di uno smilzo giovanotto, lo stesso che stornellava mentre la moglie veniva “cullata” dal compare e di cui abbiamo fatto cenno in precedenza. La successiva corsa nei sacchi, con frequenti cadute dei concorrenti, provocò grasse risate e discreti premi ai vincitori. A seta tutti affluirono nella Piazzetta della Pace per assistere al concerto della banda prima ed alla proiezione cinematografica dopo e, per tale motivo, più d’uno s’era munito di sediola. Il concerto fu seguito con molta attenzione da tutti, ma l’entusiasmo esplose allorché l’orchestra intonò le note «dell’inno del Piave », di « Funicolì, funiculà » e di « Son tornate a fiorire le rose », canzoni allora in voga e con le quali si concluse il concerto. Subito dopo si spensero le luci, i ragazzi smisero di fare “ammoina” ed ebbe inizio la proiezione cinematografica, avvenimento eccezionale perché si effettuava per la prima volta. Il film, muto naturalmente e con brevi didascalie che chiarivano il dialogo fra i protagonisti, narrava una delicata storia d’amore che provocò qualche facile lacrima in qualche giovinetta innamorata ed in tanti altri, anche se non più giovani, che avevano sofferto le pene d’amore. Al termine di una languida scena, intima per quei tempi ma banale oggi, un lungo bacio fra i protagonisti suscitò forzati colpi di tosse da parte dei giovani mentre le mamme guardavano di sottocchi le figlie per rilevare eventuali reazioni. 187


Protagonista femminile: Pina Menichelli, una diva degli anni venti che con Francesca Bertini faceva strage di cuori sugli schermi. Al termine apparve il fotogramma: «Arrivederci e grazie». Tiempi belli «e ‘na vota!». Ormai la mezzanotte era prossima e la gente si riversò in via Roma, nei pressi della cantina Streppone – oggi bar – per assistere allo spettacolo dei fuochi pirotecnici che, con le girandole, gli scoppi multipli in cielo e conseguenti cadute di miriadi di stelle di svariati colori, suscitò meraviglia ed entusiasmo. Con un triplice potente botto finale si conclusero i fuochi e con questi la festa. Il giorno dopo, più d’uno di buon mattino, tutti ripresero la normale attività. Dolce ed amorevole come sempre, la Madonna della Tempa vegliava su S. Rufo e stendeva il suo manto sui caduti perché il loro riposo fosse confortato dalla benedizione eterna di Dio.

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IL DOPOGUERRA Al termine della prima guerra mondiale, il Paese si trovò ad affrontare una grave crisi economica, in conseguenza anche della cessazione improvvisa degli aiuti economici fino allora forniti dagli Alleati. Contribuirono a rendere più pesante la situazione gli ingenti debiti dello Stato e la crescente svalutazione della lira. Inoltre, violente agitazioni di piazza, che si riaccenderanno frequentemente negli anni successivi, sconvolsero il Paese provocando ripetute cadute di governi. In più occasioni fu necessario ricorrere all’esercito, creando così ulteriori motivi di disordine a carattere antimilitarista. Fu in questo clima che sorse e si sviluppò il fascismo, contribuendo ad altri scontri e ad altri disordini. In una situazione incerta e torbida di eventi, i reduci ritornarono alle loro case senza neanche il conforto di un gesto di solidarietà da parte dei concittadini per quanto avevano fatto in quarantatre mesi di guerra. Anzi, in più occasioni le masse, fomentate dai soliti mestatori, li offesero e vilipesero in modo indegno ed indecoroso. Il rientro dei reduci nelle famiglie, che avrebbe dovuto rappresentare un momento favorevole per il loro inserimento nella vita civile ed assicurare il loro avvenire, si tramutò in mortificazione ed in beffa per la mancata assegnazione della terra, a suo tempo sbandierata e propagandata da Salandra. A mortificarli ulteriormente, vessillifero Francesco Saverio Nitti, giunse l’amnistia ai disertori. La massa dei nostri reduci si trovò così ad affrontare gli stessi problemi che non aveva potuto risolvere prima del richiamo alle armi e che durante la guerra si erano ulteriormente aggravati. Per difendere e tutelare i loro interessi, gli ex combattenti si organizzarono nell’associazione Nazionale Combattenti ed anche a S. Rufo sorse una sezione di tale associazione, retta dall’insegnante e reduce Rosario Somma. Molti problemi che interessavano i reduci in minima parte furono risolti, ma, in maggioranza, a causa della loro complessità, furono soltanto sfiorati. Anche l’inserimento dei mutilati nei pubblici impieghi, tassativamente previsti dalle disposizioni ministeriali allora in vigore, da noi non sempre fu attuato, preferendo, talvolta, tener conto di altri elementi che nulla avevano a che fare con il 189


riconoscimento dovuto a chi ripetutamente aveva esposto in guerra la propria vita. Ad aggravare ulteriormente la situazione nel 1921 i salari furono ridotti del 50% in campo nazionale 1, con pesanti ripercussioni nelle campagne, dove i contadini, il più delle volte, erano costretti a lavorare per un tozzo di pane. Come se tutto questo non bastasse, una grave epidemia, la cosiddetta “spagnola”, infierì anche da noi, provocando altri lutti e sottraendo altre braccia al lavoro perché i colpiti restavano per lungo tempo debilitati. Bene attivi, invece, continuarono ad essere gli imboscati e coloro che – more solito – approfittando della guerra avevano trovato modo di gonfiare le propria borsa. In definitiva soltanto i pezzenti continuarono a rimanere tali e per di più inefficienti per colpa della guerra e della “spagnola”. In questo stesso periodo la famiglia Pellegrini, sistematasi ormai nella capitale, pose in vendita parte dei suoi beni immobili ed altri li porrà in vendita in tempi successivi. Gli acquirenti, piccoli o modestissimi proprietari, trovarono convenienza nell’acquisto mentre i nullatenenti non osarono affacciarsi in forma competitiva per l’impossibilità di ottenere un prestito da chicchessia. Fu questa una boccata d’aria ed il primo passo verso l’emancipazione delle classi più povere e rappresentò l’inizio di una vivace spinta del proletariato a divenire borghesia. La stessa situazione si ripeterà allorché, qualche tempo dopo, anche l’avvocato Giuseppe Mattina porrà in vendita le sue proprietà immobiliari e si trasferì a Salerno. Perdurando una situazione gravida di difficoltà e pesante per i molti problemi da affrontare e da risolvere, amministrare in quel tempo il comune non era impegno da poco. Ciò malgrado, nel 1922, l’amministrazione comunale, retta dal notaio Pasquale Spinelli, riuscì a far portare la luce elettrica a S. Rufo, che, in tal modo, si allineò ai maggiori paesi del Vallo. Dopo secoli di buio, di lanterne e di tizzoni fumiganti, finalmente uno spiraglio, stavolta realmente di luce, si apriva anche per il nostro paese. Spariranno le fioche luci dei lampioni alimentati a petrolio ed apparvero le lampade, che come allora si disse, illuminavano a giorno le strade e le carrale. In effetti 1

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Francesco Perfetti: Storia dell’Italia contemporanea, vol. III .


passeranno molti anni ancora prima che le lampade fluorescenti realmente illumineranno a giorno le vie del paese. Nelle famiglie abbienti scomparvero i lumi a petrolio, le lucerne ed i “cannelieri” per far posto alle lampadine da 25 watt, che, sormontate da un piattello metallico o di vetro dai margini ondulati, venivano appese con un filo al soffitto delle camere. Più tardi saranno impiegati anche i lampadari a più luci e con lampade di maggiore intensità. Le famiglie di modeste condizioni economiche limiteranno l’impiego del nuovo mezzo stipulando con la società elettrica un contratto a forfait, che, col pagamento di un modestissimo canone fisso, consentiva loro l’uso di due sole lampadine di modesta potenza. La massa, costituita dalla povera gente, continuò ad usare la lucerna ad olio e la lanterna non potendosi permettere il lusso neanche il di un modesto contratto a forfait. In tempi successivi anche le famiglie già di misere condizioni si provvederanno di luce elettrica, mentre gli abitanti delle frazioni e dei casolari sparsi nella campagna dovranno attendere ben oltre la fine della seconda guerra mondiale prima di raggiungere lo stesso scopo. Altro avvenimento importante di questo periodo fu l’apertura del nuovo cimitero, ad un chilometro a sud-ovest del paese, in contrada Pianomarino, avvenuta nel 1925. Sino allora le casse funebri – i cosiddetti “tavuti” – venivano portati in testa da una coppia di donne seguendo la mulattiera che da S. Antonio portava alla Tempa prima ad al cimitero dopo. Con l’apertura del nuovo cimitero si fece un modesto passo avanti nel trasporto dei morti: le casse venivano poste su una carretta! In occasione dell’apertura del nuovo cimitero non si provvide all’esumazione di tutti i morti del vecchio cimitero, lasciando l’iniziativa alle singole famiglie. Per tal motivo non fu possibile utilizzare il terreno per altra destinazione a causa del divieto opposto dalla prefettura, che, giustamente, pretendeva che l’esumazione fosse completa. Con il tempo le mura di recinzione rovinarono e poi spariranno del tutto, così come spariranno le croci, i marmi ed i cancelli, ed il vecchio camposanto divenne luogo di pascolo di capre e pecore e, qualche volta, campo da gioco dei ragazzi! Eravamo già in piena era fascista, ma né allora né dopo fu fatto nulla. 191


A proposito del periodo littorio, ci asterremo dell’esaminare le cause che portarono all’avvento e all’affermazione del fascismo, ché non è nostro compito, ma riteniamo opportuno dare un breve cenno sul fascio di S. Rufo.

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IL FASCIO DI COMBATTIMENTO Senza voler fare dell’umorismo di bassa lega, possiamo affermare che a S. Rufo il fascismo giunse a cavallo e si volatilizzò in una notte vent’anni dopo. Un pomeriggio dell’ottobre 1922 i contadini, che lavoravano nei campi ai lati della mulatteria della Tempa, videro transitare a cavallo una quindicina di giovani in camicia nera, senza giacca e con in testa un cappello alla Tom Mix. Quella brava gente, ignorando quanto era avvenuto ed avveniva in tutta la penisola, pensò che quei giovani ritornassero dal cimitero dove, forse, erano stati ad accompagnare un loro parente defunto e perciò più d’uno ritenne opportuno segnarsi, aggiungendo: «Pace all’anima sua». Quei baldi giovani, capeggiati dal capitano D’Alessio, erano fascisti provenienti da S. Pietro al Tanagro e diretti a S. Rufo. Giunti in piazza, il capitano, smontato da cavallo, si recò in municipio per apparire poco dopo al balcone assieme al sindaco. Ai pochi astanti, che, come al solito, vagabondavano nei pressi del barbiere e del sale e tabacchi, il capitano D’Alessio ed il sindaco Spinelli spiegarono gli scopi del movimento fascista e le «mète radiose» che l’Italia avrebbe raggiunto sotto la guida del «duce insonne». Dopo ripetuti “alalà” all’indirizzo del duce, dell’Italia immortale, del sindaco e di S. Rufo fascista, la squadra delle camicie nere prese la via del ritorno al canto di « Giovinezza ». Sorse così il fascio locale, che ebbe per primo segretario lo pseudo-farmacista Palladino Francesco, alias Ciccio Libretti, e per ultimo l’insegnante Rosario Somma. Inizialmente la farmacia, in quel tempo dislocata accanto al bar De Marino, fu anche la sede del fascio. Successivamente fu sistemata in Via Roma, nella casetta di proprietà di Orazio Marmo, poi abbattuta per far posto alla Piazzetta della Pace. Nei primi tempi non vi fu la corsa per iscriversi al fascio, né vi fu distribuzione di olio di ricino, che si usava far trangugiare agli avversari politici, né fu usato il manganello come mezzo persuasivo, forse perché a S. Rufo non vi erano attivisti quali gli “antemarcia” e “sciarpa littorio”, termini usati per indicare coloro che vantavano l’iscrizione prima o all’epoca della marcia su Roma, alla quale avrebbero partecipato. 193


In definitiva, ad incominciare da Ciccio Libretti, si trattava di brava gente, anche se di tanto in tanto spuntava qualche elemento animato da spirito costituzionalmente “zelluso” (attaccabrighe). Più d’uno, fiutato il nuovo corso, ancor prima che per talune categorie divenisse obbligatorio, aveva ritenuto opportuno iscriversi al fascio ed acquistare una camicia nera, utilizzabile, fra l’altro, in caso di grave lutto familiare. L’uniforme dei fascisti locali non andò più in là della camicia nera, che veniva indossata con gli abiti borghesi, e del fez, il copricapo che i fascisti avevano ereditato dagli arditi. Stivaloni, sahariana ed orbace, indumenti indispensabili per apparire formalmente fascisti, per ragioni di economia, furono costantemente ignorati, per cui possiamo affermare che il fascio locale nacque, crebbe e morì all’insegna del risparmio. A breve distanza di tempo, quando cioè la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale entrò a far parte delle Forze Armate, S. Rufo ebbe la sua squadra di militi. Il caposquadra Antonio Esposito (Marzo) ne assunse il comando, che tenne per l’intero ventennio. Allorché furono istituiti i corsi premilitari i militi si assunsero il compito dell’istruzione dei giovani. L’istruzione, di norma, si effettuava nel pomeriggio del sabato, il cosiddetto «sabato fascista», così chiamato in contrapposizione al «sabato inglese». I premilitari, pur non costituendo una vera e propria armata Brancaleone e malgrado si sforzassero di «fare la faccia feroce», davano l’impressione di essere dei naufraghi in vista della terra ferma. I ragazzi e le ragazze furono inquadrati nella G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) ed avemmo i «figli della lupa», i «balilla», gli avanguardisti, le «piccole italiane» e le «giovani italiane». I rapporti tra il fascio ed il podestà – fascista naturalmente – non sempre furono idilliaci, anzi più di una volta, usando il metodo del colpetto alle spalle, parvero tesi. Si rinverdiva così un’antica tradizione di rivalità e contrapposizione, che, sia pure in forme diverse, si rinnoverà nel tempo. Soltanto quando Orazio Marmo fu podestà del paese vi fu un periodo di tregue e di armonia. Il clima austero dell’Italia fascista imponeva alle camicie nere un aspetto guerriero, fatto di iattanza e di autoritarietà, e perciò non di rado qualcuno faceva la voce grossa in base al principio balordo che ha ragione chi urla di più. 194


Tolta qualche alzata di testa, in definitiva ognuno continuò a fare il proprio comodo. Nessuno chiese di voler indossare la camicia nera sul letto di morte, così come altrove disponeva qualche «fedelissimo della prima ora». Durante il periodo bellico le autorità fasciste, che avevano il compito di controllare l’esatta applicazione delle norme annonarie, in più di un’occasione entrarono in guerra con i negozianti, ma non vi furono né morti né feriti! Allorché il 25 luglio 1943 cadde Mussolini, a S. Rufo i fascisti si volatilizzarono. Nessuno era od era stato fascista, tutti avevano fatto la fronda anche durante il «periodo imperiale», quando, cioè, il fascismo aveva trovato consensi in Italia e all’estero. Ciò non deve meravigliare perché la stessa cosa si ripeté in tutta l’Italia. Purtroppo in quella occasione si verificò un increscioso, deplorevole incidente a danno del podestà Orazio Marmo. Con la caduta del fascismo ed il ripristino delle libertà democratiche fu abolita la carica di podestà e ripristinata quella di sindaco. Il notaio Spinelli, che era stato il primo podestà, fu anche il primo sindaco del postventennio. Non sta a noi, in questa sede, esaminare eventuali meriti e demeriti del fascismo, ma non possiamo non ricordare i provvedimenti a favore della maternità e dell’infanzia adottati durante il ventennio. Di questi ultimi vogliamo accennare all’istituzione delle colonie marine per i figli delle famiglie meno abbienti. I ragazzi, figli di contadini e di povera gente, che non avevano mai visto il mare e che per le misere condizioni delle famiglie si crescevano gracili e pallidi, al termine del mese trascorso al mare, ritornavano a casa palesemente rinvigoriti nel fisico e liberi della timidezza e ritrosia di chi è sempre vissuto isolato in campagna. In definitiva, a S. Rufo il fascismo fece una rapida apparizione, si espresse, secondo le direttive gerarchiche, in saltuarie manifestazioni formali, e scomparve senza aver fatto male a nessuno e senza aver recato alcun reale vantaggio al paese.

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LA CAMPAGNA IN AFRICA ORIENTALE Alla fine della seconda guerra mondiale le potenze europee si spartirono le colonie tedesche, impinguando il notevole bottino di colonie che già possedevano in Africa e in Asia. L’Italia, rimasta esclusa dalla spartizione, con le sue tre colonie – Eritrea, Somalia e Libia – considerate poco più che scatoloni di sabbia, si venne a trovare in condizioni di inferiorità e di disagio a causa dei crescenti bisogni derivanti dal continuo aumento della popolazione. L’incidente ai pozzi di Ual Ual, nell’Ogaden, ai confini con l’Etiopia, fu il motivo pretestuoso ed occasionale che indusse l’Italia, a fini espansionistici, a muovere guerra all’Abissinia. Alla preparazione materiale, fatta con dovizia di mezzi, si accompagnò una intensa e capillare propaganda e per la prima volta nella storia d’Italia si ebbe un notevole afflusso di volontari per partecipare alla guerra. Anche S. Rufo diede un solido contributo di volontari e di richiamati che affluirono nelle divisioni dell’Esercito ed in quelle della Milizia, destinata al fronte eritreo. Le operazioni iniziate il 3 ottobre 1935, portarono subito (4 ottobre) all’occupazione di Adigrat, Enticciò, Adua (6 ottobre) ed Axum. Un mese dopo (6 novembre) veniva raggiunta Macallé. Dopo i combattimenti di Debenguinà e del Tembien (15-22 dicembre) si ebbe la prima battaglia del Tembien. Seguirà una seconda battaglia del Tembien, poi quella dello Scirè ed in ultimo la marcia e l’occupazione di Gondar. Per ragioni di brevità, accenneremo, in sintesi, alle operazioni del I C. d’A., ala sinistra dello schieramento italiano, dove, nella divisione “Sabauda”, era impegnato un nostro giovane ufficiale, volontario in A.O., e nel gruppo CC.NN. “Diamante” un nucleo di legionari volontari sanrufesi. Dal 10 al 12 febbraio 1936 si combatté la battaglia dell’Endertà per la conquista dell’Amba Aradam (m. 1700), presidiata dalle truppe di ras Mulaghetà, ministro della guerra etiopico. Un attacco contro l’ala sinistra del nostro schieramento, costituito dal 46° regg. Fanteria “Sabauda”, il giorno 11 fu respinto ad Addì Achitì con gravi perdite del nemico, che ripiegò in direzione sud. 196


Il 18 febbraio, inseguendo il nemico in ritirata, le nostre truppe raggiunsero l’Amba Alagi (m. 3100), il passo Aià (m. 2910) ed il passo Falagà (m. 3100), pronte a rintuzzare l’attacco che le truppe del negus, con alla testa la guardia imperiale, in marcia verso nord, il 31 marzo avrebbero mosso a nord di Mai Ceu (battaglia di lago Ascianghi), fra il passo Mecan orientale e l’omonimo passo occidentale. Battute in una battaglia difensiva prima e controffensiva dopo, le truppe etiopiche, dopo ingenti perdite subite, ripiegarono abbastanza ordinatamente sull’Amba Ezbà per poi ritirarsi precipitosamente, sbandandosi, non appena si accorsero di essere state abbandonate dal negus. All’inseguimento che ne seguì, il nostro ufficiale, che comandava gli esploratori del 46° regg. Fanteria, raggiunse Quoram la mattina del 6 aprile, due ore dopo che l’imperatore era fuggito in direzione di Dessiè prima e di Addis Abeba dopo. A Quoram, dove secondo gli abissini, iniziava la strada imperiale (poco più di una mulattiera segnata ai margini da una fila di pietre), si formò la colonna motorizzata che nel pomeriggio del 5 maggio raggiunse ed occupò Addis Abeba (Nuovo Fiore) a 2400 metri di altitudine. Il giorno 8 il secondo battaglione del 46° regg. Fanteria, di cui faceva parte la compagnia comandata dal nostro ufficiale, attraverso la ferrovia Addis Abeba – Gibuti raggiunsero Dire Daua, al confine con la Somalia francese ed ai margini della Dancalia, dove avvenne il congiungimento delle truppe del fronte nord con quello del fronte somalo. La guerra era finita. Il giorno dopo Mussolini annunziava al popolo italiano, delirante su tutte le piazze, l’avvento dell’impero «sui colli fatali di Roma». Analoghe manifestazioni di giubilo si verificarono a S. Rufo. La campagna in Africa Orientale si era svolta in un clima di entusiasmo che aveva pervaso tutta la nazione e l’occupazione dell’Etiopia, ad eccezione della regione Galla – Sidamo, malgrado la vastità del territorio (distanza fra Asmara ed Addis Abeba: 1.100 Km.) era stata compiuta nello spazio di sette mesi. A guerra finita molti combattenti rimasero in Africa, altri vi ritornarono. Purtroppo non ritornarono in Patria i caduti e fra questi i nostri concittadini: 197


- C. N. – Marmo Giuseppe di Giovanni, del IV btg. CC. NN ., deceduto il 21/1/1936 a Mai Berat (passo Uarieu). - C. N. – Stabile Carmine fu Giovanni, deceduto in patria per malattia contratta in A. O. - C. N. – Streppone Luigi fu Giuseppe, deceduto il 2/9/1935 nell’ospedale da campo n. 18. E’ il caso di ricordare che la Società delle Nazioni, inutilmente aveva tentato di far desistere l’Italia dall’intraprendere le operazioni contro l’Etiopia, e perciò aveva decretato di applicare sanzioni economiche contro di noi. In effetti le sanzioni furono puramente formali, ma l’affronto fu immortalato sulla facciata di tutti i comuni d’Italia con apposita lapide. Alla caduta del fascismo le iscrizioni furono scalpellate, ma le lapidi rimasero. Quella del comune di S. Rufo, in seguito alla demolizione del vecchio municipio danneggiato dal terremoto del 23 novembre 1980 è andata dispersa.

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L’ACQUEDOTTO Quasi a voler solennizzare «il ritorno dell’impero sui colli fatali di Roma», senza strombazzamenti, ma con evidenti e chiare manifestazioni di soddisfazione dell’intera popolazione, a distanza di circa trenta anni dalla sua impostazione, S. Rufo vide finalmente risolto il problema idrico, che era stato sogno ed aspirazione di intere generazioni. S. Rufo, da tempo immemorabile, disponeva di un fontanino, sito al di sotto dell’attuale piazzetta della Pace, che lo scarso afflusso di acqua rendeva insufficiente ai bisogni più elementari della popolazione. Vi era poi la Fontana Sottana, dislocata a valle della via Filomeno Pellegrini, ma l’acqua non era potabile, il che non impediva ai ragazzi ed alle mamme indaffarate di utilizzarla. La maggioranza della popolazione si riforniva d’acqua alle sorgenti della Grotta e della Finocchiara e presso queste due fonti normalmente lavava la biancheria. Per quest’ultima necessità, qualcuno si spingeva sino alle sorgenti del torrente Marza (Abbottaturo). Pochi fortunati potevano avvalersi dell’acqua dei pozzi esistenti nelle case o nei relativi cortili. In una situazione del genere era inevitabile che non infrequentemente si verificassero casi di tifo. Prima di cedere ad altri le redini del Comune, il sindaco Filomeno Pellegrini si era posto il problema della soluzione del rifornimento idrico, ma i tempi non erano ancora maturi per affrontarlo e risolverlo. Non mancò, però, di richiamare sull’argomento l’attenzione del suo successore, il notaio Pasquale Spinelli, che incoraggiò con consigli e suggerimenti, ed uno dei primi problemi che il nuovo sindaco affrontò fu proprio questo. Infatti nel 1911 il Comune incaricò l’ingegnere Enrico Padula, di Padula, di effettuare una ricognizione delle varie sorgenti esistenti nel territorio di S. Rufo per stabilire dove fosse conveniente captare le acque. L’11 settembre il professionista presentò una relazione nella quale, esclusa la convenienza di utilizzare le acque della Grotta, della Finocchiara, dell’Acquafredda e dell’Orefice, veniva posto in rilievo la opportunità di sfruttare le acque della Forra della Mola, a nord-est di S. Rufo. La Forra, distante circa tre chilometri dal paese, si trova in una valle rimboschita di faggi, sulle pendici meridionali 199


dell’altipiano degli Alburni, il cui terreno è di natura calcareoargillosa. In base a tale indicazione fu subito inoltrata domanda intesa ad ottenere l’autorizzazione della spesa da parte dell’autorità tutoria e la concessione di un mutuo dalla Cassa Depositi e Prestiti. In data 2 maggio 1915 il Comune, che già aveva ottenuto l’autorizzazione dalla Prefettura, ebbe il mutuo di lire 67.000 ed il 18 dicembre successivo fu affisso l’avviso per l’appalto dei lavori per un importo, a base d’asta di L. 57.738,79. Frattanto, a causa della guerra, si era avuta una lievitazione nei prezzi dei materiali, la manodopera era notevolmente aumentata ed in conseguenza la gara andò deserta, né i lavori furono più appaltati. Terminata la guerra, dopo il periodo turbolento compreso fra il 1919 ed il 1922, allorché la situazione interna sembrò normalizzarsi, il Comune, in data 10 maggio 1925, interessò nuovamente l’ingegnere Padula perché il progetto fosse aggiornato. La nuova spesa fu preventivata in L. 373.800. Per ragioni burocratiche e la necessità di riottenere il prestito dalla Cassa Depositi e Prestiti, l’iter andò per le lunghe per cui nel 1930 fu necessario riaggiornare il progetto. Nelle more l’autorità tutoria non autorizzò l’esecuzione dei lavori a causa della proposta di alcuni concittadini di captare, per ragioni di economia, le acque della Finocchiara anziché quelle della Mola. Successivamente intervenne il Provveditorato alle Opere Pubbliche della Campania che avrebbe voluto utilizzare le acque della Finocchiara e quelle della Valle Salice allo scopo di assicurare il rifornimento idrico anche ai comuni di S. Pietro al Tanagro e S. Arsenio. C’è da precisare che in tempi abbastanza recenti l’acqua della Finocchiara è risultata inquinata e quindi non potabile. Dimostratisi irrealizzabili, per motivi economici e motivi pratici, le due proposte furono accantonate ed il Comune incominciò daccapo l’iter burocratico per definire una buona volta l’annoso problema che ormai si protraeva da circa vent’anni. Dopo ulteriori proposte ed aggiornamenti, il progetto fu approvato e finalmente il 22 luglio 1933 fu stipulato il contratto con la Società Italiana Industriale Idrauliche. Subito ebbero inizio i lavori che, per ragioni di forza maggiore, venivano sospesi durante i periodi invernali. 200


La federazione fascista di Salerno, venuta a conoscenza dei lavori in corso, si premurò di raccomandare al Comune che, a completamento avvenuto, l’inaugurazione dell’opera si sarebbe dovuta effettuare sotto la data fatidica del 28 ottobre, anniversario della «marcia su Roma». Poiché eravamo in periodo di clima imperiale – un mese prima a Roma vi era stata la sfilata per solennizzare il primo anniversario della fondazione dell’impero – quella sarebbe stata l’occasione favorevole per brindare alle immancabili fortune della Patria. Sia pure a distanza di circa 26 anni, S. Rufo aveva risolto il problema del rifornimento idrico mentre altri paesi del Vallo, compresa Sala Consilina, dove l’erogazione dell’acqua veniva limitata a poche ore giornaliere, avrebbero dovuto attendere molto tempo ancora, continuando a bere l’acqua dei pozzi e delle cisterne. Agli inizi soltanto poche famiglie chiesero ed ottennero l’allacciamento dell’acqua alle proprie abitazioni, ma le richieste aumentarono progressivamente, soprattutto a distanza di qualche tempo dal termine della seconda guerra mondiale. In conseguenza si ebbe un ridotto afflusso d’acqua nei rioni occidentali mentre le abitazioni a monte del paese vennero ad esserne completamente escluse. Nel 1964 il Provveditore per le Opere Pubbliche della Campania dispose per l’attuazione di un piano regolatore generale degli acquedotti e quattro anni dopo entrò in funzione la nuova rete idrica che comportò una spesa di circa venti milioni. Contemporaneamente ed in parallelo venne realizzata la rete fognante interna, successivamente completata da quella esterna con conseguente copertura dei meandri che attraversavano la campagna. Con il trasferimento, nel 1978, della gestione idrica al Consorzio dei Comuni per gli acquedotti del Cilento fu risolto, senza limitazione alcuna, il problema della erogazione interna dell’acqua. Successivamente, analogo provvedimento in favore della popolazione rurale e le frazioni, ottenuto – come vedremo – strade, energia elettrica e acqua, cessarono di essere le Cenerentole del paese, mentre il telefono rompeva definitivamente l’isolamento che sino allora le aveva caratterizzate. 201


LA SECONDA GUERRA MONDIALE La creazione dell’Impero aveva ingenerato in Italia un senso di euforia, solo in parte attenuato dal nostro intervento nella guerra civile di Spagna. Successivamente, un’alleanza innaturale creò le premesse per l’intervento nella guerra scatenata da Hitler nel settembre del 1939. Il periodo di «non belligeranza», accolto con sdegno dall’ala estremista fascista, ma bene accettata alla maggioranza degli italiani, fu troppo breve per poter completare la preparazione ed i mezzi delle forza armate. Si è detto, ed è in parte vero, che la guerra in A. O. prima e quella di Spagna dopo avevano depauperato notevolmente i mezzi dell’esercito, ma in effetti la reale deficienza era rappresentata dal mancato aggiornamento dei mezzi idonei ad affrontare una guerra moderna a livello mondiale. Già in Spagna tale deficienza, specie in carri armati, artiglierie, mezzi controcarro, contraerei, di collegamento e di trasporto era apparsa sin troppo evidente e ciò non a causa della guerra in A. O., ma nel mancato potenziamento ed aggiornamento dei mezzi così come invece da tempo avevano fatto Germania, Inghilterra, Francia, Stati Uniti e Russia. I successi strepitosi ottenuti dalla Germania in Polonia, in Olanda, nel Belgio ed in Francia fecero ritenere che la guerra avrebbe avuto rapido corso e si sarebbe conclusa nello spazio di pochi mesi. Di qui la decisione di Mussolini di intervenire per potersi sedere al tavolo della pace in condizioni di parità con la Germania. La dichiarazione di guerra alla Francia ed all’Inghilterra fu accolta, apparentemente, con entusiasmo dalle masse adunate per l’occasione nelle piazze, ma con molte riserve dai benpensanti che temevano le disastrose conseguenze di una guerra non sentita e non voluta dal popolo. Il non volere la guerra non significava che non si dovesse fare, o che si dovesse disertare, e le forze armate assolsero dignitosamente il loro compito, con spirito di sacrificio ed alto senso del dovere. Lo testimonia, a differenza di quanto talvolta era accaduto nella prima guerra mondiale, l’assenza di casi di autolesionismo, ammutinamento e diserzione. Indipendentemente dalle forze dislocate in A. O., che non avrebbero potuto ricevere alcun apporto dall’Italia, l’estendersi del conflitto portò le forze italiane, frazionandole, a combattere in Africa settentrionale, in Grecia, in Jugoslavia ed in Russia, 202


allontanandole a dismisura dalle loro naturali basi logistiche e rendendo, conseguentemente, aleatori i rifornimenti. Veniva così ad essere tenuto in non cale uno dei principi dell’arte della guerra: quello della massa. In Russia, dove l’equipaggiamento “autarchico”, cioè poco efficiente, era stato calcolato in vista di temperature sui 25 gradi sotto zero, mentre per la prima volta dopo centoquarant’anni si ebbero punte di 50 gradi sotto zero, le nostre truppe si trovarono a dover affrontare avversità atmosferiche oltremodo eccezionali. Ciononostante i nostri soldati si batterono da leoni, ma furono poi sopraffatti dai russi in conseguenza della maggior potenza delle loro armi, dello schiacciante numero di uomini e mezzi nonché del cedimento delle truppe tedesche e rumene. In proposito, merita di essere ricordato il comportamento del caporale Carmine Calceglia, nostro concittadino, effettivo al 3° reggimento Bersaglieri, decorato dai tedeschi il 25 giugno 1942 con la «deutsche verdienstmedaille mit schwertern». Allo stesso graduato il 7 luglio 1942 veniva concessa la medaglia di bronzo al V. M. con la seguente motivazione: «Elemento di una squadra di scorta a genieri incaricati della posa di mine, investito dallo scoppio accidentale di una di esse, incurante di sé, si prodigava coraggiosamente al trasporto entro le nostre linee dei camerati feriti. Volontariamente partecipava, indi, di giorno e di notte, alla ricerca ed al recupero dei caduti, strisciando, con sereno sprezzo del pericolo, sul campo minato sorvegliato dal nemico». Groko Tjmolejewskij (fronte russo) 6-7 luglio 1942. Il valoroso caporale Calceglia il 23 agosto 1942 cadeva in combattimento a q. 232 a nord di Yagodyni (Don). Nella seconda metà di novembre del 1942 i sovietici scatenarono una violenta offensiva contro di noi lungo la linea del Don. Il cedimento dei rumeni prima e di un corpo corazzato tedesco dopo, schierati ai lati dell’ARMIR, coinvolsero anche le truppe italiane. L’11 dicembre s’intensificò l’azione dei russi contro l’intero fronte del Don senza che vi potesse essere una consistente reazione da parte nostra e dei tedeschi. La tragedia dei reparti italiani si concluse soltanto verso la fine di febbraio 1943. Pochi i superstiti e molti i morti ed i dispersi che non ebbero neanche il conforto di una cristiana sepoltura. Sul fronte dell’Africa settentrionale (Libia) le truppe italo – tedesche, dopo una serie di successi e di ripiegamenti, furono 203


sopraffatte dalle preponderanti forze corazzate britanniche del generale Montgomery e successivamente costrette alla resa in Tunisia il 14 maggio 1943. In precedenza le truppe italiane in Etiopia avevano cessato la lotta sulla storica Amba Alagi, cosparsa di morti e di feriti. Al cedimento per esaurimento delle forze italo–tedesche in Africa settentrionale aveva contribuito il mancato afflusso di rifornimenti a causa della lotta portata dai sottomarini ai nostri convogli navali. Durante l’affondamento della nave da trasporto “Conte Rosso”, avvenuto il 14 maggio 1941, persero la vita i nostri con cittadini: Amedeo Capozzoli, figlio unico di madre vedova, e Raffaele Stabile. Per la prima volta nella storia, la guerra sin dagli inizi aveva coinvolto le popolazioni civili con ripetuti e violenti bombardamenti aerei. In una situazione grave di eventi e di costante pericolo, nel fronte interno le sempre più pesanti restrizioni alimentari favorirono l’insorgere e l’affermarsi del «mercato nero», con prezzi proibitivi a causa anche della crescente inflazione provocata dal dispendio bellico e dalla mancanza di circa due milioni di uomini sotto le armi. Tutte queste cause provocarono un lento, progressivo malcontento nella popolazione che addebitava al fascismo la causa di tutti i mali e non infrequentemente era possibile sentir mugugnare: «purché cada il fascismo non importa che si perda la guerra». L’invasione della Sicilia da parte delle forze anglo-americane e la minacciata invasione del resto della penisola accelerarono la caduta del fascismo, che avvenne il 25 luglio 1943. Con la caduta del fascismo finiva ignominiosamente il mito della infallibilità del duce. La caduta di Mussolini provocò l’immediato afflusso in Italia di notevoli contingenti di truppe corazzate tedesche, creando una situazione oltremodo disagevole ai nostri danni, perché l’Italia, che aveva subito notevoli perdite in uomini e mezzi in Etiopia, in Africa settentrionale ed in Russia, aveva la maggioranza delle truppe dislocate in Grecia, in Albania, nel Montenegro, in Croazia ed in Francia per cui il rapporto delle forze era nettamente a noi sfavorevole. Quando l’8 settembre fu dichiarato l’armistizio si verificò ciò che era facile prevedere. I tedeschi, che occupavano i punti 204


strategici del Paese, ebbero il sopravvento sulle scarse forze italiane, i cui componenti per evitare l’internamento in Germania si sbandarono. Pochissimi furono i nostri reparti che, stretti in una morsa fra anglo-americani ed i tedeschi, riuscirono a salvarsi restando uniti intorno ai loro ufficiali e alle loro bandiere. E’ qui il caso di ricordare i reparti della divisione “Mantova”, di cui faceva parte il 1° battaglione del 114° reggimento Fanteria, comandato da un nostro concittadino, trentatreenne ufficiale superiore, che tenne interrottamente quel comando per quattro anni, e col quale partecipò poi alla guerra di liberazione. La tragedia delle truppe italiane ebbe ancor più gravi conseguenze in Grecia ed in Jugoslavia e soprattutto nell’isola di Cefalonia dove la divisione Acqui fu completamente massacrata dai tedeschi. Per quanto riguarda gli avvenimenti svoltisi a S. Rufo, è da ricordare che nell’agosto del 1943 un nucleo di collegamento della 7° Armata, composto da un colonnello, due maggiori, tre capitani ed una quarantina di soldati, prese stanza in paese. Il comando si sistemò nel municipio sloggiando il podestà ed il relativo personale che si trasferirono provvisoriamente nella sede del fascio. Sempre nel settore di S. Rufo, due batterie contraeree tedesche, dislocate una a valle del Piano Marino e l’altra in contrada Rielle, nel ripiegamento che seguì la dichiarazione di armistizio lasciarono sul posto parte delle rispettive sante Barbare. Qualche tempo dopo due nostri concittadini: Francesco Guarino e Luigi Salvioli, il primo a sud del Piano Marino ed il secondo a Rielle, persero la vita nello smontare alcuni proiettili da 88 mm. Sempre nella nostra zona, aliquote delle divisioni corazzate tedesche Gòring e 26°, quest’ultima già parzialmente di stanza a sud del settore del primo battaglione del 114° reggimento Fanteria, di cui abbiamo fatto cenno in precedenza, ripiegarono seguendo la strada di arroccamento: S. Marzano, S. Rufo, bivio Roscigno, valle del Sele (S.S. 166), dove successivamente combatterono contro la 5° Armata americana comandata del gen. Clark. Nel passare da S. Rufo, more solito, i tedeschi si impossessarono degli automezzi del nucleo della 7° Armata.

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Le prime truppe alleate che raggiunsero il nostro paese appartenevano alla brigata canadese “Prince Edward”, costituita da elementi difficilmente classificabili gentiluomini. Alla guerra di liberazione parteciparono poi cinque nostri Gruppi di Combattimento (divisioni): Cremona, Legnano, Friuli, Mantova e Folgore, contribuendo alla liberazione dell’Italia dai tedeschi. Al termine della guerra mancavano i seguenti concittadini, caduti nell’assolvimento del dovere: - artigliere Angione Antonio di Francesco. Deceduto in prigionia (Tunisia) il 22-12-1942. - fante Caiafa Pietro di Giovanni. Caduto a Livorno nel 1942 in seguito a bombardamento aereo. - caporale Calceglia Carmine di Giuseppe. Effettivo al 3° reggimento Bersaglieri, caduto il 23-8-1942 a nord di Yagodyni (Don) - geniere Capozzoli Amedeo fu Giuseppe. Deceduto il 14-5-1941 in seguito ad affondamento nel Mediterraneo della nave da trasporto “Conte Rosso”. - fante Capozzoli Cono fu Vito. Deceduto il 10-1-1946 in patria in seguito ad infermità contratta in zona di operazione. - fante Carrano Carmine fu Rosario. Deceduto il 22-11-1942 all’O. M. di Napoli. - fante Giuliano Giuseppe fu Francesco. Deceduto in patria in seguito ad infermità contratta in guerra. - fante Marmo Antonio fu Giuseppe. Effettivo all’11° regg. Fanteria. Caduto durante l’internamento in Germania il 5-41944 in seguito a bombardamento aereo. - fante Marmo Pasquale di Giuseppe deceduto il 17-2-1942 per malattia contratta in guerra. 206


- fante Marmo Rosario fu Giovanni. Effettivo al 12° regg. Fanteria. Caduto in combattimento (Albania) il 17-12-1940. - fante Pagano Vito Antonio di Giovanni. Effettivo al battaglione complementi del 277° regg. Fanteria (divisione “Vicenza”). Disperso in Russia sul fronte del Don fra il dicembre 1942 ed il gennaio 1943. - 1° aviere Scaliati Emilio di Antonio. Caduto nel cielo della Grecia il 20-1-1941. - fante Salvioli Pasquale di M. Angelo. Caduto e dato per disperso probabilmente durante un bombardamento aereo. - capitano Spinelli Alfonso di Pasquale. Effettivo al 1° regg. Bersaglieri della divisione “Ariete”. Deceduto in patria il 13-71946 per malattia (ameba) contratta in Africa settentrionale. - s. ten. Spinelli di Pasquale. Effettivo al 39° Fanteria (divisione “Bologna”) caduto in combattimento il 27-11-1941 a Carmuseht Baludehah (Africa Sett.). - carabiniere Stabile Raffaele di Giuseppe deceduto il 14-5-1941 in seguito ad affondamento nel Mediterraneo della nave da trasporto “Conte Rosso”. - bersagliere Stabile Ersilio fu Giuseppe effettivo al 3° regg. Bersaglieri. Nel 1942 dispero in Russia. - fante Stabile Luigi di Rosario effettivo al 341° regg. Fanteria. Deceduto il 9-9-1943 nell’isola di Creta durante il bestiale eccidio da parte dei tedeschi. - fante Tierno Domenico fu Francesco. Effettivo al 16° regg. Fanteria. Disperso nel 1942 in Russia sul fronte del Don. Sul momento ai caduti figurano anche i nomi di Coiro Arsenio fu Luigi e D’Elia Antonio di Cono, entrambi sposati a S. Rufo, ma, rispettivamente di S. Arsenio e di Teggiano. Anche nel secondo conflitto mondiale avemmo mutilati e feriti. Ricordiamo i nomi dei mutilati: 207


- Abatemarco Antonio fu Domenico. Carabiniere ausiliare. Grande invalido mutilato dalla vista durante le quattro giornate di Napoli nel settembre 1943. - Calceglia Giovanni di Giuseppe fratello di Carmine caduto sul Don. Effettivo al 39° regg. Fanteria. Mutilato dell’avambraccio sinistro ad El Alamein. - Marmo Giuseppe di Antonio mutilato di quattro dita in Russia. - Maggese Nicola di Giuseppe. Effettivo al 42° regg. Fanteria. Gamba sinistra anchilosata. - Stabile Luigi fu Filippo. Braccio sinistro anchilosato. La seconda guerra mondiale si era conclusa con un immane bilancio: circa 40 milioni di morti ed innumerevoli danni materiali in tutti i paesi belligeranti. Calava così il sipario sul più tragico evento della storia con la latente minaccia, in parte attuata in Giappone, di un mezzo ancor più micidiale e distruttivo: l’arma atomica.

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IL SECONDO DOPOGUERRA Terminata la guerra, i primi a ritornare in patria furono i nostri soldati catturati ed internati in Germania dopo l’8 settembre ’43. Spettri di uomini che avevano subito la fame l’ira, ed il livore teutonico per non essersi piegati a prestar servizio nei reparti della Repubblica Sociale. Il loro rientro avvenne a mezzo di convogli organizzati dagli Alleati. Seguì il rientro dei prigionieri in mano degli inglesi, francesi ed americani. Quasi tutti indossavano cappotti tre quarti, di colore verde bottiglia, col collo a scialle, privi di qualsiasi forma e distintivo militare. Ultimi a rientrare dopo lunga e mortificante detenzione furono i prigionieri in mano dei russi, inappuntabili nelle uniformi anche se lise e scolorite. Il calvario di questi nostri fratelli era stato lungo e doloroso per aver dovuto sopportare anche condizioni climatiche torride, gelide o malsane tanto diverse dalle nostre. E’ il caso dei prigionieri internati in India, in Russia, in Tunisia ed in Algeria. Molti furono maltrattati e perseguitati e qualcuno, è il caso dell’artigliere Antonio Angione, vi perse la vita. Quelli provenienti d’oltremare, giunti nei porti dai quali erano partiti, si trovarono davanti ad uno spettacolo impressionante di rovine. Avevano lasciato l’Italia pulita ed ordine e trovarono un ammasso di macerie. Essi si aggiravano attoniti per le strade irriconoscibili e purtroppo assistevano a spettacoli di servilismo verso gli Alleati non degni di un popolo civile e geloso custode delle sue tradizioni. A Salerno su un barcollante spuntone di muro appariva monco l’imperativo del duce: VINCE…. il RE, che avrebbe dovuto completare la parola, era scomparso! Più in là fra le macerie, spuntava sbilenco un cartello voluto ed imposto, a suo tempo da Starace, segretario generale fascista così concepito: «QUI NON SI PARLA DI POLITICA O DI ALTRA STRATEGIA: SI LAVORA». In quei pressi uno stuolo di operai era intento a togliere le macerie. Nel rientrare alle loro case i reduci incontravano folti gruppi di uomini, donne e bambini che ai lati delle strade attendevano un mezzo in transito per spostarsi da un punto all’altro del paese su strade sconvolte dai bombardamenti o su ponti militari Bailey. 209


Ogni tanto spuntava anche qualche nostro automezzo che stentatamente procedeva ancora a gassogeno. Ma i veri padroni della strada erano i “tre assi” americani guidati a velocità pazzesche da soldati di colore. Gli automezzi Bedford inglesi, in confronto, ci sfiguravano. Nei tratti nei quali era stata ripristinata la linea ferroviaria si viaggiava in carri bestiami, eccezionalmente in vetture prive di vetri, dai sedili sconnessi e dalle tappezzerie asportate. Fra tante macerie e tanta vita conclusa non era infrequente incontrare soldati americani, bianchi e di colore, a braccetto con nostre “segnorine” che, collaborando a modo loro, avevano trovato il modo di risolvere l’assillante problema del pane quotidiano. Sigle conosciute alla massa si leggevano un po' dappertutto ed il cui significato era noto soltanto ai più provveduti. E’ il caso delle sigle A.M.G.O.T. (Allied Military Government of Occuped Territory) ed AMG. (Allied Military Government), che servivano a ricordare agli immemori che eravamo in periodo di occupazione alleata, comunque straniera. La sigla più conosciuta, subentrata in un secondo tempo, era quella dell’U.N.R.A. (Ente per il soccorso e la ricostruzione delle Nazioni Unite). Circolavano altresì nuove monete, le AMLIRE, monete di occupazione alleata. Un’altra sigla: C.N.L. (Comitato Nazionale di Liberazione) era sulla bocca di molti, soprattutto dei politicanti e per molti anni costituirà il vessillo dei partiti sorti come funghi dopo la caduta del fascismo. Con grande disgusto i reduci, che spesso rientrando alle loro case avevano trovato disastrose situazioni familiari, assistevano a lotte interne fra gruppi che si accanivano a dissertare sui più disparati argomenti, quali: epurazione, monarchia, repubblica, caos. L’epurazione serviva a togliere dai piedi i cosiddetti fascisti – e chi non lo era stato? – ed anche a S. Rufo era inevitabile che qualcuno volesse togliersi la pietra dalla scarpa. Il problema istituzionale era visto urgente soltanto da alcuni esagitati mentre i benpensanti ritenevano che sarebbe stato più importante ed urgente ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto, rimboccandosi le maniche senza perder tempo.

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In una situazione incerta in cui mancava il lavoro ed i viveri scarseggiavano non pochi si erano dati al “mercato nero” ricavandone notevoli guadagni, ben presto andati in fumo per molto motivi, ivi compresa la svalutazione galoppante della lira. Fu quello il periodo d’oro di coloro che, sfaccendati di professione, si aggiravano con il portafogli gonfio in grazia della loro attività di borsaneristi. Finirono tutti male. Mancava la pasta ed il grano era contingentato e molti rimpiangevano la pasta nera che durante la guerra si acquistava con la carta annonaria. Per un brevissimo periodo apparve la pasta bianchissima degli americani, nettamente diversa per qualità e gusto dalla nostra. In quel periodo, quando non mancavano greggi e quadrupedi, le strade del paese erano invase da potenziale letame, abbondavano le mosche, le zanzare ed ogni sorta d’insetti, specie nella stagione estiva. Gli americani, per ragioni igieniche e soprattutto per tema di epidemie, inondarono il paese, e non solo il nostro, di D.D.T. (dicloro – difenil – tricloroetano) con grande sollievo della popolazione, che per la prima volta si vedeva immunizzata dal fastidio delle mosche e dalle punture degli insetti. La disinfestazione avveniva con periodica frequenza e sulle mura delle case appariva la sigla con a fianco le varie date della disinfestazione. Mancavano i medicinali e poiché in quel tempo si parlava tanto di penicillina e streptomicina, medicinali ritenuti miracolosi a disposizione soltanto degli Alleati, si studiavano tutti i mezzi per venire in possesso delle due specialità ogni qualvolta nelle famiglie vi era qualche ammalato grave. Più di un caso fu risolto favorevolmente con la collaborazione di qualche nostra generosa “segnorina” trafficante con i soldati alleati e successivamente dignitosamente sistematasi in città. Mancava anche il sale e si facevano equilibrismi pur di ottenere almeno il salgemma delle cave prossime a Castrovillari, in provincia di Cosenza, risolvendo così il problema della conservazione dei salumi, che, malgrado le difficoltà del tempo, secondo antiche consuetudini, si era usi provvedersi nelle famiglie. Più tardi, quando i collegamenti aerei con gli Stati Uniti d’America divennero normali, in paese affluirono pacchi colmi di 211


ogni ben di Dio, inviati dai nostri concittadini emigrati in America. Si trattò di una salutare boccata d’aria. Il dopoguerra fu un periodo torbido, lungo e difficile, reso più grave dalla perdurante crisi dell’agricoltura e dalla mancata possibilità di emigrare. In sintesi, la ripresa della normale attività non fu né semplice né facile, perché si continuava a vivere un po’ alla giornata. L’intera collettività sanrufese, fatta di gente che ha sempre lavorato, prodigandosi e soffrendo, non a torto, continuava a nutrire speranza per l’avvenire pensando che quel momento difficile doveva pur passare. «Adda passà!» (Deve passare!), essi dicevano. Le elezioni per la Costituente ed il referendum per la forma istituzionale dello Stato, che ebbero luogo nel giugno del 1946, a distanza da un anno dalla fina della guerra, stornarono o quanto meno distolsero parzialmente l’attenzione della popolazione dalle molte preoccupazioni che l’assillavano. A distanza di oltre vent’anni si ritornava alle libere elezioni ed il pubblico, talvolta più incuriosito che interessato, quasi giornalmente ascoltava una pletora di oratori di ogni colore politico e di ogni paese. Più infuocate furono le elezioni politiche di due anni dopo, quando gli oratori, nella foga del discorso, talvolta si lasciarono trasportare a trattare argomenti strettamente personali e familiari, che nulla avevano a che fare con la competizione elettorale. Lo stesso inconveniente si ripeterà con una certa frequenza nelle successive elezioni politiche ed amministrative. Per queste ultime, la popolazione, infischiandosi del colore delle varie liste, generalmente dava il voto alle persone che in quel momento ispiravano maggiore fiducia e dalle quali si riprometteva di ricevere favori e protezione, o, quanto meno, sperava di poter utilizzare l’industria delle raccomandazioni. Indipendentemente dal partito che essi rappresentavano, è doveroso riconoscere che gli amministratori locali, succedutisi nel dopoguerra, sono stati vigili, attivi, pieni di iniziative e di concrete realizzazioni. Purtroppo la gratitudine loro dovuta, per taluni, si è dimostrata un sentimento molesto. Cessata la parentesi elettorale e perdurando la grave crisi economica, si cercò di attenuare il disagio dei disoccupati mediante provvedimenti opportuni, creando cantieri di lavoro con i quali nel 1948-49 si provvide alla sistemazione di un gruppo di 212


strade interne, alla costruzione di un abbeveratoio nella contrada Valle Salice ed alla installazione di un pubblico servizio igienico. Sarà , come vedremo, l’inizio di una serie di lavori di cui beneficerà anche la popolazione rurale.

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IL MONUMENTO AI CADUTI Dal 1915 al 1945, nello spazio di trent’anni, erano state combattute due guerre mondiali e la guerra in Africa Orientale. In tutte e tre le guerre S. Rufo aveva fornito un elevato contingente di combattenti e con i suoi sessanta caduti aveva dato alla Patria un notevole tributo di sangue. Ma, come abbiamo posto in rilievo parlando del primo conflitto mondiale, ad eccezione delle mamme e delle spose in gramaglie, il ricordo dei nostri caduti andò lentamente affievolendosi perché quelli che inizialmente avevano dimostrato un certo interessamento per la erezione di un monumento che esternasse nel marmo i loro nomi, per difficoltà sopraggiunte, lasciarono che lentamente tutto finisse nel nulla e sui nostri morti cadde l’ombra dell’oblio. Dopo la vittoriosa conclusione della guerra in A.O., malgrado talune manifestazioni patriottiche, o pseudo tali, da parte degli esponenti del partito unico dominante, neanche allora si pervenne alla realizzazione del monumento. In quel tempo era semplice cavarsela con uno sbrigativo e volatilizzabile: PRESENTE!, che salvava le facce ma non le coscienze. Dopo la seconda guerra mondiale, era logico pensare che anche stavolta il velo della dimenticanza sarebbe caduto sui nostri morti. Così non fu. Per prima se ne ricordò il parroco del tempo, don Donato Ippolito, che nel 1948 fece apporre in chiesa una lapide con i nomi dei nostri caduti. Non era molto, ma era già qualcosa e fors’anche fu incentivo per risolvere favorevolmente l’obbligo morale che si aveva verso chi in guerra, nel fiore della giovinezza, si era sacrificato nell’assolvimento dei suoi doveri di combattente. Difatti, al fervore delle iniziative che, come vedremo, nel dopoguerra caratterizzò l’amministrazione retta dal prof. Marmorosa si aggiunse quella di erigere un monumento in ricordo dei nostri caduti. La lodevole iniziativa trovò l’immediata e concorde adesione di tutti i cittadini, in Patria ed all’estero, che con generose oblazioni contribuiranno alla sua realizzazione. Come ricorda l’epigrafe, il monumento, un’enorme stele svettante verso il cielo, si sarebbe dovuto inaugurare nella ricorrenza del primo centenario dell’unità d’Italia, ma per 214


Il monumento ai caduti. In secondo piano l’edificio scolastico e sullo sfondo a destra, la Serra Nuda.

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molteplici motivi l’inaugurazione fu rinviata all’anno dopo e così la cerimonia ebbe luogo il 14 ottobre 1962, con l’intervento dell’on. Sullo, ministro dei lavori pubblici. Per l’occasione il paese si vestì a festa. Una selva di festoni, di bandiere e bandierine tricolori ornavano ad arco continuo le vie principali del paese e in modo particolare corso Mazzini e corso Garibaldi, itinerario lungo il quale si sarebbe snodato il corteo delle autorità e delle numerose rappresentanze invitate alla cerimonia. Massiccia l’affluenza della popolazione del capoluogo e della campagna a dimostrazione di quanto fosse sentito il debito di gratitudine verso i fratelli caduti in guerra. Il ministro, che era stato accolto dal sindaco al bivio per Teggiano, dopo aver inaugurato la cabina elettrica nei pressi del cimitero, giunse a S. Rufo alle ore 11.00, ricevuto dalle autorità, fra le quali: il senatore Focaccia, l’on. Scarlato, il vice prefetto, in rappresentanza del prefetto di Salerno, mons. Pica in rappresentanza del vescovo di Teggiano, il comandante del Distretto Militare di Salerno, nostro concittadino, in rappresentanza anche del comandante della 21ª Zona Militare e del comandante la Regione Militare Meridionale, il rappresentante del comandante la brigata “Avellino”, il rappresentante del comandante la legione Carabinieri, il rappresentante dell’Ispettorato Forestale, l’ingegnere capo del Genio Civile, il provveditore agli studi, il direttore didattico, alcuni consiglieri provinciali ed un folto stuolo di sindaci del Vallo. Rendeva gli onori un plotone del battaglione corazzato di stanza a Salerno. Dopo un triplice squillo di “attenti” il ministro, fra scroscianti applausi, tagliava il nastro augurale e monsignor Pica benediceva il monumento ai piedi del quale venivano deposte tre corone di alloro. Tutti i presenti apparivano emozionati e commossi e molti si asciugavano le lacrime. Mentre gli spiriti dei nostri caduti aleggiavano intorno al monumento, le loro ossa, sparse nei cimiteri di guerra, finalmente potevano riposare in pace. Anche se in ritardo il paese aveva pagato con tanto amore il debito di riconoscenza dovuto all’eletta schiera dei suoi figli che avevano affrontato la morte mille e mille volte ed infine l’avevano accolta come un dovere, come naturale effetto di una consegna da mantenere. 216


Seguirono i discorsi del sindaco Marmorosa, dell’avv. De Luca, a nome dei combattenti, e del ministro Sullo. Subito dopo le autorità si portavano all’ingresso della scuola prima ed alle palazzine INA-CASA dopo, dove il ministro tagliava il nastro tricolore e mons. Pica impartiva la benedizione in auspicio di sempre maggiori fortune per il nostro paese. Da allora il 4 novembre, giornata delle Forze Armate e del Combattente, ogni anno ai piedi del monumento si svolgono cerimonie celebrative in onore dei caduti.

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LAVORI PUBBLICI Abbiamo accennato ad alcuni provvedimenti adottati nell’immediato dopoguerra dall’amministrazione comunale intesi ad alleviare la disoccupazione, ma le opere importanti sono quelle realizzate dal 1955-60 in poi e che hanno trasformato letteralmente il paese nell’arco di un trentennio. Ciò va detto a merito delle amministrazioni rette dal prof. Marmorosa, dal geometra Luongo e dal prof. Sellaro, che, con una serie complessa di lavori, sono riusciti a trasformare le mulattiere in rotabili, a creare nuove strade in zone dove non esistevano neanche i sentieri, ad impiantare un completo sistema di fognature, a risolvere in via definitiva l’assillante problema idrico, ad attuare una moderna illuminazione pubblica, a costruire case I.N.C.I.S., edifici scolastici ed il nuovo municipio, ad ampliare il cimitero ed a realizzare il campo sportivo. Nel 1956, nel campo dei lavori pubblici, il primo impulso lo diede l’A.N.A.S. con la cilindratura e bitumazione della S.S 166 1. Il tratto interno dell’abitato, non di competenza dell’A.N.A.S., fu eseguito a cura ed a spese dell’amministrazione comunale e completato nel 1957. Il provvedimento si dimostrò quanto mai utile e necessario perché con l’affermarsi della motorizzazione la vecchia strada, piena di buche, di polvere e di pietrisco, costituiva un anacronismo ed una remora allo sviluppo dei mezzi a motore. In tale occasione in paese fu allargato il tratto prospiciente il palazzo Laviano mediante l’abbattimento della casetta di proprietà di Orazio Marmo, già sede del fascio, dando così origine alla piazzetta della Pace. Per rendere più sicuro e scorrevole il traffico fu eliminata la strozzatura di S. Sofia con l’abbattimento della cappella gentilizia della famiglia Spinelli. In tempi successivi sarà poi allargato il tratto compreso fra palazzo Laviano ed il vecchio municipio ridimensionando il giardino-bastione della famiglia Spinelli. Parallelamente fu bitunato anche il corso Garibaldi e munito di brevi marciapiedi mentre altre vie, comprese le cosiddette carrale,

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Nello stesso periodo fu progettata l’autostrada Salerno-Reggio Calabria che entrò in funzione nel 1970.

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furono pavimentate con blocchetti di lapillo e tutte integrate, nel 1968, di fognature e rete idrica. Dieci anni dopo la fognatura interna sarà completata da quella esterna, coperti i canali fognanti a cielo scoperto e costruiti due depuratori, rispettivamente in località Cannetiello e Temparella. A completare l’ammodernamento del paese, nel 1969 fu ristrutturato l’impianto dell’illuminazione pubblica con lampade incandescenti e fluorescenti. In attuazione della legge n. 589 del 3-8-1949 il Ministero dei Lavori Pubblici in data 7-5-1958 accordava al comune un contributo per l’impianto di energia elettrica per la pubblica illuminazione delle contrade Fontana del Vaglio, Rielle e S. Lorenzo. L’elettrodotto rurale venne poi finanziato dalla Cassa del Mezzogiorno. Contemporaneamente alla esecuzione di questi lavori fu affrontato il programma, urgente ed indilazionabile, del collegamento viario fra il paese e la campagna. Prima fra tutte fu dato corso alla costruzione della strada: Cimitero, Rielle, Fontana del Vaglio – S. Lorenzo e proseguita, nel tratto di competenza del comune di Teggiano, per Prato Perillo. Il 28-12-1961 l’intera strada passava all’amministrazione provinciale che procedeva alla sua cilindratura e bitumazione. In tal modo si abbreviava il percorso S. Rufo – Teggiano, eliminando il lungo giro per S. Marzano, e si stabiliva un collegamento diretto fra il paese e le contrade rurali. Rimanevano scoperte larghe fasce del comprensorio sanrufese che a breve distanza di tempo furono dotate di analoghe strade, e precisamente: strada S. Giuseppe – S. Giovanni – Policeta , risalente al 1960; » Petrosa – Camerino – Innesto interpoderale Rielle; » S. Giovanni – Abbottaturo – Policeta; » S. Giuseppe – Pagliai Bassi – Colaprece – Ponte Marza; » Tempa Tornotauro – S. Damiano – Campanella; » S. Antonio – Madonna della Tempa; » Vignola – S. Lorenzo; » Policeta – Palizzo; » Tempa – Cerasuolo; » Tempa – Pontegrande;

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S. Antonio – Tempa, prima asfaltata e successivamente ampiamente allargata e proseguita per s. Pietro al Tanagro attraverso la valle di Lama, Ponte Lacevo – Cerasuolo; Foresta – Cerasuolo; Moiano – Fontana del Vaglio; Carrali Vecchi – Pagliai Bassi.

Una fitta rete stradale, dunque, che consente di poter raggiungere qualsiasi punto del comprensorio con mezzi motorizzati e meccanizzati, che ha abbreviato i lunghi e disagevoli percorsi delle vecchie mulattiere evitando alla campagna di rimanere avulsa dal paese e consentendole una vita autonoma con benefici riflessi economici. Completerà l’autonomia logistica delle contrade rurali l’acquedotto, con vantaggi igienici che i pozzi non potevano assicurare. La frazione di Fontana del Vaglio sarà poi fornita di scuole elementari e materne nonché di una chiesa, quella di S. Antonio, ed assumerà una propria fisionomia non dissimile da quella del paese. Un’arida e parziale esposizione dei lavori eseguiti non dà l’esatta sensazione di quanto è stato realizzato e dei vantaggi che ne sono derivati. Certo è che nello spazio di circa trent’anni si è avuta una evoluzione ed una progressiva trasformazione della campagna che sino alla seconda guerra mondiale era follia sperare, così come nessuno avrebbe immaginato che il paese avrebbe assunto l’attuale aspetto moderno, non dissimile da quello degli altri paesi del Vallo. Infine non possiamo non accennare all’accurato servizio di nettezza urbana instaurato in paese che vede, finalmente, le nostre strade costantemente linde e pulite. Le realizzazioni ottenute sono state molte ed altre sono in corso di realizzazione, il che è stato possibile perché gli amministratori succedutisi nel tempo hanno costantemente lavorato e continuano a lavorare, senza soluzione di continuità, protesi soltanto al miglioramento ed al benessere del paese a dimostrazione dell’attenzione e dell’amore verso la propria gente.

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Fra le opere pubbliche riguardanti indirettamente S. Rufo e gli altri paesi del Vallo, dobbiamo ricordare anche l’impianto ed il funzionamento degli Ospedali Riuniti del Vallo di Diano, suddivisi fra S. Arsenio e Polla 2 Dopo secoli di attesa è stato possibile risolvere in modo autonomo l’assistenza sanitaria alle popolazioni del Vallo e quindi del nostro paese.

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Durante l’ultimo terremoto l’ospedale di Polla, a causa dei danni riportati, è rimasto inagibile per parecchio tempo.

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INA-CASA - EDILIZIA SCOLASTICA – SCUOLE La penuria di alloggi esistenti in paese nell’immediato dopoguerra aveva posto in crisi alcune famiglie di professionisti ed impiegati, specie quelli provenienti da altri paesi. Di questa situazione si rese conto l’amministrazione comunale del tempo e fra le prime opere realizzate dall’amministrazione Marmorosa è da annoverare la costruzione di tre palazzine INA-CASA per complessivi sei appartamenti di tre stanze ciascuno, oltre i servizi. Le palazzine sorsero al termine di corso Garibaldi, ai piedi della collina del castagneto. Analoga situazione precaria esisteva da tempo immemorabile per la scuole elementari, sistemate in varie abitazioni private. Tale situazione si era ulteriormente aggravata a causa del continuo aumento di scolari. La stessa situazione si ripeterà nel 1972 allorché saranno istituite le scuole medie inferiori, che, more solito, troveranno sistemazione provvisoria in un’abitazione privata, quella degli eredi di Antonio Pagano, del corso Mazzini. Non migliore era la situazione della scuola materna (asilo infantile), dal 1936 tenuta dalle suore, Ancelle di S. Teresa, nell’antico palazzo Laviano dove rimarrà sino a quando subentrerà la scuola materna statale. Una disorganizzazione del genere, che nel periodo critico del dopoguerra s’inquadrava in quella generale del paese, non poteva non allarmare i nostri amministratori, consapevoli che fra i molti problemi da affrontare e da risolvere vi era anche quello della definitiva ed organica sistemazione delle scuole. Di qui la necessità di costruire idonei edifici per la popolazione scolastica. Fu quindi dato corso alla costruzione dell’edificio scolastico prima ed a quello della scuola materna dopo. Il primo, progettista l’architetto Francesco Padula, sorse in località Castagneto, su un terreno di proprietà del comune, fra il corso Garibaldi e via Roma. La scuola materna, progettista l’ingegnere Domenico Cuccaro, sorse in località S. Antonio, poco distante dalla casa parrocchiale, e fu ultimato il 23-4-1964. Risolto felicemente il problema edilizio delle scuole del capoluogo, l’amministrazione affrontò dopo, quello della scuola rurale. 222


La scuola sorse nella frazione Fontana del Vaglio, non lungi dalla chiesa di S. Antonio, e fu ultimata il 25-3-1969. Progettista l’ingegnere Mario Cipriano. Sempre a Fontana del Vaglio, nel 1975, su un’amena collinetta, non molto distante dall’edificio scolastico, sorse la scuola materna di quella frazione. Progettista l’ingegnere Vitagliano. Allorché nel capoluogo sarà istituita la scuola media troverà adeguata sistemazione al piano terra del nuovo municipio, inaugurato nei primi giorni del 1974 e che costituisce una delle opere di maggior rilievo realizzate dall’amministrazione Luongo. Il municipio sorge in via Roma, in posizione sopraelevata dalla quale si ha una stupenda visione panoramica del vallo. E’ un complesso moderno per attrezzatura e funzionalità ed è senza dubbio il più importante fra i paesi del Vallo. Oltre al piano terra, dove sono sistemate le aule della scuola media, comprende un primo piano ed un secondo piano. Sul lato occidentale si apre una larga piazzetta sopraelevata, finemente lastricata, contornata di piante di un certo pregio. Per completezza di trattazione dobbiamo anche considerare l’ampliamento del cimitero e del campo sportivo sorto a monte di Ponte Grande. Parlando delle varie opere, ci siamo volutamente soffermati sulla edilizia scolastica perché la notevole evoluzione ed espansione della pubblica istruzione in quest’ultimo ventennio ha contribuito ad elevare culturalmente la società sanrufese. L’istituzione di scuole medie superiori, in alcuni paesi del Vallo, ha consentito poi ai nostri giovani di poter proseguire ulteriormente gli studi ed a taluni di affacciarsi alle soglie dell’università a pieno merito. Infatti molti hanno continuato gli studi frequentando il liceo classico (Sala Consilina), il liceo scientifico (Padula), l’istituto magistrale (Teggiano), l’istituto industriale (Sala Consilina), le scuole tecniche, ramo geometri (Sala Consilina) od il ramo ragioneria (S. Arsenio) ed infine quello di segretaria di azienda (Polla). Alcuni dei nostri giovani, conseguita la maturità, hanno poi proseguito gli studi universitari con lusinghieri risultati. Non è facile elencare il numeroso stuolo di insegnanti, geometri, ragionieri, periti industriali, segretarie d’azienda, professori, medici, biologi, farmacisti, dottori in scienze economiche e commerciali, avvocati, ecc. che annualmente hanno 223


arricchito l’eletta schiera dei professionisti di S. Rufo a conferma che l’intelligenza, la volontà e lo studio, contrariamente ad una errata concezione del passato, non hanno nulla a che vedere con la posizione sociale ed economica delle singole famiglie. Ed è a questi giovani che bisogna guardare con simpatia e fiducia perché costituiscono le colonne portanti della nostra società. L’avvenire di S. Rufo è anche condizionato al loro impegno. Ma per una migliore comprensione della mutata situazione culturale locale, bisogna considerare anche le ripercussioni favorevoli che con l’istruzione si sono avute nel campo femminile in genere ed in quello rurale in particolare. In passato la donna, perennemente analfabeta ed insicura di sé, quasi sempre era relegata in umili servizi, spesso superiori alle sue forze, e, quale elemento passivo, era succuba del padre o del marito, dai quali veniva diretta e controllata. In compenso, una volta sposata, poteva mettere al mondo una nidiata di figli, aggravando, suo malgrado, la situazione economica familiare. L’istruzione generalizzata le ha consentito di liberarsi dall’apatia che da secoli l’aveva oppressa, di assumere una ben definitiva personalità e di esprimersi in un preciso ruolo nella famiglia e nella società. Oggi la nostra donna, per la dignità e l’autonomia acquisite, utilizzando le doti che le sono connaturali, è in condizione di affiancarsi a pieno merito all’uomo in qualsiasi attività. Nel mondo rurale, al pari degli uomini, tutte le giovani operanti in agricoltura hanno frequentato la scuola media inferiore e lavorano con intelligente consapevolezza e chiara visione dei problemi che le riguardano, in un ambiente sano e decoroso. Normalmente queste giovani, in stivali e blue jeans e non più scalze e lacere, guidano. Con capacità e sicurezza, trattori ed automezzi impiegati in agricoltura e, nei dovuti limiti, intervengono come soggetti attivi e con mentalità imprenditoriale in tutte le attività. I miglioramenti avutisi in agricoltura non solo sono la naturale conseguenza della generale evoluzione avutasi in questi ultimi tempi, ma anche il prodotto del mutato ambiente culturale rurale. Oggi la donna, cosciente delle sue capacità e possibilità non vive di illusioni, né, a giusta ragione, accetta forme di sottomissione. E’ sicura e vigile delle ragioni concrete della vita, non dimenticando mai i suoi doveri di sposa e di madre e sotto 224


questo aspetto è veramente l’angelo della casa, gelosa custode delle migliori tradizioni della famiglia, che ancora oggi costituiscono le basi morali della nostra società. Con la scomparsa dell’analfabetismo e l’incremento della cultura è scomparso il tempo in cui il povero contadino analfabeta doveva umilmente rivolgersi ad una persona “istruita” – che spesso tale non era – per farsi scrivere una lettera. Di Berta, invece, non è rimasto neanche il ricordo.

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AGRICOLTURA E POPOLAZIONE RURALE S. Rufo è un paese prettamente agricolo, ciononostante l’agricoltura, pur essendo il settore portante dell’economia locale, vive di vita asfittica per una serie di motivi, prima fra tutti l’eccessivo frazionamento e sminuzzamento della terra, dovuto alle divisioni demaniali prima ed a quelle ereditarie dopo, che non permettono una adeguata coltura estensiva, né permettono una qualsiasi forma organizzativa, associativa e di cooperazione che consentirebbe un ciclo completo comprendente produzione, trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli 1. Influiscono negativamente anche le incostanti condizioni del clima: semi-arido o arido d’estate, freddo ed umido d’inverno con frequenti gelate primaverili ed estese zone nebbiose in pianura e parzialmente in collina. E’ ancora vivo il ricordo, nel periodo post bellico, del forte gelo che caratterizzò l’inverno del 1955 e la eccezionale nevicata di dieci anni dopo che danneggiarono a dismisura i raccolti, i frutteti e soprattutto gli uliveti. Il settore primario è costituito dal seminativo (grano e granoturco), ma non mancano altre colture, prima fra tutte quella delle patate. Un notevole incremento ha avuto la coltivazione della vite, spesso sviluppatisi in zone sempre idonee, e degli uliveti, mentre i frutteti, modesti per numero, qualità e varietà, hanno scarsa importanza e vanno degradando di anno in anno. Minimo l’interesse per le altre colture, quali pomodori, peperoni, verdure, bietole e tabacco. L’individualismo, che caratterizza il sanrufese in genere ed il contadino in particolare, ha indotto a coltivare un po’ di tutto, sia pure in appezzamenti diversi, allo scopo di ottenere l’autosufficienza. Ogni agricoltore, piccolo o grosso coltivatore diretto, memore forse del periodo feudale quando l’aspirazione alla terra era stata sogno e speranza di intere generazioni, è fin troppo legato al suo pezzo di terra che spesso gli ha consentito di trasformarsi da

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Della cooperazione si sta ora interessando attivamente il prof. Carmelo Setaro.

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“bracciale” in proprietario e lo ha liberato dalla condizione di sudditanza. Ed è proprio questo egoismo che frena qualsiasi forma associativa ed intralcia lo sviluppo dell’agricoltura locale. Similmente la zootecnia è sminuzzata in tante minuscole aziende a carattere prettamente familiare. I greggi, un tempo numerosi, sono ridotti a poche unità e si avviano lentamente a scomparire del tutto. Sono questi i principali inconvenienti che, uniti alla mancanza di mezzi adeguati, di criteri imprenditoriali e di tecniche più aggiornate, non permettono un reddito proporzionato al dispendio di mano d’opera ed alle spese sostenute e fanno della nostra agricoltura l’eterna Cenerentola delle varie attività. Non deve indurre a conclusioni diverse il notevole risparmio depositato presso il locale ufficio postale perché esso è conseguenza di vita fatta di austerità, di rinunzie, di privazioni, di economie e molto spesso di rimesse degli emigranti. Al termine della seconda guerra mondiale la situazione delle campagne non differiva molto da quella del passato. Le vie di accesso erano sempre costituite da mulattiere ed i trasporti continuavano ad effettuarsi a soma ed eccezionalmente con carri e carrette. La zappa, la vanga e l’aratro, trainato dai buoi, dominavano incontrastati talché il dispendio di forze e di mezzi continuò ad essere notevole. Le uve continuarono ad essere pigiate nei tini alla maniera tradizionale primitiva ed i covoni di grano sulle aie erano alla mercé del vento e del quadrupede che trascinava una robusta pietra per liberare i chicchi dalla paglia. Similmente le olive venivano molate nei “trappeti” (frantoi) alla maniera antica utilizzando i quadrupedi per la rotazione della “mola” (macina). Tutti questi elementi negativi contribuivano a renderne poco redditizi i prodotti della terra e perciò molti giovani e meno giovani ritennero opportuno abbandonare i campi e trasferirsi al nord od all’estero per lavorare nelle fabbriche ed ottenere continuità di lavoro e compensi adeguati alle loro prestazioni ed in ogni caso di gran lunga superiori a quelli ottenuti dal lavoro dei campi. In conseguenza della crescente industrializzazione del Paese il fenomeno andrà man mano accentuandosi provocando lo spopolamento della campagna. 227


Verso il 1950, conclusasi la fase di ricostruzione prima e dell’assestamento dell’economia italiana dopo, si ebbe un notevole incremento delle attività industriali che contribuirono all’espansione economica dell’Italia, il cosiddetto “boom” economico italiano, e le industrie petrolifere, metalmeccaniche, chimiche, elettriche e metallurgiche nonché la scoperta di giacimenti di metano nella Pianura Padana assorbirono gran numero di operai del sud. Ai nostri contadini, tali per necessità e non per vocazione, non sembrò vero di scrollarsi dall’epiteto di contadino, da molti ritenuto termine dispregiativo, memori forse del periodo feudale quando era considerato poco più di servo della gleba. In Italia molti trovarono lavoro soprattutto in Piemonte, in Lombardia e in Emilia. Quelli che si recarono all’estero scelsero la Germania e la Svizzera, ma qualcuno si orientò verso il Venezuela, allora considerato fonte di robusti guadagni. Altri, infine, si trasferirono nel capoluogo della provincia od in quello della regione, che, come in passato, ancor oggi esercitano una forte attrazione sulla popolazione locale, favorendo l’inurbamento con conseguenti riflessi negativi. Nello stesso periodo si ebbe da noi una notevole trasformazione nel campo economico e sociale perché i contadini poterono avvantaggiarsi di una serie di provvedimenti adottati in loro favore dallo Stato e quei pochi ancora affamati di terra poterono acquistare i terreni posti in vendita dai fratelli Marmo (Rocco). Contemporaneamente le mulattiere scomparvero del tutto, sostituite da ampie e comode strade che consentirono l’abbandono dei tradizionali trasporti a soma e l’impiego di mezzi motorizzati. Fra gli altri lavori intesi a migliorare la campagna dobbiamo ricordare l’imbrigliamento dei torrenti S. Maria e Marza. In conseguenza, prima lentamente e poi in forma generalizzata, si ebbe un largo impiego di mezzi meccanizzati e motorizzati (trattori, trebbiatrici, falciatrici, motozappe, motovanghe, automotomezzi, ecc.) consentendo un lavoro più celere e meno gravoso. L’impiego di anticrittogamici e di concimi consentì poi una maggiore produzione e quindi un più adeguato reddito. Il problema del miglioramento delle condizioni di vita della campagna, della redditività delle aziende contadine e della 228


riduzione dei costi di produzione richiedeva una sollecita soluzione per frenare il continuo esodo dalle campagne. Nel 1961 fu perciò messo in atto il piano quinquennale per lo sviluppo dell’agricoltura, meglio noto come «primo piano verde», avente lo scopo di creare condizioni favorevoli al settore agricolo mediante l’istituzione di fondi per prestiti a favore di investimenti nelle aziende contadine. A causa della scarsa consistenza del fondo i risultati furono molto modesti, cosicché nel 1966 fu necessario disporre un secondo «piano verde», ma neanche con questo piano si ottennero grandi risultati. Si ebbe però una proliferazione di costruzioni per la produzione zootecnica. In effetti, a sovvenzione avvenuta, a cura degli interessati, le costruzioni assunsero poi aspetto e forma di normali case di abitazioni munite di ogni conforto. Scomparvero così le tradizioni “casedde”, le “pagliare” ed i tuguri del passato ed i contadini presero stabile dimora in campagna. A queste abitazioni si affiancarono poi altre case molto elaborate ed eleganti costruite con le rimesse degli emigranti e le contrade rurali assunsero un aspetto moderno. A ricordare il passato rimasero in piedi soltanto i “casini”, sorti nel 1800, e qualche isolata masseria. Anche il reddito privato incominciò ad essere più consistente in grazia anche delle varie pensioni concesse con una certa larghezza al ceto rurale liberandolo dalla miseria. Con l’aumento delle disponibilità le famiglie allargarono il campo delle richieste di beni un tempo considerati voluttuari e non strettamente indispensabili e quindi si ebbe un miglioramento nella sistemazione interna delle case ed un proliferare di elettrodomestici. La maggioranza delle case oggi risulta munita di telefono. Le automobili, prima considerate genere di lusso, sono diventate, un mezzo alla portata di tutti. Le scuole e l’assistenza sanitaria generalizzata hanno completato il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione rurale. La gleba di un tempo è diventata folla cosciente di cittadini evoluti. Il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione rurale non deve indurre a ritenere che ancora oggi non vi siano problemi insoluti. Il lavoro del contadino è un lavoro duro e spesso ingrato perché soggetto alla inclemenza delle stagioni, alla insufficiente irrigazione dei terreni, alla difformità dei terreni 229


stessi ed i contributi che egli dovrebbe ricevere dallo Stato non sempre sono corrispondenti alle aspettative e sovente avvengono con molto ritardo. Mi riferisco ai contributi della C.E.E. (Comunità Economica Europea) che ogni lavoratore agricolo italiano dovrebbe ricevere. Nato il 14 gennaio 1962 il Fondo Europeo di Orientamento e Garanzia Agricolo (F.E.O.G.A.) costituisce un efficace strumento di finanziamento della politica agraria comunitaria, ma le spese più rilevanti seguitano ad essere indirizzate ai prodotti dell’Europa continentale: latte, formaggi, carne bovina, cereali e zucchero, mentre per i prodotti tipicamente mediterranei, come il vino, gli ortofrutticoli e l’olio d’oliva, il fondo versa soltanto il 12%. In effetti ogni occupato in agricoltura del nostro Paese riceve mediamente un quinto dell’occupato di un qualsiasi altro Stato. Gli scarsi fondi subiscono, poi, forti ritardi a causa della dispersione burocratica italiana. I ritardi colpiscono le tasche degli allevatori, che dovrebbero ricevere il «premio nascita vitelli» e dei produttori, che dovrebbero ricevere l’integrazione al prezzo dell’olio d’oliva e del grano duro. Sembra, almeno tale è la giustificazione ufficiale, che i ritardi nel pagamento dei contributi concessi dalla Comunità sia dovuto all’elevato numero di beneficiari. Altro motivo di malcontento è rappresentato dai prezzi agricoli stabiliti dalla C.E.E. che solo parzialmente costituiscono una copertura della perdita di reddito determinata dal tasso dell’inflazione che ha aggravato la crisi del settore agricolo. Abbiamo accennato ad alcuni problemi che interessano i nostri agricoltori, ma non possiamo non ricordare quello dell’invecchiamento degli occupati in agricoltura. L’esodo della campagna ha interessato soprattutto i giovani e quelli rimasti non sono numericamente sufficienti a sostituire i vecchi lavoratori agricoli cosicché in avvenire, inevitabilmente molti terreni rimarranno incolti ed abbandonati, tanto più che gli emigranti non manifestano l’intenzione di ritornare in paese.

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IL TERREMOTO DEL 23 NOVEMBRE 1980 Agli inizi del 1980 non infrequentemente si sentiva ripetere: «anno bisesto, anno funesto», convinti che l’anno bisestile, quale era quello da poco iniziato, probabilmente non sarebbe stato favorevole. In effetti l’anno nuovo era cominciato con un tempo quanto mai rigido, nevoso e piovoso, il che giustificava, in parte, la diceria. Il maltempo, ad eccezione di brevi schiarite, continuò sino a metà luglio. La primavera passò inosservata perché soffocata dal freddo del prolungato inverno, ma non passarono inosservati i modesti raccolti, il notevole ritardo della vendemmia e la mancata maturazione delle olive. Queste ultime, a novembre inoltrato, continuarono a rimanere verdi ed il raccolto si presentava eccezionalmente misero in conseguenza delle temperature molto elevate avutesi a cavallo di ferragosto, che avevano provocato la caduta di gran parte del frutto. Dopo una parentesi piovosa, nella seconda decade di novembre ritornò il sereno dando la sensazione che lo scorcio del mese volesse prolungare, sia pure in ritardo, la cosiddetta estate di S. Martino. Il cielo sereno e limpido, come non si era avuto neanche in piena estate, sembrava confermarlo. Il 23 novembre, domenica, era una bellissima giornata e, come al solito, nel tardo pomeriggio gruppi di fedeli si erano recati in chiesa per assistere alla celebrazione della messa vespertina uscendone poco prima delle ore 18. Dopo il tramonto poche persone circolavano per le strade a causa della temperatura abbassatasi rapidamente al termine del breve arco diurno ed anche perché, approssimandosi l’ora della cena, buona parte della popolazione si era rintanata in casa a godersi il caldo del focolare. Soltanto alcuni giovani gironzolavano per le vie del paese, o si attardavano nei caffè. Inaspettatamente alle ore 19,34 venne a mancare la luce ed un boato, che andò progressivamente aumentando di tono sino ad assumere intensità apocalittiche, diede l’avvio ad uno spaventoso terremoto, giudicato dell’ottavo grado della scala Mercalli. Per novanta lunghissimi secondi, che parvero eterni, il boato ed il movimento tellurico imperversarono in modo sempre più intenso e rabbioso ingenerando terrore e panico mentre le mura delle case sembravano doversi schiantare da un momento all’altro. Chi poté farlo si portò subito all’aperto, ma altri furono costretti a 231


subire il sisma in casa sotto la volta delle porte. Allo scadere del novantesimo secondo, quando molti avevano già raccomandato l’anima a Dio, la terra cessò momentaneamente di tremare e quelli che non erano riusciti a farlo prima corsero all’aperto. Al buio, fra un fuggi fuggi generale, urla e schiamazzi, alcuni, come automi, si diedero alla ricerca dei familiari attardatisi fuori casa. Poco dopo, esattamente alle ore 19,42, preceduto e seguito dal solito boato infernale, il terremoto riprese la sarabanda in modo ancora più violento mentre il terreno, in continuo movimento ondulatorio, dava la sensazione di aprirsi da un momento all’altro per inghiottire uomini e cose. Al turbinoso rumore del boato se ne aggiunsero altri provocati dalla caduta della volta e della cantoria della Chiesa, di mura disastrate e di grossi macigni staccatisi dal monte S. Caterina, rotolanti sulla strada della Tempa e sul sottostante uliveto. Nello stesso tempo, all’orizzonte, il cielo si tinse di un rosso violento. Dalle prime notizie si apprese che in paese ed in campagna il terremoto non aveva provocato né vittime né danni alle persone, eccezion fatta di una donna che in seguito ad una caduta versava in fin di vita. Malgrado le notizie rassicuranti gli animi continuarono ad essere sconvolti dal panico e dalla paura di nuove scosse telluriche, che si ripeterono con una certa frequenza, anche se con minore intensità, durante la notte e nei giorni successivi. La stessa sera si apprese dalla radio che il sisma aveva interessato, quasi per intero, due regioni: la Campania e la Lucania, capoluoghi compresi. Nella zona dell’epicentro, a monte di Acerno ed al confine fra le province di Salerno, Avellino e Potenza, il movimento tellurico aveva raggiunto l’intensità del nono e del decimo grado della scala Mercalli. In conseguenza paesi come Lioni, S. Angelo dei Lombardi, Calabritto – in provincia di Avellino – Balvano, Pescopagano, Muro Lucano – in provincia di Potenza – Laviano, Colliano, Santomenna – in provincia di Salerno – risultavano rasi al suolo. Incalcolabili i danni nei 360 altri paesi delle due regioni colpite dal sisma e dove si erano avuti numerosi morti e feriti. Polla, Atena, S. Arsenio, S. Pietro, Caggiano, Sala Consilina ed altri paesi del Vallo risultavano danneggiati più o meno gravemente. 232


Il terremoto aveva sconvolto quasi per intero il territorio campano-lucano, paragonabile, per estensione, all’intera superficie del Belgio. Quasi tutta la popolazione, impaurita, frastornata e sconvolta, trascorse quella notte e le notti successive all’aperto, su automezzi, in tende improvvisate od accanto a numerosi falò. Al mattino, allorché la gente rientrò nelle proprie abitazioni, fu possibile costatare i reali danni provocati dal terremoto e solo allora si rese conto che, per puro caso, la messa vespertina del giorno prima non si era tramutata in tragedia. Oltre alla chiesa, gravemente danneggiata e inagibile, numerose case risultarono gravemente lesionate; ben duecentocinquanta inagibili, circa sessanta da demolire. Il rione Carrarusso, la via XX Settembre e la Temparella presentavano i danni maggiori mentre al corso Mazzini il vecchio municipio, i palazzi Marmo e Rinaldo ed altre abitazioni avevano riportato danni tanto gravi da consigliarne la demolizione. In conseguenza si presentò la necessità di dare una sistemazione a coloro che non disponevano più di una abitazione. Il problema fu risolto sistemando i senza tetto in abitazioni private e nelle scuole evitando di ricorrere ad attendamenti, baraccamenti o roulottes. Meno grave la situazione dei centri rurali dove, ad eccezione di alcune vecchie masserie, le abitazioni, quasi tutte di recente costruzione, avevano resistito meglio al sisma. Approfittando delle facilitazioni di trasporto concesse dallo Stato ai terremotati e perdurando le scosse, nei giorni successivi al terremoto alcuni sanrufesi, provati dai disagi, dalla paura o dalla mancanza di case, si trasferirono in lontane località italiane ed estere ospite dei parenti. A metà dicembre centocinquanta concittadini avevano lasciato il paese, premessa, forse, per un allargamento della piaga dell’emigrazione. Come per gli altri paesi terremotati, anche se non richiesti, furono inviati viveri e vestiario, talvolta con leggera colorazione demagogica. La popolazione, pur duramente provata, si comportò con vivo senso civico e grande dignità. Inoltre non si verificarono manifestazioni di accaparramento, o, peggio ancora, tentativi di sciacallaggio, come purtroppo era avvenuto altrove. Malgrado le frequenti scosse telluriche – nei primi due mesi se ne contarono circa mille – e la eccezionale inclemenza del tempo, particolarmente rigido e ventoso, sotto la direzione tecnica di 233


Si inizia la demolizione del vecchio municipio gravemente danneggiato dal terremoto

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ingegneri ad architetti piovuti dalla provincia e dal Piemonte, fu iniziata la parziale opera di demolizione e rafforzamento delle case pericolanti o fortemente lesionate, talvolta con provvedimenti precipitosi. S. Rufo lentamente si apprestava a sanare le ferite ed a risorgere, momentaneamente con le stampelle, in attesa di tempi migliori, di aiuti concreti e di personale idoneo a riparare i danni provocati dal sisma. In passato S. Rufo aveva subito altri terremoti, come, ad esempio, quelli del 1561 e del 1857, che pur avendo raggiunto il nono grado della scala Mercalli, per essere circoscritti, non avevano provocato danni simili a quelli causati dal terremoto del 23 novembre 1980. Senza dubbio, è stata questa la prova più dura alla quale, nel corso dei secoli, è stato sottoposto il paese. I terremoti che, in tempi diversi hanno turbato la vita di S. Rufo, pur non causando vittime umane, hanno avuto ripercussioni materiali diverse perché diversa è stata, nel tempo, la composizione e la disposizione del paese. I terremoti del 31 luglio e 19 agosto 1561 si verificarono quando S. Rufo, che superava di poco i cinquecento abitanti, era un modesto villaggio di pastori, braccianti e contadini e si sviluppava prevalentemente nell’attuale zona occidentale, compresa fra S. Giovanni, S. Michele (l’Angelo), S. Rocco, S. Giuliano e S. Sebastiano. La popolazione viveva in baracche e modeste casupole sulle quali il sisma non ebbe effetti di rottura a causa della loro scarsa consistenza e della particolare dislocazione. Ben diversa la situazione creatasi durante il terremoto del 16 dicembre 1857, quando S. Rufo aveva raggiunto e superato i duemila abitanti, e, come sappiamo, dopo lungo letargo, aveva da poco incrementato le costruzioni in muratura a cavallo dei corsi Mazzini e Garibaldi e lungo la via XX Settembre. In quell’anno il terremoto, della durata di ventinove secondi 1, imperversò particolarmente a cavallo del corso Mazzini provocando danni rilevanti alle abitazioni – le sole allora esistenti – di don Vincenzo Somma (poi esattoria comunale), don Angelo Pagano (poi delle sorelle De Vita, alias Carrano), Marianna Costa,

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De Cesare – La Fine di un regno, cap. XII.

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Giuseppe Tierno (poi Coiro) ed i palazzi Mattina (già Rinaldo), Marmo (poi Spinelli) e Pellegrini (oggi Scaliati). Danni riportarono anche case a monte ed a valle di via XX Settembre, come, ad esempio, quella di Vito Marmo. Le case danneggiate furono rinforzate con mura di sostegno, ben visibili oggi nei ruderi dopo la loro demolizione. Il palazzo Mattina fu invece rinforzato incatenando le mura maestre. Lesioni presentava in alto l’attuale palazzo Spinelli all’estremità orientale del secondo piano, mentre limitati apparvero i danni al palazzo Pellegrini. Nella zona occidentale, comprendente i borghi Porcile, S. Rocco, S. Michele e S. Giuliano, non si lamentarono danni. In definitiva soltanto il settore orientale fu gravemente danneggiato dal sisma. Durante l’ultimo terremoto – quando l’espansione del paese, dovuta all’incremento edilizio, si era sensibilmente accentuato – le prime case a subire le conseguenze del sisma sono state quelle innanzi citate, per le quali si è resa necessaria la demolizione, ad eccezione dei palazzi Mattina e Spinelli. Tutte le altre case di corso Mazzini, eccezion fatta di pochissime abitazioni di recentissima costruzione, hanno riportato lesioni più o meno gravi. Danni altrettanto rilevanti hanno riportato anche le case comprese fra via XX Settembre ed i rioni Temparella e Carrarusso, tutte disposte nella zona orientale del paese. Purtroppo questo settore – praticamente metà del paese – è risultato gravemente danneggiato quasi per intero, e conseguentemente sono state effettuate parecchie demolizioni, che hanno trasformato l’aspetto di quei rioni. Non hanno, invece, riportato danni le abitazioni ad occidente del meridiano di via F. Greco, dove pure esistono vecchie costruzioni, come quelle dei De Vita, dei Pagano, dei Mangieri, dei Giuliano ed altre ancora. Si è ripetuta, perciò, la situazione del 1857, il che induce a ritenere che la zona occidentale è scarsamente sensibile ai movimenti tellurici mentre quella orientale, parzialmente franosa, è palesemente sismica e, come tale, è la meno idonea ad un incremento edilizio. Il terremoto non è un evento prevedibile, ma è doveroso preventivarlo nelle zone a medio ed alto rischio sismico e 236


regolarsi di conseguenza. Evitiamo, quindi, che l’incultura si unisca al terremoto aggravandolo. In conclusione, è necessario trarre da questa dura prova una lezione di speranza, che è dono divino ma compito umano, da affidare a persone intelligenti e culturalmente preparate. ............ Sarà difficile fermarsi Al morire di ogni speranza Quando ogni pianto diverrà silenzio. Nei nostri sogni notturni Continueremo a sollevare pietre. ............ -urleremo ed imprecheremo con l’assordante crollo dei muri fresco ancora nella memoria. I nostri amati, prede di pietre mute singhiozzano e piangono con noi. Aeromwy Thomas Ellis (Terremoto – Irpinia, novembre ’80)

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S. RUFO OGGI Nell’immediato dopoguerra all’intensa attività svolta dalle varie amministrazioni comunali nel campo dei lavori pubblici e della edilizia, che, come abbiamo accennato, ha letteralmente trasformato il paese, si è affiancata analoga iniziativa da parte dei singoli cittadini per una migliore e più appropriata sistemazione interna delle abitazioni, molte delle quali risultarono prive sinanche dei servizi igienici indispensabili. Le facciate rustiche delle case, in gran maggioranza, sono state intonacate e tinteggiate, nell’interno sono apparsi sempre più numerosi i bagni, completi di ogni attrezzatura, le piastrelle hanno ricoperto i pavimenti rustici e dissestati, nelle cucine le tradizionali “fornacelle” sono state soppiantate dalle cucine a gas, l’acqua corrente ha consentito di accantonare definitivamente barili, “lancelle” e “muscetore”, in più abitazioni sono stati installati i termosifoni e sono sorte altre costruzioni di rilievo. I negozi, tutti bene attrezzati ed ordinati, sono forniti di tutto ciò che può occorrere ai singoli ed alle famiglie ed i quattro caffè consentono ai giovani ed ai meno giovani di riunirsi per le solite consumazioni, avvicendandosi presso i bigliardini ed ai juke-box, o per l’immancabile partita a carte. Il mercato, di recente istituzione, che si effettua la prima domenica del mese, vede un crescente afflusso di commercianti ed acquirenti. Nelle contrade rurali, alle abitazioni sorte un po’ dappertutto, si è ora affiancata, in località Camerino, il Complesso Sportivo, un’opera imponente finanziata principalmente dalla Cassa per il Mezzogiorno, che, a giudizio dei tecnici del C.O.N.I., è oggi il primo in Europa. In quei pressi dovrà sorgere un albergo col quale, finalmente, si formerà una secolare lacuna. E’ prevedibile che nella zona compresa fra Camerino Rielle e Fontana del Vaglio continuerà a svilupparsi sempre più intensamente l’attività edilizia con costruzioni di ville e caseggiati fra il verde dei prati e dei secolari querceti. L’ampia rete stradale ha consentito collegamenti multipli con la campagna, con gran parte dei paesi del Vallo, con i capoluoghi della provincia e della regione e con i paesi dove è richiesta mano d’opera locale. Autonomi servizi automobilistici vengono giornalmente effettuati per gli studenti e gli scolari del capoluogo e dei centri 238


rurali. Sempre per gli studenti e gli studiosi è stata realizzata una discreta biblioteca. Interessante il flusso turistico, anche se limitato a brevi periodi dell’anno. Difatti molti nostri emigrati, compresi quelli residenti negli Stati Uniti d’America, ed i professionisti operanti in varie città d’Italia, in occasione delle feste natalizie e pasquali, ma soprattutto nella buona stagione, ritornano temporaneamente in paese per riabbracciare familiari e parenti, per godere l’aria natia «l’aria gentile» del poeta Nicola Marmo – per gustare i prodotti genuini locali, per immergersi nel verde dei boschi e dei querceti, per rievocare nostalgicamente, con la purezza di primavere lontane, le illusioni e le fantasticherie della giovinezza e per onorare con struggente rimpianto i loro morti. In estate il numeroso stuolo di “turisti”, come amorevolmente e scherzosamente vengono chiamati i nostri emigranti, dà la sensazione che il paese si sia ingrandito a dismisura e sia impazzito a causa della convulsa circolazione di numerosi automezzi. A sera, in particolare il sabato e la domenica, molti, in lieta compagnia, affollano la “Masseria”, i “Due Leoni” e il “Paradise”, le tre trattorie sorte nei pressi del Centro Sportivo e a valle del Parco Marino frequentatissime anche da numerosi avventori di altri paesi del Vallo. Talvolta i più giovani si spingono sino all’Acquafredda, all’Acqua dell’Orefice od alla Mola per dissetarsi alle fresche e pure acque delle nostre sorgenti, né mancano coloro che vanno a guazzare nella Marza nel vano tentativo di pescare qualche pesce miracolato. Terminate le vacanze i “turisti” rientrano nelle località di provenienza, rinfrancati nel fisico e nello spirito, col vivo ricordo del paese natale, ripromettendosi di ritornare l’anno dopo. In effetti il paese, ordinato e pulito, ha consentito loro un periodo di salutare riposo, di svago, di spensieratezza e di felici incontri con parenti ed amici. E’ stata anche l’occasione per rifornirsi di generi e prodotti locali. Partiti i turisti, la vita riprende a trascorrere, sia pure con uniforme monotonia, in tranquilla operosità, con raccolti nel complesso soddisfacenti, in attesa dell’inverno da trascorrere accanto al caminetto nelle giornate di neve e di freddo intenso.

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L’artistico crocifisso della nostra chiesa.

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CONCLUSIONE Le ultime note riguardanti la storia passata e recente di San Rufo sono state redatte verso la fine del 1981, quando l’attuale amministrazione comunale era appena agli inizi della sua attività. Perché si possa avere un quadro sufficientemente aggiornato di quanto è stato fatto in questi ultimi dieci anni, mi corre l’obbligo di elencare, sia pure in rapida sintesi, le realizzazioni raggiunte col notevole e costante contributo dello Stato, nel campo dei lavori pubblici e quello sociale. Ragioni morali e spirituali mi inducono ad accennare innanzitutto alla elaborata sistemazione del cimitero che oggi si presenta in modo impeccabile, degno di un luogo sacro, caro al cuore di tutti i cittadini. Pavimentazione razionale, costruzione di numerosi loculi, sistemazione di vasi e piante ornamentali, illuminazione e pitturazione degli interni e degli esterni costituiscono la manifestazione concreta del grado di civiltà raggiunto dal paese, perché il culto dei morti è la prima virtù di un popolo. La costruzione di un edificio di due piani sull’area del vecchio municipio ha consentito un’adeguata sistemazione della biblioteca comunale, dei vigili urbani, della locale sezione combattenti e della guardia medica. Due orologi posti sul lato sud-occidentale dell’edificio stesso scandiscono le ore ogni trenta minuti. La costruzione di marciapiedi all’ingresso ed a monte del paese, completata dall’installazione di piante ornamentali e di una adeguata illuminazione, la costruzione di un piazzale con relativo giardino fronteggiante il municipio, la sistemazione a gradini fioriti della collinetta a valle del municipio hanno reso più leggiadro ed accogliente l’aspetto di San Rufo. Anche nella frazione di Fontana del Vaglio sono stati creati marciapiedi e completata l’illuminazione stradale di quella frazione e di tutte le altre contrade del paese. Per quanto attiene gli altri numerosi lavori pubblici eseguiti, od in corso di esecuzione, mi limito ad elencarli. Essi sono: Completamento viabilità Triglio – Calvanello; Strada accesso mattatoio; Rifacimento strada Colaprece; Costruzione strada S. Antonio – Cortiglione; Impianto depurazione; 241


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Lavatoio Casanova; Sistemazione gabinetti pubblici; Costruzione campo sportivo; Urbanizzazione zona costituende abitazioni terremotati; Riparazione case danneggiate dal terremoto.

per

Nel campo sociale è stato assicurato per un lungo periodo il pasto quotidiano ai meno abbienti ed agli scolari delle scuole materne ed elementari. E’ stata assicurata l’assistenza alle persone anziane di più modeste condizioni economiche, così come è stato assicurato il trasporto gratuito agli studenti ed alle persone anziane sugli automezzi pubblici. L’avvenuta apertura del cinema consente uno svago settimanale alla popolazione con la programmazione di film recenti e non antiquati. Il ferragosto sanrufese, di cui ho fatto cenno in precedenza, completa il quadro delle manifestazioni che si svolgono in paese con ampia partecipazione di pubblico. In conclusione, il passato remoto e recente di S. Rufo è solo un pallido ricordo del tutto sconosciuto alle nuove generazioni. Oggi il paese, pur nella sua modesta consistenza, è quanto mai lindo, accogliente ed ospitale e nel quale spesso ritornano coloro che per ragioni di lavoro sono stati costretti al allontanarsi. Quelli che sono in condizioni di farlo ritornino a S. Rufo per ritemprarsi e godere «dell’aria gentile» e del calore umano che promana dalla popolazione sempre generosa e cordiale. Lo facciano nel ricordo degli affetti lasciati e soprattutto nel ricordo dei loro morti. San Rufo, giugno 1991

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ALLEGATI

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Allegato 1 Dalla «descrizione della valle di Diana e sue castelle ivi poste» di Paolo Eterni (stralcio).

SAN RUFO

Seguitando più avanti mezzo miglio vicino alla foce dell’antidetta acqua Martia si dimostra San Rufo castello ameno, civile ed honorato di Antonio Pellegrini, edificato a divozione di esso Santo, convertito da Santo Apollinare, e poi creato terzo vescovo di Capoa, nella cui Metropoli vi si riposa il suo corpo, come dice il nominato Santoario Capoano, aggrandito poi di Popolo da Dianesi, e donato da Tommaso Sanseverino terzo conte di Marsico, e padrone già della Valle nel 1293, a Giovanni Milete figlio di Gubello Pellegrini, e di Diano in ricompensa de servigij fattili nella Guerra di Sicilia appresso dal Duca di Durazzo, come dice il Mazzella, del quale Castello sono usciti huomini di lettere ed armi a Religiosi di Santa Vita, come fu in particol(ar)e il devoto Padre Bartolomeo di Minimi di San Francesco di Paola, nato di onesti Parenti, che andò in Cielo alli 5 di Gennaio 1638, nel convento della sua Religione a Castell’a Mare di Stabia, osservante della sua regola. E’ fuora di essa Patria un convento di Frati di San Girolamo di Fiesoli edificato nel 1617 a richiesta dello scrittore, e di più è Casal Vetro disfatto, dove non si vede altro che la Chiesa di san Giovanni unita alla Commenda della Padula, edificato e donato a Cavalieri Templari per la guardia del Santo Sepolcro, e per la Carità che usavano in albergare peregrini, come dice Platina, e Cosentino loda mirabilmente costoro della vita, e fede, che essi in quei luoghi mostracano, il cui popolo per essere poi appresso dalli successori di quelli, passò ad habbitare in detto Castello, nel principio è il dominio di detto Pellegrini nel quale sono famiglie antiche ed onorate, lodato dal seguente Sonetto: Su la falda di un Monte, che la Valle Detta del Torno altieremente cince, Onde il Marzio licor, ch’l giaccio (sic) vince, Sgorga nel pian per ruinoso calle. 245


Circondato d’intorno, e per le spalle D’aspera pendice , ch’l brumal sospince, Quando celso pogiand’Aquilon strince Amendue l’ali, e ne l’Empireo salle, Giac’ameno Castel gioioso e vagho San Rufo detto, e a meraviglia adorno Poicchè l’han due German di lume paghe Dic’Apollo e Diana,che d’intorno Quinci, e quindi li stanno, e quel presago Rende col sguardo luminoso il giorno.

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Allegato 2 Vittorio Bracco: Inscriptiones Italiae, vol. III, Regio III Fascicolo I. Civitates vallium Sibari et Tanagri. (traduzione ) 266-267. Nel tenimento di San Rufo, verso Teggiano, in contrada Campanella fu rinvenuta nel 1924 «una cassa risultante di grossi lastroni di travertino, provenienti dalla demolizione di un monumento sepolcrale più antico» (cosi’ Matteo Della Corte, che fu il primo illustratore della scoperta). In mezzo a questi materiali tornarono alla luce due blocchi d’architrave, uno dei quali, fratto, recava in alto un allineamento di metope e triglifi e in basso due iscrizioni affiancate. Sulle metope i soggetti scolpiti erano i seguenti: una faretra inclinata, uno scudo ovale posto su due lance incrociate, un elmo corinzio, due schinieri inclinati come la faretra, una corazza disposta frontalmente, un trofeo innalzato sopra un ceppo, due aste incrociate. Quando alla due iscrizioni, una concerneva la madre, l’altra il figlio. Intorno al 1952 fu assicurato allo scrivente che i materiali erano ormai dispersi. 266. Iscrizione a sinistra : Erennia Tertia, figlia di Lucio (segue una frase di compianto non più ricostruibile). Visse anni (anche il numero è nelle prime cifre perduto). 267. Iscrizione a destra : Gaio Luxsilio Macer, figlio di Gaio, ascritto alla tribù Pomptina (le tribù avevano lo scopo di distribuire la popolazione romana in un certo numero di distretti, utili al momento del censimento, che veniva rinnovato ogni cinque anni; il Vallo di Diano era stato attribuito tutto alla tribù Pomptina; le tribù erano, nel complesso trentacinque). Nell’uso delle armi che tu vedi qui scolpite io fui imbattuto. Che così ia stato, può confermare a te (o viandante) il Campus Urbis (ossia il Campo Marzio in Roma, dove si addestrava la gioventù). _________

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L’epigrafe numero 267 è interessante per tre ragioni: 1) essa è la sola testimonianza nota, al di qua di POMPEI, dell’esistenza della IUVENTUS, un’istituzione voluta da Augusto per inquadrare i giovani ed esercitarli in vista delle successive prestazioni d’armi. Per intenderci, l’istituzione presenta innegabili affinità con la GIL del Fascismo. 2) Questa è la sola voce antica levatasi dal tenimento di San Rufo, muto per il resto, come è noto, in assoluto, il territorio di Sant’Arsenio. San Pietro invece ha dato alcune epigrafi, una delle quali è ancora davanti alla chiesa parrocchiale. 3) Risulta dall’elogio in prima persona, che il giovane fa di sé stesso, che in qualche modo nel Campo Marzio, a Roma, doveva essere rimasto il ricordo del suo valore: forse con iscrizione o statua innalzata il suo onore. Data quindi la singolarità di questa memoria epigrafica, penso che la sua citazione non possa essere tralasciata in una buona storia di San Rufo, come è quella che ho appena visto. __________________

Il monumento funerario a cui i materiali appartennero deve essere datato nel primo secolo d.C., in età molto vicina ad Augusto o finanche al tempo di questo. La sua presenza in queste campagne, e quindi la presenza stessa del giovane Luxsilio (morì a soli diciannove anni!) e di sua madre fra queste terre, può essere agevolmente spiegata pensando a qualche proprietà in cui essi avevano l’abituale dimora o almeno un appoggio stagionale. Non dubiterei della loro appartenenza al comune di Tegianum (l’odierna Teggiano), in cui la gente Luxsilia è nota anche da altre testimonianze. Conviene infatti non dimenticare che tutta la sponda sinistra del Tanagro appartenne a questa città, della quale rappresentò il Territorio, mentre la sponda opposta fu spartita fra Atena e Cosilinum (l’odierna Padula ).

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Allegato 3 MONETE – PESI – MISURE Nel corso della rapida disamina del passato, più di una volta è stato accennato ad alcune monete, come il ducato ad esempio, che ormai da oltre un secolo sono cadute in prescrizione senza precisare il rapporto esistente con il valore attuale e perciò ne diamo un breve cenno limitando al periodo borbonico ed in particolare a quello successivo alla restaurazione . 2° Periodo borbonico MONETE : - ducato d’argento (4,25 al 1861) L.22,58 (al 1938) L.1541,47 al (1960) - tari 1/5 di ducato - carlino 1/10 di ducato - grano (rame) 1/100 di ducato - cavallo (rame) 1/10 di grano Nel periodo precedente notiamo le seguenti monete : -

ducato d’argento di Carlo II (1665-1700). piastra d’argento di Carlo III. piastra d’argento della Repubblica Partenopea del 1799 corrispondente a 12 carlini e 120 grana; grano (rame) di Ferdinando di Borbone corrispondente a 2 tornesi; tornese (rame) ½ grano; 5 lire d’argento di Giocchino Murat (primo esempio di monetazione decimale).

PESI - tomolo - soma (sarma) - rotolo - pesa - cantaro

= hl 0.55 = L.58.160 = gr.890.199 = Kg.17,81 = Kg. 89.

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MISURE - canna - palmo

= m. 4.24 x 106 ovvero m. 1.26. = cm. 26 ½ .

Per vecchia consuetudine si continua talune misure, come la canna, sono tutt’ora in uso. Valga per tutte l’esempio della legna che ancora oggi viene misurata a canna . Così pure per i pesi comunemente si continua da usare il tomolo, il rotolo e la pesa. Il primo soprattutto per i cereali e gli altri due per l’olio. Sussiste però una leggera differenza rispetto ai dati sopra citati. ___________________

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Allegato 4 ESTRATTO DI DECISIONE La Gran Corte Criminale della Provincia di Principato Ulteriore deliberando nella Camera del Consiglio nella causa a carico di D. Francesco Spinelli del fu Pasquale del comune del San Rufo in principato Citeriore imputato di lesa Maestà, ch’ebbe luogo in aprile 1821. Con decisione del di’ 3 Dicembre ultimo 1825, alla maggioranza di tre voti sopra due, ha ordinato, che il suddetto Spinelli sia messo in libertà, restando in carcere per l’altro reato consimile che ebbe luogo nei primi di luglio milleottocento-venti 1820. Per estratto conforme rilasciato in Avellino oggi sette Gennaio milleottocentoventisei Il Cancelliere della Gran Corte Nicola Zambrotti

Visto Procuratore Generale del Re Galelli N.185 Registrato in Avellino li sette Gennaio 1826 Libro 3° volume 59 Folio 74 – Casella 3a Ricevuto g. venti ……20 Rossi

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Allegato 5 ESTRATTO DI DECISIONE La Gran Corte Criminale della Provincia di Principato Ulteriore deliberando nella Camera del Consiglio nella causa a carico di Francesco Spinelli fu Pasquale di San Rufo in Principato Citeriore, accusato di cospirazione, ed attentati per distruggere e cambiare il Governo, eccitando i sudditi, e gli abitanti ad armarsi contro l’Autorità Reale, con organizzazione di bande, e saccheggi delle pubbliche casse; con decisione del diciassette del corrente mese di dicembre ed anno milleottocentoventicinque, a voti uniformi ha dichiarato non esservi luogo a sottoposizione nell’accusa contro il suddetto Francesco Spinelli; ed alla maggioranza di quattro voti sopra uno, ha ordinato che il medesimo fosse messo in libertà. Visto dal Proc.G.le del Re Gallelli Per estratto conforme rilasciato in Avellino oggi li venti dicembre milleottocentoventicinque Il Cancelliere della Gran Corte Nicola Zambrotti

N.11041 Reg. in Avellino a venti Xmbre 1825 Reg.3- Vol.59 f.32 V.C. 3° Ricevuto grana venti 20. Ad. Rossi

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Allegato 6 ARCHIVIO DI STATO DI TORINO N. 1375/X. 1 bis Risposta al f. del 28.3.1979

10100 Torino, 6 Aprile 1979

AL GENERALE EMILIO SOMMA Corso Garibaldi n. 23 SALERNO OGGETTO: Richiesta elenco abitanti del Comune di San Rufo che parteciparono, volontari, alla battaglia del Volturno. Si ha il piacere di comunicarLe che nel fondo «Esercito Meridionale» nella busta 220: «19a Divisione (Avezzano), Brigata Fabrizi (Truppe Insurrezionali del Salernitano), Stato nominativo Ufficiali, Sottoufficiali, soldati», è stato rinvenuto un elenco di Volontari tra i quali sono annotati i nomi di quelli del Comune di S.Rufo che Le elenchiamo: PECORA Francesco, Foriere; GIULIANO Raffaele, Sergente; - e i soldati: - COCCOLI Pietro, DI FEO Pietro, DI FEO Antonio, SENO Giuseppe , SAPATURO Arcangelo, TERRAZZANO Francesco, GIULIANO Luigi, PEZZUTI Antonio, LETTIERI Antonio, LISI Leonardo, DI FEO Raffaele , GIAMMARONE Antonio, PEZZUTO Tommaso, FERDINANDI Giuseppe, FONTANO Antonio e ARATRO Vincenzo -. L’elenco è privo di ulteriori riferimenti anagrafici. Con molta considerazione IL DIRETTORE REGGENTE f.to ______________

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Allegato 7 Agli elettori politici del Collegio elettorale di Teggiano Lettera – Programma per Filomeno Pellegrini

SIGNORI ELETTORI Sensibile oltre ogni dire alle novelle indubbie prove di benevolenza, di stima, e di fiducia, delle quali vi è piaciuto testé meritarmi ancora, correndo spontanei al mio povero nome per la scelta del vostro Deputato al Parlamento Nazionale, non posso ammeno, - senza sentirmi di Voi – dal farvi pubblica testimonianza dei miei sentimenti di gratitudine e di imperitura riconoscenza, tributandovi a ricambio le mie vivissime azioni di grazie, con la più sincera e affettuosa espansione del cuore. Veramente, la inattesa pluralità di Candidati, dissipando la compattezza dei vostri suffragi alla prima prova delle urne, valse a ballottare con altri il mio nome. Nullameno sono oggi lieto di aver raccolto, con la più sentita soddisfazione dell’anima, il suffragio universale del Collegio - E tanto più, in quanto che, non spasimando affatto di essere Deputato, non io mi presentai a Voi con i soliti confetti delle promesse di circostanza: ma Voi , o dirò meglio buona parte di Voi , corse spontanea al mio nome, prima che io lo sapessi e riluttassi. Tollerate pertanto, miei cari Elettori, che io sappia grado ancora una volta di tutto cuore alle vostre gentili simpatie per me. Creato frattanto in Voi il dualismo dal primo Comizio, gli Amici più vicini mi fecero ressa, perché, ad assecondare un desiderio surto in parecchi di Voi, mi vi delineassi nettamente in poche e schiette parole di programma. Tutta volta scrupolosamente apatizzato a quanto mi veniva intorno, per un sentimento di soverchia mia delicatezza; ed altronde non ignoto alla più parte di Voi, stimai inopportuno tutto ciò che avesse potuto anche lontanamente destare il sospetto di ingraziarmi per la scelta prima che si esplicasse limpido e puro da insinuazioni il vostro voto; e respinsi il consiglio degli amici, per aspettarmi indifferente alla seconda prova delle urne. 254


Avuta però contentezza del resultato definitivo dei Comizi Elettorali, mi affretto senza più a presentarvi ora il PROGRAMMA dei miei propositi, lasciandomi poi a raunare ogni sforzo della mia debole attitudine, per rispondere il più adeguatamente possibile al nobile, quanto oneroso mandato, di che vi piacque farmi degno. I Adusato alla positiva eloquenza dei fatti meglio che alla vaetta appariscenza delle parole, io non vi prometterò mari di monti e monti di mare, come suol dirsi, miei cari Elettori, di bisogni non vi ha chi non vegga fin troppi nel nostro bel Paese Ma la brevità del tempo, per lo quale mi è toccato dovervi rappresentare, è tale un saliente ostacolo ad ogni fervido slancio di operosità, da rintuzzare, non dirò già lo sconfinato buonvolere di me soltanto che andrò novizio e debole alla palestra parlamentare, ma pure di ogni altro provetta, qualunque la forza della sua mente e della sua parola. Nonpertanto, non me ne starò affatto neghittoso nelle sessioni alle quali mi sarà dato aver parte. E comunque persuaso che, indirizzate oramai le discussioni ciascuna sulla propria china, ogni sforzo a stornarle non riuscirebbe guari più fortunato che la punta di un badile ad arrestar la valanga; pure non mi passerò di cimentare la mia pochezza in quei declivii, ogni volta ne sentirò la necessità e il debito pel bene del Paese. II. Nella somma dei vantaggi che sospiro al Collegio, o meglio, a tutto il nostro Circondario, in rapporto al bene generale della Nazione, il quale non rampolla in risolutiva che dal complesso dei beni e dei vantaggi locali, non vi dirò a quali affiso fin da ora con più predilezione, non sentendomi affatto preso dalla comune vaghezza di illudere con dettaglio di promesse, che poi la brevità del tempo, o il malaugurato concorso di fatali circostanze, potria non lasciar tradurre sul terreno dei fatti. Io non son mica una di quelle solite sommità, che, scelte assai da lontano a rappresentare un Collegio al Parlamento, riescono poi d’ordinario affatto estranee agli interessi locali. Sono e Voi mi conoscete abbastanza, un uomo pratico e volenteroso del paese. Conosco quindi come Voi i nostri bisogni e le nostre aspirazioni, ed amo del vostro cuore ogni nostro bene, ogni nostro vantaggio. Come Voi vedete, veggo anche io la Ferrovia, a congiungimento di strade Nazionali e Provinciali; a lavori di bonificazione e via 255


dicendo. Sarà ogni bene che io possa adunque, la obiettività dei miei pensieri, la mèta precipua delle mie preoccupazioni, se mi verrà consentito dal tempo. Successore del mai abbastanza rimpianto mio ottimo amico, Cavalier Manzella, mi veggo privo della vastità delle sue cognizioni, degli immensi suoi rapporti, e della efficace sue influenza, per eredare da lui con successo il retaggio dei suoi impegni. Ma pure animato da indefinito buonvolere, confortato dalla rettitudine dei miei propositi, sorretto dalla giustizia delle nostre aspirazioni, siate pur sicurissimi non mi passerò mezzo ed operosità costante per riescire al bene. III. Quanto a bisogni generali e più sentiti della Nazione, io veggo, col cuore addirittura straziato, a quello stesso che tutti veggono e deplorano ugualmente! Non illudiamoci, miei cari Concittadini, per cullarci davvantaggio nella poesia e nel romanzo della immaginazione. Ripeto, vi ha bisogni anco troppi nel nostro bel Paese; epperò necessità irrecusabile di positive emendazioni nello indirizzo Governativo di quattordici lunghi anni! La squallida realtà ha oramai sfumato l’idillio dello entusiasmo. Un abisso finanziario a colmarsi, e sull’orlo del quale il Governo ha inesorabilmente spinto la Nazione, senza controllo di una Camera fin qui per lo meno deferente - Una radicale riforma nello erroneo, essiccante e non riparativo sistema delle Tasse, fra le quali pesano più che tutti, come incubo in sullo stomaco, la impopolare del macinato, e la immoralissima della successsione, entrambo meritatamente avversate quanto vessatorie, che nondimeno funzionano allo appoggio della forza; e se bene o male; se con lo sperato successo o senza; se con soddisfazione o raccapriccio dei contribuenti; non è uopo ve’l dica io; perciocchè Voi , come me, non separa dal Popolo lamentoso e scontento l’alta barriera del Gabinetto – Un ardito e spassionato slancio di economia in tante e tanto inutili spese dello Stato – Un migliore indirizzo nello importantissimo ramo della Sicurezza Pubblica, vero antidoto frainteso dei reati e del disordine – Una più liberale e bene ordinata autonomia amministrativa nei Comuni , e nelle Provincie – Una più giusta ed economica perequazione nella circostrizione territoriale delle Provincie stesse in tutto lo Stato – E via , e via. Sono tutti vantaggi codesti di tale saliente importanza, e di tanta fulgida appariscenza da interessare - senza troppo addentrarvisi - non pure la seria considerazione del 256


pubblicista, e dello economista pubblico soltanto, che dell’uomo pratico altresì, il quale dotato di certa dose di senso comune, guardi con amore al bene del Paese. Ma che cosa farò io in tanto bisogno della Nazione? Miei cari Elettori, ve lo ripeterò ancora; è breve anco troppo il tempo per lo quale voleste scegliermi a vostro Rappresentante al Parlamento – E poi, non dissimulo la pochezza dello ingegno mio. Senza iattanza adunque, e senza illusioni, credo promettervi tutto, quando vi dirò, come dissi innanzi, che non lascerò di cimentare le mie scarse forze, e la mia debole parola, ogni volta mi sarà dato poterle spendere per qualunque bene del Paese. Veramente i sacrifizii alla Unità Nazionale, non da molto compiuta, ed in ispecie i finanziarii, sono sventuratamente ancora una dura necessità per gli Italiani, a fronte allo sperpero fatto fin qui della pubblica Finanza. Non si può dunque essere corrivi per ora allo alleviamento delle Tasse. L’Italia non ha oggi mestieri di porre i suoi figli a tributo di sangue; ha bisogno di grandi mezzi per tenersi presta e potente al rango delle grandi Nazioni in cui siede. Il gran miracolo del ristoro economico adunque sta in questo, che al lato al sacrifizio bisogna porre con cuore - per non frustarle- la retta amministrazione, e la efficace e bene intesa economia. IV. Nelle discussioni d’ interesse generale della Nazione, senza orpelli o reticenze, ma con quella leale franchezza, che non si dissociò mai da tutti i movimenti della mia vita, ed alla quale mi fanno diritto l’affermata mia fede politica, e la mia indipendenza, vi dirò che, non mi sento di essere reverente ad alcun partito, né abbagliato da verun colore o gradazione. Fiero dei principii prettamente liberali ai quali sono informato, e della rettitudine dei miei propositi, mi terrò saldamente nel culto santissimo del vero, del bene, del giusto, e dell’onesto soltanto. Altronde, nell’epoca di luce nella quale viviamo, e a fronte al bisogno, pur troppo sentito, di serietà, di positivismo, e più che tutto di amor Patrio e di cuore pel bene della Nazione, a me pare - o che io m’inganni – che voler tenere ancora riguardo a tutta quella frenetica gradazione di colori, malauguratamente creata dal fanatismo politico, con tanto scapito del nostro bene, e della nostra dignità nazionale, sia uno svestire addirittura la Società della maestosa clamide umanitaria, per coprirla del ridicolo abito variopinto dell’arlecchino. 257


Eminentemente affezionato al bene d’Italia nostra, sospiro amoroso di quante generazioni ne irrorarono la terra col sangue dei loro Eroi in fino a noi, veggo con sentito rammarico nella Rappresentanza Legislativa della Unità Nazionale, la incoseguente Disunità del partito. Qualunque il colore politico, cui il Deputato senta di appartenere, non dovria sventolare nell’Aula santissima del Parlamento che una bandiera soltanto: quella cioè del proprio debito scrupolosamente adempiuto. Il goffo davvero acciuffarsi ed il bene da quel lato che più detta il colore, è calpestare però ai piedi il bene generale del Paese. Se unica è per tutti l’alta missione di Deputato – Se unica deve essere la obbiettiva del loro amore operoso, cioè ogni bene della Nazione - Come può mai cotanto momentosissimo compito venire impunemente sacrificato alle velleità dei partiti, che vogliono accecarsi a veder vero il falso, o falso il vero, sol perché vien fuora da questa o quella gradazione di colore? Forse che la luce della verità è pur essa per avventura scindibile in colori come quella del sole? Oh non mai! miei cari. Il funesto prisma delle passioni esagerate, o del fanatismo soltanto, può ridurla allo spettro. Onde io mi terrò sempre lunge da quel prisma, cane peius et angui, per affisarla e propugnarla quando vien fuora dallo attrito della discussione, qualunque il punto dal quale ne scattò la scintilla. Ma, qual posto, mi direte, avrò io nella Camera Parlamentare, una volta che il sistema l’ha malauguratamente ridotta dalla unità ai capannelli? Ecco; appagherò subito, e senza ambagi, codesto vostro desiderio. Poco tenero di un Governo, che, senza mai rinsavire fin qui, ci ha invece succedevolmente regalato, della insicurezza; del disavanzo, del deprezzamento dei Fondi Pubblici, della emigrazione e della miseria; io mi assiderò alla Sinistra, ma alla Sinistra moderata però eclettica , ed amante di un progresso bene inteso; perciocchè non mi senta affatto passionato della sistematica , preconcetta opposizione da partito – Ve lo dissi innanzi. Liberale progressista , ma onesto patriota sempre, ve lo dico con orgoglio, non sono però un rompicollo, che agogna al domani sulle sconsigliate rovine dell’oggi. Edificare migliorando sempre senza distruggere da vandali, e non già distruggere ed atterrare smaniosamente tutto, e ad ogni poco per far meglio, è il santissimo compito di chi guida le Nazioni al perfezionamento ed 258


al progresso. E’ lo sviluppo storico-politico dei Popoli che informa le Leggi e detta le forme, non le forme e le Leggi che s’impongono immaturatamente alle Popolazioni. Muovere in controsenso, è addirittura camminare a ritroso della luce della Storia, nel maestoso incedere del Progresso sociale alla perfettibilità umana. Se ha oggi l’Italia quella Unità e quella Forma che furono lo inutile sospiro di tanti martiri ed apostoli della libertà, dal divino Ghibellino al vivente Eroe dei due Emisferi, e che sono ormai l’orgoglio e la gloria di cui maggiormente si onora l’epoca nostra; è sacro debito di ogni Italiano, nel cui petto aliti caldo e vero amor di patria, di reggerle e salvaguardarle da ogni immane sconsigliato attacco, onde non distruggere in esse il più positivo sostrato di progresso e perfezionamento successivi. Nella vita politica delle Nazioni non si operano prodigii affrettando di soverchio i passi alla civiltà, ma seguendo a vece grado lo sviluppo incessante dei Popoli alla maturità. Oggi, chi sconsigliato e imprevidente, anziché spingere il Governo, con patriottica sollecitudine ed amore, a consolidare, ripulire, e porre a bello il grandioso nostro Edificio Nazionale, per condurlo sulla costante via di succedevole progresso, a quel perfezionamento sociale, che è la mèta unica della Umanità, minasse alla Forma con la inconsulta smania di altra più lata, mostrandosi inferiore allo sviluppo politico del Popolo Italiano, affatto destituito di un buon senso; duro ad ogni sentimento di amor patrio, e per nulla poi degno dei principii che impronta , minerebbe alle fondamenta dello Edificio stesso. La storia insegni! Animato adunque dalle idee innanzi accennate e non debitamente svolte, per non trascendere dagli angusti confini di una lettera-programma sul largo terreno di una dissertazione politico- morale, e, ripeterò ancora, non affatto reverente a partito, né deferente a colore, ma caldo solo di patriottico fuoco; io non guarderò da quale lato venga il bene per adottarlo, e propugnarlo, né da quale muova lo errore per combatterlo e respingerlo. Cosicchè dalla Sinistra, io mi opporrò alla Sinistra, quando essa trascorra i giusti limiti della opposizione ragionata e leale. Dalla Sinistra, io appoggerò la Destra e il Governo, semprechè Governo e Destra non smarriranno la diritta via del bene. In somma, facendomi religioso culto del mio sacro debito di Deputato al Parlamento Nazionale avrò unica bandiera sul mio stallo, quella 259


della intemerata onestà, con sopra il motto: INDIPENDENZA PROGRESSO- AMORE AL BENE. V. Affinchè poi il mio buon volere si abbia un appoggio maggiore alla scienza dei fatti - ove la Camera non si chiuda così subito da non potermene avvantaggiare - io farò tesoro dei lumi che mi verranno da chiunque di Voi vorrà essermi gentile di proposte, dilucidazioni, memorie, e quanto altro il vostro senno, le vostre cognizioni, e il vostro patriottismo vi detteranno meglio, nello interesse particolare delle località rappresentate, e generale del Paese. Ed eccovi. miei cari Elettori del Collegio di Teggiano, a quali principii informato, e con quali propositi, mi recherò io a rappresentarvi in Parlamento. Spero non mi fosse avaro il tempo, per potermivi addimostrare col fatto conseguente alle mie intenzioni; perciocchè sappiate che la stampa periodica parli già di prossimo scioglimento della Camera . Ad ogni modo però, io nutro vivissimo desiderio di conoscere personalmente Voi e tutte le località, che ho l’alto onore di rappresentare. Prima o dopo di chiudersi questo scorcio di Sessione adunque, io mi farò debito di visitarvi nei rispettivi Capoluoghi di Mandamento. Per tal guisa, avrò il piacere di vedervi da vicino e svilupparvi maggiormente le idee, Voi la soddisfazione, la quale pure avete il diritto, di comunicarmi le vostre con la parola. Mandatario e Mandanti debbono tenersi in mutua fratellevole comunicazione. Il Deputato che voglia rimanersi sulle nuvole, sempre lontano dai suoi Elettori, fraintende la sua delicata missione, e si fa indegno della nobiltà del mandato. Ci vedremo adunque – E frattanto aggradite un cordiale saluto di amicizia. San Rufo, 11 Giugno 1874 FILOMENO PELLEGRINI _____________

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Allegato n. 8 Dalla Relazione sul giro del ripartimento forestale di Principato Ultra eseguito nel 1866 al 1868 dall’ispettore cav. G. Caballita .

«Pende da circa mezzo secolo una gran lite fra i Comuni di S. Rufo, S. Pietro al Tanagro, e S. Arsenio, da una parte, e Corleto Monforte dall’altra intorno al dritto, che i primi credono vantare sul vasto bosco Montagna posseduto da Corleto, e perché in pendenza di giudicati definitivi intendevano i primi Comuni esercitarvi l’uso civico di legnare, o almeno di permettersi ai loro abitanti di raccogliervi il solo legno secco, pagandone la così detta fida, non avendo boschi sufficienti ai loro bisogni, ed essendosi dato luogo col rifiuto di Corleto a sanguinosi conflitti con quelli popolazioni, così ad ovviare più gravi inconvenienti dopo l’uccisione di un guardiaboschi, e di due contravventori, avvenuti in Novembre 1867, si affidava al detto Ispettore con nota della Prefettura del 20 Gennaio 1868 Divi 4° N. 368, l’enunciata fida senza danneggiarsi il bosco, e definire gli interessi economici di Corleto Monforte. Vi si recò in Maggio il detto funzionario, e con dettagliato rapporto del 28 di quel mese, N.1162 espose al Prefetto le antiche animosità di quei Comuni per l’uso della controvertita foresta, le condizioni ilografiche della medesima, la possibilità di sostenere quella fida, i modi di esercitarla, e l’ammontare dei relativi compensi da concedersi a Corleto, ed essendosi pienamente ritenute le sue proposte da quei municipii, e dalla Prefettura , vennero subito attuate col massimo accordo delle rispettive popolazioni.» Il 18 febbraio 1891 il Comune di Corleto Monforte adì il tribunale Civile di Salerno perché «cittadini sanrufesi per vie di fatto e mediante falsi confini cercavano di appropriarsi di una parte di territorio che, per titoli, confinazioni antiche e possesso apparteneva a Corleto». _________________

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Allegato 9

- firma autografa del sindaco Filomeno Pellegrini - Comunicazione diretta a Nicola Marmo

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Allegato 10 A.S.C. Il sig.r Sott’Ispettore dell’Acqua, e Foreste di Principato Citra. Nicola Beniamino Marmo del Comune di San Rufo, Guardia Forestale del Cantone di Polla, Distretto di Sala, con diverse suppliche l’espone, come son cinque mesi, che non tralascia di fare il suo dovere, alla custodia dei Boschi a se affidati, senza aver potuto avere un grano delle sue mesate, seppe che li era stato fatto il mandato…….., andiede per pigliarsela, e la trovò pigliata, senza sua intelligenza, e senza sapersi da chi, altre mesate appresso a Mag.o sud.o, sente che siano state puntate, desidera sapere la causa di tale voluta mancanza, atteso il supplicante non si conosce manchevole, siccome rilevarete da due certificati fatti dal Sindaco di Diano, e S.Rufo, gli boschi delli qsti comuni, gli sono stati affidati, ed essendo cosa giusta lo sperato. S. Rufo 25 7 bre 1875 Nicola Beniamino Marmo _____________

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Allegato 11

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Allegato 12 BENI DELLA CHIESA DI S. RUFO (Dalla platea anno 1691 redatta dal notaio Nicola Garzillo di Sala Consilina) * * * In primis una terra di capacità di tomola otto nel luogo d(etto)o la Tempa la Cerqua, confinante con li beni del Monastero di S. Francesco di Diano da tre lati e la via pubblica (sic). 1 - Una terra alla Tempa di Rao di capacità di tomola otto, juxa confinante con li beni di S. Gio: Gerosolimitano da sotto, la via pubblica (sic) verso occidente, li beni del Comm.to (convento) di S. Francesco di Diano da sopra, et da conto; et lo vallone delle Fontanelle verso occidente. 2 - Una terra di capacità di tom(ol)a quindici nel luogo d (ett)o la Foresta fino li beni del Di Aniello Procacci da sopra, S. Leonardo, S. Maria Mag(gio)re di Diano, et S. Gio(vanni) Gerosolimi(ta) no da sotto, et il comm.to (convento) di S.Fran(cesc)o di Diano verso occidente. Quele Terra nell’antica Platea viene nominata la Terra di Cola Tropece (Colaprece). 3 - Una terra nel luogo d’ett)o la Fontana delli Salici di tom(ol)a Tre juxa confinante con li beni di S. Maria Casanova verso oriente, li beni della Cappella di S. Leonardo da sopra, con limite messo fra l’Annunciata di Diano e li sign(no) ri Cimini. 4 - Item Un’altra terra di tomola quindici nel luogo d(etto) la Vignola juxa confinante con li beni di Santo Spirito di Diano, li beni Elisabetta Marmoro, lo vallone di S(an)to Stefano verso li beni di S.Gio(xanni), et li beni della medesima chiesa da sotto. 5 - Item un’altra terricela nel med(esi)mo luogo d(ett)o la Vignola di tomola quattro fino s(an)to Spirito di Diano da sotto, li beni della med(esim)a Chiesa da sopra, et il vallone di s(an)to Stefano verso occidente .

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6 - Item. Un‘altra terra nel med(esi)mo luogo la Vignola di capacità di tomola quindici fino il med(esi)mo vallone di S(an)to Stefano verso (sic) oriente, li beni della med(esim)a Chiesa confino di Lattanzio Marmoro da sotto, da sopra li beni di San Giovanni Gerosolomitano et li beni di Santa Maria Mag(gior)e di Diano, quale nell’antica Platea appare in diversi pezzi, inclusavi la Terra, che lascio D. Biagio Calceglia. 7 - Item un’altra terra del sud(dett)o luogo di capacità di tomola dodici juxa (confinante con) li beni della med(esim)a Chiesa da due parti, S.Gio(vanni) Gerosolomi(ta)no da sopra, et sotto lo vallone di S(an)to Stefano, et la via pubblica (sic) che va alle terre di Rao, quale per p(rim)a si possedea da Lattanzio Marmoro. 8 - Item. Un terricello di tom(ol)a quattro nel luogo detto la Tempa giusta li beni di S. Maria Casanova da sopra, la via pubblica (sic) di d(ett)a Tempa, li beni di S. Gio.: Gerosolomi(ta)no, S.Maria di Diano da sotto, et li beni delli Savini di Diano. 9 - Item una terra nel luogo d(ett)a le Rielle alias la Roveta di capacità di tom(ol)o tre, giusta li beni di S.Gio.: Gerosolomi(ta)no verso Diano, S. Andrea di Diano da sopra, et lo vallone di S(ant)o Stefano verso oriente. 10 - Item un’alta terra nel med(esim)o luogo detto la Rielle di capacità di tom(ol)a tre, giusta li beni di S. Gio: Geroso(lomitan)o da sopra, la via pubblica (sic) li beni della SS.ma Annunciata di S.Arsiero (Arsenio) et lo vallone di S(an)to Stefano verso oriente. 11 - Item un’altra terra nel luogo d(ett)o le Camarelle (Camerino) … il vallone di S(an)to Stefano di tom(ol)a tre, juxa (confinante con) il detto vallone di S(an)to Stefano verso Diano, li beni dell’Eredi di Giuseppe Mangieri, et altri, quale in parte sta affittata al d(ett)o Carlo Capozzolo Deputato parte accettante.

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12 - Item un’altra terra nel luogo d(ett)o il varco della Calce di tomola tre juxa (confinante con) il fiume della Marza verso Diano, li beni di D. Benigno d’Ippolito da sopra, et verso occidente, quali beni nell’antica Platea appartengono di S. Barbara di Corleto, et li beni di S. Maria di Diano verso oriente. 13 - Una terra nel luogo d(ett)o la Tempa di Torno Tauro di tom(ol)a cinque juxa confinante con la via Pubblica (sic) et S. Gio: Gerosolim(ita)no da sop(r)a, li beni di S. Maria Casanova da sotto, li beni di S. Andrea di Diano verso S(an)to Rufo, et benanche nell’antica Platea vi si descrive il vallone, l’esperti dicono oggi non esserci. 14 - Una terra nel luogo d(ett)o le pertinenze di S. Damiano di tom(ol)a due juxa confinante con la via publ’ic)a (sic), et li beni delle RR.e monache di Diano, quali si posseggono dalli Sig.ri Soja, al parte d(ett)o T(er)ra si tiene in affitto dal sig(no)r Abbondanzio Dom(enic)o Sojà per uso d’Aria . 15 - Item due terricelle nel luogo d(ett)o la tempa di Casa nova, beni di Mosciano di tom(ol)a quattro, juxa (confinanti con) li beni di S.Maria Casanova da sotto, quali nell’antica Platea appaiono dell’Annunciata di Diano, juxa (confinante con) il feudo su detto Imbomba posseduto dal Mag(nifi)co Camillo del Verme da sopra et la via Publ.a (pubblica) per mezzo delle quali vi è lagoronciello, detto nell’antica Platea li terricelli del prato della Pietra della fico. 16 - Item un’altra terra nel luogo d(ett)o la Pietra Figliarola di tomola trenta, juxa (confinante con) li beni Fran(cesc)o Setaro, et la strada Publ.a da sotto, li beni della medesima Chiesa, che tengono Giusep(p)e Tierno, D. Camillo Spinelli, et Domenico Giuliano, S.Gio: Gerosolim(ita)no da sopra, et via Publ.a della Tempa verso oriente, et altri beni di d(ett)a Chiesa da sotto. 17 - Item una t(er)ra di tom(ol)a tre nel loco d(ett)o l’Alìsca di quà del ponte fabbricato, juxa (confinante con) la via Publ.a da due parti, il fiume della Marza, et S. Fran(cesc)o di Diano da sopra. 267


18 - Un’altra terra di capacità di tom(ol)a quindici di là del ponte fabbricato, juxa (confinante con) il fiume della Marza da sotto, S.Fran(cesc)o di Diano verso Borea, li beni di S(an)to Spirito di Diano, et S. Maria Casanova da sopra, li beni della med(esim)a Chiesa e il tratto, che piglia det(t)o Ponte, et va ad altro perveniente a d(ett)a Chiesa da D.Pietro Capozzolo, in virtù di suo testamento. 19 - Una terra del med(esi)mo loco sopra il sud(dett)o Ponte di tomola cinque, juxa( confinante con) li beni demaniali della Corte di Diano posseduti da Giuseppe Grieco, li beni della med(esim)a Chiesa verso S(an)to Rufo, li beni di Magnifico Andrea di Rosa, et D. Benigno di Aippolito, et della med(esi)ma Chiesa da sopra. 20 - Una t(er)ra nel loco d(ett)o il prato della Fico di tom(ol)a quindici, fino Lattanzio Marmoro verso mezzo giorno, li beni della Corte di Diano, et S. Andrea da sopra, li beni della med(esi)ma Chiesa da sotto, la quale t(er)ra nell’antico Inventario sta destra al Prato della Fico, oggidi si nomina la t(er)ra della Fontana della Macchia di Mosciano. 21 - Un’altra t(er)ra nel med(esim)o loco di Mosciano detta della Pietra Figliosa di tom(ol)a sei, juxa( confinante con) li beni di S. Andrea di Diano, li beni della Corte di Diano verso mezzo giorno, li beni della med(esim)a Chiesa et S. Andrea di Diano da sotto, li beni della med(esim)a Chiesa verso S. Rufo et li beni delli sig(nor)i et tutti da( sic) sopra loco pervenuti dall’Alesij di S.Pietro. 22 - Un’altra terra nel med(esim)o loco di Mosciano di capacità di tom(ol)a sei, giusta li beni di Geronimo Imbomba, et S. Pietro di Diano da sopra S(an)to Spirito, et S. Andrea di Diano da sotto, et li beni della med(esi)ma Chiesa verso mezzo giorno. 23 - Item altri terricelli nel med(esim)o loco di Mosciano di tomola sei, fino il sud(dett)o feudo delli Imbombi da sopra, et li beni della med(esim)a Chiesa verso mezzo giorno.

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24 - Un’altra t(er)ra ibidem d’altri tom(ol)a sei, juxa (confinante con) li beni delli signori Imbombi da due lati, li beni delli signori Soja, et li beni della med(esim)a Chiesa verso mezzo giorno. 25 - Item un’altra t(er)ra nel loco d(ett)o la Petrosa di Mosciano di tom(ol)a nove arborata di cerze, juxa (confinante) con li beni furno delli Imbombi ed verso S. Rufo, li beni di Soja da capo, li beni della med(esi)ma Chiesa verso mezzo giorno, et li beni di S(an)to Spirito di Diano, et di d(ett)i Imbombi da sotto. 26 - Item un’altra t(er)ra nel loco d(ett)o le terre di Rao, chiamata la t(er)ra del Cerro di tomola dodici, juxa (confinante con) li beni della med(esi)ma Chiesa possedutasi da Paolo et Lattanzio verso S.Rufo, la strada publ.a (pubblica) da capo, et l’altra strada publ.a, che scende dalli Pagliari delli Bassi (Pagliari Bassi) verso li beni di S. Fran(cesc)o di Diano, da sotto li altri beni della med(esim)a Chiesa posseduti da Matteo di Stabile e Marco Giuliano. 27 - Una t(er)ra alle Rielle di tomola sei, juxa (confinante con) li beni di S. Fran(cesc)o di Diano da sotto, li beni della Corte di Diano verso oriente, la strada publ.a della Tempa da capo, et S.Maria Casanova verso occidente . 28 - Una t(er)ra nel luogo la Pagliara delli Bassi di tom(ol)a dieci, giusta il Fiume della Marza da sotto, li beni delli Imbomba da capo, et verso, et verso (sic) mezzo giorno, et li beni di Gio: Sorice, renditizi alla Baronal Corte di S.Rufo. 29 - Una t(er)ra alla Mola di tom(ol)a quattro, juxa (confinante con) li beni della Baronal Corte di S.Rufo, li beni del Dr. Fisico Aniello Procacci verso oriente, vallonciello, et li beni demaniali da capo quale esso si possedea da Pietro Giuliano.Appare nell’antico tenimento di detta Chiesa al fol. (foglio) 24 a fronte la seguente partita 23 = uno terricello nel luogo d’etto la Mola di tom(ol)a due, juxa (confinante con) li beni furno di Fran(cesc)o Di Rosa, la quale appare essa donazione fatta per mano Magn(ific)o Abbondanzio 269


Marmoro, alla quale (sic) terricella fin’ora non si è potuto delineare dove proprio sia. 30 - Una t(er)ra nel luogo d(ett)o lo principio del Piano Marino di tomola quattordici, juxa (confinante con) li beni della medesima Chiesa censuati al numero 85 zona del fondo, li beni di S. Gio: Gerosolim(ita)no verso occidente, la via Publ.a che viene verso S.Rufo. 31 - Item una t(er)ra nel luogo d(ett)o la Fontana delli Salici, di tomola quindici, juxa (confinante con) li beni di S. Maria Casanova et della med(esi)ma Chiesa da sopra, li beni della Baronal Corte di d(ett)o Castello verso oriente li beni che furono del fu Gio: Vittorio Monaco, li beni del Reverendo Capitolo di S.Arserio (Arsenio), li beni del SS.mo Rosario, et li beni della SS.ma Annunciata di Diano pervenuto dal sig. Abbondanzio Donato Cimino per estin(io)ne del costo di ducati cinquanta uno in virtù d’istromento per mano di me suddetto notaio Nicolò. 32 - Item uno castagneto di tom(ol)a quattro nel luogo d(ett)o il Castagneto di dentro, juxa (confinante con) li beni della medesima Chiesa, et delli Sig.ri Abbamonte da capo, li beni di Luca Procaccio da sotto, li beni delli Sig.ri Soja verso oriente, et altri beni della med(esi)ma Chiesa, pervenuto per titolo di compra da Gio: Giacomo Greco della terra di Corleto, in virtù d’istrumento sic per mano di suddetto notaio. Item un altro castagneto nel medesimo luogo, con due pezzi di terra seminatoria arborata di cerri, et cerze di tomola cinque in circa, juxa confini censuato a Giuseppe Luongo e Dom(eni)co Perillo. 33 - Item un altro castagneto sopra la Torre di Marco di tomola quattro, juxa (confinante con) li beni di D. Benegno d’Hippolito verso oriente, li beni di Domenico Curto, et S. Gio: Gerosolimi(tan)o, quali si possedono da D. Tomase (sic) Spinelli da capo, li beni di Matteo di Stabile verso occidente, li beni della med(esi)ma Chiesa, S. Gio: Geroso(limita)no li sig.ri Cimini del quale castagneto se ne è 270


concessa la terza parte del magnifico Giuseppe Brardoino, et Angelo Perillo per carlini sette, et mezzo. 34 - Lo castagneto della Cerza di Venere stà (sic) censuato per carlini quattro, et mezzo a Giuseppe Marmoro. 35 - Item un’orticello nel luogo d(ett)o le Pietre di S.Maria di capacità di stoppello uno arborato d’olive, et noci, juxa confinante con) li beni di Giuseppe Perillo, la via Publ.a, et li beni del Dr. Aniello Procacci. 36 - Item un’orto (sic) nel luogo d(ett)o Piede Casale di stoppella due, juxa (confinante con) li beni di Andrea Perillo, et S.Fran(ces)co di Diano, li beni del Ma(gnifi)co Dom(eni)co Pellegrino da sopra, et di canto, et li beni di Domenico Curto da sotto per prima si possedea da Dom(eni)co Curto al ponte affittato al sud(dett)o Mag(nifi)co Dom(eni)co Pellegrino. 37 - Item una t(er)ra di tom(ol)a quattro alli Pagliari Bassi pervenuta da Ant(oni)o Giuliano, fino la marza, via Publica(sic) et il ….. 38 - Item uno casalino sotto la Chiesa, juxa (confinante con) li beni dell’Ospedale, la via Publ(ic)a da due fronti, li beni di D. Mariano di Stabile, quale per prima si possedeva da Pietro di Errico et ne pagava grana tre in perpetum al (in) parte devoluto. Et sopra detto casaleno vi sono ducati dieci della cappella di S. Biaggio (sic), delli quali ducati dieci ne pagava alla ragione di ducati dieci per cento. 39 - Item casaleno nel luogo d(ett)o Capo Casale, juxa (confinante con) li beni del Magnifico Domenico Soja, Ant(oni)o Giuliano da sotto, Fran(ces)co Giuliano del figlio Tomaso da canto, et via vicinale da sopra . 40 - Item un altro (sic) casaleno ibidem de Casale, juxa (confinante con) li beni di Donato Sorice, li beni di D. Angelo di Stabile et via Publ(ic)a da due parti, quale per prima si possedea di Donato di Martina. 271


Allegato n. 13 CENSI PERPETUI IN GRANO QUALI VANNO UNITI COL FEUDO DEL PIANO MARINO. 1 - Filadelfe Marmoro et Teodoro Perillo con Giuramento s’obligano (sic) et dicono essere tenuti insieme in perpetuum rendere a d(ett)a Chiesa di S. Rufo stoppella sei di grano alla picciola (alla varra) misura per una vigna nel luogo detto la Tempa di S. Maria Scoperta cioè sotto il Calvaniello juxa (confinante con) li beni del D(otto)r Fis(i)co Aniello Procacci da sopra, via Publ.a verso mezzo giorno, quale viene a S.Rufo, li beni di M(agnific)o Giuseppe Brandoino et Giuseppe Capobianco da sotto et li beni di Matteo Donadeo, et Giacomo Ant(oni)o Paladino verso il Triglio, quale prima si teneva intestata ad Urso di Cola di Stabile. 2 - Il soprad(ett)o Filadelfe con giuramento dice essere tenuto Rendere ogn’anno in perpetum a d(ett)a Chiesa stopp(ell)a cinque, et mezzo di grano alla picciola per una chiusa seminativa di capacità di stoppella dieci nel luogo d(ett)o lo pia (sic) Marino (Piano Marino), juxa (confinante con) li beni della med(esim)a Chiesa da più lati, et la via Publ.a da sotto quale poi stava intestata a Michele Petruccio. 3 - D.Angelo di Stabile perito di detta Chiesa con giuram(en)to dice, et si obliga (sic) essere tenuto ogn’anno in perpetum tomola quattro, et mezzo di grana alla picciola misura per una chiusura arborea di cerze, et t(er)ra seminatoria nel luogo d(ett)o lo Piano Marino, juxa (confinante con) li beni della med(esim)a Chiesa, che si possedono da Marco Tierno, li beni di Dom(eni)co Sansone da sopra, la strada Publ.a che va alla Fontana di Messer Nicola (Mastro Nicola), li beni di Franc-esc)o Setaro verso mezzo giorno, et la via Publ.a da sotto, quale pure steva intestata a Lattanzio Marmoro et Gio: Maria Capozzolo. 4 - Il D(otto)r Fisico Aniello Procaccio è tenuto a rendere ogni anno a detta Chiesa stopp(ell)a sei di grano alla picciola per una vigna con fitti vacantale di capacità di tomola tre nel luogo detto la Tempa di S.Maria Scoverta, juxa (confinante 272


con) li beni di S. Gio: Gerosolim(ita)no da sopra, la strada Publ.a, che scende da Cavaniello, et viene verso S. Rufo, et li beni di Filadelfe Marmoro da sotto per prima steva intestato a Lucio Procaccio. 5 - Tomaso Perillo con giuramento è tenuto annuatim a d(ett)a Chiesa stopp(ell)a cinque di grano alla picciola per una chiusa di capacità tom(ol)a uno, et mezzo nel luogo detto lo Piano Marino arborata di pera, juxa (confinante con) li beni della med(esim)a Chiesa da sopra, da sotto li beni di Giulio Capozzolo et la med(esim)a proprietà si possedea per Cola d’Ambrosio stato, et detti. 6 - Il suddetto Tomaso con giuramento dice essere tenuto a rendere annuatim altri stoppella sei di grano alla picciola per una chiusa di stop(pell)a dieci in circa nel med(esimo) luogo d(ett)o il Piano Marino, fine il sud(dett)o Tomaso, li beni di Giulio Capozzolo, et li beni della med(esim)a Chiesa da per prima si possedea per Cola Capozzolo. 7 - Item il d(ett)o Tomaso con giuramento dice essere tenuto in pertum alla med(esima) Chiesa altro tom(ol)o uno, et mezzo di grano alla picciola per una chiusura arborata di cerze e di cerri, et altri arbori di capacità di tom(ol)a tre nel luogo d(ett)o Vallone d’Alfano, juxa(confinante con) il detto vallone da sotto, via Publ.a, circa circa (sic), et li beni della medesima Chiesa verso mezzo giorno, quali furono di Domenico Pizzicaro. 8 - Angelo Perillo dice con giuramento essere tenuto rendere annuatim a d(ett)a Chiesa stoppella quattro, e mezzo di grano alla picciola per una terra seminatora con cerze, et sorbi nel luogo detto lo Piano Marino di capacità di tom(ol)a uno, et mezzo alla grossa (colmo), juxa (confinante con) li beni di Dom(enic)o Benvenga, et Gennaro di Somma da sotto, via Publ.a da più parti e li beni di Tomaso Perillo della med(esim)a Chiesa quale per prima si possedea per Gio: Cola Capozzolo. OMISSIS 42 - Il suddetto Don Diego con giuramento in pectore è tenuto rendere in per prima grana tom(ol)a due alla picciola per due chiusure nel sud(dett)o luogo il Piano Marino, juxa (confinante con) L’altre suddette chiusure, li beni di 273


Filadelfo Marmoro, li beni di Giulio Capozzolo verso oriente, et Tomaso Perillo per prima l’una si possedea da Natale Marmoro, et l’altra steva in demanio per d(ett)a Chiesa.

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Allegato 14 CENSI PERPETUI IN DANARO – (in stralcio)1 - Marco di Somma, Gennaro di Somma et Egidio di Stabile insieme- quattro carlini e mezzo per una vigna al Candetiello, confinante con li beni già del Magnifico Andrea, oggi di Marco i beni del R. D. Camillo Spinelli ecc. 2 - Tomaso Naso – quattro carlini, per un tomolo di terreno arborato di Castagne nel luogo detto Terra di Percozzo. 3 - D. Tomaso Spinelli, sacerdote – 4 carlini e mezzo per un uliveto di tre tomola nel luogo detto la Rupa Rossa, confinante con i beni del Magnifico Domenico Pellegino. 4 - Il suddetto D. Tomaso Spinelli – grana diciotto per una vigna di due tomola in località Candetiello, confinante con i beni di Angelo Capozzolo, Leonardo Marmoro, dello stesso D. Tomaso e quelli del Dottor Aniello Procacci. 5 - Luciano di Stabile –grana cinque per una vigna alla Tempa di S.Maria, confinante con i beni di Giovanni di Stabile, Biagio di Somma, ed altri beni della Chiesa. 6 - Il «Commento diruto di S.Michele Arcangelo» – sei ducati per l’officiatura delle festività. 7 - Giuseppe Tierno – due carlini per un terreno seminativo di Mezzo tomolo in contrada Calaprece, confinante con i beni di D. Camillo Spinelli ed altri già del padre Giuseppe Tierno.

OMISSIS 44 - Taddeo Mangieri quattro carlini per un oliveto di un tomolo e mezzo in località il Molino confinante con i beni di Paolo Marmoro, Giuseppe Perillo, Porzia Marmoro, ecc.

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45 - Giuseppe Perillo, Porzia Marmoro ed Eleonora di Benedetto - carlini quattro e mezzo per l’altra metà del suddetto oliveto. 45 - Paolo Vastella – otto grana per un casalino lasciato alla Chiesa da Luca Monaciello in località Capo Casale. 46 - Domenico Curto – grana sette e mezzo per un oliveto ai Temponi. 47 - Marco Giuliano – carlini diciotto per una foresta di cerri ai Pagliari Bassi di quattro tomola. 48 - Marco Sansone – cinque carlini per una vigna al Candetiello.

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Allegato n. 15

SEGUNTUR ANNUI REDDITUS CUM PACTO REDIMENDI (in stralcio) Seguono le rendite annue in conseguenza di prestiti fatti a 45 persone E garantite da ipoteca sui beni degli interessati. 1 - ................... 2 - Il R(riverendo) D. Mariano di Stabile – trenta carlini annui per un prestito di trentadue ducati ipotecati in tutti i suoi beni (istrumento del 16-10-1978). 3 - Marco la Vecchia – dieci carlini annui per un prestito di dodici ducati ipotecati su tutti i suoi beni . 4 - Giovanni Maria e Salvatore di Somma (padre e figlio) – ventitre carlini e mezzo per un prestito di venticinque ducati ipotecati sulla loro casa sita a piedi Casale (istrumento del 7 settembre 1961). 5 - Gennaro di Somma e Carlo di Stabile – nove carlini annui per un prestito di dieci ducati ipotecati sopra la casa di Stabile in località Ramata e sulla vigna presso l’ospedale, e sulla casa del di Somma a piedi Casale (istrumento del 5 ottobre 1961). OMMISSIS 32 - L’erede di Vito Inoffai della Ganza di S.Angelo Fasanella, abitante a S.Arsenio – 4 ducati annui per un prestito di quarantuno ducati ed un tari, ipotecati sulla casa ed un orto di S. Angelo (istrumento del 17 settembre 1686). 33 - Reverendo don Diego Tierno – carlini dodici annui per un prestito di ventidue ducati – con poliza scritta di sua mano. 34 - Giuseppe Perillo e Domenico Luongo – carlini diciasette e mezzo ognuno per un castagneto loro concesso. 277


35 - Filadelfe Marmoro – cinque carlini annui per un prestito di cinque ducati, ipotecati su tutti i suoi beni pervenuti dal legato di Pantaleone. 36 - Francesco Stoso (?) – diciasette carlini ed un grano annui per un prestito di diciannove ducati, ipotecati su una casa sopra la chiesa. 37 - Giuseppe Luongo – sette carlini annui per un prestito di dieci ducati, ipotecati sul bottaro in località Capo Casale. 38 - Giovan Battista di Martino – quattro ducati, un tarì e dodici grana per un prestito di ducati quarantotto ipotecati sopra la vigna a S. Sebastiano. 39 - Gli eredi di Stefano e Gregorio Marmoro – sette carlini e due grana annui per un prestito di otto ducati, ipotecati su tutti i loro beni. 40 - D. Mariano di Stabile – sei carlini annui per un prestito di sei ducati, ipotecati sulla loro casa, sotto la chiesa (istrumento del 3 febbraio 1634). 41 - Il Reverendo D. Tomaso Spinelli e fratelli, figli del fu Giovan Battista, 4 carlini per un prestito di quattro ducati. «Appare nella vecchia Platea a f. 7 a tergo l’Unità di detto Castello di S. Rufo esser tenuta rendere con patto redimendi annui d(ucat)i quattordici, et mezzo per capitale di D(ucat)i centocinquantacinque ipotecati dal legato del…..Giulio di Soja, cioè D(ucat)i cento, D(ucat)i trenta per il legato di D. Vespasiano di Rosa, et altri D(ucat)i venti per il legato di Isabella Folosa, et altri D(ucat)i cinque dal….Flavio Procaccio “.

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BIBLIOGRAFIA

AMBRASI DOMENICO: “San Rufo“ in «Biblioteca Sanctorum» Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense – Roma. «ARCHIVIO STORICO PER LA PROVINCIA DI SALERNO» - Dicembre 1929. BIANCHINI LUDOVICO: «Storia delle Finanze delle due Sicilie», Edizioni Scientifiche Italiane – Napoli 1971. BRACCO VITTORIO, «Inscriptiones Italiae», vol. III - regio III. Fasciculus I (Civitates Valiune Sibari et Tanagri) Istituto poligrafico dello Stato –1974. BRACCO VITTORIO, «La descrizione Secentesca della Valle di Diana» di Paolo Eterni – Editrice Ferraro - Napoli 1980. BRACCO VITTORIO, «Polla» Cantelmi – Salerno 1970. COLLETTA PIETRO, «Storia del reame di Napoli», Ediz. Le Monnier – Firenze 1948. CROCE BENEDETTO, «Storia del Regno di Napoli», Laterza – Bari 1966. CUTOLO ALESSANDRO, «Storie minime», Editore Fiorentino - Napoli. DE CESARE RAFFAELE, «La fine di un Regno», Paperbacks storici – 22 Newton Compton Editori –1976. EBNER PIETRO, «Economia e società nel Cilento Medievale» - Edizioni di Storia e Letteratura –Roma 1979. FALCONE CARLO, «Storia dei Papi», Compagnia Ediz. Internazionali – Milano 1967. FEDERICO AMABILE, «Teggiano», Dalle origini al secolo XIX - Cantelmi – Salerno-1968. IPPOLITO GIUSEPPE, «San Rufo e la sua storia» - Cantelmi – Salerno –1971. GARIBALDI GIUSEPPE, «Memorie» - Edizione Mursia. «LA TERRA», Parte I, Compendio di Geografia generale Istituto Geografico De Agostini –Novara 1965. MARMO NICOLA, «Roma liberata». Copia dattiloscritta dl poemetto in possesso di Amedeo Spinelli. PASTOR LUDOVICO, «Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo». Edizione Artigianelli dei figli di Maria- Trento 1891. «RASSEGNA STORICA PER LA PROVINCIA DI SALERNO» anni 1947, 1960 e 1973. «STORIA D’ITALIA», Edizione Fabbri – Milano 1965. «STORIA DELL’ITALIA CONTEMPORANEA» diretta da Renza De Felice; Edizioni Scientifiche Italiane - Napoli 1976. «STORIA DI NAPOLI», Società editrice Storia di Napoli - 1968. VOLPI GIUSEPPE, «Cronologia dei Vescovi Pestani ora detti di Capaccio». Edizione presso G. Riccio – Napoli 1752.

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INDICE Presentazione

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Premessa

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Parte prima DALLE ORIGINI ALLA FINE DEL SECOLO 15 XIX Cenni topografici San Rufo ieri Il feudalesimo ed i suoi riflessi negativi I beni demaniali, feudali e privati I beni ecclesiatici ed il clero Statuti e consuetudini Dai Borboni all'unita' d'Italia La repubblica del '99 I moti carbonari I moti garibaldini Lo stato unitario Il progresso Le attivita' artigiane e quelle alternative Professionisti e personalitĂ civili e religiose sino alla fine del xix secolo Filomeno Pellegrini Nicola Marmo Usi e costumi

17 20 29 42 48 62 67 74 78 88 92 95 110 120 127 130 139

Parte seconda SAN RUFO NEL XX SECOLO La situazione agli inizi del secolo xx Toponomastica L'istruzione elementare La prima guerra mondiale 14 giugno 1920. Festa del ringraziamento e della fede Il dopoguerra

159 161 164 168 172 181 189

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Il fascio di combattimento La campagna in Africa orientale L’acquedotto La seconda guerra mondiale Il secondo dopoguerra Il monumento ai caduti Lavori pubblici Ina-casa - edilizia scolastica – scuole Agricoltura e popolazione rurale Il terremoto del 23 novembre 1980 S. Rufo oggi Conclusione Allegati Bibliografia

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193 196 199 202 209 214 218 222 226 231 238 241 243 279


La Pro Loco Sanrufese ringrazia il sig. Pasquale Capozzoli per aver finanziato questa pubblicazione.

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